GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (68): IL MODERNISMO (2)

GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (68)

IL MODERNISMO (2)

DOCUMENTI DI S.S. PIO X CHE DENUNCIANO E CONDANNANO IL MODERNISMO

ENCICLICA “PASCENDI DOMINICI GREGIS”

“SUGLI ERRORI DEL MODERNISMO”

AI VENERABILI FRATELLI, PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI

E AGLI ALTRI ORDINARI AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE PACE E COMUNIONE

PIO PP. X SERVO DEI SERVI DI DIO.

VENERABILI FRATELLI SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

L’officio divinamente commessoCi di pascere il gregge del Signore ha, fra i primi doveri imposti da Cristo, quello di custodire con ogni vigilanza il deposito della fede trasmessa ai santi, ripudiando le prone novità di parole e le opposizioni di una scienza di falso nome. La quale provvidenza del Supremo Pastore non vi fu tempo che non fosse necessaria alla Chiesa cattolica: stanteché per opera del nemico dell’umano genere, mai non mancarono “uomini di perverso parlare (Act. X, 30), cianciatori di vanità e seduttori (Tit. I, 10), erranti e consiglieri agli altri di errore (II Tim. III, 13)”. Pur nondimeno gli è da confessare che in questi ultimi tempi, è cresciuto oltre misura il numero dei nemici della croce di Cristo; che, con arti affatto nuove e piene di astuzia, si affaticano di render vana la virtù avvivatrice della Chiesa e scrollare dai fondamenti, se venga lor fatto, lo stesso regno di Gesù Cristo. Per la qual cosa non Ci è oggimai più lecito di tacere, seppur non vogliamo aver vista di mancare al dovere Nostro gravissimo, e che Ci sia apposta a trascuratezza di esso la benignità finora usata nella speranza di più sani consigli. Ed a rompere senza più gl’indugi Ci spinge anzitutto il fatto, che i fautori dell’errore già non sono ormai da ricercarsi fra i nemici dichiarati; ma, ciò che dà somma pena e timore, si celano nel seno stesso della Chiesa, tanto più perniciosi quanto meno sono in vista. Alludiamo, o Venerabili Fratelli, a molti del laicato cattolico e, ciò ch’è più deplorevole, a non pochi dello stesso ceto sacerdotale, i quali, sotto finta di amore per la Chiesa, scevri d’ogni solido presidio di filosofico e teologico sapere, tutti anzi penetrati delle velenose dottrine dei nemici della Chiesa, si dànno, senza ritegno di sorta, per riformatori della Chiesa medesima; e, fatta audacemente schiera, si gettano su quanto vi ha di più santo nell’opera di Cristo, non risparmiando la Persona stessa del Redentore divino, che, con ardimento sacrilego, rimpiccioliscono fino alla condizione di un puro e semplice uomo. Fanno le meraviglie costoro perché Noi li annoveriamo fra i nemici della Chiesa; ma non potrà stupirsene chiunque, poste da parte le intenzioni di cui Dio solo è giudice, si faccia ad esaminare le loro dottrine e la loro maniera di parlare e di operare. Per verità non si allontana dal vero chi li ritenga fra i nemici della Chiesa i più dannosi. Imperocché, come già abbiam detto, i lor consigli di distruzione non li agitano costoro al di fuori della Chiesa, ma dentro di essa; ond’è che il pericolo si appiatta quasi nelle vene stesse e nelle viscere di lei, con rovina tanto più certa, quanto essi la conoscono più addentro. Di più, non pongono già la scure ai rami od ai germogli; ma alla radice medesima, cioè alla fede ed alle fibre di lei più profonde. Intaccata poi questa radice della immortalità, continuano a far correre il veleno per tutto l’albero in guisa, che niuna parte risparmiano della cattolica verità, niuna che non cerchino di contaminare. Inoltre, nell’adoperare le loro mille arti per nuocere, niuno li supera di accortezza e di astuzia: giacché la fanno promiscuamente da razionalisti e da Cattolici, e ciò con sì fina simulazione da trarre agevolmente in inganno ogni incauto; e poiché sono temerari quanto altri mai, non vi è conseguenza da cui rifuggano e che non ispaccino con animo franco ed imperterrito. Si aggiunga di più, e ciò è acconcissimo a confonderle menti, il menar che essi fanno una vita operosissima, un’assidua e forte applicazione ad ogni fatta di studi, e, il più sovente, la fama di una condotta austera. Finalmente, e questo spegne quasi ogni speranza di guarigione, dalle stesse loro dottrine sono formati al disprezzo di ogni autorità e di ogni freno; e, adagiatisi in una falsa coscienza, si persuadono che sia amore di verità ciò che è infatti superbia ed ostinazione. Sì, sperammo a dir vero di riuscire quando che fosse a richiamar costoro a più savi divisamenti; al qual fine li trattammo dapprima come figli con soavità, passammo poi ad un far severo, e finalmente, benché a malincuore, usammo pure i pubblici castighi. Ma voi sapete, o Venerabili Fratelli, come tutto riuscì indarno: sembrarono abbassai la fronte per un istante, ma la rialzarono subito con maggiore alterigia. E potremmo forse tuttora dissimulare se non si trattasse che sol di loro: ma trattasi invece della sicurezza del nome cattolico. Fa dunque mestieri di uscir da un silenzio, che ormai sarebbe colpa, per far conoscere alla Chiesa tutta chi siano infatti costoro che così mal si camuffano. – E poiché è artificio astutissimo dei modernisti (ché con siffatto nome son chiamati costoro a ragione comunemente) presentare le loro dottrine non già coordinate e raccolte quasi in un tutto, ma sparse invece e disgiunte l’una dall’altra, allo scopo di passare essi per dubbiosi e come incerti, mentre di fatto sono fermi e determinati; gioverà innanzi tutto raccogliere qui le dottrine stesse in un sol quadro, per passar poi a ricercar le fonti di tanto traviamento ed a prescrivere le misure per impedirne i danni. E alfin di procedere con ordine in una materia di troppo astrusa, è da notare anzi tutto che ogni modernista sostiene e quasi compendia in sé molteplici personaggi: quelli cioè di filosofo, di credente, di teologo, di storico, di critico, di apologista, di riformatore: e queste parti sono tutte bene da distinguersi una ad una, da chi voglia conoscere a dovere il lor sistema e penetrare i principî e le conseguenze delle loro dottrine. Prendendo adunque le mosse dal filosofo, tutto il fondamento della filosofia religiosa è riposto dai modernisti nella dottrina, che chiamano dell’agnosticismo. Secondo questa, la ragione umana è ristretta interamente entro il campo dei fenomeni, che è quanto dire di quel che apparisce e nel modo in che apparisce: non diritto, non facoltà naturale le concedono di passare più oltre. Per lo che non è dato a lei d’innalzarsi a Dio, né di conoscerne l’esistenza, sia pure per intromessa delle cose visibili. E da ciò si deduce che Dio, riguardo alla scienza, non può affatto esserne oggetto diretto; riguardo alla storia non deve mai riputarsi come soggetto istorico. Poste cotali premesse, ognuno scorge di leggieri quali siano le sorti della teologia naturale, dei motivi di credibilità, dell’esterna rivelazione. Tutto questo i modernisti tolgon via di mezzo, e ne fanno assegno all’intellettualismo, ridicolo sistema, come essi affermano, e tramontato già da gran tempo. Né in ciò ispira loro alcun ritegno il sapere che si enormi errori furono già formalmente condannati dalla Chiesa. Giacché infatti il Concilio Vaticano così ebbe definito: “Se qualcuno dirà, che Dio uno e vero, Creatore e Signor nostro, per mezzo delle cose create, non possa conoscersi con certezza col lume naturale dell’umana ragione, sia anatema“ (De Revel., can. I); e similmente: “Se alcuno dirà non essere possibile, o non convenire che, mediante divina rivelazione, sia l’uomo ammaestrato di Dio e del culto che Gli si deve, sia anatema” (Ibid., can. II); e finalmente: “Se alcuno dirà che la rivelazione divina non possa essere fatta credibile da esterni segni e che perciò gli uomini non debbano esser mossi alla fede se non da interna esperienza o privata ispirazione, sia anatema” (De Fide, can. III). Di qual guisa poi i modernisti dall’agnosticismo, che è puro stato d’ignoranza, passino all’ateismo scientifico e storico, che invece è stato di positiva negazione; e con qual diritto perciò di logica, dal non sapere se Iddio sia intervenuto o no nella storia dell’uman genere si trascorra a spiegar tutto nella storia medesima ponendo Dio interamente da parte come se in realtà non fosse intervenuto, lo assegni chi può. Ma tanto è; per costoro è fisso e determinato che la scienza e la storia debbano esser atee; entro l’àmbito di esse non vi è luogo se non per fenomeni, sbanditone in tutto Iddio e quanto sa di divino. Dalla quale dottrina assurdissima vedremo bentosto che cosa siasi costretti di ammettere intorno alla Persona augusta di Gesù Cristo, intorno ai misteri della Sua vita e della Sua morte, intorno alla Sua Risurrezione ed Ascensione al Cielo. Vero è che l’agnosticismo non costituisce nella dottrina dei modernisti se non la parte negativa; la positiva sta tutta nell’immanenza vitale. Dall’una all’altra ecco con qual discorso procedono. La Religione, sia essa naturale o sopra natura, alla guisa di ogni altro fatto qualsiasi, uopo è che ammetta una spiegazione. Or, tolta di mezzo la naturale teologia, chiuso il cammino alla rivelazione per il rifiuto dei motivi di credibilità, negata anzi qualsivoglia esterna rivelazione, chiaro è che siffatta spiegazione indarno si cerca fuori dell’uomo. Resta dunque che si cerchi nell’uomo stesso; e poiché la religione non è altro infatti che una forma della vita, la spiegazione di essa dovrà ritrovarsi appunto nella vita dell’uomo. Di qui il principio dell’immanenza religiosa. Di più, la prima mossa, per così dire, di ogni fenomeno vitale, quale si è detta essere altresì la religione, è sempre da ascrivere ad un qualche bisogno; i primordi poi, parlando più specialmente della vita, sono da assegnare ad un movimento del cuore, o vogliam dire ad un sentimento. Per queste ragioni, essendo Dio l’oggetto della religione, dobbiamo conchiudere che la fede, inizio e fondamento di ogni religione, debba riporsi in un sentimento che nasca dal bisogno della divinità. Il quale bisogno, non sentendosi dall’uomo se non in determinate ed acconce circostanze, non può di per sé appartenere al campo della coscienza: ma giace da principio al di sotto della coscienza medesima o, come dicono con vocabolo tolto ad imprestito dalla moderna filosofia, nella subcoscienza, ove la sua radice rimane occulta ed incomprensibile. Che se si chieda in qual modo da questo bisogno della divinità, che l’uomo provi in se stesso, si faccia poi trapasso alla religione, i modernisti rispondono così. La scienza e la storia, essi dicono, sono chiuse come fra due termini: l’uno esterno, ed è il mondo visibile; l’altro interno, ed è la coscienza. Toccato che abbiano o l’uno o l’altro di questi termini, non hanno come passare più oltre; al di là si trovano essi a faccia dell’inconoscibile. Dinanzi a questo inconoscibile, o sia esso fuori dell’uomo oltre ogni cosa visibile, o si celi entro l’uomo nelle latebre della subcoscienza, il bisogno del divino, senza verun atto della mente, secondo che vuole il fideismo, fa scattare nell’animo già inclinato a religione un certo particolar sentimento; il quale, sia come oggetto sia come causa interna, ha implicata in sé la realtà del divino e congiunge in certa guisa l’uomo con Dio. A questo sentimento appunto si dà dai modernisti il nome di fede, e lo ritengono quale inizio di religione. Ma non è qui tutto il filosofare, o, a meglio dire, il delirare di costoro. Imperocché in siffatto sentimento essi non riscontrano solamente la fede: ma colla fede e nella fede stessa quale da loro è intesa, sostengono che vi si trovi altresì la Rivelazione. E che infatti può pretendersi di vantaggio per una rivelazione? O non è forse rivelazione, o almeno principio di rivelazione, quel sentimento religioso che si manifesta d’un tratto nella coscienza? Non è rivelazione l’apparire, benché in confuso, che Dio fa agli animi in quello stesso sentimento religioso? Aggiungono anzi di più che, essendo Iddio in pari tempo e l’oggetto e la causa della fede, la detta rivelazione è al tempo stesso di Dio e da Dio: ha cioè insieme Iddio e come rivelante e come rivelato. Di qui, Venerabili Fratelli, quell’assurdissimo effato dei modernisti che ogni religione, secondo il vario aspetto sotto cui si riguardi, debba dirsi egualmente naturale e soprannaturale. Di qui lo scambiar che fanno, come di pari significato, coscienza e rivelazione. Di qui la legge, per cui la coscienza religiosa si dà come regola universale, da porsi in tutto a pari della rivelazione, ed alla quale tutti hanno obbligo di sottostare, non esclusa la stessa autorità suprema della Chiesa, sia che ella insegni, sia che legiferi in materia di culto o di disciplina. Se non che in tutto questo procedimento dal quale, a detta dei modernisti, saltan fuori la fede e la rivelazione, egli è mestieri tener d’occhio un punto, che è di capitale importanza per le conseguenze storico critiche, che essi ne derivano. Quell’inconoscibile, di cui parlano, non si presenta già alla fede come nudo in sé ed isolato; ma si bene congiunto strettamente a un qualche fenomeno, che, quantunque appartenga al campo della scienza e della storia, pure in certa guisa ne trapassa i confini. Tal fenomeno potrà essere un fatto qualsiasi della natura, che in sé racchiude alcun che di misterioso: potrà essere altresì un uomo, il cui carattere, i cui gesti, le cui parole mal si compongano colle leggi ordinarie della storia. Or bene la fede, attirata dall’inconoscibile racchiuso nel fenomeno, s’impadronisce di tutto intero il fenomeno stesso e lo penetra in certo qual modo della sua vita. Da ciò due cose conseguitano. La prima, una tal trasfigurazione del fenomeno, per una, diremmo, quasi elevazione sulle condizioni sue proprie, che lo renda acconcio, come materia, alla forma del divino che la fede v’introdurrà. La seconda, un certo sfiguramento, nato da ciò che avendo la fede tolto il fenomeno ai suoi aggiunti di tempo e di luogo, facilmente gli attribuisce quello che nella realtà delle cose non ha di fatto: il che soprattutto avviene quando si tratti di fenomeni di antica data, e tanto più se sono remoti. Da questi due capi i modernisti traggono per loro due canoni; i quali, uniti a un terzo già dedotto dall’agnosticismo, formano quasi la base della critica storica. Illustriamo il fatto con un esempio, preso dalla persona di Gesù Cristo. Nella persona di Cristo, dicono, la scienza e la storia non trovan nulla al di là dell’uomo. Dunque, in vigore del primo canone dato dall’agnosticismo, dalla storia di essa deve cancellarsi tutto quanto sa di divino. Più oltre, in conformità del. secondo canone, la persona di Cristo è stata trasfigurata dalla fede: dunque fa d’uopo spogliarla di tutto ciò che la innalza sopra le condizioni storiche. Per ultimo, la stessa è stata sfigurata dalla fede, secondo insegna il terzo canone: dunque non da rimuoversi da lei i discorsi, i fatti, tutto quello insomma che non risponde al suo carattere, alla sua condizione ed educazione, al luogo ed al tempo in cui visse. Strano per fermo parrà a noi questo modo di ragionare; ma qui sta la critica dei modernisti. Adunque il sentimento religioso, che per vitale immanenza si sprigiona dai nascondigli della subcoscienza, è il germe di tutta la religione, ed è insieme la ragione di quanto fu o sarà per essere in qualsivoglia religione. Rude dapprima e quasi informe, a poco a poco, sotto l’influsso del misterioso principio che gli diede origine, esso e venuto perfezionandosi, a seconda dei progressi della vita umana. di cui, come si disse, e una forma. Ecco pertanto la nascita di qualsiasi religione, sia pure soprannaturale: esse altro non sono che semplici esplicazioni dell’anzidetto sentimento. Né credasi già che diversa sia la sorte della religione cattolica; anzi in tutto pari alle altre: imperocché non altrimenti essa è nata, che per processo di vitale immanenza nella coscienza di Cristo, uomo di elettissima natura, quale mai altro simile si vide né mai si troverà. Nell’udir tali cose Noi trasecoliamo di fronte ad affermazioni cotanto audaci e sacrileghe! Eppure, Venerabili Fratelli, non sono esse un parlar temerario solamente d’increduli. Sono uomini cattolici, sono anzi sacerdoti non pochi che così la discorrono pubblicamente; e con siffatti delirii si dànno vanto di riformare la Chiesa! Qui, non trattasi più del vecchio errore, che alla natura umana concedeva quasi un diritto all’ordine soprannaturale. Si va assai più lungi; sino cioè ad afferrare che la religione nostra santissima, nell’uomo Cristo del pari che in noi, è frutto interamente spontaneo della natura. Del quale asserto non sappiamo qual sia mezzo più acconcio per sopprimere pgni ordine soprannaturale. Perciò con somma ragione il Concilio Vaticano pronunziò: “Se alcuno dirà, non poter l’uomo essere elevato da Dio a una conoscenza e perfezione che superi la natura, ma potere e dovere di per sé stesso, con un perpetuo progresso, giungere finalmente al possesso di ogni vero e di ogni bene, sia anatema” (De Revel., can. III). Fin qui però, o Venerabili Fratelli, non abbiam visto farsi punto luogo all’azione dell’intelletto. Eppure, secondo le dottrine dei modernisti, ha essa ancora la sua parte nell’atto di fede. E giova osservare in che modo. In quel sentimento, dicono, di cui sovente si è parlato, appunto perché egli è sentimento e non cognizione, Dio si presenta bensì all’uomo, ma in maniera così confusa che nulla o a malapena si distingue dal soggetto credente. Fa dunque d’uopo che sopra quel sentimento si getti un qualche raggio di luce, sì che Dio ne venga fuori per intero e pongasi in contrapposto col soggetto. Ora, è questo il compito dell’intelletto; di cui è proprio il pensare ed analizzare, e per mezzo del quale l’uomo prima traduce in rappresentazioni mentali i fenomeni di vita che sorgono in lui, e poi li significa con verbali espressioni. Di qui il detto volgare dei modernisti, che l’uomo religioso deve pensare la sua fede. L’intelletto adunque, sopravvenendo al sentimento, su di esso si ripiega e vi fa intorno un lavorio somigliante a quello di un pittore che illumina e ravviva il disegno di un quadro svanito per la vecchiaia. Il paragone è di uno dei maestri del modernismo. Doppio poi è l’operar della mente in siffatto negozio; dapprima, con un atto nativo e spontaneo, esprimendo la sua nozione con una proposizione semplice e volgare; indi, con riflessione e più intima penetrazione, o, come dicano, lavorando il suo pensiero, rende ciò che ha pensato con proposizioni secondarie, derivate bensì dalla prima, ma più affinate e distinte. Le quali proposizioni, ove poi ottengano la sanzione del magistero supremo della Chiesa, costituiranno appunto il dogma. – Con ciò, nella dottrina dei modernisti, ci troviamo giunti ad uno dei capi di maggior rilievo, all’origine cioè e alla natura stessa del dogma. Imperocché l’origine del dogma la ripongon essi in quelle primitive formole semplici; le quali, sotto un certo aspetto, devono ritenersi come essenziali alla fede, giacché la rivelazione, perché sia veramente tale, richiede la chiara apparizione di Dio nella coscienza. Il dogma stesso poi, secondo che paiono dire, è costituito propriamente dalle formole secondarie. A conoscere però bene la natura del dogma, è uopo ricercare anzi qual relazione passi fra le formole religiose ed il sentimento religioso. Nel che non troverà punto difficoltà, chi tenga fermo, che il fine di cotali formole altro non è, se non di dar modo al credente di rendersi ragione della propria fede. Per la qual cosa stanno esse formole come di mezzo fra il credente e la fede di lui; per rapporto alla fede, sono espressioni inadeguate del suo oggetto e sono dai modernisti chiamate simboli; per rapporto al credente, si riducono a meri istrumenti. Non è lecito pertanto in niun modo sostenere che esse esprimano una verità assoluta: essendoché, come simboli, sono semplici immagini di verità, e perciò da doversi adattare al sentimento religioso in ordine all’uomo; come istrumenti, sono veicoli di verità, e perciò da acconciarsi a lor volta all’uomo in ordine al sentimento religioso. E poiché questo sentimento, siccome quello che ha per obbietto l’assoluto, porge infiniti aspetti, dei quali oggi l’uno domani l’altro può apparire; e similmente colui che crede può passare per altre ed altre condizioni, ne segue che le formole altresì che noi chiamiamo dogmi debbano sottostare ad uguali vicende ed essere perciò variabili. Così si ha aperto il varco alla intima evoluzione dei dogmi. Infinito cumulo di sofismi che abbatte e distrugge ogni religione! E questa, non pur possibile, ma necessaria evoluzione e mutazione dei dogmi non solo i modernisti l’affermano arditamente ma è conseguenza legittima delle loro sentenze. Infatti fra i capisaldi della loro dottrina vi è ancor questo, tratto dal principio dell’immanenza vitale: che le formole cioè religiose, perché tali siano in verità e non mere speculazioni dell’intelletto, è mestieri che siano vitali e che vivano della stessa vita del sentimento religioso. Il che non è da intendersi quasiché tali formule, specie se puramente immaginative, siano costruite a bella posta pel sentimento religioso; giacché poco monta della loro origine, come altresì del loro numero e della loro qualità; ma cosi, che le stesse, fatte se occorre all’uopo delle modificazioni, vengano vitalmente assimilate dal sentimento religioso. E per dirla in altri termini, fa di mestieri che la formola primitiva sia accettata e sancita dal cuore, e che il susseguente lavorio per la formazione delle formole secondarie sia fatto sotto la direzione del cuore. Di qui procede che siffatte formole, perché siano vitali, debbano essere e mantenersi adatte tanto alla fede quanto al credente. Laonde, se per una ragione qualsiasi cotale adattamento venga meno, perdono elle il primitivo significato e vogliono essere cambiate. Or tale essendo il valore e la sorte mutevole delle formole dogmatiche, non reca stupore che i modernisti le abbiano tanto in dileggio; mentre al contrario non fanno che ricordare ed esaltare il sentimento religioso e la vita religiosa. Perciò pure criticano con somma audacia la Chiesa, accusandola di camminare fuor di strada, né saper distinguere fra il senso materiale delle formole e il loro significato religioso e morale, e attaccandosi con ostinazione, ma vanamente, a formole vuote di senso, lasciar che la religione precipiti a rovina. Oh! Veramente ciechi e conduttori di ciechi, che, gonfi del superbo nome di scienza, vaneggiano fino al segno di pervertire l’eterno concetto di verità e il genuino sentimento religioso: “spacciando un nuovo sistema, col quale, tratti da una sfrontata e sfrenata smania di novità, non cercano la verità ove certamente si trova; e disprezzate le sante ed apostoliche tradizioni, si attaccano a dottrine vuote, futili, incerte, riprovate dalla Chiesa, e con esse, uomini stoltissimi, si credono di puntellare e sostenere la stessa verità” (Gregorio XVI, Lett. Enc.”Singulari Nos“, 25 giugno 1834).

[Dopo aver esaminato il modernismo dal canto filosofico, il Santo Padre passa ad esaminare il modernismo che coinvolge il credente, e propinato a livello teologico che esclude Scolastica e Tomismo. Sua Santità è particolarmente meticoloso nel sottolineare tutti gli inganni e le astuzie del modernismo nel confondere termini e concetti spesso totalmente ribaltati nei loro significati. Tali inganni in realtà erano già stati condannati dalla Chiesa ed infatti Papa Sarto cita con sapienza Encicliche e Costituzioni apostoliche, ad iniziare da Gregorio IX, passando per il Concilio di Trento, da Pio VI a Pio IX [ il “Syllabus”], fino alla “Dei Filius” del Concilio Vaticano. Ma osservando bene, in realtà il modernismo, non era altro che un nuovo vestito indossato dalla teologia di satana, la “gnosi”, il solito cancro maligno che ha afflitto la Chiesa Cattolica fin dalla sua costituzione. Si ritrovano infatti i soliti artifici del panteismo, dell’immanentismo, dell’evoluzionismo, etc. etc.. La gnosi, come i nostri pochi lettori ben sanno, è come uno “satiro” che, nel periodo di carnevale cambia continuamente costume e maschera, lasciando però intravedere i suoi elementi caratterizzanti come la coda, gli arti zoccoluti, le corna, la lingua biforcuta, i canini sporgenti, la barba caprina. Ad un esame superficiale il satiro sembra avere un aspetto affascinante ed argomenti interessanti, ma man mano che si mostra, che parla, si agita, il cerone comincia a sciogliersi, la maschera a scomporsi, e compare la barba caprina, i canini affilati, e dal cappello mosso da una leggera brezza spuntano le immancabili corna! È la sempre medesima “solfa”, lo sterco ripugnante, che ci viene proposto da Simon mago, dalla scuola neoplatonica alessandrina, dalla cabala spuria, dalle apparentemente strambe filosofie del rinascimento del paganesimo, a Cartesio, all’illuminismo, da Kant ad Hegel, da Marx all’esistenzialismo, da Freud a Darwin ed oggi, in ambito teologico, da personaggi vari, a cominciare dai giansenisti per finire ai supermodernisti postconciliari come gli azzeccagarbugli Ratzinger col suo ventriloquo, il sig. Bergoglio. Leggiamo con calma questa parte di Enciclica e cerchiamo di farla nostra onde comprendere ed evitare le insidie ed i lacci del modernismo, la strada ampia che, a detta del divino Maestro, ci condurrà inevitabilmente ed indubbiamente al fuoco eterno! E se lo dice Lui … – ndr. -]

“E fin qua, o Venerabili Fratelli, del modernista considerato come filosofo. Or, se facendoci oltre a considerarlo nella sua qualità di credente, vogliam conoscere in che modo, nel modernismo, il credente si differenzi dal filosofo, convien osservare che quantunque il filosofo riconosca per oggetto della fede la realtà divina, pure questa realtà non altrove l’incontra che nell’animo del credente, come oggetto di sentimento e di affermazione: che esista poi essa o no in sé medesima fuori di quel sentimento e di quell’affermazione, a lui punto non cale. Per contrario il credente ha come certo ed indubitato che la realtà divina esista di fatto in se stessa, né punto dipenda da chi crede. Che se poi cerchiamo, qual fondamento abbia cotale asserzione del credente, i modernisti rispondono: l’esperienza individuale. Ma nel dir ciò, se costoro si dilungano dai razionalisti, cadono nell’opinione dei protestanti, degli pseudomistici. Così infatti essi discorrono. Nel sentimento religioso, si deve riconoscere quasi una certa intuizione del cuore; la quale mette l’uomo in contatto immediato colla realtà stessa di Dio, e tale gl’infonde una persuasione dell’esistenza di Lui e della Sua azione sì dentro, sì fuori dell’uomo, da sorpassar di gran lunga ogni convincimento scientifico. Asseriscono pertanto una vera esperienza, e tale da vincere qualsivoglia esperienza razionale; la quale se da taluno, come dai razionalisti, è negata, ciò dicono intervenire perché non vogliono porsi costoro nelle morali condizioni, che son richieste per ottenerla. Or questa esperienza, poi che l’abbia alcuno conseguita, è quella che lo costituisce propriamente e veramente credente. Quanto siamo qui lontani dagli insegnamenti cattolici! Simili vaneggiamenti li abbiamo già uditi condannare dal Concilio Vaticano. Vedremo più oltre come, con siffatte teorie, congiunte agli altri errori già mentovati, si spalanchi la via all’ateismo. Qui giova subito notare che, posta questa dottrina dell’esperienza unitamente all’altra del simbolismo, ogni religione, sia pure quella degl’idolatri, debba ritenersi siccome vera. Perché infatti non sarà possibile che tali esperienze s’incontrino in ogni religione? E che si siano di fatto incontrate non pochi lo pretendono. E con qual diritto i modernisti negheranno la verità ad una esperienza affermata da un islamita? con qual diritto rivendicheranno esperienze vere pei soli Cattolici? Ed infatti i modernisti non negano, concedono anzi, altri velatamente altri apertissimamente, che tutte le religioni siano vere. E che non possano sentire altrimenti, è cosa manifesta. Imperocché per qual capo, secondo i loro placiti, potrebbe mai ad una religione, qual che si voglia, attribuirsi la falsità? Senza dubbio per uno di questi due: o per la falsità del sentimento religioso, o per la falsità della formola pronunziata dalla mente. Ora il sentimento religioso, benché possa essere più o meno perfetto, è sempre uno: la formula poi intellettuale, perché sia vera, basta che risponda al sentimento religioso ed al credente, checché ne sia della forza d’ingegno in costui. Tutt’al più, nel conflitto fra diverse religioni, i modernisti potranno sostenere che la cattolica ha più di verità perché più vivente, e merita con più ragione il titolo di cristiana, perché risponde più pienamente alle origini del Cristianesimo. Che dalle premesse date scaturiscano siffatte conseguenze, non può per fermo sembrare assurdo. Assurdissimo è invece che Cattolici e Sacerdoti, i quali, come preferiamo credere, aborrono da tali enormità, si portino in fatto quasi le ammettessero. Giacché tali sono le lodi che tributano ai maestri di siffatti errori, tali gli onori che rendono loro pubblicamente, da dar agevolmente a supporre che essi non onorIno già le persone, forse non prive di un qualche merito, ma piuttosto gli errori che quelle professano apertamente e cercano a tutt’uomo propagare. – Ma, oltre al detto, questa dottrina dell’esperienza è per un altro verso contrarissima alla cattolica verità. Imperocché viene essa estesa ed applicata alla tradizione quale finora fu intesa dalla Chiesa, e la distrugge. Ed infatti dai modernisti è la tradizione così concepita che sia una comunicazione dell’esperienza originale fatta agli altri, mercé la predicazione, per mezzo della formula intellettuale. A questa formola perciò, oltre al valore rappresentativo, attribuiscono una tal quale efficacia di suggestione, che si esplica tanto in colui che crede, per risvegliare il sentimento religioso a caso intorpidito e rinnovar l’esperienza già avuta una volta, quanto in coloro che ancor non credono, per suscitare in essi la prima volta il sentimento religioso e produrvi l’esperienza. Di questa guisa l’esperienza religiosa si viene a propagare fra i popoli; né solo nei presenti per via della predicazione, ma anche fra i venturi sì per mezzo dei libri e sì per la trasmissione orale dagli uni agli altri. Avviene poi che una simile comunicazione dell’esperienza si abbarbichi talora e viva, talora isterilisca subito e muoia. Il vivere è pei modernisti prova di verità; giacché verità e vita sono per essi una medesima cosa. Dal che è dato inferir di nuovo, che tutte le religioni, quante mai ne esistono, sono egualmente vere, poiché se nol fossero non vivrebbero. E tutto questo si spaccia per dare un concetto più elevato e più ampio della religione! Condotte fin qui le cose, o Venerabili Fratelli, abbiamo abbastanza in mano per conoscere qual ordine stabiliscano i modernisti fra la fede e la scienza; con qual nome di scienza intendano essi ancor la storia. E in primo luogo si deve tenere che l’oggetto dell’una è affatto estraneo all’oggetto dell’altra e da questo separato. Imperocché la fede si occupa unicamente di cosa che la scienza professa essere a sé inconoscibile. Quindi diverso il campo ad entrambe assegnato: la scienza è tutta nella realtà dei fenomeni, ove non entra affatto la fede: questa al contrario si occupa della realtà divina che alla scienza è del tutto sconosciuta. Dal che si viene a conchiudere che tra la fede e la scienza non vi possa essere mai dissidio: giacché, se ciascuna tiene il suo campo, non potranno mai incontrarsi, né perciò contraddirsi. Che se a ciò si opponga, nel mondo visibile esservi cose che pure appartengono alla fede, come la vita umana di Cristo; i modernisti rispondono negando. – Perché quantunque tali cose siano nel novero dei fenomeni, pure, in quanto sono vissute dalla fede e, nel modo già indicato, sono state da essa trasfigurate e sfigurate, furono tolte dal mondo sensibile e trasferite ad essere materia del divino. Quindi, qualora più oltre si ricercasse se Cristo abbia fatto veri miracoli e vere profezie, severamente sia risorto ed asceso al Cielo; la scienza agnostica lo negherà, la fede lo affermerà; né perciò vi sarà lotta fra le due. Imperocché lo negherà il filosofo qual filosofo parlando a filosofie considerando unicamente Cristo nella sua realtà storica; l’affermerà il credente come credente parlando a credenti e considerando la vita di Cristo quale è vissuta dalla fede e nella fede. – S’ingannerebbe però a partito chi, date queste teorie, si credesse autorizzato a credere, essere la fede e la scienza indipendenti l’una dall’altra. Si, della scienza ciò è fuori di dubbio; ma è ben altro della fede; la quale, non per uno ma per tre capi, deve andar soggetta alla scienza. Imperocché da riflettersi in primo luogo che in ogni fatto religioso, toltane la realtà divina e l’esperienza che di essa ha chi crede, tutto il rimanente ed in specialità le formole religiose, non escono dal campo dei fenomeni: e cadono quindi sotto il dominio della scienza. Esca pure il credente dal mondo, se gli vien fatto; finché però resterà nel mondo, non potrà mai sottrarsi, lo voglia o no, alle leggi, all’osservazione, ai giudizi della scienza e della storia. Di più, benché sia detto che Dio è oggetto della sola fede, ciò nondimeno debba solo intendersi della realtà divina, non già della idea di Dio. L’idea di Dio è pur essa sottoposta alla scienza; la quale, mentre spazia nell’ordine logico, si solleva fino all’assoluto ed all’ideale. È dunque diritto della filosofia o della scienza sindacare l’idea di Dio, dirigerla nella sua evoluzione, correggerla qualora vi si immischi qualche elemento estraneo: quindi il ripetere che fanno i modernisti che l’evoluzione religiosa debba essere coordinata colla evoluzione morale ed intellettuale; ossia, come insegna uno dei loro maestri, debba essere subordinata. Per ultimo è pur da osservare che l’uomo non soffre in sé dualismo: per la qual cosa il credente prova in se stesso un intimo bisogno di armonizzare siffattamente la fede colla scienza che non si opponga al concetto generale che scientificamente si ha dell’universo. Così dunque si evince essere la scienza affatto libera dalla libera fede; la fede invece, tuttoché si decanti estranea alla scienza, essere a questa sottoposta. Le quali cose tutte, Venerabili Fratelli, sono diametralmente contrarie a ciò che insegnava il Nostro Antecessore Pio IX: “Essere dovere della filosofia, in materia di religione, non dominare ma servire, non prescrivere ciò che si debba credere, ma abbracciarlo con ragionevole ossequio, né scrutar l’altezza dei misteri di Dio, ma piamente ed umilmente venerarla” (Breve al Vescovo di Breslavia, 15 giugno 1857). I modernisti invertono del tutto le parti. Ond’è che ad essi può applicarsi ciò che l’altro Nostro Predecessore Gregorio IX scriveva di taluni teologi del suo tempo: “Alcuni fra voi, gonfi come otri dello spirito di vanità, si sforzano con novità profana di valicare i termini segnati dai Padri; piegando alla dottrina filosofica dei razionali l’intelligenza delle pagine Celesti, non per profitto degli uditori ma per far pompa di scienza… Questi sedotti da dottrine diverse e peregrine, tramutano in coda il capo e costringono la regina a servire all’ancella” (Lettera ai maestri di Teologia di Parigi, 7 luglio 1223). Il che parrà più manifesto dalla condotta stessa dei modernisti, interamente conforme a quel che insegnano. Negli scritti e nei discorsi sembrano essi non rare volte sostenere ora una dottrina ora un’altra, talché si è facilmente indotti a giudicarli vaghi ed incerti. Ma tutto ciò è fatto avvisatamente; per l’opinione cioè che sostengono della mutua separazione della fede e della scienza. Quindi avviene che nei loro libri si incontrino cose che ben direbbe un Cattolico; ma, al voltar della pagina, si trovano altre che si stimerebbero dettate da un razionalista. Di qui, scrivendo storia, non fanno pur menzione della divinità di Cristo; predicando invece nelle chiese, l’affermano con risolutezza. Di qui parimente, nella storia non fanno nessun conto né di Padri né di Concilî; ma se catechizzano il popolo, li citano con rispetto. Di qui, distinguono l’esegesi teologica e pastorale dall’esegesi scientifica e storica. Similmente dal principio che la scienza non ha dipendenza alcuna dalla fede, quando trattano di filosofia, di storia, di critica, non avendo orrore di premere le orme di Lutero (Prop. 29, condannata da Leone X, Bolla. “Exsurge Domine“, 15 maggio 1520: “Ci si è aperta la strada per isnervare l’autorità dei Concilî e contraddire liberamente alle loro deliberazioni, e giudicare i lor decreti e confessare arditamente tutto ciò che ci sembra vero, sia approvato o condannato da qualunque Concilio“), fanno pompa di un certo disprezzo delle dottrine cattoliche, dei santi Padri, dei sinodi ecumenici, del Magistero ecclesiastico: e se vengono di ciò ripresi, gridano alla manomissione della libertà. Da ultimo, posto l’aforisma che la fede debba soggettarsi alla scienza, criticano di continuo e all’aperto la Chiesa, perché con somma ostinatezza rifiuta di sottoporre ed accomodare i suoi dogmi alle opinioni della filosofia: ed essi, da parte loro, messa fra i ciarpami la vecchia teologia, si adoperano di porne in voga una nuova, tutta ligia ai deliramenti dei filosofi. Con che, Venerabili Fratelli, Ci si dà finalmente il passo per osservare i modernisti sull’arena teologica. Difficile compito: ma con poco potremo trarCi d’impaccio. Il fine da ottenere è la conciliazione della fede colla scienza, restando però sempre incolume il primato della scienza sulla fede. In questo affare il teologo modernista si giova degli stessissimi principî che vedemmo usati dalla filosofia, adattandoli al credente; ciò sono i principî dell’immanenza e del simbolismo. Ed ecco con quanta speditezza compie egli il suo lavoro. Ha detto il filosofo: “Il principio della fede è immanente“; il credente ha soggiunto: “Questo principio è Dio“; il teologo dunque conclude: “Dio è immanente nell’uomo“. Di qui l’essere dell’immanenza teologica. Parimente: il filosofo ha ritenuto come certo che le “rappresentazioni dell’oggetto della fede sono semplicemente simboliche“; il credente ha affermato che “l’oggetto della fede è Dio in se stesso“; il teologo adunque pronunzia: “Le rappresentazioni della realtà divina siano simboliche“. Di qui il simbolismo teologico. Errori per verità enormi; i quali quanto siano perniciosi, si vedrà luminosamente nell’osservarne le conseguenze. Infatti, per dir subito del simbolismo, i simboli essendo tali in relazione all’oggetto, ed in relazione al credente non essendo che istrumenti, fa mestieri innanzi tutto, così insegnano i modernisti, che il credente non si attacchi troppo alla formola, ma se ne giovi solo allo scopo di unirsi all’assoluta verità, di cui la formola rivela insieme e nasconde, si sforza cioè di esprimere ma senza mai riuscirvi. Vogliono in secondo luogo che il credente usi di tali formole tanto quanto gli siano utili, poiché sono date per giovamento e non per averne intralcio; salvo, s’intende, il rispetto che, per riguardi sociali, si debba alle formole giudicate acconce dal pubblico magistero ad esprimere la coscienza comune, finché però lo stesso Magistero non stabilisca altrimenti. Quanto poi all’immanenza, non è agevole determinare ciò che per essa intendano i modernisti; giacché diverse sono fra essi le opinioni. Altri la pongono in ciò, che Dio operante sia intimamente presente nell’uomo, più che non sia l’uomo a sé stesso; il che, sanamente inteso, non può riprendersi. Altri pretendono che l’azione divina sia una coll’azione della natura, come di causa prima con quella di causa seconda; e ciò distruggerebbe l’ordine soprannaturale. Altri per ultimo la spiegano in modo da dar sospetto di un senso panteistico; il che, a dir vero, è più coerente col rimanente delle loro dottrine. A questo postulato dell’immanenza un altro poi se ne aggiunge, che si può intitolare dalla permanenza divina: e l’una dall’altra si fa differire quasi a quel modo stesso, che l’esperienza privata differisca dall’esperienza trasmessa per tradizione. Un esempio illustrerà il concetto: e sia l’esempio della Chiesa e dei Sacramenti. La Chiesa, dicono, e i Sacramenti non si devon credere come istituiti da Cristo stesso. Vieta ciò l’agnosticismo, che in Cristo non riconosce nulla più che un uomo, la cui coscienza religiosa, come quella di ogni altro uomo, si è formata a poco a poco; lo vieta la legge dell’immanenza, che non ammette, per dirlo con una loro parola, esterne applicazioni; lo vieta pure la legge dell’evoluzione, che per lo svolgersi dei germi richiede tempo ed una certa serie di circostanze; lo vieta finalmente la storia, che mostra tale di fatto essere stato il corso delle cose. Però è da tenersi che Chiesa e Sacramenti fossero istituiti mediatamente da Cristo. Ma in qual modo? eccolo. Le coscienze tutte cristiane, essi dicono, furono virtualmente inchiuse nella coscienza di Gesù Cristo, come la pianta nel seme. Or poiché i germi vivono la vita del seme, così deve affermarsi che tutti i Cristiani vivano la vita di Cristo. Ma la vita di Cristo, secondo la fede, è divina; dunque anche quella dei Cristiani. Se pertanto questa vita, nel corso dei secoli, diede origine alla Chiesa e ai Sacramenti, con ogni diritto si potrà dire che tale origine è da Cristo ed è divina. Nello stesso modo provano esser divine le Scritture e divini i dogmi. E con ciò la teologia moderna può dirsi compiuta. Esigua cosa a dir vero, ma più che abbondante per chi professa doversi sempre ed in tutto rispettare le conclusioni della scienza. L’applicazione poi di queste teorie agli altri punti che verremo esponendo potrà ognuno farla di per sé stesso. Abbiam parlato finora della origine e della natura della fede. Ma molti essendo i germi di questa, e principali fra essi la Chiesa, il dogma, il culto, i Libri sacri, di questi eziandio è da conoscere ciò che insegnano i modernisti. E per farci dal dogma, l’origine e la natura di esso quale sia, si è già indicato più sopra. Nasce il dogma dal bisogno che prova il credente di lavorare sul suo pensiero religioso, sì da rendere la sua e l’altrui coscienza sempre più chiara. Tale lavorio consiste tutto nell’indagare ed esporre la formola primitiva, non già in se stessa e razionalmente, ma rispetto alle circostanze o, come più astrusamente dicono, vitalmente. Di qui si ha che intorno alla medesima si vadano formando delle formole secondarie, che poi sintetizzate e riunite in un’unica costruzione dottrinale, quando questa sia suggellata dal pubblico magistero come rispondente alla coscienza comune, si chiamerà dogma. Dal dogma son da distinguersi accuratamente le speculazioni teologiche; le quali però, benché non vivano della vita del dogma, pur tuttavia non sono inutili sì per armonizzare la religione colla scienza e togliere fra loro ogni contrasto, sì per lumeggiare esternamente e difendere la religione stessa; e chi sa che forse non giovino altresì per preparar la materia di un dogma futuro. Del culto poi non vi sarebbe gran che da dire, se sotto questo nome non venissero eziandio i Sacramenti, intorno ai quali sono gravissimi gli errori dei modernisti. Il culto vogliono che risulti da un doppio bisogno; giacché, torniamo ad osservarlo, nel loro sistema tutto va attribuito ad intimi bisogni. L’uno è quello di dare alla religione alcunché di sensibile; l’altro è il bisogno di propagarla, il che non potrebbe avvenire senza una qualche forma sensibile e senza atti santificanti, che diconsi Sacramenti. Quanto poi ai Sacramenti, essi pei modernisti si riducono a meri simboli o segni, non però privi di efficacia; efficacia che essi cercano di spiegare coll’esempio di certe cotali parole che volgarmente diconsi aver fatto fortuna, per avere acquistata la forza di diffondere talune idee potenti e che colpiscono grandemente gli animi. Come quelle parole sono ordinate alle dette idee, così i Sacramenti al sentimento religioso: nulla di vantaggio. Parlerebbero certamente più chiaro ove affermassero che i Sacramenti sono istituiti unicamente per nutrir la fede. Ma ciò è condannato dal Concilio di Trento (Sess. VII, de Sacramentis in genere, can. 5): “Se alcuno dirà che questi Sacramenti sono istituiti solo per nutrir la fede, sia anatema“. Della natura ancora e dell’origine dei Libri sacri già si è toccato. Secondo il pensare dei modernisti, si può ben definirli una raccolta di esperienze: non di quelle, che comunemente si hanno da ognuno, ma delle straordinarie e più insigni che siensi avute in una qualche religione. E così essi appunto insegnano a riguardo dei nostri libri del Vecchio e del Nuovo Testamento. A lor comodo però, notano assai scaltramente che, sebbene l’esperienza sia del presente, può tuttavolta prender materia dal passato ed eziandio dal futuro, in quanto che il credente o per la memoria rivive il passato a maniera del presente, o vive già per anticipazione l’avvenire. Ciò giova a dar modo di computare fra i Libri santi anche gli storici e gli apocalittici. Così adunque in questi libri parla bensì Iddio per mezzo del credente; ma, come vuole la teologia modernistica, solo per immanenza e permanenza vitale. Vorrà sapersi, in che consista dopo ciò l’ispirazione? Rispondono che non si distingue, se non forse per una certa maggiore veemenza, dal bisogno che sente il credente di manifestare a voce e per scritto la propria fede. È alcun che di simile a quello che si avvera nella ispirazione poetica; per cui un cotale diceva: È Dio in noi, da Lui agitati noi c’infiammiamo. È questo appunto il modo onde Dio deve dirsi origine della ispirazione dei Libri sacri. Affermano inoltre i modernisti che nulla vi è in questi libri che non sia ispirato. – Nel che potrebbe taluno crederli più ortodossi di certi altri moderni che restringono alquanto la ispirazione, come, a mo’ di esempio, nelle così dette citazioni tacite. Ma queste non sono che lustre e parole. Imperciocché se, secondo l’agnosticismo, riteniamo la Bibbia come un lavoro umano fatto da uomini per servigio di uomini, salvo pure al teologo di chiamarla divina per immanenza, come mai l’ispirazione potrebbe in essa restringersi? Sì, i modernisti affermano un’ispirazione totale: ma, nel senso cattolico, non ne ammettono in fatto veruna. – Più larga materia ci offre ciò che la scuola dei modernisti fantastica a riguardo della Chiesa. È qui da presupporre che la Chiesa secondo essi è frutto di due bisogni: uno nel credente, specie se abbia avuta qualche esperienza originale e singolare, di comunicare ad altri la propria fede; l’altro nella collettività, dopo che la fede si è fatta comune a molti, di aggrupparsi in società e di conservare, accrescere e propagare il bene comune. Che cosa è dunque la Chiesa? un parto della coscienza collettiva, ossia collettività di coscienze individuali; le quali, in forza della permanenza vitale, pendono tutte da un primo credente, cioè pei Cattolici da Cristo. Ora ogni società ha bisogno di un’autorità che la regga: il cui compito sia dirigere gli associati al fine comune, e conservare saggiamente gli elementi di coesione, i quali in una società religiosa sono la dottrina ed il culto. – Perciò nella Chiesa cattolica una triplice autorità: disciplinare, dogmatica, culturale. La natura poi di questa autorità dovrà desumersi dalla sua origine; e dalla natura si dovranno a loro volta dedurre i diritti e i doveri. Fu errore volgare dell’età passata che l’autorità sia venuta alla Chiesa dal di fuori, cioè immediatamente da Dio: e perciò era giustamente ritenuta autocratica. Ma queste sono teorie oggimai passate di moda. Come la Chiesa è emanata dalla collettività delle coscienze, cosi l’autorità emana vitalmente dalla stessa Chiesa. Pertanto l’autorità del pari che la Chiesa nasce dalla coscienza religiosa, e perciò alla medesima resta soggetta: e se venga meno a siffatta soggezione, si volge in tirannide. Nei tempi che corrono il sentimento di libertà è giunto al suo pieno sviluppo. Nello stato civile la pubblica coscienza ha voluto un regime popolare. Ma la coscienza dell’uomo, come la vita, è una sola. Se dunque l’autorità della Chiesa non vuol suscitare e mantenere una guerra intestina nelle coscienze umane, uopo è che si pieghi anch’essa a forme democratiche; tanto più che, a negarvisi, lo sfacelo sarebbe imminente. È da pazzo il credere che possa aversi un regresso nel sentimento di libertà quale domina al presente. Stretto e rinchiuso con violenza strariperà più potente, distruggendo insieme la religione e la Chiesa. Fin qui il ragionare dei modernisti: e la conseguenza è, che sono tutti intesi a trovar modi per conciliare l’autorità della Chiesa colla libertà dei credenti. Se non che non solamente fra le sue stesse pareti trova la Chiesa con chi doversi comporre amichevolmente, ma eziandio fuori. Non è sola essa ad occupare il mondo: l’occupano insieme altre società, colle quali non può aver uso e commercio. Convien dunque determinare quali siano i diritti e i doveri della Chiesa verso le società civili; e ben s’intende che tale determinazione debba esser desunta dalla natura della Chiesa stessa, quale i modernisti l’hanno descritta. Le regole perciò da usarsi son quelle stesse che sopra si adoperarono per la scienza e la fede. Ivi parlavasi di oggetti, qui di fini. Come adunque, per ragione dell’oggetto, si dissero la fede e la scienza vicendevolmente estranee, così lo Stato e la Chiesa sono l’uno all’altra estranei pel fine a cui tendono, temporale per lo Stato, spirituale per la Chiesa. Fu d’altre età il sottomettere il temporale allo spirituale; il parlarsi di questioni miste, nelle quali la Chiesa interveniva quasi signora e regina, perché la Chiesa si stimava istituita immediatamente da Dio, come autore dell’ordine soprannaturale. Ma la filosofia e la storia non più ammettono cotali credenze. Adunque lo Stato deve separarsi dalla Chiesa e per egual ragione il Cattolico dal cittadino. Di qui è, che il Cattolico, perché insieme cittadino, ha diritto e dovere, non curandosi dell’autorità della Chiesa, dei suoi desiderî, consigli e comandi, sprezzate altresì le sue riprensioni, di far quello che giudicherà espediente al bene della patria. Voler imporre al cittadino una linea di condotta sotto qualsiasi pretesto è un vero abuso di potere ecclesiastico da respingersi con ogni sforzo. Le teorie, o Venerabili Fratelli, onde promanano tutti questi errori, son quelle appunto che il Nostro Predecessore Pio VI già condannò solennemente nella Costituzione Apostolica “Auctorem Fidei” (Prop. 2). “La proposizione che stabilisce che la potestà è stata da Dio data alla Chiesa, perché fosse comunicata ai Pastori, che sono ministri di lei per la salute delle anime; così intesa, che la potestà del ministero e regime ecclesiastico si derivi nei Pastori dalla Comunità dei fedeli: eretica“. Prop. 3. “Inoltre quella che stabilisce il Romano Pontefice esser capo ministeriale; così spiegata che il Romano Pontefice, non da Cristo nella persona del Beato Pietro, ma dalla Chiesa abbia avuta la potestà del ministero, di cui come successore di Pietro, vero Vicario di Cristo e capo di tutta la Chiesa, gode nella Chiesa universale: eretica“). – Ma non basta alla scuola dei modernisti che lo Stato sia separato dalla Chiesa. Come la fede, quanto agli elementi fenomenici, deve sottostare alla scienza, così nelle cose temporali la Chiesa ha da soggettarsi allo Stato. Questo forse non l’asseriscono essi peranco apertamente; ma per forza di raziocinio sono costretti ad ammetterlo. Imperocché, concesso che lo Stato abbia assoluta padronanza in tutto ciò che è temporale, se avvenga che il credente, non pago della religione dello spirito, esca in atti esteriori, quali per mo’ di esempio, l’amministrarsi o il ricevere dei Sacramenti, bisognerà che questi cadano sotto il dominio dello Stato. E che sarà dopo ciò dell’autorità ecclesiastica? Siccome questa non si spiegasse non per atti esterni, sarà in tutto e per tutto assoggettata al potere civile. È questa ineluttabile conseguenza che trascina molti fra i protestanti liberali a sbarazzarsi di ogni culto esterno, anzi d’ogni esterna società religiosa, i quali invece si adoprano di porre in voga una religione che chiamano individuale. Che se i modernisti, a luce di sole, non si spingono ancora tant’oltre, insistono intanto perché la Chiesa si pieghi spontaneamente ove essi la voglion trarre e si acconci alle forme civili. Tutto ciò per l’autorità disciplinare. Più gravi assai e perniciose sono le loro affermazioni a riguardo dell’autorità dottrinale e dogmatica. Circa il Magistero ecclesiastico così essi la pensano: la società religiosa non può veramente essere una senza unità di coscienza nei suoi membri e senza unità di formola. Ma questa duplice unità richiede, per così dire, una mente comune, a cui spetti trovare e determinare la formola che meglio risponda alla coscienza comune: alla qual mente fa d’uopo inoltre attribuire un’autorità bastevole, perché possa imporre alla comunanza la formola stabilita. Or nell’unione è quasi fusione della mente designatrice della formola e dell’autorità che la impone, ritrovano i modernisti il concetto del magistero ecclesiastico. Poiché dunque in fin dei conti il Magistero non nasce che dalle coscienze individuali ed a bene delle stesse coscienze ha imposto un pubblico ufficio; ne consegue di necessità che debba dipendere dalle medesime coscienze e debba quindi avviarsi a forme democratiche. Il proibire pertanto alle coscienze degli individui che facciano pubblicamente sentire i loro bisogni; non soffrire che la critica spinga il dogma verso necessarie evoluzioni, non è già uso di potestà, data per pubblico bene, ma abuso. Similmente nell’uso stesso della potestà fa di mestieri serbare modo e misura. Sa di tirannide condannare un libro all’insaputa dell’autore, senza ammettere spiegazioni di sorta né discussione. Adunque qui pure è da ricercarsi una via di mezzo che salvi insieme i diritti dell’autorità e della libertà. Nel frattempo il Cattolico si regolerà in guisa che non lasci pubblicamente di protestarsi rispettosissimo dell’Autorità, continuando però sempre ad operare a suo talento. In generale vogliono ammonita la Chiesa che, poiché il fine della potestà ecclesiastica è tutto spirituale, disdice ogni esterno apparato di magnificenza con che essa si circonda agli occhi delle moltitudini. Nel che non riflettono che se la religione è essenzialmente spirituale non è tuttavia ristretta al solo spirito; e che l’onore tributato all’autorità ridonda su Gesù Cristo che ne fu istitutore. Per compiere tutta questa materia della fede e dei diversi suoi germi, rimane da ultimo, Venerabili Fratelli, che ascoltiamo le teorie dei modernisti circa lo sviluppo dei medesimi, e lor principio generale che in una religione vivente tutto debba essere mutevole e mutarsi di fatto. Di qui fanno passo a quella che è delle principali fra le loro dottrine, vogliam dire all’evoluzione. Dogma, dunque, Chiesa, culto, Libri sacri, anzi la fede stessa, se non devon esser cose morte, fa mestieri che sottostiano alle leggi dell’evoluzione. Siffatto principio non si udrà con istupore da chi rammenti quanto i modernisti siano venuti affermando intorno a ciascuno di questi oggetti. Posta pertanto la legge dell’evoluzione, i modernisti stessi ci descrivono in qual maniera l’evoluzione si effettui. E cominciamo dalla fede. La forma primitiva, essi dicono, della fede fu rudimentaria e comune indistintamente a tutti gli uomini; giacché nasceva dalla natura e dalla vita umana. Il progresso si ebbe per sviluppo vitale; che è quanto dire non per aggiunta di nuove forme apportate dal di fuori, ma per una crescente penetrazione nella coscienza del sentimento religioso. Doppio indi fu il modo di progredire nella fede: prima negativamente, col depurarsi da ogni elemento estraneo, come ad esempio dal sentimento di famiglia o di nazionalità; quindi positivamente, mercè il perfezionarsi intellettuale e morale dell’uomo, per cui l’idea divina si ampliò ed illustrò e il sentimento religioso divenne più squisito. Del progresso della fede non altre cause assegnar si possono che quelle stesse onde già si spiegò la sua origine. Alle quali però fa d’uopo aggiungere quei genii religiosi, che noi chiamiamo profeti e dei quali Cristo fu il sommo; sì perché nella vita o nelle parole ebbero un certo che di misterioso, che la fede attribuiva alla divinità, e sì perché toccaron loro esperienze nuove ed originali in piena armonia coi bisogni del loro tempo. Il progresso del dogma nasce principalmente dal bisogno di superare gli ostacoli della fede, di vincere gli avversari, di ribattere le difficoltà, senza dire dello sforzo continuo di viemeglio penetrare gli arcani della fede. Così, per tacer di altri esempi, è avvenuto di Cristo; in cui, quel più o meno divino, che la fede in esso ammetteva, si venne gradatamente amplificando in modo, che finalmente fu ritenuto per Dio. Lo stimolo precipuo di evoluzione del culto sarà il bisogno di adattarsi agli usi ed alle tradizioni dei popoli; come altresì di usufruire della virtù che certi atti hanno ricevuto dall’usanza. La Chiesa finalmente trova la sua ragione di evolversi nel bisogno di accomodarsi alle condizioni storiche e di accordarsi colle forme di civil governo pubblicamente adottate. Così i modernisti di ciascun capo in particolare. E qui, innanzi di farCi oltre, bramiamo che ben si avverta di nuovo a questa loro dottrina dei bisogni; giacché essa, oltreché di quanto finora abbiam visto, è quasi base e fondamento di quel vantato metodo che chiamano storico. Or, restando tuttavia nella teoria della evoluzione, vuole di più osservarsi che quantunque i bisogni servano di stimolo per la evoluzione, essa nondimeno, regolata unicamente da siffatti stimoli, valicherebbe facilmente i termini della tradizione, e strappata così dal primitivo principio vitale, meglio che a progresso menerebbe a rovina. Quindi studiando più a fondo il pensiero dei modernisti, deve dirsi che l’evoluzione è come il risultato di due forze che si combattono, delle quali una è progressiva, l’altra conservatrice. La forza conservatrice sta nella Chiesa e consiste nella tradizione. L’esercizio di lei è proprio dell’autorità religiosa; e ciò, sia per diritto, giacché sta nella natura di qualsiasi autorità il tenersi fermo il più possibile alla tradizione; sia per fatto, perché sollevata al disopra delle contingenze della vita, poco o nulla sente gli stimoli che spingono a progresso. Per contrario la forza che, rispondendo ai bisogni, trascina a progredire, cova e lavora nelle coscienze individuali, in quelle soprattutto che sono, come dicono, più a contatto della vita. Osservate qui di passaggio, o Venerabili Fratelli, lo spuntar fuori di quella dottrina rovinosissima che introduce il laicato nella Chiesa come fattore di progresso. Da una specie di compromesso fra le due forze di conservazione e di progressione, fra l’autorità cioè e le coscienze individuali, nascono le trasformazioni e i progressi. Le coscienze individuali, o talune di esse, fan pressione sulla coscienza collettiva; e questa a sua volta sull’autorità, e la costringe a capitolare ed a restare ai patti. Ciò ammesso, ben si comprendono le meraviglie che fanno i modernisti, se avvenga che siano biasimati o puniti. Ciò che loro si ascrive a colpa, essi l’hanno per sacrosanto dovere. Niuno meglio di essi conosce i bisogni delle coscienze perché si trovano con queste a più stretto contatto che non si trovi la potestà ecclesiastica. Incarnano quasi in sé quei bisogni tutti: e quindi il dovere per loro di parlare apertamente e di scrivere. Li biasimi pure l’Autorità, la coscienza del dovere li sostiene, e sanno per intima esperienza di non meritare riprensioni ma encomii. Pur troppo essi sanno che i progressi non si hanno senza combattimenti, né combattimenti senza vittime: e bene, saranno essi le vittime, come già i profeti e Cristo. Né perché siano trattati male, odiano l’Autorità: concedono che ella adempia il suo dovere. Solo rimpiangono di non essere ascoltati, perché in tal guisa il progredire degli animi si ritarda: ma verrà senza meno il tempo di rompere gl’indugi, giacché le leggi dell’evoluzione si possono raffrenare, ma non possono affatto spezzarsi. E così continuano il lor cammino, continuano benché ripresi e condannati, celando un’incredibile audacia col velo di un’apparente umiltà. Piegano fintamente il capo: ma la mano e la mente proseguono con più ardimento il loro lavoro. E così essi operano scientemente e volentemente; sì perché è loro regola che l’Autorità debba essere spinta, non rovesciata; si perché hanno bisogno di non uscire dalla cerchia della Chiesa per poter cangiare a poco a poco la coscienza collettiva; il che quando dicono, non si accorgono di confessare che la coscienza collettiva dissente da loro, e che quindi con nessun diritto essi si danno interpreti della medesima. Per detto adunque e per fatto dei modernisti nulla, o Venerabili Fratelli, vi deve essere di stabile, nulla di immutabile nella Chiesa. Nella qual sentenza non mancarono ad essi dei precursori, quelli cioè dei quali il Nostro Predecessore Pio IX già scriveva: “Questi nemici della divina rivelazione, che estollono con altissime lodi l’umano progresso, vorrebbero, con temerario e sacrilego ardimento, introdurlo nella cattolica Religione, quasi che la stessa Religione fosse opera non di Dio ma degli uomini o un qualche ritrovato filosofico che con mezzi umani possa essere perfezionato” (Enc. “Qui pluribus“, 9 nov. 1846). Circa la rivelazione specialmente e circail dogma, la dottrina dei modernisti non ha filo di novità; ma è quella stessa che nel Sillabo di Pio IX ritroviamocondannata, così espressa: “La divina rivelazione è imperfetta e perciò soggetta a continuo ed indefinito progresso, che risponda a quello dell’umana ragione” (Sillabo, Prop. V); più solennemente poi la troviamo riprovatadal Concilio Vaticano in questi termini: “Né la dottrina della fede, che Dio rivelò, è proposta agli umani ingegni da perfezionare come un ritrovato filosofico, ma come un deposito consegnato alla Sposa di Cristo, da custodirsi fedelmente e da dichiararsi infallibilmente. Quindi dei sacri dogmi altresì deve sempre ritenersi quel senso che una volta dichiarò la Santa Madre Chiesa, né mai deve allontanarsi da quel senso sotto pretesto e nome di più alta intelligenza” (Const. Dei Filius, cap. IV). Col che senza dubbio l’esplicazione nelle nostrecognizioni, anche circa la fede, tanto è lungi che venga impedita, che anzi ne è aiutata e promossa. Laondelo stesso Concilio prosegue dicendo: “Cresca dunque e molto e con slancio progredisca l’intelligenza, la scienza, la sapienza così dei singoli come di tutti, così di un sol uomo come di tutta la Chiesa coll’avanzare delle età e dei secoli; ma solo nel suo genere, cioè nello stesso dogma, nello stesso senso e nella stessa sentenza” (Loc. cit.).

