Il trattato del Purgatorio

Oggi, nella falsa chiesa dell’uomo, apostatico-conciliare, viene negata, dagli adepti del “principe di questo mondo” e dai marrani della quinta colonna della “sinagoga di satana” infiltrata nel Santuario Santo, l’esistenza del Purgatorio, e finanche quella dell’inferno, prospettando una misericordia fasulla, senza pentimento, contrizione e proposito, dal carattere francamente luciferino, per precipitare le anime, così miseramente ingannate, nel fuoco eterno. La “Verità rivelata” ed il “Magistero” della Chiesa Cattolica, hanno fornito delle risposte esaustive e definitive al riguardo, eterne ed immodificabili. Ecco, come una grande Santa, S. Caterina da Genova, canonizzata dal Santo Padre Clemente XII, ha descritto, come meglio ha potuto, con parole umane, lo stato delle anime del Purgatorio, essendo così di sprono: 1) – nel cercare di evitarlo con i mezzi che la Provvidenza divina ci ha messo a disposizione; 2) – nel portare un aiuto alle anime purganti onde progrediscano verso l’eterno Bene, il Paradiso, e godere così della vista beatifica di Dio.

Caterina genova

TRATTATO DEL PURGATORIO

Di Santa Caterina da Genova

Come (la santa), per relazione col fuoco divino che percepiva nel suo cuore e che la rendeva casta interior­mente, vedeva con gli occhi dell’anima e comprendeva la condizione dei fedeli nel purgatorio – erano lì per purificarsi prima di essere presentati al cospetto di Dio, in paradiso.

1. – Quest’anima santa, ancora vestita del suo corpo, era stata posta nel Purgatorio dell’amore divino, che, pieno di fuoco, la bruciava completamente e purificava in lei ogni cosa, perché – lasciata questa vita – potesse essere subito presentata al cospetto del suo dolce Dio. E, grazie a questo amorevole fuoco, comprendeva nel suo intimo la condizione dei fedeli nel purgatorio: erano lì per purgare ogni ruggine e macchia di peccato non ancora mondate nel corso della loro esistenza terrena. Nell’amorevole Purgatorio del fuoco divino la Santa, unita al divino amore, gioiva di tutto ciò che operava in lei e, comprendendo la condizione delle anime, usava queste parole:

2.- «Le anime del Purgatorio non possono avere al­tra scelta che essere lì. Ciò avviene per disposizione di Dio, che ha operato con giustizia”. I purganti non sono nella condizione di voltarsi indietro e dire: «Ho commesso certi peccati, per cui merito di stare qui». E neppure dire: «Non vor­rei averli commessi, così ora andrei in paradiso». Né ancora: «Lui uscirà di qui prima di me o io ne uscirò prima di lui». Non sono in grado di tenere alcuna memoria propria, né in bene né in male, né su altri: sono così felici di appartenere al piano di Dio, che non han­no pensieri per se stessi. Vedono solo tanta bontà e l’opera di Dio, che, pieno di misericordia, conduce l’uomo a sé; (le anime) non percepiscono la pena e il bene che ciascuno vive dentro se stesso – del resto, se riuscissero a percepirli, non potrebbero più prender parte alla carità pura. Non vedono neppure di essere nella pena per i loro peccati né sono in grado di trattenere nella mente quella vista, perché sarebbe una imperfezio­ne in atto, che non può esistere in questo luogo: lì non è più possibile peccare attualmente. La percezione del Purgatorio avviene in loro una sola volta, nell’istante, cioè, in cui abbandonano questa vita e poi mai più, perché questo costitui­rebbe una proprietà.

3.- Le anime sono nella carità e non possono devia­re da essa con una mancanza volontaria: non sono più in grado di volere né desiderare altro, se non esclusivamente il volere puro della carità pura. In­fatti, essendo immerse nel fuoco del Purgatorio, ap­partengono al disegno divino – che è carità pura – e in esso non sono nella condizione di deviare in nessuna parte. Trovano così impedimento nel com­mettere peccato attuale e, parimenti, nel compiere atti meritevoli.

4.- Non credo esista felicità paragonabile a quella di un’anima del Purgatorio, tranne quella dei Santi del Paradiso. E ogni giorno questa gioia aumenta per influsso di Dio nelle anime e tende ad aumentare, perché ogni giorno consuma ciò che impedisce tale influsso. La ruggine del peccato è l’impedimento; il fuoco consuma la ruggine e così l’anima si apre sempre di più all’influsso di Dio. Se un oggetto coperto, stando al sole, non può corrispondere al riverbero del sole – non per difet­to del sole, che continuamente splende, ma per ciò che lo copre – quando la copertura si consumerà, esso si dischiuderà al sole e corrisponderà al suo ri­verbero nella misura in cui si sarà consumato ciò che lo copriva. Lo stesso accade per la ruggine del peccato, co­pertura delle anime nel Purgatorio: essa si consuma man mano per il fuoco e, nella misura in cui si consu­ma, corrisponde al suo vero sole, Dio. Tanto cresce la gioia, quanto viene meno la ruggine e l’anima si apre all’influsso: mentre una cresce, l’altra si ridu­ce, sino a quando non sia giunto al termine (il tem­po dell’espiazione). La pena non diminuisce, dimi­nuisce il tempo in cui restare in essa. Per ciò che concerne la loro volontà (le anime) non possono mai dire che quelle siano pene; gioi­scono della disposizione divina, con la quale è uni­ta la loro volontà nella pura carità.

5.- Ma, contraria­mente alla gioia della volontà in tale modo unita, subiscono una pena così atroce, che lingua non può parlarne, né intelletto può capirne una minima scin­tilla, se Dio non glielo mostrasse per grazia speciale. Dio mi ha mostrato questa scintilla per sua gra­zia, ma non mi è possibile esprimerla a parole. Quella vista, che il Signore mi mostrò, non lasciò mai più la mia mente. Dirò di ciò che mi successe quel che riuscirò a esprimere e intenderà chi il Si­gnore vorrà che intenda.

6.- Il fondamento di tutte le pene è il peccato, ori­ginale o attuale. Dio ha creato l’anima pura e semplice, pulita da ogni macchia di peccato, dotata di istinto beatifico verso di Lui; da quest’ultimo l’allontana il peccato originale. Il peccato attuale poi, si aggiunge ad esso e allontana di più l’anima da Dio e, a mano a mano che si scosta, l’anima diventa maligna, perché non è corrisposta da Dio. Tutte le forme di bontà esistenti, vengono per divina partecipazione, che nelle creature irrazionali corrisponde come vuole e come ha disposto e non viene mai meno a esse. Verso l’anima poi, Dio cor­risponde in maggiore o minore misura a seconda del suo stato di purificazione dal peccato. Quando l’anima si avvicina alla sua prima crea­zione pura e netta trova in sé un istinto beatifico che cresce con tale impeto e furore di fuoco di ca­rità – il quale l’attira al suo fine ultimo – da dive­nirle insopportabile l’impedimento. A mano a ma­no che vede farsi vicino il suo fine ultimo, la pena diventa per lei più grande e atroce.

7.- Le anime che sono nel Purgatorio non possiedo­no peccato né esiste impedimento fra loro e Dio, ad eccezione di quella pena che le ha costrette e a cau­sa della quale l’istinto non ha potuto raggiungere la sua perfezione (nel fine ultimo che è Dio). Vedendo con certezza quanto sia grave anche un solo impedimento presso Dio e che, per necessità di giustizia, viene ritardato quell’istinto, ne nasce un fuoco così terribile che è paragonabile a quello dell’inferno, anche se non c’è colpa, – colpa che si ritrova invece nei dannati dell’inferno, perché pro­dotta dalla volontà maligna. A questi Dio non cor­risponde la sua bontà; i dannati restano in quella volontà disperata e nella malignità, contro la vo­lontà di Dio.

8.- Da ciò si vede ed è chiaro che si considera colpa la volontà perversa che agisce contro la volontà di Dio: mentre persevera la mala volontà, persevera la colpa. Dal momento che quelli dell’inferno hanno la­sciato questa vita con la cattiva volontà, la loro col­pa non è rimessa, né si può rimettere, in quanto non possono più mutare di volontà: con quella mala volontà sono passati da questa vita all’altra. Il passo seguente conferma la decisione nei ri­guardi dell’anima, in bene o in male, a seconda del­la volontà deliberata in cui si trova: “Ubi te invenero”, cioè all’ora della morte, in quella volontà di peccare o di dolore per aver peccato, “ibi te iudicabo”. Al giudizio non segue poi remissione, perché dopo la morte la libertà d’arbitrio non è più mutabile: si ferma nella condizione in cui si trova al punto della morte. Le anime infernali portano con sé per sempre la colpa e la pena; quest’ultima poi, non è proporzio­nale alla pena che meritano, ma è infinita. Le ani­me purganti soffrono solamente la pena e, poiché sono senza colpa – cancellata dal dolore -, la pena ha un termine e diminuisce sempre di più in rap­porto al tempo, come si è detto. O miseria sopra ogni miseria, tanto maggiore poi se non è considerata dall’umana cecità!

9.- La pena dei dannati non è infinita in quantità, perché la dolce bontà spande il raggio della sua mi­sericordia anche all’inferno. L’uomo che muore nel peccato mortale merita pena e tempo infiniti, ma la misericordia divina rende possibile che solo il tem­po sia infinito e la pena sia invece limitata nella quantità, – anche se giustamente il Signore avrebbe potuto attribuire al peccatore una pena maggiore di quella che gli è stata attribuita. Vedi quanto è pericoloso il peccato commesso con malizia! Difficilmente l’uomo se ne pente e, non pentendosi, la colpa resta sempre e dura quan­to l’uomo resta nella volontà del peccato, com­messo o da commettere.

10.- Ma le anime del purgatorio hanno la loro vo­lontà in tutto conforme a quella di Dio; a lei Dio corrisponde con la sua bontà ed esse sono felici perché la loro volontà è purificata dal peccato ori­ginale e attuale. Quanto alla colpa, le anime riacquistano la pu­rezza della prima creazione perché hanno lasciato questa vita dolendosi di tutti i peccati commessi, con l’intenzione di non commetterne più. Per il dolore che provano Dio perdona subito la colpa e così alle anime non rimane (altro) se non la ruggine e la deformità del peccato, che si purifica poi nel fuoco attraverso la pena. Queste anime, purificate totalmente da ogni col­pa e unite a Dio per volontà, vedono Dio in manie­ra chiara e proporzionale a quanto Lui fa loro co­noscere; nel vedere quanto è importante la fruizio­ne di Dio e che l’anima è stata creata a quello sco­po, trovano una conformità tale che le unisce a Dio – conformità che tende a realizzarsi per l’istinto na­turale che spinge l’anima verso Dio – che non si possono dire ragionamenti, figure né esempi suffi­cienti a chiarire questa condizione, come la mente cioè l’avverta nei suoi effetti e la comprenda per sentimento interiore.

11.- Un esempio: poniamo che in tutto il mondo non ci sia che un unico pane in grado di togliere la fame e che tutte le creature si sazino anche solamente col vederlo. Ora, la creatura – cioè l’uomo – ha l’istin­to di mangiare quando è sano e, se non mangia, se non si ammala, se non muore, quella fame crescerà sempre di più, perché non viene meno quell’istinto. Lui è contento, perché conosce il pane che lo può saziare, tuttavia, per il fatto stesso di non averlo a disposizione, non può togliersi la fame. Questo è l’inferno che vive chi ha una grande fa­me: più l’uomo si avvicina al pane senza poterlo ve­dere, più si accende il suo desiderio naturale, che istintivamente è tutto rivolto verso quel pane, in cui consiste la felicità. La certezza di non vedere mai quel pane è per lui l’inizio dell’inferno vero e pro­prio, quello che vivono i dannati, privati della spe­ranza di contemplare l’autentico pane, Dio salva­tore. Le anime del purgatorio invece hanno fame, sì, perché non vedono il pane di cui potersi nutrire, ma conservano la speranza del momento in cui potran­no vederlo e saziarsene completamente; la loro pe­na consiste nel non poter soddisfare subito la fame.

12.- È chiaro che lo spirito purificato non trova altro luogo che Dio per riposare – a tal fine infatti è sta­to creato – e il peccato nell’anima non ha altro luo­go che l’inferno secondo l’ordinamento divino. Nel momento in cui lo spirito si separa dal corpo, l’anima – se si diparte in peccato mortale – rag­giunge il luogo prestabilito, guidata dalla natura del peccato. Se l’anima non ritrovasse là l’ordinamento divi­no, che procede dalla sua giustizia, vivrebbe in un inferno peggiore di quello in cui si trova, perché fuori da tale disposizione. Quest’ultima infatti è partecipe della misericordia divina, che permette ai dannati di non scontare la pena che meritano; essi, d’altro canto, si gettano subito nell’inferno – come se quel luogo fosse di loro proprietà – perché non trovano per sé nulla di più adatto e di meno dolo­roso.

13.- Lo stesso vale a proposito del purgatorio: l’ani­ma, separata dal corpo, non possiede più la purez­za originaria e, accorgendosi della sua macchia – che non si può eliminare se non per mezzo del pur­gatorio – si getta in quel luogo presto e volentieri.

Se il progetto divino non prevedesse di purgare la ruggine del peccato, in quell’istante si generereb­be un inferno peggiore del purgatorio, perché l’ani­ma si vede separata da Dio, che diventa così im­portante da far passare in secondo piano le pene del purgatorio (sebbene, come si è detto, questo luogo sia simile all’inferno).

14.- Per ciò che dipende da Dio, vedo che il paradiso non ha porta alcuna: chi vuole entrare lo può fare, perché Dio è tutto misericordia e sta con le braccia aperte verso di noi, per riceverci nella sua gloria. La divina essenza è pura e monda – molto più di quanto l’uomo possa immaginare – e l’anima che ha in sé la minima imperfezione – un fuscello, per dire – preferirebbe gettarsi in uno o mille inferni, piuttosto che ritrovarsi alla Presenza divina con una minima macchia. Ma compito del purgatorio è quello di togliere la macchia! L’anima sceglie que­sto luogo per trovare in esso la misericordia che le occorre per potersi mondare dalle sue colpe.

15.- La lingua non può esprimere e il cuore non può capire quanto sia importante il purgatorio: la pena è infernale, ma l’anima peccatrice la riceve come dono di misericordia, perché le pene non hanno pe­so di fronte alla gravità di quella macchia che im­pedisce l’amore. Vedo che la pena di quelli che sono nel purga­torio è soprattutto quella di essere causa del dispia­cere di Dio e il fatto che esso sia il frutto di un atto volontario compiuto contro la bontà divina, rispet­to a qualsiasi altro dolore. Dico ciò perché i pur­ganti, dal momento in cui godono della Grazia, si accorgono finalmente dell’importanza dell’impedi­mento che li distacca da Dio.

16.- Sono certa delle mie parole per ciò che ho po­tuto comprendere in questa vita. Ogni vista, ogni parola, ogni sentimento, ogni immaginazione, ogni giustizia, ogni verità mi sembrano bugie. Di queste parole resto più confusa che soddisfatta, perché non trovo vocaboli più estremi con cui potermi esprimere e perciò taccio.

Le mie parole sono niente se paragonate a quel­lo che la mia mente avverte; tra Dio e l’anima c’è una conformità tale che, nel momento in cui il Si­gnore la vede nella sua purezza originale, con il fuo­co del suo amore – sufficiente ad annichilire l’ani­ma immortale – le dona quella tensione, che è sguardo unitivo, attraverso cui la lega e la tira a se. L’anima si assorbe in Dio al punto di negare l’e­sistenza di altro all’infuori di Dio. Il Signore l’attira e la infuoca continuamente, fi­no a condurla a quell’essere da cui è uscita, quella assoluta purezza nella quale fu creata.

17.- Quando l’anima vede interiormente che è attira­ta dal divino fuoco dell’Amore, sente che il calore la scioglie e ridonda nella mente il suo dolce Signo­re. Lei sa che Dio non mancherà mai di attirarla e di condurla alla perfezione, con attenzione costante e secondo i suoi piani. La pena delle anime nel purgatorio consiste pro­prio nel vedere ciò che Dio mostra loro nella sua lu­ce e di esserne attratte, senza però poter seguire quella seduzione, quello slancio unitivo che il Si­gnore ha dato loro per legarle a sé. La percezione di quanto sia gravoso quell’impedimento e l’istinto che l’anima ha di poter essere attratta da quello sguardo senza impedimenti, costituiscono la soffe­renza dei purganti. Essi non tengono conto della pena vera e pro­pria – per quanto, di per sé, sia grandissima – ma danno importanza al fatto che si oppongono alla vo­lontà di Dio, che, acceso da tanto estremo amore puro verso loro, le attira fortemente a sé con il suo sguardo unitivo, come se ciò fosse l’attività prin­cipale. Se l’anima trovasse un altro purgatorio oltre quello in cui si trova, pur di potersi liberare dall’im­pedimento al più presto, gli si butterebbe dentro, tanto impetuoso è l’amore, simile a quello di Dio.

18.- Vedo ancora che dall’amore divino si dipartono verso l’anima raggi e lampi così colmi di fuoco, pe­netranti e forti, che, se fosse possibile, annullereb­bero addirittura l’anima, non solo il corpo. I raggi compiono nell’anima due operazioni: la sua purificazione e il suo annullamento. Come succede all’oro: quanto più lo si fonde, tanto diventa puro, e, se si continuasse a fonderlo, ogni imperfezione verrebbe annullata; tale è l’effet­to del fuoco nella materia. L’anima non può annullarsi in Dio, ma in se stes­sa; a mano a mano che si purifica, si annulla in se stessa e resta in Dio l’anima pura. L’oro, puro a ventiquattro carati, per quanto fuoco gli si possa dare, non consuma più, salvo le sue imperfezioni. Ciò accade con il fuoco divino nell’anima: mentre Dio la tiene nel fuoco, lei con­suma ogni sua mancanza e va verso la perfezione dei ventiquattro carati. Monda, resta completamente in Dio senza al­cunché di proprio, perché la purificazione dell’ani­ma consiste nella privazione di noi in noi: il no­stro essere è Dio. L’anima, purificata a ventiquattro carati, rimane impassibile, perché non ha più nul­la da consumare. Se anche fosse tenuta nel fuoco, non le sarebbe penoso: è fuoco dell’amore divino che è per lei vita eterna. Possono vivere senza al­cuna contrarietà, come le anime beate, persino in questa vita, se fosse possibile per loro restare in­sieme al corpo. Ma non credo che Dio le tenga sulla terra, eccetto che per qualche grande volontà divina.

19.- L’anima è stata creata capace di poter raggiun­gere la sua perfezione originaria, vivendo secondo quanto era stato disposto per lei senza lasciarsi con­taminare dal peccato. Con il peccato originale e con quello attuale, essa perde i suoi doni e le grazie e, morta, non può risuscitare se non per mezzo di Dio. Risuscitata per mezzo del Battesimo, resta in lei però la cattiva inclinazione che la conduce (se non oppone resistenza) al peccato attuale, facendola ri­tornare alla morte.

Dio torna per risuscitarla nuovamente per mez­zo di un’altra grazia speciale, ma l’anima è talmen­te imbrattata e rivolta verso se stessa che, per ritor­nare allo stato in cui Dio l’ha creata, necessita di tutte quelle operazioni divine, senza le quali l’ani­ma non potrebbe ritornare alla sua condizione ori­ginaria di purezza. Nel momento in cui l’anima sta per ritornare al suo primo stato, proprio perché deve trasformarsi in Dio, arde così intensamente, che quello è il suo purgatorio (non guarda al purgatorio come purga­torio, ma il suo purgatorio è proprio l’istinto arden­te che le è impedito). Questo stato – l’ultimo dell’amore – si compie se è assente la parte umana, perché l’anima possiede imperfezioni nascoste e, se l’uomo le vedesse, vi­vrebbe disperato. Quest’ultimo stadio dell’amore consuma tutte le piccole mancanze e, una volta consumate, gliele mostra in modo che l’anima veda l’opera di Dio, che produce quel fuoco d’amore e consuma le imperfezioni che sono da consumare.

20.- Ciò che l’uomo giudica perfetto è difettoso pres­so Dio; non appena l’uomo compie l’atto di vedere, sentire, intendere, volere o avere memoria, si mac­chia e le operazioni che compie, apparentemente perfette, restano contaminate; se l’opera deve esse­re perfetta, si deve compiere in noi senza noi e l’o­pera di Dio deve essere in Dio senza che l’uomo agisca per primo. Questo è ciò che compie Dio nell’ultima spre­sione dell’amore puro solamente per mezzo suo. L’opera è così penetrante e ardente nel fondo del­l’anima che il corpo, che la circonda, pare si agiti fortemente, come se si trovasse in un grande fuoco che non lo lascia mai quieto, sino alla morte. L’amore di Dio che riempie l’anima (secondo quanto io vedo) dona una gioia che non si può esprimere a parole, ma questa gioia non toglie nem­meno una scintilla di pena nelle anime del purga­torio. L’amore trattenuto produce una pena grande quanto è la perfezione di quell’amore di cui Dio l’ha resa capace. Ne consegue che le anime del pur­gatorio provano gioia grandissima e pena grandissi­ma senza che la prima ne impedisca l’altra.

21.- Se esse potessero purgarsi per mezzo della con­trizione, purgherebbero in un istante tutto il loro debito, tale è l’impeto di contrizione che è in loro, poiché hanno la chiara consapevolezza dell’impor­tanza di quell’impedimento! E’ fuori dubbio che Dio non risparmia nulla al pagamento di quel de­bito, perché così è stato stabilito dalla sua giustizia. L’anima, d’altro canto, non ha più possibilità di scelta propria e non può vedere se non quello che Dio vuole, né vorrebbe vedere altro, perché così è stato preordinato per 1ei.

22.- Se poi quelli che stanno nel mondo fanno l’ele­mosina per abbreviarle il periodo della pena (1’ ani­ma) non può permettersi di voltarsi a guardarla con affetto e di prenderla in considerazione: l’unico a operare è Dio, che ha il suo modo di appagarsi. Il fatto di potersi voltare per guardare all’elemosina, risulterebbe una proprietà che la distoglierebbe dalla percezione del volere divino e, di conseguen­za, farebbe diventare la sua pena infernale. Immobili di fronte a tutto ciò che Dio dà loro (di gioia o di pena) le anime del purgatorio non po­tranno mai più voltarsi verso se stesse, perché han­no trovato la loro intimità nella volontà del Signore e su di essa si sono plasmate, felici di vivere il pro­getto divino.

23.- Presentare al cospetto di Dio un’anima in debito ancora di un’ora col purgatorio, significherebbe renderla colpevole di una grande offesa e ciò le co­sterebbe una pena pari a più di dieci purgatori, per­ché la somma giustizia e la pura bontà non potreb­bero reggerne la vista e, per parte di Dio, ciò risul­terebbe sconveniente.

