SAN BONAVENTURA sermone, “per aquaeductum”

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Homilia Sancti Bonaventurae Episcopi

Sermo de regia dignitate Beatae Mariae Virginis Beata Maria Virgo, summi Regis mater est per generosam conceptionem, secundum quod dicitur in verbo sibi dicto ab Angelo: Ecce inquit, concipies et paries filium; et postea: Dabit ei Dominus sedem David patris eius, et regnabit in domo Iacob in aeternum, et regni eius non erit finis. Ac si aperte dicat: Concipies et paries filium Regem, in regali solio aeternaliter residentem, ac per hoc tamquam Mater Regis regnabis, et ut Regina in regali solio residebis. Si enim decet filium honorem matri dare, decet ut ei communicet thronum regalem; unde Virgo Maria, quia concepit eum, qui habet in femore scriptum: Rex regum et Dominus dominantium, statim ex quo concepit Filium Dei, Regina fuit, non solum terrae, sed etiam caeli, quod designatum est in Apocalypsi ubi dicitur: Signum magnum apparuit in caelo: mulier amicta sole, et luna sub pedibus eius, et in capite eius corona stellarum duodecim.

Maria Regina est praeclarissima quantum ad gloriam, quod bene designat Propheta in psalmo qui specialiter est de Christo et Virgine Maria, ubi primo dicitur de Christo: Sedes tua, Deus, in saeculum saeculi, et paulo post de Virgine: Adstitit regina a dextris tuis, hoc est in potioribus bonis, quod quidem dictum est quantum ad gloriam mentis. Sequitur: In vestitu deaurato, in quo exprimitur vestitus gloriosae immortalitatis, quem decuit habere Virginem in sua Assumptione. Absit enim ut vestimentum illud quo opertus est Christus, quod etiam fuit perfecte sanctificatum in terra per Verbum incarnatum, fiat cibus vermium. Sicut decuit Christum dare gratiam Matri suae plenissimam in sua Conceptione, sic decuit tribuere plenissimam gloriam in ipsius Matris Assumptione. Et ideo tenendum est quod Virgo, gloriosa in anima et corpore, sedeat iuxta Filium.

Maria Regina est et dispensatrix gratiae, quod designatum fuit in libro Esther, ubi dicitur: Parvus fons qui crevit in fluvium, et in lucem et solem conversus est. Virgo Maria sub figura Esther comparatur diffusioni fontis et luminis, propter diffusionem gratiae quantum ad duplicem usum, actionis licet et contemplationis. Gratia enim Dei, quae est medicativa generis humani, per ipsam ad nos descendit quasi per aquaeductum, quia ad ipsam Virginem pertinet dispensatio gratiae non per modum principii, sed per modum meriti. Merito igitur Virgo Maria est excellentissima Regina in comparationem ad plebem, cum impetrat veniam, superat pugnam, et distribuit gratiam, et consequenter perducit ad gloriam.

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[Omelia di s. Bonaventura vescovo: Sermone sulla regia dignità della Beata Maria Vergine La beata vergine Maria è diventata madre del sommo Re mediante una maternità del tutto singolare, secondo quanto si sentì dire dall’angelo: «Ecco, concepirai e darai alla luce un figlio»; e inoltre: «Il Signore gli darà il trono di David suo padre, e regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno e il suo regno non avrà fine». È come se dicesse apertamente: Concepirai e darai alla luce un figlio che è re, che eternamente abita sul suo trono regale, e per questo tu regnerai come madre del Re, e come Regina siederai tu pure sul trono regale. Se infatti è giusto che il figlio onori la madre, è altrettanto giusto che partecipi ad essa il trono regale; per questo, per il fatto cioè che la vergine Maria ha concepito colui che porta scritto sul suo femore «Re dei re e Signore dei dominanti», nell’istante stesso in cui concepì il Figlio di Dio, divenne Regina non soltanto della terra, ma anche del cielo. E questo era stato preannunciato nell’Apocalisse dove si dice : «Un grande prodigio apparve nel cielo: una donna vestita di sole, e la luna sotto i suoi piedi, e sul suo capo una corona di dodici stelle».

Anche riguardo alla sua gloria, Maria è regina illustre. Il Profeta esprime ciò in modo adeguato in quel salmo, che si riferisce in modo particolare a Cristo e alla vergine Maria. In esso si afferma in un primo luogo di Cristo: «Il tuo trono, o Dio, è eterno». Poco dopo si dice della Vergine: «Alla tua destra è assisa la regina». Ciò si riferisce alle qualità più elevate, e perciò viene attribuito alla gloria del cuore. Poi il testo prosegue: «Vestita in laminato d’oro»: qui si intende il vestito di quella gloriosa immortalità che Maria acquistò con l’assunzione. Non si può credere che il vestito che aveva circondato il Cristo e che sulla terra era stato santificato totalmente dal Verbo incarnato, fosse distrutto dalla corruzione. Come fu opportuno che Cristo donasse a sua Madre la grazia totale quando ella fu concepita, così fu pure opportuno che donasse la gloria completa con l’assunzione di sua Madre. Ne consegue che è da ritenere vero il fatto che la Vergine, entrata nella gloria con l’anima e con il corpo, sia assisa accanto al Figlio.

Maria è regina e distributrice di grazie: ciò fu. intuito nel libro di Ester, dove è scritto: «La fonte crebbe diventando fiume, e poi si trasformò in luce e in sole». La vergine Maria, raffigurata nella persona di Ester, è paragonata al dilatarsi dell’acqua e della luce, proprio perché diffonde la grazia che aiuta l’azione e la contemplazione. La stessa grazia di Dio che curò l’umanità, fu comunicata a noi attraverso Maria, come attraverso un acquedotto: è un compito della Vergine distribuire la grazia, non perché sia creatrice di grazia, ma perché ce la guadagna con i suoi meriti. Giustamente, quindi, la vergine Maria è regina nobile di fronte al suo popolo, proprio perché ci ottiene il perdono, vince le difficoltà, distribuisce la grazia e finalmente, introduce nella gloria.]

31 maggio: la Festa di MARIA REGINA

La festa di Maria Regina fu istituita infallibilmente ed irrevocabilmente da S.S. Pio XII, e fissata per il 31 maggio. Chi ne ha cambiato la data, a distanza di pochi anni, con un atto illecito e contrario al Magistero ecclesiale, e quindi alla volontà di DIO, ha così dimostrato, in modo palese e sfacciato, di non possedere alcuna autorità, di non essere cioè il Vicario di Cristo, bensì il suo antagonista ed un fantoccio luciferino, pieno di odio verso Dio e la Vergine Maria, Regina di tutte le creature che amano Dio. Ed ancora una volta la Donna della Genesi e dell’Apocalisse stana il serpente velenoso in attesa che ne schiacci definitivamente la testa “… il mio Cuore Immacolato alla fine trionferà”. W Maria, w la nostra Madre e REGINA.

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

AD CAELI REGINAM (1)

DIGNITÀ REGALE DELLA SANTA VERGINE MARIA

Maria Regina

Fin dai primi secoli della chiesa cattolica il popolo cristiano ha elevato supplici preghiere e inni di lode e di devozione alla Regina del cielo, sia nelle circostanze liete, sia, e molto più, nei periodi di gravi angustie e pericoli; né vennero meno le speranze riposte nella Madre del Re divino, Gesù Cristo, mai s’illanguidì la fede, dalla quale abbiamo imparato che la vergine Maria, Madre di Dio, presiede all’universo con cuore materno, come è coronata di gloria nella beatitudine celeste.

Ora, dopo le grandi rovine che, anche sotto i Nostri occhi, hanno distrutto fiorenti città, paesi e villaggi; davanti al doloroso spettacolo di tali e tanti mali morali, che si avanzano paurosamente in limacciose ondate, mentre vediamo scalzare le basi stesse della giustizia e trionfare la corruzione, in questo incerto e spaventoso stato di cose, Noi siamo presi da sommo dispiacere e perciò ricorriamo fiduciosi alla Nostra regina Maria, mettendo ai piedi di lei, insieme col Nostro, i sentimenti di devozione di tutti i fedeli, che si gloriano del nome di cristiani.

È gradito e utile ricordare che Noi stessi, il 1° novembre dell’anno santo 1950, abbiamo decretato, dinanzi a una grande moltitudine di em.mi cardinali, di venerandi vescovi, di sacerdoti e di cristiani, venuti da ogni parte del mondo, il dogma dell’Assunzione della beatissima Vergine Maria in cielo,(2) dove, presente in anima e corpo, regna tra i cori degli Angeli e dei santi, insieme al suo unigenito Figlio. Inoltre, ricorrendo il centenario della definizione dogmatica fatta dal Nostro predecessore, Pio IX, di imm. mem., sulla Madre di Dio Concepita senza alcuna macchia di peccato originale, abbiamo indetto l’anno mariano,(3) nel quale con gran gioia vediamo che non solo in questa alma città – specialmente nella Basilica Liberiana, dove innumerevoli folle continuano a professare apertamente la loro fede e il loro ardente amore alla Madre celeste – ma anche in tutte le parti del mondo la devozione verso la Vergine, Madre di Dio, rifiorisce sempre più; mentre i principali santuari di Maria hanno accolto e accolgono ancora pellegrinaggi imponenti di fedeli devoti.

Tutti poi sanno che Noi, ogni qualvolta Ce n’è stata offerta la possibilità, cioè quando abbiamo potuto rivolgere la parola ai Nostri figli, venuti a trovarci, e quando abbiamo indirizzato messaggi anche ai popoli lontani per mezzo delle onde radiofoniche, non abbiamo cessato di esortare tutti coloro, ai quali abbiamo potuto rivolgerCi, ad amare la nostra benignissima e potentissima Madre di un amore tenero e vivo, come conviene a figli. In proposito, ricordiamo particolarmente il radiomessaggio, che abbiamo indirizzato al popolo portoghese, nell’incoronazione della taumaturga Madonna di Fatima,(4) da Noi stessi chiamato radiomessaggio della «regalità» di Maria.(5)

Pertanto, quasi a coronamento di tutte queste testimonianze della Nostra pietà mariana, cui il popolo cristiano ha risposto con tanta passione, per concludere utilmente e felicemente l’anno mariano che volge al termine e per venire incontro alle insistenti richieste, che Ci sono pervenute da ogni parte, abbiamo stabilito di istituire la festa liturgica della «beata Maria Vergine Regina».

Non si tratta certo di una nuova verità proposta al popolo cristiano, perché il fondamento e le ragioni della dignità regale di Maria, abbondantemente espresse in ogni età, si trovano nei documenti antichi della chiesa e nei libri della sacra liturgia.

Ora vogliamo richiamarle nella presente enciclica per rinnovare le lodi della nostra Madre celeste e per renderne più viva la devozione nelle anime, con vantaggio spirituale.

I

Il popolo cristiano ha sempre creduto a ragione, anche nei secoli passati, che colei, dalla Quale nacque il Figlio dell’Altissimo, che «regnerà eternamente nella casa di Giacobbe» (Lc 1, 32), (sarà) «Principe della pace» (Is 9, 6), «Re dei re e Signore dei signori» (Ap 19, 16), al di sopra di tutte le altre creature di Dio ricevette singolarissimi privilegi di grazia. Considerando poi gli intimi legami che uniscono la madre al figlio, attribuì facilmente alla Madre di Dio una regale preminenza su tutte le cose.