[In questa parte dell’Enciclica, il Santo Padre continua a sviscerare gli errori dei modernisti, questa volta sottolineando il metodo operativo degli storici, dei critici della storia, degli apologeti, metodo nel quale è onnipresente la filosofia immanentista, con le teorie evoluzioniste, vitaliste ed agnostiche, … “metodo e dottrine infarciti di errori, atti non ad edificare, ma a distruggere; non a far dei Cattolici, ma a trascinare i Cattolici nella eresia, anzi alla distruzione totale d’ogni religione!”, come si legge nella lettera. L’analisi è lucida e stringente e non lascia spazio a farfugliamenti difensivi vani, ad ermeneutiche da “azzeccagarbugli” e ventriloqui vari in talare rosse o nera o bianca, perché sarebbero pura menzogna. Quel che più interessa oggi, è che chiunque abbia ancora un granello di sale “nella zucca” può constatare come queste immondezze teologiche, storiche, filosofiche, etc. siano di gran moda e siano tutte “cavalli di battaglia” della nuova falsa “chiesa dell’uomo”, quella edificata scaltramente dagli infiltrati della quinta colonna massonica, che detengono oggi nelle loro mani ciò che resta della Chiesa Cattolica apparente! Da queste osservazioni magisteriali contenute nella Pascendi, tutti possono capire con facilità, senza bisogno di altro aggiungere, da che parte è oggi la vera Chiesa, quella fondata da Gesù Cristo il Messia, contro il quale combattono gli avversari di sempre, atei, pagani, Giudei e kazari, infedeli, scismatici, ai quali si aggiungono gli avversari più subdoli attuali, gli gnostici di sempre infiltrati come “cavallo di Troia” nel Tempio santo di Dio, l’abominio della desolazione del “novus ordo”, istallato sugli altari delle chiese un tempo cattoliche, oggi appannaggio e pietre cancrenose della “sinagoga di satana”. Questo abominio della desolazione odierna ha un nome: è il modernismo postconciliare, mostro eruttante tutte le eresie possibili ed immaginabili …, non ultima la cancellazione del peccato contro lo Spirito Santo, quello che il Redentore dichiara non potersi perdonare né in cielo né in terra: il peccato impuro contro natura! Orrore! orrore! … che Dio, con l’ausilio della Santa Vergine e dell’Arcangelo Michele alla guida degli Angeli giustizieri, ci liberi! Ma leggiamo con calma ed intelletto – ndr. -].

“Ma ormai, dopo aver osservato nei seguaci del modernismo il filosofo, il credente, il teologo, resta che osserviamoparimente lo storico, il critico, l’apologista.Taluni dei modernisti, che si dànno a scrivere storia, paiono oltremodo solleciti di non passar per filosofi; cheanzi professano di essere affatto ignari di filosofia. È ciò un tratto di finissima astuzia: affinché nessuno credache essi siano infetti di pregiudizi filosofici e non siano perciò, come dicono, affatto obbiettivi. Ma il vero è, chela loro storia o critica non parla che con la lingua della filosofia; e le conseguenze che traggono, vengono digiusto raziocinio dai loro principî filosofici. Il che, a chi bene riflette, si fa subito manifesto. I primi tre canoni diquesti tali storici o critici sono quegli stessi principî, che sopra riportammo dai filosofi: cioè l’agnosticismo, ilteorema della trasfigurazione delle cose per la fede, e l’altro che Ci parve poter chiamare dello sfiguramento.Osserviamo le conseguenze che da ciascuno di questi si traggono. Dall’agnosticismo si ha che la storia, nonmeno che la scienza, si occupa solo dei fenomeni. Dunque, tanto Dio quanto un intervento qualsiasi divinonelle cose umane deve rimandarsi alla fede come di esclusiva sua pertinenza. Per lo che se trattasi di cosa incui s’incontri un duplice elemento, divino ed umano come Cristo, la Chiesa, i Sacramenti e simili, dovrà dividersie sceverarsi in modo che ciò che è umano si dia alla storia, ciò che è divino alla fede. Quindi quella distinzionecomune fra i modernisti, fra un Cristo storico ed un Cristo della fede, una Chiesa della storia ed unaChiesa della fede, fra Sacramenti della storia e Sacramenti della fede e via dicendo. Dipoi questo stesso elementoumano, che vediamolo storico prendersi per sé quale essa si porge nei monumenti, deve ritenersi sollevatodalla fede per trasfigurazione al di là delle condizioni storiche. Conviene perciò separarne di nuovo tuttele aggiunte fattevi: cosi, trattandosi di Gesù Cristo, tutto quello che passa la condizione dell’uomo sia naturale,quale si dà dalla psicologia, sia risultante dal luogo e dal tempo in che visse. Di più, per terzo principiofilosofico, pur quelle cose che non escono dalla cerchia della storia, le vagliano quasi e ne escludono, rimandandolo parimenti alla fede, tutto ciò che, secondo quanto dicono, non entra nella logica dei fatti o non era adatto alle persone. Di tal modo, vogliono che Cristo non abbia dette le cose che non sembrano essere alla portata del volgo. Quindi dalla storia reale di Lui cancellano e rimettono alla fede tutte le allegorie che incontransi nei suoi discorsi. Si vuol forse sapere con quali regole si compia questa cernita? Con quella del carattere dell’uomo, della condizione che ebbe nella società, della educazione, delle circostanze di ciascun fatto: a dir breve con una norma, se bene intendiamo, che si risolve per ultimo in mero soggettivismo. Si studiano cioé di prendere essi e quasi rivestire la persona di Gesù Cristo; ed a Lui ascrivono senza più quanto in simili circostanze avrebbero fatto essi stessi. Così dunque, per conchiudere, a priori, come suol dirsi, e coi principî di una filosofia, che essi ammettono ma ci asseriscono d’ignorare, nella storia che chiamano reale affermano Cristo non essere Dio né aver fatto nulla di divino; come uomo poi aver Lui fatto e detto quel tanto, che essi, riferendosi al tempo in cui Egli visse, Gli consentono di aver operato e parlato. Come poi la storia riceve dalla filosofia le sue conclusioni, così la critica le ha a sua volta dalla storia. Essendoché il critico seguendo gli indizi dati dallo storico, di tutti i documenti ne fa due parti. Tutto ciò che rimane, dopo il triplice taglio or ora descritto, lo assegna alla storia reale; il restante lo confina alla storia della fede, ossia alla storia interna. Giacché queste due storie distinguono diligentemente i modernisti; e, ciò che e ben da notarsi, alla storia della fede contrappongono la storia reale in quanto è reale. Perciò, come già si è detto, un doppio Cristo; l’uno reale, l’altro che veramente non mai esisté ma appartiene alla fede; l’uno che visse in determinato luogo e tempo, l’altro che solo s’incontra nelle pie meditazioni della fede; tale, per mo’ d’esempio, è il Cristo descrittoci nell’Evangelio giovanneo, il qual Vangelo, affermano, non è che una meditazione. Ma qui non si arresta il dominio della filosofia nella storia. Fatta, come dicemmo, la divisione dei documenti in due parti, si presenta di nuovo il filosofo col suo principio dell’immanenza vitale, e prescrive che tutto quanto è nella storia della Chiesa debba spiegarsi per vitale emanazione. E poiché la causa o condizione di qualsiasi emanazione vitale deve ripetersi da un bisogno, si avrà che ogni avvenimento si dovrà concepire dopo il bisogno, e dovrà storicamente ritenersi posteriore a questo. Che fa allora lo storico? Datosi a studiar di nuovo i documenti, tanto nei Libri sacri quanto ricevuti altronde, va tessendo un catalogo dei singoli bisogni che man mano si presentarono nella Chiesa sia per riguardo al dogma, sia per riguardo al culto od altre materie: e quel catalogo trasmette poscia al critico. E questi mette indi mano ai documenti destinati alla storia della fede e li distribuisce in guisa di età in età, che rispondano al datogli elenco; rammentando sempre il precetto che il fatto è preceduto dal bisogno e la narrazione dal fatto. Potrà ben darsi talora che talune parti della Sacra Scrittura, come le Epistole, siano esse stesse il fatto creato dal bisogno. Checché sia però, deve aversi per regola che l’età di un documento qualsiasi non può determinarsi se non dall’età in cui ciascun bisogno si è manifestato nella Chiesa. – Di più è da distinguere fra l’inizio di un fatto e la sua esplicazione; poiché ciò che può nascere in un giorno, non cresce se non col tempo. E questa è la ragione perché il critico debba nuovamente spartire in due i documenti già disposti per età, sceverando quelli che riguardano le origini di un fatto da quelli che appartengono al suo svolgimento, e questi eziandio ordini secondo il succedersi dei tempi. – Ciò fatto, entra di nuovo in scena il filosofo, ed impone allo storico di compiere i suoi studi a seconda dei precetti e delle leggi dell’evoluzione. E lo storico torna a scrutare i documenti, ricerca sottilmente le circostanze e condizioni nelle quali, col succedersi dei tempi, la Chiesa si è trovata, i bisogni così interni che esterni che l’hanno spinta a progresso, gli ostacoli che incontrò: a dir breve, tutto ciò che giovi a determinare il modo onde furono mantenute le leggi della evoluzione. Compiuto un tal lavoro, egli finalmente tesse nelle sue linee principali la storia dello sviluppo dei fatti. – Segue il critico, che a questo tema storico adatta il restante dei documenti. Si dà mano a stendere la narrazione: la storia è compiuta. Or qui chiediamo, a chi dovrà attribuirsi una simile storia? allo storico forse od al critico? Per fermo né all’uno all’altro, sì bene al filosofo. Tutto il lavoro di essa è un lavoro di apriorismo, e di apriorismo riboccante di eresie. Fanno certamente pietà questi uomini, dei quali l’Apostolo ripeterebbe: “Svanirono nei pensamenti… imperocché vantandosi di essere sapienti, son divenuti stolti” (Rom., I, 21, 22); ma muovono in pari tempo a sdegno, quando poi accusano la Chiesa di manipolare i documenti in guisa da farli servire ai propri vantaggi. Addebitano cioè alla Chiesa ciò che dalla propria coscienza sentono apertamente rimproverarsi. Dall’avere così disgregati i documenti e seminatili lungo le età, segue naturalmente che i Libri sacri non possano di fatto attribuirsi agli autori, dei quali portano il nome. E questo è il motivo perché i modernisti non esitano punto nell’affermare che quei libri, e specialmente il Pentateuco ed i tre primi Vangeli, da una breve narrazione primitiva, son venuti man mano crescendo per aggiunte o interpolazioni, sia a maniera di interpretazioni o teologiche o allegoriche, sia a modo di transizioni che unissero fra sé le parti. A dir più breve e più chiaro vogliono che debba ammettersi la evoluzione vitale dei Libri sacri, nata dalla evoluzione della fede e ad essa corrispondente. Aggiungono di più, che le tracce di cotale evoluzione sono tanto manifeste, da potersene quasi scrivere una storia. La scrivono anzi questa storia, e con tanta sicurezza che si sarebbe tentati a creder aver essi visto coi propri occhi i singoli scrittori che di secolo in secolo stesero la mano all’ampliazione delle sante Scritture. A conferma di che, chiamano in aiuto la critica che dicono testuale; e si adoprano di persuadere che questo o quel fatto, questo o quel discorso non si trovi al suo posto e recano altre ragioni del medesimo stampo. Direbbesi per verità che si sieno prestabiliti certi quasi-tipi di narrazioni o parlate, che servano di criterio certissimo per giudicare ciò che stia al suo posto e ciò che sia fuor di luogo. Con siffatto metodo stimi chi può come costoro debbano essere capaci di giudicare. Eppure, chi li ascolti ad oracolare dei loro studi sulle Scritture, pei quali han potuto scoprirvi si gran numero di incongruenze, è spinto a credere che nessun uomo prima di loro abbia sfogliato quei libri, né che li abbia ricercati per ogni verso una quasi infinita schiera di Dottori, per ingegno, per scienza, per santità di vita più di loro. I quali Dottori sapientissimi, tanto fu lungi che trovassero nulla da riprendere nei Libri santi, che anzi quanto più ringraziavano Iddio, che si fosse così degnato di parlare con gli uomini. Ma purtroppo i Dottori nostri non attesero allo studio delle Scritture con quei mezzi, onde son forniti i modernisti! Cioè non ebbero a maestra e condottiera una filosofia che trae principio dalla negazione di Dio, né fecero a se stessi norma di giudicare. Crediamo adunque che sia ormai posto in luce il metodo storico dei modernisti. Precede il filosofo; segue lo storico; tengon dietro per ordine la critica interna e la testuale. E poiché la prima causa questo ha di proprio che comunica la sua virtù alle seconde, è evidente che siffatta critica non è una critica qualsiasi, ma una critica agnostica, immanentista, evoluzionista; e perciò chi la professa o ne fa uso, professa gli errori in essa racchiusi e si pone in contraddizione colla Dottrina Cattolica. Per la quale cosa non può finirsi di stupire come una critica di tal genere possa oggidì aver tanta voga presso cattolici. Di ciò può assegnarsi una doppia causa: la prima è l’alleanza onde gli storici ed i critici di questa specie sono legati fra loro senza riguardi a diversità di nazioni o di credenze; la seconda è l’audacia indicibile, con cui ogni stranezza che uno di loro proferisca, dagli altri è levata al cielo e decantata qual progresso della scienza; con cui, se taluno voglia da se stesso verificare il nuovo ritrovato, serratisi insieme lo assalgono, se talun lo neghi lo trattano da ignorante, se lo accolga e lo difenda lo ricoprono di encomî. Così non pochi restano ingannati che forse, se meglio vedessero le cose, ne sarebbero inorriditi. Da questo prepotente imporsi dei fuorviati, da questo incauto assentimento di animi leggeri nasce poi un quasi corrompimento di atmosfera che tutto penetra e diffonde per tutto il contagio. – Ma passiamo all’apologista. Costui, nei modernisti, dipende ancor esso doppiamente dal filosofo. Prima indirettamente, pigliando per sua materia la storia scritta, come vedemmo, dietro le norme del filosofo: poi direttamente accettando dal filosofo i principî e i giudizî. Quindi quel comune precetto della scuola del modernismo che la nuova apologia debba dirimere le controversie religiose per via di ricerche storiche e psicologiche. Ond’è che gli apologisti dan capo al loro lavoro coll’ammonire i razionalisti che essi difendono la Religione non coi Libri sacri né con le storie volgarmente usate nella Chiesa e scritte alla vecchia moda; ma con la storia reale composta a seconda dei moderni precetti e con metodo moderno. E ciò dicono, non quasi argomentando ad hominem, ma perché difatti credono che solo in tale storia si trovi la verità. Non si curano poi, nello scrivere, di insistere sulla propria sincerità: sono essi già noti presso i razionalisti, sono già lodati siccome militanti sotto una stessa bandiera; della quale lode, che ad un Cattolico dovrebbe fare ribrezzo, essi si compiacciono o se ne fanno scudo contro le riprensioni della Chiesa. Ma vediamo in pratica come uno di costoro compia la sua apologia. Il fine che si propone è di condurre l’uomo che ancora non crede a provare in sé quella esperienza della Cattolica Religione che, secondo i modernisti, è base della fede. Due vie perciò gli si aprono, l’una oggettiva, l’altra soggettiva. La prima muove dall’agnosticismo; e tende a dimostrare come nella religione e specialmente nella cattolica vi sia tale virtù vitale, da costringere ogni savio psicologo e storico ad ammettere che nella storia di essa si nasconda alcun che di incognito. A tale scopo fa d’uopo provare che la Religione Cattolica qual è al presente, è la stessissima che Gesù Cristo fondò, ossia il progressivo sviluppo del germe recato da Gesù Cristo. Pertanto dovrà dapprima determinarsi quale esso sia questo germe. Pretendono di esprimerlo con la seguente formula: Cristo annunciò la venuta del regno di Dio, il quale regno dovrebbe aver fra breve il suo compimento, ed Egli ne sarebbe il Messia, cioè l’esecutore stabilito da Dio e l’ordinatore. Dopo ciò converrà dimostrare come questo germe, sempre immanente nella Religione Cattolica, di mano in mano e di pari passo con la storia, siasi sviluppato e sia venuto adattandosi alle successive circostanze, da queste vitalmente assimilandosi quanto gli si affacesse di forme dottrinali, culturali, ecclesiastiche; superando nel tempo stesso gli ostacoli, sbaragliando i nemici, e sopravvivendo ad ogni sorta di contraddizioni o di lotte. Dopo che tutto questo, cioè gl’impedimenti, i nemici, le persecuzioni, i combattimenti, come pure la vitalità e fecondità della Chiesa, siansi mostrati tali che, quantunque nella storia della stessa Chiesa si scorgano serbate le leggi della evoluzione, pure queste non bastano a pienamente spiegarla: l’incognito sarà dl fronte e si presenterà da sé stesso. Fin qui i modernisti. I quali, però, in tutto questo discorrere, non pongon mente a una cosa; e cioè, che quella determinazione del germe primitivo è tutto frutto dell’apriorismo del filosofo agnostico ed evoluzionista, e che il germe stesso è così gratuitamente da loro definito pel buon giuoco della loro causa. Mentre però i nuovi apologisti, cogli argomenti arrecati, si studiano di affermare e persuadere la Religione Cattolica, non han riguardo a concedere che in essa molte cose sono che spiacciono. Che anzi, con una mal velata voluttà, van ripetendo pubblicamente che anche in materia dogmatica ritrovano errori e contraddizioni; benché soggiungano, che tali errori e contraddizioni non solo meritano scusa, ma, ciò che è più strano, sono da legittimarsi e giustificarsi. Così pure, secondo essi, nelle sacre Scritture corrono moltissimi sbagli in materia scientifica e storica. Ma, dicono, non sono quelli, libri di scienza o di storia, sì bene di religione e di morale, ove la scienza e la storia sono involucri con cui si coprono le esperienze religiose e morali per meglio propagarsi nel pubblico; il quale pubblico non intendendo altrimenti, una scienza od una storia più perfetta sarebbe gli stata non di vantaggio ma di nocumento. Del resto, aggiungono, i Libri sacri, perché di lor natura religiosi, sono essenzialmente viventi: or la vita ha pur essa la sua verità e la sua logica; diversa certamente dalla verità e logica razionale, anzi di tutt’altro ordine, verità cioè di comparazione e proporzione sia coll’ambiente in cui si vive, sia col fine per cui si vive. Finalmente a tanto estremo essi giungono ad affermare, senza attenuazione di sorta, che tutto ciò che si spiega con la vita è vero e legittimo. – Noi, Venerabili Fratelli, pei quali la verità è una ed unica, e che riteniamo i sacri Libri come quelli che “scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno per autore Iddio” (Conc. Vat., De Rev. c. 2), affermiamo ciò essere il medesimo che attribuire a Dio la menzogna di utilità o officiosa; e con le parole di Sant’Agostino protestiamo che: “Ammessa una volta in così altissima autorità qualche bugia officiosa, nessuna particella di quei libri resterà che, sembrando ad alcuno ardua per costume o incredibile per la fede, con la stessa perniciosissima regola, non si riferisca a consiglio o vantaggio dell’autore menzognero” (Epist. 28). Dal che seguirà quel che lo stesso santo Dottore aggiunge: “In esse – cioè nelle Scritture – ciascuno crederà quel che vuole, quel che non vuole non crederà“. Ma i modernisti apologeti non si dàn pensiero di tanto. Concedono di più trovarsi talora nei Libri santi dei ragionamenti, per sostenere una qualche dottrina, che non si appoggiano a verun ragionevole fondamento, come son quelli che si basano sulle profezie. Vero è che anche questi menan per buoni come artifizî di predicazione legittimati dalla vita. Che più? Concedono, anzi sostengono, che Gesù Cristo stesso errò manifestamente nell’assegnare il tempo della venuta del regno di Dio: ma ciò, secondo essi, non può fare meraviglia, perché Egli ancora era sottoposto alle leggi della vita! Che sarà dopo ciò dei dogmi della Chiesa? Riboccano pur questi di aperte contraddizioni; ma, oltreché sono ammesse dalla logica della vita, non si oppongono alla verità simbolica; giacché si tratta in essi dell’infinito, che ha infiniti rispetti. A far breve, talmente approvano e difendono siffatte teorie, che non si peritano di dichiarare non potersi rendere all’infinito omaggio più nobile, come affermando di esso cose contraddittorie! Ed ammessa così la contraddizione, quale assurdo non si ammetterà? Oltre agli argomenti oggettivi, il non credente può essere disposto alla fede anche con soggettivi. In questo caso gli apologeti modernisti si rifanno sulla dottrina della immanenza. Si adoprano cioè a convincer l’uomo, che in lui stesso e negli intimi recessi della sua natura e della sua vita si cela il desiderio e il bisogno di una religione, né di una religione qualsiasi, ma tale quale è appunto la cattolica; giacché questa, dicono, è postulata onninamente dal perfetto sviluppo della vita. E qui di bel nuovo siam costretti a lamentarCi gravemente che non mancano Cattolici i quali, benché rigettino la dottrina dell’immanenza come dottrina, pure se ne giovano per l’apologetica; e ciò fanno con sì poca cautela, da sembrare ammettere nella natura umana non pure una capacità od una convenienza per l’ordine soprannaturale, ciò che gli apologisti cattolici, con le debite restrizioni, dimostrarono sempre, ma una stretta e vera esigenza. A dir più giusto però, questa esigenza della Religione Cattolica è sostenuta dai modernisti più moderati. Quelli fra costoro che potremmo chiamare integralisti, pretendono che si debba indicare all’uomo, che ancor non crede, latente in lui lo stesso germe che fu nella coscienza di Cristo e da Cristo trasmesso agli uomini. Ed eccovi, o Venerabili Fratelli, descritto per sommi capi il metodo apologetico dei modernisti, in tutto conforme alle loro dottrine: metodo e dottrine infarciti di errori, atti non ad edificare, ma a distruggere; non a far dei cattolici, ma a trascinare i cattolici nella eresia, anzi alla distruzione totale d’ogni religione! – Restano per ultimo a dir poche cose del modernista in quanto la pretende a riformatore. Già le cose esposte finora ci provano abbondantemente da quale smania di innovazione siano rôsi codesti uomini. E tale smania ha per oggetto quanto vi è nel cattolicismo. Vogliono riformata la filosofia specialmente nei Seminarî: sì che relegata la filosofia scolastica alla storia della filosofia in combutta cogli altri sistemi passati di uso, si insegni ai giovani la filosofia moderna, unica, vera e rispondente ai nostri tempi. A riformare la teologia, vogliono che quella, che diciamo teologia razionale, abbia per fondamento la moderna filosofia. Chiedono inoltre che la teologia positiva si basi principalmente sulla storia dei dogmi. Anche la storia chiedono che si scriva e si insegni con metodi loro e precetti nuovi. Dicono che i dogmi e la loro evoluzione debbano accordarsi con la scienza e la storia. Per il catechismo esigono che nei libri catechistici si inseriscano solo quei dogmi, che sieno stati riformati e che sieno a portata dell’intelligenza del volgo. Circa il culto, gridano che si debbano diminuire le devozioni esterne e proibire che si aumentino. Benché a dir vero, altri più favorevoli al simbolismo, si mostrino in questa parte più indulgenti. Strepitano a gran voce perché il regime ecclesiastico debba essere rinnovato per ogni verso, ma specialmente pel disciplinare e il dogmatico. Perciò pretendono che dentro e fuori si debba accordare con la coscienza moderna, che tutta è volta a democrazia; perché dicono doversi nel governo dar la sua parte al clero inferiore e perfino al laicato, e decentrare, Ci si passi la parola, l’autorità troppo riunita e ristretta nel centro. Le Congregazioni romane si devono svecchiare: e, in capo a tutte, quella del Santo Officio e dell’Indice. Deve cambiarsi l’atteggiamento dell’autorità ecclesiastica nelle questioni politiche e sociali, talché si tenga essa estranea dai civili ordinamenti, ma pur vi si acconci per penetrarli del suo spirito. In fatto di morale, danno voga al principio degli americanisti, che le virtù attive debbano anteporsi alle passive, e di quelle promuovere l’esercizio, con prevalenza su queste. Chiedono che il clero ritorni all’antica umiltà e povertà; ma lo vogliono di mente e di opere consenziente coi precetti del modernismo. Finalmente non mancano coloro che, obbedendo volentierissimo ai cenni dei loro maestri protestanti, desiderano soppresso nel sacerdozio lo stesso sacro celibato. Che si lascia dunque d’intatto nella Chiesa, che non si debba da costoro e secondo i lor principî riformare? – In tutta questa esposizione della dottrina dei modernisti vi saremo sembrati, o Venerabili Fratelli, prolissi forse oltre il dovere. Ma è stato ciò necessario, sì per non sentirCi accusare, come suole, di ignorare le loro cose, e sì perché si veda che, quando parlasi di modernismo, non parlasi di vaghe dottrine non unite da alcun nesso, ma di un unico corpo e ben compatto, ove chi una cosa ammetta uopo è che accetti tutto il rimanente. Perciò abbiam voluto altresì far uso di una forma quasi didattica, né abbiamo ricusato il barbaro linguaggio onde i modernisti fanno uso. Ora, se quasi di un solo sguardo abbracciamo l’intero sistema, niuno si stupirà ove Noi lo definiamo, affermando esser esso la sintesi di tutte le eresie. Certo, se taluno si fosse proposto di concentrare quasi il succo ed il sangue di quanti errori circa la fede furono sinora asseriti, non avrebbe mai potuto riuscire a far meglio di quel che han fatto i modernisti. Questi anzi tanto più oltre si spinsero che, come già osservammo, non pure il Cattolicesimo ma ogni qualsiasi religione hanno distrutta. Così si spiegano i plausi dei razionalisti: perciò coloro, che fra i razionalisti parlano più franco ed aperto, si rallegrano di non avere alleati più efficaci dei modernisti. E per fermo, rifacciamoci alquanto, o Venerabili Fratelli, a quella esizialissima dottrina dell’agnosticismo. Con essa, dalla parte dell’intelletto, è chiusa all’uomo ogni via per arrivare a Dio, mentre si pretende di aprirla più acconcia per parte di un certo sentimento e dell’azione. Ma chi non iscorge quanto vanamente ciò si affermi? Il sentimento risponde sempre all’azione di un oggetto, che sia proposto dall’intelletto o dal senso. Togliete di mezzo l’intelletto; l’uomo, già portato a seguire il senso, lo seguirà con più impeto. Di più, le fantasie, quali che esse siano, di un sentimento religioso non possono vincere il senso comune: ora questo insegna che ogni perturbazione od occupazione dell’animo non è di aiuto ma d’impedimento alla ricerca del vero; del vero, diciamo, quale è in se; giacché quell’altro vero soggettivo, frutto del sentimento interno e dell’azione, se è acconcio per giocare di parole, poco interessa l’uomo a cui soprattutto importa di conoscere se siavi o no fuori di lui un Dio, nelle cui mani una volta dovrà cadere. Ricorrono, a vero dire, i modernisti per aiuto all’esperienza. Ma che può aggiungere questa al sentimento? Nulla: solo potrà renderlo più intenso: dalla quale intensità sia proporzionatamente resa più ferma la persuasione della verità dell’oggetto. Ma queste due cose non faranno si che il sentimento lasci di essere sentimento, né ne cangiano la natura sempre soggetta ad inganno, se l’intelletto non lo scorga; anzi la confermano e la rinforzano, giacché il sentimento quanto è più intenso tanto a miglior diritto è sentimento. Trattandosi poi qui di sentimento religioso e di esperienza in esso contenuta, sapete bene, o Venerabili Fratelli, di quanta prudenza sia mestieri in siffatta materia e di quanta scienza che regoli la stessa prudenza. Lo sapete dalla pratica delle anime, di talune, in specialità, in cui domina il sentimento: lo sapete dalla consuetudine dei trattati di ascetica; i quali, quantunque disprezzati da costoro, contengono più solidità di dottrina e più sagacia di osservazione che non ne vantino i modernisti. A Noi per fermo sembra cosa da stolto o almeno da persona al sommo imprudente, ritener per vere, senza esame di sorta, queste intime esperienze quali dai modernisti si spacciano. Perché allora, lo diciamo qui di passata, perché, se queste esperienze hanno si grande forza e certezza, non l’avrà uguale quella esperienza che molte migliaia di cattolici affermano di avere, che i modernisti cioè battono un cammino sbagliato? Sola questa esperienza sarebbe falsa e ingannevole? La massima parte degli uomini ritiene fermamente e sempre riterrà che col solo sentimento e colla sola esperienza senza guida e lume dell’intelletto, mai non si potrà giungere alla conoscenza di Dio. Dunque resta di nuovo o l’ateismo o l’irreligione assoluta. Né i modernisti hanno nulla a sperar di meglio dalla loro dottrina del simbolismo. Imperciocché se tutti gli elementi che dicono intellettuali non sono che puri simboli di Dio, perché non sarà un simbolo il nome stesso di Dio o di personalità divina? E se è cosi, si potrà bene dubitare della stessa divina personalità, ed avremo aperta la via al panteismo. E qua similmente, cioè al puro panteismo, mena l’altra dottrina dell’immanenza divina. Giacché domandiamo: siffatta immanenza distingue o no Iddio dall’uomo? Se lo distingue, in che differisce adunque cotal dottrina dalla cattolica? o perché mai rigetta quella della esterna rivelazione? Se poi non lo distingue, eccoci di bel nuovo col panteismo. Ma difatto l’immanenza dei modernisti vuole ed ammette che ogni fenomeno di coscienza nasca dall’uomo in quanto uomo. Dunque di legittima conseguenza inferiamo che Dio e l’uomo sono la stessa cosa; e perciò il panteismo. Finalmente pari è la conseguenza che si trae dalla loro decantata distinzione fra la scienza e la fede. L’oggetto della scienza lo pongono essi nella realtà del conoscibile; quello della fede nella realtà dell’inconoscibile. Orbene l’inconoscibile è tale per la totale mancanza di proporzione fra l’oggetto e la mente. Ma questa mancanza di proporzione, secondo gli stessi modernisti, non potrà mai esser tolta. Dunque l’inconoscibile resterà sempre inconoscibile tanto pel credente quanto pel filosofo. Dunque se si avrà una religione, questa sarà della realtà dell’inconoscibile. La quale realtà perché poi non possa essere l’anima universale del mondo, come l’ammettono taluni razionalisti, noi nol vediamo. Ma basti sin qui per conoscere per quante vie la dottrina del modernismo conduca all’ateismo e alla distruzione di ogni religione. L’errore dei protestanti dié il primo passo in questo sentiero; il secondo è del modernismo: a breve distanza dovrà seguire l’ateismo. – A più intimamente conoscere il modernismo e a trovare più acconci rimedi a sì grave malore, gioverà ora, o Venerabili Fratelli, ricercare alquanto le cause, onde esso è nato ed è venuto crescendo. Non ha dubbio che la prima causa ed immediata sta nell’aberrazione dell’intelletto. Quali cause remote due Noi ne riconosciamo:la curiosità e la superbia. La curiosità, se non saggiamente frenata, basta di per sé sola a spiegare ogni fatta di errori. Per lo che il Nostro Predecessore Gregorio XVI a buon diritto scriveva (Lett. Enc. “Singulari Nos”, 25 giugno 1834): “È grandemente da piangere nel vedere fin dove si profondino i deliramenti dell’umana ragione, quando taluno corra dietro alle novità, e, contro l’avviso dell’Apostolo, si adoperi di saper più che saper non convenga, e confidando troppo in se stesso, pensi dover cercare la verità fuori della Chiesa cattolica, in cui, senza imbratto di pur lievissimo errore, essa si trova“. Ma ad accecare l’animo e trascinarlo nell’errore assai più di forza ha in sé la superbia: la quale, trovandosi nella dottrina del modernismo quasi in un suo domicilio, da essa trae alimento per ogni verso e riveste tutte le forme. Per la superbia infatti costoro presumono audacemente di se stessi e si ritengono e si spacciano come norma di tutti. Per la superbia si gloriano vanissimamente quasi essi soli possiedano la sapienza, e dicono gonfi e pettoruti: “Noi non siamo come il rimanente degli uomini“; e per non essere di fatto posti a paro degli altri, abbracciano e sognano ogni sorta di novità, le più assurde. Per la superbia ricusano ogni soggezione, e pretendono che l’autorità debba comporsi colla libertà. Per la superbia, dimentichi di se stessi, pensano solo a riformare gli altri, né rispettano in ciò qualsivoglia grado fino alla potestà suprema. No, per giungere al modernismo, non vi è sentiero più breve e spedito della superbia. Se un laico cattolico, se un sacerdote dimentichi il precetto della vita cristiana che c’impone di rinnegare noi stessi se vogliamo seguire Gesù Cristo, né sradichi dal suo cuore la mala pianta della superbia; sì costui è dispostissimo quanto mai a professare gli errori del modernismo! Per lo che, o Venerabili Fratelli, sia questo il primo vostro dovere di resistenza a questi uomini superbi, occuparli negli uffici più umili ed oscuri, affinché siano tanto più depressi quanto più essi s’inalberano, e, posti in basso, abbiano minor campo di nuocere. Inoltre, sia da voi stessi, sia per mezzo dei rettori dei Seminari, cercate con somma diligenza di conoscere i giovani che aspirano ad entrare nel clero; e se alcuno ne troviate di carattere superbo, con ogni risolutezza respingetelo dal sacerdozio. Si fosse cosi operato sempre, colla vigilanza e fortezza che faceva di mestieri! Che se dalle cause morali veniamo a quelle che spettano all’intelletto, la prima da notarsi è l’ignoranza. I modernisti, quanti essi sono, che vogliono apparire e farla da dottori nella Chiesa, esaltando a grandi voci la filosofia moderna e schernendo la scolastica, se hanno abbracciata la prima ingannati dai suoi orpelli, ne devono saper grado alla totale ignoranza in che erano della seconda, e dal mancare perciò di mezzo per riconoscere la confusione delle idee e ribattere i sofismi. Dal connubio poi della falsa filosofia colla fede è sorto il loro sistema, riboccante di tanti e si enormi errori. Alla propagazione del quale portassero almeno un minor zelo ed ardore di quel che fanno! Tanta invece è la loro alacrità, cosi indefesso il lavoro, che da strazio il vedere consumate tante forze a danno della Chiesa, le quali, rettamente usate, le sarebbero di vantaggio grandissimo. A trarre poi in inganno gli animi una doppia tattica essi usano: prima si sbarazzano degli ostacoli, poi cercano con somma cura i mezzi che loro giovino, ed instancabili e pazientissimi li mettono in opera. Degli ostacoli, tre sono i principali che più sentono opposti ai loro conati: il metodo scolastico di ragionare, l’autorità dei Padri con la tradizione, il magistero ecclesiastico. Contro tutto questo la loro lotta è accanita. Deridono perciò continuamente e disprezzano la filosofia e la teologia scolastica. Sia che ciò facciano per ignoranza, sia che il facciano per timore o meglio per l’una cosa insieme e per l’altra; certo si è che la smania di novità va sempre in essi congiunta coll’odio della Scolastica; né vi ha indizio più manifesto che taluno cominci a volgere al modernismo, che quando incominci ad aborrire la Scolastica. Ricordino i modernisti e quanti li favoriscono la condanna che Pio IX inflisse alla proposizione che diceva (Sillabo, Prop. 12): “Il metodo ed i principî, con cui gli antichi Dottori scolastici trattarono la teologia, più non si confanno ai bisogni dei nostri tempi ed ai progressi della scienza“. Sono poi astutissimi nello stravolgere la natura e l’efficacia della Tradizione, alfin di privarla di ogni peso e di ogni autorità. Ma starà sempre per i cattolici l’autorità del secondo Sinodo Niceno, il quale condannò “coloro che osano… secondo gli scellerati eretici, disprezzare le ecclesiastiche tradizioni ed escogitare qualsiasi novità o architettare con malizia ed astuzia di abbattere checché sia delle legittime tradizioni della Chiesa cattolica“. Starà sempre la professione del quarto Sinodo Costantinopolitano: “Noi dunque professiamo di serbare e custodire le regole, che tanto dai santi famosissimi Apostoli, quanto dagli uni versali e locali Concili degli ortodossi o anche da qualunque deiloquo Padre e Maestro della Chiesa, furono date alla santa cattolica ed apostolica Chiesa“. Per lo che i Romani Pontefici Pio IV e Pio IX nella professione di fede vollero aggiunto anche questo: “Io ammetto fermissimamente ed abbraccio le apostoliche ed ecclesiastiche tradizioni, e tutte le altre osservanze e costituzioni della medesima Chiesa“. Né altrimenti che della Tradizione giudicano i modernisti dei santissimi Padri dellaChiesa. Con estrema temerità li spacciano, come degnissimi bensì di ogni venerazione, ma ignorantissimi dicritica e di storia, scusabili solo pei tempi in che vissero. Si studiano infine e si sforzano di attenuare e svilirel’autorità dello stesso Magistero ecclesiastico, sia pervertendo ne sacrilegamente l’origine, la natura, i diritti,sia ricantando liberamente contro di essa le calunnie dei nemici. Del gregge dei modernisti sembra detto ciòche con tanto dolore scriveva il Predecessore Nostro (Motu proprio “Ut mysticam“, 14 marzo 1891): “Per rendere spregiata ed odiosa la mistica Sposa di Cristo, che è la luce vera, i figli delle tenebre furon soliti di opprimerla pubblicamente di una pazza calunnia, e, stravolto il significato e la forza delle cose e delle parole, chiamarla amica di oscurità, mentitrice d’ignoranza, nemica della luce e del progresso delle scienze“. Dopociò, Venerabili Fratelli, qual meraviglia se i cattolici, strenui difensori della Chiesa, son fatti segno dai modernisti di somma malevolenza e di livore? Non vi è specie d’ingiurie con cui non li lacerino: l’accusa più usuale è quella di chiamarli ignoranti ed ostinati. Che se la dottrina e l’efficacia di chi li confuta dà loro timore, ne incidono i nervi colla congiura del silenzio. E questa maniera di fare a riguardo dei cattolici è tanto più odiosa perché nel medesimo tempo e senza modo né misura, con continue lodi esaltano chi sta dalla loro; i libri di costoro riboccanti di novità accolgono ed ammirano con grandi applausi; quanto più alcuno si mostra audace nel distruggere l’antico, nel rigettare la tradizione e il magistero ecclesiastico, tanto più gli dàn vanto di sapiente; e per ultimo, ciò che fa inorridire ogni anima retta, se qualcuno sia con dannato dalla Chiesa non solo pubblicamente e profusamente lo encomiano, ma quasi lo venerano come martire della verità. Da tutto questo strepito di lodi e d’improperi colpiti e turbati gli animi giovanili, da una parte per non passare per ignoranti, dall’altra per parere sapienti spinti internamente dalla curiosità e dalla superbia, si dànno per vinti e passano al modernismo. Ma qui già siamo agli artifici con che i modernisti spacciano la loro merce. Che non tentano essi mai per moltiplicare gli adepti? Nei Seminari e nelle Università cercano di ottenere cattedre da mutare insensibilmente in cattedre di pestilenza. Inculcano le loro dottrine, benché forse velatamente, predicando nelle chiese; le annunciano più aperte nei congressi: le introducono e le magnificano nei sociali istituti. Col nome proprio o di altri pubblicano libri, giornali, periodici. Uno stesso e solo scrittore fa uso talora di molti nomi, perché gli incauti siano tratti in inganno dalla simulata moltitudine degli autori. Insomma coll’azione, colla parola, colla stampa tutto tentano, da sembrar quasi colti da frenesia. E tutto ciò con qual esito? Piangiamo pur troppo gran numero di giovani di speranze egregie e che ottimi servigi renderebbero alla Chiesa, usciti fuori dal retto cammino. Piangiamo moltissimi, che, sebbene non giunti tant’oltre, pure, respirata un’aria corrotta, sogliono pensare, parlare, scrivere più liberamente che non si convenga a cattolici. Si contano costoro fra i laici, si contano fra i sacerdoti; e chi lo crederebbe? si contano altresì nelle stesse famiglie dei Religiosi. Trattano la Scrittura secondo le leggi dei modernisti. Scrivono storia e sotto specie di dir tutta la verità, tutto ciò che sembri gettare ombra sulla Chiesa lo pongono diligentissimamente in luce con voluttà mal repressa. Le pie tradizioni popolari, seguendo un certo apriorismo, cercano a tutta possa di cancellare. Ostentano disprezzo per sacre Reliquie raccomandate dalla loro vetustà. Insomma li punge la vana bramosia che il mondo parli di loro; il che si persuadono che non sarà, se dicono soltanto quello che sempre e da tutti fu detto. Intanto si dànno forse a credere di prestare ossequio a Dio ed alla Chiesa; ma in realtà gravissimamente li offendono, non tanto per quel che fanno, quanto per l’intenzione con cui operano e per l’aiuto che prestano utilissimo agli ardimenti dei modernisti. A questo torrente di gravissimi errori, che di celato e alla scoperta va guadagnando, si adoperò con detti e con fatti di opporsi fortemente Leone XIII Predecessore Nostro di felice ricordanza, specialmente a riguardo delle sante Scritture. Ma i modernisti, lo vedemmo, non si lasciano spaventare facilmente: affettando il maggior rispetto ed una somma umiltà, stravolsero a loro senso le parole del Pontefice, e gli atti di Lui li fecero passare come diretti ad altri. Cosi il male è venuto pigliando forza ogni giorno più. – Abbiamo dunque deciso, o Venerabili Fratelli, di non tergiversare più oltre e di por mano a misure più energiche. Preghiamo perciò e scongiuriamo voi che, in negozio di tanto rilievo, non Ci lasciate minimamente desiderare la vostra vigilanza e diligenza e fortezza. E quel che chiediamo ed aspettiamo da voi, lo chiediamo altresì e lo aspettiamo dagli altri pastori delle anime, dagli educatori e maestri del giovine clero, e specialmente dai Superiori generali degli Ordini religiosi.