Se l’anima si accorgesse che Dio non è piena­mente soddisfatto anche solo per una mancanza pa­ri a una farfallina d’occhio, non potrebbe tollerarlo, anzi, sopporterebbe più volentieri mille inferni piut­tosto di non essere ancora del tutto purificata da­vanti alla presenza di Dio (se fosse possibile sce­gliere quei mille inferni).

24.- Mentre vedo nella luce di Dio ciò che sto rac­contando, mi viene voglia di gridare così forte da spaventare tutti gli uomini di questo mondo e dire loro:

   «O miseri, che vi lasciate accecare in questo mondo al punto da non stimare affatto questa ne­cessità, quando vi imbatterete in essa! Tutti vi na­scondete sotto la speranza della misericordia di Dio, che sapete essere grande; non vi rendete con­to invece che l’immensa bontà di Dio vi giudicherà per aver agito contro la sua volontà? La sua bontà ci deve guidare a compiere il suo volere e non ad avere speranza, se ci rendiamo colpevoli di un’azio­ne malvagia. La giustizia non può venir meno e de­ve compiersi in qualche modo».

Non essere troppo sicuro di poter credere: «Io mi confesserò, prenderò l’indulgenza plenaria e a quel punto sarò purgato da tutti i miei peccati!». Sappi che questo tipo di confessione e di contrizio­ne – che occorrono per ottenere l’indulgenza plena­ria – sono difficili da raggiungere. Se solo te ne ren­dessi conto, tremeresti di timore e saresti più sicuro di non poterla raggiungere che di raggiungerla.

Anime-purganti

25.- Io vedo le anime rimanere nella pena del purga­torio consapevoli di due obiettivi: il primo consiste nel patire volentieri le pene, sapendo che Dio ha usato grande misericordia in proporzione a ciò che meriterebbero e all’importanza che ha il loro Signo­re. Se la sua bontà non temperasse la giustizia con la misericordia – e la giustizia si soddisfa col san­gue di Cristo – un solo peccato meriterebbe mille inferni eterni. Le anime purganti conoscono la grande miseri­cordia divina e volentieri patiscono la pena senza lamentarsi e senza che ne venga meno un solo cara­to, perché pare loro di meritarla giustamente, se­condo il piano divino e poiché non possono eserci­tare la loro volontà. L’altro scopo è accorgersi della gioia che non man­ca mai, anzi, cresce per accostarsi a Dio. Le anime vedono queste due realizzazioni del progetto divino non in esse né per mezzo di se stes­se, ma esclusivamente in Dio, verso il quale, rispet­to alle pene che patiscono, prestano maggior atten­zione, perché per Lui nutrono una stima più gran­de: ogni attimo di cui possono godere di Dio supe­ra ogni pena e gaudio che l’uomo possa capire, ma, nonostante li superi, non toglie una scintilla di gioia o di pena.

26.- Sento nella mia mente il processo di purificazio­ne delle anime del purgatorio nella misura in cui la vedo, in maniera sempre più chiara, come vi ho det­to ormai da due anni a questa parte; ogni giorno che passa la vedo e la sento più evidente: vedo che la mia anima sta in questo corpo come in un pur­gatorio che si sovrappone a quell’altro per salvare il corpo dalla morte – nella misura in cui il corpo stes­so è in grado di sopportare – e che cresce sempre di più, finché sopravviene la morte fisica.

Vedo che lo spirito è alienato da tutti i doni spi­rituali che possono dargli nutrimento, come la leti­zia o il piacere; non può gustare alcuna cosa dello spirito, né per volontà né per intelletto, né attraver­so la memoria per cui poter esprimere felicità di questo o di quello!

27.- Il mio mondo interiore è immobile e assediato; tutto ciò che reggeva la vita spirituale e corporale gli è stato tolto a poco a poco; nel momento in cui sono venute meno le sue impalcature, si rende conto che per lui sono state cose di cui nutrirsi e confor­tarsi, ma, una volta riconosciute come tali, sono così aborrite che scompaiono senza lasciare traccia, poi­ché lo spirito ha in sé l’istinto di eliminare ogni co­sa che possa impedire il raggiungimento della sua perfezione, a costo di permettere che l’uomo venga gettato nell’inferno, pur di pervenire al suo intento. Per questa ragione lo spirito elimina tutto ciò di cui l’interiorità dell’uomo si può nutrire e lo assedia in maniera così sottile da non lasciar passare il ben­ché minimo fuscello d’imperfezione, che non sia da lui veduto e aborrito. Per questo l’anima era assediata interiormente: non poteva sopportare che quelle persone che era­no entrate in relazione con lei e che parevano sulla via della perfezione, trovassero sostentamento in al­cuna cosa. Quando le vedeva nutrirsi di ciò che lei aborriva, lasciava quel luogo per non vederle, so­prattutto se si trattava di alcune persone in particolare.

28.- Anche la parte esteriore restava ancora assedia­ta, perché lo spirito non le corrispondeva: non tro­vava cosa sulla terra da cui poter trarre sostegno, secondo l’istinto umano, né le rimaneva altro con­forto se non Dio, che agisce per amore e con gran­de misericordia per soddisfare la propria giustizia, la cui vista le dava una grande gioia e una immensa pace. Non esce però di prigione né cerca di uscirne fintanto che Dio non abbia compiuto ciò che le oc­corre; la sua felicità è la soddisfazione di Dio e, per lei, non si potrebbe trovare pena alcuna, per enor­me che sia, quanto non corrispondere più all’ordi­namento di Dio, perché l’anima riconosce che il progetto è giusto e misericordioso. Diceva: «Vedo e tocco tutte queste cose, ma non so trovare vocaboli adatti ad esprimere ciò che vor­rei dire. Quello che ho detto, lo sento operare den­tro di me, spiritualmente».

29.- La prigione nella quale mi sembra di essere è il mondo, i legami, il corpo; la mia anima, che vive nella grazia, lo sa bene e sa bene anche che cosa im­plica essere privati della possibilità – o ritardarla – di pervenire al suo fine. L’anima è delicata ed è re­sa degna dalla Grazia divina di essere con Dio una cosa sola, perché partecipe della sua bontà. Come è impossibile che a Dio possa accadere al­cuna pena, così vale per le anime che sono a Lui vi­cine: quanto più gli si fanno prossime, tanto mag­giormente ricevono del suo Essere. Il ritardo che l’anima ha (nell’unirsi al suo Signore) è causa di grande pena per lei e fa in modo di allontanarla dal­le proprietà che ha in sé per natura e che, per gra­zia, le sono mostrate. Non potendole trattenere, ma essendone capa­ce, la pena è in proporzione alla stima che lei ha di Dio. La stima poi è tanto maggiore quanto l’anima più conosce e tanto più conosce, quanto è più sen­za peccato. L’impedimento è più terribile quando l’anima, completamente raccolta in Dio e senza al­cun altro impedimento esterno, giunge alla perfetta conoscenza senza errore.

30.- L’uomo che preferisce farsi ammazzare piutto­sto di offendere Dio, sente che la morte gli procura pena, ma la luce di Dio lo induce a dare più impor­tanza al suo Signore che alla morte corporale. L’a­nima conosce il progetto di Dio e stima ancor più quel progetto di tutti i tormenti, per terribili che possano essere, tanto quelli interiori, quanto quelli esteriori, perché Dio – per il quale quest’opera si compie – eccede in tutto ciò che si possa immagi­nare e sentire. L’anima, come già si è detto, non vede né parla né conosce danno o pena in sé propria, ma il tutto conosce in un solo istante, pur non vedendolo in se stessa, perché lo spazio che Dio occupa in lei (per poco che sia) la impregna al punto da allontanare ogni cosa e da non lasciarle considerare null’altro. Dio fa perdere tutto ciò che è dell’uomo e che il purgatorio purifica.

“LA CHIESA” di mons. De Ségur

Per chi non avesse attualmente ben chiaro che cosa sia la Chiesa di Cristo, unica fondata dal divino Maestro, unica via per giungere alla salvezza eterna dell’anima, magari confondendola con la falsa “chiesa ecumenica dell’uomo”, sbandierata dai media in funzione del mondialismo ormai prossimo venturo (salvo diverse disposizioni dell’ultima ora dell’Altissimo!), o con le altrettanto false “parrocchiette” scismatiche pseudo-tradizionaliste di auto-referenziati “santi” ed obnubilati teologi, anch’esse funzionali all’inganno di “coloro che hanno per padre il diavolo”, riportiamo questo scritto illuminante di un grande autore del XIX secolo, mons. De Ségur, con tanto di imprimatur ed approvazione ecclesiastica, per cui possiamo star tranquilli circa inganni o deviazioni dottrinali, fatte passare disinvoltamente come cattoliche ed alle quali ci hanno assuefatto i modernisti eretici della “nouvelle thèologie” con i loro apostati fiancheggiatori, oramai insediati saldamente nei sacri palazzi, con talari nere, rosse, porpora o bianche … ma dai “sepolcri imbiancati” ci aveva già messo in guardia il divino Redentore.

 

Mons. L.-G. De Segur

“La Chiesa”

[ Roma tipogr. Tiberina, 1883]

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I.

La Chiesa e la Religione.

   La Religione è il vincolo spirituale che unisce Iddio all’uomo; la Chiesa è la forma esteriore che Iddio medesimo ha dato a quel vincolo. La Religione è la conoscenza, il servizio e l’amore del vero Dio; la Chiesa è la società degli uomini fedeli che conoscono e praticano la Religione.

Quel che è il corpo in rapporto all’anima, tale è la Chiesa in riguardo alla Religione. Il corpo e l’anima, creati da Dio e uniti insieme compongono l’uomo vivente; tutto l’intiero uomo. Così è del Cristianesimo che Gesù Cristo ha formato di due elementi, l’uno spirituale ed invisibile che comprende la verità religiosa, la santità, la vita dell’anima e l’altra esteriore, visibile e terrestre che comprende la gerarchia de’pastori, l’insegnamento cattolico, i sacramenti, il culto divino; e l’uno e l’altro sono d’istituzione divina e l’unione di ambedue costituisce il Cristianesimo.

La Chiesa è divina come la Religione, la Religione è quello che insegna la Chiesa, ciò che conserva e difende nel nome di Dio medesimo; ed anche distinguendo la Chiesa dalla Religione è impossibile separare l’una dall’altra, come è impossibile separare l’anima dal corpo volendo conservare la vita. « Che l’uomo non separi quel che Iddio ha unito », tale è la gran legge della vita religiosa dell’umanità. I protestanti hanno fatta tale scissione; altro non è loro rimasto che una chimera di religione. Rigettando la Chiesa, hanno perduto il Cristianesimo e la fede. Il Cristianesimo e la Chiesa non formano che una sola cosa.

II

Se la Chiesa è puramente spirituale.

Np, la Chiesa non è puramente spirituale ed eccone il perché: Essendo la Chiesa la società de’cristiani che conoscono e praticano sulla terra la vera Religione, ella è della medesima natura dei cristiani, cioè spirituale e corporale insieme. Noi non siamo puri spiriti; la Religione nostra non può essere puramente spirituale. Lo è spirituale e tutta celeste e divina perché vien da DIO e perché unisce a Dio la nostre anime; ma necessariamente ella ha una parte tutta terrestre e visibile che associa il nostro corpo al culto che noi rendiamo a DIO e ci applica così interamente ai servizio del nostro Padre che è nei cieli.

Così l’insegnamento religioso della Chiesa, così com’è tutto divino è affidato da GESÙ CRISTO al Papa, ai Vescovi che sono uomini; il sacerdozio della Chiesa ch’è il sacerdozio divino del Cristo si esercita in mezzo di noi mediante i sacerdoti che sono uomini; la grazia di DIO che è puramente spirituale, ci vien comunicata per mezzo dei Sacramenti che sono segni esteriori e sensibili stabiliti a tale effetto dal medesimo Signor Nostro; il culto finalmente che la Chiesa rende a DIO ed il cui oggetto è egualmente spirituale è accompagnato da cerimonie, da riti esteriori che ne sono come il corpo.

Quei tali che pretendono che la Chiesa sia puramente spirituale, non intendono punto di Cristianesimo, o per dir meglio, intendono perfettamente che sbrigandosi della parte visibile della Religione, che altro non è che la Chiesa, si spacciono ad un tempo di quel decalogo insopportabile che violano da mane a sera e da quelle disgradevoli verità cristiane che non parlano che di santità, e di giustizia “che ardiscono minacciare i perversi del fuoco eterno dell’inferno”. Una Chiesa al tutto spirituale, sarebbe assai più comoda; nessuno la vedrebbe, non se ne sentirebbe parlare da alcuno; la non sarebbe incomoda a verun galantuomo. Ecco la Chiesa che conviene alle coscienze de’ liberi pensatori.

III.

Come non può esservi che una sola Chiesa di GESÙ CRISTO.

Egli non vi ha che un DIO; non vi ha che un CRISTO, che una sola fede che un solo battesimo; dunque non può esservi che una Chiesa, vale a dire una sola società che possiede la vera fede, che adori il solo vero DIO, il solo vero CRISTO.

La Chiesa è l’inviata da GESÙ CRISTO sopra la terra; CRISTO non ha due inviati, come non ha due religioni, due dottrine, due battesimi. La Chiesa è una come uno è GESÙ CRISTO. Ella è la sua sola sposa legittima e diletta, che gli da dei figliuoli e gli genera dei cristiani. Quindi gli Apostoli, scrissero, nel simbolo della fede. « Io credo ALLA santa Chiesa » e non ALLE sante Chiese; e il primo Concilio generale, ha formulato questa stessa verità anche più chiaramente dicendo nel simbolo di Nicea — Io credo alla Chiesa che è UNA. »

Se per impossibile si supponessero due vere Chiese, una delle due: o queste Chiese insegnerebbero e praticherebbero la stessa religione ed allora si confonderebbero in una sola; ovvero si contraddirebbero, ed una di esse necessariamente sarebbe falsa e perciò stesso cesserebbe di appartenere a GESÙ CRISTO che è verità infinita. Dunque non può esservi che una sola Chiesa di GESÙ CRISTO.

IV.

Che la sola Chiesa cattolica è l a CHIESA di GESÙ CRISTO.

   Egli è quasi inutile il dimostrarlo. La sola Chiesa cattolica risale per una successione non interrotta di Pontefici e di Vescovi sino a S. Pietro primo Sommo Pontefice e sino agli Apostoli primi Vescovi e primi predicatori del Vangelo. Or chi non sa che GESÙ CRISTO medesimo ha mandato al mondo S. Pietro e gli Apostoli? E per questa ragione che la Chiesa cattolica è nominata altresì Apostolica e Romana. Essa è romana dalla sua origine, da che il suo primo Papa per ispirazione di DIO, elesse la città di Roma per sede episcopale e vi morì martire. Il Papa successore dì S Pietro e Capo visisibile della Chiesa è Vescovo di Roma; ed ogni Chiesa prendendo il nome dal suo Capo, si gloria del nome di Chiesa Romana.

Tutte le altre Chiese spurie che nel corso de’ secoli si sono successivamente separate dalla grande, santa Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana, perciò stesso si sono separate da GESÙ CRISTO, perdettero la grazia di DIO e divennero adultere e non spose. La storia ha registrato la data della loro nascita, ossia del loro divorzio, ed il nome è conosciuto degli uomini perversi che presiedettero a quella separazione, è per sé solo una condanna inappellabile; così il divorzio della Chiesa Greco-Russa in Oriente ebbe compimento nel IX secolo per l’empio Fozio, patriarca di Costantinopoli; quello della Chiesa protestante d’Inghilterra per opera di Enrico VIII e della degna sua figlia Elisabetta nel secolo XVI; la separazione delle sette protestanti di Alemanna, di Francia, etc. per opera del frate apostata Lutero, del fanatico Calvino e di altri uomini di tal tempra; tutti separati da GESÙ CRISTO e dagli Apostoli, non solo per l’interruzione de’ secoli, ma ancora per dottrine al tutto opposte alla vera fede apostolica.

In mezzo alle defezioni delle false Chiese, la Chiesa cattolica s’avanza a traverso i secoli sempre immutabile nella sua dottrina, sempre una nella sua costituzione, nella sua fede, nella sua morale, producendo santi, continuando i suoi miracoli, raddrizzando gli errori umani e diffondendo ovunque penetra, la luce della vera civilizzazione e la vita della vera religione.

v

Se può uno salvarsi fuori della Chiesa

Si, in apparenza, no in realtà — Si: in questo senso che può uno salvarsi senza appartenere esteriormente alla santa Chiesa cattolica. Vi sono infatti fuori della Chiesa delle anime che sono in una perfetta ed invincibile buona fede che amano sinceramente la verità e che si farebbero certamente cattoliche se si conoscessero nell’errore; se d’altronde tali anime sincere, osservano del loro meglio ciò che credono essere la volontà di Dio, se sfuggono a tutto il potere il male, è certo che è possibile la loro salute; perché è di fede che « DIO vuole la salvezza di tutti .gli uomini » e che quei soli si perdono che mettono volontariamente ostacolo a questa santissima e paterna volontà.

Ciò nondimeno è egualmente vero il dire che non può salvarsi fuori della Chiesa. Infatti le anime di buona fede or dette, appartengono alla Chiesa, vale a dire a Cristo Signore nostro che vive ed opera nella Chiesa. Costoro sono cattolici che si ignorano e che non sono responsabili dell’involontaria sventura che li separa esteriormente dalla gran famiglia di GESU’ CRISTO. Dessi non si salvano se non perché sono cattolici e quindi è sempre vero che fuori della Chiesa non vi è salvezza. Il che vale lo stesso che il dire che senza la buona fede è impossibile di appartenere a Dio, né in questo mondo né nell’altro. Che vi ha di più semplice?

VI.

Se può separarsi la Chiesa dal Papa.

Né più né meno di quel che sarebbe il separare il corpo dal capo di un uomo vivo. L’unione del capo al corpo è la prima condizione della vita. Ora avendo GESÙ CRISTO stabilita la sua Chiesa per vivere ed estendere la vita sino alla fine dei secoli, per ciò stesso ha stabilito di diritto divino l’unione del capo e delle membra, l’unione del Papa suo Vicario, suo rappresentante visibile con i Vescovi, i Sacerdoti ed i Cristiani che formano insieme il corpo della santa Chiesa.

Il Papa è il padre della grande famiglia di DIO sopra la terra; ecco perché noi lo chiamiamo nostro Santo Padre; noi lo chiamiamo “santo” perché la sua paternità è tutta spirituale, tutta santa e tutta divina. Come la famiglia forma un tutto composto del padre, della madre e dei figli; cosi la Chiesa forma un tutto composto del Papa, dei Vescovi e dei fedeli.

Egli è dal Papa che i Concilii generali, o ecumenici istessi desumono la loro suprema autorità: senza il Papa, non è possibile Concilio ecumenico; Egli solo lo aduna, egli solo lo scioglie; i loro decreti di fede non sono irreformabili che dopo l’alta sanzione del Papa e per il fatto della stessa sanzione il Papa non soggiace al giudizio di alcuno, a nemine judicatur; Ei non dipende da alcuno e tutti sono dipendenti da lui: Egli è il capo del Concilio perché è capo della Chiesa.

« Il Papa e la Chiesa è una medesima cosa » diceva S. Francesco di Sales; non si può separarsi dal Papa senza separarsi dalla Chiesa. Questo è un dogma di fede e chiunque lo negasse, sarebbe eretico. Non si può colpire il Papa senza ferire col medesimo colpo la Chiesa intera.

   Ora separarsi dalla Chiesa, disprezzarla, colpirla è un separarsi da GESÙ CRISTO e un disprezzare IDDIO, sollevarsi contro DIO: « Chi disprezza voi, disprezza Me. » Gli empi non colpiscono il Papa se non per distruggere la Chiesa; e non pretendono distruggere la Chiesa, se non per arrivare sino a Colui che hanno crocifisso e contro il Quale satana li spinge di continuo con un misterioso ed impotente furore.

VII.

Come è organizzato il governo della Chiesa.

Come un’armata. La Chiesa infatti è l’esercito di Cristo e noi tutti siamo soldati di DIO combattenti il demonio ed il peccato e diretti alla conquista del Paradiso, e da ciò il nome di Chiesa militante. Un esercito ha sempre un generale in capo destinato dal Sovrano a comandare a tutti in suo nome, e perciò tutti, senza eccezione, soldati, ufficiali e generali devono esatta ubbidienza al generale in capo. L’esercito è diviso in vari corpi, comandato ognuno da un capo speciale; e questi corpi si suddividono alla loro volta in reggimenti, in compagnie etc. con ufficiali subordinati gli uni agli altri nell’unità del comando e dell’ubbidienza. In fine per la suprema direzione dell’esercito il generale in capo riunisce a sé lo stato maggiore di ufficiali e di aiutanti di campo che trasmettono i suoi ordini ai diversi capi del corpo.

La Chiesa è organizzata precisamente nella stessa guisa. Il suo Capo supremo rappresentante di Cristo comanda a tutti colla stessa autorità di Colui del quale tiene il posto; tutti devono ubbidirgli e Iddio lo assiste nel suo comando. Il Papa è altresì il Vescovo, il Pastore, è il Pontefice della Chiesa universale, il Vescovo dei Vescovi, il giudice supremo ed infallibile di tutte le questioni religiose. La Chiesa riposa sopra di lui, sulla di lui autorità , in tal modo è stata stabilita da Nostro Signore.

Subordinati al Papa e intorno a lui sono i Vescovi, che uniti al Papa governano le diverse diocesi del mondo e per rafforzare il governo della diocesi e facilitare le relazioni dei Vescovi col Pontefice Sommo, le Diocesi sono riunite in provincie a cui presiedono gli Arcivescovi.

Ciascun Vescovo alla sua volta divide la sua diocesi in un certo numero di parrocchie al governo delle quali sono proposti sacerdoti chiamati curati e con il parroco altri sacerdoti chiamati vicari. Finalmente vengono i semplici fedeli.

Vi si scorge altresì l’unità, la forza e la somma semplicità del governo della Chiesa. Tutti nella Chiesa ubbidiscono al Papa, come nell’esercito tatti ubbidiscono al generale in capo: non vi ha che un comando che da Gesù Cristo passa pienamente al Papa, dal Papa agli Arcivescovi ed ai Vescovi e da questi ai Parrochi ed ai Sacerdoti e si estende fino al più umile dei fedeli.

In quella guisa che lo stato maggiore partecipa al supremo comando dell’esercito rappresentando a riguardo di tutti il generale in capo, cosi nella Chiesa i Cardinali e gli altri ecclesiastici applicati dal Papa a certe funzioni, amministrano e governano a nome del sommo Pontefice tutta intera la Chiesa cattolica. Queste chiamansi Congregazioni Romane; desse sono relativamente al Papa nel governo spirituale, ciò che sono d’altronde i diversi Ministeri a riguardo del capo dello stato. La loro autorità è la stessa autorità del Papa che per loro mezzo giudica, governa e decide tutti gli affari della Chiesa cattolica. I Cardinali, i Prelati e le sacre Congregazioni formano lo stato maggiore spirituale del sommo Pontefice.