Si comprende quindi facilmente come già gli antichi scrittori della Chiesa, avvalendosi delle parole dell’arcangelo san Gabriele, che predisse il regno eterno del Figlio di Maria (cf. Lc 1, 32-33), e di quelle di Elisabetta, che s’inchinò davanti a Lei, chiamandola «madre del mio Signore» (Lc 1, 43), abbiano, denominando Maria «madre del Re» e «madre del Signore», voluto significare che dalla regalità del Figlio dovesse derivare alla Madre una certa elevatezza e preminenza.

Pertanto sant’Efrem, con fervida ispirazione poetica, così fa parlare Maria: «Il cielo mi sorregga con il suo braccio, perché io sono più onorata di esso. Il cielo, infatti, fu soltanto tuo trono, non tua madre. Ora quanto è più da onorarsi e da venerarsi la madre del Re del suo trono!».(6) E altrove così egli prega Maria: «… Vergine Augusta e Padrona, Regina, Signora, proteggimi sotto le tue ali, custodiscimi, affinché non esulti contro di me satana, che semina rovine, né trionfi contro di me l’iniquo avversario».(7)

San Gregorio di Nazianzo chiama Maria: Madre del Re di tutto l’universo», «Madre Vergine, [che] ha partorito il Re di tutto il mondo»,(8) mentre Prudenzio ci parla della Madre, che si meraviglia «di aver generato Dio come uomo sì, ma anche come sommo Re».(9)

La dignità regale di Maria è poi chiaramente asserita da coloro che la chiamano «Signora», «Dominatrice», «Regina». Secondo un’omelia attribuita a Origene, Elisabetta apostrofa Maria «Madre del mio Signore», e anche: «Tu sei la mia Signora».(10)

Lo stesso concetto si può dedurre da un testo di san Girolamo, nel quale espone il suo pensiero circa le varie interpretazioni del nome di Maria: «Si deve sapere che Maria, nella lingua siriaca, significa Signora».(11) Ugualmente si esprime, dopo di lui, san Pietro Crisologo: «Il nome ebraico Maria si traduce “Domina” in latino: l’angelo dunque la saluta “Signora” perché sia esente da timore servile la madre del Dominatore; che per volontà del Figlio nasce e si chiama Signora».(12)

Sant’Epifanio, vescovo di Costantinopoli, scrive al sommo Pontefice Ormisda, che si deve implorare l’unità della Chiesa «per la grazia della Santa e consostanziale Trinità e per l’intercessione della nostra Santa Signora, gloriosa Vergine e Madre di Dio, Maria».(13)

Un autore di questo stesso tempo si rivolge con solennità alla beata Vergine seduta alla destra di Dio, invocandone il patrocinio, con queste parole: «Signora dei mortali, santissima Madre di Dio».(14)

Sant’Andrea di Creta attribuisce spesso la dignità regale alla Vergine; ne sono prova i seguenti passi: « (Gesù Cristo) portò in questo giorno come regina del genere umano dalla dimora terrena (ai cieli) la sua Madre sempre Vergine, nel cui seno, pur rimanendo Dio, prese l’umana carne».(15) E altrove: «Regina di tutti gli uomini, perché fedele di fatto al significato del suo nome, eccettuato soltanto Dio, si trova al di sopra di tutte le cose».(16)

San Germano poi così si rivolge all’umile Vergine: «Siedi, o Signora: essendo tu Regina e più eminente di tutti i re ti spetta sedere nel posto più alto»;(17) e la chiama. «Signora di tutti coloro che abitano la terra».(18)

San Giovanni Damasceno la proclama «Regina, Padrona, Signora»(19) e anche «Signora di tutte le creature»;(20) e un antico scrittore della chiesa occidentale la chiama «Regina felice», «Regina eterna, presso il Figlio Re», della quale «il bianco capo è ornato di aurea corona».(21)

Sant’Ildefonso di Toledo riassume tutti i titoli di onore in questo saluto: «O mia Signora, o mia Dominatrice: tu sei mia Signora, o Madre del mio Signore… Signora tra le ancelle, regina tra le sorelle».(22)

I teologi della Chiesa, raccogliendo l’insegnamento di queste e di molte altre testimonianze antiche, hanno chiamato la beatissima Vergine Regina di tutte le cose create, Regina del mondo; Signora dell’universo.

I sommi pastori della Chiesa non mancarono di approvare e incoraggiare la devozione del popolo cristiano verso la celeste Madre e Regina con esortazioni e lodi. Lasciando da parte i documenti dei Papi recenti, ricorderemo che già nel secolo settimo il Nostro predecessore san Martino I, chiamò Maria «Nostra Signora gloriosa, sempre Vergine»;(23) sant’Agatone, nella lettera sinodale, inviata ai padri del sesto concilio ecumenico, la chiamò «Nostra Signora, veramente e propriamente Madre di Dio»;(24) e nel secolo VIII, Gregorio II, in una lettera inviata al patriarca san Germano, letta tra le acclamazioni dei padri del settimo concilio ecumenico, proclamava Maria «Signora di tutti e vera Madre di Dio» e «Signora di tutti i cristiani».(25)

Ricorderemo parimenti che il Nostro predecessore di immortale memoria Sisto IV, nella lettera apostolica Cum praeexcelsa,(26) in cui accenna con favore alla dottrina dell’Immacolata Concezione della beata Vergine, comincia proprio con le parole che dicono Maria «Regina, che sempre vigile intercede presso il Re, che ha generato». Parimenti Benedetto XIV, nella lettera apostolica Gloriosae Dominae, chiama Maria «Regina del cielo e della terra», affermando che il sommo Re ha, in qualche modo, affidato a Lei il suo proprio impero.(27)

Onde sant’Alfonso, tenendo presente tutta la tradizione dei secoli che lo hanno preceduto, poté scrivere con somma devozione: «Poiché la Vergine Maria fu esaltata ad essere la Madre del Re dei re, con giusta ragione la Chiesa l’onora col titolo di Regina».(28)

II

La sacra liturgia, che è lo specchio fedele dell’insegnamento tramandato dai Padri e affidato al popolo cristiano, ha cantato nel corso dei secoli e canta continuamente sia in Oriente che in Occidente le glorie della celeste Regina.

Fervidi accenti risuonano dall’Oriente: «O Madre di Dio, oggi sei trasferita al cielo sui carri dei cherubini, i serafini si onorano di essere ai tuoi ordini, mentre le schiere dei celesti eserciti si prostrano dinanzi a te».(29)

E ancora: «O giusto, beatissimo (Giuseppe), per la tua origine regale sei stato fra tutti prescelto a essere lo sposo della Regina immacolata, la quale darà alla luce in modo ineffabile il Re Gesù».(30) E inoltre: «Scioglierò un inno alla Madre Regina, alla quale mi rivolgo con gioia, per cantare lietamente le sue glorie. … O Signora, la nostra lingua non ti può celebrare degnamente, perché Tu, che hai dato alla luce Cristo, nostro Re, sei stata esaltata al di sopra dei serafini. … Salve, o Regina del mondo, salve, o Maria, Signora di tutti noi».(31)

Nel «Messale» etiopico si legge: « O Maria, centro di tutto il mondo … tu sei più grande dei cherubini pluriveggenti e dei serafini dalle molte ali. … Il cielo e la terra sono ricolmi della santità della tua gloria».(32)

Fa eco la liturgia della chiesa latina con l’antica e dolcissima preghiera «Salve, regina», le gioconde antifone «Ave, o regina dei cieli», «Regina del cielo, rallégrati, alleluia» e altri testi, che si recitano in varie feste della beata Vergine Maria: «Come Regina stette alla tua destra con un abito dorato, rivestita di vari ornamenti»;(33) «La terra e il popolo cantano la tua potenza, o regina»;(34) «Oggi la vergine Maria sale al cielo: godete, perché regna con Cristo in eterno».(35)

A tali canti si devono aggiungere le Litanie lauretane, che richiamano i devoti a invocare ripetutamente Maria Regina; e nel quinto mistero glorioso del santo Rosario, la mistica corona della celeste Regina, i fedeli contemplano in pia meditazione già da molti secoli, il regno di Maria, che abbraccia il cielo e la terra.

Infine l’arte ispirata ai principi della fede cristiana e perciò fedele interprete della spontanea e schietta devozione popolare, fin dal Concilio di Efeso, è solita rappresentare Maria come Regina e Imperatrice, seduta in trono e ornata delle insegne regali, cinta il capo di corona e circondata dalle schiere degli Angeli e dei santi, come colei che domina non soltanto sulle forze della natura, ma anche sui malvagi assalti di satana. L’iconografia, anche per quel che riguarda la dignità regale della beata vergine Maria, si è arricchita in ogni secolo di opere di grandissimo valore artistico, arrivando fino a raffigurare il divino Redentore nell’atto di cingere il capo della Madre sua con fulgida corona.

I pontefici romani non hanno mancato di favorire questa devozione del popolo, decorando spesso di diadema, con le proprie mani o per mezzo di legati pontifici, le immagini della vergine Madre di Dio, già distinte per singolare venerazione.

III

Come abbiamo sopra accennato, venerabili fratelli, l’argomento principale, su cui si fonda la dignità regale di Maria, già evidente nei testi della tradizione antica e nella sacra liturgia, è senza alcun dubbio la sua divina maternità. Nelle sacre Scritture infatti, del Figlio, che sarà partorito dalla Vergine, si afferma: «Sarà chiamato Figlio dell’Altissimo e il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre; e regnerà nella casa di Giacobbe eternamente e il suo regno non avrà fine» (Lc 1, 32-33); e inoltre Maria è proclamata «Madre del Signore» (Lc 1, 43). Ne segue logicamente che ella stessa è Regina, avendo dato la vita a un Figlio; che nel medesimo istante del concepimento, anche come uomo, era Re e Signore di tutte le cose, per l’unione ipostatica della natura umana col Verbo. San Giovanni Damasceno scrive dunque a buon diritto: «È veramente diventata la Signora di tutta la creazione, nel momento in cui divenne Madre del Creatore»(36) e lo stesso Arcangelo Gabriele può dirsi il primo araldo della dignità regale di Maria.

Tuttavia la Beatissima Vergine si deve proclamare Regina non soltanto per la maternità divina, ma anche per la parte singolare che, per volontà di Dio, ebbe nell’opera della nostra salvezza eterna. «Quale pensiero – scrive il Nostro predecessore di felice memoria Pio XI – potremmo avere più dolce e soave di questo, che Cristo è nostro re non solo per diritto nativo, ma anche per diritto acquisito e cioè per la redenzione? Ripensino tutti gli uomini dimentichi quanto costammo al nostro Salvatore: “Non siete stati redenti con oro o argento, beni corruttibili, … ma col sangue prezioso di Cristo, agnello immacolato e incontaminato” (1 Pt 1;18-19). Non apparteniamo dunque a noi stessi, perché “Cristo a caro prezzo” (1 Cor 6, 20) ci ha comprati».(37)

Ora nel compimento dell’opera di redenzione Maria santissima fu certo strettamente associata a Cristo, onde giustamente si canta nella sacra liturgia: «Santa Maria, regina del cielo e Signora del mondo, affranta dal dolore, se ne stava in piedi presso la croce del Signore nostro Gesù Cristo».(38) E un piissimo discepolo di sant’Anselmo poteva scrivere nel medioevo: «Come … Dio, creando tutte le cose nella sua potenza, è Padre e Signore di tutto, così Maria, riparando tutte le cose con i suoi meriti, è la Madre e la Signora di tutto: Dio è Signore di tutte le cose, perché le ha costituite nella loro propria natura con il suo comando, e Maria è Signora di tutte le cose, riportandole alla loro originale dignità con la grazia che Ella meritò».(39) Infatti: «Come Cristo per il titolo particolare della redenzione è nostro Signore e nostro Re, così anche la Vergine beata (è nostra Signora) per il singolare concorso prestato alla nostra redenzione, somministrando la sua sostanza e offrendola volontariamente per noi, desiderando, chiedendo e procurando in modo singolare la nostra salvezza».(40)

Da queste premesse si può così argomentare: se Maria, nell’opera della salute spirituale, per volontà di Dio, fu associata a Cristo Gesù, principio di salvezza, e in maniera simile a quella con cui Eva fu associata ad Adamo, principio di morte, sicché si può affermare che la nostra redenzione si compì se­condo una certa «ricapitolazione»,(41) per cui il genere umano, assoggettato alla morte, per causa di una vergine, si salva anche per mezzo di una Vergine; se inoltre si può dire che questa gloriosissima Signora venne scelta a Madre di Cristo proprio «per essere a Lui associata nella redenzione del genere umano»(42) e se realmente «fu Lei, che esente da ogni colpa personale o ereditaria, strettissimamente sempre unita al suo Figlio, Lo ha offerto sul Golgota all’eterno Padre sacrificando insieme l’amore e i diritti materni, quale nuova Eva, per tutta la posterità di Adamo, macchiata dalla sua caduta miseranda»;(43) se ne potrà legittimamente concludere che, come Cristo, il nuovo Adamo, è nostro Re non solo perché Figlio di Dio, ma anche perché nostro Redentore, così, secondo una certa analogia, si può affermare parimenti che la beatissima Vergine è Regina, non solo perché Madre di Dio, ma anche perché quale nuova Eva è stata associata al nuovo Adamo.