I

La prima cosa adunque, per ciò che spetta agli studi, vogliamo e decisamente ordiniamo che a fondamento degli studi sacri si ponga la filosofia scolastica. Bene inteso che, “se dai Dottori scolastici furono agitate questioni troppo sottili o fu alcun che trattato con poca considerazione; se fu detta cosa che mal si affaccia con dottrine accertate dei secoli seguenti, ovvero in qualsivoglia modo non ammissibile; non è nostra intenzione che tutto ciò debba servir d’esempio da imitare anche ai di nostri” (Leone XIII, Enc. “Æterni Patris“). Ciò che conta anzi tutto è che la filosofia scolastica, che Noi ordiniamo di seguire, si debba precipuamente intendere quella di San Tommaso di Aquino: intorno alla quale tutto ciò che il Nostro Predecessore stabilì, intendiamo che rimanga in pieno vigore, e se è bisogno, lo rinnoviamo e confermiamo e severamente ordiniamo che sia da tutti osservato. Se nei Seminari si sia ciò trascurato, toccherà ai Vescovi insistere ed esigere che in avvenire si osservi. Lo stesso comandiamo ai Superiori degli Ordini religiosi. Ammoniamo poi quelli che insegnano, di ben persuadersi, che il discostarsi dall’Aquinate, specialmente in cose metafisiche, non avviene senza grave danno. Posto così il fondamento della filosofia, si innalzi con somma diligenza l’edificio teologico. Venerabili Fratelli, promovete con ogni industria possibile lo studio della teologia, talché i chierici, uscendo dai Seminari, ne portino seco un’alta stima ed un grande amore e l’abbiano sempre carissimo. Imperocché “nella grande e molteplice copia di discipline che si porgono alla mente cupida di verità, a tutti è noto che alla sacra Teologia appartiene talmente il primo luogo, che fu antico detto dei sapienti essere dovere delle altre scienze ed arti di servirla e prestarle mano siccome ancelle” (Leone XIII, Lett. Ap. “In magna“, 10 dicembre 1889). Aggiungiamo qui, sembrarCi altresì degni di lode coloro, che, salvo il rispetto alla Tradizione, ai Padri, al Magistero ecclesiastico, con saggio criterio e con norme cattoliche (ciò che non sempre da tutti si osserva) cercano di illustrare la teologia positiva, attingendo lume dalla storia di vero nome. Certamente che alla teologia positiva deve ora darsi più larga parte che pel passato: ciò nondimeno deve farsi in guisa, che nulla ne venga a perdere la teologia scolastica, e si disapprovino quali fautori del modernismo coloro che tanto innalzino la teologia positiva da sembrar quasi spregiare la Scolastica. – In quanto alle discipline profane basti richiamare quel che il Nostro Predecessore disse con molta sapienza (Allocuz. 7 marzo 1580): “Adoperatevi strenuamente nello studio delle cose naturali: nel qual genere gl’ingegnosi ritrovati e gli utili ardimenti dei nostri tempi, come di ragione sono ammirati dai presenti, cosi dai posteri avranno perpetua lode ed encomio“. Questo però senza danno degli studi sacri: il che ammoniva lo stesso Nostro Predecessore con queste altre gravissime parole (Loc. cit.): “La causa di siffatti errori, chi la ricerchi diligentemente, sta principalmente in ciò che di questi nostri tempi, quanto più fervono gli studi delle scienze naturali, tanto più son venute meno le discipline più severe e più alte: alcune di queste infatti sono quasi poste in dimenticanza; alcune sono trattate stancamente e con leggerezza, e, ciò che è indegno, perduto lo splendore della primitiva dignità, sono deturpate da prave sentenze e da enormi errori“. Con questa legge ordiniamo che si regolino nei Seminari gli studi delle scienze naturali.

II

A questi ordinamenti tanto Nostri che del Nostro Antecessore fa mestieri volgere l’attenzione ognora che si tratti di scegliere i moderatori e maestri così dei Seminari come delle Università cattoliche. Chiunque in alcun modo sia infetto di modernismo, senza riguardi di sorta si tenga lontano dall’ufficio cosi di reggere e cosi d’insegnare: se già si trovi con tale incarico, ne sia rimosso. Parimente si faccia con chiunque o in segreto o apertamente favorisce il modernismo, sia lodando modernisti, sia attenuando la loro colpa, sia criticando la Scolastica, i Padri, il Magistero ecclesiastico, sia ricusando obbedienza alla potestà ecclesiastica, da qualunque persona essa si eserciti; e similmente con chi in materia storica, archeologica e biblica si mostri amante di novità; e finalmente, con quelli altresì che non si curano degli studi sacri o paiono a questi anteporre i profani. In questa parte, o Venerabili Fratelli, e specialmente nella scelta dei maestri, non sarà mai eccessiva la vostra attenzione e fermezza; essendoché sull’esempio dei maestri si formano per lo più i discepoli. Poggiati adunque sul dovere di coscienza, procedete in questa materia con prudenza sì ma con fortezza. Con non minore vigilanza e severità dovrete esaminare e scegliere chi debba essere ammesso al sacerdozio. Lungi, lungi dal clero l’amore di novità: Dio non vede di buon occhio gli animi superbi e contumaci! A niuno in avvenire si conceda la laurea dì teologia o di diritto canonico, che non abbia prima compito per intero il corso stabilito di filosofia scolastica. Se tale laurea ciò non ostante venisse concessa, sia nulla. Le ordinazioni che la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari emanò nell’anno 1896 pei chierici d’Italia dell’uno e dell’altro clero circa il frequentare le Università, stabiliamo che d’ora innanzi rimangano estese a tutte le nazioni. I chierici e sacerdoti iscritti ad un Istituto o ad una Università cattolica non potranno seguire nelle Università civili quei corsi, di cui vi siano cattedre negli Istituti cattolici ai quali essi appartengono. Se in alcun luogo si è ciò permesso per il passato, ordiniamo che più non si conceda nell’avvenire. I Vescovi che formano il Consiglio direttivo di siffatti cattolici Istituti o cattoliche Università veglino con ogni cura perché questi Nostri comandi vi si osservino costantemente.

III

È parimente officio dei Vescovi impedire che gli scritti infetti di modernismo o ad esso favorevoli si leggano se sono già pubblicati, o, se non sono, proibire che si pubblichino. Qualsivoglia libro o giornale o periodico di tal genere non si dovrà mai permettere o agli alunni dei Seminari o agli uditori delle Università cattoliche: il danno che ne proverrebbe non sarebbe minore di quello delle letture immorali; sarebbe anzi peggiore, perché ne andrebbe viziata la radice stessa del vivere cristiano. Né altrimenti si dovrà giudicare degli scritti di taluni Cattolici, uomini del resto di non malvagie intenzioni, ma che digiuni di studi teologici e imbevuti di filosofia moderna, cercano di accordare questa con la fede e di farla servire, come essi dicono, ai vantaggi della fede stessa. Il nome e la buona fama degli autori fa sì che tali libri siano letti senza verun timore e sono quindi più pericolosi per trarre a poco a poco al modernismo. – Per dar poi, o Venerabili Fratelli, disposizioni più generali in sì grave materia, se nelle vostre diocesi corrono libri perniciosi, adoperatevi con fortezza a sbandirli, facendo anche uso di solenni condanne. Benché questa Sede Apostolica ponga ogni opera nel togliere di mezzo siffatti scritti, tanto oggimai ne è cresciuto il numero, che a condannarli tutti non bastano le forze. Quindi accade che la medicina giunga talora troppo tardi, quando cioè pel troppo attendere il male ha già preso piede. Vogliamo adunque che i Vescovi, deposto ogni timore, messa da parte la prudenza della carne, disprezzando il gridio dei malvagi, soavemente, sì, ma con costanza, adempiano ciascuno le sue parti; memori di quanto prescriveva Leone XIII nella Costituzione Apostolica “Officiorum“: “Gli Ordinari, anche come Delegati della Sede Apostolica, si adoperino di proscrivere e di togliere dalle mani dei fedeli i libri o altri scritti nocivi stampati o diffusi nelle proprie diocesi“. Con queste parole si concede, è vero, un diritto: ma s’impone in pari tempo un dovere. Né stimi veruno di avere adempiuto cotal dovere, se deferisca a Noi l’uno o l’altro libro mentre altri moltissimi si lasciano divulgare e diffondere. Né in ciò vi deve rattenere il sapere che l’autore di qualche libro abbia altrove ottenuto l’Irnprimatur; sì perché tal concessione può essere simulata, sì perché può essere stata fatta per trascuratezza o per troppa benignità e per troppa fiducia nell’autore, il quale ultimo caso può talora avverarsi negli Ordini religiosi. Aggiungasi che, come non ogni cibo si confà a tutti egual mente, cosi un libro che in un luogo sarà indifferente, in un altro, per le circostanze, può tornare nocivo. Se pertanto il Vescovo, udito il parere di persone prudenti, stimerà di dover condannare nella sua diocesi anche qualcuno di siffatti libri, gliene diamo ampia facoltà, anzi glielo rechiamo a dovere. Intendiamo bensì che si serbino in tal fatto i riguardi convenienti, bastando forse che la proibizione si restringa talora soltanto al clero; ma eziandio in tal caso sarà obbligo dei librai cattolici di non porre in vendita i libri condannati dal Vescovo. E poiché Ci cade il discorso, vigilino i Vescovi che i librai per bramosia di lucro non spaccino merce malsana: il certo è che nei cataloghi di taluni di costoro si annunziano di frequente e con lode non piccola i libri dei modernisti. Se essi ricusano di obbedire, non dubitino i Vescovi di privarli del titolo di librai cattolici; similmente e con più ragione, se avranno quello di vescovili; che se avessero titolo di pontifici, si deferiscano alla Sede Apostolica. A tutti finalmente ricordiamo l’articolo XXVI della mentovata Costituzione Apostolica “Officiorum“: “Tutti coloro che abbiano ottenuta facoltà apostolica di leggere e ritenere libri proibiti, non sono perciò autorizzati a leggere libri o giornali proscritti dagli Ordinari locali, se pure nell’indulto apostolico non sia data espressa facoltà di leggere e ritenere libri condannati da chicchessia“.

IV

Ma non basta impedire la lettura o la vendita dei libri cattivi; fa d’uopo impedirne altresì la stampa. Quindi i Vescovi non concedano la facoltà di stampa se non con la massima severità. E poiché è grande il numero delle pubblicazioni, che, a seconda della Costituzione “Officiorum“, esigono l’autorizzazione dell’Ordinario, in talune diocesi si sogliono determinare in numero conveniente censori di officio per l’esame degli scritti. Somma lode noi diamo a siffatta istituzione di censura; e non solo esortiamo, ma ordiniamo che si estenda a tutte le diocesi. In tutte adunque le Curie episcopali si stabiliscano Censori per la revisione degli scritti da pubblicarsi; si scelgano questi dall’uno e dall’altro clero, uomini di età, di scienza e di prudenza e che nel giudicare sappiano tenere il giusto mezzo. Spetterà ad essi l’esame di tutto quello che, secondo gli articoli XLI e XLII della detta Costituzione, ha bisogno di permesso per essere pubblicato. Il Censore darà per iscritto la sua sentenza. Se sarà favorevole, il Vescovo concederà la facoltà di stampa con la parola Imprimatur, la quale però sarà preceduta dal Nihil obstat e dal nome del Censore. Anche nella Curia romana non altrimenti che nelle altre, si stabiliranno censori di ufficio. L’elezione dei medesimi, dopo interpellato il Cardinale Vicario e coll’annuenza ed approvazione dello stesso Sommo Pontefice, spetterà al Maestro del sacro Palazzo Apostolico. A questo pure toccherà determinare per ogni singolo scritto il Censore che lo esamini. La facoltà di stampa sarà concessa dallo stesso Maestro ed insieme dal Cardinale Vicario o dal suo Vicegerente, premesso però, come sopra si disse, il Nulla osta col nome del Censore. Solo in circo stanze straordinarie e rarissimamente si potrà, a prudente arbitrio del Vescovo, omettere la menzione del Censore. Agli autori non si farà mai conoscere il nome del Censore, prima che questi abbia dato giudizio favorevole: affinché il Censore stesso non abbia a patir molestia o mentre esamina lo scritto o in caso che ne disapprovi la stampa. Mai non si sceglieranno Censori dagli Ordini religiosi, senza prima averne secretamente il parere del Superiore provinciale, o, se si tratta di Roma, del Generale: questi poi dovranno secondo coscienza attestare dei costumi, della scienza e della integrità della dottrina dell’eligendo. Ammoniamo i Superiori religiosi del gravissimo dovere che essi hanno di mai non permettere che alcun che si pubblici dai loro sudditi senza la previa facoltà loro e dell’Ordinario diocesano. Per ultimo affermiamo e dichiariamo che il titolo di Censore, di cui taluno sia insignito, non ha verun valore né mai si potrà arrecare come argomento per dar credito alle private opinioni del medesimo. Detto ciò generalmente, nominatamente ordiniamo una osservanza più diligente di quanto si prescrive nell’articolo XLII della citata Costituzione “Officiorum“, cioè: “È vietato ai sacerdoti secolari, senza previo permesso dell’Ordinario, prendere la direzione di giornali o di periodici“. Del quale permesso, dopo ammonizione, saràprivato chiunque ne facesse mal uso. Circa quei sacerdoti, che hanno titoli di corrispondenti o collaboratori,poiché avviene non raramente che pubblichino, nei giornali o periodici, scritti infetti di modernismo, vedano iVescovi che ciò non avvenga; e se avvenisse, ammoniscano e diano proibizione di scrivere. Lo stesso conogni autorità ammoniamo che facciano i Superiori degli Ordini religiosi: i quali se si mostrassero in ciò trascurati,provvedano i Vescovi, con autorità delegata dal Sommo Pontefice. I giornali e periodici pubblicati dai Cattoliciabbiano, per quanto sia possibile, un Censore determinato. Sarà obbligo di questo leggere opportunamentei singoli fogli o fascicoli, dopo già pubblicati: se cosa alcuna troverà di pericoloso, ordinerà che sia corretto quanto prima. Lo stesso diritto avrà il Vescovo, anche in caso che il Censore non abbia reclamato.

V

Ricordammo già sopra i congressi e i pubblici convegni come quelli nei quali i modernisti si adoprano di propalare e propagare le loro opinioni. I Vescovi non permetteranno più in avvenire, se non in casi rarissimi, i congressi di Sacerdoti. Se avverrà che li permettano, lo faranno solo a questa condizione: che non vi si trattino cose di pertinenza dei Vescovi o della Sede Apostolica, non vi si facciano proposte o postulati che implichino usurpazione della sacra potestà, non vi si faccia affatto menzione di quanto sa di modernismo, di presbiterianismo, di laicismo. A tali convegni, che dovranno solo permettersi volta per volta e per iscritto o in tempo opportuno, non potrà intervenire Sacerdote alcuno di altra diocesi, se non porti commendatizie del proprio Vescovo. A tutti i Sacerdoti poi non passi mai di mente ciò che Leone XIII raccomandava con parole gravissime (Lett. Enc. “Nobilissima Gallorum“, 10 febbraio 1884): “Sia intangibile presso i sacerdoti l’autorità dei propri Vescovi; si persuadano che il ministero sacerdotale, se non si eserciti sotto la direzione del Vescovo, non sarà né santo, né molto utile, né rispettabile“.

VI

Ma che gioveranno, o Venerabili Fratelli, i Nostri comandi e le Nostre prescrizioni, se non si osservino a dovere e con fermezza? Perché questo si ottenga, Ci è parso espediente estendere a tutte le diocesi ciò che i Vescovi dell’Umbria (Atti del Congr. dei Vescovi dell’Umbria, nov. 1849, tit. II, art. 6), molti anni or sono, con savissimo consiglio stabilirono per le loro: “Ad estirpare – così essi – gli errori già diffusi e ad impedire che più oltre si diffondano o che esistano tuttavia maestri di empietà, pei quali si perpetuino i perniciosi effetti originati da tale diffusione, il sacro Congresso, seguendo gli esempi di San Carlo Borromeo, stabilisce che in ogni diocesi si istituisca un Consiglio di uomini commendevoli dei due cleri, a cui spetti il vigilare se e con quali arti i nuovi errori si dilatino o si propaghino, e farne avvertito il Vescovo perché di concorde avviso prenda rimedi con cui il male si estingua fin dal principio e non si spanda di vantaggio a rovina delle anime, e, ciò che è peggio, si afforzi e cresca“. Stabiliamo adunque che un siffatto Consiglio, che si chiamerà di vigilanza, si istituisca quanto prima in tutte le diocesi. I membri di esso si sceglieranno colle stesse norme già prescritte pei Censori dei libri. Ogni due mesi, in un giorno determinato, si raccoglierà in presenza del Vescovo: le cose trattate o stabilite saranno sottoposte a legge di secreto. I doveri degli appartenenti al Consiglio saranno i seguenti: Scrutino con attenzione gl’indizi di modernismo tanto nei libri che nell’insegnamento; con prudenza, prontezza ed efficacia stabiliscano quanto è d’uopo per la incolumità del clero e della gioventù. Combattano le novità di parole, e rammentino gli ammonimenti di Leone XIII (S. C. AA. EE. SS., 27 gennaio 1901): “Non si potrebbe approvare nelle pubblicazioni cattoliche un linguaggio che ispirandosi a malsana novità sembrasse deridere la pietà dei fedeli ed accennasse a nuovi orientamenti della vita cristiana, a nuove direzioni della Chiesa, a nuove ispirazioni dell’anima moderna, a nuova vocazione del clero, a nuova civiltà cristiana“. Tutto questo non si sopporti così nei libri come dalle cattedre.Non trascurino i libri nei quali si tratti o delle pie tradizioni di ciascun luogo o delle sacre Reliquie. Non permettano che tali questioni si agitino nei giornali o in periodici destinati a fomentare la pietà, né con espressioniche sappiano di ludibrio o di disprezzo né con affermazioni risolute specialmente, come il più delle volte accade,quando ciò che si afferma o non passa i termini della probabilità o si basa su pregiudicate opinioni. Circa le sacreReliquie si abbiano queste norme. Se i Vescovi i quali sono soli giudici in questa materia, conoscano con certezza che una reliquia sia falsa, la toglieranno senz’altro dal culto dei fedeli… Se le autentiche di una Reliquia qualsiasi, o pei civili rivolgimenti o in altra guisa siensi smarrite, non si esponga alla pubblica venerazione, se prima il Vescovo non ne abbia fatta ricognizione. L’argomento di prescrizione o di fondata presunzione allora solo avrà valore quando il culto sia commendevole per antichità: il che risponde al decreto emanato nel 1896 dalla Congregazione delle Indulgenze e sacre Reliquie, in questi termini: “Le Reliquie antiche sono da conservarsi nella venerazione che finora ebbero, se pure in casi particolari non si abbiano argomenti certi che sono false o supposte“. Nel portar poi giudizio delle pie tradizioni si tenga sempre presente, che la Chiesa in questa materia fa uso di tanta prudenza, da non permettere che tali tradizioni si raccontino nei libri, se non con grandi cautele e premessa la dichiarazione prescritta da Urbano VIII: il che pure adempiuto, non perciò ammette la verità del fatto, ma solo non proibisce che si creda, ove a farlo non manchino argomenti umani. Così appunto la sacra Congregazione dei Riti dichiarava fin da trent’anni addietro (Decreto 2 maggio 1877): “Siffatte apparizioni o rivelazioni non furono né approvate né condannate dalla Sede Apostolica, ma solo passate come da piamente credersi con sola fede umana, conforme alla tradizione di cui godono, confermata pure da idonei testimoni e documenti“. Niun timore può ammettere chi a questa regola si tenga. Imperocché il culto di qualsivoglia apparizione, in quanto riguarda il fatto stesso e dicesi relativo, ha sempre implicita la condizione della verità del fatto: in quanto poi è assoluto, si fonda sempre nella verità, giacché si dirige alle persone stesse dei santi che si onorano. Lo stesso vale delle Reliquie. Commettiamo infine al Consiglio di vigilanza, di tener d’occhio assiduamente e diligentemente gl’istituti sociali come pure gli scritti di questioni sociali affinché nulla vi si celi di modernismo, ma ottemperino alle prescrizioni dei Romani Pontefici.

VII

Le cose fin qui stabilite affinché non vadano in dimenticanza, vogliamo ed ordiniamo che i Vescovi di ciascuna diocesi, trascorso un anno dalla pubblicazione delle presenti Lettere, e poscia ogni triennio, con diligente e giurata esposizione riferiscano alla Sede Apostolica intorno a quanto si prescrive in esse, e sulle dottrine che corrono in mezzo al clero e soprattutto nei Seminari ed altri istituti cattolici, non eccettuati quelli che pur sono esenti dall’autorità dell’Ordinario. Lo stesso imponiamo ai Superiori generali degli Ordini religiosi a riguardo dei loro dipendenti. Queste cose, o Venerabili Fratelli, abbiam creduto di scrivervi per salute di ogni credente. I nemici della Chiesa certamente ne abuseranno per ribadire la vecchia accusa, per cui siamo fatti passare come avversi alla scienza ed al progresso della civiltà. A tali accuse, che trovano smentita in ogni pagina della storia della Chiesa, alfine di opporre alcun che di nuovo, è Nostro consiglio di accordare ogni favore e protezione ad un nuovo Istituto, da cui, coll’aiuto di quanti fra i Cattolici sono più insigni per fama di sapienza, ogni fatta di scienza e di erudizione, sotto la guida ed il Magistero della cattolica verità, sia promossa. Assecondi Iddio i Nostri disegni e Ci prestino aiuto quanti di vero amore amano la Chiesa di Gesù Cristo. Ma di ciò in altra opportunità. A Voi intanto, o Venerabili Fratelli, nella cui opera e zelo sommamente confidiamo, imploriamo di tutto cuore la pienezza dei lumi Celesti, affinché in tanto periglio delle anime per gli errori che da ogni banda s’infiltrano, scorgiate quel che far vi convenga; e con ogni ardore e fortezza lo eseguiate. Vi assista colla Sua virtù Gesù Cristo autore e consumatore della nostra fede; vi assista coll’intercessione e coll’aiuto la Vergine Immacolata profligatrice di tutte le eresie. – E Noi, come pegno della Nostra carità e delle divine consolazioni fra tante contrarietà, impartiamo con ogni affetto a voi, al vostro clero ed ai vostri fedeli l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 8 settembre 1907, nell’anno V del Nostro Pontificato.

“LAMENTABILI SANE EXITU”

“SUL PERICOLO COSTITUITO DA CERTI ESEGETI CHE, CON L’APPARENZA DI INTELLIGENZA E

COL NOME DI CONSIDERAZIONE STORICA, CORROMPONO LA DOTTRINA”

SUPREMA SACRA INQUISIZIONE ROMANA ED UNIVERSALE

Con deplorevoli frutti, l’età nostra, impaziente di freno nell’indagare le somme ragioni delle cose, non di rado segue talmente le novità, che, lasciata da parte, per così dire, l’eredità del genere umano, cade in errori gravissimi. Questi errori sono di gran lunga più pericolosi qualora si tratti della disciplina sacra, dell’interpretazione della Sacra Scrittura, dei principali misteri della Fede. – È da dolersi poi grandemente che, anche fra i cattolici, si trovino non pochi scrittori i quali, trasgredendo i limiti stabiliti dai Padri e dalla Santa Chiesa stessa, sotto le apparenze di più alta intelligenza e col nome di considerazione storica, cercano un progresso dei dogmi che, in realtà, è la corruzione dei medesimi. – Affinché dunque simili errori, che ogni giorno si spargono tra i fedeli, non mettano radici nelle loro anime e corrompano la sincerità della Fede, piacque al Santissimo Signore Nostro Pio per divina Provvidenza Papa X, che per questo officio della Sacra Romana ed Universale Inquisizione si notassero e si riprovassero quelli fra di essi che sono i precipui. Perciò, dopo istituito diligentissimo esame e avuto il voto dei Reverendi Signori Consultori, gli Eminentissimi e Reverendissimi Signori Cardinali Inquisitori generali nelle cose di fede e di costumi, giudicarono che le seguenti proposizioni sono da riprovarsi e da condannarsi, come si riprovano e si condannano con questo generale Decreto:

1. La legge ecclesiastica che prescrive di sottoporre a previa censura i libri concernenti la Sacra Scrittura non si estende ai cultori della critica o dell’esegesi scientifica dei Libri dell’Antico e del Nuovo Testamento.

2. L’interpretazione che la Chiesa dà dei Libri sacri non è da disprezzare, ma soggiace ad un più accurato giudizio e alla correzione degli esegeti.

3. Dai giudizi e dalle censure ecclesiastiche, emanati contro l’esegesi libera e superiore, si può dedurre che la fede proposta dalla Chiesa contraddice la storia, e che i dogmi cattolici in realtà non si possono accordare con le vere origini della religione cristiana.

4. Il magistero della Chiesa non può determinare il genuino senso delle sacre Scritture nemmeno con definizioni dogmatiche.

5. Siccome nel deposito della fede non sono contenute solamente verità rivelate, in nessun modo spetta alla Chiesa giudicare sulle asserzioni delle discipline umane.

6. Nella definizione delle verità, la Chiesa discente e la Chiesa docente collaborano in tale maniera, che alla Chiesa docente non resta altro che ratificare le comuni opinioni di quella discente.

7. La Chiesa, quando condanna gli errori, non può esigere dai fedeli nessun assenso interno che accetti i giudizi da lei dati.

8. Sono da ritenersi esenti da ogni colpa coloro che non tengono in alcun conto delle riprovazioni espresse dalla Sacra Congregazione dell’Indice e da altre Sacre Congregazioni Romane.

9. Coloro che credono che Dio è l’Autore della Sacra Scrittura sono influenzati da eccessiva ingenuità o da ignoranza.

10. L’ispirazione dei Libri dell’Antico Testamento consiste nel fatto che gli Scrittori israeliti tramandarono le dottrine religiose sotto un certo aspetto particolare in parte conosciuto e in parte sconosciuto ai gentili.

11. L’ispirazione divina non si estende a tutta la Sacra Scrittura al punto che tutte e singole le sue parti siano immuni da ogni errore.

12. L’esegeta, qualora voglia affrontare con utilità gli studi biblici, deve, anzitutto, lasciar cadere quel certo qual preconcetto inerente l’origine sovrannaturale della Sacra Scrittura.

13. Gli stessi Evangelisti e i Cristiani della seconda e terza generazione composero le parabole evangeliche in modo artificioso così da spiegare gli esigui frutti della predicazione di Cristo presso i giudei.

14. Gli Evangelisti riferirono in molte narrazioni non tanto ciò che effettivamente accadde, quanto ciò che essi ritennero maggiormente utile ai lettori, ancorché falso.

15. Gli Evangeli furono soggetti a continue aggiunte e correzioni, fino alla definizione e alla costituzione del canone; in essi, pertanto, della dottrina di Cristo, non rimase che un tenue e incerto vestigio.

16. I racconti d Giovanni non sono propriamente storia, ma mistica contemplazione del Vangelo; i discorsi contenuti nel suo Vangelo sono meditazioni teologiche sul Mistero della Salvezza, destituite di verità storica.

17. Il quarto Evangelo esagerò i miracoli, non solo perché apparissero maggiormente straordinari, ma anche affinché fossero più adatti a significare l’opera e la gloria del Verbo Incarnato.

18. Giovanni rivendica a sé il ruolo di testimone di Cristo; in verità egli non è che un eccellente testimone di vita cristiana, ovvero della vita di Cristo alla fine del primo secolo.

19. Gli esegeti eterodossi espresso più fedelmente il vero senso della Scrittura di quanto non abbiano fatto gli esegeti cattolici.

20. La Rivelazione non poté essere altro che la coscienza acquisita dall’uomo circa la sua relazione con Dio.

21. La Rivelazione, che costituisce l’oggetto della Fede cattolica, non si è conclusa con gli Apostoli.

22. I dogmi, che la Chiesa presenta come rivelati, non sono verità cadute dal cielo, ma l’interpretazione di fatti religiosi, che la mente umana si è data con travaglio.

23. Può esistere, ed esiste in realtà, un’opposizione tra i fatti raccontati dalla Sacra Scrittura ed i dogmi della Chiesa fondati sopra di essi; sicché il critico può rigettare come falsi i fatti che la Chiesa crede certissimi.

24. Non dev’essere condannato l’esegeta che pone le premesse, cui segue che i dogmi sono falsi o dubbi, purché non neghi direttamente i dogmi stessi.

25. L’assenso della Fede si appoggia da ultimo su una congerie di probabilità.

26. I dogmi della Fede debbono essere accettati soltanto secondo il loro senso pratico, cioè come norma precettiva riguardante il comportamento, ma non come norma di Fede.

27. La Sacra Scrittura non prova la Divinità di Gesù Cristo; ma è un dogma che la coscienza cristiana deduce dal concetto di Messia.

28. Gesù, durante il suo Ministero, non parlava per insegnare di essere il Messia, né i suoi miracoli miravano a dimostrarlo.

29. Si può ammettere che il Cristo storico sia molto inferiore al Cristo della Fede.

30. In tutti i testi evangelici, il nome “Figlio di Dio” equivale soltanto a nome “Messia” e non significa assolutamente che Cristo è vero e naturale Figlio di Dio.

31. La dottrina su Cristo, tramandata da Paolo, Giovanni e dai Concili Niceno, Efesino e Calcedonense, non è quella insegnato da Gesù, ma che su Gesù concepì la coscienza cristiana.

32. Non è possibile conciliare il senso naturale dei testi evangelici con quello che i nostri teologi insegnano circa la coscienza e la scienza infallibile di Gesù Cristo.

33. È evidente a chiunque non sia influenzato da opinioni preconcette che Gesù ha professato un errore circa il prossimo avvento messianico, o che la maggior parte della sua dottrina, contenuta negli Evangeli sinottici, è priva di autenticità.

34. Il critico non può affermare che la scienza di Cristo non sia circoscritta da alcun limite, se non ponendo ipotesi – non concepibile storicamente e che ripugna al senso morale – secondo la quale Cristo abbia avuto la conoscenza di Dio in quanto uomo e non abbia voluto in alcun modo darne notizia ai discepoli e alla posterità.

35. Cristo non ebbe sempre la coscienza della sua dignità messianica.

36. La Risurrezione del Salvatore non è propriamente un fatto di ordine storico, ma un fatto di ordine meramente sovrannaturale, non dimostrato né dimostrabile, che la coscienza cristiana lentamente trasse dagli altri.

37. La Fede nella Risurrezione di Cristo inizialmente non fu tanto nel fatto stesso della Risurrezione, quanto nella vita immortale di Cristo presso Dio.

38. La dottrina concernente la Morte espiatrice di Cristo non è evangelica, ma solo paolina.

39. Le opinioni sull’origine dei Sacramenti, di cui erano imbevuti i Padri tridentini, e che senza dubbio ebbero un influsso nei loro Canoni dogmatici, sono molto distanti da quelle cui ora gli storici del Cristianesimo dànno credito.

40. I Sacramenti ebbero origine perché gli Apostoli e i loro successori interpretarono una certa idea e intenzione di Cristo, sotto la persuasione e la spinta di circostanze ed eventi.

41. I Sacramenti hanno come unico fine di ricordare alla mente dell’uomo la presenza sempre benefica del Creatore.

42. La comunità cristiana inventò la necessità del Battesimo, adottandolo come rito necessario e annettendo ad esso gli obblighi della professione cristiana.

43. L’uso di conferire il Battesimo ai bambini fu un’evoluzione disciplinare, ragion per cui il Sacramento è diventato due, cioè il Battesimo e la Penitenza.

44. Nulla prova che il rito del Sacramento della Confermazione sia stato istituito dagli Apostoli; la formale distinzione di due Sacramenti, cioè del Battesimo e della Confermazione, non risale alla storia del cristianesimo primitivo.

45. Non tutto ciò che narra Paolo a proposito dell’istituzione dell’Eucaristia [I Cor., 11, 23-25] è da considerarsi fatto storico.

46. Il concetto della riconciliazione del cristiano peccatore, per autorità della Chiesa, non fu presente nella comunità primitiva: fu la Chiesa ad abituarsi lentamente a questo concetto. Per di più, dopo che la Penitenza fu riconosciuta quale istituzione della Chiesa, non veniva chiamata col nome di Sacramento, poiché era considerata come Sacramento vergognoso.

47. Le parole del Signore “Ricevete lo Spirito Santo; a coloro ai quali rimetterete i peccati saranno rimessi e a coloro ai quali non li rimetterete non saranno rimessi” [Joh., 20, 22-23] non si riferiscono al Sacramento dellaPenitenza, anche se i Padri tridentini vollero affermarlo.

48. Giacomo, nella sua epistola [Jac., 5, 14 sqq.], non volle promulgare un Sacramento di Cristo, ma raccomandare una pia pratica e se in ciò riconobbe un certo qual mezzo di Grazia, non lo intese con quel rigore con cui lo intesero i teologi che stabilirono la nozione e il numero dei Sacramenti.

49. Coloro che erano soliti presiedere alla cena cristiana acquisirono il carattere sacerdotale per il fatto che essa progressivamente andava assumendo l’indole di un’azione liturgica.

50. Gli anziani che, nelle adunanze dei Cristiani, esercitavano l’ufficio di vigilanza, furono dagli Apostoli creati preti o Vescovi per provvedere all’ordinamento necessario delle crescenti comunità, e non propriamente per perpetuare la missione e la potestà Apostolica.

51. Il Matrimonio fu riconosciuto dalla Chiesa come Sacramento della nuova Legge solo molto tardi; infatti, perché il Matrimonio fosse considerato Sacramento, era necessario che lo precedesse la piena dottrina della Grazia e la spiegazione teologica del Sacramento.

52. Cristo non volle costituire la Chiesa come società duratura sulla terra, per lunga successione di secoli; anzi, nella mente di Cristo, il regno del Cielo, unitamente alla fine del mondo, doveva essere prossimo.

53. La costituzione organica della Chiesa non è immutabile; ma la società cristiana, non meno della società umana, va soggetta a continua evoluzione.

54. I dogmi, i sacramenti, la gerarchia, sia nel loro concetto come nella loro realtà, non sono che interpretazioni ed evoluzioni dell’intelligenza cristiana, le quali svilupparono e perfezionarono il piccolo germe latente nel Vangelo con esterne aggiunte.

55. Simon Pietro non ha mai sospettato di aver ricevuto da Cristo il primato nella Chiesa.

56. La Chiesa Romana diventò capo di tutte le Chiese non per disposizione della Divina Provvidenza, ma per circostanze puramente politiche.

57. La Chiesa si mostra ostile ai progressi delle scienze naturali e teologiche.

58. La verità non è immutabile più di quanto non lo sia l’uomo stesso, poiché si evolve con lui, in lui e per mezzo di lui.

59. Cristo non insegnò un determinato insieme di dottrine applicabile a tutti i tempi e a tutti gli uomini, ma piuttosto iniziò un certo qual moto religioso adattato e da adattare a diversi tempi e circostanze.

60. La dottrina cristiana fu, nel suo esordio, giudaica; poi divenne, per successive evoluzioni, prima paolina, poi giovannea, infine ellenica e universale.

61. Si può dire senza paradosso che nessun passo della Scrittura, dal primo capitolo della Genesi fino all’ultimo dell’Apocalisse, contiene una dottrina perfettamente identica a quella che la Chiesa insegna sullo stesso argomento, e perciò nessun capitolo della Scrittura ha lo stesso senso per il critico e per il teologo.

62. Gli articoli principali del Simbolo apostolico non avevano per i cristiani dei primi tempi lo stesso significato che hanno per i cristiani del nostro tempo.

63. La Chiesa si dimostra incapace a tutelare efficacemente l’etica evangelica, perché ostinatamente si attacca a dottrine immutabili, inconciliabili con i progressi odierni.

64. Il progresso delle scienze richiede una riforma del concetto che la dottrina cristiana ha di Dio, della Creazione, della Rivelazione, della Persona del Verbo Incarnato e della Redenzione.

65. Il Cattolicesimo odierno non può essere conciliato con la vera scienza, a meno che non si trasformi in un Cristianesimo non dogmatico, cioè in protestantesimo lato e liberale.

Nella seguente Feria V, il giorno 4 dello stesso mese ed anno, fatta di tutte queste cose accurata relazione al Santissimo Signor Nostro Pio Papa X, Sua Santità approvò e confermò il Decreto degli Eminentissimi Padri e diede ordine che tutte e singole le sopra enumerate proposizioni siano considerate da tutti come riprovate e condannate.

Dato a Roma, presso il Palazzo del Sant’Uffizio, il giorno 3 del mese di Luglio dell’Anno 1907

Pietro Palombelli

Notaro della Sacra Inquisizione Romana ed Universale

SACRORUM ANTISTITUM

Motu proprio

che stabilisce alcune leggi per respingere il pericolo del modernismo

Acta Apostolicae Sedis, AAS 02 [1910], pp. 655-669,


Riteniamo che non sia sfuggito a nessuno dei santi Vescovi, che i modernisti, la maliziosissima categoria d’uomini che avevamo smascherato per loro nella Lettera enciclica Pascendi Dominici Gregis, non si sono astenuti dai propositi di turbare la pace della Chiesa.

Infatti hanno continuato ad adescare nuovi seguaci e a farli associare mediante un’alleanza segreta, e con essi ad inoculare nelle vene del cristianesimo il virus delle loro opinioni, pubblicando, anonimamente o sotto pseudonimi, libri ed articoli.

Se, riletta la summenzionata Nostra Lettera, si considera con più attenzione lo sviluppo di quest’audacia, per mezzo della quale Ci è arrecato tanto dolore, apparirà chiaramente che uomini di tale condotta non sono altro che quelli che abbiamo già descritto là, nemici tanto più temibili quanto più sono vicini; i quali abusano del loro ministero per porre sull’amo un’esca avvelenata con cui corrompere gli sprovveduti, divulgando un’apparenza di dottrina, in cui è contenuta la somma di tutti gli errori.

Dato che questa peste si sparge attraverso quella parte del campo del Signore da cui ci si aspetterebbero i frutti più lieti, se da un lato è proprio di tutti i Vescovi spendersi in difesa della fede cattolica, e vigilare con somma diligenza affinché l’integrità del deposito divino non riceva alcun danno, dall’altro lato a Noi è di massima pertinenza fare ciò che ha comandato Cristo Salvatore, il quale a Pietro (il cui principato, seppur indegnamente, Noi abbiamo ricevuto,) disse: Conferma i tuoi fratelli. Appunto per questa causa, cioè, affinché gli animi dei buoni siano confermati nell’affrontare la presente battaglia, abbiamo ritenuto opportuno riportare delle frasi e delle prescrizioni del Nostro suddetto documento, espresse con queste parole:

A queste cose, che chiaramente confermiamo tutte, pena un peso sulla coscienza per coloro che avranno rifiutato di ascoltare quanto detto, ne aggiungiamo altre, che sono specificamente riferite agli aspiranti sacerdoti che vivono nei Seminari e ai novizi degli istituti religiosi.

– Nei Seminari certamente occorre che tutte le parti dell’istituzione tendano al medesimo fine di formare un sacerdote degno di tale nome. Ed infatti non si può ritenere che simili tirocini si estendano solamente o agli studi o alla pietà. L’ammaestramento fonde in un tutto unico entrambi gli aspetti, ed essi sono simili a palestre finalizzate a formare la sacra milizia di Cristo con una preparazione duratura. Dunque affinché da essi esca un esercito ottimamente istruito, sono assolutamente necessarie due cose, la cultura per l’istruzione della mente, la virtù per la perfezione dell’anima. L’una richiede che la gioventù che si prepara al sacerdozio sia massimamente istruita in quelle scienze che hanno un legame più stretto con gli studi delle cose divine; l’altra esige una straordinaria eccellenza di virtù e di costanza. Vedano dunque i rettori quale aspettativa di disciplina e di pietà si possa nutrire riguardo agli allievi, e scrutino quale sia l’indole dei singoli; se seguono il loro istinto più giusto o se sembrano abbracciare delle disposizioni di spirito profane; se sono docili nell’obbedire, inclini alla pietà, umili, osservanti della disciplina; se aspirano alla dignità di sacerdote perché si sono prefissati il giusto obiettivo, o perché spinti da ragioni umane; se, infine, sono adeguatamente ricchi di santità di vita e di cultura; o se, mancando loro qualcosa di queste, si sforzano almeno di acquisirla con animo sincero e pronto. Né l’indagine presenta troppa difficoltà; giacché i doveri religiosi compiuti lamentandosi, e la disciplina osservata a causa del timore e non della voce della coscienza, rivelano immediatamente la mancanza delle virtù che ho elencato. Colui che tiene come principio il timore servile, o si infiacchisce per debolezza di carattere o disprezzo, è quanto mai lontano dalla speranza di poter esercitare santamente il sacerdozio. Infatti difficilmente si può credere che uno che disprezza le discipline domestiche non verrà poi meno alle leggi pubbliche della Chiesa. Se il rettore della scuola avrà individuato qualcuno con questa disposizione d’animo, e se, dopo averlo ammonito più volte, fatta una prova di un anno, avrà capito che quello non desiste dalla sua consuetudine, lo espella, in modo tale che in futuro non possa più essere accettato né da lui né da alcun Vescovo.

Dunque per promuovere i chierici si richiedano assolutamente queste due; l’onestà di vita unita alla sana dottrina: E non sfugga che quei precetti e moniti coi quali i Vescovi si rivolgono a coloro che stanno per ricevere gli ordini sacri, sono rivolti a questi non meno che a coloro che vi aspirano, allorché viene detto: “Si deve fare in modo che quelli scelti per tale compito siano illustri per saggezza spirituale, onestà di costumi e costante rispetto della giustizia … Siano onesti e assennati tanto nella scienza quanto nelle opere … splenda in essi la bellezza della santità nella sua interezza“.

E certamente dell’onestà di vita si sarebbe detto abbastanza, se questa potesse con poco sforzo essere separata dalla cultura e dalle opinioni, che ciascuno si sarà riservato di sostenere. Ma, come è nel Libro dei Proverbi: L’uomo è stimato secondo la sua cultura (Prov. XII, 8)e come insegna l’Apostolo: Chi… non rimane nella dottrina di Cristo, non possiede Dio (II Giov., 9). Quanto impegno sia da dedicare alle molte e varie cose da imparare bene, lo insegna persino la stessa pretesa dell’epoca attuale, la quale proclama che niente è più glorioso della luce dell’umanità che progredisce. Dunque quanti sono nelle file del clero, se vogliono dedicarsi al loro compito conformemente ai tempi;con frutto esortare gli altri nella sana dottrina e convincere quelli che la contraddicono (Tito, I,9); applicare le risorse dell’ingegno a vantaggio della Chiesa, devono necessariamente raggiungere una conoscenza delle cose tutt’altro che di basso livello, e avvicinarsi all’eccellenza nella cultura. Infatti c’è da lottare con nemici tutt’altro che inesperti, i quali aggiungono ai buoni studi un sapere spesso intessuto di trabocchetti, e le cui sentenze belle e vibranti sono proposte con grande abbondanza e rimbombo di parole, affinché in esse sembri risuonare quasi un qualcosa di esotico. Perciò bisogna predisporre opportunamente le armi, cioè, preparare abbondante foraggio di cultura per tutti coloro che, nella vita ritirata della scuola, si stanno accingendo ad assumere incarichi santissimi e difficilissimi.

E’ vero che, poiché la vita dell’uomo è circoscritta da limiti tali per cui da un fonte ricchissimo di conoscenze a stento è dato di assaggiare qualcosa a fior di labbra, bisogna anche temperare la sete di apprendimento e rammentare l’affermazione di Paolo: non è pio sapere tutto quanto necessita sapere, ma sapere in giusta misura (Rom. XII,3). Per cui, dato che ai chierici già sono imposti molti e pesanti studi, sia per quanto riguarda le sacre scritture, i fondamenti della Fede, le consuetudini, la conoscenza delle devozioni e delle celebrazioni, che vanno sotto il nome di ascetica, sia per quanto riguarda la storia della Chiesa, il diritto canonico, la sacra eloquenza; affinché i giovani non perdano tempo nel seguire altre questioni e non vengano distratti dallo studio principale, vietiamo del tutto a costoro la lettura di qualsiasi quotidiano e periodico, anche se ottimo, pena un onere sulla coscienza di quei rettori che non avranno vigilato scrupolosamente per impedirlo.

Inoltre per allontanare il sospetto che qualsiasi modernismo si introduca di nascosto, non solo vogliamo che siano assolutamente rispettate le cose prescritte sopra al n° II, ma comandiamo inoltre che ogni singolo insegnante, prima di cominciare le lezioni all’inizio dell’anno, mostri al suo Vescovo il testo che si propone di insegnare, o le questioni che tratterà, oppure le tesi; quindi che per quell’anno stesso sia tenuto sotto osservazione il metodo d’insegnamento di ciascuno; e se questo sembrerà allontanarsi dalla sana dottrina, sarà causa sufficiente per rimuovere quell’insegnante. Ed infine, che, oltre alla professione di fede, presti giuramento al suo Vescovo, secondo la formula sotto riportata, e firmi.

Questo giuramento, preceduto da una professione di fede nella formula prescritta dal Nostro Predecessore Pio IV, con allegate le definizioni del Concilio Vaticano, lo presteranno dunque davanti al loro Vescovo:

I. I chierici che stanno per ricevere gli ordini maggiori; ad essi singolarmente sia previamente consegnato un esemplare sia della professione di fede, sia della formula del giuramento da emettere, in modo che le conoscano in anticipo accuratamente, essendovi una sanzione, come si vedrà sotto, in caso di violazione del giuramento.

II. I sacerdoti destinati a raccogliere le confessioni, e i sacri predicatori, prima che sia loro concessa facoltà di svolgere tali compiti.

III. I Parroci, i Canonici, i Beneficiari prima di entrare in possesso del beneficio.

IV. Gli ufficiali nelle curie episcopali e nei tribunali ecclesiastici, inclusi il Vicario generale e i giudici.

V. Gli addetti ai sermoni che si tengono nei tempi quaresimali.

VI. Tutti gli ufficiali nelle Congregazioni Romane o nei tribunali, in presenza del Cardinale Prefetto o del Segretario di quella Congregazione o di quel tribunale.

VII. I Superiori e i Docenti delle Famiglie e Congregazioni religiose, prima di assumere l’incarico.

I documenti della professione di fede, di cui abbiamo detto, e dell’avvenuto giuramento siano conservati in appositi registri presso le Curie episcopali, e parimenti presso gli uffici di ciascuna Congregazione Romana. Se poi qualcuno osasse, Dio non voglia, violare qualche giuramento, costui sia deferito al tribunale del Sant’Uffizio.

FORMULA DEL GIURAMENTO

Io … fermamente accetto e credo in tutte e in ciascuna delle verità definite, affermate e dichiarate dal Magistero infallibile della Chiesa, soprattutto quei principi dottrinali che contraddicono direttamente gli errori del tempo presente.

Primo: credo che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza e può anche essere dimostrato con i lumi della ragione naturale nelle opere da lui compiute (cf Rm 1,20), cioè nelle creature visibili, come causa dai suoi effetti.

Secondo: ammetto e riconosco le prove esteriori della rivelazione, cioè gli interventi divini, e soprattutto i miracoli e le profezie, come segni certissimi dell’origine soprannaturale della religione cristiana, e li ritengo perfettamente adatti a tutti gli uomini di tutti i tempi, compreso quello in cui viviamo.

Terzo: con la stessa fede incrollabile credo che la Chiesa, custode e maestra del verbo rivelato, è stata istituita immediatamente e direttamente da Cristo stesso vero e storico mentre viveva fra noi, e che è stata edificata su Pietro, capo della gerarchia ecclesiastica, e sui suoi successori attraverso i secoli.

Quarto: accolgo sinceramente la dottrina della fede trasmessa a noi dagli apostoli tramite i padri ortodossi, sempre con lo stesso senso e uguale contenuto, e respingo del tutto la fantasiosa eresia dell’evoluzione dei dogmi da un significato all’altro, diverso da quello che prima la Chiesa professava; condanno similmente ogni errore che pretende sostituire il deposito divino, affidato da Cristo alla Chiesa perché lo custodisse fedelmente, con una ipotesi filosofica o una creazione della coscienza che si è andata lentamente formando mediante sforzi umani e continua a perfezionarsi con un progresso indefinito.

Quinto: sono assolutamente convinto e sinceramente dichiaro che la fede non è un cieco sentimento religioso che emerge dall’oscurità del subcosciente per impulso del cuore e inclinazione della volontà moralmente educata, ma un vero assenso dell’intelletto a una verità ricevuta dal di fuori con la predicazione, per il quale, fiduciosi nella sua autorità supremamente verace, noi crediamo tutto quello che il Dio personale, creatore e signore nostro, ha detto, attestato e rivelato.

Mi sottometto anche con il dovuto rispetto e di tutto cuore aderisco a tutte le condanne, dichiarazioni e prescrizioni dell’enciclica Pascendi e del decreto Lamentabili, particolarmente circa la cosiddetta storia dei dogmi.

Riprovo altresì l’errore di chi sostiene che la fede proposta dalla Chiesa può essere contraria alla storia, e che i dogmi cattolici, nel senso che oggi viene loro attribuito, sono inconciliabili con le reali origini della religione cristiana.

Disapprovo pure e respingo l’opinione di chi pensa che l’uomo cristiano più istruito si riveste della doppia personalità del credente e dello storico, come se allo storico fosse lecito difendere tesi che contraddicono alla fede del credente o fissare delle premesse dalle quali si conclude che i dogmi sono falsi o dubbi, purché non siano positivamente negati.

Condanno parimenti quel sistema di giudicare e di interpretare la sacra Scrittura che, disdegnando la tradizione della Chiesa, l’analogia della fede e le norme della Sede apostolica, ricorre al metodo dei razionalisti e con non minore disinvoltura che audacia applica la critica testuale come regola unica e suprema.

Rifiuto inoltre la sentenza di chi ritiene che l’insegnamento di discipline storico-teologiche o chi ne tratta per iscritto deve inizialmente prescindere da ogni idea preconcetta sia sull’origine soprannaturale della tradizione cattolica sia dell’aiuto promesso da Dio per la perenne salvaguardia delle singole verità rivelate, e poi interpretare i testi patristici solo su basi scientifiche, estromettendo ogni autorità religiosa e con la stessa autonomia critica ammessa per l’esame di qualsiasi altro documento profano.

Mi dichiaro infine del tutto estraneo ad ogni errore dei modernisti, secondo cui nella sacra tradizione non c’è niente di divino o peggio ancora lo ammettono ma in senso panteistico, riducendolo ad un evento puro e semplice analogo a quelli ricorrenti nella storia, per cui gli uomini con il proprio impegno, l’abilità e l’ingegno prolungano nelle età posteriori la scuola inaugurata da Cristo e dagli apostoli.