Finalmente nella Chiesa come in un’armata, vi sono dei segni esteriori per distinguere i diversi gradi della gerarchia: la sottana o veste sacerdotale per il sommo Pontefice è di color bianco; per i Cardinali è di color rosso; per i Vescovi come per i Prelati, di color violetto; per i semplici sacerdoti di color nero.

VIII.

Che sono nell’organizzazione della Chiesa, gli Ordini Religiosi e le Associazioni Cattoliche?

Quello che presso il pastore è un cane vigilante e fedele, aiutandolo a custodire il gregge e a difenderlo dai lupi. I lupi temono più i cani che il pastore, benché i cani non facciano che secondare il pastore, solo vero pastore, quindi si crederebbero tosto vittoriosi del pastore e del gregge, se potessero sbrigarsi di quegli accoliti importuni che stan sempre in guardia; che vanno e vengono di continuo, tutto vedono e sentono da lungi il minimo lupastro.

Tale è il secreto dell’odio profondo ed incurabile che tutti i lupi a due zampe ebbero sempre, hanno ed avranno ai nostri Religiosi. E benché i Religiosi non facciano parte della gerarchia ecclesiastica propriamente detta, sono suscitati da DIO per assistere potentemente questa sacra gerarchia nella predicazione della divina parola, nella educazione della gioventù, nella direzione delle coscienze, nella conversione dello anime e in tutte le altre opere di zelo cattolico. Gli empi sanno bene quel che fanno allorché se la prendono contro gli Ordini religiosi e quando adoprano contro di essi ora la persecuzione e la violenza, ora la calunnia; sordi intrighi e tutte le astuzie di un’avversione implacabile.

È lo stesso, in grado minore tuttavia, delle Associazioni di fede e di pietà, che suscita da ogni parte nel nostro secolo il risveglio religioso, del che la Chiesa ogni giorno benedice IDDIO. Desse uniscono fortemente i fedeli attorno ai loro Pastori per aiutarli colla preghiera e coll’elemosina a propagare, conservare e difendere la fede, ed estendere il regno di GESÙ CRISTO, a soccorrere i poveri e a salvare le anime. Non vi sono che i malvagi ed i ciechi che ne prendono ombra.

IX.

La Chiesa insegnante e la Chiesa insegnata.

La Chiesa cattolica è composta di Pastori e di fedeli. Il corpo dei Pastori si chiama la Chiesa insegnante; comprende il Papa ed i Vescovi ed in certo senso i Preti; la Chiesa insegnata comprende tutti i fedeli chiunque siano, anche re, e principi. Una tale distinzione è d’istituzione divina.

Quando si parla della Chiesa riguardo alla sua autorità, alla sua missione etc. non si tratta che della Chiesa insegnante, che del Papa e de’ Vescovi, che soli hanno ricevuto da GESÙ CRISTO il diritto e il dovere d’insegnare, di governare e di giudicare. La Chiesa insegnata approfitta di questi privilegi, ma non vi partecipa.

Il Papa riassume in sé la pienezza dell’autorità della Chiesa insegnante; egli ne possiede l’infallibilità dottrinale, la suprema potestà di giudicare senza appello, di comandare o proibire. Ogni Vescovo nella sua Diocesi insegna altresì con autorità; giudica, governa, fa leggi, ma la sua potestà non essendo suprema è dipendente da una potestà superiore; i suoi atti in caso di contesa non sono inappellabili e non hanno valore definitivo se non dopo la conferma del sommo Pontefice. I Vescovi non sono i Vicari del Papa, sono i suoi fratelli e se egli è loro superiore, non è in qualità di Vescovo, ma nella sua qualità di sommo Pontefice eletto da Cristo per pascere le pecore non meno che gli agnelli.

In quanto ai Sacerdoti che IDDIO ha dato ai Vescovi per aiutarli nella carica pastorale, non sono giudici della fede, nondimeno essi insegnano», ma non fanno che trasmettere e distribuire l’insegnamento, a quali essi medesimi lo ricevono. Essi sono alla testa della Chiesa insegnata, come i figli primogeniti della famiglia cattolica.

Tutta la Chiesa è altresì nell’infallibilità religiosa; la Chiesa insegnante perché GESÙ CRISTO è con lei tutti i giorni sino alla fine dei tempi e l’assiste col suo Santo Spirito; la Chiesa insegnata, perché riceve e conserva fedelmente la verità purissima che le apporta il corpo de’ suoi Pastori.

X

Il solo dogma è egli oggetto dell’autorità del Papa e dei Vescovi ?

Non già: la fede è soltanto una parte della Religione come l’intelligenza non è che una parto dell’uomo. Nostro Signore GESÙ CRISTO ha incaricati i Pastori della sua Chiesa di far conoscere e di far praticare agli uomini non solo ogni verità, ma ancora ogni giustizia, tutta la morale, tutta la virtù. La Chiesa è costituita da DIO Madre spirituale e Maestra infallibile di tutti gli uomini, dei popoli come degli individui, dei governanti, come dei governati, dei sapienti e dei filosofi come dei semplici. Essa è inviata da GESÙ CRISTO per essere la luce del mondo » vos estis lux mundi. »

Questa missione dunque comprende assai più del domma. Tutte le questioni umane qualunque esse sieno, dal momento che riguardano la coscienza ed i costumi, sono di diritto divino di sua competenza; nessuno può declinarla senza ribellarsi contro GESÙ CRISTO che a Lei ha dato la sua missione « chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me »!

E siccome la Chiesa è infallibilmente assistita da Dio, in tutto ciò che concerne l’adempimento del suo dovere, essa sola è competente per regolare ciò che a lei spetta, ciò che ò giudicabile dal suo tribunale e ciò che spetta alla sua giurisdizione. I nostri scrittorelli giornalisti, urleranno e sbraiteranno a loro posta; il buon DIO cosi ha stabilito; e ciò che è fatto è fatto.

Che dire in conseguenza dell’ anticristiana stranezza di taluni che decidono dall’altezza della loro ignoranza che il Papa ed i Vescovi non sono cristiani, che non intendono i veri interessi della Religione, agitano imprudentemente le coscienze, dovrebbero fare così, hanno torto di fare quell’altro etc. etc? È il povero ortolano della favola che vuol risalire alla Provvidenza; è stenterello che non sa leggere e che tratta di filosofia; è il ciabattino che con i lumi della sua botteguccia discute la politica del suo governo. Povere teste stravolte! … e ancor peggio, poveri cuori ribelli e molto colpevoli!

XI.

La Chiesa fa ella poco conto delle potestà secolari?

Nessuno come la Chiesa rispetta la potestà laica. Essa rispetta e fa rispettare tutte le vere autorità; la famiglia, la proprietà, la società, lo stato. Anche di recente per la bocca de’ Sommi Pontefici ha condannato le erronee dottrine di Lamennais e delle sette rivoluzionarie che pretendevano che la potestà temporale sia un’usurpazione e che l’insurrezione sia il più santo dei doveri.. I settari detestano la Chiesa precisamente a causa dell’incrollabile energia con cui difende tutti i princȋpi d’ordine e di ubbidienza, tanto nella società civile come nella società religiosa.

Se nel corso de’ secoli la Chiesa talvolta ha biasimato, giudicato ed anche condannato gli atti di certi principi e di certi stati, non è stato perché facesse poco conto delle potestà secolari, ma unicamente perché il suo dovere religioso l’obbligava a difendere verso e contro tutti la giustizia e la verità e i grandi princȋpi della pubblica morale. È il peccato è l’ingiustizia che ha colpito e non già l’autorità dei principi. Operando in tal guisa ella ha fatto per le nazioni e i loro sovrani ciò che fa ogni giorno per gl’individui ; essa ha illuminate e raddrizzate le loro coscienze, ha mostrato loro la via del dovere, si è sforzata di ricondurle al bene, non le ha mai condannate né colpite di anatema che dopo aver esaurito tutti i mezzi di persuasione e di dolcezza.

   Il demonio e gli amici suoi nel denunziare la Santa Sede e l’Episcopato come nemici delle potestà laiche, hanno un solo scopo, ed è di sollevare contro la Chiesa il braccio secolare e far rovesciare col trono l’altare, che ne è il più solido sostegno.

Il potere secolare è degno di sommo rispetto in tutto ciò che si attiene al governo temporale degli Stati; ma nel suo stesso governo deve essere morale, deve essere secondo DIO, deve aiutare nel miglior modo la missione di salute che la Chiesa ha ricevuta dal Signore per santificare e per salvare tutti gli uomini; e se è giusto ed equo, non deve meravigliarsi che i Pastori delle anime gli rammentino i suoi doveri in nome di GESÙ CRISTO, lo illuminino e lo riprendano come lo fanno per ciascuno dei fedeli. Laico, vuole egli forse dire anticristiano? Se cosi fosse, nessuno in coscienza potrebbe esser laico.

XII

Quale influenza cerca la Chiesa di conquistare in questo mondo.

È l’influenza del bene, dei buoni costumi, della giustizia; del servizio di DIO. Essa non vuole altro, checché ne dicano i suoi nemici ; ma cotesto ella lo vuole, lo vuole ad ogni costo e per conquistarlo non risparmia né fatiche, né sudori, né il suo sangue. Che importano alla santa Chiesa i vani calcoli dell’umana politica? Essa non vi s’immischia se non in vista della coscienza ed allora è nel suo diritto.

La Chiesa romana vuol far regnare GESÙ CRISTO nel mondo perché è inviata per questo. Il divino Maestro prima di ritornare in cielo le disse « mi è stato dato ogni potere in cielo e sopra la terra. Andate adunque ammaestrate tutte le nazioni ed in-segnate loro ad osservare le mie leggi » ed essa va, coll’autorità di DIO, facendoLo conoscere, facendoLo servire ed amare. Nessuna cosa la trattiene e nulla mai la tratterrà. Per far trionfare la verità ella invoca con egual diritto la libertà e l’autorità; mezzi umani che ritraggono tutta la loro eccellenza dal buon uso che se ne fa e che la Chiesa onora grandemente facendoli servire alla salvezza delle anime.

Che si gridi quanto si vuole alla doppia faccia, all’usurpazione all’agitazione clericale, all’orgoglio del clero e ad altri travisamenti di tal genere: la Chiesa non adempirà meno perciò la sua santa, potente, la sua dolce e benefica missione. Ella salva anche quelli che dopo averla bestemmiata nel modo il più indegno, le chiedono aiuto nel giorno del pericolo e della prova.

No, la Chiesa non usurpa quando ammaestra i principi ed i popoli, quando si oppone a quello che è vietato da DIO, quando condanna sulla terra ciò che GESÙ CRISTO condanna in cielo. Ella fa il suo dovere a riguardo di quelli che non fanno il loro. Dessa non turba mai le coscienze se non quando bisogna destarle da un sonno pericoloso; essa non agita mai se non le questioni che devono essere agitate ed il suo preteso orgoglio non è altro se non il profondo ed unico sentimento della divina missione che tiene da DIO. Avventurati anche in questo mondo quei che accettano con amore la divina influenza della Chiesa e quindi si sottraggono dall’influenza malefica di tutte le pazze idee che sconvolgono le intelligenze e rovinano le società insieme colle anime.

XIII.

Se i Vescovi ed i Preti sono funzionari pubblici.

Essi non lo sono in verun senso. I ministri di DIO, non possono essere ministri dei re della terra. L’annuo stipendio che i vescovi e curati cattolici ricevono da certi governi, non cambia in verun modo il loro ministero. In Francia a mo’ d’esempio, un tale stipendio, non è un salario di pubblico funzionario, ma bensì il pagamento di un debito riconosciuto ufficialmente dall’Imperatore Napoleone I innanzi al Papa Pio VII dopo la grande rivoluzione. Le proprietà del clero erano state involate e confiscate ed il Papa, supremo amministratore di tutti i beni della Chiesa, cedette a’ suoi diritti su quelle proprietà ingiustamente rapite, mediante una scarsa indennità che il governo francese assunse l’impegno di pagare annualmente ai Vescovi ed ai Parroci di tutto le Chiese di Francia.

Lo stipendio de’ funzionari civili, non ha in verun modo un tal carattere. Gli è uno stipendio onorevole, senza dubbio, ma in fondo è un vero salario per i servizi che rendono allo Stato. La loro autorità è soltanto una delegazione del potere civile; ed una tale delegazione può cessare per la sola volontà del Sovrano che loro la toglie a suo piacimento.

I Vescovi ed i Sacerdoti al contrario esercitano il ministero cattolico in nome di DIO soltanto; non dipendono che da GESÙ CRISTO e dal Papa suo Vicario. La loro missione sorpassa i limiti di tutti gli Stati e li domina come il cielo domina la terra. Essi predicano il rispetto per l’autorità temporale senza dipendenza da lei, almeno in ciò che concerne il loro santo ministero; poiché è un non intender nulla delle questioni spirituali e temporali, religiose e civili l’assimilare i ministri della Chiesa ai funzionari dello Stato, come fanno tutto giorno quei deplorabili giornali che inondano e pervertono l’Europa.

XIV

Come sì fa il Vescovo.

Affinché un sacerdote eserciti le sacre funzioni dell’Episcopato, richiedonsi due condizioni. Bisogna primieramente che sia eletto ed istituito dal Sommo Pontefice che è il Vescovo de’ Vescovi incaricato da GESÙ CRISTO di governare e di far governare dai suoi venerabili Fratelli i Vescovi, ogni porzione della Chiesa universale. Nella Chiesa il solo Papa ha il diritto di fissare nel mondo intero i limiti delle Diocesi, di crearne delle nuove e d’investire della giurisdizione pastorale il sacerdote a cui giudica a proposito di confidare l’incarico di una Diocesi. La giurisdizione è il potere di governare, d’insegnare, di giudicare, di sciogliere o di legare. Senza questa giurisdizione, che appartiene pienamente al Papa e che egli solo può conferire, un prete non ha alcun potere ecclesiastico in una diocesi ; se un prete si permettesse di farla da Vescovo, di far leggi, di dare dispense, tutti i suoi atti sarebbero nulli di pieno diritto ed egli stesso incorrerebbe ipso facto la scomunica maggiore, degna punizione degli scismatici e degli intrusi.

La seconda condizione richiesta perché un prete possa esercitare legittimamente e validamente le funzioni episcopali è la consacrazione per mezzo dei Sacramento dell’Ordine. Se mai, come è accaduto talvolta in tempi di scisma, si trovasse un Vescovo ed un prete sì dimentichi de’ loro doveri l’uno per conferire e l’altro per ricevere la consacrazione episcopale, senza la volontà del Papa, lo sciagurato prete consacrato in tal guisa, avrebbe veramente il carattere di Vescovo, potrebbe validamente amministrare il Sacramento di Confermazione e il Sacramento dell’Ordine; ma tutto ciò sarebbe illecito in prima linea; come la consacrazione eucaristica fatta da un prete interdetto, è valida, ma illecitissima, colpevolissima e sommamente sacrilega.

In seguito di certe convenzioni dette concordati tra la Santa Sede e diversi governi temporali, la designazione o nomina de’ futuri Vescovi è lasciata dalla Chiesa all’iniziativa del Sovrano. Ma una tal nomina non ha alcun valore religioso finché non è ratificata dal Papa con un atto ufficiale a cui nulla può supplire e che chiamasi L’istituzione canonica.

Ecco in qual modo un prete può divenire Vescovo.

XV

Che cos’è uno scisma.

Lo scisma ò un gran peccato e una grande follia. È la separazione dal Papa Capo della Chiesa, e per conseguenza la separazione dalla Chiesa società di DIO: e quindi la separazione da DIO stesso. Lo scisma è la rivolta di un certo numero di cristiani, ecclesiastici o laici, contro la legittima autorità della Chiesa e del suo Capo. È un peccato mortale di prim’ordine e i principi, i Vescovi, i preti e i laici che se ne rendono colpevoli, avranno a renderne al tribunale di GESÙ CRISTO un conto tanto più terribile, quanto che quasi sempre questo delitto di alto tradimento cattolico è seguito dal delitto di eresia ancor più grave; la disubbidienza ha per degna ricompensa l’apostasia dalla fede; la Grecia, la Russia, la Svezia, la Prussia, l’Inghilterra, per lo scisma sono state gettate nell’eresia.

Una Chiesa scismatica, vale a dire separata dal Papa e dalla Chiesa universale, cade immediatamente sotto il giogo delle potestà di questo mondo e si avvilisce ben tosto in una servitù vergognosa. Ella perde tutto il suo sugo religioso, tutta la sua morale autorità, tutta la sua forza, tutta la sua dottrina; ella diviene nelle mani del potere un istrumento servile e spregiato e bene spesso il suo ministero non è che un soccorsale di polizia. Questo chiamasi una Chiesa nazionale ed un clero raffazzonato in tal guisa, ha la fortuna di possedere una Costituzione civile.

Povere Chiese nazionali e povere costituzioni civili del Clero! Voi siete troppo degne di compassione per essere da noi paventate, troppo assurde per metterci a confutarvi ! Membri vivi della Santa Chiesa di DIO, noi vogliamo sempre vivere della sua vita, non formare che una medesima cosa con essa e col Cristo e rimanere inviolabilmente unite al sommo Pontefice che è il centro dell’unità cristiana, il solo Dottore che mai travia, il Vescovo universale di tutti i figliuoli di DIO! LO scisma è la morte è il disonore, e noi nol vogliamo.

XVI.

Della menzogna storica contro la Chiesa ed il Papato

« Mentiamo, mentiamo francamente, scriveva l’onesto Voltaire ad uno de’suoi onesti amici, ne resterà sempre qualche cosa » ecco la parola d’ ordine che da più d’un secolo seguono fedelmente tutti i nemici della fede. Essi hanno mentito, mentiscono e mentiranno; e DIO sa se ne rimane qualche cosa !

Ahimè! questo diluvio di menzogne inonda non solo la Francia, ma l’Europa ed il mondo intero. È una vasta cospirazione che snatura i fatti, parodia tutti i caratteri, inventa tutte le falsità per far credere alla gioventù, al popolo e a tutti, che la Chiesa cattolica è uno spegnitoio, un focolare d’intrighi di tenebrosi maneggi; di delitti; che il Papato ò violento e sanguinario, che la sua esistenza è incompatibile colla sicurezza della Stato, colla pubblica pace; ch’ella non vive che di ambizione e di cupidigia, che i Papi furono i nemici del genere umano e che è giunto il tempo di vendicare quell’abominevole papato. Ecco ciò che si dice, ecco ciò che si scrive, ciò che si stampa in tre quarti de’ nostri giornali, nei romanzi sedicenti storici, coadiuvati in ciò da innumerevoli libelli anticlericali che diffonde a milioni la propaganda protestante. Ecco ciò che si dice e che si crede, la MENZOGNA STORICA è la grande arma degli empi.

Io non posso qui confutare in dettaglio tali calunnie sì grossolane e detestabili; io mi limito a constatare il fatto ed asserirlo innanzi a DIO e innanzi alla scienza e a supplicare ogni persona onesta, nell’interesse della sua eterna salute, di non prestar fede a tali affermazioni malefiche che produce ogni giorno non l’amore della verità, ma una cieca ignoranza, un odio satanico contro Nostro Signore Gesù Cristo.

XVII.

Che la sola Chiesa è la madre de’ piccoli e de’ poveri.

Egli è un fatto sì notorio e sì pubblico che è inutile stabilirlo con prove. La sola Chiesa cattolica fa le suore della carità, i fratelli delle scuole Cristiane, le piccole sorelle de’ poveri. Il succo divino che possiede la vera Chiesa soltanto, può produrre, perpetuare e sviluppare in proporzioni gigantesche quell’incomparabile sacrificio di sé, quell’umile eroismo di ogni giorno, di cui il cielo sarà la magnifica ricompensa. Le sette protestanti e le Chiese nazionali, hanno voluto tentare un tal prodigio; elle fecero come il corvo della favola, che volle imitare l’aquila prendendo un montone; desse furono prese là appunto ove credevano prendere e si è veduto una volta di più ciò che la sola verità genera la carità.

La Chiesa cattolica è la madre dei poveri, dei fanciulli, dei piccoli, dei deboli, di tutti quelli che hanno bisogno di amore. Essa sola li ama in pratica come in teorica. Le altre hanno talvolta la teoria e cianciano e scrivono sulla beneficenza, ma lasciano alla Chiesa, a suoi ministri ed a’ suoi Ordini religiosi, l’ardua fatica del servizio de’poveri, dell’educazione religiosa de’ fanciulli, della cura degli infermi, de’ mentecatti degli abbandonati, la visita de’ poveri vergognosi; in una parola il sollievo delle umane miserie.

L’amore di GESÙ CRISTO, che s’intenda bene, 1’amore della Vergine MARIA, l’amore al Santissimo Sacramento, il celibato cattolico, l’abnegazione della vita religiosa, ecco il segreto, ecco la sorgente inesauribile della cristiana carità della Chiesa. Essa soltanto possedé un tal segreto, questa viva sorgente, ed ecco perché sola, ad onta delle ingratitudini di cui è tutto giorno abbeverata, è passata e passa come GESÙ CRISTO, facendo il bene, transiit benefaciendo, UNITÀ, VERITÀ, CARITÀ: tal’è l’inimitabile divisa cattolica!

XVIII.

Del grande delitto di chi osteggia la Chiesa

Assalire la Chiesa e la Santa Sede, è assalire GESÙ CRISTO; è assalire IDDIO « chi disprezza voi me disprezza » La guerra alla Chiesa di qualsivoglia pretesto si cerchi di ricoprirla, è una guerra sacrilega e parricida, perché la Chiesa è l’opera di DIO e la Madre dell’umanità. Qual nome è da darsi ad un figlio perverso che odia la madre sua, che la calunnia, l’oltraggia, la percuote; che vorrebbe discacciare ed uccidere?

Assalire la Chiesa è assalire l’anima e la salute eterna di ciascun di noi; perché l’anima nostra e la nostra salute sono confidate dalla Provvidenza, alla Chiesa, come la nostra vita e la nostra sanità quando eravamo nell’infanzia, erano dalla medesima Provvidenza affidate alla nostra buona madre. È un assalire la società e l’incivilimento, che sono egualmente l’oggetto della sacra missione della Chiesa cattolica e che ben tosto degenerano, quando la luce della fede e la forza della religione non le garantiscono.

È osteggiare sopra tutto il povero popolo, l’immenso numero degli sventurati che non hanno in questo mondo per loro porzione, che lacrime e privazioni e che la Chiesa sola sa consolare, loro mostrando l’Eternità che si avvicina, loro mostrando la culla, la croce di GESÙ CRISTO, i patimenti dei martiri, le fatiche dei Santi, il tabernacolo dell’Eucaristia, il cuore paterno del prete, l’amor tutelare e tenero della Beata Vergine MARIA, Madre del dolcissimo Salvatore.