È certo che in senso pieno, proprio e assoluto, soltanto Gesù Cristo, Dio e uomo, è Re; tuttavia, anche Maria, sia come madre di Cristo Dio, sia come socia nell’opera del divin Redentore, e nella lotta con i nemici e nel trionfo ottenuto su tutti, ne partecipa la dignità regale, sia pure in maniera limitata e analogica. Infatti da questa unione con Cristo Re deriva a Lei tale splendida sublimità, da superare l’eccellenza di tutte le cose create: da questa stessa unione con Cristo nasce quella regale potenza, per cui Ella può dispensare i tesori del regno del divin redentore; infine dalla stessa unione con Cristo ha origine l’inesauribile efficacia della sua materna intercessione presso il Figlio e presso il Padre.

Nessun dubbio pertanto che Maria santissima sopravanzi in dignità tutta la creazione e abbia su tutti il primato, dopo il suo Figliuolo. «Tu infine – canta san Sofronio – hai di gran lunga sopravanzato ogni creatura. … Che cosa può esistere di più sublime di tale gioia, o Vergine Madre? Che cosa può esistere di più elevato di tale grazia, che per volontà divina tu sola hai avuto in sorte?».(44) E va ancora più oltre nella lode san Germano: «La tua onorifica dignità Ti pone al di sopra di tutta la creazione: la tua sublimità Ti fa superiore agli Angeli».(45) San Giovanni Damasceno poi giunge a scrivere la seguente espressione: «È infinita la differenza tra i servi di Dio e la sua Madre».(46)

Per aiutarci a comprendere la sublime dignità che la Madre di Dio ha raggiunto al di sopra di tutte le creature, possiamo ripensare che la santissima Vergine, fin dal primo istante del suo concepimento, fu ricolma di tale abbondanza di grazie da superare la grazia di tutti i santi. Onde – come scrisse il Nostro predecessore Pio XI di fel. mem. nella lettera apostolica Ineffabilis Deus – «ha con tanta munificenza arricchito Maria con l’abbondanza di doni celesti, tratti dal tesoro della divinità, di gran lunga al di sopra degli angeli e di tutti i santi, che Ella, del tutto immune da ogni macchia di peccato, in tutta la sua bellezza e perfezione, avesse tale pienezza d’innocenza e di santità che non se ne può pensare una più grande al di sotto di Dio e che all’infuori di Dio nessuno riuscirà mai a comprendere».(47)

Inoltre la beata Vergine non ha avuto soltanto il supremo grado, dopo Cristo, dell’eccellenza e della perfezione, ma anche una partecipazione di quell’influsso, con cui il suo Figlio e Redentore nostro giustamente si dice che regna sulla mente e sulla volontà degli uomini. Se infatti il Verbo opera i miracoli e infonde la grazia per mezzo dell’umanità che ha assunto, se si serve dei sacramenti dei suoi santi come di strumenti per la salvezza delle anime, perché non può servirsi dell’ufficio e dell’opera della Madre sua Santissima per distribuire a noi i frutti della redenzione? «Con animo veramente materno – così dice lo stesso predecessore Nostro Pio IX di imm. mem. – trattando l’affare della nostra salute Ella è sollecita di tutto il genere umano, essendo costituita dal Signore Regina del cielo e della terra ed esaltata sopra tutti i cori degli Angeli e sopra tutti i gradi dei santi in cielo, stando alla destra del suo unigenito Figlio; Gesù Cristo, Signore nostro, con le sue materne suppliche impetra efficacissimamente, ottiene quanto chiede, né può rimanere inesaudita».(48) A questo proposito l’altro predecessore Nostro di fel. mem., Leone XIII, dichiarò che alla beata Vergine Maria è stato concesso un potere «quasi immenso» nell’elargizione delle grazie;(49) e san Pio X aggiunge che Maria compie questo suo ufficio «come per diritto materno».(50)

Godano dunque tutti i fedeli cristiani di sottomettersi all’impero della Vergine Madre di Dio, la Quale, mentre dispone di un potere regale, arde di materno amore.

Però in queste e altre questioni, che riguardano la beata Vergine, i teologi e i predicatori della divina parola abbiano cura di evitare certe deviazioni per non cadere in un doppio errore; si guardino cioè da opinioni prive di fondamento e che con espressioni esagerate oltrepassano i limiti del vero; e dall’altra parte si guardino pure da un’eccessiva ristrettezza di mente nel considerare quella singolare, sublime, anzi quasi divina dignità della Madre di Dio, che il dottore angelico ci insegna ad attribuirle «per ragione del Bene infinito, che è Dio».(51)

Del resto, in questo, come in altri campi della dottrina cristiana, «la norma prossima e universale» è per tutti il Magistero vivo della Chiesa, che Cristo ha costituito «anche per illustrare e spiegare quelle cose, che nel deposito della fede sono contenute solo oscuramente e quasi implicitamente».(52)

IV

Dai monumenti dell’antichità cristiana, dalle preghiere della liturgia, dall’innata devozione del popolo cristiano, dalle opere d’arte, da ogni parte abbiamo raccolto espressioni e accenti; secondo i quali la Vergine Madre di Dio primeggia per la sua dignità regale; e abbiamo anche mostrato che le ragioni, che la sacra teologia ha dedotto dal tesoro della fede divina, confermano pienamente questa verità. Di tante testimonianze riportate si forma un concerto, la cui eco risuona larghissimamente, per celebrare il sommo fastigio della dignità regale della Madre di Dio e degli uomini, la quale è stata «esaltata ai regni celesti, al di sopra dei cori angelici ».(53)

EssendoCi poi fatta la convinzione dopo mature ponderate riflessioni, che ne verranno grandi vantaggi alla Chiesa se questa verità solidamente dimostrata risplenda più evidente davanti a tutti, quasi lucerna più luminosa sul suo candelabro, con la Nostra autorità apostolica, decretiamo e istituiamo la festa di Maria Regina, da celebrarsi ogni anno in tutto il mondo il giorno 31 maggio. Ordiniamo ugualmente che in detto giorno sia rinnovata la “Consacrazione del genere umano al Cuore Immacolato della beata vergine Maria. In questo gesto infatti è riposta grande speranza che possa sorgere una nuova era, allietata dalla pace cristiana e dal trionfo della Religione.

Procurino dunque tutti di avvicinarsi ora con maggior fiducia di prima, quanti ricorrono al trono di grazia e di misericordia della Regina e Madre nostra, per chiedere soccorso nelle avversità, luce nelle tenebre, conforto nel dolore e nel pianto, e, ciò che conta più di tutto, si sforzino di liberarsi dalla schiavitù del peccato, per poter presentare un ossequio immutabile, penetrato dalla fragrante devozione di figli, allo scettro regale di sì grande Madre. I suoi templi siano frequentati dalle folle dei fedeli, per celebrarne le feste; la pia corona del Rosario sia nelle mani di tutti per riunire insieme, nelle chiese, nelle case, negli ospedali, nelle carceri, sia i piccoli gruppi, sia le grandi adunanze di fedeli, a cantare le sue glorie. Sia in sommo onore il nome di Maria, più dolce del nettare, più prezioso di qualunque gemma; e nessuno osi pronunciare empie bestemmie, indice di animo corrotto, contro questo nome ornato di tanta maestà e venerando per la grazia materna; e neppure si osi mancare in qualche modo di rispetto ad esso.

Tutti si sforzino di imitare, con vigile e diligente cura, nei propri costumi e nella propria anima, le grandi virtù della Regina celeste e nostra Madre amantissima. Ne deriverà di conseguenza che i cristiani, venerando e imitando sì grande Regina e Madre, si sentano infine veramente fratelli, e, sprezzanti dell’invidia e degli smodati desideri delle ricchezze, promuovano l’amore sociale, rispettino i diritti dei poveri e amino la pace, Nessuno dunque si reputi figlio di Maria, degno di essere accolto sotto la sua potentissima tutela, se sull’esempio di Lei non si dimostrerà mite, giusto e casto, contribuendo con amore alla vera fraternità, non ledendo e nuocendo, ma aiutando e confortando.

In molti paesi della terra vi sono persone ingiustamente perseguitate per la loro professione cristiana e private dei diritti umani e divini della libertà: per allontanare questi mali nulla valgono finora le giustificate richieste e le ripetute proteste. A questi figli innocenti e tormentati rivolga i suoi occhi di misericordia, che con la loro luce portano il sereno allontanando i nembi e le tempeste, la potente Signora delle cose e dei tempi, che sa placare le violenze con il suo piede verginale; e conceda anche a loro di poter presto godere della dovuta libertà per la pratica aperta dei doveri religiosi, sicché servendo la causa dell’evangelo, con opera concorde e con egregie virtù, che nelle asprezze rifulgono ad esempio, giovino anche alla solidità e al progresso della città terrena.

Pensiamo anche che la festa istituita con questa lettera enciclica, affinché tutti più chiaramente riconoscano e con più cura onorino il clemente e materno impero della Madre di Dio, possa contribuire assai a che si conservi, si consolidi e si renda perenne la pace dei popoli, minacciata quasi ogni giorno da avvenimenti pieni di ansietà. Non è Ella l’arcobaleno posto sulle nubi verso Dio, come segno di pacifica alleanza? (cf. Gn 9, 13). «Mira l’arcobaleno e benedici colui che l’ha fatto; esso è molto bello nel suo splendore, abbraccia il cielo nel suo cerchio radioso e le mani dell’Altissimo lo hanno teso» (Eccli 43, 12-13). Chiunque pertanto onora la Signora dei celesti e dei mortali – e nessuno si creda esente da questo tributo di riconoscenza e di amore – La invochi come Regina potentissima, mediatrice di pace; rispetti e difenda la pace, che non è ingiustizia impunita né sfrenata licenza, ma è invece concordia bene ordinata sotto il segno e il comando della volontà di Dio: a fomentare e accrescere tale concordia spingono le materne esortazioni e gli ordini di Maria Vergine.

Desiderando moltissimo che la Regina e Madre del popolo cristiano accolga questi Nostri voti e rallegri della sua pace le terre scosse dall’odio, e a noi tutti mostri, dopo questo esilio, Gesù, che sarà la nostra pace e la nostra gioia in eterno, a voi, venerabili fratelli, e ai vostri fedeli, impartiamo di cuore l’apostolica benedizione, come auspicio dell’aiuto di Dio onnipotente e in testimonianza del Nostro amore.