Mantengo pertanto e fino all’ultimo respiro manterrò la fede dei padri nel carisma certo della verità, che è stato, è e sempre sarà nella successione dell’episcopato agli Apostoli (S. Ireneo, Adversus hæreses, 4, 26, 2: PG 7, 1053), non perché si assuma quel che sembra migliore e più consono alla cultura propria e particolare di ogni epoca, ma perché la verità assoluta e immutabile predicata in principio dagli apostoli non sia mai creduta in modo diverso né in altro modo intesa (Tertulliano, De præscriptione hæreticorum, 28: PL 2, 40).

Mi impegno ad osservare tutto questo fedelmente, integralmente e sinceramente e di custodirlo inviolabilmente senza mai discostarmene né nell’insegnamento né in nessun genere di discorsi o di scritti. Così prometto, così giuro, così mi aiutino Dio e questi santi Vangeli di Dio.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (27): “Da S. PIO V ad URBANO VIII”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (27)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar.

(da S. PIO V a URBANO VIII)

S. Pio V: 7 Gennaio 1566 – 1 Maggio 1572

Bolla: “Ex omnibus afflictionis”- 1 Ottobre 1567

Errori di Michele Bajo sulla natura dell’uomo e sulla grazia.

1901. Par. 1 Né i meriti degli Angeli, né quelli del primo uomo che era ancora intatto, sono giustamente chiamati grazia.

1902. Par. 2 Come il male per sua natura merita la morte eterna, così le opere buone per loro natura meritano la vita eterna.

1903. Par. 3. Sia per gli Angeli che per il primo uomo, se avessero perseverato in questo stato fino alla fine della vita, la felicità sarebbe stata una ricompensa e non una grazia.

1904. Par. 4. La vita eterna è stata promessa all’Angelo e all’uomo integro in vista delle opere buone, e le opere buone, in virtù della legge di natura, sono sufficienti per ottenerla.

1905. Par. 5. Nella promessa fatta all’Angelo e al primo uomo è contenuto ciò che costituisce la giustizia naturale, in base alla quale ai giusti viene promessa la vita eterna per le buone opere, senza alcun’altra considerazione.

1906. Par. 6. Con la legge naturale è stato stabilito per l’uomo che, se persevererà nell’obbedienza, passerà alla vita in cui non potrà morire.

1907. Par. 7. I meriti del primo uomo, retto, erano nei doni della prima creazione; ma secondo il modo in cui parla la Scrittura, essi sono chiamati erroneamente grazia; per questo devono essere chiamati solo meriti e non anche grazia.

1908. Par. 8 In coloro che sono stati redenti dalla grazia di Cristo non si può trovare alcun buon merito che non sarebbe stato conferito gratuitamente ad una persona indegna.

1909. Par. 9 I doni dati all’uomo integro e all’Angelo possono essere chiamati grazia per un motivo che forse non è da disapprovare; ma poiché secondo l’uso della Scrittura il termine “grazia” è inteso solo per i doni che sono conferiti da Gesù a coloro che non li meritano e che ne sono indegni, ne consegue che né i meriti né la ricompensa dati loro debbano essere chiamati grazia.

1910. Par. 10. L’assoluzione della pena temporale che spesso rimane dopo il perdono del peccato e la risurrezione del corpo deve essere attribuita propriamente solo ai meriti di Cristo.

1911. Par. 11. Il fatto che dopo aver perseverato in questa vita mortale, fino alla fine della vita, nella pietà e nella giustizia, otteniamo la vita eterna, non è propriamente da attribuire alla grazia di Dio, ma all’ordinazione naturale stabilita fin dall’inizio della creazione secondo un giusto giudizio di Dio; E in questa ricompensa del bene non sono considerati i meriti di Cristo, ma solo la prima istituzione del genere umano, in cui secondo la legge naturale è stato stabilito da un giusto giudizio di Dio che la vita eterna sarebbe stata concessa dall’obbedienza ai Comandamenti.

1912. Par. 12. La proposizione secondo cui un’opera buona compiuta senza la grazia dell’adozione non meriti il regno celeste è pelagiana.

1913. Par. 13. Le opere buone compiute dai figli di adozione non sono meritorie perché sono compiute dallo spirito di adozione che abita nei cuori dei figli di Dio, ma solo perché sono conformi alla Legge e da loro la Legge è osservata.

1914. Par. 14. Le buone azioni dei giusti non ricevono, nel giorno dell’ultimo Giudizio, una ricompensa maggiore di quella che hanno meritato di ricevere secondo il giusto giudizio di Dio.

1915. Paragrafo 15. Insegna che il merito non consiste nel fatto che chi agisce bene abbia la grazia e lo Spirito Santo in sé, ma solo nel fatto che obbedisce alla Legge divina, e questa opinione la ripete spesso e la dimostra con molteplici ragioni in quasi tutto il libro.

1916. Par. 16. Nello stesso libro ripete spesso che non sia vera obbedienza alla Legge quella fatta senza carità.

1917. Par. 17. Dice che sono della stessa concezione di Pelagio coloro che affermano: fa necessariamente parte di ciò che è il merito il fatto che l’uomo sia elevato per grazia di adozione allo stato divino.

1918. 18. Dice: le opere dei catecumeni, come la fede e la penitenza che precedono la remissione dei peccati, sono meriti per la vita eterna; questa vita, i catecumeni non la ottengono se prima non vengano rimossi gli ostacoli legati alle colpe che hanno commesso in precedenza.

1919. 19. Sembra insinuare che le opere di giustizia e di temperanza compiute da Cristo non traggano maggior valore dalla dignità di chi le compie.

1920. 20. Non c’è peccato che sia veniale nella sua natura, ma ogni peccato merita la punizione eterna.

1921. 21. L’esaltazione e l’elevazione della natura umana alla partecipazione della natura divina è dovuta all’integrità dello stato primitivo, e quindi si deve dire che sia naturale e non soprannaturale.

1922. 22. È pensare come Pelagio di intendere dei Gentili che non aɓbiano fede: il testo dell’Apostolo ai Romani “I Gentili che non hanno la Legge fanno naturalmente ciò che la Legge comanda” Rm 2,14.

1923. 23. Assurda è l’opinione di coloro che affermano che fin dall’inizio, per un dono soprannaturale ed in qualche modo gratuito, l’uomo sia stato innalzato al di sopra della condizione di natura per onorare Dio in modo soprannaturale mediante la fede, la speranza e la carità.

1924. 24. È da uomini vani e oziosi, secondo la stoltezza dei filosofi, che sia stata inventata l’opinione secondo la quale l’uomo è stato costituito fin dall’inizio in modo tale che, grazie a doni aggiunti alla sua natura, sia stato elevato e adottato come figlio di Dio dalla liberalità del Creatore, e questa opinione deve essere ricondotta al pelagianesimo.

1925. 25 (26) Tutte le opere degli infedeli sono peccati e le virtù dei filosofi sono vizi.

1926. 26 (27) L’integrità della prima creazione non era un’elevazione indebita della natura umana, ma la sua condizione naturale. Questa opinione viene ribadita e dimostrata in diversi capitoli.

1927. 27 (28) Il libero arbitrio, senza l’aiuto della grazia di Dio, è buono solo per peccare.

1928. 28 (29) È un errore pelagiano affermare che il libero arbitrio sia in grado di evitare qualsiasi peccato.

1929. 29 (30) Non sono solo questi i “ladri” ed i “briganti” che negano che Cristo sia la via e la “porta” della verità e della vita, ma anche tutti coloro che dicono che si possa “raggiungere” la via della giustizia (cioè una qualche giustizia) “per un’altra via” che non sia quella che passi per Lui (cfr. Gv 10,1 ),

1930. 30 (30B) o che l’uomo possa resistere ad una tentazione senza l’aiuto della grazia stessa, in modo da non esserne indotto o vinto.

1931. 31. La carità perfetta e sincera, che nasce da “amore puro, buona coscienza e fede non finta” (1 Tm 1,5), si può trovare sia nei catecumeni che nei penitenti senza remissione dei peccati.

1932. 32. Questa carità, che è la pienezza della Legge, non è sempre unita alla remissione dei peccati.

1933. 33. Il catecumeno vive nella giustizia, nella rettitudine e nella santità, osserva i comandamenti di Dio e compie la Legge attraverso la carità, prima di aver ottenuto la remissione dei peccati che si riceve solo nel bagno battesimale.

1934. 34. Questa distinzione di un doppio amore, quello naturale con cui si ama Dio come Autore della natura e quello gratuito con cui si ama Dio come Colui che rende beati, è vana, inventata e volta a mettere in ridicolo le Sacre Scritture e molte testimonianze degli antichi.

1935. 35. Tutto ciò che fa un peccatore o uno schiavo del peccato è peccato.

1936. 36. L’amore naturale, che nasce dalle forze della natura, viene sostenuto da alcuni Dottori sulla base della sola filosofia, cedendo alla presunzione umana e facendo torto alla croce di Cristo.

1937. 37. È pensare come Pelagio di riconoscere un qualche bene naturale, cioè che abbia origine unicamente nelle forze della natura.

1938. 38. Tutto l’amore di una creatura ragionevole è o la viziosa cupidigia che ci fa amare il mondo e che è proibita da Giovanni, o la lodevole carità che, riversata dallo Spirito Santo nei cuori (cfr. Rm V,5), ci fa amare Dio.

1939. 39 Ciò che si fa volontariamente, anche se è necessario, è comunque fatto liberamente.

1940. 40. In tutte le sue azioni il peccatore serve l’avidità che domina.

1941. 41. Questo tipo di libertà che è liberata dalla necessità non si trova sotto il nome di libertà nella Scrittura, ma solo sotto il nome di libertà liberata dal peccato.

1942. 42. La giustizia con cui gli empi sono giustificati per fede consiste formalmente nell’obbedienza ai Comandamenti, che è una giustizia per opere, ma non in una grazia infusa con la quale l’uomo viene adottato come figlio di Dio, rinnovato secondo l’uomo interiore e reso partecipe della natura divina affinché, così rinnovato dallo Spirito Santo, possa poi vivere nel bene ed obbedire ai Comandamenti di Dio.

1943. 43. Nell’uomo che si pente prima del Sacramento dell’assoluzione e nel catecumeno prima del Battesimo viene data la vera giustificazione, ma separata dalla remissione dei peccati.

1944. 44. Con la maggior parte delle opere che vengono compiute dai fedeli per obbedire ai Comandamenti di Dio – come obbedire ai genitori, restituire i depositi, astenersi dall’omicidio, dal furto, dalla fornicazione – gli uomini sono certamente giustificati, perché si tratta di obbedienza alla Legge e di una vera giustizia della Legge, ma non ottengono con questo un aumento delle virtù.

1945. 45. Il Sacrificio della Messa non è un sacrificio in altro modo che in quello generale in cui si sacrifica “ogni opera che si debba compiere perché l’uomo sia unito a Dio nella santa società”.

1946. 46 (46A) La volontarietà non appartiene all’essenza e alla definizione del peccato, e non è una questione di definizione, ma di causa ed origine, se tutto il peccato debba essere volontario.

1947. 47(46B) Per questo il peccato originale ha davvero il carattere di peccato, senza alcuna relazione o riferimento alla volontà da cui abbia avuto origine.

1948. 48. (47A) Il peccato originale è volontario in ragione della volontà abituale del bambino, e domina abitualmente il bambino in ragione del fatto che non comporti alcuna volontà contraria.

1949. 49 (47B) E da questa volontà abitualmente dominante deriva che il bambino che muore senza il Sacramento della rigenerazione, dopo aver ricevuto l’uso della ragione, in realtà odia Dio, bestemmia Dio e resiste alla Legge di Dio.

1950. Par. 50.(48) I desideri cattivi a cui la ragione non acconsente e che l’uomo subisce suo malgrado, sono proibiti dal precetto: “Non desiderare” (Es XX,17).

1951. Par. 51.(49) La concupiscenza, o legge delle membra, e i suoi cattivi desideri che l’uomo prova contro la sua volontà, sono una vera disobbedienza alla Legge.

1952. Par. 52.(50) Ogni azione malvagia è di natura tale che possa contaminare il suo autore e tutti i suoi discendenti, come ha contaminato la prima trasgressione.

1953. Par. 53.(51) Per quanto riguarda l’entità del demerito derivante dalla trasgressione, coloro che nascono con vizi minori contraggono da chi li ha generati tanto quanto coloro che nascono con vizi maggiori.

1954. Par. 54.(52) Questa proposizione decisiva: Dio non ha comandato nulla di impossibile all’uomo, è falsamente attribuita ad Agostino, poiché proviene da Pelagio.

1955. Par. 55.(53) Dio non avrebbe potuto creare in origine un uomo come è nato ora.

1956. Par. 56.(54A) Nel peccato ci sono due cose: l’atto e la colpa; una volta compiuto l’atto, non resta che la colpa, o l’obbligo della pena.

1957. Par. 57.(54B) Da ciò consegue che nel Sacramento del Battesimo, o nell’assoluzione da parte del Sacerdote, propriamente si toglie solo la colpa incorsa nel peccato, e il ministero del Sacerdote assolve solo dalla colpa.

1958. Par. 58.(55) Il peccatore penitente non è vivificato dal ministero del Sacerdote che lo assolve, ma da Dio solo che, suggerendogli ed ispirandogli la penitenza, lo vivifica e lo fa risorgere; ma dal ministero del Sacerdote viene tolta solo la colpa.

1959. 59 (56) Quando con l’elemosina o con altre opere di penitenza soddisfiamo Dio per i dolori temporali, non offriamo a Dio un corrispettivo adeguato per i nostri peccati, come alcuni erroneamente affermano (perché altrimenti saremmo, almeno in qualche modo, dei redentori); ma facciamo qualcosa per cui la soddisfazione di Cristo venga applicata e comunicata a noi.

1960. 60 (57) Con le sofferenze dei Santi comunicate nelle indulgenze non si riscattano propriamente le nostre colpe, ma con la comunione della carità si partecipano le loro sofferenze per essere degni di essere liberati, attraverso il sangue di Cristo, dalle pene dovute ai peccati.

1961. 61 (58) Questa famosa distinzione dei Dottori secondo cui i Comandamenti della Legge divina sono adempiuti in un duplice modo, uno secondo la sola sostanza delle opere prescritte, l’altro secondo un certo modo, cioè il modo secondo il quale essi sono in grado di condurre al Regno eterno colui che li adempie (cioè secondo il modo del merito), è una distinzione inventata che debba essere respinta.

1962. 62 (59) Allo stesso modo, la distinzione secondo la quale un’opera è detta buona in due modi, o perché sia giusta e buona per il suo oggetto e per tutte le circostanze (ciò che di solito si chiama moralmente buona), o perché sia meritoria per il Regno eterno in quanto compiuta dallo Spirito di carità da un membro che mira a Cristo, è considerata da respingere.

1963. 63 (60) Analogamente questa distinzione di una doppia giustizia, l’una dovuta allo Spirito di carità che abita (nell’uomo), l’altra certamente dovuta all’ispirazione dello Spirito Santo che eccita la volontà di penitenza, ma che non abita ancora nel cuore diffondendo la carità attraverso la quale si compie la Legge divina, viene respinta nel modo più odioso e ostinato.

1964. 64 (61) Infine, anche questa distinzione che viene fatta tra una doppia vivificazione, quella per cui il peccatore è vivificato quando, per grazia di Dio, sia animato dalla penitenza e dal proposito e dall’inizio di una nuova vita, e l’altra per cui è vivificato colui che sia veramente giustificato e che diventi un tralcio vivo della vite di Cristo, è anch’essa inventata e non è affatto conforme alla Scrittura.

1965. 65 (62) È solo per un errore pelagiano che si posss ammettere che ci sia un uso del libero arbitrio che sia buono o non cattivo, e chi pensa ed insegna questo fa ingiustizia alla grazia di Cristo.

1966. 66 ( 63) Solo la violenza si oppone alla libertà dell’uomo naturale.

1967. 67 (64) L’uomo pecca in modo da meritare la dannazione anche in ciò che fa in modo necessario.

1968. 68 (65) L’infedeltà puramente negativa, in coloro ai quali non è stato predicato Cristo, è peccato.

1969. 69 (66) La giustificazione degli empi avviene formalmente con l’obbedienza alla Legge, e non con una comunicazione ed un’ispirazione nascosta della grazia che induca coloro che sono stati giustificati da essa ad adempiere la Legge.

1970. 70 (67) L’uomo che vive in peccato mortale o nella colpa che meriti la dannazione eterna può avere vera carità; e anche la carità perfetta può essere alleata con la colpa che meriti la dannazione eterna.

1971. 71 (68) Per la contrizione, anche se perfezionata dalla carità e unita al voto di ricevere il Sacramento, salvo il caso di necessità o di martirio, la colpa non è perdonata senza l’effettiva ricezione del Sacramento.

1972. 72 (69) Tutte le afflizioni dei giusti sono in tutto e per tutto punizioni per i loro peccati; per questo Giobbe ed i martiri che hanno sofferto, hanno sofferto a causa dei loro peccati.

1973. 73 (70) Nessuno, eccetto Cristo, è senza peccato originale; per questo la Beata Vergine morì a causa del peccato contratto da Adamo, e tutte le sue afflizioni in questa vita, come quelle degli altri giusti, furono punizioni per il peccato attuale o originale.

1974. 74 (71) In coloro che sono nati di nuovo e sono caduti in peccato mortale, la concupiscenza che ora li domina è peccato, così come le altre cattive abitudini.

1975. 75 (72) I movimenti disordinati della concupiscenza sono proibiti, dato lo stato dell’uomo decaduto, dal precetto “Non desiderare” (Es 20,17); perciò l’uomo che li prova, anche se non vi acconsente, trasgredisce il precetto “Non desiderare”, anche se la trasgressione non gli viene imputata come peccato.

1976. 76 (73) Finché in colui che ama rimane qualcosa della concupiscenza della carne, egli non adempie al precetto: “Amerai Dio con tutto il cuore” (Dt VI,5; Mt XXII,37).

1977. 77 (74) Le laboriose soddisfazioni di chi sia stato giustificato non sono in grado di espiare “de condigno” la pena temporale che rimanga dopo il perdono della colpa.

1978. 78 (75) L’immortalità del primo uomo non era un beneficio della grazia, ma la sua condizione naturale.

1979. 79 (76) L’opinione dei Dottori secondo cui il primo uomo potrebbe essere stato creato e stabilito da Dio senza la giustizia naturale è falsa.

(Censura): Queste proposizioni sono state soppesate con un esame rigoroso in nostra presenza; sebbene alcune di esse possano essere sostenute in una certa misura… nel senso rigoroso e proprio dei termini intesi da coloro che le affermano, con il presente documento le condanniamo, le qualifichiamo e le respingiamo in quanto, a seconda dei casi, eretiche, erronee, sospette, avventate, scandalose ed offensive per le orecchie pie, così come ciò che sia stato detto di esse a parole e per iscritto.

1981. In primo luogo, quindi, condanniamo tutte le cambiali dette fittizie (secche), la cui finzione consiste nel fatto che le parti contraenti fingono, su certi mercati o in altri luoghi, di concludere operazioni di cambio; coloro che ricevono il denaro consegnano certamente le loro cambiali, ma queste non vengono emesse, o vengono emesse in modo tale che, trascorso il tempo in cui erano valide, vengono rese inefficaci; o ancora, il denaro viene infine reclamato, con un guadagno, anche senza la consegna di cambiali di questo tipo, laddove il contratto era stato concluso: Infatti, tra chi dà e chi riceve era stato concordato fin dall’inizio, o almeno questa era l’intenzione, e non c’è nessuno che, sui mercati o nei luoghi suddetti, onorerebbe tali lettere una volta in loro possesso. Questo male è anche simile al seguente: quando si danno cambiali fittizie per denaro, o per un deposito, o sotto altro nome, in modo che più tardi, nello stesso luogo o altrove, possano essere restituite con profitto.

1982. Ma per le cambiali dette anche vere, ci è stato riferito che i cambiavalute a volte rinviano la data di pagamento precedentemente concordata, quando per tacito o espresso accordo si riceva un profitto o anche solo promesso. Noi dichiariamo che tutto ciò sia usurario e ne vietiamo la pratica.

1983. Perché… è lecito agli indiani infedeli avere più mogli che ripudiano anche per i motivi più insignificanti, ne consegue che, avendo ricevuto il Battesimo, è permesso loro di rimanere con la moglie che è stata battezzata con il marito; e poiché spesso accade che non sia la prima moglie, i ministri (dei Sacramenti) e i Vescovi sono tormentati da grandissimi scrupoli perché pensano che non si tratti di un vero matrimonio; ma poiché sarebbe molto crudele separarli dalle donne con cui questi indiani hanno ricevuto il Battesimo, e poiché sarebbe particolarmente difficile trovare la prima moglie, per queste ragioni, ansiosi di considerare con benevolenza e affetto paterno la situazione di questi indiani, liberiamo i Vescovi e i ministri da tali scrupoli, d’ufficio ed in virtù della nostra sicura conoscenza e della pienezza dei poteri apostolici, dichiariamo che quegli Indiani che, come si suppone, siano stati battezzati e saranno battezzati, possano rimanere con la donna che è stata o sarà battezzata con loro come con la loro legittima moglie, dopo aver congedato le altre, e che tale matrimonio esista tra loro legittimamente.

GREGORIO XIII:

13 maggio 1572-10 aprile 1585.

Professione di fede prescritta per i Greci.

1985. Io, N., credo e professo con fede ferma tutti e ciascuno degli articoli contenuti nel Simbolo di fede usato dalla Chiesa romana, cioè: Credo in un solo Dio… (come nel Simbolo di fede di Nicea – Costantinopoli, 150).

1986. Credo, accetto e confesso anche tutto ciò che sia stato definito e dichiarato dal Santo Concilio Ecumenico di Firenze riguardo all’unione delle Chiese d’Occidente e d’Oriente, cioè che lo Spirito Santo sia eternamente del Padre e del Figlio, che derivi la sua essenza ed il suo essere sussistente sia dal Padre che dal Figlio, e che proceda eternamente da entrambi come da un unico principio e da un’unica spirale; Infatti, ciò che dicono i santi Dottori e Padri, cioè che lo Spirito Santo proceda dal Padre attraverso il Figlio, tende a questa concezione: con ciò si intende che anche il Figlio sia, secondo i Greci, la causa, secondo i Latini, il principio della sussistenza dello Spirito Santo, così come il Padre. E poiché tutto ciò che appartiene al Padre, il Padre stesso lo ha dato al suo Figlio unigenito generandolo, eccetto il fatto di essere Padre, la stessa cosa che lo Spirito Santo procede dal Figlio, il Figlio stesso l’ha dal Padre dal quale è stato anche eternamente generato. E credo che la spiegazione contenuta in queste parole “e del Figlio (filioque)” sia stata aggiunta al Simbolo in modo lecito e ragionevole, per chiarire la verità e per una necessità che urgeva in quel momento.

1987. Inoltre, confesso e accolgo tutti gli altri articoli che la Santissima Chiesa Romana e Apostolica abbia prescritto di professare e ricevere in virtù dei decreti del Santo Concilio Ecumenico Generale di Trento, e che vanno oltre quanto contenuto nei suddetti simboli di fede. Accetto… (tutto il resto come nella professione di fede tridentina 1863).

Costituzione “Populis ac nationibus“, 25 gennaio 1585.

Privilegio paolino.

1988. È opportuno mostrare indulgenza, in materia di libertà di contrarre matrimonio, verso i popoli e le nazioni che si sono recentemente convertiti dall’errore del paganesimo alla fede cattolica, affinché gli uomini che non sono abituati a mantenere la continenza, non siano per questo meno disposti a perseverare nella fede, e affinché con il loro esempio non scoraggino altri dal riceverla. Poiché, dunque, accade spesso che molti infedeli di entrambi i sessi, ma soprattutto di sesso maschile, vengano catturati dai nemici dopo un matrimonio contratto secondo il rito pagano, e vengano portati in regioni molto lontane, lontano dalla loro patria e dai loro coniugi, in modo che sia i prigionieri stessi sia coloro che rimangono in patria, quando poi si convertono alla fede, non sono in grado, a causa della distanza troppo grande, di chiedere correttamente ai loro coniugi non Cristiani se desiderano vivere con loro senza insultare il Creatore, o perché a volte anche ai messaggeri sia negato l’accesso alle province ostili e barbare, o perché ignorano totalmente le regioni in cui siano stati trascinati, o perché la lunghezza del viaggio comporti grandi difficoltà, per questo motivo, tenendo presente che tali matrimoni contratti tra non credenti siano certamente considerati veri, ma non così conclusi da non poter essere sciolti in caso di necessità, concediamo agli Ordinari del luogo e ai parroci… la facoltà di dispensare 0 dall’interpellanza) tutti i fedeli Cristiani di entrambi i sessi che vivono in queste regioni e che in seguito si siano convertiti alla fede e anbiano contratto matrimonio prima di ricevere il Battesimo, in modo che tutti loro, anche se il coniuge non credente sia ancora vivo e non sia stato chiesto il suo consenso o non ci si aspettava la risposta, possano contrarre matrimonio con qualsiasi fedele, anche di altro rito, celebrarli solennemente davanti alla Chiesa e, dopo averli consumati con l’unione carnale, rimanervi lecitamente finché vivono, purché si accerti, anche sommariamente ed extragiudizialmente, che il coniuge che, come si presuppone assente, non è stato interpellato, o che, essendo stato interpellato, non abbia manifestato la sua volontà entro il termine fissato da questa monizione; e decidiamo che, anche se in seguito risultasse che i primi coniugi, che non erano credenti, non abbiano potuto manifestare la loro volontà perché impediti da un giusto motivo, e anche se si fossero convertiti alla fede al momento del secondo matrimonio, questi matrimoni non debbano mai essere abrogati per questo, e che la prole in essi concepita sia legittima.

SESTO V: 24 aprile 1585-27 agosto 1590.

URBANO VII: 15-27 settembre 1590

GREGORIO XIV: 5 dicembre 1590-17

ottobre 1591.

INNOCENZO IX: 29 ottobre 1591– 30, dicembre 1591.

Salvaguardia del segreto della confessione.

1989. (Cap. 4) Sia i superiori in carica che i confessori che saranno poi promossi al grado di superiori avranno la massima cura nel non fare uso, in vista del governo esterno, della conoscenza che possano avere avuto, in Confessione, dei peccati di altre persone. Ordiniamo quindi che questo venga osservato da tutti i superiori dei regolari, chiunque essi siano.

Il potere di benedire con il crisma e di cresimare.

1990. I Sacerdoti greci non devono segnare la fronte dei battezzati con il crisma, e per questo motivo le parole “E dopo l’orazione”, ecc.

1991. Par. 1. I Vescovi latini devono confermare i neonati o altri battezzati la cui fronte sia stata effettivamente segnata con il crisma da Sacerdoti greci, e sembra più sicuro che lo facciano con questa riserva e condizione, cioè: N., se sei confermato, non ti confermo; ma se non sei confermato, ti segno con il segno della croce e ti confermo con il crisma della salvezza nel Nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo; e questo soprattutto quando si possa dubitare con una certa probabilità che siano stati battezzati da Vescovi greci.

1992. Par. 3 I Sacerdoti greci non sono obbligati a ricevere gli olii santi, ad eccezione del crisma, dai Vescovi diocesani latini, poiché secondo il rito antico questi olii sono fatti o benedetti da loro nello stesso momento in cui vengono amministrati questi olii e i Sacramenti. Ma saranno obbligati a ricevere il crisma che, anche secondo il loro rito, può essere consacrato solo dal Vescovo.

Decreto del Sant’Uffizio, 20 giugno 1602.

Confessione e assoluzione di una persona assente.

1994. Il santissimo Signore… ha condannato e proibito la seguente proposizione, cioè “che sia lecito confessare sacramentalmente i peccati ad un confessore assente, per lettera o per messaggero, e ricevere l’assoluzione dallo stesso Sacerdote assente”, come falsa, avventata e scandalosa, e ha ordinato che d’ora in poi questa proposizione non debba più essere insegnata in corsi, lezioni o assemblee, privatamente o pubblicamente, e che non debba mai essere sostenuta, stampata o praticata in alcun modo, come probabile in alcuni casi.

1995. Domanda: La dottrina di P. Suarez contenuta nel 4° volume dei suoi Commentarri in 3am Partem D. Thomae disp. 21, sect. 4 dove, dopo la pubblicazione del decreto emanato dal nostro santissimo Signore l’anno scorso nel mese di giugno riguardo alla questione della Confessione sacramentale, discute di questa stessa questione e del significato di detto decreto, è apertamente contraria a ciò che questo decreto ordina? (Risposta): Dato che i termini del suddetto decreto mostrano chiaramente e con la loro forma che Sua Santità non solo abbia condannato la proposizione che sia lecito ricevere l’assoluzione da un Sacerdote assente, ma anche che sia lecito confessare sacramentalmente i peccati ad un confessore assente, e dato che la parola “è lecito”, come appare dagli altri elementi, è molto chiaramente usata per qualificare come illecito ciò che sia contrario all’istituzione e all’essenza del Sacramento (come Suarez stesso è costretto dalla verità a riconoscere), e poiché si tratta di una pura invenzione, senza alcun fondamento plausibile nei termini del decreto, dire che tutta questa ipotesi sia condannata in esso solo quando le cose sono collegate, cioè alla maniera di un’unica ipotesi, e che questa ipotesi da condannare debba essere intesa con una particella copulativa e non con una particella disgiuntiva, in modo che secondo il vero contenuto della formula entrambi i membri sarebbero soggetti a censura e non solo l’uno o l’altro, e poiché è un vano pretesto concludere da questo caso in cui, dagli unici segni di penitenza che sono stati dati e riferiti al Sacerdote che arriva, viene data l’assoluzione a uno che sta già morendo, a una confessione di peccati in assenza del Sacerdote – poiché la difficoltà che contiene è ben diversa: Per questo motivo i suddetti signori hanno ritenuto che la suddetta dottrina di p. Suarez si opponga apertamente a quanto definito dal Santissimo Padre.

LEONE XI: 1 aprile – 2 aprile

PAOLO V: 16 maggio 1605-28 giugno 1621.

Libertà di insegnamento in materia di ausili alla grazia.

1997. Per quanto riguarda gli aiuti (di grazia), il Sommo Pontefice ha dato la facoltà a coloro che stanno disputando, così come ai consiglieri, di tornare ai loro paesi e alle loro case; ed è stato aggiunto che Sua Santità avrebbe pubblicato la spiegazione e la decisione prevista a tempo debito. Ma lo stesso Santissimo Signore ha vietato severamente a chiunque di giudicare o censurare in qualsiasi modo la parte avversa quando si tratta di questa questione. Inoltre, desidera che si astengano dall’usare parole troppo dure nei confronti dell’altro e che mostrino l’amarezza dei loro cuori. In questa materia (cioè per quanto riguarda la decisione sulla questione dei sussidi della grazia) si è rimandato per tre motivi: primo, per essere assolutamente certi, e perché il tempo insegna e mostra la verità delle cose, essendo un grande giudice e censore delle cose. In secondo luogo, perché entrambe le parti sono d’accordo nella sostanza con la verità cattolica, cioè che Dio ci abbia fatto agire con l’efficacia della sua grazia, che fa volere gli uomini non volenti e che dirige e cambia le volontà degli uomini – ed è di questo che stiamo parlando – ma sono in disaccordo solo sul modo. I domenicani, infatti, sostengono che Egli predetermini la nostra volontà fisicamente, cioè in modo reale ed effettivo, mentre i gesuiti ritengono che lo faccia in modo appropriato e morale – opinioni che possono essere entrambe difese. In terzo luogo, perché in questi tempi in cui ci sono così tante eresie, è molto consigliabile preservare e mantenere la reputazione e il credito di questi due ordini, e perché se uno di essi viene messo in discredito può derivarne un grande danno. Ma se si dice che è bene sapere quale fede si debba avere in questa materia, la risposta è che sia necessario seguire e sostenere la dottrina del Concilio di Trento, nella VI sessione sulla giustificazione, che è chiara e limpida, che spiega l’errore e l’eresia dei pelagiani e dei semipelagiani, nonché quella di Calvino, e che insegna la dottrina cattolica secondo la quale “è necessario che il libero arbitrio sia mosso, suscitato e aiutato dalla grazia di Dio, e che possa liberamente assentire o non assentire”; e non si impegnò in questa questione relativa al modo in cui opera la grazia; fu toccata dal Concilio, ma fu abbandonata perché inutile e non necessaria, imitando in questo Celestino I che, dopo aver definito diverse questioni o proposizioni in questa materia, disse che non osava condannare né voleva affermarne altre, (di natura) più difficili e più sottili (cf. 249)

GREGORIO XV: 9 febbraio 1621-8 luglio 1623

URBANO VIII: 6 agosto 1623-29 luglio 1644.

Battesimo infantile conferito contro la volontà dei genitori.

1998. A proposito del Battesimo conferito alla bambina ebr giudea Alegreta all’età di circa tre anni… contro la volontà dei genitori,… (i Cardinali) ritennero che la bambina fosse veramente battezzata se materia, forma e intenzione fossero unite ed il Battesimo potesse essere attestato da un testimone e, sebbene i figli dei Giudei non debbano essere battezzati contro la volontà dei genitori, se tuttavia sono battezzati di fatto, il Battesimo è valido ed il carattere è impresso; la bambina battezzata deve essere educata con i Cristiani; per quanto riguarda il popolo, bisogna fargli capire che non sia permesso battezzare i figli dei Giudei contro la volontà dei genitori, perché anche se il fine è buono, i mezzi non sono leciti, tanto più che è in vigore la bolla di Giulio III, che impone una pena di mille ducati e la sospensione a chi battezzO i figli dei Giudei contro la volontà dei genitori.

Errore sulla doppia testa della Chiesa.

1999. Il Santissimo Signore (ha) la seguente proposizione: “San Pietro e San Paolo sono i due principi della Chiesa che sono uno”, oppure: “sono i due corifei della Chiesa Cattolica ed i suoi capi più eminenti che sono legati nella più grande unità”, oppure: “sono il doppio vertice della Chiesa universale, essendo uniti in uno nel modo più mirabile”, oppure: “sono i due supremi pastori e capi della Chiesa che formano una sola testa”, interpretata nel senso che suppone un’uguaglianza in tutti i punti tra San Pietro e San Paolo, senza subordinazione e sottomissione di San Paolo a San Pietro nel supremo potere e governo della Chiesa universale, il Santissimo Signore l’ha stimata e dichiarata eretica.

Costituzione “Cum occasione” a tutti i fedeli, 31 maggio 1653

Gli errori di Cornelius Jansen sul tema della grazia.

2001. 1 – Ci sono comandamenti di Dio che per gli uomini giusti, nonostante la loro volontà e i loro sforzi, sono impossibili da osservare, date le forze a loro disposizione, attraverso le quali questo sarebbe diventato possibile (cf. 1954).

2002. 2 – Nello stato di natura decaduta, la grazia interiore non resiste mai.

2003. 3 – Per meritare e demeritare nello stato di natura decaduto, non è necessario che l’uomo sia libero da ogni necessità, ma è sufficiente che sia libero da ogni costrizione.

2004. 4 – I semipelagiani ammettevano la necessità della grazia interiore preveniente per ogni atto particolare, anche per il consenso di fede; erano eretici in quanto volevano che questa grazia fosse tale che la volontà potesse resistere o obbedire.

2005. 5 – È semipelagiano affermare che Cristo sia morto o abbia versato il sangue per tutti gli uomini senza eccezioni.

2006. (Censura) Proposizione 1: La dichiariamo temeraria, empia, blasfema, condannata con anatema ed eretica, e la condanniamo come tale. – 2 eretica… – 3 : eretica… – 4: falsa ed eretica. 5: falsa, temeraria, scandalosa, ed intesa nel senso che Cristo è morto solo per i predestinati: empia, blasfema, infame, sprezzante della pietà divina ed eretica…

2007. Con questa dichiarazione e questa definizione relativa alle cinque proposizioni di cui sopra non intendiamo, tuttavia, approvare in alcun modo altre opinioni che siano contenute nel suddetto libro di Cornelius Jansen.

Decreto del Sant’Uffizio, 23 aprile 1654

Libertà di insegnamento in materia di aiuti alla grazia.

2008. In considerazione del fatto che circolano a Roma ed altrove alcune dichiarazioni e manoscritti, e forse documenti stampati, delle congregazioni tenute sotto Clemente VIII e Paolo V di felice memoria sul tema degli aiuti della grazia, sia sotto il nome di Francesco Pegna, già decano della Rota Romana, sia sotto quello di fr. Thomas de Lemos, op, e altri e teologi che, si dice, parteciparono alle suddette congregazioni, nonché un certo autografo o originale di una costituzione dello stesso Paolo V riguardante una definizione di questa questione degli aiuti della grazia e una condanna della concezione, o delle concezioni, di Luis de Molina, sj: Sua Santità dichiara e decreta che non si debba assolutamente dare credito alle dichiarazioni e agli atti sopra citati – sia a favore della concezione dei frati dell’Ordine di San Domenico, sia a favore di Luis de Molina e di altri membri della Compagnia di Gesù – né all’autografo o all’originale della citata presunta Costituzione di Paolo V. Al contrario, per quanto riguarda la suddetta questione, si devono osservare i decreti dei suoi predecessori.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (28): “da ALESSANDRO VII ad INNOCENZO XI”

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII, “SPESSE VOLTE”

Il Santo Padre in questa Lettera Enciclica stigmatizza le leggi emanate contro le Associazioni cattoliche ingiustamente e fraudolentemente ritenute causa di disordini sociali e rivolta contro le istituzioni statali. Sembra la favoletta del lupo che accusa la pecora di avvelenargli l’acqua pur bevendo in un piano inferiore del ruscello. Le proteste e le giuste ragioni del Pontefice non furono ascoltate da chi avrebbe dovuto farne tesoro con danni immensi per se stesso e per tutto il popolo italiano che, come sappiamo dalle vicende storiche, subì carestie, povertà, miseria, due disastrose guerre, sconfitte vergognose in Africa, una terribile dittatura, la ingloriosa cacciata e l’esilio per la monarchia e chissà quante anime dannate…. – Queste espressioni dovrebbero ancor più colpire oggi i governanti che stanno annientando in Italia e nel mondo, ogni principio cristiano, sostituendoli con le imposizioni mondialiste dei luciferini cabalisti nemici di Dio, della sua santa Chiesa e di tutti gli uomini, compresi se stessi. Grandi calamità incombono soprattutto sui popoli che hanno voltato le spalle a Cristo che tanto li aveva beneficati, e soprattutto sulla Nazione più privilegiata al mondo ove ha sede l’Autorità Apostolica. Dio disprezzato, Gesù Cristo deriso e rigettato, la Chiesa Cattolica ridotta in una condizione di totale eclissi, a chi rivolgerci per fermare l’ira incombente? Lo sappiamo da millenni, alla Immacolata Maria che schiacciera’ il capo ributtante del dragone infernale e di tutti gli accoliti suoi agenti … et IPSA conteret caput tuum…

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Leone XIII
Spesse volte

Lettera Enciclica


5 agosto 1898
Agli Italiani, sulla soppressione di Associazioni cattoliche.

Spesse volte, nel corso del Nostro Pontificato, mossi dalle sacre ragioni dell’Apostolico ministero, dovemmo levar lamento e protesta in occasione di atti compiuti, a detrimento della Chiesa e della Religione, da coloro che, per vicenda di ben noti rivolgimenti, reggono la cosa pubblica in Italia. Ci duole doverlo fare di nuovo sopra un argomento gravissimo e che Ci riempie l’animo di profonda tristezza. Noi intendiamo parlare della soppressione di tante istituzioni cattoliche, decretata, non ha guari, in varie parti della Penisola. Questa disposizione immeritata ed ingiusta ha sollevato la riprovazione di ogni anima onesta, ed in essa vediamo, con sommo Nostro rammarico, compendiarsi e rincrudire le offese sofferte negli anni trascorsi. – Sebbene sia cosa a voi nota, Venerabili Fratelli, pur nondimeno stimiamo opportuno riandare le origini e la necessità di queste istituzioni, frutto delle Nostre sollecitudini e delle vostre amorevoli cure, affinché tutti comprendano il pensiero che le aveva ispirate e lo scopo religioso morale e caritativo a cui erano dirette. Dopo aver rovesciato il Principato Civile dei Papi, si vennero in Italia togliendo gradatamente alla Chiesa cattolica i suoi elementi di vita e di azione, la sua naturale e secolare influenza nei pubblici e sociali ordinamenti. Con atti progressivi e coordinati a sistema, si chiusero monasteri e conventi; si dissipò, colla confisca dei beni ecclesiastici, la massima parte del patrimonio della Chiesa; s’impose ai chierici il servizio militare; s’inceppò la libertà dell’ecclesiastico ministero con disposizioni arbitrarie ed ingiuste; si mirò con sforzi perseveranti a cancellare da tutte le pubbliche istituzioni l’impronta religiosa e cristiana; si favorirono i culti dissidenti, e mentre si concedeva la più ampia libertà alle sètte massoniche, si riserbavano odiose intolleranze e vessazioni a quella unica Religione, che fu sempre gloria, presidio a forza degli Italiani. Noi non mancammo di deplorare questi gravi e ripetuti attentati. Li rimpiangemmo per conto della nostra santa Religione esposta a supremi pericoli; li rimpiangemmo eziandio, e ciò diciamo con tutta sincerità del Nostro cuore, per conto della patria nostra; giacché la Religione è sorgente di prosperità e di grandezza per una nazione, e fondamento precipuo di ogni bene ordinata società. Ed infatti, indebolito il sentimento religioso, che eleva e nobilita l’animo, e v’imprime profondamente le nozioni del giusto e dell’onesto, l’uomo inclina e si abbandona ad istinti selvaggi e ad interessi materiali; e da ciò, come logica conseguenza, rancori, scissure, depravazioni, conflitti e turbamento dell’ordine, ai quali mali non sono rimedi sicuri e sufficienti né la severità delle leggi, né i rigori dei tribunali, né l’uso della stessa forza armata. Di questa connessione naturale ed intrinseca tra il decadimento religioso e lo sviluppo dello spirito di sovversione e di disordine, Noi più volte, in atti pubblici diretti agli Italiani, avvertimmo coloro ai quali incombe la formidabile responsabilità del potere, mostrando i progressi immancabili del socialismo e dell’anarchia, ed i mali senza fine a cui essi esponevano la nazione. – Ma non fummo ascoltati. Il pregiudizio meschino e settario fe’ velo all’intelligenza, e la guerra contro la Religione fu continuata colla stessa intensità. Non solo non fu preso alcun provvedimento; ma dai libri, dai giornali, dalle scuole, dalle cattedre, dai circoli, dai teatri, si proseguì a spargere largamente i germi dell’irreligione e dell’immoralità, a scalzare i principi a cui s’informano i forti ed onesti costumi di un popolo, a diffondere le massime, dalle quali segue inesorabilmente la perversione dell’intelletto e la corruzione del cuore. Noi allora, Venerabili Fratelli, vedendo periglioso e fosco l’avvenire del nostro Paese, credemmo giunto il momento di alzare la voce, e dicemmo ai Cattolici italiani: la Religione e la società sono in pericolo; è tempo di spiegare tutta la vostra attività, opponendo al male invadente un argine colla parola, colle opere, colle associazioni, coi comitati, colla stampa, coi congressi, colle istituzioni di carità e di preghiera, con tutti i mezzi, infine, pacifici e legali, che siano acconci a mantenere nel popolo il sentimento religioso ed a sollevarne la miseria, cattiva consigliera, resa tanto profonda ed estesa per le depresse condizioni economiche d’Italia. Tali cose Noi raccomandammo più volte, ed in modo particolare nelle due Lettere già da Noi indirizzate al popolo italiano: in quella del 15 ottobre 1890 e nell’altra dell’8 dicembre 1892 [encicliche “Dall’Alto” e “Custodi della fede“]. Ci è qui grato dichiarare, che le Nostre esortazioni caddero, su terreno fecondo. Mediante i vostri generosi forzi, Venerabili Fratelli, e quelli del clero e dei fedeli a voi affidati, si ottennero lieti e salutari effetti, dai quali era facile prevederne anche maggiori in un prossimo avvenire. Centinaia di associazioni e di comitati sorsero in varie parti d’Italia, e dal loro zelo indefesso ebbero origine casse rurali, cucine economiche, dormitori economici, ricreatori festivi, opere catechistiche, assistenza degli infermi, tutela della vedova e del pupillo e tante altre benefiche istituzioni, che furono salutate dalla riconoscenza e dalle benedizioni del popolo, ed ebbero sovente anche da uomini di altro partito ben meritato elogio. Ed i Cattolici, secondo il loro solito, nella esplicazione di questa lodevole operosità cristiana, non avendo nulla da celare, si mostrarono alla luce del giorno e si tennero costantemente nei confini della legalità. Ma sopraggiunsero le luttuose vicende che, accompagnate da tumulti e spargimenti di sangue cittadino, funestarono alcune contrade d’Italia. Niuno più di Noi soffrì nell’animo e si commosse a quel triste spettacolo. – Pensammo però, che nelle origini prime di quelle sedizioni e di quelle lotte fraterne, coloro che hanno la direzione della cosa pubblica riconoscerebbero il frutto funesto, ma naturale, del mal seme a larga mano e per sì lungo tempo sparso impunemente in tutta la Penisola; pensammo che risalendo dagli effetti alle cause e traendo profitto dal duro ammaestramento ricevuto, tornerebbero alle norme cristiane del riordinamento sociale, colle quali debbono rinnovarsi le Nazioni, se non si vogliono lasciar perire, e perciò porrebbero in onore i principi di giustizia, di probità e di religione, dai quali deriva principalmente anche il benessere materiale di un popolo. Pensammo almeno che, volendo rinvenire autori e complici di quelle sommosse, si avviserebbero a cercarli fra coloro, che avversano la dottrina cattolica, e nel naturalismo e materialismo scientifico e politico infiammano gli animi ad ogni cupidigia disordinata; fra coloro, che nelle ombre di settarie congreghe nascondono i rei intendimenti ed affilano le armi contro l’ordine e la sicurezza della società. – Ed invero non mancò qualche spirito elevato ed imparziale, anche nel campo avverso, che comprese ed ebbe il lodevole coraggio di proclamare pubblicamente le vere cause dei lamentati disordini. Ma grande fu la Nostra sorpresa ed il Nostro dolore quando apprendemmo che, con assurdo pretesto, mal dissimulato dall’artificio, si osava, alfine di deviare l’opinione pubblica e porre ad esecuzione un premeditato disegno, riversare sui Cattolici la stolta accusa di perturbatori dell’ordine e far ricadere sopra di essi il biasimo ed il danno dei sediziosi sconvolgimenti, di cui alcune contrade d’Italia furono teatro. – E maggiormente crebbe il Nostro dolore quando a tali calunnie succedendo fatti arbitrari e violenti, si videro sospesi e soppressi molti dei principali e più valorosi giornali cattolici, proscritti comitati per le parrocchie e per le Diocesi, disperse adunanze per congressi, rese inerti alcune istituzioni ed altre minacciate fra quelle stesse che hanno per scopo il solo incremento della pietà tra i fedeli, o la pubblica e privata beneficenza; quando si videro disciolte innocue e benemerite società in grandissimo numero, e così distrutto, in poche ore procellose, il lavoro paziente, caritatevole, modesto di molti anni, di molti nobili intelletti, di molti cuori generosi. Con tale enorme ed odiosa disposizione la pubblica autorità contraddiceva, anzi tutto, alle sue precedenti affermazioni. Per molto tempo, infatti, essa aveva rappresentato le popolazioni della Penisola conniventi e del tutto solidali con lei nell’opera rivoluzionaria ed avversa al Papato; ed ora invece, ad un tratto, veniva a smentire se stessa col ricorrere ad espedienti straordinari per comprimere innumerevoli associazioni sparse in tutta Italia, e ciò non per altro motivo se non perché esse si mostravano affezionate e devote alla Chiesa ed alla causa della Santa Sede. Ma questa disposizione ledeva, soprattutto, i principi di giustizia e le stesse norme delle leggi vigenti. – In forza di questi principi e di queste norme è lecito ai Cattolici, come a tutti gli altri cittadini, fruire della libertà di unire in comune i loro sforzi per promuovere il bene morale e materiale del loro prossimo, o per esercitarsi in pratiche di pietà e di religione. Fu dunque arbitrio lo scioglimento di tante benefiche istituzioni cattoliche, che pure esistono tranquille e rispettate in altre Nazioni, senza alcuna prova della loro colpabilità, senza alcuna investigazione precedente, senza alcun documento atto a dimostrare la loro partecipazione agli avvenuti disordini. Fu anche una speciale offesa arrecata a Noi, che avevamo ordinato e benedetto quelle utili e pacifiche associazioni, ed a voi, Venerabili Fratelli, che ne avevate curato e promosso lo sviluppo e vigilato il regolare andamento: la Nostra protezione e la vostra vigilanza dovevano renderle anche maggiormente rispettabili, ed immuni da qualsiasi sospetto. Né possiamo passare sotto silenzio quanto siffatta disposizione sia perniciosa agl’interessi delle moltitudini; quanto alla conservazione sociale, quanto al vero bene d’Italia. Colla soppressione di quelle società viene ad aumentare la miseria morale e materiale del popolo, ch’esse procuravano con ogni mezzo possibile di mitigare; viene privata la civil comunanza di una forza potentemente conservatrice; giacché la loro organizzazione stessa e la diffusione dei loro principi era un argine contro le teorie sovversive del socialismo e dell’anarchia; viene infine ad accendersi maggiormente il conflitto religioso, che tutti gli uomini scevri da passioni settarie comprendono esser supremamente funesto all’Italia, di cui spezza le forze, la compattezza, l’armonia. – Noi non ignoriamo, che le società cattoliche siano accusate di tendenze contrarie agli attuali ordinamenti politici d’Italia e considerate perciò come sovversive. Siffatta imputazione è fondata sopra un equivoco creato e mantenuto appositamente dai nemici della Chiesa e della Religione per coonestare dinanzi al pubblico il riprovevole ostracismo che essi intendono infliggere alle dette associazioni. Noi vogliamo che tale equivoco sia dissipato per sempre. I Cattolici italiani, in forza degli immutabili e noti principi della loro religione, rifuggono da cospirazione e ribellione qualsiasi contro i pubblici poteri, ai quali rendono il tributo che ad essi si deve. La loro condotta passata, alla quale tutti gli uomini imparziali possono rendere onorata testimonianza, è garante di quella futura, e ciò dovrebbe bastare ad assicurar loro la giustizia e la libertà a cui hanno diritto tutti i pacifici cittadini. Diremo di più: essendo essi, per la dottrina che professano, i più solidi sostenitori dell’ordine, hanno diritto al rispetto; e se la virtù ed il merito fossero adeguatamente apprezzati, avrebbero anche diritto ai riguardi ed alla gratitudine di chi presiede alla cosa pubblica. – Ma i Cattolici italiani, appunto perché Cattolici, non possono rescindere dal volere che al loro Capo supremo sia restituita la necessaria indipendenza e la pienezza della libertà vera ed effettiva, la quale è condizione indispensabile per la libertà e l’indipendenza della Chiesa Cattolica. Su questo punto i loro sentimenti non cambieranno né per minacce, né per violenze; essi subiranno l’attuale ordine di cose, ma fino a che questo avrà per scopo la depressione del Papato e per causa la cospirazione di tutti gli elementi antireligiosi e settari, essi non potranno mai, senza violare i loro più sacri doveri, concorrere a sostenerlo colla loro adesione e col loro appoggio. Il richiedere dai Cattolici un positivo concorso al mantenimento dell’attuale ordine di cose, sarebbe pretesa irragionevole ed assurda; poiché ad essi non sarebbe più lecito ottemperare agli insegnamenti ed ai precetti di questa Apostolica Sede, anzi dovrebbero agire in opposizione ai medesimi e dipartirsi dalla condotta che tengono i Cattolici di tutte le altre Nazioni. Quindi è che l’azione dei Cattolici italiani, nelle presenti condizioni di cose, rimanendo estranea alla politica, si concentra nel campo sociale e religioso, e mira a moralizzare le popolazioni, renderle ossequenti alla Chiesa ed al suo Capo, allontanarle dai pericoli del socialismo e dell’anarchia, inculcar loro il rispetto al principio di autorità, sollevarne infine la indigenza colle opere molteplici della carità cristiana. – Come dunque i Cattolici potrebbero esser chiamati nemici della patria ed esser confusi coi partiti che attentano all’ordine ed alla sicurezza dello Stato? Siffatte calunnie cadono dinanzi a solo buon senso. Esse si fondano su questo concetto, che le sorti, l’unità, la prosperità della Nazione consistono nei fatti compiuti a danno della Santa Sede, fatti pur deplorati da uomini punto sospetti, i quali dichiarano apertamente essere immenso errore il provocare un conflitto con quella grande istituzione, che Dio pose in mezzo all’Italia e che fu e rimarrà perpetuamente il suo vanto precipuo ed incomparabile; istituzione prodigiosa che domina la storia, e per la quale l’Italia divenne l’educatrice feconda dei popoli, la testa ed il cuore della civiltà cristiana. Di qual colpa pertanto sono rei i Cattolici quando desiderano il termine del lungo dissidio, sorgente di grandissimi danni per l’Italia nell’ordine sociale, morale e politico; quando domandano che sia ascoltata la voce paterna del loro Capo supremo, che tante volte ha reclamato le dovute riparazioni, mostrando i beni incalcolabili che da esse deriverebbero all’Italia? I nemici veri d’Italia bisogna ricercarli altrove; bisogna ricercarli tra coloro che mossi da spirito irreligioso e settario, chiuso l’animo dinanzi ai mali ed ai pericoli che pesano sulla patria, respingono ogni vera e feconda soluzione del dissidio, e procurano, per i loro riprovevoli disegni, di renderlo sempre più lungo e più acerbo. A questi e non ad altri conviene attribuire la dura disposizione onde vennero colpite tante utili Associazioni cattoliche; disposizione che Ci addolora profondamente anche per un altro titolo di ordine più elevato e che non riguarda solamente i Cattolici italiani, ma quelli del mondo intero. – Essa mette sempre più in chiaro la condizione penosa, precaria ed intollerabile a cui siamo ridotti. Se alcuni fatti, nei quali i Cattolici non ebbero nulla a che fare, bastarono per decretare la soppressione di migliaia di opere benefiche ed immuni da qualsiasi colpa, nonostante la guarentigia che veniva loro dalle leggi fondamentali dello Stato, ogni uomo sensato ed imparziale comprenderà quale e quanta possa essere l’efficacia delle assicurazioni date dai pubblici poteri per la libertà ed indipendenza del Nostro Apostolico Ministero. Quale è invero la Nostra libertà, quando dopo essere stati spogliati della maggior parte degli antichi presidi morali e materiali, di cui i secoli cristiani avevano arricchito la Sede Apostolica e la Chiesa in Italia, veniamo ora privati anche di quei mezzi di azione religiosa e sociale, che le Nostre sollecitudini e lo zelo ammirabile dell’Episcopato, del clero e dei fedeli avevano riunito a tutela della religione ed a beneficio del popolo italiano? Quale può essere la Nostra pretesa libertà, quando un’altra occasione, un altro incidente qualsiasi potrebbe servir di pretesto a procedere ancora più oltre nella via delle violenze e degli arbitri e ad infliggere nuove e più profonde ferite alla Chiesa ed alla Religione? Noi segnaliamo questo stato di cose ai Nostri figli d’Italia e a quelli delle altre Nazioni. Agli uni e agli altri però diciamo, che, se il Nostro dolore è grande, non minore è il Nostro coraggio, non minore la Nostra fiducia in quella Provvidenza che governa il mondo e che veglia costantemente ed amorosamente sulla Chiesa, la quale s’identifica col Papato, secondo la bella espressione di Sant’Ambrogio: Ubi Petrus ibi Ecclesia. Ambedue sono istituzioni divine che sopravvissero a tutti gli oltraggi, a tutti gli attacchi, che videro immobili passare i secoli, che attinsero aumenti di forza, di energia e di costanza dalla stessa sventura. E quanto a Noi non cesseremo di amare questa bella e nobile Nazione da cui sortimmo i natali, lieti di spendere gli ultimi avanzi delle Nostre forze per conservarle il tesoro prezioso della religione, per mantenere i suoi figli nella sfera onorata della virtù e del dovere, per sollevare, quanto Ci è possibile, le loro miserie. In questo nobilissimo ufficio voi Ci apporterete, ne siamo sicuri, Venerabili Fratelli, il concorso efficace delle vostre cure e del vostro zelo illuminato e costante. Continuate nell’opera santa di ravvivare la pietà tra i fedeli, di preservare le anime dagli errori e dalle seduzioni che le circondano da ogni lato, di consolare i poveri e gl’infelici con tutti i mezzi che la carità potrà suggerirvi. Le vostre fatiche non saranno mai sterili, qualunque siano le vicende e gli apprezzamenti umani, perché dirette a più alto fine che non sono le cose di quaggiù; e ad ogni modo esse varranno, qualora fossero osteggiate o distrutte, a liberarvi dal dover rispondere dei danni, che dagl’impedimenti frapposti al vostro pastorale ministero potrebbe risentire l’Italia. – Ed a voi, Cattolici italiani, oggetto precipuo delle Nostre sollecitudini e della Nostra affezione, a voi fatti segno a più aspre vessazioni, perché più vicini a Noi e più stretti a questa Sede Apostolica, a voi serva di conforto e di incoraggiamento la Nostra parola e la Nostra ferma assicurazione, che il Papato, come nei secoli trascorsi, in gravi e procellosi avvenimenti, fu guida, difesa e salvezza del popolo cattolico, specialmente d’Italia, così per l’avvenire non verrà meno alla sua grande e salutare missione, col difendere e rivendicare i vostri diritti, coll’assistervi nelle vostre difficoltà, coll’amarvi quanto più bersagliati ed oppressi. Voi avete dato, specialmente in questi ultimi tempi, numerose testimonianze di abnegazione e di operosità nel fare il bene. Non vi perdete di animo; ma tenendovi rigorosamente, come nel passato, entro i limiti della legge e pienamente sottomessi alla direzione dei vostri Pastori, continuate con coraggio cristiano negli stessi propositi. Che se incontraste sul cammino nuove contraddizioni e nuove ostilità, non vi sgomentate: la bontà della vostra causa apparirebbe sempre più luminosa, quando gli avversari, per combatterla, fossero costretti a ricorrere ad armi siffatte; e le prove che dovreste sostenere, aumenterebbero il vostro merito innanzi agli uomini onesti e, ciò che più monta, innanzi a Dio.