Finalmente è un’osteggiare l’infanzia la cui innocenza e debolezza non hanno altro ricovero che la Chiesa e della quale IDDIO ha detto nel suo Vangelo « se alcuno scandalizza uno di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio che gli fosse legata al collo una macina e fosse gettato in fondo al mare! »

Lo stesso Signore ha detto inoltre: « se alcuno non ascolta la Chiesa, che sia per voi come un pagano ed un ladro » Che sarà mai di coloro che non solamente non danno ascolto alla Chiesa, ma ribellano apertamente contro di essa, sollevano sopra il sacro capo di lei una mano maledetta! Questi tali sono sulla spaziosa strada che conduce dritto all’inferno, lata via quae ducit ad perditionem.

XIX.

Se la Chiesa abbia a durare ancor lungo tempo.

Noi non ne sappiamo nulla: ma ciò che noi sappiamo, perché GESÙ CRISTO ed i suoi Apostoli ce l’hanno detto, è che la Chiesa durerà quanto il Mondo, mentre questo non esiste se non per il Cristo e la sua Chiesa. Quel che sappiamo è che all’avvicinarsi degli ultimi tempi della Chiesa e del mondo, vi saranno terribili seduzioni capaci di far crollare gli stessi eletti; un apostasia generale delle società, come società; una perdita quasi universale della fede, flagelli e miserie d’ogni genere; finalmente una generale persecuzione più formidabile di tutte le precedenti ed una tribolazione tale, dice il Vangelo, che non ve ne sarà stata altra somigliante dal principio del mondo: “tribulatio magna, qualis non fuit ab initio mundi”.

Codesti tristi giorni sono a noi vicini? Io l’ignoro, ma ciò che so e tutti vedono è che una crisi spaventevole minaccia la Chiesa nel mondo universo e che a noi tutti fa d’uopo, se non si vuole soccombere alla tentazione, vegliare e pregare, divenir più veramente cristiani, più solleciti degli interessi della fede, più assidui alla sacra mensa, più generosi al sacrificio; in una parola, più santi e più distaccati dalla terra. Bisogna pagare colla nostra persona, pagare con i nostri beni, metterci interamente al servizio di GESÙ o della sua Chiesa. Noi non abbiamo nulla a temere: noi siamo di DIO e l’avvenire è nostro ! Che il sacro esercito di Cristo rinserri le sue fila attorno a’ suoi capi immediati, che sono i Vescovi e attorno al supremo Pastore delle anime che è il Sommo Pontefice; che non si lasci sedurre dalle astuzie scismatiche di Satana e che nelle prove che potranno sopraggiungere, si rammenti sempre la gran parola di S. Ambrogio: OVE È PIETRO, IVI È LA CHIESA. “Ubi Petrus, ibi Ecclesia”.

 

 

Uomini liberi e schiavitù delle bestie!

Uomini liberi e schiavitù delle bestie!

[Tit. redaz.]

[da: “Trattato Dello Spirito Santo”, J.- J. Gaume; cap. XVII, e XVIII]

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I Cittadini delle due Città.

   Ogni società si divide in due classi; governanti e governati: conosciamo i re ed i principi della Città del bene e della Città del male. Quali ne sono i cittadini? Questa è la questione alla quale dobbiamo noi ora rispondere.

I cittadini, ovvero i sudditi della Città del bene e della Città del male, sono tutti gli uomini. La ragione, l’esperienza e la fede ce l’hanno detto”: non vi sono tre città ma due sole. Faccia egli quel che si voglia, bisogna che l’uomo, qualunque sia il suo nome e il suo grado, appartenga all’una od all’altra: questa alternativa è crudele.

Incominciata essa con la vita, non finisce neppure con la morte. Unita al duplice quadro del mondo angelico e del mondo satanico, che passa sotto i nostri occhi, ci rivela la vera posizione dell’ uomo quaggiù. Chi può riguardarlo senza essere commosso sino alla profondità dell’ essere suo ?

     Il nostro corpo, fragile come un vetro, vive tra due forze spaventose, il cui antagonismo potrebbe ad ogni secondo divenire a noi fatale. Secondo i calcoli della scienza, la colonna d’aria che pesa sul capo di ciascuno di noi, rappresenta un peso di 20,000 libbre. Chi ci salva dalla distruzione? Soltanto l’aria che è dentro di noi, intorno a noi, e sotto di noi. Quest’ aria fa resistenza alla massa superiore e rende la vita possibile. Appena che l’equilibrio viene a rompersi, subito l’uomo resta schiacciato.

Cosi succede della nostra anima. Essa vive della sua vera vita, la vita della grazia, fra due potenze nemiche e di una forza incalcolabile. All’ equilibrio di queste due potenze essa deve evitare leterna rovina. La conservazione della nostra vita spirituale è dunque un miracolo non meno continuo, non meno sorprendente, ma molto più degno di riconoscenza che la conservazione della nostra vita fisica.

Nelle stesse condizioni è posta evidentemente l’esistenza delle società. L’influenza più o meno determinante del mondo angelico o del mondo satanico, rende conto delle alternative di lumi e di tenebre, di delitti e di virtù, di libertà e di servitù, di gloria e di vergogne, di prosperità e di catastrofi, che segnalano di quando in quando gli annali dell’ umanità. Tale è la vera filosofia della storia. La prova non dubbia di questo fatto rivelatore dell’innalzamento e della caduta degli imperi, è la storia medesima della Città del bene e della Città del male: noi la delineeremo ben tosto a grandi tratti.

Frattanto notiamo che una sola cosa costituisce, tanto al morale che al fisico, tutto il pericolo della situazione, la rottura cioè dell’ equilibrio. Essa ha luogo nell’ordine spirituale, tutte le volte che l’uomo dà la preponderanza su sè medesimo allo Spirito del male, piuttosto che allo Spirito del bene; cosa che dipende da lui, unicamente da lui. A fine di distornarlo da quest’atto di colpevole follia, a cui lo sollecitano di continuo i principi della Città del male, lo Spirito Santo non si contenta di fornirgli tutti i mezzi di resistenza, ma gli mostra le conseguenze della sua fellonia. Esse sono terribili, subitanee, inevitabili: é la schiavitù, l’onta ed il castigo.

Triplice baluardo con cui il Re della città del bene circonda la sua felice Città, all’ oggetto di preservare i suoi sudditi dalla tentazione di uscirne.

La schiavitù. — La libertà è figlia della verità: Veritas liberabit vos. La Città sola del bene, diretta dallo Spirito di verità, è la patria della libertà. I disertori nell’abbandonarla, per entrare nella Città del male, imparino ad arrossire. No, essi non glorificano la libertà, ma la disonorano: essi non camminano alla conquista della indipendenza, ma diventano schiavi: e lo sono di già. Da lungo tempo la logica e la fede hanno pronunziata la loro sentenza. La libertà non consiste nel fare il male, ma nell’evitarlo. Quanto più lo evitiamo, tanto più siamo liberi. « Bisogna, dice san Tommaso, ragionare del libero arbitrio come dell’intelletto. Il libero arbitrio sceglie tra gli atti che si riferiscono al fine; l’intelletto trae le conclusioni dai princȋpii. Ora ognun sa che entra nelle attribuzioni dell’intelletto quella di trarre delle conclusioni, ma sempre logicamente discendenti da dati princȋpii. Che se, nel trarre una conclusione, dimentica o disprezza i princȋpi, è una imperfezione, una debolezza da parte sua. « Parimente, la perfezione del libero arbitrio consiste nell’avere la facoltà di fare differenti scelte, ma sempre relative al fine proposto. Per esempio, gli accade di fare una scelta contraria al fine ultimo dell’uomo? Questa non è una perfezione, ma una debolezza e un difetto. Quindi risulta che la libertà, o la perfezione del libero arbitrio è più grande negli Angeli che non possono peccare, che in noi che peccare possiamo. »

Tale è dunque la dottrina dell’Angelo della Scuola: la libertà è il potere di fare il bene, come lintelletto ha la facoltà di conoscere il vero. La possibilità di fare il male non è più dell’essenza della libertà: quanto la possibilità d’ingannarsi, non è dell’essenza dell’ intelletto ; come la possibilità d’essere malato non è dell’essenza della salute. L’impeccabilità è la perfezione della libertà, come l’infallibilità è la perfezione dell’intelletto; come l’essere liberi da infermità è la perfezione della salute.

Essere peccabile è dunque un difetto nella libertà, come essere fallibile lo è nell’ intelletto; come essere malato lo è nella sanità. Ne segue dunque che quanto più l’uomo pecca, tanto più mostra la debolezza del suo libero arbitrio; parimente quanto più egli s’inganna, tanto più mostra la debolezza della sua ragione; cosi quanto più è malato tanto più egli fa prova di cattiva salute.

Altresi, l’uomo quanto più pecca e sragiona più che mai si degrada e si rende spregevole, imperocché si riavvicina sempre più al fanciullo che non ha ancora né la libertà, né l ‘intendimento, e all’insensato che non l’ha più, o alla bestia che non l’avrà mai. Questa verità fondamentale è la prima armatura della quale lo Spirito Santo ci riveste, il primo motivo dato all’uomo di rinchiudersi eternamente dentro i confini della Città del bene. Molti non lo comprendono. Sedotti dai principi della Città del male, moltissimi vengono a riguardare il giorno in cui si emancipano dalla sovranità dello Spirito Santo, come il giorno natalizio della loro libertà.

Poveri ciechi! che una volta almeno guardino in faccia la verità: né gli costerebbe molto. Essa è scolpita nella schiavitù di tutte le facoltà della loro anima: nella degradazione di tutte le membra del loro corpo, in tutte le pagine macchiate della loro pretesa vita indipendente.

Giovani o vecchi, ricchi o poveri, letterati o illetterati, per avere disertato dalla Città del bene, traditi i voti del vostro battesimo, arrossito della fede della vostra infanzia e delle pratiche de’ vostri avi, vi credete voi forse liberi? lo siete voi? È vero, voi camminate con la testa alta e con lo sguardo sicuro. Le vostre labbra si contorcono al riso, e la vostra fronte si nasconde sotto un sembiante di gaiezza. Al suono metallico della vostra voce, ed al tuono imperioso delle vostre parole si potrebbe prendervi per i reggitori dell’umanità. Ciò nonostante voi non siete che tanti schiavi, schiavi infelici, e schiavi della peggiore specie.

In luogo di un solo Padrone, altissimo e santissimo che voi rifiutate di servire come egli l’intende, servite altrettanti padroni che sono le vostre ignobili passioni; e fuori di voi, altrettante creature che possono procurarvi o disputarvi l’insigne onore di soddisfarle. Voi le servite, non come l’intendete, ma come esse l’intendono.

Padroni spietati, essi vi trascinano con la corda al collo, o vi cacciano con la bacchetta alla mano in tutte le tenebrose vie del male. Trascinati lontano dal paese natio, avete dimenticato la strada dei nostri templi; ma sapete a mente la strada dei teatri e di altri luoghi. Il calice del Dio Redentore, in cui con la vita si beve la virtù, l’onore, la libertà, il pacificamento dell’anima e dei sensi, vi è di disgusto; e voi bevete a lunghi sorsi il calice del demonio, in cui con la morte, si beve il delitto, la vergogna, la schiavitù, la febbre dell’anima ed i furori della disperazione. Immaginandovi d’esser troppo grandi agli occhi vostri per portare su di voi le insegne protettrici della Regina del Cielo, voi portate invece, incastonati nell’oro i capelli di una cortigiana. Uomini e non angeli, bisogna che amiate la carne. Voi non avete voluto amare la carne immacolata dell’Uomo Dio, amerete la carne immonda di ima creatura immonda.

Vorreste invano respirare talora l’aria della libertà. Come tanti uccelli impaniati nelle ‘perfide reti, non potete prendere il vostro volo. Ad ogni tentativo, una voce spietata, la voce dei vostri padroni mascolini o femminini si fa udire; non fare resistenza, tu sei mio.

Dandomi la tua volontà tu mi hai dato tutto. Dammi il tuo danaro, dammi le tue notti, dammi le rose delle tue gote; dammi la pace della tua anima, dammi la salute del tuo corpo; dammi la gioia di tua madre; dammi le speranze di tuo padre; dammi l’onore del tuo nome, e voi lo date!                                          Siete liberi?

Silenzio! schiavi:

non profanate nel pronunziarla, una parola che vi accusa. Schiavi nella vostra intelligenza, tiranneggiata dal dubbio e dall’errore; schiavi nel vostro cuore, tiranneggiato da brutali appetiti, cosa è la vostra vita se non che un panno lordo? Che forse la storia della vostra vita è quella di uno schiavo? Sciagurati! che non potete scendere nella vostra coscienza senza ascoltarvi una voce che vi accusa, né contemplare le vostre mani senza vedervi il segno dei ferri o i vostri piedi senza rinvenirvi la palla del galeotto! Figli di re diventati guardiani di porci; ecco quel che voi siete. Avete proprio ragione di andarne superbi ! [Misit illum in villam suam ut pascerei porcos. Luc., xv, 15].

La schiavitù dell’anima: ecco ciò che incontrano tutti gli uomini che mettono il piede fuori del recinto della Città del bene: poiché sta scritto: « dove abita lo Spirito del Signore ivi, e ivi soltanto, abita la liberta.1 » [Ubi autem Spiritus Dei, ibi libertas. II, Cor, III, 17].

Ora nel mondo morale, come nel mondo materiale avvi una legge che la parte superiore attrae l’inferiore: Major pars trahit ad se minorem. Alla servitù dell’anima si aggiunge necessariamente la schiavitù del corpo: per conseguenza la schiavitù sociale. Non basta il ripeterlo spesso, e oggi soprattutto: la libertà civile e politica non si trova né nella punta di un pugnale, né nella bocca di un cannone, né sotto il lastrico di una barricata. Essa è figlia non di una carta né di una legge, né di una forma qualunque di governo, ma della libertà morale. Checché ne dica o faccia:

ogni popolo corrotto è uno schiavo nato!

   La libertà morale suppone la fede: la fede è la verità, la verità non risiede che nella Città del bene.

Volete voi averne la prova? pigliate un mappamondo. Accanto al dispotismo dell’errore che cosa vi mostra esso? Dappertutto il dispotismo dell’oro, il dispotismo della carne, il dispotismo della materia, e sopra tutti questi dispotismi, quello della sciabola. Che cosa è dunque una società che scuote il giogo dello Spirito Santo? Testimoni non sospetti, gli stessi pagani rispondono: « È una quantità di bestiame sopra un mercato, sempre pronto a vendersi al migliore offerente. » [Parole di Giugurta, in Sallustio].

Più che la storia antica, la storia moderna non dà loro neppur l’ombra di una smentita. Come è egli trattato il bestiame umano? Come se lo merita. satana, a cui si dà, abbandonando lo Spirito Santo, gli manda dei padroni fatti di sua mano. Nerone, Eliogabalo, Diocleziano e tanti altri, s’incaricano di far gustare all’uomo emancipato le dolcezze della libertà, della quale gode la Città del male. Per un ricambio di misericordiosa giustizia, Iddio medesimo permette l’esaltazione di queste tigri coronate. A questo proposito la storia riferisce un fatto che dà da riflettere. Siccome i popoli hanno sempre il governo che essi si meritano, una crudele bestia, chiamata Foca, erasi assisa sul trono imperiale di Roma. Per suo ordine il sangue scorreva a torrenti; e la bestia lo beveva come una delizia. Un solitario della Tebaide, stomacato più che afflitto di un tale spettacolo, si rivolge a Dio e gli dice: “Perché, o mio Dio, l’avete fatto voi imperatore?” E Dio gli risponde: “Perché non ne ho trovato uno più malvagio”.

Cosi, conservare la libertà con tutte le sue glorie, tale è per l’umanità il primo vantaggio del suo soggiorno nella Città del bene; il perdere questo tesoro e trovare la schiavitù, tale è, se essa osa varcarne il recinto, il suo primo castigo.

La vergogna. — Di libero diventare volontariamente schiavo è un’onta. D’uomo diventar bestia è ancora una maggiore. Quest’onta inevitabile è il secondo baluardo, di cui lo Spirito Santo circonda la Città del bene per impedir all’uomo di uscirne.

Indiarsi [divenir Dio -n.d.r.-], o farsi bestia: ecco i due poli opposti del mondo morale. 0 Dio, o bestia; tal’è la suprema alternativa in cui si trova posto l’uomo quaggiù. La ragione è ch’egli è obbligato a vivere sotto l’impero del Re della Città del bene, o sotto l’impero del Re della Città del male. Ora, e l’uno e l’altro di questi Re fa i suoi sudditi ad immagine sua: Iddio, lo Spirito Santo, li fa dii: Satana bestia, li fa bestie. La città del bene è una grande fabbrica di Dei, e la Città del male una grande fabbrica di bestie. «Ciascuno di noi, dice sant’Agostino, è come il suo amore. Se ami la terra, tu sarai terra: se ami Dio, tu sarai dio. »

« Restate con me, dice lo Spirito Santo, ed Io vi faccio figli di Dio, Dii veri, Dii per l’essere divino che vi comunico: Dii per la verità dei vostri pensieri; Dii per la nobiltà dei vostri sentimenti; Dii per la santità della vostra vita; Dii per l’indomita potenza della vostra volontà contro il male, armato di sofismi, di promesse o di minacce; Dii pel diritto all’eredità eterna di Dio, vostro Creatore e vostro Padre.»

Lo Spirito Santo ha mantenuta la parola. Vedete ciò che sono diventati gli Angeli docili alla sua voce. Risplendenti di gloria, inondati di voluttà, dotati di tutti gli attributi divini, l’intelligenza, la forza, la bontà; essi si avvicinano a Dio, quanto il finito può avvicinarsi all’infinito. Vedete l’umanità cristiana nei suoi veri rappresentanti, gli Apostoli, i martiri, le vergini, quelle legioni di santi e di sante, divinamente generati da diciotto secoli e più oltre, su tutti i punti del globo. A quale altezza essi innalzano l’umanità cristiana al disopra dell’umanità pagana, al disopra dell’umanità che cessa d’essere cristiana!

Che cosa sarà se voi contemplate questa deificazione nel suo complemento, cioè dire negli splendori dell’eternità? Qui è che la parola, spirando sulle labbra, non può più fare udire se non che l’espressione della sua impressione: « No, l’occhio dell’uomo non ha punto visto, né il suo orecchio ha punto inteso, e ancor meno il suo cuore il quale, per quanto vasto egli sia, non può comprendere ciò che Dio riserba a coloro, che sono divenuti per l’amore, suoi figli e suoi eredi. »

Dal canto suo, il principe della Città del male travaglia con accanimento all’opera contraria. Allorché attira a sè un uomo, lo piglia nelle sue granfie, gli acceca lo spirito, gli corrompe il cuore, lo inebria co’ suoi veleni e lo trasforma in bestia. Considerate piuttosto, che la bestia fa tutto quel che fa l’uomo, eccetto una cosa. La bestia mangia, beve, dorme, digerisce, cammina, corre, vola, nuota, fabbrica, calcola, parla, scrive, canta, viaggia, prevede, accumula, esercita tutte le arti della pace e della guerra. In tutto questo, essa è uguale all’uomo, talvolta superiore. Ma vi è una cosa che la bestia non fa, che non può fare, né farà giammai, e che la lascia a una distanza infinita al di sotto dell’uomo: la preghiera. L’ uomo prega; la bestia non prega.

L’uomo adora, la bestia non adora, cioè dire, in altri termini, che l’uomo e la bestia, in una sola cosa diversificano: nella religione.

Ora, il primo effetto dell’azione satanica sull’uomo è di farlo arrossire della religione; e ne arrossisce! La religione ha due grandi manifestazioni, la preghiera e l’amore. La preghiera è talmente il segno distintivo dell’uomo, che i pagani l’hanno definito un animale che prega: animal religiosum. Lo stesso Nostro Signore definisce il cristiano: un uomo che prega sempre : oportet semper orare et numquam deficere. Cosi quando l’uomo cessa di pregare, si avvicina alla bestia. Se egli non prega punto, diventa affatto bestia. Non siamo noi che lo diciamo, è la stessa verità che si esprime per bocca di san Paolo, uomo animale, animalis homo.

Ora è cosa nota che il primo atto dell’ uomo diventato cittadino della Città del male, si è di rinunziare alla preghiera. Un esempio tra mille. Se havvi nella vita ordinaria una circostanza in cui la preghiera sia sacra, è l’ora solenne del cibo. Noi diciamo solenne, perché il pasto è un’azione profondamente misteriosa. Mangiando, l’uomo comunica, comunica con le creature e nel modo più intimo, poiché ei le trasforma nella sua propria sostanza. Ora tutte le creature sono viziate dallo Spirito del male, a cui esse servono di veicoli, per introdursi nell’uomo e comunicargli i suoi veleni. Questa assimilazione separata dalla preghiera che gli purifica cacciando il demonio, è evidentemente piena di pericoli.

Così l’ha compreso l’umanità tutta quanta. Di qui, quel fatto altrimenti inesplicabile che tutti i popoli, anche pagani, hanno pregato prima di mangiare. Il fatto essendo universale, ha dunque una causa universale. Una causa universale è una legge. Pregare prima di mangiare è dunque una legge dell’umanità. Il disprezzo orgoglioso, il sorriso imbecille non vi fanno niente. Rimarrà sempre il non conoscere nella natura che due specie di esseri che mangiano senza pregare: le bestie, e quelli che assomigliano ad esse.

Diciamo che assomigliano ad esse, imperocché si può sfidare non solamente tutti gli sprezzatori del Benedicite, che è poco, ma tutti i naturalisti del mondo a trovare la differenza tra l’uomo che mangia senza pregare, e un cane o un porco. Assimilarsi alle bestie in una circostanza in cui tutti i popoli anche pagani, hanno sentita la necessità di distinguersi da loro; ecco quel che fanno! E perché lo fanno, si tengono per grandi genii. È bisogna venire al tempo nostro di grossolano materialismo, per incontrare uomini che si crederebbero disonorati, se due volte al giorno essi non si assimilassero ostensibilmente all’asino ed al coccodrillo.

“Homo cum in honore esset, non intellexit : comparatus est jumentis insipientibus et similis factus est illis”. (Ps. XLVIII)

Un secondo segnale della religione è l’amore. Lo Spirito Santo essendo carità, dell’anima in cui risiede forma la carità vivente. Il segno distintivo della carità è l’oblio di se medesimo, per Iddio e per gli altri; l’oblìo del corpo a profitto dell’anima, l’oblio portato sino al sacrifizio. Appena che l’uomo entra nella Città del male, subito sparisce la carità, e gli succede l’egoismo. L’uomo si ricorda di sé, e nient’altro che di sé. Invece di andare da sé verso gli altri, va dagli altri verso di sé. L’egoismo non sa che una parola sola, ma la sa a maraviglia: l’io. L’io in tutto ; l’io dappertutto: l’io sempre. Dopo di me, Iddio e i suoi ordini; dopo di me, gli altri e i loro bisogni e i loro desideri; dopo di me, nulla. Non basta; l’egoismo è il sacrifizio degli altri per sé. Innocenza, onore, fortuna, riposo, sanità, la stessa vita, non sono niente per lui, allorquando si tratta di soddisfare sé stesso.