Roma, presso San Pietro, nella festività della maternità di Maria vergine, l’11 ottobre 1954, XVI del Nostro pontificato.

PIO PP. XII

(1) PIUS PP. XII, Litt. enc. Ad caeli Reginam de regali Beatae Mariae Virginis dignitate eiusque festo instituendo, [Ad venerabiles Fratres Patriarchas, Archiepiscopos, Episcopos aliosque locorum Ordinarios pacem et communionem cum Apostolica Sede habentes], 11 octobris 1954: AAS 46(1954), pp. 625-640.

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Istituzione della festa della regalità di Maria s.ma. La devozione costante dei popoli per Maria s.ma, culminata con la proclamazione del dogma della sua Assunzione. Coronare l’opera istituendo la festa di Maria Regina, in realtà non nuova, ma già espressa in ogni età: dalla sacra Scrittura, dai padri e scrittori ecclesiastici con dottrina profonda e poetici accenti, dai sommi pontefici, dalla liturgia romana e orientale e infine dall’arte d’ogni tempo. Principali argomenti dogmatici e di convenienza. È giusto perciò che tutti riconoscano questo potere regale: la festa al 31 maggio; ricorrere alla Madre di Dio, imitandone le virtù, impetrando la forza nelle tribolazioni, la pace fra i popoli e la visione eterna del suo divin Figlio.

(2) Cf. Const. apost. Munificentissimus Deus: AAS 42 (1950), p. 753ss; EE 6/1931ss.

(3) Cf. Litt. enc. Fulgens corona: AAS 45(1953), p. 577ss; EE 6/944ss.

(4) Cf. AAS 38(1946), p. 264ss.

(5) Cf. L’Osservatore Romano, 19.5.1946.

(6) S. EPHRAEM, Hymni de B. Maria, ed. Th. J. Lamy, t. II, Mechliniae 1886, Hymn. XIX, p. 624.

(7) S. EPHRAEM, Oratio ad Ss.mam Dei Matrem: Opera omnia, ed. Assemani, t. III (graece), Romae 1747, p. 546.

(8) S. GREGORIUS NAZ., Poemata dogmatica, XVIII, v. 58: PG 37, 485.

(9) PRUDENTIUS, Dittochaeum, XXVII: PL 60, 102A; Obras completas de Aurelio Prudencio (edicion bilingüe), BAC, Madrid 1981, p. 758.

(10) Hom. in S. Lucam, hom. VII: ed. Rauer, Origenes Werke, t. IX, p. 48 (ex catena Macarii Crysocephali). Cf. PG 13, 1902D.

(11) S. HIERONYMUS, Liber de nominibus hebraeis: PL 23, 886.

(12) S. PETRUS CHRYSOLOGUS, Sermo 142, De Annuntiatione B.M.V.: PL 52, 579C; cf, etiam 582B, 584A: «Regina totius exstitit castitatis».

(13) Relatio Epiphanii Ep. Constantin.: PL 63, 498D.

(14) Encomium in Dormitionem Ss.mae Deiparae (inter opera S. Modesti): PG 86, 3306B.

(15) S. ANDREAS CRETENSIS, Homilia II in Dormitionem Ss.mae Deiparae: PG 97, 1079B.

(16) S. ANDREAS CRETENSIS, Homilia III in Dormitionem Ss.mae Deiparae, I: PG 98, 303A.

(17) S. GERMANUS, In Praesentationem Ss.mae Deiparae, I: PG 98, 303A.

(18) S. GERMANUS, In Praesentationem Ss.mae Deiparae, II: PG 98, 315C.

(19) S. IOANNES DAMASCENUS, Homilia I in Dormitionem B.M.V.: PG 96, 719A.

(20) S. IOANNES DAMASCENUS, De fide orthodoxa,1. IV, c.14: PG 44,1158B.

(21) De laudibus Mariae (inter opera Venantii Fortunati): PL 88, 282B et 283A.

(22) ILDEFONSUS TOLETANUS; De virginitate perpetua B.M.V.: PL 96, 58AD.

(23) S. MARTINUS I, Epist. XIV: PL 87, 199-200A.

(24) S. AGATHO: PL 87; 1221A; Dz 547.

(25) HARDOUIN, Acta Conciliorum, IV, 234 et 238: PL 89, 508B.

(26) XYSTUS IV, Bulla Cum praeexcelsa, 28 febr. 1476.

(27) BENEDICTUS XIV, Bulla Gloriosae Dominae, 07 sept. 1748.

(28) S. ALFONSO, Le glorie di Maria, p. I. c. I, § 1.

(29) Ex liturgia Armenorum: in festo Assumptionis, hymnus ad Matutinum.

(30) Ex Menaeo (byzantino): Dominica post Natalem, in Canone, ad Matutinum.

(31) Officium hymni Akátistos (in ritu byzantino).

(32) Missale Aethiopicum, Anaphora Dominae nostrae Mariae, Matris Dei.

(33) Breviarium Romanum, Versiculus sexti Respons.

(34) Festum Assumptionis, Hymnus Laudum.

(35) Festum Assumptionis, ad Magnificat II Vesp.

(36) S. IOANNES DAMASCENUS, De fide orthodoxa, 1. IV, c. 14: PG 94, 1158s.B.

(37) PIUS XI, Litt. enc. Quas primas: AAS 17(1925), p. 599; EE 5/147.

(38) Festum septem dolorum B. Mariae Virg., Tractus.

(39) EADMERUS, De excellentia Virginis Mariae, c. 11: PL 159, 508AB.

(40) F. SUAREZ, De mysteriis vitae Christi, disp. XXII, sect. II: éd. Vivès, XIX, 327.

(41) S. IRENAEUS, Adv. haer., V, 19, 1: PG 7, 1175B.

(42) PIUS XI, Epist. Auspicatus profecto: AAS 25(1933), p. 80.

(43) PIUS XII, Litt, enc. Mystici corporis: AAS 35(1943), p. 247; EE 6/258.

(44) S. SOPHRONIUS, In Annuntiationem Beatae Mariae Virginis: PG 87, 3238D et 3242A.

(45) S. GERMANUS, Hom. II in Dormitionem Beatae Mariae Virginis: PG 98, 354B.

(46) S. IOANNES DAMASCENUS, Hom. I in Dormitionem Beatae Mariae Virginis: PG 96, 715A.

(47) PIUS IX, Bulla Ineffabilis Deus: Acta Pii IX, I, pp. 597-598; EE 2/app.

(48) Ibidem, p. 618; EE 2/app.

(49) LEO XIII, Litt. enc. Adiutricem populi: AAS 28(1895-96), p.130; EE 3.

(50) PIUS X, Litt. enc. Ad diem illum: AAS 36(1903-04), p. 455; EE 4/27.

(51) S. THOMAS, Summa theol., I, q. 25, a. 6, ad 4.

(52) PIUS XII, Litt. enc. Humani generis: AAS 42(1950), p. 569; EE 6/721.

(53) Ex Brev. Rom.: Festum Assumptionis Beatae Mariae Virginis.

ABUSO DELLE GRAZIE

ABUSO DELLE GRAZIE

[E. Barbier “i Tesori di Cornelio Alapide, vol. I, Torino,1930]

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  1. L’abuso delle grazie è una grande disgrazia. — O città ingrata! esclamava Gesù Cristo versando lagrime sopra Gerusalemme che abusava di tante sue grazie; o città sventurata! Ah se tu conoscessi, almeno ancora in questo giorno, quel che importa alla tua pace! ma ora questo è a’ tuoi occhi celato (Luc. XIX, 41-42); tu ti rifiuti di vedere i miei favori per non approfittarne. O figlia di Sionne, tu sei pur quella ch’io ho tanto amato, onorato, arricchito, istruito, ed or non mi conosci, ma mi rigetti, mi condanni, mi perseguiti, mi crocifiggi!… Io son disceso per te dal Cielo in terra; per te son nato e vissuto tra continui stenti, dolori e privazioni : io t’ho visitata, coltivata; ho guarito i tuoi lebbrosi, i tuoi malati, i tuoi ossessi, risuscitato i tuoi morti: e tu mi fuggi, mi disprezzi, mi fai guerra!… Non son forse tratteggiati in questo quadro i cristiani infedeli ed ingrati? non son essi gli imitatori de’ Giudei?… Udite S. Agostino che mette sulle labbra di Gesù queste parole: O uomo, sono io che t’ho fatto colle mie mani dal fango della terra, che t’ho inspirato il soffio della vita; che mi son degnato crearti a mia immagine e somiglianza, e tu, trascurando i miei precetti, fatti per darti la vita, hai preferito il Demonio al tuo Dio. Quando fosti cacciato dal Paradiso e incatenato coi ceppi della morte per cagione del tuo peccato, io presi carne, stetti esposto in una mangiatoia, coricato ed avviluppato in fasce; tollerai affronti e privazioni senza numero; sopportai gli schiaffi e gli sputi di coloro che di me si burlavano; fui flagellato, coronato di spine; e finalmente spirai su la croce. Perché hai tu lasciato perdersi il frutto di quello ch’io soffrii per te? Perché, ingrato, non volesti riconoscere e accettare i doni della Redenzione? Perché attaccarmi alla croce de’ tuoi misfatti, croce mille volte più dolorosa di quella del Golgota? Sì, la croce de’ tuoi peccati è per me molto più pesante che la croce del Calvario: perché a questa io mi sottoposi volentieri per compassione di te e vi morii per rendere a te la vita; ed a quella io mi veggo da te inchiodato contro mio volere (Enchiridion). Udite quel che fa l’uomo il quale abusa delle grazie: ecco i malanni che attira sopra di lui questo abuso. « La vigna del mio diletto, dice Isaia (V, 1-4), è piantata in colle ubertoso. Egli l’ha munita tutt’intorno di siepe; la sgombrò dalle pietre, la fornì d’elette viti, v’ha costrutto nel bel mezzo una torre, vi stabilì uno strettoio, poi aspettò che desse uve ed ella portò lambrusche. – Or dunque, abitanti di Gerusalemme, o voi uomini di Giuda, giudicate tra di me e la mia vigna. Che cosa potevo io fare per lei, che non l’abbia fatto? Perché invece d’uve m’ha prodotto lambrusche?». Non è forse questa la condanna di chi abusa delle grazie? Non siamo noi tutti la vigna del Signore? Non s’è egli studiato in ogni modo di schiantare dal nostro cuore i bronchi e le cattive piante? Non ci ha forse scelti con quella cura, con cui il vignaiuolo sceglie le piante per la sua vigna per averne frutto? Non siamo noi stati circondati d’attenzioni e colmati di grazie? Che poteva far di più per noi il Signore? Ci ha creati a sua immagine, e noi quest’immagine l’abbiamo profanata, sfigurata nelle lordure del peccato; ci ha riscattati a prezzo del suo sangue; ha istituito i Sacramenti, quasi torre insuperabile che doveva servire a proteggerci, e noi tutti questi benefizi abbiamo resi inutili. Che pesante fardello! che terribile disgrazia!… Noi abusiamo della creazione, della Redenzione, de’ Sacramenti, delle sante inspirazioni, della parola e della legge di Dio. Abusiamo degli occhi, delle orecchie, della lingua, de’ piedi, delle mani, di tutto il corpo, della sanità, delle forze, degli anni. Abusiamo di tutti gli elementi, del giorno e della notte; abusiamo dell’anima e delle sue potenze, memoria, intelligenza, volontà; abusiamo del cuore, come delle ricchezze, degli onori, dei piaceri, del cibo, della bevanda, de’ vestimenti. Abusiamo della vita, del tempo, dell’eternità, degli Angeli, degli uomini, delle creature tutte, di Dio medesimo!… O delitto inconcepibile! o sventura micidiale!
  2. Castighi dell’abuso delle grazie. — « Ed ora vi spiegherò quel che son per fare alla mia vigna ingrata, dice il Signore: ne estirperò la siepe ed ella sarà devastata; getterò a terra il suo muro ed ella sarà conculcata». (Isai. V, 5). « La renderò deserta, e non sarà potata, né sarchiata; vi cresceranno sterpi e spine; comanderò alle nuvole che non piovano stilla sopra di lei » (Ib. 6). « Coloro che abusano delle grazie, soggiunge S. Paolo a’ Romani, s’accumulano un monte d’ira pel giorno dell’ira e della manifestazione del giudizio di Dio» (II, 5). Noi, scrive S. Gregorio, i quali abbiamo ricevuto molte più grazie che non parecchi altri, dovremo anche sottostare a più severo giudizio. Poiché a proporzione che aumentano le grazie, s’accresce pure il conto che dovremo renderne. Tanto più umili dunque dobbiamo essere e più pronti a servire Dio, approfittando de’ favori ricevuti, quanto più stretto conto vediamo di doverne rendere in ragione del loro numero e valore. « E benedetta dal Signore quella terra, notava già S. Paolo agli Ebrei, che bevendo la pioggia, che di frequente le cade in grembo, produce per chi la coltiva utili erbe: ma se germoglia triboli e spine, è riprovata e prossima a maledizione, e il suo fine sarà d’essere bruciata ». Il Signore aguzzerà la sua collera in forma di lancia, sta scritto nel Libro della Sapienza, contro coloro che abusano dei suoi doni: (Sap. V, 21). Ora, commenta S. Gregorio, « siccome noi abusiamo di tutto, saremo quindi colpiti in tutto. Tutto ciò che riceviamo per l’uso della vita, è da noi impiegato al peccare; ma badiamo che tutto ciò che noi, mancando al nostro fine, volgeremo a cattivo uso, diverrà per noi strumento di vendetta ». E dice la Sapienza: « Il mondo intero combatterà a fianco di Dio contro gl’insensati che abusano delle sue grazie » (Sap. V, 21). Il sole, gli astri, la terra, le piante, gli animali, gli elementi tutti grideranno vendetta contro quelli che avranno abusato dei loro doni che sono benefizi di Dio. « Noi sacrifichiamo la nostra sanità ai vizi, soggiunge S. Gregorio, e impieghiamo l’abbondanza dei beni terreni non a sovvenire alle necessità della vita, ma a pervertirci. È dunque giusto che tutte le cose, le quali servirono alle nostre passioni, tutte a un tempo ci feriscano, così che alla fine ci strazino tanti tormenti quanti furono i godimenti provati prima ».