Auspice intanto dei Celesti favori e pegno del Nostro specialissimo affetto, sia la Apostolica Benedizione, che dall’intimo del cuore impartiamo a voi, Venerabili Fratelli, al clero ed al popolo italiano.

Dato a Roma presso San Pietro, il 5 agosto 1898, anno XXI del Nostro Pontificato.

Leone PP. XIII.

DOMENICA II DOPO PENTECOSTE (2023)

DOMENICA NELL’OTTAVA DEL CORPUS DOMINI

II DOPO PENTECOSTE (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La Chiesa ha scelto, per celebrare la festa del Corpus Domini, il giovedì che è fra la domenica, nella quale il Vangelo parla della misericordia di Dio verso gli uomini e del dovere che ne deriva per i Cristiani di un amore reciproco (l dopo Pentecoste) e quella (II dopo Pentecoste) nella quale si ripetono le stesse idee (Epist.) e si presenta il regno dei cieli sotto il simbolo della parabola del convito di nozze (Vang.)  [Questa Messa esisteva coi suoi elementi attuali molto prima che fosse istituita la festa del Corpus Domini]. Niente, infatti, poteva essere più adatta all’Eucaristia, che è il banchetto ove tutte le anime sono unite nell’amore a Gesù, loro sposo, e a tutte le membra mistiche. Niente poi di più dolce che il tratto nel quale si legge nell’Ufficio la storia di Samuele che fu consacrato a Dio fin dalla sua più tenera infanzia per abitare presso l’Arca del Signore e diventare il sacerdote dell’Altissimo nel suo Santuario. La liturgia ci mostra come questo fanciullo offerto da sua madre a Dio, serviva con cuore purissimo il Signore nutrendosi della verità divina. In quel tempo, dice il Breviario, « la parola del Signore risuonava raramente e non avvenivano visioni manifeste », poiché Eli era orgoglioso e debole, e i suoi due figli Ofni e Finees infedeli a Dio e incuranti del loro dovere. Allora il Signore si manifestò al piccolo Samuele poiché « Egli si rivela ai piccoli, dice Gesù, e si nasconde ai superbi », e S. Gregorio osserva che « agli umili sono rivelati i misteri del pensiero divino ed è per questo che Samuele è chiamato un fanciullo ». E Dio rivelò a Samuele il castigo che avrebbe colpito Eli e la sua casa. Ben presto, infatti l’Arca fu presa dai Filistei, i due figli di Eli furono uccisi ed Eli stesso mori. Dio aveva così rifiutato le sue rivelazioni al Gran Sacerdote perché tanto questi come i suoi figli non apprezzavano abbastanza le gioie divine figurate nel « gran convito » di cui parla in questo giorno il Vangelo, e si attaccavano più alle delizie del corpo che a quelle dell’anima. Così applicando loro il testo di S. Gregorio nell’Omelia di questo giorno, possiamo dire che « essi erano arrivati a perdere ogni appetito per queste delizie interiori, perché se n’erano tenuti lontani e da parecchio tempo avevano perduta l’abitudine di gustarne. E perché non volevano gustare la dolcezza interiore che loro era offerta, amavano la fame che fuori li consumava ». I figli d’Eli, infatti prendevano le vivande che erano offerte a Dio e le mangiavano; ed Eli, loro padre, li lasciava fare. Samuele invece, che era vissuto sempre insieme con Eli, aveva fatto sue delizie le consolazioni divine. Il cibo che mangiava era quello che Dio stesso gli elargiva, quando, nella contemplazione e nella preghiera gli manifestava i suoi segreti. « Il fanciullo dormiva » il che vuol dire, spiega S. Gregorio, « che la sua anima riposava senza preoccupazione delle cose terrestri ». « Le gioie corporali, che accendono in noi un ardente desiderio del loro possesso, spiega questo Santo nel suo commento al Vangelo di questo giorno, conducono ben presto al disgusto colui che le assapora per la sazietà medesima; mentre le gioie spirituali provocano il disprezzo prima del loro possesso, ma eccitano il desiderio quando si posseggono; e colui che le possiede è tanto più affamato quanto più si nutre ». Ed è quello che spiega come le anime che mettono tutta la loro compiacenza nei piaceri di questo mondo, rifiutano di prender parte al banchetto della fede cristiana ove la Chiesa le nutre della dottrina evangelica per mezzo dei suoi predicatori. « Gustate e vedete, continua S. Gregorio, come il Signore è dolce ». Con queste parole il Salmista ci dice formalmente: «Voi non conoscerete la sua dolcezza se voi non lo gusterete, ma toccate col palato del vostro cuore l’alimento di vita e sarete capaci di amarlo avendo fatto esperienza della sua dolcezza. L’uomo ha perduto queste delizie quando peccò nel Paradiso: ma le ha riavute quando posò la sua bocca sull’alimento d’eterna dolcezza. Da ciò viene pure che essendo nati nelle pene di questo esilio noi arriviamo quaggiù ad un tale disgusto che non sappiamo più che cosa dobbiamo desiderare. » (Mattutino). « Ma per la grazia dello Spirito Santo siamo passati dalla morte alla vita » (Ep.) e allora è necessario come il piccolo e umile Samuele che noi, che siamo i deboli, i poveri, gli storpi del Vangelo, non ricerchiamo le nostre delizie se non presso il Tabernacolo del Signore e nelle sue intime unioni. Evitiamo l’orgoglio e l’amore delle cose terrestri affinché « stabiliti saldamente nell’amore del santo Nome di Dio » – (Or.), continuamente « diretti da Lui ci eleviamo di giorno in giorno alla pratica di una vita tutta celeste » (Secr.) e « che grazie alla partecipazione al banchetto divino, i frutti di salute crescano continuamente in noi » (Postcom.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XVII: 19-20.

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.

[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene] Ps XVII: 2-3

Díligam te. Dómine, virtus mea: Dóminus firmaméntum meum et refúgium meum et liberátor meus.

[Amerò Te, o Signore, mia forza: o Signore, mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore.]

Gloria….

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me. [Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria
Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe.
Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus. Sancti nóminis tui, Dómine, timórem páriter et amórem fac nos habére perpétuum: quia numquam tua gubernatióne destítuis, quos in soliditáte tuæ dilectiónis instítuis.

[Del tuo santo Nome, o Signore, fa che nutriamo un perpetuo timore e un pari amore: poiché non privi giammai del tuo aiuto quelli che stabilisci nella saldezza della tua dilezione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joánnis Apóstoli 1 Giov. III: 13-18

“Caríssimi: Nolíte mirári, si odit vos mundus. Nos scimus, quóniam transláti sumus de morte ad vitam, quóniam dilígimus fratres. Qui non díligit, manet in morte: omnis, qui odit fratrem suum, homícida est. Et scitis, quóniam omnis homícida non habet vitam ætérnam in semetípso manéntem. In hoc cognóvimus caritátem Dei, quóniam ille ánimam suam pro nobis pósuit: et nos debémus pro frátribus ánimas pónere. Qui habúerit substántiam hujus mundi, et víderit fratrem suum necessitátem habére, et cláuserit víscera sua ab eo: quómodo cáritas Dei manet in eo? Filíoli mei, non diligámus verbo neque lingua, sed ópere et veritáte.”

[“Carissimi: Non vi meravigliate se il mondo vi odia. Noi sappiamo d’essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida; e sapete che nessun omicida ha la vita eterna abitante in sé. Abbiam conosciuto l’amor di Dio da questo: che egli ha dato la sua vita per noi; e anche noi dobbiam dare la vita per i fratelli. Se uno possiede dei beni di questo mondo e, vedendo il proprio fratello nel bisogno, gli chiude le sue viscere, come mai l’amor di Dio dimora in lui? Figliuoli miei, non amiamo a parole e con la lingua, ma con fatti e con sincerità”].

VERA E FALSA CARITÀ.

Noi andiamo o fratelli, coll’Apostolo della carità e con il suo veramente divino apostolato, di meraviglia in meraviglia. Domenica scorsa l’Apostolo San Giovanni ha messo la carità in cielo. Dio è Carità — ha pronunziato una parola di sublimità incomparabile. Questa domenica, dal cielo più alto discende sul terreno più umile; scrive parole di una incomparabile praticità: «Miei figliuoli, non amiamo a chiacchiere… o più letteralmente ancora, non amiamo colla bocca, colle parole, amiamo coll’opera, se vogliamo amare per davvero ». Dove è chiaro che si tratta di quell’amore che merita nome di carità e della carità che corre le vie della terra, tra uomo e uomo. L’Apostolo ha l’orrore della carità falsa, apparente — che sembra carità e non è carità, come un banchiere (i banchieri sono i devoti, gli apostoli, i mistici della moneta, della vera, s’intende) detesta, abborre, abbomina la moneta falsa — che pare e non è, che par oro ed è orpello. E qual è questa carità falsa? È proprio la carità che non fa e parla. Il non fare ne costituisce il non essere, e il parlare le dà l’apparenza. La parola buona, caritatevole, vuota di opere; non è più abito, è maschera, è commedia. Come frequente allora e adesso la commedia della carità! Come facile e frequente (appunto perché tanto facile) l’impietosirsi gemebondo sulla miseria del prossimo. Poverino qua! Poverino là! E come frequente la esaltazione verbale della carità: facile e frequente il panegirico della filantropia! E quanti, sfogato così il loro istinto retorico e sentimentale, si credono, si sentono in pace con la loro coscienza! Credono di aver fatto tutto, perché hanno parlato molto! L’Apostolo della carità è terribilmente e semplicemente realista. Che cosa serve tutta questa logorrea? A che cosa serve per chi soffre la fame, il freddo, lo sconforto della vita? Nulla. Le parole lasciano il tempo che trovano. E che sincerità in queste parole infeconde, sistematicamente, regolarmente infeconde di opere! Che razza di cuore, di carità ha colui che vede il suo prossimo in bisogno, e non fa nulla per sollevarlo? Vede aver fame e non gli dà da mangiare? aver sete e non gli amministra da bere? – Fare bisogna, se si vuole che la carità sfugga all’accusa, al sospetto di simulazione, di ipocrisia. L’opera è la figlia dell’amore, ne è la prova sicura e perentoria. Fare, notate, dice l’Apostolo, anziché semplicemente dare, perché il dare è una forma particolare del fare. Fare quello che si può con le persone che si amano fraternamente davvero. – Fare per gli altri quello che, a parità di condizione, faremmo e vorremmo che gli altri facessero per noi. Fare e molto, e bene, e sempre. Fare non per farsi vedere, ma per renderci benefici. Fare del bene, non fare del rumore. C’è più carità in una goccia di operosità, che in un mare di chiacchiere. E allora il grande quesito che noi dobbiamo proporci se vogliamo esaminarci bene sul capitolo della carità, la virtù che ci assomiglia a Dio, il grande quesito è questo: che cosa, che cosa abbiamo fatto, che cosa facciamo? cosa, cosa, non parole!

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch. Mediolani, 1-3-1938]

Graduale

Ps CXIX: 1-2 Ad Dóminum, cum tribulárer, clamávi, et exaudívit me.

[Al Signore mi rivolsi: poiché ero in tribolazione, ed Egli mi ha esaudito.]

Alleluja

Dómine, libera ánimam meam a lábiis iníquis, et a lingua dolósa. Allelúja, allelúja

[O Signore, libera l’ànima mia dalle labbra dell’iniquo, e dalla lingua menzognera. Allelúia, allelúia]

Ps VII:2 Dómine, Deus meus, in te sperávi: salvum me fac ex ómnibus persequéntibus me et líbera me. Allelúja.

[Signore, Dio mio, in Te ho sperato: salvami da tutti quelli che mi perseguitano, e liberami. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.

Luc. XIV: 16-24

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis parábolam hanc: Homo quidam fecit cœnam magnam, et vocávit multos. Et misit servum suum hora coenæ dícere invitátis, ut venírent, quia jam paráta sunt ómnia. Et coepérunt simul omnes excusáre. Primus dixit ei: Villam emi, et necésse hábeo exíre et vidére illam: rogo te, habe me excusátum. Et alter dixit: Juga boum emi quinque et eo probáre illa: rogo te, habe me excusátum. Et álius dixit: Uxórem duxi, et ídeo non possum veníre. Et revérsus servus nuntiávit hæc dómino suo. Tunc irátus paterfamílias, dixit servo suo: Exi cito in pláteas et vicos civitátis: et páuperes ac débiles et coecos et claudos íntroduc huc. Et ait servus: Dómine, factum est, ut imperásti, et adhuc locus est. Et ait dóminus servo: Exi in vias et sepes: et compélle intrare, ut impleátur domus mea. Dico autem vobis, quod nemo virórum illórum, qui vocáti sunt, gustábit cœnam meam”.

(“In quel tempo disse Gesù ad uno di quelli che sederono con lui a mensa in casa di uno dei principali Farisei: Un uomo fece una gran cena, e invitò molta gente. E all’ora della cena mandò un suo servo a dire ai convitati, che andassero, perché tutto era pronto. E principiarono tutti d’accordo a scusarsi. Il primo dissegli: Ho comprato un podere, e bisogna che vada a vederlo; di grazia compatiscimi. E un altro disse: Ho comprato cinque gioghi di buoi, o vo a provarli; di grazia compatiscimi. E l’altro disse: Ho preso moglie, e perciò non posso venire. E tornato il servo, riferì queste cose al suo padrone. Allora sdegnato il padre di famiglia, disse al servo: Va tosto per le piazze, e per le contrade della città, e mena qua dentro i mendici, gli stroppiati, i ciechi, e gli zoppi. E disse il servo: Signore, si è fatto come hai comandato, ed evvi ancora luogo. E disse il padrone al servo: Va per le strade e lungo le siepi, e sforzali a venire, affinché si riempia la mia casa. Imperocché vi dico, che nessuno di coloro che erano stati invitati assaggerà la mia cena”

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

LE CAUSE DELL’INDIFFERENZA RELIGIOSA

Un uomo fece un giorno un gran banchetto e invitò molte persone. Ma all’ora opportuna tutti cominciarono a scusarsi. Uno disse: « Comprai una villa e bisogna che la veda: scusami, te ne prego. Un altro disse: « Comprai cinque paia di buoi e bisogna che li provi: scusami, te ne prego ». Un terzo rispose villanamente: « Ho preso moglie e non ci vengo più ». Homo quidam… è il Dio degli eserciti che si nasconde sotto questo anonimo per significarci la sua umile e generosa misericordia. La grande cena a cui sono invitati moltissimi è preparata nella Chiesa ove la bontà di quell’Uomo ha profuso tutti i suoi tesori. Vi è l’abbondanza del candido pane della divina parola; della dottrina del Vangelo, che ristora l’intelletto e risana il cuore. Vi è una profusione di preziosissimo vino che rallegra le anime nella valle delle lagrime: il Sangue di Gesù Cristo. Vi sono le bianche carni dell’Agnello immacolato che accendono in noi l’amore celeste. Vi sono le frutta dei buoni esempi dei Santi, delle indulgenze, delle grazie interne ed esterne. Veramente quell’Uomo preparò una gran cena: … cœnam magnam. Eppure gli invitati la disdegnano: « Non posso venire: ho comprato una villa ». Questa, dice S. Agostino, è la scusa di coloro che son posseduti da superbia ed aspirano a dominar gli altri con i loro possessi ed intanto dimenticano i loro doveri di religione. « Ho comprato cinque paia di buoi ». Ecco la scusa dell’uomo avaro che non ha tempo di pensare all’anima, perché con tutti e cinque i sensi, mettendo sossopra ogni cosa, s’affanna ad arricchire. « Mi sono sposato, e non ci vengo ». Costui, che rifiuta senza aver nemmeno la cortesia di chieder scusa, è l’uomo che si abbrutisce nei piaceri della carne. Ecco dunque come nella storia dei Giudei è adombrata la storia dei Cristiani. Gesù Cristo ci scopre, con la sua parabola, i veri motivi dell’indifferenza religiosa: sono i peccati — superbia, avarizia, lussuria — che contristano il cuore. – 1. LA SUPERBIA. Fénelon, Arcivescovo di Cambrai, ascendeva il pulpito per la predica dell’Annunciazione dell’anno 1690, quando gli recarono un breve pontificio. Trepidante lo lesse. Il Papa condannava il suo libro: «La spiegazione delle massime dei santi ». Gli astanti videro il volto del Vescovo impallidire: quale burrasca gli fremeva in cuore? Udiva Egli il sibilo di Lucifero non serviam, o il grido pieno di pianto lanciato da Pietro: « Signore, io sono un peccatore »? Il Vescovo si scosse e salì il pergamo. Oh, non fu più il mistero della Annunciazione che predicò, ma fu la sommissione alla Autorità. E terminò dicendo: « Se mai un giorno si ricorderà questo doloroso episodio della mia vita, si dica soltanto che il pastore ha obbedito completamente come l’ultima pecorella ». Tutto il popolo piangeva nella chiesa. In quel momento egli spiegava in pratica e in un modo efficacissimo la più difficile e bella massima dei Santi. – Un altro quadro: nel 1520, in Germania, un frate agostiniano cominciò a predicare una dottrina erronea. Il Papa mandò la condanna della nascente eresia. E quel frate uscì dalla chiesa e davanti alla cattedrale, in faccia a tutto il popolo, bruciò i decretali gridando superbamente: « Tutto quello che il Papa condanna, io approvo!  ». Ma il buon Vescovo di Cambrai morì come un santo, e Martin Lutero morì nei rimorsi dell’eresia, lontano dalla vera fede. Dio resiste ai superbi. La superbia accieca e ci fa preferire cibi velenosi al magnifico banchetto preparato dall’Uomo evangelico. » « Sarete come dei; — sibilava il serpente dall’albero proibito; — saprete tutto il bene e il male! ». E i primogenitori si lasciarono illudere per superbia e preferirono un pomo velenoso alla stupenda cena del Paradiso. Poi s’accorsero: ma troppo tardi. Non solo non avevano acquistato la scienza di Dio, ma avevano perduto anche la propria. – E ce ne sono ancora degli uomini ciechi che s’affannano senza pace dietro ad un fantasma iridescente: l’onore. E per ciò che dicono onore, conculcano la legge della giustizia e della religione. – 2. L’AVARIZIA. Una domenica, a New York, un eccentrico miliardario chiamò uno de’ suoi impiegati e gli disse con bonarietà americana: « Su questa tavola, c’è un milione di biglietti di banca da un dollaro ciascuno. Se puoi verificare il conto prima di mezzanotte, tutto è tuo. Guarda: scoccano le sei. A domani ». E uscì. L’impiegato rimase un momento sbalordito, con gli occhi imbambolati, davanti a quella massa di biglietti. Poi li assaltò con mano febbrile, e cominciò a contare: uno, due, dieci… cento… un pacchetto… due pacchetti… Respira a pena. È là: testa curva, sguardo fisso, corpo immobile. Solo le mani si agitano, vanno e vengono con la rapidità e la regolarità di una macchina. Le campane suonano la Messa e chiamano il popolo vicino al Signore. Egli, vicino al danaro, non ode nemmeno. Le ore passano: è mezzogiorno. Pensa appena che ha fame, e conta, conta. Il sole tramonta: i suoi figlioli dove saranno? Avranno avuto da mangiare? Non ha tempo: conta, conta sempre. La notte cade, le vie tornano deserte e mute. La casa è piena di silenzio, e d’ombra: un servo ha acceso un lume, ha portato un bicchiere d’acqua. Non se n’è accorto. Gli occhi si appesantiscono, i nervi tirano, i muscoli delle mani si intorpidiscono, la mezzanotte gli sta sopra. E conta: conta sempre. E davanti a lui il suo padrone lo guarda con pietà: il padrone che improvvisamente gli afferra le mani e grida: « Basta! è mezzanotte ». Già dal pendolo gocciarono rapidamente i dodici colpi fatali. Lo sventurato non era ancora a metà del suo lavoro. Dilata orrendamente gli occhi senza luce e muore. Povero pazzo che s’è lasciato incantar da avidità, invece di ciò che sperava, trovò inganno e morte! Ma di questi pazzi che consumano tutta la vita nel far danaro è pieno il mondo. Suona la campana della Chiesa: ma non l’odono; non hanno tempo per l’anima; devono far denari. I figli per i loro mal’esempi crescono male, ma essi non hanno tempo per i figli: devono far danari. Dio li invita alla sua cena, con buone ispirazioni, con qualche avviso; che disgrazia; ma non hanno tempo d’accettare questo invito. Unico è il loro bene, che credono vero, eterno: la ricchezza. Ma la mezzanotte giunge improvvisa: il demonio li guarda con pietà satanica, afferra le loro avide mani e grida: « Basta: devi morire! » Poveri pazzi! – 3. L’IMPURITÀ. S. Francesco di Sales camminò per più mesi attraverso le montagne per raggiungere una pecorella traviata. E finalmente, stanco, con le vesti logore, con le mani sanguinanti dai rovi, la vede e le parla con quel fuoco che dentro gli arde e lo fa piangere di dolore. Alfine Teodoro Beza confessa d’aver sbagliato; il Santo allora l’invitò a tornare sulla retta via. Ma Teodoro fece venire la funesta donna con cui sacrilegamente conviveva e disse: « Ecco chi mi impedisce di tornare nella Chiesa ». Uxorem duxi et ideo non possum venire. E morì nell’apostasia. La disonestà è la passione che, più d’ogni altra, allontana da Dio: 1) perché, profanato il cuore, non si possono più gustare le cose di Dio: l’anima diventa simile a ciò che ama. 2) perché dal cuore profanato s’alzano dei miasmi velenosi che offuscano la mente e fanno perdere la fede. – Un giorno, mentre Gesù parlava della gloria e della felicità che inonda l’anima dei Santi, uno degli ascoltatori, rapito dietro alla bellezza di quella visione, proruppe a dire: « Oh beato colui che mangia il pane nel regno di Dio » (Lc., XIV, 15). E noi tutti siamo invitati a questa mensa: l’Uomo che ha fatto la gran cena, noi pure manda a chiamare. Sventurati quelli che — per superbia o per avarizia o per lussuria — rifiuteranno il divino invito. — IL CONVITO DOMENICALE – Quella volta Gesù era andato a mangiare in casa del Fariseo. Sul terminare del pranzo, tacendo tutti, prese a contare una bella parabola. Io voglio spiegare la parabola del Signore ad un altro significato, assai utile per noi, e dico che la cena grande a cui il buon Dio c’invita è la santificazione della Domenica. E non è la Domenica un’immagine della eterna cena del paradiso? E non è la Domenica cristiana un nutriente e soave convito delle anime nostre? – 1. LA DOMENICA È LA CENA DELLE ANIME. Osservate come è buono il Signore. Egli è il padrone di ogni cosa, e avrebbe pieno diritto di tenersi tutto per sé: tutte le piante, tutti gli animali, tutti i luoghi, tutti i tempi. Invece come nel Paradiso terrestre, lasciato ogni albero all’uomo, una pianta sola si riservò ad esperimento di ubbidienza; come al tempo dei Patriarchi, lasciato ad essi ogni frutto ed ogni bestia, solo poca primizia del gregge e del campo ritenne; come di tutta la terra, si riserva appena qualche spazio ove edificare le sue chiese; così di sette giorni, uno soltanto ha voluto per sé: la Domenica. Poteva esserci più largo di così? E di meno che cosa mai ci avrebbe potuto richiedere? « Figliuoli! — ci dice per bocca di Mosè. — Sei giorni ho lavorato per darvi il sole e le stelle, la terra e i mari, le piante e gli animali e per plasmare i vostri corpi e ravvivarli di un’anima immortale: al settimo però cessai. Ebbene, come ho fatto Io, fate anche voi così. Lavorate sei giorni, il settimo lo darete a me ». Poteva esserci più padre? « Lo darete a me!… » Forse per farci lavorare il doppio, il triplo… per Lui? Forse per gravarci — da padrone qual è — di penitenze e di asprezze? No. « Lo darete a me, perché Io voglio farvi riposare, Io voglio che veniate in casa mia ad una cena gaudiosa ». Dite: sulla terra c’è un altro padrone, buono come questo? Per sei giorni gli uomini sono nei campi, nelle fabbriche, negli uffici; le donne pure sono costrette alla fatica di un laboratorio o di una casa, mentre i figli sono alla scuola o trascurati per le vie. È tutto uno stridere di macchine, un incomposto vociar di operai affannati, un fischiar di sirene: c’è appena tempo di trangugiare un po’ di cibo senza assaporarlo e alla sera si ritorna pallidi e stanchi alla casa povera di luce, povera di parole. Poche ore di sonno, e poi ecco bisogna balzare a nuova fatica e riprendere quegli abiti trascurati e improntati del duro lavoro. Ben venga la Domenica, gaudiosa cena delle anime! Un lieto scampanio s’intende nella prim’alba, che arriva a tutti come una voce di fratelli e d’amico: « Nella Chiesa! — ci dice — tutto è pronto ». E dai portoni dei ricchi, dagli usci dei poveri, i padri escono coi loro bambini e le mamme vengono con le loro bambine: tutti sono puliti e ben vestiti, tutti si sorridono e sono lieti, tutti davanti all’altare di Dio si siedono vicino: il ricco e il povero, il servo e il padrone, tutti eguali. Per sei giorni abbiamo stentato, oggi si riposa in letizia. Per sei giorni vestimmo male, oggi ci adorniamo con religiosa modestia. Per sei giorni siamo stati nelle case delle creature, servi delle creature, oggi si va nella casa del Creatore, si serve Lui, si parla con Lui, si mangia con Lui il pane della parola di Dio. Per sei giorni si è vissuto per le cose terrene, oggi si vive per quelle celesti. Com’è bella la Domenica cristiana, giorno di Dio, giorno dell’uomo, mistica cena delle anime! – 2. SCORTESIA D’INVITATI. Purtroppo questo giorno santo, benefico all’anima e al corpo, alla famiglia e alla società quanto è profanato! Oh se Gesù, una qualche festa, ripassasse attraverso alle nostre campagne e alle nostre città, forse ancora prenderebbe lo staffile per flagellare i profanatori del suo giorno! E forse dalla sua bocca divina gli sgorgherebbe il lamento che confidò ad un’anima privilegiata: « I Giudei mi hanno crocifisso in Venerdì, ma i Cristiani mi crocifiggono in Domenica ». a) Villam emi! Ho comprato una villa e perciò non posso venire. Ancora questa è una delle scuse che molti Cristiani usano per rifiutare il banchetto festivo. Andare a Messa, andare a Dottrina… io che sono ricco, che ho un palazzo, che sono rivestito di autorità, che ho molte e difficili incombenze?! Alla Messa sono obbligati i poveri, gli ignoranti: ma che cosa deve dire la gente se s’accorge che sento anch’io il bisogno di santificare la festa?!… Ci sono di quelli poi che, senza giungere a questo eccesso, credono che per santificare le feste basti assistere alla santa Messa; e, ascoltatala in qualche modo, pensano a tutt’altro che ad opere di pietà. Costoro trattano Dio come un esoso tiranno a cui si deve concedere meno che si può, e considerano la pietà come una medicina velenosa da prendersi con estrema parsimonia. E tra costoro si trovano quelli che cercano la Messa più spiccia, quelli che giungono sempre in ritardo, o assistono svogliati e disattenti, chiacchierando con disturbo e scandalo degli altri; e spesso ancora con tale abbigliamento e positura da offrire pascolo alla leggerezza, all’ambizione, alla lussuria. Ma basterà una mezz’oretta di Messa per tutta la festa? Ricordate che chi non assiste mai alla Dottrina Cristiana, se anche non si può dire che viola il precetto festivo, certo è difficile che schivi il peccato grave per trascuranza d’istruzione religiosa. b) Juga boum emi! Ho comprato dieci buoi e devo provarli sotto l’aratro, perciò non posso venire. Questa è un’altra delle scuse con cui i Cristiani violano il banchetto festivo: « Ho un affare da concludere, ho un raccolto maturo da fare, ho un urgente lavoro da finire… » io. È l’avarizia, e la bramosia del guadagno maledetto li spinge a diventare come macchine e come bestie, e negarsi il santo riposo. Come fa pena, in Domenica, vedere le ciminiere fumare; udire la romba dei martelli e dei motori; osservare gli uomini in mezzo ai campi. I diritti di Dio, non contano dunque più nulla? Che giova all’uomo guadagnar tutto il mondo se perde l’anima? Ricordate ancora la ricetta sicura che il Curato d’Ars prescriveva per quelli che volevano andare in miseria: « Rubare o lavorare in Domenica ». Sì, perché il Signore non corre, ma arriva sempre. È quante volte osservando i campi bruciati dalla siccità sotto un sole di bronzo, e smangiucchiati dalla gragnola, si pensa al lavoro di festa! E quante volte incontrando operai disoccupati, o direttori di officine fallite, si pensa alle Domeniche profanate! c) Uxorem duri! Ho preso moglie e perciò non voglio venire. È questa la più terribile scusa per profanare il banchetto festivo: « Ho voglia di godermela e non di santificare la festa ». Il giorno della preghiera è diventato il giorno del piacere, giorno della purezza è diventato il giorno della carne trionfante; il giorno della gioia è diventato il giorno dell’orgia. Guardate: l’osteria sì, ma non la Messa; la passeggiata, ma non il catechismo, l’ozio, ma non la preghiera; la disonestà, ma non i Sacramenti; il demonio, ma non il Signore. – Nei pomeriggi festivi, le nostre chiese e gli oratori vanno disertandosi: dov’è la gioventù? Le vie sono rigurgitanti, le sale da ballo sono un vortice infernale, gli spettacoli mondani e procaci sono le false sirene. – La persecuzione di Diocleziano infieriva contro i Cristiani, nel 304, con tale violenza, che s’era perfino illuso l’imperatore di poter sradicare dalla terra il nome di Cristo. Tra i più aspri rigori di leggi e di spionaggi Anisia, una giovane di Tessalonica, uscì di casa per recarsi dove i Cristiani celebravano i sacri riti, giacché era giorno di Domenica. Uscendo da una porta della città, un soldato la fermò, dicendole: « Dove vai a quest’ora? ». La fanciulla si trovò scoperta, e confessò: « Sono cristiana, e vado a santificare il giorno del Signore ». Soggiunse il soldato: « Vieni con me ad adorare il Sole ». La giovane sì rifiutò e fece per proseguire il suo cammino. Quegli allora le strappò il velo con cui si copriva per modestia il suo volto. Anisia grido: « Il mio Dio ti punirà ». A queste parole il soldato s’accese di furore, e con la sua spada trafisse la giovane santa che cadde mentre la sua anima bianca entrava nell’eterna domenica in cielo (XXX Dicembre, Martirologio). L’intercessione e l’esempio di sant’Anisia faccia ravvedere molti profanatori della festa, prima che il Signore nella sua ira abbia a dir contro di loro quelle tremende parole della Santa Scrittura: « Io vi getterò in faccia lo sterco delle vostre solennità » (Malach., II; 3).

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps VI: 5 Dómine, convértere, et éripe ánimam meam: salvum me fac propter misericórdiam tuam.

[O Signore, volgiti verso di me e salva la mia vita: salvami per la tua misericordia.]

Secreta

Oblátio nos, Dómine, tuo nómini dicánda puríficet: et de die in diem ad coeléstis vitæ tránsferat actiónem.

[Ci purifichi, O Signore, l’offerta da consacrarsi al Tuo nome: e di giorno in giorno ci conduca alla pratica di una vita perfetta.]

Præfatio
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.
de Spiritu Sancto
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. Qui, ascéndens super omnes cælos sedénsque ad déxteram tuam, promíssum Spíritum Sanctum hodierna die in fílios adoptiónis effúdit. Qua própter profúsis gáudiis totus in orbe terrárum mundus exsúltat. Sed et supérnæ Virtútes atque angélicæ Potestátes hymnum glóriæ tuæ cóncinunt, sine fine dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: per Cristo nostro Signore. Che, salito sopra tutti cieli e assiso alla tua destra hodierna die effonde sui figli di adozione lo Spirito Santo promesso. Per la qual cosa, aperto il varco della gioia, tutto il mondo esulta. Cosí come le superne Virtú e le angeliche Potestà cantano l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XII: 6 Cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi.

[Inneggerò al Signore, per il bene fatto a me: e salmeggerò al nome di Dio Altissimo.]

Postcommunio

Orémus. Sumptis munéribus sacris, qæesumus, Dómine: ut cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus.

[Ricevuti, o Signore, i sacri doni, Ti preghiamo: affinché, frequentando questi divini misteri, cresca l’effetto della nostra salvezza].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (255)

LO SCUDO DELLA FEDE (255)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (24)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

PARTE III

IL RINGRAZIAMENTO

CAPO I.

Ci affrettiamo qui di confessare, che ben conosciamo di non poter compiere l’opera nostra, massimamente in questa parte in che ci resta di trattare del Ringraziamento. I Santi stessi in Paradiso fanno principal officio di lor beatitudine rendere a Dio benedizioni e grazia, senza mai saziarsene per tutta l’eternità. Anche la Chiesa pare che pensi di non poterlo far pienamente. E di fatto si prova per poco con qualche devotissima giaculatoria, e poi si tace: quasi creda meglio lasciare alle anime, che si sfoghino sole con Dio, e gli dicano nel silenzio del labbro di quelle parole ineffabili, che lo Spirito Santo lor verrà suggerendo. Ma, per dirne pure qualche cosa, osserviamo con sant’ Agostino (Ephes.) , come dopo di aver partecipato a così gran Sacramento, lazione di grazie conchiude tutti i Misteri. La Chiesa poi per invitarci a questo ringraziamento mette in un’acclamazione, una tenerissima giaculatoria (e questa giaculatoria nel rito è detta Comunione). Poi saluta i bene amati suoi figli con ripetere: « Dominus vobiscum. » Così ai benedetti suoi figli dà un abbraccio per dire loro: « eh siamo ben fortunati ! » Li fa pregare ancora un istante, almeno con una parola di sfogo che dice al loro cuore invitandoli all’orazione detta Post-eommunio. Finalmente nel dare commiato coll’ Ite Missa est, li benedice solennemente, ed accennando loro nell’ultimo Vangelo di contemplare ancora il Verbo di Dio in Paradiso, e che abita ancor tra noi, li manda a ringraziare Dio per tutta la vita. Tratteremo di tutto questo nei seguenti articoli.

ART. I.

ORAZIONE DETTA: COMUNIONE.

In tutta questa operetta, con quella povertà di concetti alla meglio che per noi si é potuto, abbiam cercato di esporre, come ben sappia la Chiesa trattar con decoro lo sposo suo celeste, e mostrare la sua felicità di comunicare sull’altare con Dio. Noi lo abbiam contemplato. Qui bisogna dire che gli antichi sacerdoti santissimi coi fervorosi fedeli gustassero ben addentro il dono di Dio, e provassero beata sorte di questa comunione divina. Sull’altare per loro era il cielo, e sovrabbondanza di gaudio più che celeste, dove godevano intimamente Iddio. (Imit. Christi, l. 4). Quindi nell’estasi del loro gaudio, anche pel desiderio d’aver tutti a parte di tanta loro felicità, non sapevano fare altro che esclamare: « gustate et videte quoniarn suavis est Dominus! » Il perché vi fu un tempo, in questo versetto non si variava mai; ed in tutte le comunioni si sentiva ripetere: « fate prova, gustate e sentirete quanto é soave il Signore!» Quando poi la comunione del popolo era più numerosa, si recitava l’intiero salmo 33, da cui sono tratte quelle parole: e come si usa ancora, si cantavano altri salmi e cantici spirituali, per ammaestrare, consolare il popolo, ed interpretargli i suoi più intimi sentimenti col Signore, che tanto con lui si degna. – Ora la Chiesa sceglie un versetto dei libri santi, il quale si riferisce al mistero che si festeggia, ed alla grazia che Gesù comparte a chi degnamente lo riceve; od anche alle virtù che esercitarono in Gesù i Beati; e sovente alla grande beatitudine di essere uniti con Gesù Cristo, Redentore e Dio nostro, nel Sacramento. Ecco per lo più i sensi della orazione detta communio. Noi intanto pensiamo a quel popolo di comunicati: e nel loro fervore ci pare di sentirli ripetere: « lo proviamo, sì, lo proviamo, quanto è soave il Signore! »

La Comunione generale.

Anche ai di’ nostri non vi è più commovente spettacolo, né più edificante della Comunione generale di un intero popolo (È bella cosa far la Comunione Generale? Rispondiamoche puòessere utile quando si ha copia di confessori. Eppure anche in questo caso da’ luogo a disordini. L’esperienza ci ha allontanati da questa pratica. Noi ci rimettiamo alla prudente altrui pietà). Noi lo proviamo nelle missioni e negli esercizi spirituali. In quelle occasioni un missionario, vogliam dire un apostolo, o novello profeta del Signore, che nella sublime semplicità del Verbo di Dio rivela coll’eloquenza della carità i misteri delle anime, e dell’amor divino, richiama il popolo come una famiglia di figliuoli innanzi al Padre celeste. A loro mette davanti coi loro torti i loro doveri, e fa ad essi i più severi rimproveri: ma gli addolcisce colle lagrime di sua pietà: anche fa uso di tutto il terrore della parola divina, e coi più potenti colori fa loro vedere innanzi l’inferno, che sta per ingoiarli in peccato, in morte eterna; gli scuote, gli agita e fa che atterriti cerchino solleciti di gettarsi tra le braccia della misericordia di Dio, e di assicurarsi il Paradiso: e termina la sua missione con l’accoglierli in seno, confortarli colle più sicure speranze, e riconciliarli con Dio. Allora chi rappresenta il padre del popolo, il parroco, celebra il gran Sacrificio in mezzo a’ suoi fratelli commossi; ed a loro rivolto dice: « ecco Gesù, o cari amici: dai travagli che vi angustian la vita venite a ristorarvi in seno a Dio. » In questo mentre risuona la Chiesa di cantici spirituali; il Cielo è aperto sopra del tempio, i beati fan eco di Paradiso, e gli Angioli scendon a corteggiare il Signore, e fanno corona ammiranda ai fedeli che lo ricevono. Noi diciamo quello che abbiam sentito a ripeterci, « che per un buon pastore è questo il più bel giorno della sua vita. »

ART. II.

DOMINUS VOBISCUM.

Ritorniamo a contemplare il Dacerdote, che esilarato il suo cuore in questa giaculatoria (che figura l’allegrezza che ebbero i fedeli per la risurrezione (IInnoc. III , Myst. Miss. lib 6 c.10) del Signore, va in mezzo all’altare, v’imprime un bacio divoto, e si volge al popolo. – Il Sacerdote sembra proprio che faccia come la Maddalena ed i discepoli. Era già risorto Gesù. Maria Maddalena, quella benedetta, che già provate le consolazioni divine, seduta ai piedi del Salvatore, dovette tenergli dietro colla sua Madre fin sotto la Croce! Colei, che lo vide morire, e morto lo baciò in seno a Maria SS. e le membra lacerate unse dei balsami più preziosi e fasciò di bende, ed involtolo nella sindone, aiutò a comporlo nel sepolcro: colei adunque era tornata, dove la voleva il cuore prima del di: ma non trovato nel sepolcro Gesù, s’aggirava esterrefatta intorno a quella vuota tomba, e col suo guardare attonito pareva che interrogasse fino le piante e i sassi, se le sapessero dire del suo Diletto! Quando improvviso appare innanzi Gesù, che le dice, a farsi riconoscere: « Maria! » Ella mette un grido: « o Maestro!…» e gli cade ai piedi. E Gesù le disse d’andare e rallegrare i suoi discepoli, e dir loro che li avrebbe consolati di sua apparizione fra breve. Maddalena s’alza dai piedi di Gesù e corre ai discepoli (Giov. XX). Questi avvisati che il divino Maestro era risorto.., ed. oh! sel videro a porte chiuse apparire davanti in gloria di risurrezione… Pareva non credessero ai proprii occhi! E Gesù: « vedetemi, son proprio io qui con voi, toccatemi, in carne ed ossa risuscitato (XX,19): e tu, Tommaso, metti il dito nelle mie Piaghe, mettidentro la mano in questo mio Costato: » poi farsi conoscere nella frazione del pane (Luc.XXIV, 30-31) e mangiare con essi. Gli Apostoli rapiti a Lui in quella gloria, giubilavano del suo trionfo. Poi Gesù disse: ricevete lo Spirito Santo per rimettere tutti i peccati; quasi dicesse: mettetemi la mano nel Cuore, e col mio caldo Sangue lavatemi l’anime in confessione, e dite alle genti, che vengano a trovar la pace in cuore a me in Comunione, spingeteli a venire tutti a me colle più calde esortazioni. Consolanti misteri ricordati dal Sacerdote, che dopo la Comunione appare in mezzo all’altare: e rappresenta Gesù risuscitato che apparve a quei pii. Erede egli e depositario di tanto tesoro di grazie, col cuor diviso tra Dio e il popolo, come Gesù nell’istante di salire al Padre (Ben.XIV, lib. 2, c.24 n. 4), sfoga in Dio la pienezza del suo contento, ciò che non può far meglio che con un bacio mandare il cuore a Gesù (bacia l’altare). Poi si getta colle braccia larghe in seno al popolo a versargli l’abbondanza della Redenzione: e per dire tutto, non trova miglior espressione di questa: « Dominus vobiscum; il Signore sia con voi. » E il popolo con fervore intenerito rispondegli: « Et cum spiritu tuo; e collo spirito tuo sempre il Signore. » Trovandolo così seco in armonia di carità, « ah! preghiamo adunque, gli dice, ancora il nostro buon Dio insieme, Oremus; » e va al lato del crocifisso, cara immagine del suo Dio, del suo Diletto, che ha nel cuore, ad innalzare la preghiera in nome di tutti. Colla persona ben amata dinanzi quanto è cara cosa contemplare il ritratto! Nel Sacerdote ricordiamo Gesù.

ART. III.

IL POSTCOMMUNIO.

OREMUS.

Il Sacerdote fa qui le orazioni dette il Postcommunio, o vogliam dire le orazioni ordinate a ringraziare Dio, che di così grandi e divini misteri ci volle partecipi; e ad ottenere dopo la Comunione santissima gli effetti, i quali la Chiesa insegna, che da questo Sacramento si devono aspettare, e che sono l’oggetto delle più care speranze (Ben. XIV,lib.2 cap. 24 n.2). Si dicono queste orazioni nella parte destra dell’altare per indicare che gli avanzi dei Giudei si convertiranno alla fine del mondo: e ritornerà la legge santa donde era partita (Mansi: Il vero Eccles.vol 2, lib.5, cap. 9). Noi vorremmo qui poter dare tutte tradotte queste orazioni, che recita la Chiesa, variandole col variar delle feste. In esse per lo più si chiede che il benedetto Gesù, che in noi abita personalmente, ci faccia tradurre in atto, nella santità del costume, le sublimi verità che abbiam meditate, affinchè nella vita di noi, santificati che siamo, per l’unione con Lui, si renda da noi immagine delle sue virtù divine; ed eseguiamo l’avviso che Egli ci diede di esser perfetti, come è perfetto Dio, che noi chiamiamo nostro Padre in ispirito di adozione: figliuoli che Gli siamo in verità, perché in noi è il Sangue del suo Figliuolo. Sovente anche rammentiamo in queste orazioni i misteri della vita del Signore, e chiediamo che i suoi meriti siano a noi applicati, e siano di nostra ragione, come proprio meriti di noi, che vogliamo restar uniti col nostro gran Capo per sempre. O ricordiam Maria SS., e lo facciamo colla confidenza di veri Figli; o i Santi, e godiam della loro felicità, e vediamo in quella la caparra della nostra beatitudine. Sempre poi chiediamo a Dio, che questi suoi doni divini, di che ci fu così largo con misericordia infinita nel tempo, li conservi e gli aumenti nelle anime nostre qui, e poi coroni l’opera della sua misericordia colla beatitudine eterna: e conchiudiamo coll’esprimere la confidenza, che il Paradiso deve essere tutto per i meriti di questo Gesù Dio che teniamo in noi, tutto nostro. Il popolo risponde: « Amen » ah, così sia! Dobbiamo fermarci ad osservare, che nel Postcommunio si recitano orazioni corrispondenti in numero a quelle recitate nelle Collette prima dell’epistola. Nella quaresima una di più; e per recitarla s’invita il popolo ad umiliarsi prima dinanzi a Dio, dicendosi dal sacerdote: « Oremus; » Humiliate capita vestra Deo. » Cioè « preghiamo: umiliate le vostre teste a Dio. » Il perché si potrà comprendere da ciò che siamo per dire. Per molto tempo si usò anticamente di dispensare dopo la Comunione santissima anche il pane benedetto: il qual uso era una reliquia o monumento delle agapi, o santi conviti, in cui tutti i fedeli sedevano alla mensa comune di carità. Appunto dopo di aver ricevuto tante grazie dal Padre celeste, non si credeva potesse esservi miglior occasione di comunicare in carità, sia per far festa insieme, sia per rispondere in carità alla carità divina, e rappresentare subito in pratica un’immagine della divina bontà. Ciascun fedele pertanto portava in Chiesa qualche ben di Dio; e mangiavano insieme, e se ne mandava ai poveri assenti; veri fratelli , che si ricordavano, che il Padre nostro raccomanda di prendersi la cura di ciascun dei suoi figliuoli. Si conserva ancor un avanzo di questa disciplina nella distribuzione in alcune chiese: come si fa nel rito armeno; in cui, finita la Messa, si siede il Vescovo presso il cancello dell’altare, e distribuisce il pane benedetto a tutti i fedeli, che gli si presentano. Ecco ora il perché dell’humiliate ecc. perchè nella Quaresima, per rispetto al digiuno non si faceva questa distribuzione del pane; invece si recitava sopra il popolo un’ultima orazione, avvertendolo prima, di umiliarsi in ispirito di penitenza. Questa variazione di rito ci porge occasione di osservarne un’altra, che si pratica nei tempi di penitenza e di duolo; ed è il conchiudere , dopo di aver salutati i fedeli col:

Benedicamus Domino.