Ma che cosa è il “me” dell’egoista? È forse la sua anima? nient’affatto: imperocché l’amore dell’anima è la carità: che cosa è dunque? È la parte inferiore del suo essere, è il corpo; e nello stesso corpo, la parte più infima. Al di fuori della fede, tutto il lavoro dell’uomo si riduce in ultima analisi alla vita corporea. Il bere ed il mangiare ne sono gli elementi. Cominciata per essi, sostenuta per essi, finisce per essi. Avere da bere e da mangiare, soddisfare le sue cupidigie, averle in abbondanza, assicurarsi d’averle sempre; ecco la prima e l’ultima parola dell’ egoismo. Il rimanente non è che un mezzo o un risultato. Ora il laboratorio della vita animale è il ventre. In fin dei conti la vita di ogni uomo si riferisce al ventre, poiché è divenuto suddito di colui che si chiama la Bestia, la Bestia per eccellenza, la Bestia in tutti i sensi. Quindi per definire queste immense e queste immonde mandrie di Epicuro, la parola a un tempo cosi energica e cosi giusta dell’Apostolo, che gli chiama: adoratori del Dio ventre: Quorum Deus venter est. Ciò che è vero dell’uomo e di taluni popoli, lo è stato dell’umanità medesima la vigilia del diluvio, e lo sarà ancor più verso la fine dei tempi. Questa vergognosa assimilazione dell’uomo alla bestia si svolge in tutte le sue conseguenze. Noi non ne citiamo che ima sola: cioè la stupidità o la perdita dell’intelligenza. La bestia è stupida, vale a dire che essa non capisce, né ammira. Essa non capisce; perché il capire è vedere l’idea nel fatto. Ponete un triangolo sotto gli occhi di un cane, ei vedrà un oggetto materiale, formato di tre lati eguali: ma l’idea del triangolo gli sfugge. Perché? Perché al di là del dominio dei sensi non vi è nulla per lui. La bestia non ammira. Per ammirare bisogna capire. Certo, all’asino produce la stessa impressione tanto la vista di un capolavoro, che la vista di un carciofo. La bestia dunque non comprende, né ammira. Cosi avviene all’uomo che diventa bestia. Caduto egli dalle altezze della fede non ha più altra intelligenza che quella della materia e della vita materiale. Cercate lo scopo finale delle sue speculazioni, dei suoi studi e delle sue scoperte, della sua politica, di tutto quel moto febbrile che lo trascina e lo consuma: che vi trovate voi? Il corpo ed i suoi appetiti. Luce, progresso, civiltà, qual’è il significato di tutte queste parole pompose? tradotte in prosa volgare significano; scienza di petardi, filosofia pirotecnica, amore di fuoco di stoppa, guarentigia e glorificazione di fuochi fatui. In altri termini, è il programma invariabile e l’eterno ritornello di tutti gli uomini e di tutti i popoli, beatificati dalla Bestia infernale. « Beviamo e mangiamo, poiché noi morremo domani. Quest’è la nostra beatitudine ed il nostro destino. Pane e piaceri: ecco tutto l’uomo.» Non mi date come prove dell’intelligenza dell’uomo animale, il modo abile con cui manipola la materia. La rondine, il baco da seta, l’ape che non hanno intendimento, la manipolano più abilmente di lui. Noi lo ripetiamo, l’intelligenza consiste nel leggere l’idea nel fatto, nel vedere la causa nel fenomeno : notate bene non quella causa immediata che riluce in qualche modo attraverso il fatto; ma la vera causa, la causa prima e lo scopo finale. Ora tutto ciò non è conosciuto che nella Città del bene.

A colui che abita la Città del principe delle tenebre, parlate del mondo delle cause, del mondo di Dio e degli Angeli, vero dominio dell’intelligenza: tutte queste realtà sono per lui tante astrazioni o chimere; egli è uno stupido.città male

Che cosa sarà se voi gli segnalate l’intervento permanente, universale, inevitabile e decisivo del mondo inferiore? Le sue labbra sorrideranno di disprezzo; egli è uno stupido.

Discendete da queste elevatezze: ditegli che egli ha un’anima immortale, creata a immagine di Dio, redenta dal sangue di un Dio, destinata ad una felicità o a una infelicità eterna; aggiungete che l’unica faccenda dell’uomo essendo il salvarla, occuparsi di tutte le altre, eccetto che di questa, è uno scacciare le mosche e tessere delle tele di ragno; egli sbadiglia o dorme; è stupido.

Tentate di dispiegare dinanzi ai suoi occhi le meraviglie della grazia, tutti quei capolavori di potenza, di sapienza e di amore che hanno esaurita l’ammirazione dei più grandi genii, voi gli parlate una lingua di cui non capisce una parola; è uno stupido.

Sermoni, libri di pietà o di filosofia cristiana, conferenze religiose, feste solenni le quali, con i più augusti misteri, descrivono allo spirito ed al cuore i più grandi benefìzi del cielo, come i più grandi avvenimenti della terra; insomma tutto ciò che attiene al mondo soprannaturale, lo annoia; egli non comprende nulla, non sa nulla; è uno stupido.

Ma parlategli di danaro, di commercio, di vapore, di elettricità, di macchine, di carbon fossile, di cotone, di barbabietole, di bestiame, di praterie, d’ingrassi, di produzione e di consumo, egli diventa tutt’occhi e tutt’orecchi. Voi toccate la questione vitale della sua filosofia, la questione della marmitta: non ne conosce altra.

« L’uomo, dice il Profeta, dimenticando da sua dignità, si è tenuto bestia senza intelligenza, ed è diventato simile a lei.»

A fine di proteggere la pace e la vita de’ suoi sudditi contro gli assalti del nemico, lo Spirito Santo circonda la sua Città di un terzo baluardo più solido dei primi. Se l’uomo, chiunque si sia, osa dire al Re della Città del bene: Io non voglio più obbedirvi, “non serviam”; all’istante, di libero diventa schiavo, e cammina verso l’abbrutimento. Trascinato per tutte le degradazioni intellettuali e morali, incomincia per esso sino da questa vita l’inferno, che l’aspetta nell’altra. Tal’è, noi lo abbiamo visto, la sorte inevitabilmente riserbata all’individuo. Se la ribellione contro lo Spirito Santo diviene contagiosa sino al punto, che nel suo insieme, un popolo, o lo stesso genere umano, non sia più che un grande insorto, allora il delitto, traboccando da tutte le parti, attira a sé dei castighi eccezionali. Ogni legge reca seco una sanzione. Ogni legge avendo per soggetto l’uomo, composto di un corpo e di un’anima, è una spada a doppio taglio, che colpisce il prevaricatore nelle due parti del suo essere. Pigliate una qualunque legge divina o ecclesiastica che vi piaccia, se voi cercate bene, tenete per certo di trovare senza pregiudizio della sanzione morale, una ricompensa e una punizione temporale, unita all’osservanza o alla violazione di questa legge.

Lasciando da parte i flagelli particolari, rilegga l’umanità i suoi annali storici e profetici. Tre grandi catastrofi vi sono registrate. La prima è il diluvio, o la rovina del mondo antidiluviano. Quale fu la cagione di questo cataclisma nel quale perì, eccetto otto persone, tutta intera la stirpe umana ? Colui che con la sua mano ruppe le dighe del mare ed aprì le cateratte del cielo, ce la rivela in due parole: « Il mio Spirito, dice il Signore, non resterà più a lungo nell’uomo, imperocché l’uomo è diventato carne ». Questa terribile sentenza si traduce in tal modo: « A malgrado di tutti i miei avvertimenti, l’uomo ha scosso il giogo del mio spirito, spirito di luce e di virtù; ei s’è reso schiavo dello Spirito di tenebre e di malizia. Il mondo soprannaturale, la sua anima, Io stesso, non siamo più nulla per lui. Del suo corpo ha fatto il suo Dio, è divenuto carne. Come creatura colpevole e degradata, è indegna del benefizio della vita; ei perirà. » Ed al diluvio di delitti succedette il diluvio d’acqua che portò via tutti.

Una seconda catastrofe, non meno famosa della prima, è la rovina del mondo pagano. Dimenticando l’uomo la terribile lezione che aveva ricevuta, di nuovo si era sottratto all’azione dello Spirito Santo. Datosi corpo e anima allo Spirito malvagio, era venuto a riconoscerlo quasi universalmente per suo re e per suo Dio. Sotto mille nomi diversi, egli lo adorava in tanti milioni di templi da un capo all’altro del mondo: tante adorazioni, tanti, sacrilegi, crudeltà e infamie. Siccome l’uomo innanzi al diluvio, era ridivenuto carne, così al soffio dei barbari, disparve il mondo pagano sotto un diluvio di sangue.

   Una terza catastrofe, più terribile e non meno certa delle precedenti, è la rovina del mondo apostata del cristianesimo, mediante il diluvio di fuoco che porrà fine all’esistenza della specie umana sul globo. Conculcando i meriti del Calvario e i benefizi del Cenacolo, il mondo degli ultimi giorni si costituirà in piena ribellione contro lo Spirito del bene. Schiavo più che mai dello Spirito del male, ei si abbandonerà con un cinismo sconosciuto a tutti i generi d’iniquità. Tale sarà il numero dei disertori, che la Città del bene sarà quasi deserta, mentre la Città del male piglierà proporzioni colossali. Una terza volta l’uomo sarà divenuto carne. Lo Spirito del Signore si ritirerà per non più ritornare; e un diluvio di fuoco arderà la terra, mille volte più colpevole poiché sarà mille volte più ingrata della terra dei pagani e dei giganti.

La schiavitù, l’onta, il castigo: tale è dunque il triplice baluardo che l’uomo dee varcare per uscire dalla Città del bene. A questi mezzi esteriori, se si aggiungono gli aiuti ed i benefizi di ogni genere, prodigati agli abitanti di questa felice Città, non siamo noi in diritto di concludere che nessuno vorrà abbandonarla? Se la esperienza confermi il ragionamento, ce lo insegnerà ora la storia.

Nel giorno dell’Ascensione

Ascensione

Preghiera nel giorno dell’ascensione

O Gesù, nostro Creatore e fratello nostro, noi ti abbiamo seguito fin dalla tua nascita con gli occhi e con il cuore; nella Liturgia abbiamo celebrato ciascuno dei tuoi passi da « gigante » (Sal.18, 6) con speciali solennità; ma osservando la tua continua elevazione, nell’opera redentrice, dovevamo prevedere il momento nel quale saresti andato a prendere possesso del solo posto che ti conviene, del trono sublime dove starai eternamente assiso alla destra del Padre. Lo splendore che ti circondava dopo la resurrezione, non era di questo mondo; e tu non puoi più restare con noi. In questi quaranta giorni, ti sei trattenuto con noi soltanto per consolidare la tua opera; e domani, la terra, che ti possedeva da trentatré anni, sarà priva di te. Noi ci rallegriamo del trionfo che ti aspetta insieme con Maria tua Madre, ai discepoli che ti sono sottomessi alla Maddalena ed alle sue compagne; ma alla vigilia di perderti permetti anche ai nostri cuori di provare un sentimento di tristezza poiché tu eri l’Emmanuele, il « Dio con noi », e d’ora in avanti sarai l’astro divino che aleggerà su noi e non potremo più né vederti né toccarti con le nostre mani, o Verbo di Vita! (I Gv. i, i). Tuttavia diciamo ugualmente: a te sia gloria e amore! poiché ci hai trattati con una misericordia infinita. Tu non ci dovevi niente, noi eravamo indegni di attirare i tuoi sguardi, e sei sceso su questa terra macchiata dal peccato, hai abitato tra noi, hai pagato il nostro riscatto con il sangue, ristabilendo la pace tra Dio e gli uomini. Sì, adesso é giusto che tu ritorni a colui che ti ha mandato (Gv. 16, 5). Noi sentiamo la voce della Chiesa che accetta il tuo esilio, e che non pensa che alla tua gloria: « Fuggi diletto mio, ed imita la gazzella o il cerbiatto sul monte degli aromi » (Cant. 8, 14). Potremmo noi, peccatori come siamo, non imitare la rassegnazione di colei che é, allo stesso tempo, tua Sposa e nostra Madre?

L’evangelizzazione del mondo.

Gueranger

   Prendendo poi quel tono di autorità che conviene a Lui solo, disse loro: «Andate per tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crede e sarà battezzato si salverà; chi non crede sarà condannato» (Mc. 16, 15-16). Come compiranno essi questa missione di predicare il Vangelo nel mondo intero? Con quali mezzi riusciranno ad accreditare la loro parola? Gesù lo indica: « Or questi sono i miracoli che accompagneranno i credenti: nel nome mio scacceranno demoni; parleranno lingue nuove; prenderanno in mano serpenti, e se berranno qualche veleno mortifero non ne avranno danno; imporranno le mani agli ammalati e guariranno » (Ibid. 16, 17-18). Egli vuole che il miracolo sia il fondamento della sua Chiesa, come l’aveva scelto quale argomento della sua missione divina. La sospensione della legge della natura annunzia agli uomini che l’ autore di questa stessa natura sta per pronunciarsi: ad essi, allora, il dovere di ascoltare e credere umilmente.

Ecco dunque questi uomini sconosciuti dal mondo, sprovvisti di ogni mezzo umano, eccoli investiti della missione di conquistar la terra e di farvi regnare Gesù Cristo. Il mondo ignora anche la loro esistenza; assiso sul trono, Tiberio, che vive nel terrore delle congiure, non suppone affatto tale spedizione di nuovo genere che si sta iniziando, dalla quale l’impero romano sarà conquistato. A questi guerrieri, occorre un’armatura ma di tempra divina, e Gesù annuncia che stanno per riceverla. « Voi però rimanete in città, finché siate dall’alto investiti di vigoria » (Le. 24, 49), Ma quale sarà quest’armatura? Gesù lo spiegherà, ricordando la promessa del Padre, « la promessa che avete udito dalla mia bocca. Perché Giovanni battezzò nell’acqua, ma voi sarete battezzati nello Spirito Santo di qui a non molti giorni » (Atti, 1).

[Dom P. Guéranger: “L’anno liturgico”; ed. Paoline, Alba, 1956]

Dal Breviario Romano nel giorno dell’Ascensione:

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Sermone di san Leone Papa

Sermone 1 sull’Ascensione del Signore

Quest’oggi, o dilettissimi, si compie il numero di quaranta giorni sacri trascorsi dopo la beata e gloriosa risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, colla quale, nello spazio di tre giorni, la potenza divina rialzò il vero tempio di Dio che l’empietà dei Giudei aveva distrutto, numero preordinato dalla santissima disposizione della provvidenza a nostra utilità e istruzione: perché il Signore prolungando in questo spazio di tempo la sua presenza corporale quaggiù, la nostra fede nella risurrezione vi trovasse le prove e la conferma necessarie. Perché la morte di Cristo aveva turbato assai i cuori dei discepoli: e lo stordimento della diffidenza era penetrato nei loro spiriti resi pesanti dall’angoscia causata dal suo supplizio sulla croce, dal suo ultimo sospiro, dalla sepoltura del suo corpo esanime.

Perciò i beatissimi Apostoli e tutti i discepoli, ch’erano sgomenti per la morte (di Gesù) sulla croce ed avevano esitato sulla fede nella sua risurrezione, furono talmente confermati dall’evidenza della verità, che, lungi dall’essere rattristati al vedere il Signore ascendere nelle altezze dei cieli, furono al contrario ripieni di grande gioia. E certo, c’era là una grande ed ineffabile causa di gioia, allorquando in presenza di questa santa moltitudine, una natura umana s’innalzava al di sopra della dignità di tutte le creature celesti, per sorpassare gli ordini Angelici, per essere elevata più alto degli Arcangeli, e non arrestarsi nelle sue elevazioni sublimi che allorquando, ricevuta nella dimora dell’eterno Padre, ella sarebbe associata al trono e alla gloria di colui alla natura del quale si trovava già unita nel Figlio.

Poiché l’ascensione di Cristo è la nostra elevazione; e il corpo ha la speranza d’essere un giorno dove l’ha preceduto il suo glorioso capo: esultiamo dunque, dilettissimi, con degni sentimenti di gioia, e rallegriamoci con pia azione di grazie. Perché noi quest’oggi non solo siamo stati confermati possessori del paradiso, ma nella persona di Cristo abbiamo penetrato ancora nel più alto dei cieli: e per ineffabile grazia di Cristo, abbiamo ottenuto di più di quanto avevamo perduto per invidia del diavolo. Infatti quelli che il velenoso nemico aveva bandito dalla felicità della prima dimora, il Figlio di Dio se li è incorporati e li ha collocati alla destra del Padre: col quale, essendo Dio, vive e regna insieme collo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Così è.

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Omelia di san Gregorio Papa

Omelia 29 sul Vangelo

     Il ritardo che i discepoli frapposero nel credere alla risurrezione del Signore, non fu tanto loro debolezza quanto, per così dire, nostra sicurezza futura. Difatti a motivo del loro dubbio, la risurrezione fu dimostrata con molte prove: e noi quando leggiamo questi fatti, non siamo forse confermati dalla loro esitazione? La storia di Maria Maddalena, che credé subito, mi è meno utile di quella di Tommaso che dubitò per molto tempo. Perché questi, dubitando, toccò le cicatrici delle ferite (del Salvatore) e tolse così dal nostro cuore la piaga del dubbio.

Per far penetrare in noi la verità della risurrezione del Signore, dobbiamo notare quel che riferisce Luca, dicendo: «Essendo insieme a mensa comandò loro di non allontanarsi da Gerusalemme» (Act. 1,4). E poco dopo: «A vista di essi, si levò in alto, e una nube lo tolse agli occhi loro» (Act. 1,9). Notate queste parole, osservate questi misteri. Dopo essere stato a mensa con essi, si levò in alto. Mangiò, e (poi) ascese: affin di renderci manifesta coll’azione del mangiare, la realtà della sua carne. Ma Marco ricorda che il Signore prima di ascendere in cielo, rimproverò ai discepoli la durezza del loro cuore e la loro incredulità. Che è da osservare in ciò, se non che il Signore rimproverò i discepoli quando li lasciava corporalmente, affinché queste parole, dette nel separarsi da loro, rimanessero più profondamente impresse nel cuore di (quelli) che le ascoltavano?

Dopo aver ripresa la loro durezza, sentiamo ciò ch’Egli comanda: «Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Marc. 16,15). Forse che, fratelli miei, il santo Vangelo doveva predicarsi alle cose insensate, o agli animali privi di ragione, e perciò si dice ai discepoli: «Predicate ad ogni creatura»? Ma col nome di «ogni creatura» qui si indica l’uomo. L’uomo infatti ha qualche cosa di ogni creatura. Perché l’essere gli è comune colle pietre, la vita cogli alberi, la sensibilità cogli animali, l’intelligenza cogli Angeli. Se dunque l’uomo ha qualche cosa di comune con ogni creatura, si può dire, in qualche modo, che l’uomo è ogni creatura. Perciò il Vangelo è predicato ad ogni creatura, quando si predica all’uomo solo.

Rogazioni e tempo pasquale

ROGAZIONI

Spiegazione delle Rogazioni dei giorni prima del giovedì dell’Ascensione

[da “l’anno liturgico” 2° vol. di Dom P. Guéranger]

Le Rogazioni e il Tempo Pasquale.

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   Oggi comincia una serie di tre giorni consacrati alla penitenza. Questa coincidenza inaspettata sembra, a prima vista, una specie di anomalia nel Tempo pasquale; tuttavia, quando vi si riflette, si giunge a riconoscere che l’istituzione ha un nesso intimo con i giorni in cui siamo. È vero che il Salvatore, prima della Passione, diceva che non si può far digiunare gli amici dello sposo mentre lo sposo è con loro (Lc. 5, 34); ma queste ultime ore che precedono la sua dipartita per il cielo, non hanno forse qualcosa di melanconico? E, ieri stesso, non ci sentivamo portati naturalmente a pensare alla tristezza, rassegnata e contenuta, che opprime il cuore della divina Madre e quello dei discepoli, alla vigilia di perdere colui la cui presenza era per essi la pregustazione delle gioie celesti?

Origine delle Rogazioni.

   Dobbiamo ora render conto del come, ed in quale occasione, il Ciclo liturgico si é completato, in quest’epoca, con l’introduzione dei tre giorni, durante i quali la santa Chiesa, ancora raggiante degli splendori della Risurrezione, sembra volere improvvisamente retrocedere fino al lutto quaresimale. Lo Spirito Santo, che la dirige in qualunque cosa, ha voluto che, poco dopo la metà del quinto secolo, una semplice Chiesa delle Gallie desse principio a questo rito che si estese poi rapidamente a tutta la cattolicità, dalla quale fu ricevuto come un complemento della liturgia pasquale.

La Chiesa di Vienne, una delle più illustri e delle più antiche della Gallia meridionale, circa l’anno 470, aveva come Vescovo S. Mamerto. Calamità di ogni genere erano venute a portare la desolazione in questa provincia, di recente conquistata dai Burgondi. Terremoti, incendi, fenomeni paurosi agitavano le popolazioni, come fossero stati segni della collera divina. Il santo Vescovo che desiderava risollevare il morale del suo popolo esportarlo a Dio, la cui giustizia durante i quali i fedeli dovevano darsi ad opere di penitenza e andare in processione al canto dei salmi. Per mettere in pratica questa pia risoluzione, furono scelti i tre giorni che precedono l’Ascensione.

Senza prevederlo, il santo Vescovo di Vienna gettava così le basi di una istituzione che tutta la Chiesa avrebbe poi adottato [Bisogna tuttavia riconoscere che Mamerto non fu il creatore di questa solennità; egli non fece che precisarne lo svolgimento liturgico e fissarne la data. Effettivamente, noi vediamo che queste processioni avevano luogo anche a Milano, non durante i tre giorni che precedono l’Ascensione, ma nella settimana seguente; e in Spagna, il concilio di Girona, tenuto nel 517, ordinava processioni nel giovedì, venerdì e sabato dopo la Pentecoste. D’altronde, Sidone Apollinare, contemporaneo di Mamerto, dice che queste processioni esistevano già prima di Mamerto, ma che egli dette loro una solennità più grande (Rev. Ben., t. XXXIV, p. 17)]. Cominciarono i Galli, come era giusto. Sant’Alcino Avit, che successe quasi immediatamente a San Mamerto nella sede di Vienne, attesta che la pratica delle Rogazioni era già consolidata in quella Chiesa. San Cesario d’Arles, al principio del sesto secolo, ne parla come di un uso già esteso altrove, designando almeno con queste parole tutta quella porzione di Galli che allora si trovavano sotto il giogo dei Visigoti.