La strana sindrome di nonno Basilio: 21

nonno

Caro direttore, spero di non esserle di fastidio in questa mia nuova missiva e di non seccare troppo i suoi lettori che avranno la pazienza di seguirmi ma, la prego, le ricordo che si tratta di un’opera di misericordia: “consigliare i dubbiosi”, anche se per la verità, più che dubbioso, sono stravolto! Ascolti: io ed i miei nipoti, tanto carini da rinunciare a qualche momento di svago per visitarmi (anche questa è un’opera di misericordia, le pare: “visitare gli ammalati” … o forse nel mio caso: “sopportare pazientemente le persone moleste” … boh! …! lei che ne dice?) stavamo cantando il “Te Deum”, e giunti al punto modulante del “salvum fac populum tuum et benedic hereditati tuæ et rege eos et extolle eos usque in æternum” (che poi è il versetto 9 del Salmo XXVII), nell’articolare un neuma gregoriano, particolarmente impegnativo per le mie ridottissime capacità canore, la Sacra Bibbia mi scivola dalle mani chiudendosi … la riprendo e vedo che si è riaperta nel bel mezzo dell’Apocalisse (II,20): “Lettera alla chiesa di Tiatira” al punto in cui parla di “… Iezabèle, la donna che si spaccia per profetessa e insegna e seduce i miei servi inducendoli a darsi alla fornicazione” (II, 20). Terminato il canto, il versetto apocalittico mi riverbera nella mente e all’improvviso mi “fulminano” le parole dello zio Pierre: “Iezabèle che seduce i miei servi … ma certo, Iezabèle è il “modernismo”!!. Subito Caterina, sempre in cerca di nozioni mi chiede: “nonno, ma che cosa è questo modernismo, se ne sente parlare tanto, ma nessuno sa definirlo con precisione”. Solerte le rispondo citando essenzialmente la definizione che S. Pio X ne da nella sua strepitosa enciclica “Pascendi”. S. Pio X definì il “Modernismo”: la “sintesi di tutte le eresie”, ossia il “compendio di tutti gli errori”. Certo, i buoni fedeli non sanno nulla (anche perché spesso non vogliono sapere nulla!) e quindi non possono capire dov’è il sottile veleno delle sue teorie, che possiamo dire: l’agnosticismo, il panteismo, il luteranesimo, il razionalismo, per finire nel naturalismo, materialismo, ateismo ed infine il nichilismo. Siamo, ormai, allo scoperto delle “due città” di S. Agostino, ossia alla città di Dio e a quella di satana, due campi nitidamente separati! L’enciclica di S. Pio X, la “Pascendi Dominici Gregis” del 1907 è un documento che c’insegna a definire e combattere questo nefando Movimento. Anche il Concilio Vaticano lo prevenne con ammaestramenti e definizioni, colpì a morte le teorie moderniste, che vorrebbero spiegare l’introduzione della religione cristiana nel “mondo” con teorie soggettivistiche d’immanenza e di monismo evolutivo. Infatti, nella teoria modernista non è Dio che crea l’uomo, ma è l’uomo che crea un Dio adatto alla sua coscienza (pensi un po’ che idiozia!), per cui deve avere quel culto che più garba al suo modo di vedere e di vivere, ossia: un Dio selvaggio per i selvaggi, un Dio bello ed esteta in Grecia, giuridico marziale per Roma, feticcio nelle Indie, un Dio, perciò, che non deve disturbare nessuno, lasciando tutti nelle loro disparate o assurde convinzioni “culturali” e perciò falso ed eretico senza che alcuno debba ammaestrare nessuno, in modo da mandare tutti all’inferno! “Ma è proprio quello che ci dicono oggi nelle nostre parrocchie e nelle prediche della Messa …”, interviene Mimmo spavaldo. Caro Mimmo, insisto io, mentre i pagani avevano idoli di pietra, di piante, d’animali, i moderni pagani hanno degli idoli fantastici, astratti, fabulistici, sentimentali, “idola mentis”, come direbbe S. Agostino; ma l’idolo peggiore è il “culto dell’uomo” sponsorizzato da tutte le “conventicole mondialiste”, come le definiva lo zio Pierre (chissà cosa volesse intendere?), “conventicole”, a suo dire, infiltrate anche nei palazzi curiali (ma le ho spiegato, caro direttore, che lo zio aveva delle strane idee sulle vicende umane e storiche, e della Chiesa in particolare … che soggetto singolare!). Arriva Caterina che si era momentaneamente allontanata, e trionfante dice: “L’eresia modernista”: verso la fine del secolo diciannovesimo si era sviluppato, in seno alla Chiesa cattolica, il movimento modernista, nella prospettiva di promuovere un progressivo adattamento della dottrina e delle strutture della Chiesa alla mentalità relativista e democratica della cosiddetta società moderna, contro cui i Papi avevano invece intrapreso, già da circa un secolo, una serrata lotta (per tutti Pio IX ed il suo “Syllabo”). Tra i principali esponenti del modernismo, un posto di primo piano era occupato dall’abbé Alfred Loisy, dall’oratoriano p. Lucien Laberthonnière e dal gesuita p. George Tyrrel, mentre in Italia svolgevano una notevole attività, tra gli altri, soprattutto don Ernesto Buonaiuti, don Salvatore Minocchi, don Romolo Murri e, tra i laici, il conte Tommaso Gallarati-Scotti e lo scrittore e poeta Antonio Fogazzaro, che rispolverarono idee “ecumeniche” degli abati apostati Roca, Sain Yves d’Alveydre, [… e compagni di merenda e di zuppa gnostico-talmudista, aggiungo io] …, impregnati di becero esoterismo, cabalismo luciferino, aderenti notoriamente a logge di alta iniziazione pur conservando i loro privilegi ecclesiastici da buoni infiltrati della “quinta colonna” (persone veramente raccomandabili!- n.d.Bas.-). Ora, nonostante le diversità e le differenti sfumature del pensiero dei vari membri del movimento, va detto, fin da subito, che le tesi moderniste erano affette da un “peccato d’origine” comune, un relativismo filosofico di fondo, errore fondamentale che il Decreto “Lamentabili”, emanato dal S. Uffizio, avrebbe poi così riassunto nello stroncarlo inappellabilmente: “La verità non è immutabile più di quanto lo sia l’uomo stesso, giacché essa si evolve con lui, in lui e per lui”. (Decreto “Lamentabili” contro gli errori modernisti, proposizione n. 58). Non si trattava dunque di una cosa da poco, dato che il relativismo comportava necessariamente la completa rovina dei fondamenti della fede cattolica (se non vi sono verità fisse ed immutabili, il concetto stesso di dogma svanisce!) e la conseguente annichilazione della Chiesa. A sua volta, il relativismo evoluzionista dei modernisti derivava dal concetto che questi ultimi avevano, circa l’origine della religione, che essi facevano sgorgare esclusivamente dalla coscienza dell’uomo (errore dell’immanentismo, purtroppo oggi ripetuto dai massimi vertici gerarchici, dice Caterina … ma sarà mai vero, direttore?! Ho il sospetto che qui mi prendano in giro un po’ tutti!). Ogni verità religiosa, infatti, non sarebbe stata altro che il semplice prodotto della coscienza individuale, mossa dal sentimento religioso, sotto la spinta di una “divinità” vaga ed indistinta [quindi falsa e pagana –n.d.Bas.-], della quale l’uomo non poteva dire alcunché di certo e definitivo. Anche la Religione Cattolica diveniva quindi, nell’ottica modernista, un semplice prodotto umano, soggetto quindi a continuo cambiamento evolutivo, senza verità infallibili ed immutabili, fissate una volta per sempre: “Il sentimento religioso, che per vitale immanenza si sprigiona dai nascondigli della subcoscienza avrebbe poi denunciato Papa San Pio X – è (per i modernisti) il germe di tutta la religione… Ecco pertanto la nascita di qualsiasi religione, sia pure soprannaturale: esse altro non sono che semplici esplicazioni dell’anzidetto sentimento religioso. Né si creda che diversa sia la sorte della Religione Cattolica…” (ancora l’enciclica Pascendi). Sempre su questa base, i libri della Sacra Scrittura, compresi ovviamente i Vangeli, venivano ridotti ad una raccolta di esperienze puramente interiori, nate dal sentimento religioso dei singoli scrittori sacri, ciò che comportava la negazione della storicità dei fatti soprannaturali ivi narrati. I miracoli e le profezie erano, infatti, declassati a semplici espedienti psicologico-letterari, a meri simboli, adoperati per muovere i lettori alla “fede” nella suddetta “divinità”, nell’ambito di una altrettanto vaga ed indistinta religiosità naturale. Altrettanto simbolico e non reale, come abbiamo già detto, diveniva il contenuto dei dogmi della Fede cattolica: “Le cose, che la Chiesa ci propone a credere come dogmi rivelati – scriveva ad esempio il capofila dei modernisti, l’abbé Alfred Loisy – non sono verità venute dal cielo, conservate dalla tradizione nella loro forma originaria; per lo storico, sono soltanto un’interpretazione di fatti d’indole religiosa che il pensiero teologico ha raggiunto con faticoso lavoro. Ecco che quindi i modernisti razionalisti come Loisy, Harnac, Labanca, Renan e altri simili [bestie ignoranti, aggiungo sempre io fremente, perché questi beoti evidentemente erano con malizia imbeccati opportunamente dai soliti marrani, “nemici di tutti gli uomini”, i luciferini della “razza di vipere”], non si vogliono foggiare con la religione e con la fede e la morale, ma con un proprio modo di vedere. E quindi riducono la fede ad un sentimentalismo, ad un’emozione, cioè, che resta dentro i confini del sentimento, da cui segue che ogni religione è vera (o falsa, perché a questo punto la cosa è irrilevante! –n.d.Bas.-), sia che i sentimenti si rivolgano a Gesù Cristo, a Maometto, al dio Jeova oppure al dio Budda, ad un feticcio qualunque, cancellando quindi San Paolo che afferma: «uno è il Signore, una la Fede, uno il Battesimo, uno Iddio, il quale è Padre di tutti gli uomini e domina tutte le cose». Quindi, Gesù fondò la sua Chiesa, ed Egli ne è la pietra angolare ed ivi si insegna una sola dottrina, immutabile ed eterna, la sola Verità. Una volta accettati questi falsi presupposti e posta la coscienza umana al centro e all’origine della religione, i modernisti erano necessariamente condotti, con l’implacabile logica dell’errore, a considerare fondamentalmente vere tutte le religioni (o meglio le false idolatrie modellate dal “farfariello” ingannatore –n.d.Bas.-), nonostante le grandi diversità di dottrine, di riti e di regole morali. Queste differenze venivano infatti ritenute del tutto trascurabili perché considerate, nel sistema modernista, come semplici involucri esteriori dell’unico e identico sentimento religioso naturale [praticamente il paganesimo satanico, si sono sempre io, ma non riesco a zittire ascoltando queste assurdità –n.d.Bas.-] comune a tutti gli uomini: “Posta questa dottrina dell’esperienza denuncerà infatti San Pio X – (…) ogni religione, sia pure quella degli idolatri, deve ritenersi come vera (…). Ed infatti i modernisti non negano, concedono anzi, alcuni velatamente, altri apertissimamente, che tutte le religioni sono vere”, opera di “uomini straordinari, che noi chiamiamo profeti e dei quali Cristo è il sommo”. In quest’ottica, i modernisti erano anche pronti a concedere che la Religione Cattolica fosse la più perfetta ma, si badi, non l’unica vera (!!!). “E questa -esclama Mimmo meravigliato- è una realtà che va tenuta ben presente fin d’ora per comprendere l’altrimenti incomprensibile attuale “follia ecumenica” della Gerarchia “conciliare” (direttore, ma questa deve essere la solita “macchietta” di Mimmo, non le sembra pure a lei, perché allora, io dico, ma il Papa dove sta? e il Santo Uffizio dorme? …impossibile, sono cose a cui Mimmo non pensa nella sua balordaggine!). “Da rilevare, infine, continua Cateriina- una particolare ed originale tattica messa in atto dai modernisti e che contribuisce a distinguere quest’eresia da ogni altra di stampo “classico”, vale a dire l’uso spregiudicato della simulazione e del linguaggio ambiguo, (questo è ciò che hanno sempre fatto i marrani d’altra parte, ecco perché sono certo che il Modernismo è stato avviato da marrani e da quelli dai quali i marrani provengo –n.d.Bas.