Nel corso della Quaresima e dell’Avvento (consecrato una volta a penitenza simile a quella della Quaresima, come si suole ancora in certi ordini religiosi), e nelle vigilie delle feste, terminato il Postcommunio, il Sacerdote sostituisce alla parola di commiato Ite Missa est, l’invito « Benedicamus Domino » Benediciamo il Signore; ed il popolo risponde: « Deo gratias, ringraziamo Dio » Pochi Cristiani conoscendo la ragione di questa differenza, noi per ispiegarla osserviamo con alcuni autori, che nei giorni di penitenza, come sono quelli che abbiam nominati, la Chiesa dopo il Sacrificio riteneva ancora nel luogo santo i fedeli e gli esercitava in opere di pietà e di mortificazione. – Ora avendo sempre la Chiesa lo stesso spirito che la vivifica in tutti i tempi, e non le mancando mai fedeli che si esercitano, variando i modi, nelle stesse virtù di umiltà e di penitenza; anche presentemente non licenziando, secondo il solito al fine della Messa il popolo, quasi gli restassero da adempiere ancora nel santuario altre opere di pietà, lo lascia partir col ricordo di eseguire con ispirito di penitente compunzione i doveri del loro stato particolare; chè il miglior modo di soddisfare il Signore nostro Padre sono le opere buone dalla parte nostra. Ognuno deve adunque, nel partire dall’altare, dire a se stesso: « ritorno ai doveri della vita: ma la Chiesa non ha ora finite le sue orazioni con me: mi lascia andare coll’avviso di continuarle tra le occupazioni di questi giorni di salute. » Quindi nel modesto contegno di un santo raccoglimento dobbiam portar l’immagine dell’uom che cammina con Dio: e a Dio dare soddisfazione in ispirito di penitenza: e se ora non ci fermiamo in chiesa come gli antichi Cristiani, continuiamo nel santuario delle nostre case il sacrificio delle opere di carità, specialmente delle più umili e più segrete nel commovente pensiero, che la Chiesa piange pei nostri peccati in questi di! Ed oh! quanto dovrebbe esser facile e dolce l’esercizio di tutte le virtù, quando abbiamo l’anima tutta compresa ed occupata ancora dal mistero santissimo, a cui assistemmo, ed avemmo parte! Insomma la religione nostra dobbiamo tradurla in pratica nel fare il bene col cuore uniti sempre con Gesù Cristo; e trattare i più meschini dei nostri fratelli , come tratteremmo Gesù nostro tutto piagato. Abbiamo tutti le nostre miserie da far esercitare la pazienza e le altre virtù ai fratelli. Veramente giunge al cuore tenerissima anche la osservazione del Cardinale Bellarmino, il quale dice (Tom. 3, Controvers. lib.6, de Misss c.27): che in tempi di mestizia ci si presenta qualche cosa di lugubre nel non licenziare pubblicamente il popolo accomiatandolo; ma sì nel lasciarlo andare senza dirgli parola: sicchè ciascuno di per sè se ne parta confuso, mesto e taciturno. Tutte le volte poi che non si licenzia il popolo coll’Ite, Missa est, avvertiamo che il Sacerdote non si rivolge ai fedeli come in atto di parlare a loro, ma così continuando la sua orazione con Dio, rivolto all’altare, invita il popolo seco a benedire a Lui, ed esclama: « Benedicamus Domino, benediciamo al Signore. » Il popolo risponde pronto: « sì, a Lui siano grazie. » Però anche nella Messa poi defunti non si licenzia coll’Ite, Missa est: ma compiuto il gran rito d’espiazione, esclamasi dall’uom di Dio: « Requiescant in pace; riposino in pace. » Ecco di questa commovente cerimonia la ragione. Le Messe pei defunti sono per lo più seguite dalle esequie, e raccomandazioni delle anime, che sono una continuazione dell’officiatura che si veniva a finire sopra le tombe situate allora tutto intorno all’ombra del santuario. Così terminata la Messa, il sacerdote col dire: requiescant in pace, fa invito a quelli che sono intervenuti ai santi misteri, di non partire sì tosto; ma di fermarsi con lui con calde suppliche a chiedere ancora la pace dei giusti troppo ben meritata dal Sacrificio di Gesù Cristo, sopra i sepolcri dei cari defunti. Difatto nelle esequie il Sacerdote dall’altare discende sulle tombe: pianta sopra esse la croce, e con acute grida, più che col canto, esclama: « libera nos; Signore, liberateci da morte eterna. » Mentre il suddiacono tiene la croce sulle ossa dei morti, il Sacerdote gira sopra esse, le sparge di acqua benedetta, le profuma a purificare quei poverini: prega insomma Gesù a cavare colla sua Mano insanguinata le anime da quel lago di tanti dolori! Poi grida: « raccogliamoci tutti sotto la croce pel di della grande ira di Dio, quando si fiaccheranno i cieli, e cadrà a nulla la terra: e Voi verrete a giudicar il mondo nel fuoco del vostro sdegno…. Ah! Signore, misericordia ai vivi e ai morti, per Gesù Cristo. Kyrie eleison, Christe, Kyrie. – Quanta tenerezza in questo rito! Sotto quelle alte volte del tempio, entro quelle pareti coperte a gramaglia, tra le colonne vestite di nero, alle grida del Sacerdote, allora cento e mille preganti rispondono coi loro clamori! Pare sentirsi i lai di quell’anime in tormento, che sono in purgatorio! e sono le grida di tutti, atterriti dal più tremendo dei giorni, il di del giudizio di Dio ! ! !… Ah ! e poi i fedeli abbracciati alla croce, colla bocca calda del Sangue di Gesù, si lamentano con Dio per le buone anime in tormento ed in seno a Dio vanno gridando: « Requiescant in pace! abbiano la pace in Voi. » Finalmente non vogliamo omettere qui anche, che autori di molta dottrina credono, che il non dire Ite, Missa est, sia segno eziandio dell’essere sempre state in uso le Messe private; e che in quelle, non essendovi presente in corpo il popolo, non si usasse di congedarlo; ma si terminasse col benedire e ringraziare il Signore. In tutte le altre Messe il Sacerdote, per congedare il popolo, va in mezzo all’altare, lo bacia umiliato, come per inchinarsi innanzi alla Maestà divina nell’atto di partirsi dal suo altare, o per trarne un saluto da dare al popolo colla benedizione e colla grazia che vuol augurargli, dicendo ancora; « il Signore sia con voi, » e risponde il popolo: « e collo spirito tuo. » E così quasi non potesse finire senza dire ancora, e il suo cuore non finirebbe mai di dire: « il Signore sia con voi. »

Ite, Missa est.

Andate ; la Messa è compiuta: la grande offerta nella Messa fu già mandata a Dio. Il divin Salvatore risorto dopo di aver soddisfatto alla giustizia di Dio, provveduto alla sua gloria coll’immortal Sacrificio, ed alla salute degli uomini col dar loro i mezzi nei Sacramenti di derivar le grazie guadagnate col preziosissimo Sangue, rivelati i suoi grandi misteri, come dice s. Leone pontefice: e costituita l’immancabile Chiesa, fermandola sopra l’incrollabile Pietro, ebbe compiuta la sua missione in terra. Raccolse tuei i suoi discepoli sul monte Oliveto e li confermò nella fede, dopo di aver fatto loro toccare con mano, che sì veramente era proprio desso, in carne ed ossa, da morte risorto. I discepoli cogli occhi nelle Piaghe gloriose, lo contemplavano giubilanti della gloriosa risurrezione, e partecipando del cuore cosi nella sua promessa, pareva loro già di risorgere con Esso a vita eterna. Ma Gesù disse loro: « andate, predicate l’evangelo a tutte le creature, ed insegnate ad osservare i miei comandamenti ». Li benedisse; e salì al cielo. Consolante spettacolo! Gesù ascende al cielo glorioso: e le anime cristiane si deliziano tutte del suo trionfo, quando a loro si presenta il ministro, che di Lui rende l’immagine sopra l’altare. Nell’atto di congedarle dice: « lie , Missa est, andate, lanMessa è compiuta, » ed accennando a Lui trionfante, pare che dica: « figliuoli, contemplatelo in cielo: Egli è nella gloria: e voi pigliate animo; ancora per poco; andate, compite la missione che vi assegna il Padre nella sua famiglia, coraggio: avete Gesù compagno sempre nei travagli della povera vita: con Lui giugnerete al termine della beatitudine nella gloria eterna, che vi è preparata. »

Così il dire che fa il Sacerdote , « andate, la Messa è compiuta. » più che un licenziare , è un dire ai fedeli: « Anime avventurate, figliuoli bene amati da Dio! avete avuta la grande grazia da Gesù: Lo avete con voi! Andate, raccontate le meraviglie della bontà del nostro Dio, tornate giù da questo Monte così santificati, e ciascun vi vegga in volto i raggi di quella consolazione nel vivere la vita con Dio, con esso godete la felicità della vita cristiana, iniziale dell’eterna beatitudine. » Ancora: « andate, ciascuno per l’ufficio a cui vi destina il Signor vostro; compite i vostri doveri con Gesù Cristo, portate con Lui le vostre croci. Tornerete poi alla fine della giornata della vita nostra a ricevere la ricompensa: fatevi del bene, con Gesù tornerete al dì del giudizio, a ricevere colla finale benedizione la corona promessa a chi ha fatto le belle opere di carità e che persevera fino alla fine. » – Quest’avviso di poter andare, che dà qui ora la Chiesa, ben debbe rammemorare, come vi sono in tutti i tempi delle anime innamorate di Dio, che corrono all’altare, e vi trovano delizie di paradiso; e che hanno bisogno di essere avvertite, quando è tempo di dipartirsi dal luogo santo. Esse hanno provato, che vai più un giorno passato nel tabernacolo del Signore, che non mille anni nelle tende dei peccatori (Salm. LXXXIII, 10). Esse, come gli Apostoli, quando videro Gesù trasfigurato in gloria sul monte Tabor, vorrebber rizzar tende e qui porre mansione a goder di quel gaudio con Gesù Cristo (Matt XVII). Ma Gesù agli Apostoli accennava che la risurrezione e la gloria dovevano venire dopo la sua passione ed il nostro combattimento (Leo Papa: Serm. de transfigur.). Il Sacerdote licenzia i fedeli, e manda ciascuno ai suoi doveri, volendo che tanta loro pietà traducano in atto nei saerifizi della carità di Dio e del prossimo, che esige Gesù da quelli, che voglion essere suoi discepoli. Quando adunque i fervorosi a malincuore dall’altare si allontanerebbero, il Sacerdote fa come gli Angeli (Act. 1) ai discepoli, che stavano attoniti a guardare il cielo. « Andate, pare adunque che debba dire, e confortati preparatevi; perche questo Gesù che vedete qui compiere sull’altare questo spettacolo di misericordia, verrà per raccogliere il frutto che deve dare la terra, che egli inaffia con tanto Sangue divino. »

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (26) “CONCILIO DI TRENTO, Sess. XXIV al termine”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (26)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(Concilio di Trento: Sessione XXIV- Fine)

Sessione XXIV, 11 novembre 1563.

Dottrina e canoni sul Sacramento del matrimonio.

1797. Sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, il primo padre della razza umana proclamò il legame perpetuo ed indissolubile del matrimonio quando disse: “Questo è ormai osso delle mie ossa, carne della mia carne. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e diventeranno due in una sola carne”. (Gn II,23 Mt XIX,5 Ep V,31 ).

1798. Cristo nostro Signore insegnò con sufficiente chiarezza che solo due esseri siano uniti da questo vincolo quando, ricordando queste parole pronunciate da Dio, disse: “Perciò non sono più due, ma una sola carne” (Mt XIX,6), e subito dopo confermò la solidità di questo vincolo proclamato tanto tempo prima da Adamo: “Perciò ciò che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Mt XIX,6 Mc X,9) .

1799. La grazia che avrebbe portato alla perfezione questo amore naturale, affermato questa unità indissolubile e santificato gli sposi, Cristo stesso, che ha istituito e portato alla perfezione i venerabili Sacramenti, l’ha meritata per noi con la sua Passione. È quanto ci suggerisce l’Apostolo Paolo quando dice: “Mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per essa” (Ef V,25), aggiungendo subito: “Questo sacramento è grande, dico, in Cristo e nella Chiesa” (Ef V,32).

1800. Poiché il matrimonio nella Legge del Vangelo ha la precedenza nella grazia, attraverso Cristo, sulle cerimonie matrimoniali dell’Antica Legge, i nostri santi Padri, i Concili e la tradizione della Chiesa universale hanno sempre giustamente insegnato che esso vada annoverato tra i Sacramenti della Nuova Legge. Contrariamente a questa tradizione, gli empi di questo secolo, essendo irragionevoli, non solo hanno sostenuto opinioni false su questo venerabile Sacramento, ma, come è loro abitudine, introducendo la libertà della carne sotto la copertura del Vangelo, per iscritto e oralmente, hanno diffuso molti elementi estranei al sentimento della Chiesa Cattolica e alle consuetudini approvate fin dai tempi degli Apostoli, e questo non senza grande danno per i fedeli. Volendo affrontare la temerarietà di questi uomini, il santo Concilio universale ha ritenuto che sia necessario sterminare le eresie ed i notevoli errori dei suddetti scismatici, affinché il loro pernicioso contagio non attiri a sé un gran numero di persone. Pertanto decreta i seguenti anatemi contro questi eretici ed i loro errori.

Canoni sul Sacramento del matrimonio.

1801. 1. Se qualcuno dice che il matrimonio non sia veramente e propriamente uno dei sette Sacramenti della Legge evangelica che Cristo nostro Signore habbia istituito, ma che sia stato inventato nella Chiesa dagli uomini e che non conferisce la grazia, sia anatema (cf. 1800).

1802. (2) Se qualcuno dice che è lecito per i Cristiani avere più di una moglie contemporaneamente, e che ciò non sia proibito da alcuna legge divina (Mt XIX,9), sia anatema (cf. 1798).

1803.3 Se qualcuno dice che solo i gradi di consanguineità e di affinità espressi nel Levitico, (Lev XVIII,6-18), possano impedire di contrarre un matrimonio e rendere nullo quello contratto, che la Chiesa non possa rinunciare a nessuno di essi né decidere che un numero maggiore sia causa di impedimento e di nullità: sia anatema (v. 2659).

1804. (4) Se qualcuno dice che la Chiesa non sia stata in grado di stabilire gli impedimenti al matrimonio, o che abbia sbagliato a stabilirli, sia anatema.

1805. (5) Se qualcuno dice che il vincolo del matrimonio possa essere spezzato a causa dell’eresia, o a causa di una vita insopportabile insieme, o a causa della deliberata assenza di un coniuge, sia anatema.

1806. (6) Se qualcuno dice che un matrimonio contratto e non consumato non sia annullato dalla professione religiosa solenne di uno dei coniugi, sia anatema.

1807. 7. Se qualcuno dice che la Chiesa sia in errore quando ha insegnato ed insegna, secondo l’insegnamento del Vangelo e dell’Apostolo (Mt 5,32 Mt 19,9 Mc 10,11-12 Lc 16,18 1Co 7,11) che il vincolo matrimoniale non possa essere spezzato dall’adulterio di uno dei coniugi e che nessuno dei due, anche quello innocente che non abbia dato motivo all’adulterio, possa, durante la vita dell’altro coniuge, contrarre un altro matrimonio; che sia adultero colui che sposa un’altra donna dopo aver allontanato l’adultera e colei che sposa un altro uomo dopo aver allontanato l’adultero: sia anatema.

1808. 8. Se qualcuno dice che la Chiesa sia in errore quando decreta che, per molte ragioni, i coniugi possano vivere separati, senza vita coniugale o senza vita in comune, per un tempo indefinito o definito: sia anatema.

1809. 9. Se qualcuno dice che i chierici che hanno ricevuto gli Ordini sacri o i regolari che hanno fatto professione solenne di castità, possano contrarre matrimonio, che tale matrimonio sia valido, nonostante la Legge della Chiesa o il loro voto, e che affermare il contrario non è altro che condannare il matrimonio; che tutti coloro che non sentono di avere il dono della castità (anche se hanno fatto voto di farlo) possono contrarre matrimonio: sia anatema. Poiché Dio non rifiuta questo dono a chi lo chiede correttamente, e non permette che siamo tentati oltre le nostre forze (1Co x,13).

1810. 10. Se qualcuno dice che lo stato di matrimonio debba essere posto al di sopra dello stato di verginità o di celibato, e che non sia né meglio né più felice rimanere nella verginità o nel celibato che contrarre matrimonio (Mt XIX,11 1Co VII,25 1Co VII,38-40)

1811. 11. Se qualcuno dice che la proibizione della solennità dei matrimoni in certi periodi dell’anno sia una superstizione tirannica derivata da una superstizione dei pagani, o se condanna le benedizioni e le altre cerimonie usate dalla Chiesa, sia anatema.

1812. 12. Se qualcuno dice che le cause matrimoniali non siano di competenza dei giudici ecclesiastici, sia anatema (v. 2598; 2659).

Canoni sulla riforma del matrimonio: Decreto “Tametsi”

1813. Cap. 1 (Motivo e contenuto della legge) Non si deve certo dubitare che i matrimoni clandestini, avvenuti con il libero consenso dei contraenti, siano matrimoni validi e veri, purché la Chiesa non li abbia resi invalidi; Coloro che negano che tali matrimoni siano veri e validi, e affermano falsamente che i matrimoni contratti dai figli di famiglia senza il consenso dei genitori siano invalidi, e che i genitori possano renderli validi o invalidi, devono quindi essere giustamente condannati, come il Santo Concilio li condanna con l’anatema. Tuttavia, la santa Chiesa, per ragioni molto giuste, ha sempre aborrito questi matrimoni e li ha proibiti.

1814. Ma il santo Sinodo si rende conto che questi divieti non servano più a nulla a causa della disobbedienza degli uomini; soppesa la gravità dei peccati che derivano da questi matrimoni clandestini, soprattutto per coloro che rimangono in uno stato di dannazione quando, dopo aver abbandonato la prima moglie con cui avevano contratto segretamente matrimonio, contraggano pubblicamente matrimonio con un’altra e vivono con lei in perpetuo adulterio; la Chiesa, che non giudica le cose segrete, non può porre rimedio a questi casi; può rimediare a questo male solo ricorrendo ad un rimedio più efficace. Pertanto, seguendo le orme del santo Concilio Lateranense (IV) tenutosi sotto Innocenzo III (cf. 817), il Concilio ordina quanto segue. In futuro, prima di contrarre matrimonio, in tre giorni festivi consecutivi, il parroco dei contraenti annuncerà pubblicamente in chiesa, durante la celebrazione della Messa, tra chi sarà contratto il matrimonio. Una volta fatti questi annunci, e se non ci sono legittimi impedimenti, il matrimonio sarà celebrato davanti alla Chiesa, dopo che l’uomo e la donna saranno stati interrogati; una volta accertato che abbiano dato il loro reciproco consenso, il parroco dirà: “Vi unisco in matrimonio, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”; oppure userà un’altra formula, secondo il rito ricevuto in ogni provincia.

1815. (Limitazione della legge) Se c’è il plausibile sospetto che il matrimonio possa essere impedito dalla malafede, se è preceduto da tanti annunci; o si farà un solo annuncio, o addirittura il matrimonio sarà celebrato alla presenza del parroco e di due o tre testimoni; poi, prima che il matrimonio sia consumato, gli annunci saranno fatti in chiesa, in modo che, se rimangano impedimenti, siano più facilmente scoperti, a meno che l’Ordinario stesso non ritenga opportuno omettere i suddetti annunci, cosa che il santo Concilio lascia alla sua prudenza e al suo giudizio.

1816. (Sanzione) Per quanto riguarda coloro che si impegnono a contrarre matrimonio al di fuori della presenza del parroco o di un altro Sacerdote autorizzato dal parroco o dall’Ordinario, e davanti a due o tre testimoni, il santo Concilio li rende assolutamente inadatti a contrarre in questo modo e decreta che tali contratti siano invalidi e nulli, così come con il presente decreto li rende invalidi e li annulla.

Sessione XXV, 3 e 4 dicembre 1563

Decreto sul Purgatorio, 3 dicembre 1563.

1820. La Chiesa Cattolica, istruita dallo Spirito Santo, sulla base della Sacra Scrittura e dell’antica tradizione dei Padri, ha insegnato nei santi Concili e da ultimo in questo Concilio Ecumenico che esista un purgatorio (cf. 1580) e che le anime che vi sono detenute siano aiutate dai suffragi dei fedeli, e soprattutto dal Sacrificio dell’altare tanto gradito a Dio (cf. 1743; 1753). Per questo motivo, il santo Concilio prescrive che i Vescovi facciano tutto ciò che sia in loro potere affinché la sana dottrina del Purgatorio, trasmessa dai santi Padri e dai Concili, sia oggetto della fede dei fedeli, che essi la conservino e che sia insegnata e proclamata ovunque. Le questioni più difficili e sottili, che non sono di alcuna utilità per l’edificazione e da cui la pietà il più delle volte non trae alcun beneficio, devono essere escluse dalla predicazione popolare tra i non istruiti. I punti incerti o apparentemente falsi non saranno divulgati o discussi. Tutto ciò che derivi da una certa curiosità o superstizione, o tutto ciò che abbia un inconfondibile sapore di profitto, sarà proibito come scandaloso ed offensivo per i fedeli. …

Decreto sull’invocazione, la venerazione e le reliquie dei Santi, e sulle immagini sacre, 3 dicembre 1563.

1821. Il santo Concilio ingiunge a tutti i Vescovi e a tutti coloro che hanno l’incarico ed il dovere di insegnare che, secondo l’uso della Chiesa Cattolica ed apostolica, ricevuto fin dai primi tempi della Religione cristiana, e in conformità al sentimento unanime dei santi Padri e ai decreti dei santi Concili, istruiscano diligentemente i fedeli, specialmente sull’intercessione dei Santi e sulla loro invocazione, sugli onori dovuti alle reliquie e sull’uso legittimo delle immagini. Insegneranno anche che i Santi che regnano con Cristo offrono le loro preghiere a Dio per gli uomini, che sia buono ed utile invocarli umilmente e, per ottenere benefici da Dio attraverso il suo Figlio Gesù Cristo nostro Signore, che è il nostro unico Redentore e Salvatore, ricorrere alle loro preghiere, al loro aiuto e alla loro assistenza. Chi nega che si debbano invocare i Santi, che godono della felicità eterna in Cielo; o chi dice che essi non preghino per gli uomini, o che invocarli per pregare per ciascuno di noi sia idolatria, o che vada contro la Parola di Dio e si opponga all’onore di Gesù Cristo, unico mediatore tra Dio e gli uomini (1Tm II,5); o che sia stupido rivolgere suppliche vocali o mentali a coloro che regnano nei CIeli: tutti questi ragionamenti sono empi.

1822. I fedeli devono anche venerare i corpi santi dei martiri e degli altri Santi che vivono con Cristo, che sono stati membra vive di Cristo e tempio dello Spirito Santo (1Co III,16; 1Co VI,15; 1Co VI,19; 2Co VI,16) e che saranno da Lui risuscitati e glorificati alla vita eterna; attraverso di loro Dio elargisce molti benefici agli uomini. Pertanto, coloro che affermano che nessun onore o venerazione sia dovuto alle reliquie dei Santi, o che sia inutile per i fedeli onorare loro e altre sacre memorie, e che sia vano visitare i luoghi del loro martirio per ottenere il loro sostegno, devono essere totalmente condannati, così come la Chiesa li ha condannati in passato e li condanna ancora oggi.

1823. Inoltre, le immagini di Cristo, della Vergine Maria Madre di Dio e degli altri Santi devono essere conservate, soprattutto nelle chiese, e ricevere l’onore e la venerazione loro dovuti. Non perché crediamo che in esse vi sia una qualche divinità o virtù che ne giustifichi il culto, o perché dobbiamo chiedere loro qualcosa o riporre la nostra fiducia nelle immagini, come facevano i pagani di un tempo che riponevano la loro speranza negli idoli (Sal CXXXIV,15-17), ma perché l’onore loro tributato rimanda ai modelli originali che queste immagini rappresentano. Pertanto, attraverso le immagini che baciamo, davanti alle quali ci scopriamo e ci prostriamo, è Cristo che adoriamo e i Santi, di cui portano le sembianze, che veneriamo. Questo è ciò che è stato definito dai decreti dei Concili, in particolare dal Secondo Concilio di Nicea, contro gli oppositori delle immagini (v.600-603).

1824. I Vescovi insegnino con cura che, attraverso la storia dei misteri della nostra Redenzione, rappresentata da dipinti o da altri mezzi simili, il popolo viene istruito e rafforzato negli articoli di fede, che deve ricordare e venerare assiduamente. E da tutte le immagini sacre si ottengono anche grandi frutti, non solo perché si insegnano al popolo i benefici e i doni conferiti da Cristo, ma anche perché si portano davanti agli occhi dei fedeli i miracoli di Dio compiuti dai Santi e gli esempi salutari da loro dati, in modo che essi ne rendano grazie a Dio, conformino la loro vita ed i loro costumi all’imitazione dei Santi e siano spinti ad adorare e amare Dio e a coltivare la pietà. Se qualcuno insegna o pensa cose contrarie a questi decreti, sia anatema.

1825. Se alcuni abusi si sono insinuati in queste pratiche sante e salutari, il santo Concilio desidera vivamente che siano completamente aboliti, in modo che non venga esposta alcuna immagine che porti una falsa dottrina e che possa essere occasione di un pericoloso errore per la gente semplice. Se talvolta accade che le storie e i racconti delle Sacre Scritture siano espressi da immagini, perché ciò è utile per le persone non istruite, si insegnerà al popolo che esse non rappresentano la divinità, come se questa potesse essere vista con gli occhi del corpo o espressa da colori e forme. Si eliminerà quindi ogni superstizione nell’invocazione dei Santi, nella venerazione delle reliquie o nell’uso sacro delle immagini; si eliminerà ogni ricerca di guadagni vergognosi; si eviterà infine ogni indecenza, in modo che le immagini non siano né dipinte né adornate con bellezza provocante… Affinché ciò sia più fedelmente osservato, il santo Concilio stabilisce che a nessuno sia permesso, in nessun luogo… di collocare o far collocare alcuna immagine insolita, a meno che non sia stata approvata dal Vescovo. Nessun nuovo miracolo sarà riconosciuto, nessuna nuova reliquia sarà ricevuta senza l’esame e l’approvazione del Vescovo.

Decreto di riforma generale, 3 dicembre 1563.

Duello.

1830. Cap. 19. La detestabile pratica del duello, introdotta dagli artifici del diavolo per ottenere la perdita delle anime attraverso la morte cruenta dei corpi, deve essere completamente bandita dal mondo cristiano. L’imperatore, i re… e i signori temporali, qualunque sia il loro nome, che concedono nelle loro terre un luogo per il combattimento singolo tra Cristiani saranno, per questo stesso fatto, scomunicati… Quanto a coloro che combattono e a coloro che sono chiamati a sostenerli, incorreranno nella pena della scomunica… e dell’infamia perpetua. Dovranno essere puniti come omicidi, secondo i sacri Canoni; e se moriranno nel combattimento stesso, saranno per sempre privati della sepoltura ecclesiastica.

Decreto sulle indulgenze, 4 dicembre 1563

1835. Poiché il potere di conferire indulgenze è stato concesso da Cristo alla Chiesa, e la Chiesa ha usato questo potere divinamente comunicatole (cfr. Mt XVI,19; Mt XVIII,18 ), anche nei tempi più antichi, il santo Concilio insegna e ordina che l’uso delle indulgenze, molto salutare per il popolo cristiano e approvato dall’Autorità di questo santo Concilio, sia conservato. E colpisce con l’anatema sia coloro che affermano che sisno inutili, sia coloro che negano che la Chiesa abbia il potere di concederle. Tuttavia, vuole che siano concesse con moderazione… per evitare che la disciplina ecclesiastica sia indebolita da un’eccessiva facilità. Desiderando emendare e correggere gli abusi che si sono insinuati, ed in occasione dei quali questo bel nome di indulgenze viene bestemmiato dagli eretici, con il presente decreto il santo Concilio decreta in modo generale che tutti i deplorevoli traffici di denaro per ottenerle debbano essere assolutamente aboliti.

La dipendenza del Concilio ecumenico dal Papa.

1847. Finalmente abbiamo ottenuto ciò per cui abbiamo lottato giorno e notte e che abbiamo implorato con perseveranza dal “Padre delle luci” (Giacomo 1:17). Infatti, dopo che – convocati dalla nostra lettera e spinti anche dalla loro stessa pietà – un numero molto considerevole, degno di un Concilio ecumenico, di Vescovi e di altri illustri prelati di tutte le nazioni che portano il nome di Cristiani si era riunito da ogni parte in questa città, … Ci siamo mostrati così favorevoli alla libertà del Concilio che in una lettera ai nostri legati, abbiamo permesso al Concilio stesso, di nostra iniziativa, di trattare liberamente anche le questioni che fossero realmente riservate alla Sede Apostolica; così che ciò che rimaneva da trattare, definire e determinare riguardo ai Sacramenti e ad altre cose che apparivano necessarie al fine di confondere le eresie, rimuovere gli abusi e migliorare i costumi, è stato trattato liberamente e diligentemente dal santissimo Concilio, e definito, spiegato e determinato con cura ed estrema pertinenza…

1848. Ma poiché lo stesso santo Concilio, per riverenza verso la Sede Apostolica e seguendo le orme dei Concili precedenti, ha chiesto a Noi, con un decreto emanato su questo argomento in seduta pubblica, di confermare tutti i decreti emanati da esso nel nostro tempo ed in quello dei nostri predecessori, avendo preso conoscenza della richiesta del Concilio, avendo deliberato attentamente su di essa con i nostri venerabili fratelli, i Cardinali di Santa Romana Chiesa, e invocando soprattutto l’aiuto dello Spirito Santo, e avendo accertato che tutti questi decreti siano cattolici e utili e salutari per il popolo cristiano, a lode di Dio onnipotente e su consiglio e con l’approvazione dei nostri fratelli, oggi li abbiamo confermati tutti e ciascuno nel nostro concistoro segreto e abbiamo deciso che siano ricevuti e osservati da tutti i fedeli cristiani.

1849. Inoltre, per evitare il disordine o la confusione che potrebbero sorgere se a qualcuno fosse permesso di pubblicare, a suo piacimento, i propri commenti e le proprie interpretazioni dei decreti del Concilio, ordiniamo a tutti, in virtù della nostra Autorità Apostolica […], che nessuno osi osare pubblicare senza il nostro permesso commenti, glosse, annotazioni, spiegazioni e qualsiasi altra forma di interpretazione dei decreti di questo Concilio, in qualsiasi modo, o di stabilire qualcosa a nome di qualcuno anche con il pretesto di una migliore conferma o esecuzione dei decreti, o adducendo altre eminenti ragioni.

1850. Ma se a qualcuno sembri che qualcosa sia stato detto o stabilito in quella sede in modo troppo oscuro, e per questo motivo sembro che ci sia bisogno di un’interpretazione o di una decisione, deve salire al luogo che il Signore ha scelto, cioè alla Sede Apostolica, maestra di tutti i fedeli, la cui autorità il Concilio stesso ha riconosciuto con riverenza. Ci riserviamo infatti il diritto di chiarire e decidere su qualsiasi difficoltà o controversia che possa sorgere da questi decreti, come ha deciso lo stesso Santo Concilio…

1851. Regola 1: Tutti i libri che prima dell’anno 1515 hanno condannato Papi o Concili ecumenici, e che non compaiono in questo Indice, devono essere considerati come condannati allo stesso modo in cui sono stati condannati in passato.

1852. Regola 2: I libri degli eresiarchi, sia di quelli che dopo il suddetto anno abbiano inventato o dato origine ad eresie, sia di quelli che sono o sono stati i capi e le guide delle eresie,… sono totalmente proibiti. I libri di altri eretici, che trattano esplicitamente di religione, sono totalmente condannati. Quanto a quelli che non trattino di religione, sono consentiti se sono stati esaminati e approvati da teologi cattolici su richiesta di Vescovi ed inquisitori.

1853. Regola 3: Le traduzioni di scrittori anche ecclesiastici, finora pubblicate da autori condannati, sono consentite purché non contengano nulla di contrario alla sacra dottrina. Per quanto riguarda le traduzioni dell’Antico Testamento, esse possono essere permesse solo a uomini dotti e pii, secondo il giudizio del Vescovo, purché usino queste traduzioni come spiegazioni dell’edizione della Vulgata, al fine di comprendere la Sacra Scrittura, e non come un testo di per sé valido. Quanto alle traduzioni del Nuovo Testamento fatte da autori della prima classe di questo Indice, non saranno permesse a nessuno, perché di solito dalla loro lettura deriva poco profitto ma molto pericolo. Ma se i commentari circolano con le traduzioni permesse o con l’edizione della Vulgata, se sono stati espurgati di passi sospetti dalla facoltà di teologia di un’Università cattolica o dall’Inquisizione generale, possono essere permessi a coloro ai quali sono permesse anche le traduzioni. …

1854. Regola 4: Poiché l’esperienza insegna che quando la Sacra Bibbia in lingua volgare sia permessa ovunque indistintamente, dalla temerarietà degli uomini derivano più danni che benefici, spetta in questo caso al giudizio del Vescovo o dell’Inquisitore poter concedere, su consiglio del parroco o del confessore, la lettura della Bibbia tradotta in lingua volgare da autori cattolici a coloro che abbiano stabilito possano trarre da questa lettura non un danno, ma un aumento della fede e della pietà…

1855. Regola 5: Quei libri che a volte provengono dall’opera di autori eretici e nei quali non si aggiunge nulla o poco di proprio, ma che raccolgono le affermazioni di altri autori, e che comprendono lessici, concordanze, apostegmi…, se contengono qualcosa che abbia bisogno di correzione, sono permessi quando questo sia stato rimosso o migliorato su consiglio del Vescovo.

1866. I libri che trattano in lingua volgare delle controversie tra Cattolici ed eretici del nostro tempo, non devono essere permessi indiscriminatamente, ma si deve osservare nei loro confronti ciò che sia stato stabilito per la Bibbia scritta in lingua volgare. Per quanto riguarda quelli che sono stati composti in lingua volgare e che trattano del giusto modo di credere, contemplare, confessare o altri argomenti simili, se contengono una sana dottrina non c’è motivo di proibirli.

1857. Regola 7: I libri che trattino, raccontino o insegnino espressamente cose lussuriose o oscene sono assolutamente proibiti, poiché si deve tener conto non solo della fede ma anche della morale, che di solito viene facilmente corrotta dalla lettura di tali libri. I libri antichi, invece, scritti da pagani, saranno consentiti per l’eleganza e il carattere proprio del linguaggio, ma in nessun caso potranno essere letti ai bambini.

1858. Regola 8: I libri il cui contenuto principale sia buono, ma in cui occasionalmente sia inserito qualcosa che rientri nella categoria dell’eresia o dell’empietà, della divinazione o della superstizione, possono essere ammessi se sono stati espurgati da teologi cattolici.

1859. Regola 9: Tutti i libri e gli scritti che trattino di divinazione dalla terra, dall’acqua, dall’aria, dal fuoco, di interpretazione dei sogni, di chiromanzia, di negromanzia, o nei quali si parli di incantesimi, di fabbricazione di veleni, di auspici, di formule magiche, sono assolutamente condannati. I Vescovi, tuttavia, vigileranno diligentemente affinché non si leggano o si posseggano libri, trattati o indici di astrologia giudiziaria che, riguardo ai futuri successi, alle possibili disgrazie o a quelle azioni che dipendono dalla volontà umana, osino affermare che qualcosa di preciso accadrà.

1860. Regola 10: Per la stampa di libri o altri scritti si osservi quanto stabilito nel V Concilio Lateranense sotto Leone X, X sessione.

(Seguono particolari prescrizioni disciplinari per autori, editori e redattori di biblioteche).

1861. Infine, si ordina a tutti i fedeli che nessuno osi leggere o possedere libri di qualsiasi genere contro la prescrizione di queste regole o la proibizione di questo Indice. Ma se qualcuno legge o possiede libri eretici o scritti di autori condannati o proibiti per eresia o per sospetto di falsa dottrina, incorre immediatamente nella sentenza di scomunica.

Bolla “Iuiunctum nobis”, 13 novembre 1564.

Professione di fede triden

tina.

1862. IO, N., credo e professo che un’unica fede tiene fermi tutti e ciascuno degli articoli contenuti nel Simbolo di fede (di Costantinopoli cf. 150) utilizzato dalla Chiesa romana, e cioè: Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili; e in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio, generato dal Padre prima di tutti i secoli, luce della luce, vero Dio del vero Dio, generato, increato, consustanziale al Padre, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose, che per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, per mezzo dello Spirito Santo si incarnò nella Vergine Maria e si fece uomo; è stato crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato; ha sofferto; è stato sepolto; è risorto il terzo giorno, secondo le Scritture; è salito al cielo; siede alla destra del Padre e tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti; il suo Regno non avrà fine; e nello Spirito Santo, il Signore che dà la vita; che procede dal Padre e dal Figlio; che con il Padre ed il Figlio è congiuntamente adorato e glorificato; che ha parlato per mezzo dei Profeti. E in una sola Chiesa santa, cattolica e apostolica. Confessiamo il Battesimo per la remissione dei peccati. Aspettiamo la Risurrezione dei morti e la vita dell’età futura. Amen.

1863. Accetto e faccio mie con la massima fermezza le tradizioni apostoliche e le altre tradizioni della Chiesa, nonché tutte le altre osservanze e costituzioni della stessa Chiesa. Allo stesso modo accetto la Sacra Scrittura, secondo il significato che è stato ed è tenuto dalla nostra Madre Chiesa, che è responsabile di giudicare il vero significato e l’interpretazione della Sacra Scrittura. Non accetterò o interpreterò mai la Scrittura se non in accordo con il consenso unanime dei Padri.

1864. Professo anche che ci sono, propriamente e propriamente parlando, sette Sacramenti della Nuova Legge, istituiti da nostro Signore Gesù Cristo e necessari per la salvezza del genere umano, anche se non tutti sono necessari per tutti: Battesimo, Cresima, Eucaristia, Penitenza, Estrema Unzione, Ordine Sacro e Matrimonio. Essi conferiscono la grazia e, tra questi, il Battesimo, la Cresima e l’Ordine Sacro non possono essere ripetuti senza sacrilegio. Ricevo e accetto anche i riti ricevuti e approvati della Chiesa cattolica nell’amministrazione solenne dei suddetti Sacramenti.

1865. Abbraccio e accolgo tutti e ciascuno degli articoli che sono stati definiti e dichiarati nel Santo Concilio di Trento sul peccato originale e sulla Giustificazione.

1866. Professo inoltre che nella Messa venga offerto a Dio un vero Sacrificio, propriamente detto, propiziatorio per i vivi e per i morti, e che nel santissimo Sacramento dell’Eucaristia si trovino realmente, veramente e sostanzialmente il Corpo ed il Sangue, insieme all’anima ed alla divinità di nostro Signore Gesù Cristo, e che si compia un cambiamento di tutta la sostanza del pane nel suo Corpo e di tutta la sostanza del vino nel suo Sangue, cambiamento che la Chiesa Cattolica chiama “transustanziazione”. Affermo anche che, sotto una sola delle specie, si riceva il Cristo intero e completo ed il vero Sacramento.

1867. Affermo senza tema di smentita che esista un Purgatorio e che le anime che vi si trovano siano aiutate dalle intercessioni dei fedeli. E che i Santi che regnano insieme a Cristo debbano essere venerati ed invocati; che essi offrono preghiere a Dio in nostro favore e che le loro reliquie debbano essere venerate. Dichiaro fermamente che le immagini di Cristo e della sempre Vergine Madre di Dio, così come quelle degli altri Santi, possano essere possedute e conservate, e che si debba rendere loro il dovuto onore e la dovuta venerazione. Affermo inoltre che il potere delle indulgenze sia stato lasciato da Cristo alla Chiesa e che il loro uso sia molto vantaggioso per il popolo cristiano.

1868. Riconosco la Chiesa romana santa, cattolica e apostolica come Madre e Maestra di tutte le Chiese. Prometto e giuro vera obbedienza al Romano Pontefice, successore del Beato Pietro, capo degli Apostoli e Vicario di Gesù Cristo.

1869. Ricevo e professo senza dubbio tutto ciò che sia stabilito nei santi Canoni e nei Concili ecumenici, specialmente nel santo Concilio di Trento e dal Concilio Ecumenico Vaticano, è stato trasmesso, definito e dichiarato (specialmente sul primato del Romano Pontefice e sul suo Magistero infallibile). Allo stesso tempo, condanno, respingo e anatematizzo anche tutto ciò che sia contrario ad esse ed ogni tipo di eresia condannata, respinta e anatematizzata dalla Chiesa.

1870. Questa vera fede cattolica, al di fuori della quale nessuno possa essere salvato, che io ora professo volentieri e sinceramente, io, N., prometto, mi impegno e giuro di mantenerla e confessarla, a Dio piacendo, intera e inviolata, con la massima fedeltà fino all’ultimo respiro, e di avere cura, per quanto mi sia possibile, che sia tenuta, insegnata e predicata da coloro che dipendono da me o da coloro sui quali il mio ufficio mi impone di vigilare. Così mi aiuti Dio e questi santi Vangeli.

[documento dottrinale di Paolo IV, extra corpo dei documenti tridentini].

Constit. ” Cum quorumdam hominum”, 7 agosto 1555

Trinità e Incarnazione (contro gli Unitari)

1880. (Desiderando) avvertire tutti e tutte coloro che hanno affermato, insegnato o creduto finora che il Dio onnipotente non sia in tre Persone, di un’unità di sostanza assolutamente senza composizione e indivisa, e uno nell’unica e semplice essenza della divinità; o che il nostro Signore non sia come vero Dio in tutto della stessa sostanza con il Padre e lo Spirito Santo; o che secondo la carne lo stesso non sia stato concepito nel grembo della beatissima Vergine Maria dello Spirito Santo, ma come gli altri uomini del seme di Giuseppe o che lo stesso nostro Signore e Dio Gesù Cristo, non abbia sofferto l’amarissima morte della croce per riscattarci dai peccati e dalla morte eterna e riconciliarci con il Padre per la vita eterna; o che questa stessa Beata Vergine Maria non sia veramente la Madre di Dio e non sia rimasta nell’integrità verginale prima, durante e perennemente dopo il parto, chiediamo e avvertiamo a nome di Dio Onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo, per Autorità Apostolica. ..

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (27): “Da S. PIO V ad URBANO VIII”

LA VERGINE MARIA (10)

LA VERGINE MARIA (10)

Nihil Obstat: Dr. Andrés de Lucas, Canonico. Censore.

IMPRIMATUR: José María, Vescovo Ausiliare e Vicario Generale. Madrid, 27 giugno 1951. CAPITOLO X

CAPITOLO X

I DOGMI: BREVE RECENSIONE DI NICOLAS MARIN NEGUERUELA

La divina Maternità di Maria, la Verginità perpetua, la sua Concezione Immacolata e la sua gloriosa Assunzione al cielo sono i quattro dogmi della fede cattolica che riguardano la Madre celeste. Esponiamo brevemente una panoramica storica del primi due. Ci soffermeremo sul terzo e quarto.

1. MATERNITÀ DIVINA DI MARIA.

Tutta l’antichità cristiana ha confessato che Maria è la Madre di Dio. Contestando Nestorio, Patriarca di Costantinopoli, nel quinto secolo, questa credenza universale della Chiesa, ha resistito alla tradizione del Cristianesimo nei secoli precedenti. lo stesso Origene non esitò a chiamare Maria Theotokos, Madre di Dio, che allevo’ nel suo seno il Figlio di Dio, e diede alla luce l’Emmanuele. Giuliano l’Apostata fece capitolo di accusa ai Cristiani che non cessavano di chiamare Maria Madre di Dio. Con gli applausi dei fedeli e l’approvazione di Papa San Celestino I, il Concilio ecumenico, riunito ad Efeso nel 431, definì: “Se qualcuno non confessa che Dio sia veramente Emmanuele e, quindi, che la Santa Vergine ne sia la Madre, sia anatema.” Così veniva vendicato l’onore di Maria, soddisfatta la devozione dei fedeli che attendevano la definizione e condannato l’eresiarca che aveva osato mettere la sua lingua su Maria. Bandito dall’Imperatore nel deserto d’Arabia, lì, secondo una leggenda, la cancrena gli corrose la lingua, che cadde a pezzi dalla sua bocca. Da questo dogma segue l’immensa dignità di Maria, che sta in cima a tutta la gloria creata. non esitò a scrivere SAN TOMMASO D’AQUINO: « La. Beata Vergine, per il fatto di essere Madre di Dio, hai una certa dignità infinita, derivata dal Bene infinito, che è Dio.” (Summ. Theol., I, q. 25 a. 6 ad 4). La Maternità divina di Maria è la radice e fonte di tutti i suoi privilegi e Grazie. Concludiamo con CORNELIO A LAPIDE: «La Beata Vergine è Madre di Dio; per cui supera in eccellenza tutti gli Angeli, anche gli stessi Serafini e Cherubini. » Ella è Madre di Dio; allora è molto pura e santissima, in un modo che non può concepirsi, dopo Dio, una maggiore purezza. » Ella è Madre di Dio; quante sono state le grazie santificanti concesse singolarmente ad ogni Santo, le ha ottenute tutte prima di loro Maria». (In Matth., I, 16). A Roma, la Chiesa di Santa Maria Maggiore, ingrandita e impreziosita dal suo arco trionfale di Papa Sisto III, ricorda la definizione dogmatica di Efeso. Il suo soffitto a cassettoni è dorato con il primo oro portato da Colombo dall’America alla Spagna ed offerto dai nostri Re Cattolici, Fernando e Isabel, per la decorazione della Basilica. I re di Spagna, da Filippo IV, hanno diritto ad un posto nel coro canonico della stessa basilica, privilegio confermato dalla bolla “Hispaniarum fidelitas” di Pio XII del 5 agosto 1953 e dal recente Concordato tra la Santa Sede e lo Stato spagnolo, del 28 agosto 1953.

II. VERGINITÀ PERPETUA DI MARIA.

Contro la grossolana dottrina degli eretici apollinaristi, di Elvidio, Gioviniano ed alcuni Giudei che negarono la verginità di Maria, brandirono la loro penna San Girolamo e, tra noi, Sant’Ildefonso di Toledo, in sua difesa del privilegio tanto caro alla Vergine Madre. Più tardi poi, il Concilio particolare Lateranense, presediuto da Papa San Martino I nel 649, e successivamente riconosciuto anche da S. Agatone, definì: “Se qualcuno non confessa propriamente e veramente che la Santa Madre di Dio e Vergine sempre Immacolata, Maria, concepi’ dallo Spirito Santo e senza l’opera di uomo il Verbo di Dio in modo speciale ed in verità, e che lo ha generato in maniera incorruttibile, rimanendo intatta, dopo il parto, la sua verginità, sia condannato ». Che Maria rimase vergine anche dopo per tutta la vita è una verità di fede, confermata dal Magistero ordinario e universale della Chiesa. Negare questa verità è per SAN AMBROGIO un così grande sacrilegio (“Tantum sacrilegium”); cosa è preferibile passarlo sotto silenzio. “Chi ha vissuto in qualsiasi momento che, al nome Maria, non aggiungesse sempre: la VERGINE?” —scrive SAN EPIFANIO—. (Enchiridion, JOURNEL, n. 1.111.). Tutti i simboli confessano la stessa verità.

III. LA IMMACOLATA CONCEZIONE DI MARIA.

L’8 dicembre 1854, ha definito solennemente Papa Pio IX: « La dottrina la quale afferma che la Beata Vergine Maria, fin dal primo momento del suo concepimento, fu preservata immune da ogni macchia di colpa originale, per singolare grazia e privilegio di Dio, in previsione dei meriti di Gesù Cristo, Salvatore del genere umano, è rivelata da Dio, e quindi tutti i fedeli devono crederci fermamente e costantemente.” (Bolla Ineffabilis Deus, l’8 dicembre 1854.) – Che giornata fantastica e gloriosa per Maria! I 54 Cardinali, 42 Arcivescovi e 98 Vescovi che circondavano il Papa, la folla di fedeli che, in numero di 50.000, riempivano le navate di San Pedro, il Cattolici di tutto il mondo, che attendevano con impazienza questa definizione, caddero ai piedi della celeste Signora, e sgorgava da tutte le labbra una così unanime preghiera: «Sei tutta bella, o Maria, e non c’è alcuna macchia d’origine in di te.” La Spagna, che ha sempre difeso questo dogma, ancor prima della sua definizione, che nelle sue Università richiedeva ai laureati il sanguinoso voto, cioè quello di difendere questo privilegio di Maria anche a costo del proproo sangue, se necessario; la cui capitale, il 20 aprile 1438, per voce dei suoi due consigli, ecclesiastico e civile, aveva votato per difendere l’Immacolata Concezione, digiunando durante la sua veglia, celebrando la sua festa e passando quel giorno in solenne processione; che per devozione dei loro re, le città erano state poste sotto il patrocinio dell’Immacolata Concezione, Patrona di Spagna e delle sue Indie, confermato il suo patrocinio da Papa Clemente XIII, ebbe esaudito i suoi desideri. Sant’Antonio Maria Claret, allors Arcivescovo di Santiago di Cuba, che prima si era rivolto ai suoi diocesani chiedendo preghiere per raggiungere il paradiso per la pronta definizione di questo dogma, dopo averlo ricevuto la Bolla Papale, la strinse al petto, lo bagnò con le sue lacrime e l’annunciò ai fedeli diocesani in un ministero ricco di fervore. Quando ebbe finito di scriverla, ol Papa senti’ la vocematerna di Maria, che gli diceva: Bene scripsisti, hai scritto bene. Papa Pio IX, consultato sul sito di Roma dove doveva trovarsi il monumento all’Immacolata Concezione, rispose subito: “In Piazza di Spagna España”. La Spagna lo meritava e il Santo Padre ha riconosciuto così i meriti del nostro Paese nella difesa dell’Immacolata Concezione di Maria.

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Papa Pio IX si aspettava grandi frutti dalla definizione dogmatica dell’Immacolata Concezione. E poichè le speranze di questo evento non fallirono, il Beato Pio X lo ha ricordato mell’Enciclica Ad diem illum, in memoria del cinquantesimo anniversario di quella definizione.