Leggendo i canoni del primo concilio di Orléans tenuto nel 511 e che raccoglieva tutte le provincie che riconoscevano l’autorità di Clodoveo, si nota chiaramente che essi affermano come l’intera Gallia non tardò ad adottarlo. I regolamenti del concilio, a proposito delle Rogazioni, danno una chiara idea dell’importanza che si annetteva a questa istituzione. Non solamente è prescritta l’astinenza dalle carni durante quei tre giorni, ma il digiuno è di precetto. Vi si ordina ugualmente di dispensare dal lavoro le persone di servizio, affinché possano prendere parte alle lunghe funzioni che si terranno in quei tre giorni (can. 27). Nel 567, il concilio di Tours sanzionava pure l’obbligo del digiuno durante le Rogazioni (can. 17); e in quanto all’obbligo dell’astensione dal lavoro durante quei tre giorni, si trova anche riconosciuto nei Capitolari di Carlo Magno e di Carlo il Calvo.

La processione delle Rogazioni.

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   Il rito principale nelle Chiese dei Galli durante questi tre giorni consistette, fin dall’origine, in quelle marce solenni, accompagnate da supplichevoli cantici, che furono chiamate Processioni, perché esse sfilano da un luogo all’altro. S. Cesario d’Arles ci dice che quelle che avevano luogo per le Rogazioni, duravano sei ore intere, di modo che quando il clero si sentiva troppo stanco per la lunghezza dei canti, le donne cantavano a loro volta per lasciare ai ministri della Chiesa il tempo di respirare. Questo dettaglio, che troviamo negli usi delle Chiese dei Galli in quell’epoca primitiva, può aiutarci a pesare l’indiscrezione di quelli che, nei tempi moderni, hanno insistito per l’abolizione di alcune processioni che occupavano una parte notevole della giornata, pensando che una manifestazione così lunga dovesse essere per se stessa considerata come un abuso.

La partenza della Processione delle Rogazioni era preceduta dall’imposizione delle ceneri sulla testa di quelli che vi avrebbero preso parte, ossia dell’intero popolo, perché tutti vi partecipavano. Aveva poi luogo l’aspersione dell’acqua benedetta; dopo di che, il corteo si metteva in cammino. La Processione era formata dal clero e dal popolo di parecchie Chiese secondarie che procedevano sotto la croce di una Chiesa principale, il clero della quale presiedeva la funzione. Tutti, sacerdoti e laici, camminavano a piedi nudi. Si cantavano le Litanie, i Salmi, le Antifone, e ci si recava a qualche Basilica, designata per la Stazione, dove si celebrava il santo Sacrificio. Durante la strada si visitavano le Chiese che s’incontravano per via, cantandovi un’Antifona, per lodare il mistero, od il Santo, sotto il cui titolo erano state consacrate.

Grandi esempi.

Tali erano alle origini, e tali sono stati per un pezzo, i riti osservati durante le Rogazioni. Il monaco di San Gallo che ci ha lasciato memorie così preziose su Carlo Magno, ci dice che il grande imperatore in quei giorni si toglieva i calzari come l’ultimo dei fedeli e camminava a piedi nudi seguendo la croce, dal suo palazzo fino alla Chiesa della Stazione. Nel XIII secolo S. Elisabetta di Ungheria dava pure il medesimo esempio; era ben felice, durante le Rogazioni, di confondersi con le povere donne del popolo, camminando anch’essa a piedi nudi, ricoperta di una rozza veste di lana. S. Carlo Borromeo, che rinnovò nella Chiesa di Milano tanti usi dell’antichità, non trascurò certo quello delle Rogazioni. Mediante la sue cure ed i suoi esempi, rianimò nel popolo l’antico zelo per una pratica così santa, esigendo dai suoi diocesani il digiuno durante tre giorni, digiuno che tutto il clero della città era tenuto ad assistere e che cominciava con l’imposizione delle ceneri, partiva dal Duomo, allo spuntar del giorno, e non vi rientrava che alle tre o alle quattro del pomeriggio, avendo visitato: il lunedì tredici chiese; nove il martedì; e undici il mercoledì. In una di esse l’Arcivescovo celebrava il santo Sacrificio e indirizzava la parola al suo popolo. Se si paragona lo zelo dei nostri padri per la santificazione di queste tre giornate, con la noncuranza che oggi, specialmente nelle città, accompagna la celebrazione delle Rogazioni, non potremo fare a meno di riconoscere anche qui uno dei segni dell’indebolimento del senso cristiano nella società moderna. Eppure, quanto importanti sono i fini che si propone la santa Chiesa in queste Processioni, alle quali dovrebbero prendere parte tutti i fedeli che hanno la possibilità di farlo e che, invece di consacrare quel tempo al servizio di Dio per mezzo delle opere di vera pietà cattolica, lo passano in devozioni private, che non potranno attirare su di essi le stesse grazie, né portare alla comunità cristiana i medesimi aiuti di edificazione!

Le Rogazioni nella Chiesa d’Occidente.

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   Le Rogazioni dalla Gallia si estesero rapidamente in tutta la Chiesa d’Occidente. Nel VII secolo erano già stabilite nella Spagna, e non tardarono poi ad introdursi in Inghilterra e, più tardi, nelle nuove Chiese della Germania, man mano che esse venivano fondate.

La stessa Roma l’adottò, nell’801, sotto il Pontificato di S. Leone III. Fu poco tempo dopo che le Chiese dei Galli, avendo rinunciato alla Liturgia Gallicana per prendere quella di Roma, ammisero nei loro usi la Processione di S. Marco. Ma si ebbe questa differenza: che a Roma si conservò alla Processione del 25 aprile il nome di Litania maggiore, e si chiamarono Litanie minori quelle delle Rogazioni; mentre in Francia, queste ultime furono designate con l’appellativo di Litanie maggiori, riservando il nome di minori per la Litania di S. Marco. Ma la Chiesa romana, senza disapprovare la devozione di quelle dei Galli, che avevano creduto bene dover introdurre nel Tempo Pasquale tre giorni di osservanza quaresimale, non adottò tale rigore. Le ripugnava di rattristare col digiuno la lieta quarantena che Gesù risorto aveva accordato anche ai suoi discepoli; si limitò dunque a prescrivere solo l’astinenza dalle carni durante questi tre giorni, pratica che fu mantenuta nel corso dei secoli, fino al momento in cui, per l’indebolimento generale dei costumi cristiani della nostra epoca, fu costretta a modificare l’antica disciplina su questo punto. La Chiesa di Milano che, come abbiamo visto, conserva, con tanta severità, l’istituzione delle Rogazioni, l’ha trasportata al lunedì, martedì e mercoledì che seguono la domenica nell’Ottava dell’Ascensione, ossia dopo i quaranta giorni consacrati a celebrare la Risurrezione.

Bisogna, dunque, per restare in questo vero equilibrio da cui la Chiesa romana mai si distacca, valutare le Rogazioni come una santa istituzione che viene a temperare le nostre gioie pasquali, ma non ad annullarle. Il colore viola, adoperato per la Processione e per la Messa della Stazione, non ha più lo scopo d’indicarci ancora la dipartita dello Sposo (Cant. 8); ma ci avverte che la separazione è vicina; e l’astinenza, che un tempo era imposta in questi tre giorni, pur non essendo accompagnata dal digiuno, era già una manifestazione anticipata del dolore della Chiesa, conscia che la presenza del Redentore le sarebbe stata presto rapita.

Oggi il diritto ecclesiastico non menziona più il lunedì, martedì e mercoledì delle Rogazioni tra quei giorni in cui la legge dell’astinenza obbliga ancora i fedeli. È ben triste che l’indebolimento del sentimento cristiano nelle generazioni del tempo nostro, e le domande di dispense sempre più numerose, abbiano reso necessario quest’abbandono dell’antica disciplina. È un’espiazione di meno, un’intercessione di meno, un soccorso di meno, in un secolo già così povero dei mezzi per i quali la vita cristiana si conserva, diviene indulgente il cielo, si ottengono grazie di salvezza. Possano i veri fedeli concludere che l’assistenza alle Processioni di questi tre giorni è divenuta più opportuna che mai, e che è urgente, unendosi alla preghiera liturgica, di compensare in questo modo, l’abolizione di una legge salutare che datava da così lungo tempo, e che, nelle sue esigenze pesava tanto leggermente sulla nostra mollezza! Possa una sì venerata istituzione, sanzionata dalle leggi della Chiesa e dalla pratica di tanti secoli, restare sempre in vigore in quella Francia che, col suo esempio, ha imposto a tutto il mondo cattolico la solennità delle Rogazioni! Secondo l’attuale disciplina della Chiesa, le Processioni per le Rogazioni, la cui intenzione è d’implorare la misericordia di Dio offeso per i peccati degli uomini, ed ottenere la protezione celeste sui beni della terra, sono accompagnate dal canto delle Litanie dei Santi, e completate da una messa speciale che si celebra sia nella Chiesa della Stazione, sia nella Chiesa stessa da dove la Processione è partita, almeno che non debba fermarsi in qualche altro Santuario.

Le Litanie dei Santi.

Full title: The Forerunners of Christ with Saints and Martyrs Artist: Fra Angelico Date made: about 1423-4 Source: http://www.nationalgalleryimages.co.uk/ Contact: picture.library@nationalgallery.co.uk Copyright © The National Gallery, London

Non si stimeranno mai troppo le Litanie dei Santi per il potere e l’efficacia che hanno. La Chiesa vi ha sempre ricorso in tutte le grandi occasioni, come ad un mezzo atto a rendersi propizio l’aiuto di Dio, rivolgendosi a tutta la corte celeste. Se non potessimo prendere parte alle Processioni delle Rogazioni, che si recitino, almeno, queste Litanie in unione con la Chiesa: si avrà parte nei benefici di una istituzione così santa, e si contribuirà ad ottenere le grazie che la cristianità, in questi tre giorni, sollecita da tutti i luoghi; avremo anche compiuto atto di vero cattolico.

 

Esercizi di pietà per i giorni delle Rogazioni.

[da: Via del Paradiso, Terza ediz., Siena 1823 – imprimatur-]

“Dio eterno, Dio ottimo, che ci avete creati con la vostra onnipotenza, e che ci custodite, e nutrito con la vostra infinita provvidenza, siate benedetto per l’essere che ci avete dato, e ci avete conservato fino a questo giorno.

Vi ringrazio con tutta la Chiesa dei beni non solo spirituali, ma anche corporali, che Vi degnate compartire a tutti i fedeli ed a tutti gli uomini pel mantenimento della vita. Vi ringrazio de’ beni che ci date quotidianamente, e di quelli che ci avete preparati, o sia che vogliate darceli Voi stesso immediatamente, oppure per mezzo delle vostre creature, le quali Voi fate gl’istrumenti della vostra provvidenza.

Riconosco il tutto da Voi, o mio Dio: riconosco che tocca a Voi solo, come Padre della natura, di far germogliare gli alberi, e la semenza, di far nascere e crescere i frutti e condurli a maturità.

O Padre celeste, o Autore di ogni bene, che vi ricordaste di Noè nell’Arca al tempo del diluvio, e di Daniele nel lago de’ leoni, ricordatevi, Vi prego, di noi, che siamo Vostri figli e conservateci la vita, e la sanità, e fate che le impieghiamo a Vostro servizio. Togliete dall’aria l’infezione e i mali influssi, e togliete dalla terra la sterilità, e le male bestie. Togliete ai nostri nemici, visibili ed invisibili, tanto pubblici, come privati, la volontà o la forza di nuocerci. Mandate le rugiade e le piogge a suo tempo, acciò la terra produca con abbondanza. Date ai frutti la virtù di nutrirci e fate che noi non ce ne serviamo mai senza ringraziarvene.

In somma allontanate da noi i vostri flagelli, la peste, la fame, la guerra ed i terremoti, o seppure volete castigarci per i nostri peccati, dateci lo spirito di pazienza e di penitenza ne’ mali che ci mandate, acciò i vostri figli riposandosi sotto l’ombra della vostra infinita bontà, Vi amino, e Vi servano con quiete, e lodino il Vostro santo Nome nel tempo e nell’eternità. Così sia.”

25 anni di Papato: lunga vita a Gregorio XVIII

Il 3 maggio del 1991, in un conclave segreto a Roma, veniva eletto il nuovo Papa, che prese il nome di Gregorio XVIII in omaggio al suo predecessore, S.S. Gregorio XVII, Giuseppe Siri.

È interessante notare come Sua Santità Papa Gregorio XVII, abbia avuto il 3° Regno più lungo nella storia papale. Solo Papa San Pietro e Papa Pio IX hanno avuto un regno più lungo. L’attuale Santo Padre, Papa Gregorio XVIII, eletto il 3 maggio del 1991, ha attualmente il 5° Regno più lungo nella storia papale preceduto solo da Papa San Pietro, Pio IX (1846-1878), Gregorio XVII (1958-1989), e Leone XIII (3.3.1878-10.7.1903), che hanno avuto un regno papale più lungo. Mancano pochi mesi perché Gregorio XVIII scavalchi anche Leone XIII, ponendosi così in IV posizione. Questo sta a dimostrare come Dio abbia benedetto i nostri Santi Padri “in esilio”, Papa Gregorio XVII prima, ed ora Papa Gregorio XVIII, gloriosamente regnante, consentendo loro un lungo Papato. W il Papa! Lunga vita al Papa!

Riportiamo le scarne notizie filtrate prudentemente, dopo vari anni, dalla “gerarchia in esilio” della Chiesa in “eclissi”, sul primo atto del Santo Padre appena insediato.

-madonna-di-fatimaLa Santa Vergine di Fatima non mente!

Consacrazione della Russia al Cuore Immacolato della SS. Vergine Maria

   Sappiamo che la Vergine Maria, fin dalle apparizioni del 1917, tramite i veggenti di Fatima, ed in particolare, ripetutamente a suor Lucia, aveva chiesto al Santo Padre, in unione con i Vescovi di tutto il mondo, la “consacrazione della Russia” al suo Cuore Immacolato, e questo per evitare che gli errori della “Russia” si spargessero nel mondo intero. Tale Consacrazione però, non era stata mai fatta secondo i desideri della Vergine, neanche dai “veri” Papi, come Benedetto XV, Pio XI e Pio XII, per motivi di “opportunità” o perché mal consigliati, o per semplice accidia. Gli antipapi succedutisi dal 1958 in poi, secondo il piano massonico da essi messo in atto, si erano naturalmente ben guardati dal farlo, per cui, come sappiamo dalle vicende storiche, effettivamente gli errori della Russia, ed in primo luogo il Comunismo, si sono diffusi come un implacabile cancro metastatico per il mondo intero, generando morte e distruzione, sia materiale che spirituale, ed una lotta aperta e feroce contro la Chiesa Cattolica.

Ma provvidenzialmente, il Santo Padre Gregorio XVII, eletto in 4 successivi Conclavi, a dimostrazione inequivocabile della scelta evidente dello Spirito Santo al Soglio di Pietro del Cardinale Giuseppe Siri, Arcivescovo di Genova, e deposto contro la sua volontà dagli agenti marrano-massonici della “quinta colonna” infiltrati nei Conclavi, un anno prima della sua morte, avvenuta il 2 maggio del 1989, provvedeva segretamente, poiché segregato e monitorato costantemente in tutti i suoi movimenti, a designare Cardinali di Santa Romana Chiesa, ed in primo luogo un Camerlengo che potesse annunciare, alla sua morte, un Conclave per la elezione del Papa successore. Effettivamente, dopo la sua morte, il Camerlengo incaricato, annunciò il Conclave il 3 giugno del 1990, Conclave che si tenne a Roma, in una sede segreta, per motivi ovvi di sicurezza; il 2 maggio del 1991 i “veri” Cardinali della Chiesa Cattolica Romana “in eclissi”, celebrarono una Messa da Requiem (col rito tridentino, è naturale!) in suffragio di Papa Gregorio XVII, ed il giorno successivo si riunirono in Conclave, nel corso del quale venne eletto il nuovo Santo Padre, [la cui identità è segreta perché sotto costante pericolo di morte, essendo braccato dall’FBI e dalle polizie delle “colonie” europee degli USA, oltre che dallo Shin-Bet e dagli agenti del B’nai B’rith] che assunse il nome, in omaggio al suo predecessore, di Gregorio XVIII (262° successore di Pietro – il “flos florum” di S. Malachia). Il primo ed immediato atto di Papa Gregorio XVIII, fu la “Consacrazione” della Russia al Cuore Immacolato della Vergine Maria, realizzata nel corso di una cerimonia, prudentemente segreta, secondo il desiderio della Madonna, insieme ai Vescovi del mondo “veri”, consacrati con la Formula del rito cattolico storico di sempre, e con missione canonica [la cosiddetta: Giurisdizione] affidata loro per iscritto, sia dal Papa precedente che da quello attuale, il 13 maggio del 1991. Il giorno successivo, 14 maggio 1991, il Santo Padre, dopo aver dato disposizioni ai suoi Vescovi e Cardinali, lasciava Roma raggiungendo il suo “esilio” in una località segreta. Per chi volesse conoscere i dettagli della Consacrazione (pochi in verità quelli che potevano essere rivelati), consigliamo di consultare il sito TCW [Today’s Chatolic Word] (sito approvato dalla Chiesa Cattolica in esilio). Vediamo che gli effetti della Consacrazione furono praticamente immediati, anche se Nostro Signore aveva confidato a suor Lucia il 3 agosto 1931 (Rianjo, Spagna): “Essi (i Pontefici) non hanno voluto ascoltare la mia richiesta. Come il re di Francia si pentiranno e la faranno, ma sarà tardi, la Russia avrà già diffuso i suoi errori in tutto il mondo, provocando guerre e persecuzioni contro la Chiesa; il Santo Padre avrà molto da soffrire.”

suor lucia

Senza ricorrere a trattati di storia Europea, ci basterà dare un’occhiata alla ormai famosa Wikipedia, enciclopedia informatica da tutti consultabile. Vi leggiamo infatti: “Boris El’cin fu eletto presidente della Russia nel GIUGNO 1991 nelle prime elezioni presidenziale dirette della storia russa. Nell’AGOSTO del 1991 il tentato colpo di stato militare per deporre Gorbačëv e preservare l’URSS portò invece alla fine del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.. Durante e dopo la dissoluzione sovietica … etc… ” d’altra parte tutti ricordiamo gli eventi vissuti, sbigottiti, con il naso incollato alla TV.

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Boris Yeltsin, “primo” presidente eletto liberamente in Unione Sovietica

     Praticamente la Consacrazione fu fatta il 13 maggio del 1991, e a giugno, cioè dopo neanche un mese, si tennero le prime elezioni libere in Russia, e dopo altri due mesi, fu addirittura sciolto il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, con il suo mastodontico ed “invincibile” apparato e con la successiva dissoluzione sovietica!

Se questa è dunque la forza della Vergine Immacolata, non ci resta che pregare con fiducia assoluta, quotidianamente, come Ella ci ha chiesto, il Santo Rosario completo di quindici “misteri”. Ella infatti ci ha promesso a Fatima che alfine, anche in questa situazione sociale, politica e soprattutto religiosa, apparentemente inestricabile, il suo Cuore trionferà! E allora cosa aspettiamo? Prendiamo “bastone e vincastro”, come recita il Salmo XXII, cioè la Corona e lo Scapolare, e staremo a vedere! Anche Golia sembrava invincibile … fu abbattuto da una fionda ed un sassolino di fiume!