-) con lo scopo mirato di rimanere nella Chiesa per cambiarla dall’interno (quella che il gen. Franco chiamava la “quinta colonna”, – scusatemi, ma non ce la faccio proprio!- n.d.Bas.)”. “Inoltre scriverà a questo proposito San Pio X – nell’adoperare le loro mille arti per nuocere, nessuno li supera in accortezza e in astuzia: giacché agiscono promiscuamente da razionalisti e da cattolici, e ciò con così sottile simulazione da trarre agevolmente in inganno ogni incauto (…). E così essi operano scientemente e di proposito; sia perché è loro regola che l’autorità debba essere spinta, non rovesciata; sia perché hanno bisogno di non uscire dall’ambiente della Chiesa per poter cambiare a poco a poco la coscienza collettiva”. Tattica che, dopo cinquant’anni di frenetico lavorìo sotterraneo, ha fruttato il successo del ribaltone dottrinale operato dai Padri del Concilio Vaticano II mediante l’adozione di non poche tesi moderniste, puntualmente spacciate allo sprovveduto “popolo di Dio” come necessario “aggiornamento” della Chiesa ai mitici “tempi nuovi” preludio del “Novus Ordo Mondiale”. Dulcis in fundo, in questo clima di apostasia sorridente, dopo aver dissolto, nelle loro nebbie gnostiche, Gerarchia, Dogmi e Sacramenti, non v’è da meravigliarsi che almeno una parte dei modernisti si spingesse apertamente, “obbedendo assai volentieri ai cenni dei loro maestri protestanti e ai marrani”, a desiderare “soppresso nel sacerdozio lo stesso sacro celibato”. Classica ciliegina sulla torta di ogni modernismo – di ieri e di oggi – sedicente “riformatore”. Non occorreva, dunque, molta fantasia per immaginare le conseguenze della penetrazione di queste idee tra il clero e il laicato. Mosso da profonda preoccupazione, il Sommo Pontefice San Pio X, nella sua Allocuzione al Concistoro dei Cardinali del 15 aprile 1907, denunciava così, senza mezzi termini, il pericolo mortale che la Chiesa stava correndo: “E ribelli, purtroppo, sono quelli che professano e diffondono sotto forme subdole gli errori mostruosi sull’evoluzione del dogma, sul ritorno al Vangelo puro, vale a dire sfrondato, come essi dicono, dalle spiegazioni della Teologia, delle definizioni dei Concili, delle massime dell’ascetica; sulla emancipazione dalla Chiesa, però in modo nuovo, senza ribellarsi, per non essere tagliati fuori, ma nemmeno assoggettarsi per non mancare alle proprie convinzioni; e, finalmente, sull’adattamento ai tempi in tutto, nel parlare, nello scrivere, nel predicare una carità senza fede, tenera assai per i miscredenti, la quale apre a tutti, purtroppo, la via dell’eterna rovina”. O bella, interrompe la lettura Caterina: ma questa è proprio la denuncia anticipata della “bufala” della misericordia a buon mercato del fantomatico ultimo giubileo! (Direttore, chiedo a lei, ma adesso questa storia del “falso” giubileo dell’altrettanto “falsa” misericordia, da dove salta fuori? La prego, mi faccia capire, sento che la testa non regge, mi sta scoppiando!!). Caterina riprende la lettura: “Contrattacca ancora Pio X: “Voi vedete bene, se Noi che dobbiamo difendere con tutte le forze il deposito che ci venne affidato, non abbiamo ragione di essere in angustie di fronte a questo attacco, che non è un’eresia, ma il compendio e il veleno di tutte le eresie, che tende a scalzare i fondamenti della fede e ad annientare il Cristianesimo. Sì! Annientare il Cristianesimo, perché la Sacra Scrittura per questi eretici moderni non è più la fonte sicura di tutte le verità che appartengono alla fede, ma un libro comune; l’ispirazione dei Libri Santi per loro si riduce alle dottrine dogmatiche, intese però a loro modo, e per poco non si differenzia dall’ispirazione poetica di Eschilo e di Omero. Legittima interprete della Bibbia è la Chiesa, però soggetta alle regole della cosiddetta scienza critica che si impone alla Teologia e la rende schiava. Per la Tradizione della Chiesa, finalmente, tutto è relativo e soggetto a mutazioni, e quindi ridotta a niente l’autorità dei Santi Padri. E tutto questo, e mille altri errori, li propagano in opuscoli, in riviste, in libri ascetici e perfino in romanzi, e li involgono in certi termini ambigui, in certe forme nebulose, onde avere sempre aperto uno scampo alla difesa per non incorrere in una aperta condanna e prendere però gli incauti nei loro lacci”(Enc. Pascendi). “Brava Caterina, mi complimento, ma dove le hai trovate tutte queste cose così interessanti, soprattutto per coloro che sono affetti da vincibile ignoranza, e che hanno paura di smuovere le loro coscienze incuranti del pericolo che le loro anime corrono – dico accennando a Mimmo – ? “Bah, risponde lei, con una punta di falsa modestia, basta farsi una navigata! (ma com’è, ora nel mare si pescano notizie? … Direttore, io non capisco, mi aiuti! …). Interviene Mimmo stravolto: ma queste eresie condannate, come dici tu nonno, da anatema eterno da S. Pio X e dagli altri difensori della retta Fede cattolica, sono oggi in gran voga, e ritenute verità di fede … dunque l’inganno va avanti?! Per consolarlo gli dico: “Non ti avvilire Mimmo, certo, gli Apostoli previdero che, in ogni tempo, ci sarebbero stati ogni sorta di modernisti e di novatori. San Giuda Taddeo ammoniva i fedeli di guardarsi da loro, per non essere trascinati nell’empietà: «In novissimo tempore venient illusores secundum desideria sua fabulantes in impietatibus; hi sunt qui segregant semetipsos, animales, spiritum non habentes». (Gliela traduco, direttore, per facilitarle la lettura: “alla fine dei tempi vi saranno impostori, che si comporteranno secondo le loro empie passioni. Tali sono quelli che provocano divisioni, gente materiale, privi dello Spirito”. Poi continua: “ Ma voi, carissimi, costruite il vostro edificio spirituale sopra la vostra santissima fede, pregate mediante lo Spirito Santo, conservatevi nell’amore di Dio, attendendo la misericordia del Signore nostro Gesù Cristo per la vita eterna. Convincete quelli che sono vacillanti, altri salvateli strappandoli dal fuoco, di altri infine abbiate compassione con timore, guardandovi perfino dalla veste contaminata dalla loro carne”. (Giuda: 18-22). Anche l’apostolo San Paolo raccomanda a Timoteo di vigilare,”… perché verrà un tempo in cui molti non vedranno più la sana dottrina, ma, pei propri gusti, cercheranno maestri che racconteranno favole su teorie inventate, false e fallaci” (2Tim 4,3). Per questo, Gesù ci diede un criterio di verità per conoscere l’albero buono e quello cattivo: “ex fructibus eorum cognoscetis eos”. (I frutti sono purtroppo sotto gli occhi di tutti … e ne riparleremo!). Aggiunge poi: “Tu però vigila attentamente …”. Noi cristiani non scopriamo la verità, ma col lume della ragione e della Fede scopriamo le verità soprannaturali: il mistero della Trinità, dell’Incarnazione, dell’Eucarestia, della Risurrezione dei morti: sono verità di divine rivelazioni, non di umane invenzioni. Il “Modernismo”, invece, (che non è nuovo, ma vecchio e risalente ai tempi di Adamo, o meglio del “serpentone” ingannatore!) è la peste della società, perché vi si ragiona sui trampoli, scambiando le cause, confondendo la logica, per cui esso è una vera malattia, il nome nuovo dello scetticismo, del naturalismo, del razionalismo, il nome posticcio di lucifero! Il Modernismo, quindi, è solo un ennesimo tralcio infecondo, staccato dalla vite vera, il Cristo, per cui verrà, poi, gettato ad ardere nelle fiamme infernali. È bene ricordare che la Chiesa guarda sempre impavida in faccia a tutte le tempeste. È da venti secoli che la Chiesa non fugge. Le tempeste passeranno e la Chiesa drizza la prora verso nuove conquiste, non per raccogliere tesori del mondo, ma per pescare e salvare le anime, in virtù del nome di Gesù, fuori del Quale non c’è salvezza. Questo è certo! Gesù disse ai suoi Apostoli «IO VI FARÒ PESCATORI DI ANIME» e noi sappiamo dal Vangelo che la notte in cui S. Pietro ed altri discepoli, che con lui lavorarono intensamente sul lago di Genezaret senza prendere un pesciolino, gettarono poi la rete nel nome del Signore e raccolsero una enorme quantità di pesci. Questo fatto evangelico ci dice chiaramente che la Chiesa deve salvare le anime, sì, non coi mezzi di prudenza umana, (“l’eccessiva prudenza porta alla rovina”, anzi diceva S. Tommaso, il Dottore Angelico), ma in virtù del nome del Signore. Il Cristianesimo, cioè, deve combattere il mondo corrotto, con l’essere crocifisso dai suoi nemici implacabili. Questa lotta la si vede in tutto il corso della Storia della Chiesa, di ieri e specialmente di oggi, in cui vediamo con tristezza il trionfo della sètta modernista e del marrano viperino. San Pio X, nella sua enciclica “Pascendi Dominici Gregis” contro il modernismo, denunciò gli “artigiani degli errori”, che si celano, soprattutto, “nello stesso seno e nel cuore della Chiesa”, e che spargono i loro “consigli di distruzione”, “non dall’esterno … ma nell’interno.., così che il danno è, oggi, vicino alle viscere e alle vene della Chiesa”. Col Motu Proprio del 18 novembre 1907, il Papa aggiungeva all’enciclica “Pascendi” e al decreto “Lamentabili” con il “Giuramento antimodernista”, la pena di scomunica contro i “contradditori” di quel periodo (quanti oggi nella Chiesa sono gli scomunicati … e non lo sanno … poveri ignoranti che non amano la verità che li farebbe santi e liberi, e che hanno bisogno che qualcuno autorizzato rimuova le loro censure, altrimenti l’inferno non glielo toglie nessuno!). Tre mesi più tardi, nel “Motu Proprio” del 1° settembre 1910, San Pio X pronunciò questa grave denuncia: «I modernisti, anche dopo che l’enciclica “Pascendi” ebbe tolta la maschera con cui si coprivano, non hanno abbandonato i loro disegni di turbare la pace della Chiesa. In effetti, non hanno cessato di ricercare e di associarsi in una “Associazione segreta” di nuovi adepti. Caro Mimmo, ogni qualvolta ed in qualunque modo al sacro si sostituisce il profano, al divino l’umano, sta’ attento!: è lì che si annida il “punteruolo rosso” del modernismo, parassita che non si vede, non fa rumore, ma inavvertitamente polverizza il tronco della palma e ce ne accorgiamo quando oramai è troppo tardi! Direttore, abbiamo tanto da pregare per tentare di riportare anime a Dio, in una Chiesa di cui nell’Apocalisse si dice: “Conosco le tue opere; ti si crede vivo e invece sei morto. Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire”(Apoc. III,1-2). ). Che il Signore e la Vergine Maria ci salvino dalla peste del progressismo … o è già troppo tardi?! A proposito di tardi, l’ora si fa tarda e si avvicinano i vespri: “All’empio dice Dio: “Perché vai ripetendo i miei decreti e hai sempre in bocca la mia alleanza, tu che detesti la disciplina e le mie parole te le getti alle spalle?”(Salmo XLIX,16-17) ed ancora:“Tutti hanno traviato, tutti sono corrotti; nessuno fa il bene; neppure uno. Non comprendono forse i malfattori che divorano il mio popolo come il pane e non invocano Dio?”(Salmo LIII, 4-5). Direttore, sursum corda! Diceva S. Giovanna d’Arco: “A noi la battaglia, a Dio la vittoria!” A presto! Deus in adiutorium …