1. Il positivismo di Comte, che era si proclamato agnostico riguardo a Dio; Lo scientismo di Renan, che avrva cercato di soppiantare la religione con la scienza; il razionalismo di Froschammer, che negava tutto il soprannaturale; il materialismo di Vogt e Buechner, che solo ammettevano come reali materia e riducevano la virtù, l’abnegazione, l’eroismo ed altri valori spirituali a mere secrezioni del cervello, ricevettero con la definizione dogmatica un colpo mortale. Essi vivranno ancora qualche anno come un mostro che, ferito, sanguina; ma… moriranno, e alcuni giacciono sepolti. Maria Immacolata nel primo momento della sua esistenza! In noi c’è qualcosa che non è materia, che è sopra di essa, che eleva l’uomo: è lo spirito. Aiutato dalla grazia divina, l’uomo può trionfare della materia e scalare le vette di santità. 2. È diventato più visibile ed ha tretto l’unione dei fedeli con il loro Pastore supremo, dell’Episcopato col suo capo, il Vicario di Gesù Cristo. “I Vescovi — scrive uno storico contemporaneo, di ritorno da Roma, vennero in possesso di una nuova adesione alla Santa Sede, che si diffondeva come un soave aroma su tutti che l”ascoltavano”. (Aguilar: Compendio di storia ecclesiastica generale, volume II, numero 1.689. Madrid, 1877.) Il 18 luglio 1870 venivano definiti i dogmi del Primato di Giurisdizione per diritto divino del Papa sui Vescovi ed i fedeli, e della sua infallibilità, quando insegna, ex cathedra, dottrine di fede o di morale. Così sono crollati, feriti a morte, il Gallicanesimo e il Febronianesimo, che, supportati dalla loro origine il primo da Luigi XIV di Francia e il secondo da Giuseppe II di Germania, erano destinati pretendrvano di ostacolare l’azione del Sovrano Pontefice mettendo radici nel clero di Francia e Germania. 3. La definizione dogmatica accese in tutti i cuori un immenso amore per Maria. A migliaia fiorirono le associazioni, le confraternite, gli istituti e le congregazioni religiose poste sotto il patronato di Maria Immacolata. Le Figlie di Maria, le Congregazioni mariane, i mesi di maggio e di ottobre, destinati a cantare le eccellenze della Signora e del suo benedetto Rosario, presero tale un incremento mai visto nella storia della Chiesa. L’ha riconosciuto così uno scrittore protestante: “La definizione del dogma dell’Immacolata Concezione è sublime in sé ed ha avuto l’effetto immediato di rafforzare le file dei Cattolici romani, aggiungendo fini e vivaci fervori alla devozione.” (Citato da AGUILAR, 1. c.).

L’anno giubilare del 1904 ne è la più chiara e migliore testimonianza, così come i Congressi Internazionali di Roma, Treviri, Lourdes e Saragozza. In occasione della commemorazione del centenario della definizione dogmatica dell’Immacolata Concezione, il Santo Padre Pio XII pubblica l’Enciclica Fulgens Corona, decretante la celebrazione dell’Anno mariano. “Niente di più dolce o più piacevole dell’onorare, venerare, invocare, predicare con fervore ed affetto ovunque la Vergine Madre di Dio, concepita senza peccato originale”, scriveva Pio IX alla fine della bolla Ineffabilis Deus, nella quale veniva definito il dogma dell’Immacolata, e Pio XII lo ripete nell’annunciare il centenario di quella definizione.

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Il fine dell’anno ? È espresso dalle parole del Santo Padre: “Accresce la fede del popolo cristiano, suscita ogni giorno di più l’amore della Vergine Madre di Dio, da lì tutti prendiamo occasione per continuare con gioia e puntualità le orme della Madre Celeste». Petizioni? “Chiedi”, aggiunge il Papa – nelle suppliche alla Madre di Dio, pane per l’affamato, giustizia per gli oppressi, la patria agli esuli, il riparo accogliente per i profughi, la dovuta libertà per coloro che sono stati gettati ingiustamente in prigione o nei campi di concentramento; il tanto desiderato ritorno in patria per coloro che, passati tanti anni dalla fine dell’ultima guerra, sono ancora prigionieri e gemono e sospirano segretamente; la gioia della luce splendente per i ciechi nel corpo e nell’anima, e per quelli divisi tra sé dall’odio, dall’invidia e dalla discordia, della carità fraterna, la concordia di animi e la feconda tranquillità che è sostenuta dalla verità, giustizia e mutua unione… per la Chiesa cattolica, il godere ovunque della libertà che le è dovuta”.

IV. LA GLORIOSA ASSUNZIONE DI MARIA IN CORPO ED ANIMA AL CiELO.

Il quarto dogma è quello della Gloriosa Assunzione della Beata Vergine, nel corpo e nell’anima, al cielo. E nella preparazione della definizione dogmatica è affidata alla Spagna un posto privilegiato tra tutti i popoli. Il fervore Assunzionista vibrava singolarmente nell’nima spagnola. “Per confermarlo”, ha scritto il Padre francescano BALIC (Congresso Francescano di Madrid, 1947, pp. 245, 246)—, basti ricordare che tra le 68 cattedrali Spagnole, 46 sono dedicate alla Vergine, e di esse 36 al mistero della sua gloriosa Assunzione; basti ricordare anche che fra i secoli XIII e XIV la maggior parte delle chiese parrocchiali della Spagna sono state dedicate allo stesso ineffabile mistero. » Tra i promotori medievali più ardenti della devozione alla Madonna, brillano con luce speciale, i tre grandi re: Alfonso il Combattente, di cui si dice abbia dedicato circa 3.000 chiese alla beata Vergine, ordinariamente sotto il mistero della sua Assunzione; Giacomo il Conquistatore, che ne eresse circa 2.000, e Ferdinando il Santo, fedele amante di Maria, che ne ha erette quasi altrettante, dedicandole generalmente al Mistero Assunzionista che corona tutta la sua vita”. Il tesoro letterario contenuto nel codici delle nostre cattedrali nelle loro biblioteche è splendido al massimo grado. “Per conto nostro —scrive BAYERRI—, convinti che non stiamo esagerando, abbiamo oltre 280 sermonari, datati tra X e XV secolo, conservati nelle cattedrali della Spagna, in cui sono inseriti meditazioni sui sermoni dell’Assunzione della Vergine”. (Studi, s. VI, pagina 394.) Rispondendo a Papa Pio IX, che scrivere ai Vescovi chiedendo un loro parere sull’opportunità di definire come dogma l’Immacolata Concezione di Maria, il Vescovo di Osma, Fray José Sánchez, e l”Arcivescovo di Malines, Engelbert Sterks, insieme alle loro risposte sull’Immacolata Concezione, elevarono anche, nel 1849, voti fervidi e motivati a favore dell’Assunzione. Successivamente, nel 1863, la richiesta della regina Elisabetta II a Papa Pio IX, marco’ in modo efficiente l’inizio del movimento travolgente che doveva terminere il 1 novembre 1950 con la definizione dogmatica, proclamata dal papa regnante Pio XII. Il voto della regina è stato accompagnato dalle più entusiasti raccomandazioni del suo confessore, Sant’Antonio Maria Claret. Questi, inoltre, nel suo libro Appunyi su un piano per preservare la bellezza della Chiesa, ha aggiungeva: «Sembra che la Divina Provvidenza abbia disposto, quali cose più onorevoli per Maria, essere iniziate dai Re e successivamente continuate dagli altri fedeli del mondo. »Il primo procedimento per la dichiarazione dogmatica del mistero dell’Immacolata Concezione di Maria era iniziato dal re ilippo III, per volere dell’Arcivescovo don Pedro de Castro. Ora, per dichiarare il secondo mistero, che è l’Assunzione di Maria Santissima in anima e corpo in Cielo, si è mossa ancora una Regina di Spagna, la illustre fonna Isabella II di Borbone, come si può vedere nella lettera che ho riportato di seguito, che scrisse al Sommo Pontefice Pio IX, datata 27 dicembre 1863, e nella risposta data dal Papa stesso del 3 febbraio 1864, cosicché sarà sempre vero che i Re Cattolici Don Filippo III e Donna Isabella II sono stati i primi ad richedere come dogma di fede quei titoli e misteri che tanto onorano Maria, e che, allo stesso tempo, è fi tanto onore per i re di Spagna ed i loro vassalli avendo avuto la felicità di essere primi in tali opere onorabili; e viene da aspettarsii che, così come il primo, anche il secondo sarà ottenuto, come lo stesso Santo Pontefice insinua nella sua risposta.”

Durante il Concilio Vaticano, tra i cui padri si distinse con il segno del martirio la venerata figura di S. Antonio María Claret, c’erano, sicuramente, in animo delle cure schierate dall’episcopato spagnolo e ispano-americano per conseguire per acclamazione la definizione di questo mistero, segnalandosi in questa campagna l’allora Vescovo di Jaén e poi cardinale Monescillo, ed il Vescovo di Concepción de Cile, Hipólito Salas. Il movimento assunzionista durante un secolo, dal 1849 al 1940, ha complessivamente contato, 2.505 richieste di Cardinali, Patriarchi, Arcivescovi e Vescovi, cioè quasi i tre quarti delle sedi della Chiesa. Il 1 maggio 1946, aappena dopo la seconda guerra europea, Pio XII, che aveva già consacrato nel 1941 il mondo al Cuore Immacolato di Maria, aggiungendo quasi il tocco dorato ai dogmi, scrisse agli Ordinari Cattolici di tutto il mondo: «Molto desideriamo sapere, Venerabili Fratelli, se nella vostra eccellente saggezza e prudenza giudichiate che possa essere proposto e definito come dogma di fede l’Assunzione corporea della Beata Vergine, e se lo desideriate con il vostro clero ed il vostro popolo». Le risposte a questa richiesta pontificia furono magnifiche per il loro numero e qualità. Risposero 1.191 Sedi; solo da 81 sedi, generalmente in regioni remote di missione, o al di là della cortina di ferro alzata dalla Russia, non arrivarono puntuali risposte. Di quelle 1.191 Sedi, 1.169 hanno risposto affermativamente. sedici Vescovi espressero alcuni dubbi circa  l’opportunità di tale definizione; solo sei dubitavano circa la definibilità di quel dogma. Eccone uno statistica altamente significativa e consolante: il 98,2 per cento dell’Episcopato Cattolico, con un quasi matematicamente voto unanime, dichiara che il L’Assunzione della Vergine sia una verità contenuta nella rivelazione divina e cioè la sua definizione appropriata. Tale consenso prima di una definizione papale, non era mai esistito nella Chiesa.

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È spuntato il 1 novembre, 1950. Uno splendido sole illuminava la Città Eterna. Dalle cinque del mattino i fedeli si precipitavano ad occupare il loro posto nella Basilica Vaticana e nelle sue piazze. Finalmente arrivò l’ora tanto attesa. Il Papa è apparso, preceduto da 40 Cardinali con il seguito d’onore; lo seguivano 589 Vescovi e 50 Abati ordinari vestiti di mantelli con mitra bianca. E di levò l’augusta voce del Vicario di Gesù Cristo sulla terra: “Per la gloria di Dio Onnipotente, che ha effuso sulla Vergine Maria la sua particolare benevolenza; per onorare suo Figlio, Re Immortale del secoli e vincitore del peccato e della morte; per la maggior gloria della sua augusta Madre; e per la gioia e l’esaltazione di tutta la Chiesa, con l’autorità di Nostro Signore Gesù Cristo, dei Santi Apostoli Pietro e Pablo, e con la nostra pronunciamo, dichiariamo e definiamo essere un dogma rivelato: CHE L’IMMACOLATA MADRE DI DIO, SEMPRE VERGINE MARIA, TERMINATO IL CORSO DELLA SUA VITA TERRENA, FU ASSUNTA IN CORPO E ANIMA ALLA GLORIA CELESTE. “Allora, se qualcuno, Dio non permetta, osa negare o dubitare volontariamente di ciò che è stato per Noi definito, sappia fi essersi allontanato. interamente della fede divina e cattolica”.

La Spagna era presente alla definizione dogmatica, come forse nessun altra nazione al di fuori dell’Italia. Pio XII, nel discorso pronunciato il 30 ottobre agli spagnoli, sottolineava i singolari meriti della Spagna per la proclamazione di questo glorioso dogma. La presenza degli spagnoli in questo giorno superò numericamente quella di qualsiasi altra nazione non italiana. Il suo fervore, l’ entusiasmo e la modestia si distinse tra tutti i fedeli. C’era tra essi ila Missione su mandato del governo Spagnolo. Una ricca rappresentanza dall’esercito spagnolo, in alta uniforme di gala, copriva militarmente a gara il passaggio del Papa, e non potendo rendergli le armi, lo acclamarono alzando al cielo le braccia, le insegne, cappelli e visiere. Pio XII, paterno, riconoscente, ordinava di fermare la processione per qualche istante a salutali.

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Per Pio XII, la proclamazione del nuovo dogma non è solo la corona e l’apice di un movimento imponente di secoli di trepidazione e desiderio. Vuole che esso sia l’inizio di un altro movimento ancora più grande, se possibile, di rinnovamento del mondo. Nel suo discorso all’Episcopato, il 2 di Novembre, specificava come lo concepisce: un programma di rinnovamento mariano dell’individuo, della famiglia e della società. Piena ed integra conservazione di dottrina cristiana. Formazione e santità del clero. Il Papa vede il mondo disfatto dall’odio e dalla mancanza di fede e di fratellanza in Cristo. Bene allora; a questo mondo martoriato e corrotto, il Sommo Pontefice, definendo il nuovo dogma, lo presenta «come un brandello luminoso nel cielo, abbagliante candore, speranza e vita felice”, come il rimedio più efficace per il mondo malato che guarisce e restituisce “il calore, l’affetto, la vita ai cuori umani”. Non ci resta che cantare con il nostro illustre FRATE Luis DE LEÓN: “Vai in paradiso Signora, e lì ti ricevano con canto felice. Oh, chi potrebbe ora aggrapparsi al tuo manto per salire con te al Monte santo… Volgi i tuoi dolci occhi, prezioso uccello, solo, umile e nuovo nella valle dei cardi che tale fiori portate; sospirano i figli di Eva, che se con vista chiara guardi le anime tristi di questa trerra, con proprietà invisibili li farai volare in alto, come una calamita perfetta, al cielo.

V. CONSEGUENZE CHE DERIVANO DA QUESTI DOGMI.

Questi quattro dogmi ci aprono ampi orizzonti per meglio capire gli uffici che Maria disimpegna con gli uomini. 1. Maria è la mediatrice universale di tutto le grazie. Certamente il nostro mediatore principale e necessario è Gesù Cristo, che con la sua passione e morte offrì a Dio soddisfazione condegna per i nostri peccati ed ha meritato tutti le grazie necessarie per la nostra salvezza. “Uno è solo mediatore tra Dio e gli uomini: Cristo Gesù». (1 Tim. II, 5.) Ma abbiamo bisogno di una mediatrice presso il Mediatore: Maria. “Tale è la volontà di Colui che ha voluto che tutto psssi attraverso Maria”. (S. BERNARDO, Serm. in Nativ.) E LEONE XIII scrisse nel 1891: «Possiamo affermare che dell’immenso tesoro di grazie che il Signore ci ha meritato, sia volontà divina che nulla ci venga comunicato se non per mezzo di Maria; in modo tale che, proprio come nessuno possa avvicinarsi al Padre se non tramite il Figlio, così anche, quasi allo stesso modo, nessuno se non per mezzo della Madre può arrivare Cristo.” 2. 0 Maria è Regina non solo degli uomini, ma anche di tutte le creature. La divina maternità la eleva al di sopra Tutto. SAN BERNARDINO DA SIENA esclama: “Quante creature servono la Trinità, altrettanto servono Maria”. Con quali dolci malinconie si deliziano nei templi gli eco della SALVE, del nostro maestro San Pietro da Mezonzo: AVE, Regina, Madre di misericordia.. 3. Maria è, nell’ordine soprannaturale, nostra Madre. Lei è la Madre di Gesù, nostro fratello maggiore, Capo del Corpo mistico del Chiesa. Ella coopero’ a fare da corredentrice alla nostra redenzione… Dall’alto della croce Gesù, il Redentore, ci ha affidato al suo amore nella persona del discepolo amato, quando disse a Maria come ultimo comandamento: “Donna, ecco tuo figlio.” e Giovanni ascoltava dalle labbra tremanti di Gesù, indicando Maria: “Ecco tua madre”. Nelle nostre sofferenze, sentendo il artigli del dolore che ci lacera, vederci impotenti da tutti, alziamo gli occhi pieni di lacrime… dove?… su, su, al cielo: Ecce mater tua; c’è nostra Madre che guarda, chi ci difende, chi ci incoraggia nella lotta. Non siamo orfani. Maria lo è nostra Madre.

FESTA DEL CORPUS DOMINI (2023)

FESTA DEL CORPUS DOMINI (2023)

Doppio di I cl. con Ottava privilegiata di 2° ordine.

Paramenti bianchi.

Dopo il dogma della SS. Trinità, lo Spirito Santo ci rammenta quello dell’Incarnazione di Gesù, facendoci celebrare con la Chiesa il Sacramento per eccellenza che, riepilogando tutta la vita del Salvatore, dà a Dio gloria infinita e applica alle anime in tutti i momenti i frutti della Redenzione (Or.) ». Gesù ci ha salvati sulla Croce e l’Eucarestia, istituita alla vigilia della passione di Cristo, ne è il perpetuo ricordo (Or.). L’altare è il prolungamento del Calvario, la Messa annuncia « la morte del Signore » (Ep.). Infatti Gesù vi si trova allo stato di vittima; poiché le parole della doppia consacrazione ci mostrano che il pane si è cambiato in Corpo di Cristo, e il vino in Sangue di Cristo; di modo che per ragione di questa doppia consacrazione, che costituisce il Sacrificio della Messa, le specie del pane hanno una ragione speciale a chiamarsi « Corpo di Cristo», benché contengano Cristo tutto intero, poiché Egli non può morire, e le specie del vino una ragione speciale a chiamarsi « Sangue di Cristo », per quanto anche esse contengano Cristo tutt’intero. E così il Salvatore stesso, che è il Sacerdote principale della Messa, offre con Sacrificio incruento, nel medesimo tempo che i suoi Sacerdoti, il suo Corpo e il suo Sangue che realmente furono separati sulla croce, e che sull’altare lo sono in maniera rappresentativa o sacramentale. – D’altra parte si vede che l’Eucarestia fu istituita sotto forma di cibo (All.) perché possiamo unirci alla vittima del Calvario. L’Ostia santa diviene così il « frumento che nutre le nostre anime » (Intr.). E a quel modo che il Cristo, come Figlio di Dio, riceve la vita eterna dal Padre, così i Cristiani partecipano a questa vita eterna (Vang.) unendosi a Gesù mediante il Sacramento che è il Simbolo dell’unità (Secr.). Così, questo possesso anticipato della vita divina sulla terra mediante l’Eucarestia, è pegno e principio di quella di cui gioiremo pienamente in Cielo (Postcom.). « Il medesimo pane degli Angeli che noi mangiamo ora sotto le sacre specie, dice il Concilio di Trento, ci alimenterà in Cielo senza veli », poiché saremo faccia a faccia nel Cielo, con Colui che contempliamo ora con gli occhi della fede sotto le specie eucaristiche. – Consideriamo la Messa come centro di tutto il culto eucaristico della Chiesa; consideriamo nella Comunione il mezzo stabilito da Gesù per farci partecipare più pienamente a questo divino Sacrifizio; così la nostra devozione verso il Corpo e il Sangue del Salvatore ci otterrà efficacemente i frutti della sua redenzione. Per comprendere il significato della Processione che segue la Messa, richiamiamo alla mente come gli Israeliti onorassero l’Arca d’Alleanza che simboleggiava la presenza di Dio in mezzo a loro. Quando essi eseguivano le loro marce trionfali, l’Arca santa avanzava portata dai leviti, in mezzo ad una nuvola d’incenso, al suono degli strumenti di musica, di canti, e di acclamazioni di una folla entusiasta. Noi Cristiani abbiamo un tesoro molto più prezioso, perché nell’Eucaristia possediamo Dio stesso. Siamo dunque santamente fieri di fargli scorta ed esaltiamo, per quanto è possibile, il suo trionfo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXXX: 17.
Cibávit eos ex ádipe fruménti, allelúia: et de petra, melle saturávit eos, allelúia, allelúia, allelúia.
Ps 80:2

[Li ha nutriti col fiore del frumento, allelúia: e li ha saziati col miele scaturito dalla roccia, allelúia, allelúia, allelúia.]

Exsultáte Deo, adiutóri nostro: iubiláte Deo Iacob.

[Esultate in Dio nostro aiuto: rallegratevi nel Dio di Giacobbe.]

Gloria Patri,…

Cibávit eos ex ádipe fruménti, allelúia: et de petra, melle saturávit eos, allelúia, allelúia, alleluja

[Li ha nutriti col fiore del frumento, allelúia: e li ha saziati col miele scaturito dalla roccia, allelúia, allelúia, allelúia.

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, qui nobis sub Sacraménto mirábili passiónis tuæ memóriam reliquísti: tríbue, quǽsumus, ita nos Córporis et Sánguinis tui sacra mystéria venerári; ut redemptiónis tuæ fructum in nobis iúgiter sentiámus:

[O Dio, che nell’ammirabile Sacramento ci lasciasti la memoria della tua Passione: concedici, Te ne preghiamo, di venerare i sacri misteri del tuo Corpo e del tuo Sangue cosí da sperimentare sempre in noi il frutto della tua redenzione:]

Lectio

Léctio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor XI: 23-29
Fratres: Ego enim accépi a Dómino quod et trádidi vobis, quóniam Dóminus Iesus, in qua nocte tradebátur, accépit panem, et grátias agens fregit, et dixit: Accípite, et manducáte: hoc est corpus meum, quod pro vobis tradétur: hoc fácite in meam commemoratiónem.
Simíliter ei cálicem, postquam cenávit, dicens: Hic calix novum Testaméntum est in meo sánguine. Hoc fácite, quotiescúmque bibétis, in meam commemoratiónem. Quotiescúmque enim manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat. Itaque quicúmque manducáverit panem hunc vel bíberit cálicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini. Probet autem seípsum homo: et sic de pane illo edat et de calice bibat. Qui enim mánducat et bibit indígne, iudícium sibi mánducat et bibit: non diiúdicans corpus Dómini.

(Fratelli: Io lo appreso appunto dal Signore, ciò che ho trasmesso anche a voi: che il Signore Gesù la notte che fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso le grazie, lo spezzò, e disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che sarà offerto per voi: fate questo in memoria di me. Parimenti, dopo aver cenato, prese il Calice, e disse: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue. Tutte le volte che Lo berrete, fate questo in memoria di me. Poiché ogni volta che mangerete questo pane, e berrete questo calice, annunzierete la morte di Signore fino a che egli venga. Perciò chiunque mangerà questo pane, o berrà il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso, e poi mangi di questo pane e beva di questo calice. Poiché chi mangia e beve indegnamente, mangia e beve la propria condanna, non distinguendo il corpo del Signore.)

Né dagli uomini, né dagli altri Apostoli – dice s. Paolo – io so ciò che vi ho insegnato sull’Eucaristia; ma Gesù Cristo stesso me l’ha rivelato. Non tralascia la circostanza del tempo; la notte stessa – dice egli – in cui il Salvatore fu tradito da uno dei suoi Apostoli, dato in mano de’ suoi nemici e trattato con la peggior crudeltà, istituì questo divin Sacramento, pegno il più prezioso del suo amore, ed attestato il più splendido della sua tenerezza. Colà propriamente fu fatto il testamento di questo amabile Padre, col quale dà tutto se stesso ai suoi figli, poche ore davanti la sua morte. S. Paolo entra quindi in molte particolarità di quanto avvenne in quella sì meravigliosa istituzione. È da osservare che l’Apostolo e tutti gli Evangelisti hanno voluto raccontare fin le minime circostanze di tale istituzione. Il Salvatore prese il pane. Gesù Cristo non poteva prendere che pane senza lievito, il solo di cui era permesso servirsi nel fare la pasqua: onde con ragione nella Chiesa romana si consacra con pane azzimo. Egli ringrazia il Padre suo della potestà che gli ha comunicato; i quali atti di ringraziamento eran sempre il preludio quand’era per operare le meraviglie più straordinarie. Quindi avendo spezzato il pane che teneva in mano, disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo, che sarà dato per voi. Non disse: prendete e mangiate questo pane; ma prendete e mangiate, questo è il mio Corpo; la sostanza che Io vi offro sotto queste specie, è il Corpo mio, non è più pane. Poiché il Verbo eterno, la stessa Verità, dice: Questo è il mio corpo, siamone convinti, dice s. Giovanni Grisostomo, crediamolo senza esitanza, riguardiamolo con gli occhi di una fede viva. Questo è il mio Corpo: tale è la virtù e la forza delle parole della consacrazione, di produrre, come causa efficiente, ciò che esse esprimono. Perché tali proposizioni si trovino vere, bisogna solamente che la cosa che esse indicano esista dopo che son pronunziate. Ciò che Gesù Cristo prese in mano, non era che pane; ma appena Egli ebbe pronunziate le parole: Questo è il mio corpo, tutta la sostanza del pane fu annichilata, ed in ciò che Gesù Cristo diede a mangiare ai suoi Apostoli non restò altra sostanza che il suo proprio Corpo, il quale indi a poche ore doveva esser dato in mano ai suoi nemici, saziato d’obbrobri, flagellato e crocifisso. Non vi restavan del pane che le sole apparenze, cioè il colore, la figura, il peso, il sapore, che si dicono comunemente specie. Nel Nuovo Testamento non abbiamo nulla di più formale, di più preciso, di meglio indicato che questa realtà del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo nell’adorabile Eucaristia. Ogni volta che si parla di questo divino mistero, o nel sesto capitolo di s. Giovanni, o in tutti gli altri Evangelisti, od in s. Paolo, sempre vi si parla di una presenza e di un mangiare realmente e corporalmente il Corpo ed il Sangue di Gesù Cristo. Il senso delle figure non vi entra affatto, anzi n’è escluso positivamente, poiché il Corpo che Gesù Cristo dette a mangiare a’ suoi Apostoli era il medesimo, secondo la sua parola, di quello che abbandonava alle ignominie della sua passione ed alla croce per riscattarci. Questo è il mio Corpo, che sarà dato per voi. Ora senz’essere Manicheo, nessuno ardirebbe dire che il Corpo del Figliuolo di Dio non sia stato dato alla morte che in figura. Dal tempo degli Apostoli fino ai nostri giorni, tutta la Chiesa ha sempre creduto che il Corpo di Gesù Cristo sia realmente e veramente offerto in Sacrifizio, distribuito ai fedeli nella Comunione, e realmente presente nell’Eucaristia; e noi non potremmo parlare della presenza reale di Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento in modo più chiaro, più formale, più preciso di quel che hanno fatto i Padri dei primi secoli. – Voi mi direte forse, dice s. Ambrogio, che questo pane che vi si dà a mangiare nella Comunione è pane usuale ed ordinario. È vero che prima delle parole sacramentali questo pane fosse pane; ma dopo la Consacrazione, in luogo del pane si trova il Corpo di Gesù Cristo. Ecco che deve essere indubitabile per noi. Ma come si può fare, continua il medesimo Padre, che ciò che è pane sia il Corpo di Gesù Cristo? E risponde: Per la Consacrazione, la quale non contiene, se non che le proprie parole di Gesù Cristo; poiché, prosegue egli, in tutto ciò che precede la Consacrazione, il Sacerdote parla in suo nome, quando loda e benedice il Signore, ovvero prega per il re e per il popolo; ma quando arriva alla Consacrazione, il Sacerdote non parla più in suo nome, ma è Gesù Cristo medesimo che parla per la bocca del Sacerdote. È dunque, a dir propriamente, è la parola di Gesù Cristo medesimo che opera questo Sacramento; quella parola, io dico, che dal nulla ha create tutte le cose. Egli ha parlato, continua il medesimo Padre, e tutte le cose sono state fatte; ha comandato, ed ogni cosa è uscita dal nulla. Or, prima della Consacrazione, non vi era affatto il Corpo di Gesù Cristo, non eravi che pane ordinario: ma dopo la Consacrazione, io ve lo ripeto, non vi è più pane, ma è il Corpo di Gesù Cristo. Se S. Ambrogio avesse avuto a rispondere ai Protestanti dei nostri giorni, avrebbe egli potuto parlare in modo più preciso e più chiaro? – S. Cirillo, patriarca di Gerusalemme, che viveva nel IV secolo, spiegando al suo popolo le principali verità della Religione, gli diceva: La dottrina di S. Paolo sul divino mistero dell’Eucaristia deve più che bastare a stabilir la vostra credenza circa un sì augusto Sacramento. Questo grande Apostolo ci diceva nella lezione che avete udita, come la notte istessa che questo divin Salvatore doveva esser tradito, prese del pane, e rese le grazie, lo spezzò e disse: Prendete e mangiate; questo è il mio Corpo. E parimente prendendo il calice, disse: Bevete, questo è il mio Sangue. Dopo dunque che Gesù Cristo ha detto del pane che aveva preso: Questo è il mio Corpo, chi è che oserà di avere il minimo dubbio? E poiché il medesimo Gesù Cristo ha detto così affermativamente: Questo è il mio Sangue, chi potrà mai dubitare di questa verità, e dire che non sia realmente il suo Sangue? E come! dice egli, Colui che ha cangiato l’acqua in vino alle nozze di Cana, non meriterà che crediamo che Egli cangi il vino nel suo prezioso Sangue? Sotto le specie del pane e del vino, continua il medesimo Padre, il Salvatore ci dà il suo Corpo ed il suo Sangue; in guisa che noi portiamo veramente Gesù Cristo nel nostro corpo, quando riceviamo il suo: Sic enim efficimur Christiferi, cum corpus ejus et sanguinem in membra nostra recipimus. I pani della proposizione dell’antico Testamento sono aboliti: noi non abbiamo nel Nuovo che questo pane celeste e questo calice di salute, i quali santificano l’anima e il corpo. E perciò, conclude egli, guardatevi bene dall’immaginarvi che ciò che vedete non sia che pane e vino: è realmente il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo: bisogna che la fede corregga l’idea che ve ne danno i sensi. Guardatevi bene dal giudicarne con gli occhi o dal sapore, ma la fede vi renda certa e indubitabile questa verità, essere il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo che voi ricevete. Queste sono le parole di S. Cirillo. Ecco quale è stata la fede dei primi fedeli sull’Eucaristia. Si è sempre creduto nella Chiesa, dal primo giorno della sua nascita fino a noi, che la sostanza del pane e del vino si cangi nella sostanza del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo: ed è ciò che la Chiesa chiama transustanziazione, cioè cangiamento di sostanza; e per la virtù onnipotente delle parole di Gesù Cristo, che il Sacerdote pronunzia in nome del Salvatore, si opera questo portento. Se Dio poté cangiare la moglie di Lot in una statua di sale, la verga di Aronne in un serpente, e l’acqua in vino alle nozze di Cana, dicevano i Padri della Chiesa quando istruivano i novelli battezzati per la prima comunione, perché questo medesimo Dio non potrà cangiare il pane ed il vino nel suo sacro Corpo e nel suo prezioso Sangue nel Sacramento dell’Eucaristia? – Ogni volta che mangerete di questo pane, dice Gesù Cristo, e berrete di questo calice, annunzierete la morte del Signore, fino a tanto che Egli venga. Il Sacrifizio incruento di Gesù Cristo non differendo che nel modo dal Sacrifizio cruento del medesimo Salvatore, deve richiamare alla mente di quelli che vi partecipano, la memoria della morte di Gesù Cristo. Con queste parole: Fino a tanto che Egli venga, S. Paolo ci mostra che il Sacramento dell’Eucaristia durerà sino alla fine del mondo. Chiunque, pertanto, mangerà di questo pane o berrà di questo calice indegnamente, dice il S. Apostolo, sarà reo di delitto contro il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo. Questa espressione prova in modo convincente la presenza reale del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo. Qual orrore non dobbiamo avere del peccato che commettono coloro, i quali fanno Comunioni sacrileghe! Non è un Sacrifizio che essi offrono, dice s. Giovanni Grisostomo, è un omicidio che commettono; non è un nutrimento che prendono, è un veleno. Colui che mangia questo pane e beve di questo calice indegnamente, mangia e beve la sua condanna, per la colpa di non discernere il Corpo del Signore; cioè egli ha in se stesso la prova visibile del suo peccato; e il suo processo, per così dire, è bell’e fatto. Questo divin Salvatore è il suo Giudice, questo pane di vita è il decreto della sua morte. Sacrilegio, tradimento, nera ingratitudine, crudele ipocrisia, quanti delitti in una sola Comunione fatta indegnamente! E quali ne sono gli effetti? Spessissimo l’induramento e l’impenitenza finale.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Graduale

Ps CXLIV: 15-16
Oculi ómnium in te sperant, Dómine: et tu das illis escam in témpore opportúno.

[Gli occhi di tutti sperano in Te, o Signore: e Tu concedi loro il cibo a tempo opportuno.]

V. Aperis tu manum tuam: et imples omne animal benedictióne. Allelúia, allelúia.

[Apri la tua mano: e colma ogni essere vivente della tua benedizione]

Ioannes VI: 56-57
Caro mea vere est cibus, et sanguis meus vere est potus: qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in eo. Alleluia.

[La mia carne è veramente cibo, e il mio sangue è veramente bevanda: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui. Alleluia.]

Sequentia
Thomæ de Aquino.

Lauda, Sion, Salvatórem,
lauda ducem et pastórem
in hymnis et cánticis.

Quantum potes, tantum aude:
quia maior omni laude,
nec laudáre súfficis.

Laudis thema speciális,
panis vivus et vitális
hódie propónitur.

Quem in sacræ mensa cenæ
turbæ fratrum duodénæ
datum non ambígitur.

Sit laus plena, sit sonóra,
sit iucúnda, sit decóra
mentis iubilátio.

Dies enim sollémnis agitur,
in qua mensæ prima recólitur
huius institútio.

In hac mensa novi Regis,
novum Pascha novæ legis
Phase vetus términat.

Vetustátem nóvitas,
umbram fugat véritas,
noctem lux elíminat.

Quod in coena Christus gessit,
faciéndum hoc expréssit
in sui memóriam.

Docti sacris institútis,
panem, vinum in salútis
consecrámus hóstiam.

Dogma datur Christiánis,
quod in carnem transit panis
et vinum in sánguinem.

Quod non capis, quod non vides,
animosa fírmat fides,
præter rerum órdinem.

Sub divérsis speciébus,
signis tantum, et non rebus,
latent res exímiæ.

Caro cibus, sanguis potus:
manet tamen Christus totus
sub utráque spécie.

A suménte non concísus,
non confráctus, non divísus:
ínteger accípitur.

Sumit unus, sumunt mille:
quantum isti, tantum ille:
nec sumptus consúmitur.

Sumunt boni, sumunt mali
sorte tamen inæquáli,
vitæ vel intéritus.

Mors est malis, vita bonis:
vide, paris sumptiónis
quam sit dispar éxitus.

Fracto demum sacraménto,
ne vacílles, sed meménto,
tantum esse sub fragménto,
quantum toto tégitur.

Nulla rei fit scissúra:
signi tantum fit fractúra:
qua nec status nec statúra
signáti minúitur.

Ecce panis Angelórum,
factus cibus viatórum:
vere panis filiórum,
non mitténdus cánibus.

In figúris præsignátur,
cum Isaac immolátur:
agnus paschæ deputátur:
datur manna pátribus.

Bone pastor, panis vere,
Iesu, nostri miserére:
tu nos pasce, nos tuére:
tu nos bona fac vidére
in terra vivéntium.

Tu, qui cuncta scis et vales:
qui nos pascis hic mortáles:
tuos ibi commensáles,
coherédes et sodáles
fac sanctórum cívium.
Amen. Allelúia.

[Loda, o Sion, il Salvatore, loda il capo e il pastore,  con inni e càntici.
Quanto puoi, tanto inneggia:  ché è superiore a ogni lode,  né basta il lodarlo.
Il pane vivo e vitale  è il tema di lode speciale,  che oggi si propone.
Che nella mensa della sacra cena,  fu distribuito ai dodici fratelli,  è indubbio.
Sia lode piena, sia sonora,  sia giocondo e degno  il giúbilo della mente.
Poiché si celebra il giorno solenne,  in cui in primis fu istituito  questo banchetto.
In questa mensa del nuovo Re,  la nuova Pasqua della nuova legge  estingue l’antica.
Il nuovo rito allontana l’antico,  la verità l’ombra,  la luce elimina la notte.
Ciò che Cristo fece nella cena,  ordinò che venisse fatto  in memoria di sé.
Istruiti dalle sacre leggi,  consacriamo nell’ostia di salvezza  il pane e il vino.
Ai Cristiani è dato il dogma:  che il pane si muta in carne,  e il vino in sangue.
Ciò che non capisci, ciò che non vedi,  lo afferma pronta la fede,  oltre l’ordine naturale.
Sotto specie diverse,  che son solo segni e non sostanze,  si celano realtà sublimi.
La carne è cibo, il sangue bevanda,  ma Cristo è intero  sotto l’una e l’altra specie.
Da chi lo assume, non viene tagliato,  spezzato, diviso:  ma preso integralmente.
Lo assuma uno, lo assumino in mille:  quanto riceve l’uno tanto gli altri:  né una volta ricevuto viene consumato.
Lo assumono i buoni e i cattivi:  ma con diversa sorte  di vita e di morte.
Pei cattivi è morte, pei buoni vita:  oh che diverso esito  ha una stessa assunzione.
Spezzato poi il Sacramento,  non temere, ma ricorda  che tanto è nel frammento  quanto nel tutto.
Non v’è alcuna separazione:  solo un’apparente frattura,  né vengono diminuiti stato  e grandezza del simboleggiato.
Ecco il pane degli Angeli,  fatto cibo dei viandanti:  in vero il pane dei figli non è da gettare ai cani.
Prefigurato con l’immolazione di Isacco, col sacrificio dell’Agnello Pasquale, e con la manna donata ai padri.
Buon pastore, pane vero,  o Gesú, abbi pietà di noi:  Tu ci pasci, ci difendi:  fai a noi vedere il bene  nella terra dei viventi.
Tu che tutto sai e tutto puoi:  che ci pasci, qui, mortali:  fa che siamo tuoi commensali,  coeredi e compagni dei Santi del cielo.  Amen. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangéli secúndum S. Ioánnem.
Ioann VI: 56-59
In illo témpore: Dixit Iesus turbis Iudæórum: Caro mea vere est cibus et sanguis meus vere est potus. Qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in illo. Sicut misit me vivens Pater, et ego vivo propter Patrem: et qui mandúcat me, et ipse vivet propter me. Hic est panis, qui de coelo descéndit. Non sicut manducavérunt patres vestri manna, et mórtui sunt. Qui manducat hunc panem, vivet in ætérnum.

[Gesù disse un giorno alle turbe della Giudea: « La mia carne è veramente cibo, e il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, resta .in me, e Io in lui. Come il Padre vivente ha mandato me, e io vivo per il Padre; così chi mangerà da me, vivrà per me. Questo è il pane che discese dal cielo. Non come i vostri padri, che mangiarono la manna e morirono: chi mangia di questo pane, vivrà in eterno » (Giov. VI, 56-59). ]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

FESTA DEL «CORPUS DOMINI»

LA SANTA MESSA

A Cafarnao Gesù promise con parole nitide e ferme che avrebbe istituito l’Eucaristia: « Io sono il Pane Vivo disceso dal cielo. La mia carne è veramente cibo ed il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui. E vivrà in eterno ». È questo un tale prodigio d’Amore, che molti quando per la prima volta lo sentirono annunziare, non ci poterono credere e se ne andarono via da Gesù. Gesù piuttosto che raccorciare sulla nostra misura il suo Amore immenso, li lasciò andare. Quello che aveva promesso, mantenne fedelmente quella sera in cui sarebbe stato tradito. Consacrò il pane e il vino e li distribuì dicendo: « Prendete e mangiate: questo è il mio Corpo. Prendete e bevete: questo è il calice del mio Sangue che sarà sparso per voi e per molti in remissione dei peccati ». Da quella sera gli uomini ebbero sulla terra una partecipazione del convito del Paradiso. Grande veramente è il banchetto Eucaristico: in esso si riceve Gesù Cristo medesimo, il quale si unisce a noi, infonde nel nostro cuore e nella nostra volontà il suo amore e il suo volere, e poi insieme a noi si offre al Padre, glorifica la SS. Trinità, e ci rende così degni della vita eterna e divina. Troppo grande mistero, troppo bello, perché la nostra piccola mente possa arrivare a capirlo! Rinnoviamo la fede. – Noi fermamente crediamo, garantiti come siamo dalla infallibile parola del Figlio di Dio: « Questo è il mio Corpo: prendete e bevete. Fate questo in memoria di me ». Quando il Sacerdote nella santa Messa ripete queste parole consacratorie, il medesimo Gesù che troneggia glorificato nel Cielo, si fa presente sull’altare. Com’è possibile ciò? Ci sono dunque due Gesù, uno in Vielo e uno sull’altare? Ci sono tanti innumerevoli Gesù quanti sono i tabernacoli, quante sono le particole consacrate? No: non c’è che un solo Gesù, Il Salvatore non può essere moltiplicato: è soltanto la presenza che viene moltiplicata. Senza dubbio è un grande mistero. Tenterò con un paragone di farci intorno un poco di luce. Ecco, io in mezzo alla Chiesa lancio una parola sola, questa: « Gesù! ». Che parola avete sentito voi? Tutti, la stessa identica parola. Eppure voi siete molti, e ciascuno di voi l’ha sentita intera per conto suo, nella sua anima, come se fosse stato qui solo nella chiesa. Dunque la medesima e unica parola è diventata presente in ciascuno di voi. In un modo simile, ma assai più concreto, il medesimo identico Gesù è presente interamente e realmente in ciascuna ostia. Dopo aver rinnovata la fede, dopo aver accennata alla più elementare difficoltà, svolgerò il mistero eucaristico nel suo aspetto più essenziale, quello della santa Messa. – 1. IL GRANDE SACRIFICIO DELLA S. MESSA. Il Sacramento dell’Eucaristia s’incentra tutto nella Messa: è in essa che si genera Gesù Eucaristico e che viene immolato per la remissione dei nostri peccati, è solo per essa che vien distribuito in nutrimento delle anime; è per un prolungamento di essa che resta aspettando giorno e notte ed accogliendo quanti hanno bisogno e desiderio di Lui. È il medesimo sacrificio del Calvario che durante la S. Messa si rende presente e attuale sull’altare, benché senza più dolore né spargimento di sangue, con la S. Messa veramente il Nome di Dio può essere santificato sulla terra come lo è in Cielo. Il Cielo è l’infinita, luminosa basilica dove l’unico Sacerdote, Gesù Cristo, rende continuamente alla SS. Trinità tutta la gloria che già le donò con la sua sanguinosa immolazione sul Calvario: « Osservate — avverte Bossuet — come Egli si avvicini al Padre, e gli presenti le piaghe irrimarginabili, ancor vermiglie di quel divino Sangue della Nuova Alleanza, versato nel doloroso Venerdì quando morì per la redenzione delle anime » (Sermone sull’Ascensione). La terra a sua volta è la vasta cripta dove il Papa, i Vescovi, e all’incirca 400 mila preti celebrano quotidianamente la S. Messa, cioè prestano il loro ministero affinché l’unico Sacerdote Gesù Cristo, anche quaggiù possa rioffrire a Dio il suo Corpo e il suo Sangue, che per la prima volta gli offrì tra gli spasimi della croce. Dunque quel medesimo Gesù che S. Giovanni vide come un Agnello immolato sull’altare sublime del Cielo, lo possediamo anche noi come Agnello immolato sugli altari di questa terra. In Paradiso gli Angeli e i Santi non restano inattivi attorno al grande Sacerdote, ma a Lui s’uniscono, si offrono con Lui. Così deve avvenire sulla terra: « Quando assistiamo al divin Sacrificio — dice S. Gregorio Magno — è necessario che sacrifichiamo anche noi stessi con la contrizione del cuore… La Vittima divina non ci gioverà presso Dio se non ci facciamo anche noi vittime congiunte ad essa » (Dial., LIV). Dunque, assistendo alla S. Messa dobbiamo metterci sulla patena d’oro, piccole ostie accanto alla grande Ostia, offrirci a Dio senza riserve. La S. Messa diventa allora un dramma vissuto, e assistervi non significa far da spettatore più o meno commosso, ma prendervi una parte tutt’altro che indifferente: unirci a Gesù, consacrificarci con Lui. Che vuol dire questo? Innanzi tutto, vuol dire accettazione amorosa di tutte le pene e di tutte le contrarietà inevitabili della nostra vita. Poi vuol dire rinuncia a tutti quei piaceri, quelle abitudini che possano essere desiderati dalla nostra natura corrotta, ma che la legge di Dio proibisce. Senza questo duplice sacrificio non si potrà mai partecipare veramente alla santa Messa. Se ci sono poi anime generose che desiderano consacrificarsi più pienamente, dirò che ogni giorno sono innumerevoli le occasioni per prepararci a sentire sempre meglio la S. Messa; lo stesso alzarci di buon mattino è sacrificare la nostra pigrizia; adempiere coscienziosamente il nostro dovere è sacrificare la negligenza, a tavola si può sacrificare la nostra golosità; in compagnia si può sacrificare il desiderio di dire o di ascoltare cose inutili, o peggio; con l’elemosina si può sacrificare la nostra avarizia. Il Card. Mercier diceva: « Che cos’è un Cristiano? Cristiano è uno che va a Messa ». Quando la Messa è vissuta come abbiamo spiegato, la definizione è perfetta. – 2. COME VI PARTECIPANO GLI UOMINI. Tutti i fedeli sono invitati al gran banchetto eucaristico della santa Messa, ed invitati tutti i giorni. Non squillano per questo ogni alba le campane, voci di Dio che chiama alla sua grande cena? Tutti i fedeli sono poi obbligati sotto pena di peccato mortale a sentire la S. Messa ogni domenica e ogni festa di precetto. A questo proposito potremmo distinguere tre categorie di Cristiani.

a) Quelli che rifiutano. E sono molti, specialmente uomini, che non ascoltano più la Messa nemmeno nei giorni festivi. Moltissimi che la tralasciano saltuariamente, senza preoccuparsi del grave peccato che commettono. Se li avvisate vi capiterà di sentire qualcuna di queste risposte: « Sono all’officina tutta la settimana: ho solo la festa per lavorare il mio giardino, il mio campo… Non ho quindi tempo di venire in chiesa » oppure: « Non ho che la Domenica per riposarmi un po! Per riordinare le cose di casa; e non voglio sciuparla. Ed anche: «La Messa, che noia! Se poi c’è la predica, mi prendono le vertigini. Si aspetta solo la Domenica per potere andare in lieta compagnia a godere l’aria dei monti e dei laghi!…. La ragione profonda di questa condotta è unica: essi non sanno il male che si fanno e la gloria che negano a Dio; essi non capiscono più il Sacrificio della Croce né il Sacrificio dell’Altare che lo rinnova; essi non sono più Cristiani.

b) La seconda categoria è di quelli che a Messa tornano ancora, ma più per abitudine che per interiore convinzione. Vanno perché ci sono sempre andati fin da bambini: perché è quasi uno svago e possono incontrarsi con quella persona, o dare uno sguardo a quell’altra; perché non vogliono sentire i rimproveri dei buoni genitori o della buona moglie. Arrivano in ritardo ed escono prima della fine: preferiscono stare dietro le colonne e non vedono nulla di quello che avviene sull’altare; e di solito si fermano in fondo addossati alla porta. Non hanno corona, non hanno libro di preghiera; non aprono bocca. Rimangono là con un’aria tra disvagati ed annoiati, a cui soprattutto preme che il momento d’andarsene arrivi presto. – La loro condotta morale in famiglia, in ufficio o in officina non è migliore di chi non ha l’usanza della Messa; ed è spesso per colpa loro che capita d’udire: « Chi va in Chiesa è peggiore degli altri ».

c) V’è però la categoria dei buoni Cristiani, per i quali la Messa domenicale è un sacrosanto dovere ed un soave conforto. Tra questi s’incontrano belle anime capaci di considerevoli sacrifici, pur di soddisfare al precetto festivo. Di essi molti hanno imparato anche a capire e a seguire liturgicamente il divin Sacrificio. Sanno che tutti i Cristiani formano un Corpo mistico di cui Cristo è il centro vitale. Sanno pure che le anime in stato di grazia vivono della vita stessa di Cristo. Sanno di consacrarsi insieme a Lui per la gloria del Padre. Leggono il messalino o qualche provvido libretto che riporta le orazioni della S. Messa, e gustano la profondità e la bellezza di quelle preghiere, e vivono il dramma divino che passa fra la terra e il Cielo. – S. Francesco Borgia aveva un divino istinto che lo guidava verso l’Eucaristia, e benché alcune volte non si sapeva dove fossero conservate le sacre specie, da quel divino istinto egli era condotto verso di esse infallibilmente (Brev. Ambr., 1 ott.). Cristiani, un dolce desiderio deve pur spingere anche noi verso l’Eucaristia, specialmente verso la Messa. Ogni Messa è un tesoro di gloria per Dio, di grazia per noi: perché non siam presi dalla divina avarizia di accumulare queste ricchezze, che neppure la morte ci potrà rapire? Perché, se lo possiamo, non ascoltare la Messa ogni giorno? – Ebbene, quanti la salute cagionevole e le preoccupazioni tengono via dalla Messa quotidiana [e l’impossibilità attuale di poter partecipare ad una vera Messa cattolica celebrata da un Sacerdote con missione canonica ricevuta da un vero Vescovo con Giurisdizione efficace “una cum” il Santo Padre impedito – ndr. ], rivolgano pur da lontano i loro pensieri a Gesù che in quel momento, s’immola. Il Signore gradirà la loro spirituale offerta d’amore.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Levit. XXI: 6
Sacerdótes Dómini incénsum et panes ófferunt Deo: et ideo sancti erunt Deo suo, et non pólluent nomen eius, allelúia.

[I sacerdoti del Signore offrono incenso e pane a Dio: perciò saranno santi per il loro Dio e non profaneranno il suo nome, allelúia.]

Secreta

Ecclésiæ tuæ, quǽsumus, Dómine, unitátis et pacis propítius dona concéde: quæ sub oblátis munéribus mýstice designántur.

[O Signore, Te ne preghiamo, concedi propizio alla tua Chiesa i doni dell’unità e della pace, che misticamente son figurati dalle oblazioni presentate.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Nativitate Domini

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Quia per incarnáti Verbi mystérium nova mentis nostræ óculis lux tuæ claritátis infúlsit: ut, dum visibíliter Deum cognóscimus, per hunc in invisibílium amorem rapiámur. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia cæléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes.

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Poiché mediante il mistero del Verbo incarnato rifulse alla nostra mente un nuovo raggio del tuo splendore, cosí che mentre visibilmente conosciamo Dio, per esso veniamo rapiti all’amore delle cose invisibili. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

1 Cor XI: 26-27
Quotiescúmque manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat: itaque quicúmque manducáverit panem vel bíberit calicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini, allelúia.

[Tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore, finché verrà: ma chiunque avrà mangiato il pane e bevuto il sangue indegnamente sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.
Fac nos, quǽsumus, Dómine, divinitátis tuæ sempitérna fruitióne repléri: quam pretiósi Corporis et Sanguinis tui temporalis percéptio præfigúrat:

[O Signore, Te ne preghiamo, fa che possiamo godere del possesso eterno della tua divinità: prefigurato dal tuo prezioso Corpo e Sangue che ora riceviamo].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

TUTTI IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (25): Concilio di Trento Sess. XIX-XXIII.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (25)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(Concilio di Trento: Sessione XIV- XXIII)

Dottrina sul sacramento dell’Estrema Unzione.

Preambolo

1694. Al santo Concilio è sembrato bene aggiungere alla precedente dottrina sulla Penitenza quella che segue sul Sacramento dell’Estrema Unzione, che i Padri considerano come la consumazione non solo del Sacramento della penitenza, ma anche di tutta la vita cristiana, che deve essere una penitenza perpetua. Per questo motivo, ecco cosa dichiara e insegna sulla sua istituzione. Il nostro misericordioso Redentore ha voluto che i suoi servi fossero sempre provvisti di rimedi salutari contro gli attacchi di tutti i nemici. Come negli altri Sacramenti ha preparato per i Cristiani il più grande aiuto per mantenersi liberi da ogni grave danno spirituale finché vivano, così con il Sacramento dell’Estrema Unzione ha rafforzato la fine della loro vita con una protezione molto solida (cf. 1716). Infatti, sebbene il nostro avversario cerchi e colga le occasioni durante tutta la nostra vita per divorare le nostre anime con tutti i mezzi possibili (1Pt V,8), non c’è momento in cui tenda con maggiore violenza tutti i fili della sua astuzia per perderci completamente e, se potesse, anche per allontanarci dalla fiducia nella misericordia divina, che quando vede che si avvicina per noi la fine della vita.