-Davide_e_Golia

 

La strana sindrome di nonno Basilio -17-

nonno

Caro direttore sono ancora qui a discorrere con lei, sperando di non abusare eccessivamente della sua pazienza. Nel Martirologio Romano leggevo del martirio dei Santi Giovanni Fisher e Tommaso Moro, morti in difesa della Verità di Cristo, della Giustizia divina, del Diritto calpestato, della Santa Chiesa di Gesù e del primato pietrino del Papa romano. Con me erano, come al solito, i miei cari nipoti, oramai noti a lei ed ai suoi lettori (… ammesso che ce ne siano ancora di disposti a leggere le mie riflessioni!): Mimmo e Caterina. Così cercavo di riassumere sommariamente le vicende di questi due straordinari testimoni della vera fede cattolica che osarono non assecondare il reprobo, orgoglioso re Enrico VIII, i cui “pruriti genitali” caratterizzarono tutto il suo nefasto governo regale (io per la verità ritengo, direttore, che soffrisse di Herpes genitale, forse di una dermatite squamosa perineale psoriasica o dell’acaro sarcoptes scabei (quello della scabbia), o forse più semplicemente, avesse numerose piattole pruriginose, visto che all’epoca non c’erano molti prodotti di igiene intima efficaci come al giorno d’oggi … lei che ne pensa?). Giovanni Fisher, vescovo di Rochester e Tommaso Moro martiri essendosi opposti al re Enrico VIII nella controversia sul suo divorzio e sul primato del Romano Pontefice, furono rinchiusi nella torre di Londra e decapitati rispettivamente il 22 giugno del 1535, ed il 6 luglio dello stesso anno … Per la verità vedo Mimmo molto aggressivo dire: “Ma come si fa a seguire una religione creata da un soggetto di tale “spessore neuropsichiatrico” senza fondamenti dottrinali, motivazioni teologiche, filosofie di elementare razionalità …. Solo degli uomini altrettanto corrotti, a partire dal cardinal-traditore Wolsey, arcivescovo di York, dall’arcivescovo-vipera di Canterbury Thomas Cranmer, (vuoi vedere che era un marrano della quinta colonna anche questo? … ma certamente, visto l’odio con cui si sono accaniti contro i difensori di Cristo e della sua Chiesa!), dall’ambizioso e perfido Thomas Cromwell fino ai parlamentari assetati di potere e a nobili avidi di possedere i beni confiscati alla vera ed unica Chiesa, potevano assecondare un progetto tanto audace di distruzione della Fede nel regno d’Inghilterra e domini annessi. E poi il capo della “setta” è addirittura il re d’Inghilterra … a me sembra un’operetta di Lehar …”. Ma Mimmo, dico con meraviglia, ti vedo preparato al riguardo, almeno da un punto di vista storico!. Ed allora ti chiedo, che mi sai dire sulla chiesa anglicana?” Quasi a memoria, mi dice: “Chiesa anglicana, dal latino: Anglicana ecclesia, è il nome assunto dalla chiesa d’Inghilterra dopo la separazione dalla Chiesa cattolica nel XVI secolo. Il termine latino è precedente alla Riforma protestante e indicava genericamente la chiesa cattolica inglese, allo stesso modo in cui la chiesa francese era denominata Chiesa Gallicana. In seguito, dopo lo scisma avvenuto durante il regno di Enrico VIII e per influsso delle dottrine protestanti provenienti dal continente europeo, dalle infiltrazioni massoniche e dei soliti marrani, che dirigono sempre la baracca a modo loro, cioè nell’ombra e con la corruzione, la Chiesa anglicana ha assunto una particolare fisionomia dottrinale ed organizzativa, nota come “ anglicanesimo”. “Ma Mimmo, mi sembra che ti sia applicato con zelo … mi stupisci!”… ma come un torrente in piena continua: “La base dottrinale della chiesa anglicana è contenuta nei cosiddetti “Trentanove articoli di religione” (anche questo numero puzza di cabala da un miglio di lontananza) composti nel XVI secolo per garantire l’uniformità religiosa in Inghilterra che utilizzano talvolta espressioni fanta-teologiche vicine al calvinismo. Dal 1547 fino al 1571 vennero pubblicati i The Books of Homilies, una raccolta di due libri contenenti in totale 33 sermoni che illustrano appunto i 39 articoli (33, 39 … questo la dice lunga sulla penetrazione cabalistica dei figli del demonio!), articoli che non sono generalmente più considerati strettamente vincolanti, ed infatti la chiesa anglicana (più opportuno definirla “setta” o conventicola, tanto il suo capo è anche maestro muratore della loggia d’Inghilterra! -n.d.Bas.-), però, è essenzialmente pluralista (sarebbe meglio dire confusa”), poiché nel suo interno convivono, scontrandosi, tendenze diverse, ed ogni comunità può fare capo ad esse ed assumere una forma di culto molto diversa (evviva la libera fantasia!). Vi sono, ad esempio, gli “anglo-cattolici“, che si differenziano apparentemente poco dal cattolicesimo (presentano una forma di culto molto simile alla pseudo-Messa cattolica del novus ordo!), i neo-liberali, i riformati (che si attengono al calvinismo), gli evangelicali, i pentecostali/carismatici” … “… che sono coloro che recentemente hanno cominciato ad infestare quello che resta della Chiesa Cattolica, travestendosi da ispirati rinnovatori dello spirito, (non specificando, ma ovviamente non quello “Santo”!!!) … con sedicenti ed auto referenziati carismi, non garantiti e tutti da verificare, spesso strani e sospetti ma sostenuti da prelati massonizzanti di alto bordo che amano far mostra di sé in stadi e palazzetti dello sport esultanti … o meglio deliranti”. Le riporto il commento un po’ acido di Caterina che interviene ben documentata, sostenendo che in altra occasione sarà ben più acida, anzi “piccante!”. Mah … questi giovani moderni!… Ritornando agli anglicani, Mimmo, a briglie sciolte, incalza: “ … ma lo sai nonno che questi ordinano donne sacerdoti e vescovi, nonché pederasti dichiarati e manifesti, contraddicendo il dettame di Cristo ed infischiandosene allegramente dei peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio?”. “Ma bravo … vedo che stai imparando pure il Catechismo di San Pio X ….”. “E per forza –ribatte prontamente Mimmo- nel C.C.C. c’è tutto ed il contrario di tutto e alla fine tutto è confusione ed incongruenza” . “Piano, Mimmo, queste considerazioni tienile per te, potrebbero urtare certe suscettibilità …”. “Ma come, nonno, proprio tu che dici sempre che insegnare agli ignoranti, consigliare i dubbiosi ed aprire gli occhi spirituali ai ciechi è un atto di profonda carità che va praticato senza timori di alcun genere”? “È vero, Mimmo, questa volta devo darti proprio ragione … oggi mi hai dato una lezione di vita, grazie!!!”. Nella mia malandata memoria emerge il ricordo dello zio Tommaso, sacerdote eclettico quando diceva che … gli anglicani sono noti per aver introdotto nelle funzioni il canto polifonico su testi in vernacolo, e la tecnica del “falso bordone”, tecnica che egli cercava di far comprendere, non sempre con successo, a noi nipoti già distratti da strambe ideologie. Calmatosi Mimmo, devo tener testa a Caterina che, con un certo tono di sufficienza, ricorda la strana vicenda della Costituzione Apostolica “Anglicanorum Coetibus” con la quale si accolgono rappresentanti del clero anglicano inorriditi dalle ordinazioni femminili ed omosessuali, e dalla approvazione dei bestiali matrimoni contro-natura. “Qui non si tratta di ecumenismo, perché ecumenismo non significa, nella attuale accezione, difendere la verità e predicare la conversione all’unica Chiesa fondata da Cristo (anzi da quel poco che ho capito, questo viene accuratamente evitato, disprezzando vergognosamente il comando del Maestro!), ma della onnipresente eresia muratoria della “libera coscienza”, quella condannata ed anatemizzata da S.S. XVI e Pio IX, per cui, nonostante le palesi contraddizioni, si vuole mantenere viva la tradizione anglicana – addirittura definita come “arricchimento” (ma che ridere!) per la Chiesa Romana e dono da condividere (questa è bella: l’eresia manifesta, ostinata ed impenitente che arricchisce la Verità di Cristo e della sua unica e vera Chiesa!!! Un dono !?… Inaudito direttore, questa non è neanche più apostasia, ma idiozia pura! .. mi perdoni l’amaro sfogo ma non ce la faccio a trangugiare questi calici amari! … e probabilmente lo stesso Enrico VIII sarebbe a dir poco perplesso). Inoltre la situazione che si profila è pericolosissima per la salvaguardia del celibato ecclesiastico: non sarebbe la prima volta che il mutamento di una prassi comune ed universale incominci con una concessione ad casum apparentemente di scarsa portata, ma potenzialmente gravida delle conseguenze più estreme. Ed ancora esiste il rischio concreto del “libero esame” visto che non c’è l’obbligo di aderire al Magistero ecclesiastico, quindi ognuno fa quel che meglio crede, come le bestie al pascolo …”. E Mimmo nuovamente interviene chiedendomi: “ma nonno perché sei così ostile al libero esame, in fondo si tratta della Bibbia, della Scrittura Sacra”. “A parte il fatto che le traduzioni che se ne fanno -intervengo io ricordando è ovvio lo zio Tommaso- sono aggiustate di volta in volta per le esigenze della “cappelluccia” che le usa, “avere la Scrittura” non significa nulla, possedere materialmente o filologicamente la Bibbia, non significa niente; la cosa importante è il “senso” della Scrittura che solo la Chiesa Cattolica mantiene costituendone il Magistero, come ricordato nella Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano (il XX ecumenico) De fide catholica (Dz 1788): “Deve considerarsi come vero senso della sacra Scrittura, quello che ha creduto e crede la santa Madre Chiesa, alla quale appartiene giudicare del senso e dell’interpretazione autentica delle sacre Scritture” (le risparmio il latino). Al contrario è proprio Lutero ad insegnare che il senso della Bibbia è quello che appartiene alla coscienza (ma è proprio un mantra!) di ciascun cristiano, quindi la libertà di esame è il rovescio della nostra religione: in Lutero e i protestanti la libertà è al di sopra della verità, le favole e i deliri degli ubriaconi sono al di sopra della retta ragione, del rispetto a Dio e agli uomini.”. “Scomodare lo Spirito Santo volendo farne il propulsore del processo ecumenico descritto nella Lumen Gentium -interviene ancora Caterina- e applicarlo alle recenti vicende di finto e posticcio ecumenismo, mi sembra una forzatura ideologica, poco credibile e soprattutto non aderente alla realtà dei fatti”. Ma a me la cosa puzza di bruciato … così all’improvviso mi viene: “Mimmo, ma la tua amica Martina che ne dice?”. Mimmo assume un’aria mesta e non risponde, ma lo salva in calcio d’angolo Caterina: “… la ragazza ha trovato di meglio, ha incontrato Philip, un irlandese protestante, e ha mollato il povero Mimmo, che ora si lecca le ferite, e tocca a me rincuorarlo …”. Caro direttore, sono rimasto costernato, anche se adesso mi spiego la sollecitudine nel raccogliere notizie, memorizzarle, farne considerazioni e trarne le naturali ed opportune conseguenze. Bene, direttore, il Signore utilizza anche questi mezzi per dirigere e sollecitare i suoi figli alla verità. E non ho detto loro che con la enciclica “Apostolicae curae” del 18 settembre 1896, S.S. Papa Leone XIII – confermando le sentenze dei suoi predecessori – ha solennemente dichiarato che le ordinazioni anglicane sono assolutamente “invalide”, ne segue che i prelati anglicani sono – in quanto anglicani – eretici e scismatici notori, ma non sono – in alcun modo – validamente ordinati: non sono né sacerdoti, né vescovi … questi comuni signori, al massimo possono partecipare ad un ballo in maschera! … Deo gratias! Le mie preghiere sono state esaudite! – … ma le pare che una cieca potesse guidare un … ipovedente, spiritualmente parlando, come Mimmo? La saluto cordialmente … mi stia bene, suo: nonno Basilio e famiglia!

In memoria di un Papa: Gregorio XVII

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Il 2 maggio del 1989 saliva alla gloria del cielo S.S. Gregorio XVII, Giuseppe Siri, il Papa in esilio, costretto a lasciare ufficialmente il suo Incarico da “coloro che hanno per padre il diavolo”, e dai loro fiancheggiatori della “quinta colonna” introdotta nella Chiesa. Non per questo però, pur nell’ombra e nel silenzio del suo “Getsemani”, cessava di guidare la Chiesa di Cristo attraverso i marosi e le insidie degli usurpanti “servi di Beliaal”, ottemperando dolorosamente alla Volontà di Dio, consentendo così la perpetuazione apostolica della gerarchia della Chiesa, la vera, Santa, Cattolica, Apostolica, Romana, l’unica che dà la salvezza eterna! Uniti nella preghiera al Santo Padre Gregorio, ché interceda presso Dio Onnipotente per l’abbreviazione di questo tempo oscuro di “eclissi” della Chiesa, e per un rinnovato suo splendore, e si ripristini il Sacrificio del Figlio con i veri Sacramenti, vogliamo ricordare questo “martire” della Fede, proponendo l’ultimo capitolo di una sua opera: “Getsemani”. Come non vedere il tratto autobiografico dell’uomo “forte”, solo, abbandonato da tutti, nemici,  amici veri e finti, sofferente e prostrato in obbedienza a Dio nel suo Getsemani?

Il Getsemani della Chiesa è nel Getsemani di Cristo Signore. Conosciamolo meglio.     Getsemani, è la porta del santuario attraverso la quale la Storia ritrova il suo vero volto e il suo vero ordine, nell’intendimento e nella coscienza dell’uomo liberato. È il santuario dove si è compiuta spiritualmente, nella solitudine, la suprema offerta, affinché l’uomo ogni volta unico, e tutta la stirpe degli uomini possano trovare l’ordine eterno della loro creazione e avere così la possibilità di entrare per grazia nella gioia della diretta contemplazione del Creatore. – Soltanto nel raggio del Getsemani la teologia può essere spogliata di ogni vano diletto intellettuale, di ogni lettera morta e di ogni irrigidito schema di pensiero, di ogni aridità del cuore, di ogni illusione di autonomia e di ogni torpore di febbrile attività naturalista. Soltanto in quel luogo l’intendimento e la volontà sono liberati dalla verità conformemente alla parola di Cristo (Gv VIII,32), perché è là che il Redentore ha vissuto nella sua intimità umana, con tutto il suo amore divino, la Croce della storia degli uomini. – Ed è nel segreto dell’agonia di Gesù di Nazareth, che si può intravedere il significato dell’uomo nel mistero della storia degli uomini. – Nel mistero del Getsemani si svelano i due più grandi, più struggenti e più dolci misteri: l’Incarnazione di Dio in uomo perfetto in Maria e la generazione della Chiesa santa nella relatività dell’uomo temporale. – Nel popolo di Israele ci sono stati molti santi e molti profeti. Ci sono state molte anime che hanno sofferto per il loro popolo e che hanno saputo amare Dio fino al sacrificio totale. Ci sono state molte anime forti e grandi che hanno penetrato per grazia di Dio i segreti della Natura. Più di quanto non l’abbiano fatto gli uomini di scienza delle segrete generazioni. – Ma l’uomo dell’agonia sul monte del ulivi era l’Essere di un’altra economia; corrispondeva ad un’altra necessità, ad un’altra attesa della creazione. E per questo motivo questa agonia non solo concerne ogni uomo, ma è ontologicamente vincolata ad ogni uomo. L’uomo non è vincolato all’agonia di Cristo soltanto con l’immaginazione e la compassione per qualcuno che soffre ingiustamente. L’uomo vi è vincolato perché è stato il soggetto dell’offerta solitaria nel giardino del Getsemani, che non era un atto morale, ma un’azione di essere. – Il «Fiat» della Vergine Maria ha avuto come immediata conseguenza un evento nella natura dell’essere umano, un evento ontologicamente nuovo. Le parole con le quali il Cristo si abbandona totalmente alla volontà del Padre costituiscono il secondo «Fiat» dell’economia della salvezza dell’uomo. il «Fiat» del Getsemani fu il compimento, in una nuova tappa, del primo «Fiat» dell’essere umano di Maria. il secondo «Fiat» pronunciato e compiuto dall’essere generato da Dio nella natura umana, ha avuto come conseguenza l’unione di Dio con le esistenze di tutti gli uomini, cioè con l’esistenza di tutti gli esseri che costituiscono la Storia degli uomini. – Quale potrebbe essere la finalità di tutta la sofferenza della Croce accettata da prima? Una tale offerta non è concepibile senza concepire, fievolmente che sia, il perché di questa offerta. E appare allora, in tutta la sua luminosa semplicità, l’essenza della misteriosa agonia di Cristo. – «Padre, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio Io ma come vuoi Tu (Mt XXVI, 39)». Quando Gesù ha pronunciato questo «se è possibile», chiedeva di essere liberato dall’onere della salvezza delle anime? Quando il suo spirito ha lanciato questo appello, avrebbe improvvisamente preferito, non sarebbe che solo per qualche istante, distaccarsi dalla sua missione e poi vivere, invecchiare e spegnersi un giorno, secondo la sorte di ogni uomo? – Sono pensieri che svaniscono come vane finzioni dell’orgoglio dell’uomo; svaniscono quando il nostro intendimento e il nostro cuore penetrano umilmente e con abbandono nel raggio del Getsemani. Là le nostre categorie, secondo le quali percepiamo e giudichiamo, sfumano, o piuttosto sono trasformate, prendendo un altro tenore e un’altra ampiezza. E così, tanto l’intendimento come il cuore, in un’armonia di pace, ricevono il mistero dell’Essere che pregava prostrato a terra per la salvezza degli uomini. L’appello, infatti, del «se è possibile» non significava la stanchezza e che il Cristo preferisse che un altro si addossasse la salvezza degli uomini. Il Cristo non pregava soltanto per sé; pregava in nome di tutti gli uomini, ai quali si era vincolato con la sua offerta: «come vuoi tu». – Il Cristo, Persona unica di essenza divina, viveva interiormente come Redentore degli uomini nella sua pienezza umana, la sofferenza, per inconcepibile amore, di fronte alla cattiveria e al peccato che generavano la sua Passione e la sua Morte. – Allora l’anima, con tutto il suo potenziale d’intelligenza e di amore, penetra nel mistero dell’Incarnazione e dell’agonia del Getsemani e capisce che la Redenzione dell’uomo non è stata opera di un nuovo insegnamento, né l’esempio di una grande perfezione, sconosciuta fino allora. L’uomo capisce che la sua redenzione non è consistita in un rinnovamento morale, è stata innanzitutto un atto che ha riguardato il principio dell’essere dell’uomo, che ha riguardato la rigenerazione della legge della generazione dell’uomo. – Se non ci fosse stato un uomo generato dalla Parola del Creatore, la Redenzione dell’uomo sarebbe sempre un’attesa di rinnovamento morale. Questo insegnamento e questo esempio i Profeti e i Santi d’Israele li avrebbero compiuti e avrebbero potuto compierli sempre. Ma l’atto iniziale della nuova generazione, per il diretto intervento di Dio, non sarebbe stato compiuto; e l’intervento ontologico divino nella stirpe di Abramo non sarebbe compiuto. – Ebbene, l’essere che pregava prostrato a terra nel giardino del Getsemani era esattamente questa penetrazione ontologica di Dio nella stirpe di Abramo. Dio ha suscitato un Essere con il suo proprio Verbo divenuto così uomo, avendo preso «forma» di uomo nell’organismo naturale umano. – L’uomo, nonostante tutte le sue ricerche e le sue indagini, non può penetrare con i propri suoi mezzi il segreto della differenza di livello dei popoli, sia nel passato come nel presente. Raramente si giunge a distinguere da lontano nella profondità del presente la vera immagine iniziale dell’uomo e dell’umanità, perché abbiamo perso la freschezza e il gioioso e continuo stupore della contemplazione attiva e sempre nuova dell’infinita Realtà di Dio Creatore. – Questa perdita c’impedisce di poter sempre percepire la grazia e il continuo miracolo dell’esistenza di ogni cosa, e c’impedisce di percepire il «naturale semplice» delle opere che superano la nostra propria esperienza, delle grandi opere miracolose del nostro Dio Creatore. – L’uomo non può mai afferrare, con le sue ricerche e le sue invenzioni di curiosità, l’inizio delle cose e degli esseri. Perciò incontriamo difficoltà nel concepire il misterioso atto di amore e di armonia che si è compiuto con il primo «Fiat» della Vergine Maria. – Tuttavia è quest’atto che ha permesso all’Essere che pregava con il volto coperto di sudore di sangue, di unirsi ontologicamente all’esperienza di ogni uomo, nel disordine anarchico e doloroso della Storia. Ed è questa unione che offre all’uomo di diventare un essere nuovo e di conoscere che in Lui s’innalza una seconda volontà che è in lotta con la prima volontà della sua natura in disordine: il disordine del peccato. – E questa unione particolare fu compiuta da «Fiat» del Getsemani: «non come voglio Io, ma come vuoi Tu». Questa unione, infatti, era il soggetto della preghiera dell’agonia e del «Fiat»; e fu la causa della Croce che sarebbe seguita. – L’agonia del Getsemani, nel suo mistero ontologico, non sarebbe stata possibile, se l’Essere dell’agonia non fosse stato l’Essere dell’Incarnazione. L’agonia del Cristo esprime la sofferenza nello spirito e nel cuore e di conseguenza in tutta la natura umana; sofferenza che appartiene a questo unico Fiat d’amore indicibile: unirsi all’esistenza di tutti gli esseri umani che costituiscono la Storia. – L’unica Persona, che da sempre possiede la conoscenza oggettiva di ogni cosa, è Colui che è stato concepito a Nazareth, e Colui che è stato concepito a Nazareth è Dio. Soltanto Colui che al Getsemani, si è unito all’esistenza di ogni uomo, avendo accettato per amore di soffrire, nel suo Essere unico, il dolore di tutti i secoli, conosce con assoluta oggettività quella che noi chiamiamo: Storia. È Colui che, dopo la sua sofferenza interiore e universale al Getsemani, ha sofferto i dolori fisici e morali del martirio e della morte sulla Croce; Colui che, uomo e Dio per l’eternità, ha risolto nel suo essere per tutti gli uomini il mistero d’iniquità, con la sua Resurrezione. – L’uomo desidera l’oggettività, come desidera la vita eterna. Solo il Maestro della vita eterna può dare all’uomo l’oggettività. L’uomo non può progredire in conoscenza oggettiva se non unendosi sempre più al Signore della Storia, che per lui ha detto il «Fiat» del Getsemani. – Quando l’uomo riceve questa verità, tutte le leggi, le norme e le categorie della ragione umana si rigenerano e vieppiù si liberano dagli impedimenti delle opere morte e delle parole morte. A misura che l’uomo sottomette Dio e le opere di Dio al suo desiderio spesso molto sottile ma impetuoso di autonomia, svaniscono le vere leggi della ragione umana e si pietrificano le categorie. – Soltanto il soggetto assolutamente libero può essere assolutamente oggettivo. Per questo l’uomo, soltanto nella misura in cui riceve intimamente con amore la Rivelazione del Soggetto assoluto, può ottenere oggettività nelle sua visione degli esseri e delle cose. L’oggettività del sapere dell’uomo, ossia il grado di vera conoscenza dipende dalla sua unione ontologicamente spirituale con Colui che possiede tutta la realtà oggettiva, perché è Egli stesso la Verità eterna incarnata per l’eternità. – Questa fondamentale verità esclude dal cammino dell’uomo verso la conoscenza ogni teoria pluralistica. L’uomo non si trova di notte nella foresta, senza sapere dove andare e non è neanche «una successione di momenti». È un essere dotato di memoria, e questo lo pone contemporaneamente e nel tempo e fuori del tempo. Infatti, per il dono della memoria valica il tempo, e la «successione di momenti»; l’uomo nel corso della sua esistenza, arricchendosi indefinitamente e sviluppandosi continuamente, permane immutabile come essere e come potenziale di arricchimento e di espansione all’infinito. Il Cristo segue tutto il cammino dell’umanità ed è lo stesso ieri e oggi e nell’eternità. – Scartando la Rivelazione per cogitare su Dio e il mondo, fondandoci, per sottile desiderio d’autonomia, esclusivamente sui nostri propri mezzi d’indagine, perdiamo ogni possibilità di oggettività ed entriamo nella «notte esistenziale». Infatti per lo spirito è notte fonda, quando l’uomo, tutte le sue facoltà d’intendimento e di azione sono fissate sui «momenti fuggevoli», sull’«essere-qui» o l’«essere-là». Questo sguardo esistenziale, ossia il fatto di considerare tutte le cose senza fare continuo riferimento alla nostra più profonda realtà, al di là di ogni gioco del linguaggio delle parole esterne, elimina, nel nostro andare, la nostra propria realtà di coscienza e di memoria. Ed è impossibile riconoscersi ed essere veridici, perché rifiutare il Signore dell’oggettività equivale a rifiutare ontologicamente la verità. – La relatività dei momenti che trascorrono non può colpire l’essere che conosce e che ama. Quando però l’essere si lascia prendere dalla relatività, entra nel turbinio del discorso esistenziale, cosa che impedisce all’uomo di avere una vera immagine della sua esistenza e della nozione dell’esistenza. Il discorso può essere indefinito; e senza fine la coniatura dei vocabolari e delle espressioni; è il triste gioco della falsa filosofia che rifiuta di sottomettersi per ogni cosa al Signore della Storia, che è la Verità incarnata, che è l’ordine eterno di tutto il molteplice dell’universo e della Storia. – Quando, nel nostro spirito e nel nostro cuore, si svela il mistero del Getsemani e il suo rapporto con il «Fiat» dell’Annunciazione, un intero linguaggio diviene caduco, infatti ci si accorge che la Storia non può svelare alcun segreto né in merito alle leggi che la governano, né in merito ai fini ultimi dell’uomo. Essa non lo può, perché non ne ha conoscenza né coscienza. Una sola cosa può insegnare: il Sovrano della Storia ha detto il «Fiat» della sofferenza e dell’unione con l’esistenza di tutti gli uomini, per liberare ogni uomo, ogni volta unico, dalla morte e farlo entrare in un’altra realtà di vita eterna. – Riferirsi ogni volta, alla Storia, per evitare di riferirsi al Sovrano della Storia, è voler parlare alla polifonia, senza rivolgersi né a colui che ha composto la musica né a coloro che la eseguono. Solo il Creatore delle leggi e dei fini può conoscere la realtà dei fini ultimi di ogni cosa, il Creatore e coloro ai quali Egli lo rivela e che accolgono con umiltà e amore la sua Rivelazione. – Ogni uomo non può essere redento come società. È la Redenzione di ogni persona a poter creare un insieme di persone redente. È per amore per ogni persona d’Israele, per ogni Israelita, che Simeone ha avuto la gioia di ricevere nelle sue braccia il Redentore. Aveva ricevuto il messaggio divino, secondo il quale avrebbe dovuto vedere il Redentore prima di morire. E quando l’ha visto, ha provato gioia per la redenzione non di un’entità astratta, ma per tutti coloro che sarebbero redenti, e non a causa di un desiderio di uno stato forte e fiorente nella storia, e per questo ha detto: «Nunc dimittis servum tuum, Domine».