Preparazione dello Spirito Santo

Preparazione dello Spirito Santo

[mons. J.-J. Gaume: Trattato dello Spirito Santo, vol. II ,Cap. X]

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   Iddio non si contentava di promettere il Desiderato delle nazioni, nè di dipingerlo in una grande varietà di figure eloquenti, nemmeno di dare il suo contrassegno esatto, mediante quella lunga serie di profezie che tennero gli sguardi del mondo antico costantemente volti verso l’Oriente. La sua ammirabile provvidenza coordinava tutti i fatti sociali alla fondazione del regno immortale del suo Figliuolo. Tale è l’evidenza di questa preparazione evangelica, che la vera filosofia riepiloga tutta la storia anteriore al Messia con queste due parole: Tutto per il Nascituro di Betleem. Ora, ciò che ebbe luogo per la seconda Persona dell’adorabile Trinità, si compì con lo stesso splendore per la terza; né poteva essere altrimenti. L’opera della rigenerazione del mondo, sebbene differente nei suoi mezzi, essa è comune alle due Persone inviate: tutto ciò che prepara il Figliuolo, prepara lo Spirito Santo.

Se era d’uopo che il popolo ebreo fosse scelto tra tutti i popoli per conservare il deposito della vera religione; se occorreva che intorno a lui e contro lui si sollevassero le quattro grandi monarchie degli Assirii, dei Persi, dei Greci e dei Romani ; se bisognava che queste monarchie racchiudessero nel loro ampio seno l’Oriente e l’Occidente e fossero alla lor volta assorbite dall’impero romano; se faceva d’uopo che quest’impero ponesse, senza saperlo, l’ultima mano al compimento delle profezie messianiche, con tuttoché s’innalzasse al più alto grado di potenza la Città del male: se bisognavano infine tutte queste cose per il compimento dei divini consigli intorno al Verbo incarnato; con la stessa asseveranza devesi affermare che tutte erano necessarie, ed allo stesso titolo, per l’effettuazione dei disegni provvidenziali rispetto allo Spirito Santo. La sua missione suppone quella del Verbo di cui essa é il coronamento. Lo Spirito Santificatore non doveva venire che dopo l’incarnazione del Verbo, dopo la sua predicazione, la sua passione, la sua risurrezione, il suo ritorno in cielo; immensi avvenimenti per i quali Iddio sommoveva il cielo e la terra da quattro mila anni. “Lo Spirito, dice san Giovanni, non era ancora stato dato, perché Gesù non era stato per anco glorificato”. [Joan., VII]. – « La gloria di Gesù, aggiunge san Crisostomo, era la croce. Noi eravamo peccatori, nemici di Dio e privi della sua grazia. La grazia é il pegno della riconciliazione ora, il dono non si fa ai nemici ma agli amici. Cosi era d’uopo innanzi tutto che il Verbo offrisse per noi il suo sacrificio, e che immolando la sua carne distruggesse l’inimicizia, a fine di renderci amici di Dio e capaci di ricevere il dono divino, lo Spirito Santo. [“Oportebat prius prò nobis offerri sacrifìcium et inimicitiam in carne solvi, nosque Dei amicos effiei, et tunc donum accipere”. In Joan. Homil. IV, n. 2, opp. t. VIII, p. 346]». Chiaro risulta che tutta la preparazione del Desiderato delle genti si inferisce al Santificatore delle medesime, e che è per Lui come per il Figliuolo che si compiono tutti gli avvenimenti del mondo antico.