Capitolo 1. L’istituzione del Sacramento dell’Estrema Unzione

1695. Questa santa Unzione degli infermi fu istituita da Cristo nostro Signore come vero e proprio Sacramento della Nuova Alleanza; questo Sacramento fu indicato in Marco (Mc VI, 13), raccomandato e promulgato da Giacomo, apostolo e fratello del Signore (cf. 1716). Egli disse: “Se qualcuno di voi è malato, chiami i presbiteri della Chiesa e questi preghino su di lui dopo averlo unto con olio nel Nome del Signore. La preghiera della fede salverà il malato e il Signore lo solleverà; e se è peccatore, gli saranno rimessi i peccati” (Giacomo V:14-15). Con queste parole, come la Chiesa ha appreso, tramandate di mano in mano dalla tradizione apostolica, egli insegna quali siano la materia, la forma, il ministro adatto e l’effetto di questo Sacramento salutare. La Chiesa ha infatti compreso che la materia è l’olio benedetto dal Vescovo, perché l’Unzione rappresenta in modo molto appropriato la grazia dello Spirito Santo, con la quale l’anima del malato viene invisibilmente unta. E la forma è costituita da queste parole: “Per questa Unzione, ecc. “

Capitolo 2. L’effetto di questo Sacramento.

1696. La realtà e l’effetto di questo Sacramento sono spiegati da queste parole: “La preghiera della fede salverà il malato e il Signore lo solleverà; e se è in peccato, gli saranno rimessi i peccati” (Gc V,15) . La realtà è, infatti, la grazia dello Spirito Santo, la cui unzione purifica le colpe, se ancora da espiare, ed i postumi del peccato; lenisce e rafforza l’anima del malato (cf. 1717), ispirando grande fiducia nella misericordia divina. Alleggerito da questa grazia, l’ammalato, da un lato, sopporta più facilmente le difficoltà e le sofferenze della malattia e, dall’altro, resiste più facilmente alle tentazioni del diavolo che cerca di morderlo al tallone (Gn III, 15) talvolta, infine, ottiene la salute del corpo, quando questa è utile per la salvezza dell’anima.

Capitolo 3. Il ministro di questo sacramento e il momento in cui viene amministrato.

1697. Ciò che è prescritto riguardo a coloro che devono ricevere e amministrare questo slSacramento ci è stato trasmesso senza ambiguità anche nelle parole citate sopra. Lì ci viene mostrato che i ministri di questo Sacramento sono i presbiteri della Chiesa (cf. 1719). Con questo nome non si intendono coloro che sono più anziani o più degni tra il popolo, ma i Vescovi o i Sacerdoti regolarmente ordinati da loro con “l’imposizione delle mani del presbiterio” (1Tm IV,14) – (cf. 1719).

1698. Si dice anche che questa unzione debba essere impartita agli ammalati, specialmente a quelli che sono in così grave pericolo da sembrare giunti alla fine della loro vita; per questo è anche chiamata Sacramento dei moribondi. Se i malati recuperano la salute dopo questa Unzione, possono essere nuovamente aiutati e sostenuti da questo Sacramento, nel caso in cui la loro vita si trovi nuovamente in un pericolo simile.

1699. Perciò, per nessun motivo dobbiamo ascoltare coloro che insegnano, contrariamente alla dichiarazione molto chiara ed evidente dell’apostolo Giacomo, (Giacomo V:14 ss.), che questa Unzione sia un’invenzione umana o un rito ricevuto dai Padri, non basato né su un comandamento di Dio né su una promessa di grazia (cf. 1716); né chi afferma che questa Unzione sia ormai finita, come se si riferisse solo alla grazia delle guarigioni nella Chiesa primitiva; né quelli che affermano che il rito e la consuetudine osservati dalla santa Chiesa romana nell’amministrazione di questo Sacramento siano il contrario di ciò che dice l’Apostolo Giacomo e debbano essere cambiati; né, infine, quelli che affermano che i fedeli possano senza peccato disprezzare questa Estrema Unzione (cf. 1718). In realtà, tutte queste proposizioni vanno molto chiaramente contro le chiare parole di un così grande Apostolo. La Chiesa romana, madre e maestra di tutte le altre, nell’amministrare questa Unzione, non fa certamente nulla di diverso da quanto prescritto da san Giacomo, per quanto riguarda la sostanza del Sacramento. Non si potrebbe disprezzare un così grande Sacramento senza commettere un grande crimine e senza insultare lo stesso Spirito Santo.

1700. Questo è dunque ciò che questo santo Concilio ecumenico professa e insegna sui Sacramenti della Penitenza e dell’Estrema Unzione, e ciò che propone a tutti i Cristiani di credere e mantenere. Dà i seguenti Canoni perché siano inviolabilmente osservati; condanna e anatematizza per sempre coloro che affermino il contrario.

Canoni sulle due dottrine.

Canoni sul Santissimo Sacramento della Penitenza.

1701. 1. Se qualcuno dice che nella Chiesa cattolica la penitenza non sia veramente e propriamente un Sacramento istituito da Cristo nostro Signore per riconciliare con Dio i fedeli ogni volta che cadano in peccato dopo il Battesimo, sia anatema (cf. 1668-1670).

1702. (2) Se qualcuno, confondendo i Sacramenti, dice che il Battesimo stesso sia il Sacramento della Penitenza, come se questi due Sacramenti non fossero distinti, e che quindi non sia giusto chiamare la Penitenza “seconda tavola di salvezza”: sia anatema (cf. 1542; 1671).

1703. 3. Se qualcuno dice che queste parole del Signore e Salvatore: “Ricevi lo Spirito Santo: A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; e a chi li conserverete, saranno conservati” (Gv XX, 22-23), non si devebba intendere il potere di rimettere e trattenere i peccati nel Sacramento della Penitenza, come la Chiesa cattolica ha sempre inteso fin dall’inizio, e, opponendosi all’istituzione di questo Sacramento, ne trasforma il significato in potere di predicare il Vangelo: sia anatema (cf. 1670).

1704. 4. Se qualcuno nega che, per una piena e perfetta remissione dei peccati, siano richiesti al penitente tre atti come materia per il Sacramento della penitenza, cioè la Contrizione, la Confessione e la Soddisfazione, che sono dette le tre parti della Penitenza; o se dice che ci siano solo due parti della Penitenza: I terrori che colpiscono la coscienza nel riconoscere il proprio peccato e la fede nata dal Vangelo o l’assoluzione con la quale si credono rimessi i propri peccati da Cristo: sia anatema (cf. 1673; 1675).

1705. Se qualcuno dice che la Contrizione preparata dall’esame, dal ricordo e dalla detestazione dei peccati, e con la quale uno pensa ai suoi anni nell’amarezza del suo cuore (Is 38,15), soppesando la gravità, l’abbondanza e la bruttezza dei suoi peccati, e la perdita della felicità eterna e la dannazione eterna in cui sono incorsi, con il fermo proposito di una vita migliore; che questa Contrizione non sia un vero ed utile dolore e non prepari alla grazia, ma che renda l’uomo ipocrita e più peccatore; che, infine, è un dolore forzato e non libero e volontario: sia anatema! (cf. 1456; 1676).

1706. 6 Se qualcuno nega che la Confessione sacramentale sia stata istituita o sia necessaria per la salvezza per diritto divino; o se dice che la confessione segreta al solo Sacerdote – che la Chiesa cattolica ha sempre osservato ed osserva fin dall’inizio – sia contraria all’istituzione e al comandamento di Cristo e che siacun’istituzione umana: sia anatema (cf. 1679- 1684).

1707. 7. Se qualcuno dice che nel Sacramento della Penitenza, per la remissione dei peccati, non sia necessario, per diritto divino, che si confessino tutti e ciascuno dei peccati mortali di cui ci si ricordi dopo una debita e seria riflessione, anche i peccati nascosti e quelli che sono contro gli ultimi due comandamenti del Decalogo, né le circostanze che cambiano il tipo di peccato, ma che questa Confessione serva solo ad istruire e consolare il penitente, e che in passato servisse solo per imporre una soddisfazione canonica; o se dice che chi si sforza di confessare tutti i suoi peccati non voglia lasciare nulla al perdono della misericordia divina; o che, infine, non sia permesso confessare i peccati veniali: sia anatema! (cf. 1679-1684).

1708. (8) Se qualcuno dice che la confessione di tutti i peccati, come osservata dalla Chiesa, sia impossibile e sia una tradizione umana che le anime pie devono abolire; o che ogni Cristiano di entrambi i sessi non sia obbligato a confessarsi una volta all’anno, secondo la costituzione del Grande Concilio Lateranense, e che, per questo motivo, i Cristiani debbano essere persuasi a non confessarsi nel periodo della Quaresima: sia anatema! (cf. 1682s.).

1709. 9. Se qualcuno dice che l’assoluzione sacramentale del Sacerdote non sia un atto giudiziario, ma un semplice ministero che pronuncia e dichiara che i peccati sono rimessi a chi li confessa, a condizione che egli creda di essere assolto, o se il Sacerdote non lo assolve seriamente, ma per scherzo; o se dice che non sia necessaria la Confessione del penitente perché il Sacerdote lo assolva: sia anatema! ( cf. 1462; 1685).

1710. 10. Se qualcuno dice che i Sacerdoti in stato di peccato mortale non abbiano il potere di legare e sciogliere, o che i Sacerdoti non siano gli unici ad essere ministri dell’assoluzione, ma che sia a tutti e a ciascuno dei Cristiani che è stato detto: “Tutto ciò che legherete sulla terra sarà legato in cielo” (Mt XVIII,18) e : “A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; a chi li riterrete, saranno ritenuti” (Gv 20,23); che in virtù di queste parole chiunque p0ssa assolvere i peccati, quelli pubblici almeno con la correzione, con il consenso di colui che viene corretto, quelli segreti con la confessione spontanea: sia anatema (cf. 1684).

1711. 11. Se qualcuno dice che i Vescovi non abbiano il diritto di riservare le cause, se non per ciò che riguardi la disciplina esterna e che, di conseguenza, la riserva delle cause non impedisca ad un Sacerdote di assolvere veramente le cause riservate: sia anatema (cf. 1687).

1712. 12. Se qualcuno dice che ogni pena sia sempre rimessa da Dio contemporaneamente alla colpa, e che la Soddisfazione dei penitenti non sia altro che la fede con cui essi colgono che Cristo abbia soddisfatto per loro, sia anatema (cf. 1689).

1713. 13. Se qualcuno dice che, per quanto riguarda le pene temporali, Dio non sia in alcun modo soddisfatto per i peccati dai meriti di Cristo né per mezzo di pene inflitte da Dio e sopportate con pazienza, né per mezzo di quelle imposte dal Sacerdote, di preghiere, di elemosine o di altre opere di pietà, e che, di conseguenza, la migliore penitenza sia solo una nuova vita: sia anatema (cf. 169O-1692).

1774. 14. Se qualcuno dice che le soddisfazioni, con cui i penitenti riscattano i loro peccati per mezzo di Gesù Cristo, non siano un culto reso a Dio, ma tradizioni umane che oscurano la dottrina della grazia, il vero culto reso a Dio e il beneficio stesso della morte di Cristo: sia anatema (cf. 1692).

1715. 15. Se qualcuno dice che il potere delle chiavi sia stato dato alla Chiesa solo per sciogliere e non anche per legare, e che per questo motivo i Sacerdoti, imponendo pene a coloro che si confessano, agiscano contrariamente a questo potere e all’istituzione di Cristo; e che sia un’invenzione pensare che, una volta tolta la pena eterna con il potere delle chiavi, rimanga il più delle volte una pena temporale da espiare: sia anatema (cf. 1692).

Canoni sul sacramento dell’estrema unzione.

1716. (1) Se qualcuno dice che l’Estrema Unzione non sia veramente e propriamente un Sacramento istituito da Cristo nostro Signore, (Mc VI,13), e promulgato dall’Apostolo san Giacomo, (Gc 5,14-15), ma solo un rito ricevuto dai Padri o un’invenzione umana, sia anatema! (cf. 1695; 1699).

1717. 2 Se qualcuno dice che la santa Unzione degli infermi non conferisca la grazia, non rimetta i peccati, non allevia i malati, ma che non esiste più, come se un tempo fosse stata solo una grazia di guarigione, sia anatema (cf. 1696; 1699).

1718. 3 Se qualcuno dice che il rito e l’uso dell’Estrema Unzione, osservati dalla santa Chiesa romana, siano contrari alle parole del santo Apostolo Giacomo, e che quindi debbano essere cambiati, affinché possano essere disprezzati senza peccato dai Cristiani, sia anatema (cf. 1699).

1719. 4. Se qualcuno dice che i presbiteri della Chiesa, a cui san Giacomo raccomanda di portare l’unzione ad un malato, non siano Sacerdoti ordinati dal Vescovo, ma i più anziani di ogni comunità, e che per questo il ministro dell’Estrema Unzione non siav solo il Sacerdote, sia anatema (cf. 1697).

MARCELLO II: 9 aprile – 1 maggio 1555.

PAOLO IV: 23 maggio 1555 – 18 agosto 1559

Continuazione e fine del Concilio di Trento sotto Pio IV.

PIO IV : 25 dicembre 1559-9 dicembre 1565.

Sessione XXI.

Preambolo.

1725. Il Santo Concilio Ecumenico e Generale di Trento… ha ritenuto che, essendosi diffusi in vari luoghi, attraverso gli artifici del demonio i più perversi, vari mostruosi errori riguardanti il temuto e santissimo sSacramento dell’Eucaristia, errori che sembrano aver allontanato molti dalla fede e dall’obbedienza della Chiesa Cattolica in alcune province, fosse necessario stabilire qui ciò che riguardi la Comunione sotto le due specie e la Comunione dei bambini. Per questo motivo, a tutti i Cristiani è proibito osare in futuro credere, insegnare o predicare qualcosa su questo argomento che non sia quanto affermato in questo documento, spiegato e definito dai seguenti decreti.

Capitolo 1. I laici e i chierici che non celebrano non sono tenuti per diritto divino alla comunione sotto entrambe le specie.

1726. Perciò questo stesso santo Concilio, istruito dallo Spirito Santo, che è “Spirito di sapienza e di intelligenza, Spirito di consiglio e di pietà” (Is XI,2), e secondo il giudizio e la consuetudine della Chiesa stessa, dichiara e insegna che nessun Comandamento divino obblighi i laici ed i chierici che non celebrano a ricevere il Sacramento dell’Eucaristia sotto le due specie; e che non si possa in alcun modo dubitare, senza ledere la fede, che la Comunione ad una delle due specie sia sufficiente per la loro salvezza.

1727. Infatti, senza dubbio, il Signore Cristo, nell’ultima cena, istituì e donò agli Apostoli questo venerabile Sacramento sotto le specie del pane e del vino (Mt XXVI,26-29 Mc XIV,22-25 Lc XXII,19 1Co XI,24). Tuttavia questa istituzione e questo dono non hanno per oggetto di obbligare tutti i Cristiani, per decreto del Signore, a ricevere le due specie (cf. 1731; 1732). E non concludiamo giustamente dalle parole che si trovano nel capitolo VI di Giovanni che la Comunione alle due specie sia stata comandata dal Signore (cf. 1733), per quanto le intendiamo seguendo le varie interpretazioni dei Santi e dei Dottori. Infatti, Colui che disse: “Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita” (Gv VI,53) , disse anche: “Se uno mangia questo pane, vivrà in eterno” (Gv VI,58). E Colui che disse: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (Gv VI,54) e disse anche: “Il pane che vi darò è la mia carne per la vita eterna” (Gv VI,51). Infine, Colui che ha detto: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e Io in lui”, (Gv VI, 56), ha anche detto: “Chi mangia questo pane vivrà in eterno”, (Gv VI,58).

Capitolo 2. Il potere della Chiesa nell’amministrazione del Sacramento dell’Eucaristia.

1728. Il Concilio dichiara inoltre che nell’amministrazione dei Sacramenti la Chiesa ha sempre avuto il potere di decidere o di modificare, mantenendo intatta la sostanza di questi Sacramenti, ciò che avrebbe ritenuto più opportuno per l’utilità di coloro che li ricevono e per il rispetto dei Sacramenti stessi, secondo la diversità delle cose, dei tempi e dei luoghi. Ciò che l’Apostolo sembra indicare abbastanza chiaramente dicendo: “Siamo considerati ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio” (1Co IV,1). Ed è abbastanza chiaro che Egli stesso usasse questo potere per molte altre cose oltre che per questo stesso Sacramento, quando disse, dopo aver dato alcuni ordini riguardo al suo uso: “Il resto lo regolerò quando verrò” (1Co 11,34). Pertanto, sebbene all’inizio della Religione cristiana l’uso delle due specie non fosse infrequente, essendo questa usanza cambiata molto generalmente con il passare del tempo, la nostra santa Madre Chiesa, sapendo quale sia la sua autorità nell’amministrazione dei Sacramenti, è stata indotta da gravi e giuste cause ad approvare questa usanza di ricevere la Comunione sotto una delle due specie e a decretare che sarebbe stata una legge che non è permesso biasimare o cambiare a piacimento senza l’autorità della Chiesa stessa (cf. 1732).

Capitolo 3 Sotto ciascuna specie Cristo è ricevuto totalmente ed interamente.

1729. Dichiara inoltre che, sebbene il nostro Redentore, come si è detto sopra, nell’ultima cena abbia istituito e dato agli Apostoli questo Sacramento sotto entrambe le specie, tuttavia si deve riconoscere che anche sotto una sola delle due specie si riceva Cristo in modo completo ed integrale, così come il Sacramento in tutta verità, e che di conseguenza, per quanto riguarda il frutto del Sacramento, coloro che ricevono una sola specie non siano privi di alcuna grazia necessaria alla salvezza (cf. 1733).

Capitolo 4. I bambini non sono obbligati a ricevere la sacramentale Comunione.

1730. Infine, lo stesso santo Concilio insegna che nessuna necessità obblighi i bambini al di sotto dell’età della ragione a ricevere la Comunione sacramentale dell’Eucaristia (cf. 1734), poiché, rigenerati dal bagno del Battesimo (Tito 3,5) e incorporati a Cristo, a quell’età non possono perdere la grazia di figli di Dio che hanno ricevuto. E tuttavia non dobbiamo condannare il mondo antico per questo, anche se questa pratica era talvolta osservata in alcuni luoghi. Infatti, come questi santissimi Padri avevano un motivo lodevole per agire in conformità con i tempi, così dobbiamo certamente credere senza dubbio che agissero in questo modo senza alcuna necessità per la salvezza.

Canoni sulla comunione sotto le due specie e sulla comunione dei bambini.

1731. (1) Se qualcuno dice che per un comandamento di Dio, o per necessità di salvezza, tutti e tutti i Cristiani debbano ricevere le due specie del santissimo Sacramento dell’Eucaristia, sia anatema (cf. 1726 ss.).

1732. (2) Se qualcuno dice che la santa Chiesa Cattolica non sia stata condotta da giuste cause e ragioni al fine che i laici, così come i chierici che non celebrano, ricevano la Comunione sotto le sole specie del pane, o che essa abbia errato in questo, sia anatema (cf. 1728s.).

1733. 3 Se qualcuno nega che Cristo, fonte e autore di tutte le grazie, sia ricevuto in tutto e per tutto sotto le sole specie del pane, perché – come alcuni falsamente affermano – non è ricevuto sotto entrambe le specie secondo l’istituzione di Cristo stesso, sia anatema (cf. 1726s.).

1734. (4) Se qualcuno afferma che la Comunione eucaristica sia necessaria per i bambini prima che abbiano raggiunto l’età della ragione, sia anatema (cf. 1730).

Sessione XXII, 17 settembre 1562.

a) Dottrine e Canoni sul Sacrificio della Messa.

Preambolo.

1738. Affinché la fede e la dottrina antiche, assolute e in ogni modo perfette sul grande mistero dell’Eucaristia siano conservate nella santa Chiesa Cattolica e mantenute nella loro purezza, dopo aver respinto gli errori e le eresie, il santo Concilio ecumenico e generale di Trento… istruito dalla luce dello Spirito Santo, insegna, dichiara e decreta quanto segue, che deve essere predicato ai popoli fedeli, riguardo all’Eucaristia come vero e unico Sacrificio.

Capitolo 1. L’istituzione del sacrificio della Messa.

1739. Poiché la perfezione non era stata raggiunta con la prima Alleanza, secondo la testimonianza dell’Apostolo Paolo, a causa della debolezza del sacerdozio levitico, fu necessario, a Dio Padre delle misericordie, istituire il Sacrificio della Messa (Sal CIX,4 Eb V,6 Eb V,10 Eb VII,11 Eb VII,17 Gen XIV,18) per mezzo di nostro Signore Gesù Cristo, che poteva portare a pienezza (Eb X,14) eD a perfezione tutti coloro che dovevano essere santificati.

1940. Senza dubbio Egli, il nostro Dio e Signore, si sarebbe offerto una volta per tutte a Dio Padre sull’altare della croce con la sua morte (Eb VII,27) per realizzare una Redenzione eterna per loro. Tuttavia, poiché non voleva che il suo sacerdozio si spegnesse con la morte (Eb VII,24), nell’ultima cena, “nella notte in cui fu tradito” (1 Cor XI,23), volle lasciare alla Chiesa, sua amata sposa, un Sacrificio visibile (come richiede la natura umana). Questo avrebbe rappresentato il Sacrificio cruento che si sarebbe compiuto una volta per tutte sulla croce, il cui ricordo sarebbe rimasto fino alla fine del mondo e la cui virtù salutare sarebbe stata applicata alla remissione di quei peccati che commentiamo ogni giorno. Dichiarandosi Sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchisedech (Sal CIX,4 Eb V,6 Eb VII,17) offrì il suo Corpo e il suo Sangue a Dio Padre sotto le specie del pane e del vino; sotto il simbolo di questi li diede agli Apostoli (che allora costituì Sacerdoti della Nuova Alleanza) perché li prendessero; e ad essi e ai loro successori nel Sacerdozio comandò di offrirli, pronunciando queste parole: “Fate questo in memoria di me” (Lc XXII:19 1Co XII:24) , ecc., come la Chiesa cattolica ha sempre inteso e insegnato (cf. 1752).

1741. Infatti, dopo aver celebrato l’antica Pasqua, che la moltitudine dei figli d’Israele sacrificava in ricordo della loro uscita dall’Egitto (Es 12), istituì la nuova Pasqua, nella quale Egli stesso doveva essere sacrificato dalla Chiesa per mezzo del ministero dei Sacerdoti, sotto segni visibili in ricordo del suo passaggio da questo mondo a suo Padre, quando, con lo spargimento del suo sangue, ci riscattò e “ci strappò dal potere delle tenebre e ci introdusse nel suo regno” (Col 1, 13).

1742. Questa è l’oblazione pura, che non può essere contaminata da alcuna indegnità o malizia da parte di coloro che la offrono, che il Signore aveva predetto per mezzo di Malachia che sarebbe stata offerta pura in ogni luogo nel suo Nome, che sarebbe stata grande tra le nazioni (Ml 1:11), che l’Apostolo Paolo ha designato in modo inequivocabile quando, scrivendo ai Corinzi, ha detto: Chi si è contaminato partecipando alla mensa dei demoni non può partecipare alla mensa del Signore (1Co X,21) intendendo con la parola “mensa”, in entrambi i casi, l’altare. Infine, è l’altare che, al tempo della natura e della Legge, era rappresentato dalle varie immagini dei sacrifici (Gn IV,4 Gn VIII,20 Gn XII,8 Gn 22,1-19 (Es: passim), in quanto contiene in sé tutti i beni che questi significano, essendo la consumazione e la perfezione di tutto.

Capitolo 2. Il sacrificio visibile, espiazione per i vivi e per i morti.

1743. Perché, in questo Sacrificio divino che si compie nella Messa, questo stesso Cristo è contenuto e immolato in modo incruento, Colui che si è offerto una volta per tutte in modo cruento sull’altare della croce (Eb IX,14 Eb IX,27) il santo Concilio insegna che questo Sacrificio sia veramente propiziatorio (cf. 1753) e che attraverso di esso, se ci avviciniamo a Dio con cuore sincero e fede retta, con timore e riverenza, contriti e penitenti, “otteniamo misericordia e la grazia di un aiuto tempestivo” (Eb IV,16).Appagato dall’oblazione di questo Sacrificio, il Signore, concedendo la grazia ed il dono della penitenza, perdona i delitti ed i peccati, anche quelli enormi. Si tratta, infatti, di una stessa vittima, la stessa che, offrendosi ora attraverso il ministero dei Sacerdoti, si offrì allora sulla croce, solo che il modo di offrire è diverso. I frutti di questa oblazione – quella cruenta – sono ricevuti abbondantemente per mezzo di questa oblazione incruenta; tanto che l’oblazione cruenta non toglie nulla a quella incruenta (cf. 1754). Perciò, secondo la tradizione degli Apostoli, essa viene legittimamente offerta, non solo per i peccati, i dolori, le soddisfazioni e le altre necessità dei fedeli viventi, ma anche per coloro che sono morti in Cristo e non sono ancora pienamente purificati (cf. 1753).

Capitolo 3: Messe in onore dei Santi.

1744. Sebbene la Chiesa sia solita celebrare alcune Messe in onore e memoria dei Santi, essa insegna che non è a loro che si offre il Sacrificio, ma a Dio solo che li ha incoronati.

1755. Così il Sacerdote non è solito dire: “Offro il sacrificio a voi, Pietro e Paolo”, ma, ringraziando Dio per le loro vittorie, ne implora la protezione, “… affinché si degnino di intercedere per noi in cielo proprio coloro che ricordiamo sulla terra”.

Capitolo 4. Il Canone della Messa.

1745. Poiché è opportuno che le cose sante siano amministrate con santità, e poiché il più santo di tutti è questo Sacrificio, che deve essere offerto e ricevuto con dignità e riverenza, molti secoli fa la Chiesa Cattolica istituì il santo canone, così puro da ogni errore (cf. 1756) che non c’è nulla in esso che non trasudi grandemente santità e pietà e non elevi a Dio lo spirito di coloro che lo offrono. È chiaro, infatti, che esso è fatto o dalle parole stesse del Signore, o dalle tradizioni degli Apostoli e dalle pie istruzioni dei santi Pontefici.

Capitolo 5. Le cerimonie del sacrificio della Messa

1746. La natura umana è tale che non possa facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni. Per questo la nostra pia Madre Chiesa ha istituito alcuni riti, in modo che nella Messa alcune cose siano dette a voce bassa (cf. 1759) ed altre a voce più alta. Ha anche introdotto cerimonie (cf. 1757) come le benedizioni mistiche, le luci, l’incenso, i paramenti e molte altre cose di questo tipo, ricevute dall’autorità e dalla tradizione degli Apostoli. In questo modo la maestà di un Sacrificio così grande sarebbe stata enfatizzata e le menti dei fedeli sarebbero state stimolate, per mezzo di questi segni visibili di religione e pietà, alla contemplazione delle cose più alte che sono nascoste in questo Sacrificio.

Capitolo 6. La Messa in cui solo il Sacerdote riceve la Comunione.

1747. Il Santo Concilio desidera certamente che i fedeli che partecipano ad ogni Messa ricevano la Comunione non solo per un desiderio spirituale, ma anche attraverso la ricezione sacramentale dell’Eucaristia, in modo da raccogliere frutti più abbondanti da questo santissimo Sacrificio, tuttavia, se ciò non avviene sempre, non condanna come private e illecite quelle Messe in cui solo il Sacerdote riceva la Comunione sacramentale; ma le approva e le raccomanda, poiché anche queste Messe devono essere considerate veramente pubbliche, in parte perché il popolo riceve la comunione spiritualmente, in parte perché sono celebrate da un ministro pubblico della Chiesa, non per sé solo, ma per tutti i fedeli che appartengono al Corpo di Cristo.

Capitolo 7. L’acqua mescolata al vino.

1748. Il santo Concilio avverte poi che la Chiesa abbia prescritto che i Sacerdoti mescolino l’acqua con il vino che deve essere offerto nel calice (cf. 1759), sia perché si ritiene che il Signore Cristo abbia fatto così, sia perché dal suo costato sgorgò l’acqua insieme al sangue (Gv XIX, 34) , che il Sacramento ricorda con questa mescolanza. E poiché, nell’Apocalisse di San Giovanni, si dice che le acque siano i popoli Ap. XVII,15), si rappresenta così l’unione del popolo fedele con Cristo, suo capo.

Capitolo 8. Rifiuto del linguaggio volgare nella Messa; spiegazione dei suoi misteri.

1749. Sebbene la Messa contenga una grande quantità di insegnamenti per i fedeli, non è sembrato bene ai Padri che venisse celebrata qua e là in lingua volgare. Per questo motivo, pur mantenendo ovunque il rito antico proprio di ogni Chiesa e approvato dalla santa Chiesa romana, Madre e maestra di tutte le Chiese, affinché le pecore di Cristo non muoiano di fame ed i piccoli non chiedano il pane e nessuno glielo dia (Lm IV,4), il santo Concilio ordina ai pastori ed a tutti coloro che hanno la cura delle anime di dare frequentemente, durante la celebrazione della Messa, alcune spiegazioni, da parte loro o di altri, dei testi letti nella Messa, e, tra l’altro, di illuminare il mistero di questo Sacrificio, specialmente nelle Domeniche e nelle feste.

Capitolo 9. Osservazioni preliminari ai canoni che seguono.

1750. Ma poiché oggi, contro questa antica fede fondata sul santo Vangelo, sulle tradizioni degli Apostoli e sull’insegnamento dei santi Padri, si sono diffusi molti errori e molte cose sono state insegnate e discusse da molti, il santo Concilio, dopo aver abbondantemente, seriamente e maturamente trattato queste cose, con l’unanimità di tutti i Padri, ha deciso di condannare ed eliminare dalla santa Chiesa ciò che vada contro questa purissima fede e questa santa dottrina, con i Canoni che seguono.

Canoni sul Santissimo Sacrificio della Messa.

1751. (1) Se qualcuno dice che nella Messa non venga offerto a Dio un vero e proprio Sacrificio, o che “essere offerto” non significhi altro che Cristo ci venga dato come cibo, sia anatema.

1752. 2 Se qualcuno dice che Cristo non abbia istituito gli Apostoli come Sacerdoti con queste parole: “Fate questo in memoria di me” (1 Cor. XI:25 1 Cor. XI:24), o che non abbia ordinato loro e agli altri Sacerdoti di offrire il suo Corpo ed il suo Sangue, sia anatema (cf. 1470).

1753. 3 Se qualcuno dirà che il Sacrificio della Messa sia solo un sacrificio di lode e di ringraziamento, o una semplice commemorazione del Sacrificio fatto sulla croce, ma non sia un Sacrificio propiziatorio; o che sia vantaggioso solo per chi riceve Cristo, e che non debba essere offerto per i vivi e per i morti, o per i peccati, le punizioni, le soddisfazioni ed altre necessità, sia anatema (cf.1743).

1754. 4 Se qualcuno dirà che con il Sacrificio della Messa si commetta una bestemmia contro il santissimo Sacrificio di Cristo fatto sulla croce, o che sia una diminuzione di esso, sia anatema (cf. 1743).

1755. 5 Se qualcuno dice che sia una frode celebrare la Messa in onore dei Santi ed ottenere la loro intercessione presso Dio, come intende la Chiesa, sia anatema (cf. 1744).

1756. 6 Se qualcuno dice che il canone della Messa contenga errori e debba essere abrogato, sia anatema (cf. 1745).

1757. 7. Se qualcuno dice che le cerimonie, i paramenti ed i segni esteriori usati dalla Chiesa nella celebrazione della Messa siano piuttosto beffe dell’empietà che segni di pietà, sia anatema (cf. 1746).

1758. 8 Se qualcuno dice che le Messe in cui solo il Sacerdote riceve la Comunione sacramentale siano illecite e quindi debbano essere abolite, sia anatema (cf. 1747).

1959. 9. Se qualcuno dice che il rito della Chiesa romana, secondo il quale parte del Canone e le parole della Consacrazione sono pronunciate a bassa voce, debba essere condannato; o che la Messa debba essere celebrata solo in lingua volgare; o che l’acqua non debba essere mescolata nel calice con il vino che deve essere offerto, perché ciò è contrario all’istituzione di Cristo: sia anatema (cf. 1746; 1748).

Decreto sulla richiesta di concessione del calice.

1760. Inoltre, lo stesso santo Concilio, nella sua ultima sessione, si è riservato di esaminare e definire in un altro momento, quando se ne presentasse l’occasione, due articoli che gli erano stati proposti in altre sedi e che non erano ancora stati discussi: Le ragioni per cui la santa Chiesa Cattolica sia stata indotta a dare la Comunione ai laici ed anche ai Sacerdoti che non celebrano, sotto la sola specie del pane, devono essere mantenute in modo che l’uso del calice non sia permesso a nessuno per nessuna ragione – e : Se l’uso del calice, per onesti motivi e secondo la carità cristiana, dovesse essere concesso ad un paese o ad un regno, a quali condizioni dovrebbe essere concesso? E quali sono queste condizioni? Volendo ora provvedere nel modo migliore alla salvezza di coloro per i quali è stata fatta la richiesta, il Concilio ha decretato che l’intera questione sia deferita al nostro Santissimo Padre, come la sta deferendo con il presente decreto; secondo la sua singolare prudenza, farà ciò che giudicherà utile per gli Stati cristiani e salutare per coloro che richiedano l’uso del calice.

Sessione XXIII, 15 luglio 1563 – Dottrina e canoni sul Sacramento dell’Ordine.

Sacramento dell’Ordine.

1763. Dottrina vera e cattolica sul Sacramento dell’Ordine per condannare gli errori del nostro tempo, decretata dal Concilio di Trento e pubblicata nella settima sessione (sotto Pio IV).

Capitolo 1. L’istituzione del Sacerdozio della Nuova Alleanza.

1764. Sacrificio e Sacerdozio sono stati così uniti da una disposizione di Dio che entrambi sono esistiti in ogni legge. Pertanto, poiché la Chiesa Cattolica ha ricevuto nel Nuovo Testamento, per istituzione del Signore, il santo Sacrificio visibile dell’Eucaristia, si deve anche riconoscere che in essa ci sia un nuovo Sacerdozio visibile ed esterno (cf. 1771) in cui è passato l’antico sacerdozio (Eb VII,12). Questo Sacerdozio è stato istituito dallo stesso Signore, il nostro Salvatore (cf.n1773); agli Apostoli e ai loro successori nel Sacerdozio è stato dato il potere di consacrare, offrire e amministrare il suo Corpo er il suo Sangue, così come di perdonare e trattenere i peccati: questo è ciò che mostra la Sacra Scrittura e ciò che la tradizione della Chiesa Cattolica ha sempre insegnato (cf. 1771).

Capitolo 2. I sette gradi dell’ordine.

1765. Poiché il ministero di un Sacerdozio così santo è una cosa divina, era opportuno, perché fosse esercitato più degnamente e con maggior rispetto, che vi fossero, nella struttura perfettamente ordinata della Chiesa, diversi ordini di ministero, che fossero, per la loro funzione, al servizio del Sacerdozio, distribuiti in modo tale che coloro che avrebbero ricevuto la tonsura clericale salissero dagli Ordini minori agli Ordini maggiori (cf. 1772). La Sacra Scrittura, infatti, non menziona chiaramente solo i Sacerdoti, ma anche i diaconi; essa insegna, con le espressioni più gravi, a che cosa dobbiamo stare molto attenti quando li ordiniamo (Act VI,5 Act XXI,8 1Tm III,8-13 Ph 1,1). Fin dagli inizi della Chiesa sappiamo che erano in uso, anche se in misura diversa, i nomi dei seguenti Ordini e dei ministeri propri di ciascuno di essi: suddiaconi, accoliti, esorcisti, lettori ed ostiari. In realtà, il suddiaconato viene accostato agli Ordini maggiori dai Padri e dai Santi Concili, nei quali leggiamo molto spesso riferimenti agli altri olOrdini inferiori.

Capitolo 3. La sacramentalità dell’ordine.

1766. Poiché la testimonianza della Scrittura, la tradizione apostolica e l’accordo dei Padri mostrano chiaramente che la sacra ordinazione, conferita con parole e segni esterni, conferisca la grazia, nessuno deve dubitare che l’Ordine sia veramente e propriamente uno dei sette Sacramenti della santa Chiesa (cf. 1773). L’Apostolo dice: “Vi esorto a ravvivare la grazia di Dio che è in voi mediante l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timore, ma di forza, di amore e di moderazione” (2Tm I,6 1Tm VI,14).

Capitolo 4. La Gerarchia ecclesiastica e l’Ordinazione.

1767. Poiché nel Sacramento dell’Ordine, così come nel Battesimo e nella Confermazione, è impresso un carattere (cf. 1774) che non può essere distrutto o tolto, il santo Concilio condanna giustamente il pensiero di coloro che affermino che i Sacerdoti del Nuovo Testamento abbiano solo un potere temporaneo e che, una volta ordinati secondo le regole, possano tornare laici, se non esercitano il ministero della Parola di Dio (cf. 1771). Se qualcuno afferma che tutti i Cristiani, senza distinzione, siano Sacerdoti del Nuovo Testamento, o che tutti siano dotati dello stesso potere spirituale tra loro, sembra che non faccia altro che cancellare la Gerarchia ecclesiastica (cf..1776), che è come “un esercito schierato in battaglia” (Ct VI,3 Ct VI,9); come se, contrariamente all’insegnamento di san Paolo (1Cor XII,28-29; Eph IV,11) tutti fossero apostoli e tutti profeti, tutti evangelisti, tutti pastori, tutti maestri.

1768. Il santo Concilio dichiara quindi che, oltre agli altri gradi ecclesiastici, i Vescovi, che sono succeduti agli Apostoli, appartengano principalmente a questo ordine gerarchico; che siano stati posti (come dice lo stesso Apostolo) dallo Spirito Santo “per governare la Chiesa di Dio” (At XX,28; che siano superiori ai presbiteri; che conferiscano il Sacramento della Confermazione; che ordinalino i ministri della Chiesa; che possano fare molte altre cose per le quali altri di Ordine inferiore non hanno potere (cf. 1777).

1969. Inoltre, il santo Concilio insegna che nell’ordinazione dei Vescovi, dei Sacerdoti e degli altri Ordini non sia necessario né il consenso, né l’appello, né l’autorità del popolo o di qualsiasi potere o magistratura civile, come se l’Ordinazione fosse altrimenti nulla. Anzi, stabilisce che coloro che siano chiamati e istituiti dal popolo o da un potere o da una magistratura, salgono all’esercizio di questo ministero, e coloro che li prendono per sé, nella loro temerarietà debbano essere ritenuti, non come ministri della Chiesa, ma come ladri e briganti che non sono entrati dalla porta (Gv 10,1); (cf. 1778).

1770. Questo è ciò che sia sembrato bene al santo Concilio insegnare ai Cristiani in modo generale sul Sacramento dell’Ordine. Ha deciso di condannare nel modo seguente ciò che sia contrario a Canoni precisi e propri, affinché, con l’aiuto di Cristo, tutti, usando la regola della fede, in mezzo alle tenebre di tanti errori, possano più facilmente conoscere e conservare la fede cattolica.

Canoni sul Sacramento dell’Ordine.

1771. (1) Se qualcuno dice che nel Nuovo Testamento non ci sia un Sacerdozio visibile ed esterno, o che non ci sia il potere di consacrare e offrire il vero Corpo e Sangue del Signore e di rimettere o trattenere i peccati, ma solo una funzione e un semplice ministero di predicazione del Vangelo; o che coloro che non predicano non sono Sacerdoti, sia anatema (cf.1764; 1767).

1772. (2) Se qualcuno dice che, oltre al Sacerdozio, non ci siano altri Ordini maggiori e minori nella Chiesa cattolica, (cf. 1764; 1767), attraverso i quali, come per gradi, si avanzi al Sacerdozio: sia anatema (cf. 1765).

1773. 3 Se qualcuno dirà che la sacra Ordinazione non sia veramente e propriamente un Sacramento istituito da Cristo Signore, o che sia un’invenzione umana, escogitata da uomini che non capiscono nulla delle cose della Chiesa, o che sia solo un rito con cui si scelgono i ministri della Parola di Dio e dei Sacramenti, sia anatema (cf. 1766).

1774. 4 Se qualcuno dice che lo Spirito Santo non venga dato con la sacra Ordinazione, e che quindi sia vano che i Vescovi dicano: “Ricevi lo Spirito Santo”, o che l’Ordinazione non imprima un carattere, o che uno che sia diventato Sacerdote una volta per tutte possa tornare laico, sia anatema (cf. 1767).

1775. 5 Se qualcuno dice che l’unzione sacra che la Chiesa usa nell’Ordinazione non solo non sia necessaria, ma sia da disprezzare e sia perniciosa, e che lo stesso vale per le altre cerimonie dell’Ordine, sia anatema.

1776. 6 Se qualcuno afferma che nella Chiesa Cattolica non esista una Gerarchia istituita per disposizione divina, composta da Vescovi, Sacerdoti e ministri, sia anatema (cf. 1768).

1777. 7. Se qualcuno dice che i Vescovi non siano superiori ai Sacerdoti; o che non abbiano il potere di confermare e ordinare; o che il potere che hanno sia comune a loro con i Sacerdoti; o che le ordinazioni da loro conferite senza il consenso o l’appello del popolo o di qualche potere civile siano nulle; o che coloro che non sono stati legittimamente ordinati o inviati dall’autorità ecclesiastica e canonica, ma provengono da altrove, siano legittimi ministri della Parola e dei Sacramenti: sia anatema (cf. 1768s.).

1778. (8) Se qualcuno dice che i Vescovi scelti dall’autorità del Romano Pontefice non siano legittimi e veri Vescovi, ma un’invenzione umana, sia anatema.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (26) “CONCILIO DI TRENTO, Sess. XXIV al termine”

LA VERGINE MARIA (9)

Il Vescovo Tihámer Toth

LA VERGINE MARIA (9)

Nihil Obstat: Dr. Andrés de Lucas, Canonico. Censore.

IMPRIMATUR: José María, Vescovo Ausiliare e Vicario Generale. Madrid, 27 giugno 1951.

CAPITOLO IX

LA DEVOZIONE DELLA SPAGNA A MARIA

Per lodare la venerazione e l’amore che la Spagna professa per Maria, è sufficiente ricordare alcuni paragrafi di JUAN VÁZQUEZ DE MELLA:

“Cristologia e mariologia formano un’unità che la storia della teologia dimostra che non possa essere separata e che deve essere affermata o negata. totalmente. Il tipo della Vergine è di una grandezza tale che supera tutte le idee più elevate degli uomini. Figlia, moglie, madre, vergine, tutto insieme e in un’unica unità, è l’ideale di una bellezza soprannaturale che gli artisti della prima epoca del Medioevom vollero rappresentare nell’immagine di Sant’Anna che regge la Vergine, che teneva in grembo il Dio Bambino. – Tocca ed umile nel saluto angelico; trasportata dalla gioia nel Magnificat; trafitta da tutte le spade del dolore nello Stabat Mater Dolorosa, sotto tutte le forme e le invocazioni, ha l’ammirazione dell’umanità, poiché, fin’anche il maomettanesimo, la religione dell’impurità, proclama nel Corano la sua verginità e la sua Immacolata Concezione, e nessun vero poeta è passato davanti al suo altare senza salutarla con una vibrazione della sua lira e della sua anima. C’è una parola che è la prima ad essere pronunciata: Mamma. Solo coloro che l’hanno conosciuta e l’hanno persa dopo il vivere e crescere sotto l’impulso del suo amore, possono capire tutto ciò che sia contenuto in questo nome. Il risveglio dell’infanzia e le prime preghiere poste con i primi baci sulle labbra, le ore d’oro dell’adolescenza che non tornerà mai più; le preoccupazioni, le angosce, le illusioni, le speranze e anche le delusioni che appassiscono; i dispiaceri e le gioie, tutto è legato a colui che ci ha comunicato la linfa del corpo e dell’anima; e quindi, quando la perdiamo, ci accompagna come un’ombra invisibile, lasciandoci un ricordo funebre che gli anni non cancellano nella nostra memoria, una spina nella memoria e una spina nei nostri cuori. Lo stato di orfani! Quale religione e quale filosofia hanno pensato di alleviarlo e sopprimerlo sostituendo la madre morta con una che non muore mai? Solo una Religione divina poteva farlo, e la Chiesa ce lo mostra nella Vergine, non come simbolo, ma come realtà, che le nostre madri invocano nei loro momenti di angoscia, e di cui noi tutti siamo testimoni, perché è lei che, nei momenti supremi, quando il cuore viene. travolto dalle nere acque del dolore, sembra chinarsi su di noi e ci stende il suo mantello affinché, aggrappandoci ad esso, ci si possa salvare dal naufragio. – È per questo che il culto della Vergine Maria ha accompagnato la società cristiana fin dalle sue origini. Il protestantesimo, quando si è sollevato contro la Chiesa, si è sollevato contro la Vergine e.., inventando una storia per giustificare le sue negazioni, arrivò a dire che non esistevano immagini per dimostrare il culto della Vergine Maria fino a dopo il Concilio di Efeso. E le pareti delle Catacombe, che sono crollate per le smentite dei Protestanti, hanno risposto con magnifiche scoperte archeologiche, come quella delle Catacombe di Santa Priscilla, dove appaiono numerose immagini della Vergine, e precisamente una delle scene è il saluto angelico e un’altra la profezia di Isaia, di una tale perfezione, in contrasto con la povertà degli altri dipinti, tanto che è stato addirittura detto che se fossero stati scoperti nel XVI secolo, avrebbero si sarebbe potuto pensare che avessero ispirato Raffaello. E sono del primo secolo e contemporanei di San Giovanni! – La storia della Spagna è così strettament legata al culto della Vergine, che senza ddi esso è inconcepibile. Nel decimo Concilio diToledo, si regolavano le festività che erano state celebrate già e, quando la nazionalità della Spagna cominciò ad esistere, tutte le lingue cantarono come l’allodola dell’alba. Quella di Castiglia si può dire che inizi con la Vita di Santa Maria Egizíaca; quello catalano, con il Desconsuelo, di Raimundo Lulio, e quello galiziano, con le Cantigas di Alfonso il Saggio. E quando tutta la Penisola fu scossa dalle terribili invasioni di Almanzor, che minacciavano di ridurre la Riconquista alle grotte e alle montagne da cui provenivano i primi guerrieri; quando i Normanni seminarono il terrore sulle coste, e la nascente monarchia vacilla nel secolo millenario, un Vescovo, San Pietro di Mezonzo, come un gemito di angoscia, ma anche di speranza e di amore che esce dall’anima spagnola, compose la Salve, che in seguito tutta la cristianità avrebbe poi recitato. – E nel XIII secolo, quando tutti gli sforzi erano esauriti nella lotta contro gli Albigesi, san Domenico di Guzman, come supremo precursore, per ispirazione dall’Alto, istituì il Rosario. E si può ben dire che l’intera Reconquista non sia altro che la marcia trionfale della Spagna attraverso un fiume di sangue e una foresta di allori, i cui rami crociati stanno separando con le loro spade per aprire la strada alla Vergine, che li protegge con il suo manto e lo stende su di loro come un baldacchino di gloria. E così danno il loro nome alla caravella di Colombo e alla prodigiosa di Magellano, il primo a circumnavigare la terra.. E alla storia comune corrisponde la storia particolare delle regioni, che sembrano raggruppate davanti all’altare della Vergine per riceverme calore e protezione di Madre. – Siviglia, con gli splendori dei suoi cieli e la galanteria della sua Giralda, e i prati profumati innaffiati dal Guadalquivir, si apre come una rosa per esalare l’aroma della sua gioia davanti all’immagine della Macarena; Granada offre il suo meravigliose carmenes alla Virgen de las Angustias, come per addolcire la sua amarezza. In Murcia, la Virgen de la Fuensanta regna sulle feste, le canzoni e le case dei contadini; a Valencia, la Virgen de los Desamparados sembra una passionaria davanti alla quale tutti i fiori del suo frutteto si inchinano amorevolmente; in Catalogna, sulle rocce che sembrano le colonne di un tempio ciclopico rotto da un terremoto, si erge la Vergine di Montserrat, più in alto delle ciminiere delle fabbriche che, con le loro nuvole di fumo, assomigliano alle nuvole dei loro incensieri; in Navarra, una razza più forte del granito e della quercia delle sue montagne si prostrano con fervore e arrendevolezza davanti alla Vergine del Puy e del Camino; in Vizcaya, per il millenario delle sue libertà, la Vergine di Begoña presiede al lavoro fecondo dei suoi figli; nelle Asturie, in una fenditura della Auseva, la Vergine di Covadonga, la Vergine delle battaglie, la prima che i miei occhi hanno visto, indica, nel rivolo d’acqua che sgorga ai suoi piedi e si infiltra nel muschio delle rocce, il torrente che diventerà un fiume di sangue che attraverserà la Penisola e penetrerà nel mare, tracciando il percorso che gli audaci avventurieri percorreranno per dominare il pianeta.; in Galizia, nell’incomparabile Cattedrale di Compostela, di fronte al Portico de la Gloria, l’arco di trionfo eretto dalla Fede e dal Genio ai Crociati di Las Navas, i versi di Rosalía de Castro sembrano cadere sulla Vergine di Soledad, come gocce di lacrime con cui la pietà popolare vuole bagnare le ferite inferte al suo cuore dalle spade del dolore; in Estremadura, la Vergine di Guadalupe, ai cui piedi, come un leone stanco, il grande Imperatore andò a riposare, segnala con lo splendore e la decadenza del suo culto, la grandezza e la prostrazione del suo popolo; a León, Santa María, dove Alfonso Vil vulle porre come ex-voto la sua spada e il mantello imperiale, che intende diffondere negli altri Stati; in Castiglia, la Vergine portata in sella al suo cavallo dal Cid Campeador e San Ferdinando, e le numerose immagini della Vergine del del Carmelo, che sembra trovare il suo piedistallo più appropriato nel cuore di Santa Teresa; e, infine, in Aragona, sulle rive del fiume che dà il suo nome a tutta la Penisola, sorge la Vergine il cui Pilar indica una tradizione che risale all’età gotica e agli ultimi tempi di Roma e che arriva all’età apostolica come fondamento della Spagna. Perché la Vergine, con le sue diverse invocazioni, coronata di stelle o attraversata da spade dolorose o trionfanti, col suo culto riunisce gli amori di questa Patria, che è cresciuta sotto il suo manto, dall’Auseva, all’inizio della grande Crociata d’Occidente, fino alla fine, invocando il suo nome nell’ultima delle Crociate a Lepanto.

(Estratto dal discorso pronunciato al Teatro de las Damas Catequistas il 7 maggio 1922).

E cosa possiamo dire della devozione dell’America spagnola alla Madre? I santuari di Guadalupe, de los Remedios, di Ocotlán, di San Juan de los Lagos in Messico; di Caridad del Cobre, a Cuba; di Altagracia, ad Haiti; di Chiquinquirá, in Colombia; del Rosario, in Perù; di Andacollo, in Cile; di Luján, in Argentina – solo per citarne alcuni -, sono prove attendibili della tenera devozione con la quale i Cattolici ispanoamericani onorano la Beata Vergine Maria e della premurosa cura con cui hanno saputo conservare questa devozione, appresa dalle labbra dei primi missionari spagnoli.

LA VERGINE MARIA (10)