È stato lieto per la Luce di tutti gli uomini, che era il Cristo e per la Gloria d’Israele. Questa Gloria era il Cristo, che chiamava ogni israelita alla salvezza. Giacché Israele non era un’idea; era un insieme in cui ciascun membro era chiamato alla redenzione.

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[Da Getsemani del Card. Giuseppe Siri [S.S. Gregorio XVII], Fraternità della Santissima Vergine Maria, Roma 1987 (pag.360-368)]

Un uomo forte … anzi due!

Un “uomo forte”, anzi … due!

s.giuseppe.

   In questo giorno in cui festeggiamo San Giuseppe lavoratore, vogliamo rendere omaggio al grande Santo con dei passaggi di un’omelia tenuta nel 1974 da S. S. Gregorio XVII, conosciuto dal mondo ordinario come il cardinal Giuseppe Siri. Come non notare le sottili allusioni che mettono in parallelo alcuni aspetti “nascosti” della vita di questi due “Giuseppe”!

Leggiamoli insieme:

“.. il brano di San Matteo (Cap. I, 16 e segg.) appena ascoltato, riguarda S. Giuseppe, del quale oggi celebriamo la solennità, brano che va letto anche in controluce. Ed ecco come. – Il brano presenta un momento drammatico per questo giovanissimo uomo. Egli si era sposato con gli intendimenti che tutti hanno quando si sposano. Si trova d’improvviso davanti ad un fatto che in quel momento superava la sua cognizione: Maria attendeva già Gesù. Non sa come districarsi. “Giusto”, come lo dice la stessa Sacra Scrittura – e nella terminologia biblica, la parola “giusto” indica l’onestà e la santità complessiva -, non vuole guastare nulla di lei e di altri, pensa di risolvere tutto nel silenzio. È un dramma. Ma il dramma si aggrava, perché interviene l’Angelo che gli svela la verità. E la verità per lui, l’uomo Giuseppe, è questa: per tutta la vita dovrà rinunciare ai suoi diritti maritali. Questa è la parte più grave del dramma. Egli china la testa, accetta e basta. In controluce questo appare un “uomo forte”. – Gesù più tardi avrebbe detto agli Apostoli impauriti: “Non si turbi il vostro cuore e non abbia paura” (Gv XIV, 27). Non era arrivato a tempo a dirlo a Suo padre putativo, ma quel comando, il padre putativo lo aveva già messo in pratica. – Badate bene che questo carattere di fortezza continua a dominare. Si tratta di andare, come narra S. Luca (II, 2 e segg.), a Bethlemme a fare il censimento: questo avrebbe portato a far sì che la maternità di Maria si sarebbe compiuta fuori di casa. Affronta il viaggio, affronta tutto quest’uomo, con quale stile sentiremo ora. È un “uomo forte”. Quando porta in Gerusalemme la Madre e il bambino – è ancora S. Luca (II, 22 e segg.) che lo racconta – per presentare il Bambino al Tempio e per compiere la purificazione della Madre, come era prescritto dalla Legge, si sente fare dall’ultimo dei profeti dell’Antico Testamento, S. Simeone, una profezia terribile: “tutto si sarebbe accanito contro di lui”. Egli non ha nulla da obiettare, china la testa, accetta. “Uomo forte”. – Viene la persecuzione di Erode, e qui è S. Matteo (II, 13 segg.) nuovamente che racconta. La persecuzione di Erode sarebbe stata terribile, lo sapevano tutti. Anche noi conosciamo molto bene questo Erode il Grande, attraverso le “Antiquitates Judaicae” di Giuseppe Flavio: ammazzava chiunque trovasse sulla sua strada e gli si opponesse; eliminò tutti i suoi parenti, tutti coloro che gli davano ombra; uccise con un calcio sua moglie; in previsione della sua morte, sei mesi dopo la nascita del Bambino e poco dopo l’ultimo suo delitto, la strage degli Innocenti, avrebbe fatto riunire nell’anfiteatro di Gerico tutti i notabili di Israele, facendoli circondare, dal sommo dell’anfiteatro stesso, dagli arcieri che avevano l’ordine di saettarli immediatamente, non appena avessero saputo che era morto, affinché quel giorno ci fosse pianto, ci fossero tanti morti che Gerico e tutto il regno fosse tutto cosparso di lacrime. Ora, Giuseppe sapeva con chi aveva da fare, lo sapevano tutti! – L’Angelo gli dice: “Parti”. Partire? Una donna e un bambino, indifesi, attraversare da soli tutto il tratto desertico che si estende a sud della pianura di Sharon, attraversare un tratto desertico che circonda il Mar Rosso, arrivare così alla terra opima e fertile perché bagnata dal Nilo; il viaggio era lungo, impervio, certo durò molto. -Quest’uomo non ha paura, affronta questo. Una donna apparentemente fragile, un bambino fragilissimo, la solitudine, il deserto, nessuna voce che rispondesse, solo le pietre: ha affrontato il viaggio ed è arrivato in Egitto. L’Egitto era allora economicamente prospero, non era difficile trovarvi lavoro, evidentemente ha lavorato. Ha affrontato questo con uno stile al quale vi rimando e del quale parlerò subito: l'”uomo forte”. – In tutta la sua vita mantenne il silenzio sulle cose che sapeva. Ebbe la capacità di tacere, e questo lo sappiamo, perché tanto S. Matteo (Mt 14, 54ss) che S. Luca (4, 14ss) ci narrano di un certo ritorno di Gesù, dopo cominciato il suo ministero evangelico, a Nazaret, e tutti si meravigliavano, non vedevano in Lui altro che il figlio del falegname, niente più. Il che voleva dire, ed era la prova provata, che in questa famiglia si era taciuto sempre la coerenza e la costanza con le quali il desiderio divino era stato assecondato: “Uomo forte”. -Per essere silenzioso fino a questo punto bisognava essere forti. -Non dimentichiamo che Nostro Signore ha voluto i più vicini a Sé “forti”, e i più vicini a Sé furono tre: Maria, che Lo accompagnò sul Calvario e non ebbe timore di dividere col Figlio nel cuore quanto Egli pativa nel corpo e nell’anima; Giuseppe, del quale stiamo parlando; il terzo, Suo cugino Giovanni il Battista, che per dire una verità contro un adultero ci lasciò la testa (quella tomba non sia una maledizione per quelli che vogliono il divorzio! Quella tomba guardatela bene!).

Gesù Cristo volle intorno a Sé degli uomini forti. – Gli Apostoli inizialmente lo furono un po’ meno, perché, in circostanze dinnanzi alle quali Giuseppe non scappò, essi scapparono tutti, dal primo all’ultimo. Due trovarono un po’ di forza per ritornare sui loro passi, ma con diverso esito, e tutti lo sappiamo. Ma tutto questo ci insegna che Iddio ama gli uomini forti, gli uomini che sanno essere dritti, che camminano secondo la direttiva della verità e non della moda o del comodo, che sanno prendere tutti gli strali che possono partire da qualunque parte pur di non rinnegare la dirittura della loro via, che è la via della verità. Dio ama costoro e ne ha bisogno perché è Lui che lo vuole. Chi può intenda! Di uomini molli ce ne sono anche troppi a questo mondo e rappresentano la ragione per cui il mondo rischia di andare a fondo. Non va a fondo per gli uomini forti, ma per gli uomini molli, deboli!”

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L’uomo forte! L’uomo che vive nascosto al mondo, che non appare nel suo ruolo da Dio assegnatogli. Solo Dio sa e conosce la forza, il coraggio di quel silenzio, della sofferenza amata, accettata senza “ma” e senza “se”. L’uomo “forte” si fida di Dio, l’uomo “forte” obbedisce senza intralciare la volontà dell’Onnipotente, l’uomo molle vuole spiegazioni, vuol capire ed avere sempre ragione! L’uomo “forte” si rifugia nella solitudine e nella sofferenza, l’uomo molle vuole la gloria del mondo, gli onori, la visibilità! Due “Giuseppe”, due uomini forti, nascosti, disprezzati, combattuti, esiliati: gli uomini “forti” che Dio ama!

Omelia della Domenica V dopo Pasqua.

Omelia della V Domenica dopo Pasqua.

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napolitana Vol. II -1851-]

preghiera

-Preghiera-

   “Qualunque grazia voi chiederete”, cosi il divin Salvatore a’ suoi discepoli, e in persona dei suoi discepoli a noi, come leggiamo nell’odierno Vangelo, “qualunque grazia voi chiederete in nome mio all’eterno mio Genitore, senza alcun dubbio voi l’otterrete, Io ne impegno la mia parola: “Amen, amen dico vobis : si quid petieritis patrem in nomine meo, dabit vobis”. Ma voi finora non avete domandato cosa alcuna, “usque modo non petistis quidquam in nomine meo”. Via su domandate, chiedete, e v’assicuro che le vostre preghiere saranno esaudite, “petite et accipietis”. In queste divine parole traluce un lampo della divina onnipotenza, e della divina bontà: dell’onnipotenza, poiché non si restringe a quello o a quell’altro genere di grazie, ma tutte le promette Chi tutte le ha in mano, si quid petieritis”; della divina bontà, che arriva perfino a lagnarsi che non le siano chieste grazie, “usque modo non petistis quidquam”. Conviene ben dire che sia grande il desiderio del Redentor nostro di farci del bene, mentre si lagna di non esser chiesto che ci faccia del bene. Al suo desiderio si aggiunge l’intenzione della nostra madre la santa Chiesa, che in questa Domenica prossima e immediata alle pubbliche solenni preghiere, che Rogazioni si appellano, ci propone il presente Vangelo per animare la nostra fiducia, e spingerci a domandare al dator di ogni bene le grazie delle quali abbisogniamo. Seguendo ora di entrambi il desiderio e lo spirito, passo a dimostrarvi la necessità, e l’efficacia della preghiera; necessità che non può esser maggiore; efficacia, che può essere più grande, se mi accordate la solita gentile vostra attenzione.

I . La necessità della preghiera va del pari colla necessità della grazia. È certo per fede che non siam capaci del minimo atto buono in ordine alla vita eterna senza il superno aiuto della divina grazia. “Sine me…”, detto è dall’incarnata verità Cristo Gesù,“sine me nihil potestis facere(Joann.XV,5). Osservate, commenta S. Agostino, che il Salvatore non dice, senza di me potete far poco, ma nulla “non ait, quia sine me parum potestis facere, sed nihil(Tract. 81, in Joann.). Siam come tralci, che uniti alla vite producono frutto, staccati da quella sono inutili sarmenti, non ad altro uso buoni, che al fuoco.

Ammessa la necessità della grazia, stabilisce la necessità della preghiera. Trovatemi un uomo, scrivea S. Girolamo contro i Pelagiani, che non abbia bisogno di grazia, ed io vi dirò che neppur abbisogna di preghiera. Iddio, secondo la dottrina de’ Santi Agostino, Tommaso, Crisostomo, Damasceno, ha determinato fin dall’eternità di dar all’anime le grazie necessarie alla loro eterna salute, non per mezzo, che per quello dell’orazione. Nella stessa guisa che la sua provvidenza à stabilito, che la terra abbondasse di frumento e di ogni altro frutto, mediante però l’opportuna coltura. Si eccettuano, soggiunge S. Agostino, due sole grazie eccitanti, che, come una pioggia volontaria, vengono in noi senza di noi, qual sono la chiamata alla fede e alla penitenza. Tutte le altre però in noi derivano non da altro canale, che dalla preghiera. Che cosa dice nell’ odierno Vangelo l’amorosissimo nostro Salvatore: domandate, e vi sarà dato “petite, et accipietis”. La grazia mia è sempre pronta, purché preceda la vostra domanda. “Petite”, ecco la condizione, “accipietis”, ecco la grazia. Volete la grazia? Adempite la condizione, senza di questa non potete sperarla. La preghiera è la chiave de’ celesti tesori; questi saran sempre chiusi per chi non adopera la chiave ad aprirli. Ed ecco il perché, soggiunge l’Apostolo S. Giacomo, siete poveri, e mancate delle grazie, che Iddio vi tien preparate, perché non vi curate di farne richiesta, “non abetis propter quod non postulatis( Joann. IV, 2). Come campan la vita i poveri mendicanti? Col chieder pane alla porta de’ facoltosi. E noi, dice S. Giovanni Crisostomo, siamo poveri pezzenti, che dobbiamo alla porta del Padre celeste, ricco in misericordia, chieder soccorso, se non vogliamo morire d’inedia.

Premurosa di nostra salvezza Cristo Signore rinnova l’avviso, “oportet semper orare, et nunquam deficere” (Luc. XVIII). Notate la forza del termine “oportet”, fa d’uopo, bisogna pregar sempre, e mai cessare dalla preghiera; perché, al dire dell’angelico S. Tommaso, la preghiera è necessaria all’anima, come al corpo il respiro. Non già che si debba in ogni momento occupare la lingua o il cuore in orazione continua, indefessa; ma l’enfatica espressione prova la necessità: il modo poi va inteso, come chi dicesse: bisogna sempre cibarsi, vale a dire a dati tempi. Per simil modo si può dire che uno preghi sempre, se in date ore costantemente si eserciti in cristiane preghiere, come appunto facea il Profeta Daniele, che in tre diverse ore del giorno avea il religioso costume di raccogliersi alle sue stanze, e far la sua orazione adorando il Dio d’Israele.

Posta ora e provata la stretta e rigorosa necessità della preghiera, quanto dovrà compiangersi la negligenza di tanti cristiani, che passano i giorni e i mesi senza raccomandarsi a Dio! È sentenza de’ Padri e teologi, che l’omissione della preghiera per un tempo notabile non va esente da colpa mortale; perciocché la preghiera è necessaria a salvarsi per i due più precisi motivi di necessità di precetto, e necessità di mezzo. Come dunque potranno sperare la loro salvezza quei che non adempiono questo precetto, quei che non adoprano questo mezzo? Quei che vanno abitualmente al riposo senza un segno di croce, e vi ritornano senza un segno di cristiano? Quei che credono di pregare masticando preci e rosari col sonno agli occhi, colla distrazione della mente, coll’allontanamento del cuore? Sono costoro in maggior pericolo di dannazione di chi affatto non prega. Chi non prega sa di esser colpevole, e questa cognizione può giovargli all’emenda; ma chi, pregando colla sua lingua, crede di pregar bene, non conoscendo la propria colpa, il suo inganno lo lusinga, lo accieca, lo rende incapace a rimedio.

II. Se tanta è la necessità della preghiera, non minore è la sua efficacia. La preghiera, dice S. Ilario, fa al cuor di Dio una dolce violenza, “Oratio pie Deo vim infert”. E d’onde prende ella mai la sua forza? Da tre capi: dalla bontà di Dio, dalla parola di Gesù Cristo, e dalla nostra cooperazione. Dalla bontà di Dio, primamente. Di questa udite come parla il nostro divin Salvatore. Se ad un padre terreno domanda pane il proprio figlioletto, invece di pane gli presenta forse una pietra? Se gli chiede un pesce, gli da forse un serpente? Se un uovo, gli porge forse uno scorpione? Se dunque voi, che siete una razza cattiva, vi sentite muovere il cuore a donare a’ vostri figli quel che vi chiedono, quanto più il Padre mio, la cui natura è bontà, accorderà alle vostre suppliche lo spirito di perseveranza se siete giusti, lo spirito di penitenza se peccatori, in somma tutte le grazie più opportune e necessarie alla vostra santificazione e salvezza? “Quanto magis Pater vester de coelo dabit spiritum bonum petentibus se”? ( Luca XI) .

In cento luoghi delle Scritture sacre si protesta il nostro buon Dio che ascolterà le nostre voci, che accoglierà le nostre istanze, che si moverà a’ nostri clamori, che aprirà le sue orecchie, che stenderà la sua destra a nostro sollievo. Eccovi un tratto, dice il re Profeta, della gran bontà del suo cuore. La sua provvidenza si estende fino ai pulcini del corvo, allorché sono da’ loro genitori abbandonati. Al veder le aperte lor bocche fameliche, al sentir le querule strida, fa che si aggiri intorno al nido una turba foltissima di moscherini, dei quali con piacer si alimentano. Sia o non sia ciò che ci narrano gl’indagatori della natura, il vero si è che essi L’invocano, ed Egli li pasce, “dat escam pullis corvorum invocantibus eum” [Psal. CXLVI,10]. Se dunque da Dio pietoso si ascoltano le voci d’ignobili animalucci, con quanta maggior bontà darà ascolto alle preghiere di noi, che siam suoi figliuoli, se Gli chiederemo il cibo vivifico della sua grazia?

Dalla parola di Gesù Cristo in secondo luogo prendono la loro efficacia le nostre preghiere. Con una specie di giuramento Ei ci assicura che qualunque grazia imploreremo in suo nome dal suo celeste Genitore, ci sarà infallibilmente concessa. “Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vabis” [Joann. XIII, 38]. Alla parola di tanta sicurezza aggiunge l’invito ch’Egli ci fa nelle più pressanti maniere di pregare, e non cessar di pregare. Domandate e vi sarà dato, “petite , et dabitur vobis”, cercate e ritroverete, “quaerite, et invenietis, battete alla porta della divina clemenza, e vi sarà aperto, “pulsate, et aperietur vobis”. Che più si desidera per esser certi che le nostre suppliche avran favorevol rescritto?

Ma le nostre preghiere, dicon certe anime timorate, sono fiacche, sono deboli, sono di niun valore. Non temete, purché partano dal vostro cuore, purché fatte in nome di Gesù Cristo saranno a Dio accettevoli e care. Le nostre preghiere si possono rassomigliare, con S. Giovanni Crisostomo, a quelle monete, delle quali parla Seneca, monete di cuoio e di legno, a’ tempi degli antichi Romani. Avvi cosa più abbietta di un pezzo di cuoio o più meschina di un pezzetto di legno? Pure, perché corredate della impronta di Numa Pompilio imperatore, avean corso e valore in tutto l’impero. Non altrimenti son miserabili le nostre preghiere, son di niun prezzo; ma fatte in nome di Gesù Cristo acquistano con questa impronta prezzo, virtù ed efficacia. Ed è perciò che la Chiesa, inerendo alle parole del Salvatore, che in suo nome saran da noi richieste le grazie, “in nomine meo”, conchiude tutte le sue orazioni, dirette all’eterno Padre, con quella nota formola : “Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum”.

La nostra cooperazione in fine si richiede per rendere a Dio accetta e a noi vantaggiosa la preghiera. Tre condizioni devono accompagnarla: l’umiltà, la fiducia, e la perseveranza. L’orazione di un’anima umile penetra i cieli, “oratio humiliantis se nubes penetrabit” (Eccli. 32, 21), e presentandosi al divino cospetto, di là non parte senza che Dio l’accolga e l’esaudisca, “et non discedet, donec Altissimus aspiciat”. Ne abbiamo l’esempio nel Pubblicano, che in fondo del Tempio, umiliato, confuso non ardiva alzar gli occhi da terra, e unendo alla preghiera la confessione di esser egli peccatore, venne esaudito e giustificato.

   All’umiltà va congiunta la fiducia. Chi pregando ha il cuor titubante, e l’animo diffidente, è simile, dice S. Giacomo, ai flutti del mare agitato da’ venti; non isperi costui di cosa alcuna dal Signore. La confidenza, miei cari, la fiducia deve animare il nostro cuore pregando. A farne conoscere l’importanza il divin Salvatore, prima di far quelle grazie prodigiose a sollievo de’ peccatori e degl’infermi, esigeva da loro questa fiducia e confidenza. “Confide, fili,” disse al paralitico “remittuntur tibi peccata tua”; “confide filia, disse all’Emorroissa; così al cieco di Gerico, così a tanti altri, alla confidenza de’ quali assegnava la causa degli ottenuti prodigi. E come possiamo temere, interroga S. Agostino, che Iddio ci neghi quel ch’egli stesso ci esorta a domandare? “Hortatur ut petas, negabit quod petis”?

La perseveranza finalmente è l’importantissima condizione per rendere efficaci le nostre preghiere. Giuditta, ispirata da Dio a liberar la sua patria, cominciò la grande impresa colla preghiera, proseguì colla preghiera, e nell’atto di troncar il capo ad Oloferne, accompagnò il colpo con fervorosissima preghiera. La Cananea, perché, non ostante le replicate ripulse, perseverò a chiedere al Salvatore la grazia per l’ossessa sua figlia, fu finalmente esaudita e consolata. Gli Apostoli nel cenacolo, perché “perseverantes in oratione”, ricevettero lo Spirito Santo. Se la nostra orazione sarà perseverante, la divina misericordia ci sarà sempre propizia. La perseveranza finale, che è la corona di tutte le grazie, sebbene non si possa meritare “de condigno”, come ha definito la Chiesa nel Concilio Tridentino, pure Iddio non la nega a chi è assiduo e perseverante in domandarla. Io vorrei, scrive fa un dotto zelantissimo autore (il Segneri), poter dar fiato ad una tromba, come quella che si farà sentire per l’universo nel giorno estremo, e gridar forte a tutti, pregate, raccomandatevi; raccomandatevi, pregate, se volete salvarvi. Altrettanto dicea e lasciò scritto S. Alfonso de Liguori: “se potessi parlare a tutt’i predicatori e confessori del mondo, vorrei dire loro: “Fate ben penetrare nella mente a nel cuore de’ vostri uditori e penitenti questa gran massima: “Chi prega si salva, e chi non prega si danna”. Udiste, fratelli amanissimi, il modo con cui si dee pregar sempre, cioè con umiltà, con fiducia, con perseveranza: mettetelo in pratica, e sarete salvi!