Oltre a questa preparazione generale, havvene una che è speciale allo Spirito Santo; la quale consiste negli atti particolari, mediante i quali la terza Persona dell’augusta Trinità prelude, sin dall’origine del mondo, all’atto sovrano del giorno della Pentecoste. Il magnifico Artefice che dee rigenerare il mondo, illuminarlo, condurlo, santificarlo, annunzia come in tante prove da lungo tempo rinnovate, il capolavoro che Egli medita. A questo modo Egli prepara le intelligenze e le volontà ad amarLo, e adorarLo, di un amore e di una adorazione simili a quelle con cui Egli onora il Padre ed il Figliuolo. Niente di più importante di questa preparazione che fa di se medesimo lo Spirito Santo. In ragione alle meravigliose operazioni che la compongono, essa è eminentemente propria a trarlo dall’oblio nel quale noi Lo lasciamo. Mercé sua, noi Lo vediamo non punto inoperoso in seno dell’eternità; ma operante perpetuamente sul mondo, e preludente con opere particolari più o meno splendide, a creazioni più generali e più magnifiche. Per intendere questa preparazione, fa d’uopo rammentarsi che l’opera grande dello Spirito Santo era la rigenerazione dell’Universo mediante la Chiesa. Bisogna ricolmarsi ancora che tanto nell’ordine della grazia che nell’ordine della natura, Iddio non opera bruscamente ed a sbalzi. Tutte queste opere al contrario si fanno con dolcezza e si svolgono per via di insensibili progressi. « Ora la Chiesa, dice san Tommaso, tiene il mezzo tra la Sinagoga e il cielo. La società cristiana molto più perfetta della società mosaica, lo è molto meno dell’eterna società degli eletti. Nella Sinagoga veli senza verità; sotto il Vangelo la verità con dei veli; in cielo la verità nuda affatto. » [“Status novae legis medius est inter statim i veteris legis, cujus figurae implentur in nova lege, et inter statum gloriae in qua omnis nude et perfecte manifestatibur veritas”. I, II, q, 61, art. 4, ad 1]. Cosi l’antico mondo è la preparazione del nuovo. Per l’antico mondo bisogna intendere i suoi uomini, le sue leggi, i suoi avvenimenti, il suo culto, i suoi profeti. Tutti stanno al mondo nuovo, come il bozzetto sta al ritratto, o come il fanciullo sta all’uomo maturo. Il pittore divino che doveva realizzare il ritratto, lavora per quattromila anni a formarne l’abbozzo, entriamo nella sua officina e vediamolo all’opera. – Il quadro del ritratto è il mondo materiale. Chi forma questo quadro magnifico? chi lo fa risplendere di splendide bellezze ? È lo Spirito Santo. Uscendo dalle mani del Padre e del Figliuolo, la terra non era che una massa informe, inzuppata d’acqua e coperta di tenebre. Sotto la meravigliosa azione dello Spirito Santo gli elementi confusi si disciolgono, le tenebre si dissipano, e dal seno del caos escono come per incanto, milioni di creature una più dell’altra graziose. [“Superferebatur huic materiae…. excellentia et eminentia dominantis super omnia voluntatis, ut omnia conderentur.S. Aug. D. divers. quaest lib. II, n. 5]. All’eterno principio di loro bellezze, devono esse il movimento e la vita. «Lo Spirito Santo, dice un Padre, è l’anima di tutto ciò che vive. Con tanta liberalità egli concede della sua pienezza, che tutte le creature ragionevoli e non ragionevoli gli debbono, ciascuna nella propria specie, e il loro essere proprio e il potere di fare, nella loro sfera particolare, ciò che conviene alla natura loro. Senza dubbio non è l’anima sostanziale di ciascuna e in essa dimorante; ma come distributore magnifico dei suoi doni Ei gli diffonde e gli distribuisce, secondo il bisogno di ciascuna creatura. Simile al sole, riscalda tutto, e senza alcuna diminuzione di sé medesimo Ei presta e distribuisce ad ogni essere ciò che è necessario e ciò che basta ». – San Basilio aggiunge; « Voi non troverete nelle creature alcun dono di qualsiasi natura che non venga dallo Spirito Santo. » [Lib. de Spir. sanct., c. XXVI, n. 55.]. – La parte più bella della creazione materiale, come il firmamento, deve ad Esso le sue magnificenze. Quando l’occhio contempla l’innumerevole esercito dei cieli, l’abbagliante splendore delle sue schiere, l’ordine del loro cammino, la incomprensibile rapidità e la precisione dei loro movimenti; il cuore non dimentichi d’indirizzare l’inno della riconoscenza alla terza Persona dell’adorabile Trinità. Tutte queste bellezze, tutte queste grandezze gridano a lui ; Ipse fecit nos, è lui che ci ha fatte.3 [Verbo Domini coeli firmati sunt, et Spiritu oris eius ominis virtus eorum. Ps. XXXII, 6. — Spiritus ejus ornavit coelos. Job., XXXVI, 13]. – Non men grande è la riconoscenza del mondo angelico. Gli ineffabili splendori di cui brillano le celesti gerarchie, come astri viventi dell’empireo, anch’ esse vanno debitrici allo Spirito Santo: « Se col pensiero, dice san Basilio, voi togliete lo Spirito Santo, tutto è caos nel cielo. Non vi sono più cori angelici, non più gerarchie, non più legge, non più ordine, né più armonia. Come faranno gli Angeli a cantare: “Gloria a Dio nei cieli”, se essi non ricevono la potestà dallo Spirito Santo? Una creatura qualunque, può ella dire “Signore Gesù”, se non è ispirata dallo Spirito Santo? E quando essa parla mediante lo Spirito Santo, nessuno dice anatema a Gesù. Che gli Angeli ribelli abbiano pronunziato quest’anatema, la loro caduta prova che per perseverare nel bene, le intelligenze celesti avevano bisogno dello Spirito Santo. «Secondo me, Gabriele non ha potuto annunziare l’avvenire che mediante la prescienza dello Spirito Santo. E n’è prova che la profezia, è uno dei doni dello Spirito divino. Quanto ai Troni e alle dominazioni, ai Principati ed alle Potestà, come goderebbero della beatitudine se non vedessero sempre la faccia del Padre che è nei cieli? Ora la visione beatifica non esiste senza lo Spirito Santo. Se durante la notte voi togliete i lumi da una casa, tutti gli occhi sono colpiti da cecità: tanto organi che facoltà, tutto diviene inerte. Non si distingue più, né la bellezza, né il pregio degli oggetti ; per ignoranza l’oro è calpestato, come il ferro. Cosi nell’ordine spirituale è tanto impossibile che la vita beata del mondo angelico sussista senza lo Spirito Santo, quanto è impossibile ad un esercito di rimanere ordinato senza un generale che lo mantenga, ad un coro conservare l’armonia senza un capo che regoli gli accordi. – « Ed i Serafini come potrebbero dire: Santo, Santo, Santo, se lo Spirito non insegnasse loro quando bisogna cantare l’inno di gloria? Sia dunque che gli angeli lodino Dio e le sue meraviglie, essi lo fanno mediante il soccorso dello Spirito Santo; ossia che schierati dinanzi a lui migliaia di milioni di essi eseguiscano i suo ordini, non adempiono degnamente le loro funzioni se non che per virtù dello Spirito Santo. Insomma, né la sublime e ineffabile armonia degli angeli nel culto di Dio, né l’accordo meraviglioso che regna tra queste intelligenze celesti, non esisterebbero senza lo Spirito Santo. » S. Basil., lib. de Spir, sanct c. XVI, opp. t. III, p. 4445. — S. Greg, Nazian., homil. In Pentecoste]. – Non è questo un provare chiaramente l’azione dello Spirito Santo sugli Angeli? Grazia, perseveranza nel bene, conoscenza dell’avvenire, beatitudine, armonia, bellezza, tutto deve il mondo angelico alla terza persona della SS. Trinità. Penetriamo ancor più addentro. Lo Spirito dei sette doni, per insegnare a tutte le generazioni ch’Esso è l’autore di tutte le bellezze del cielo e della terra, dichiara nelle sue opere eh’ egli fa tutto mediante il numero sette. Come testimoni della sua azione e predicatori della sua futura venuta, sette pianeti principali risplendono nel firmamento. Nel mondo inferiore il tempo si divide in sette giorni. Da Adamo a Noè, sette grandi patriarchi biffano la strada dei secoli. Sette volte sette giorni, aumentati dall’unità misteriosa che congiunge il tempo coll’eternità, formano lo spazio tra l’immolazione dell’Agnello pasquale e la promulgazione della legge. – Alle settimane di giorni succedono le settimane di anni terminati dall’anno del giubileo, anno di remissione, di liberazione, di restaurazione e di riposo : nuova figura del giubileo eterno, creazione meravigliosa dello Spirito Santo. Sette giorni di preghiere consacrano i sacerdoti, sette giorni di purificazione rendono il lebbroso alla vita civile; sette trombe suonate da sette sacerdoti, fanno cadere le mura di Gerico. A pasqua, per sette giorni si nutrivano di pani azzimi. Al settimo mese si celebra la festa dei Tabernacoli che dura sette giorni. Sette anni sono impiegati nella costruzione del tempio di Salomone, e sette dì nella sua consacrazione. Sette bracci e sette lumi adornano il candelabro del santuario. Sette moltiplicato per dieci forma il numero dei sacerdoti, associati al ministero di Mosè e degli anni in cui il popolo sarà schiavo in Babilonia. – Queste cosi frequenti ripetizioni del numero sette nell’Antico Testamento non sono arbitrarie. Come opere dell’infinita sapienza, esse rappresentano (lo mostreremo più tardi) le meraviglie settennarie che doveva effettuare nel Nuovo, il divino Autore, delle fine e delle altre. – Imprimendosi lo Spirito Santo col numero sette nella fronte di tutte le creature e di tutti gli avvenimenti figurativi, vi imprimeva seco le altre due Persone dell’adorabile Trinità, e preparava cosi il genere umano a contemplarle nello splendore della loro manifestazione. – « Il numero sette, dice san Cipriano, si compone di quattro e di tre. Degno di rispetto a causa dei suoi misteriosi significati, egli lo è infinitamente più a ragione delle parti di cui è composto. Per il tre e per il quattro sono espiassi gli elementi primitivi di tutte le cose, l’artefice e l’opere, il Creatore e la creatura. Il tre indica la Trinità creatrice, quattro 1′ universalità degli esseri, compresi in sostanza nei quattro elementi. Nella persona dello Spirito Santo, il Quale procede dal Padre e dal Figliuolo, si vede nei primi giorni del mondo, il tre riposare sul quattro. La Trinità sopra i quattro elementi, confusi nella massa informe del caos: poi nella sua bontà, il Creatore abbraccia la sua creatura; essendo bello, egli la rende bella; santo, egli la santifica e se l’unisce coi legami di un amore indissolubile. » – Egli crea i patriarchi. Dopo aver creato e abbellito i cieli e la terra, soggiorno della sua immortale Città: dopo avere del pari creato e dotato di incomprensibili bellezze i principi incaricati di governarla, lo Spirito Santo crea, abbellisce, educa e protegge i cittadini che debbono abitarla. Patriarchi, avvenimenti, istituzioni, profeti, grandi uomini mosaici, son altrettanti saggi coi quali il Re della Città del bene predispone a delle operazioni più complete intorno al popolo cattolico. I figli di Adamo peccatore, e peccatori essi medesimi, sono la materia ch’egli manipola. Come il fuoco coglie l’oro e lo purifica, così Egli li prende, li nobilita, e riempiendoli di qualcuno dei suoi doni, ne forma tanti patriarchi. – Quel che è il gigante per l’altezza della statura in paragone agli uomini ordinari e per la forza muscolare, lo è il patriarca, per le sue virtù, in mezzo ad uomini dell’antico mondo. Si provi qualcuno a trovare presso gli Egizi, presso gli Assiri, presso i Persi, presso i Greci e presso i Romani, uomini da paragonarsi ad Enoch per fedeltà al vero Dio; a Noè per la giustizia, ad Abramo per la fede, a Giuseppe per la castità ed il perdono delle ingiurie, a Mosè per la dolcezza e la perseveranza, a Giosuè per il coraggio, a Giobbe per la pazienza, a Davide per le regie doti, a Salomone per la scienza e la saviezza, a Giuda Maccabeo per le virtù guerresche; a tutti questi giusti dallo sguardo sereno, dalle forti e modeste virtù, dalla semplicità dei costumi, dalla bontà ed elevata ragione, e la cui immagine si dipinge nella fantasia, come quei quadri a grandi prospettive che estendono le loro proporzioni via via che lo sguardo se ne allontana. Chi è l’autore di questi miracoli viventi i più belli senza dubbio che l’antico mondo abbia contemplati? Lo Spirito dai sette doni. – Egli crea il popolo ebreo, lo dirige e lo conserva. Dai Patriarchi, lo Spirito Santo fa uscire un popolo eccezionale, come i suoi padri, e come figura di tutti i popoli. Invano l’ingrato e sospettoso Egitto vuole ritenerlo nei ferri. Lo Spirito onnipotente lo trae dalla sua misteriosa servitù. Tale è lo splendore dei miracoli, con cui Egli colpisce questa terra indurita che i maghi di Faraone si confessano vinti, e sono costretti a riconoscervi, non il Padre o il Figliuolo, ma proprio lo Spirito Santo. [San Cyp. Serm. De Spirit. Sanct.]. – Le catene della schiavitù sono cadute: Israele è in cammino per ritornare nella sua patria, ma il mare gli oppone i suoi abissi. Alla voce dello Spirito Santo il terribile elemento si agita, e, come due montagne a picco, le sue acque sospese aprono un passaggio: seicentomila combattenti scendono in quelle ignote profondità e le attraversano a piè asciutto. Dall’altra parte, all’ingresso del deserto, gli attende lo Spirito Santo. Egli sarà in quella solitudine immensa il loro precettore e la loro guida: magnifico preludio della futura direzione del popolo Cattolico attraverso il deserto della vita. [Non dimisisti eos in deserto… Spiritum tuum bonum dedisti qui doceret eos. II Esdr. IX, 19, 20]. Altro preludio non meno eloquente. Egli è desso che sulla vetta del Sinai, inciderà la legge mosaica su due tavole di pietra, e del pari scolpirà la legge evangelica nel cuore dei cristiani; costituendo in tal modo quanto allo stato sociale e il popolo antico e il popolo nuovo. – Viaggiatore con Israele, Jehova vuole un santuario, dove rendere i suoi oracoli e ricevere le adorazioni dei figli di Giacobbe. Chi sarà incaricato di edificare al Dio del cielo una abitazione sulla terra? Un operaio dello Spirito Santo. « Il Signore disse a Mosé: Io ho chiamato pel suo nome Beselul, figliuolo di Uri, e l’ho ripieno dello Spirito di Dio, di sapienza, di intelligenza e di scienza per ogni maniera di lavori; e costui farà il Tabernacolo. » In questo capolavoro di tutte le arti riunite non vi è parte che non sia una figura, un saggio della Chiesa cattolica, tabernacolo immortale che lo Spirito Santo doveva costruire all’augusta Trinità. – Occorre un capo abile e coraggioso che introduca la santa nazione nella terra promessa? Lo Spirito Santo forma Giosuè figlio di Nun. [Num., XXVIII, 18]. – Magistrati supremi che con una mano dettino giudizi pieni di equità, e dall’altra respingano con la loro spada vittoriosa i re di Siria, i Madianiti, i figli di Ammone, i Filistei e gli altri nemici d’Israele? Lo Spirito Santo suscita successivamente Otoniel, Gedeone, Jefte, Sansone, Samuele, e quella lunga schiera di savi e di guerrieri ai quali gli altri popoli non hanno niente da porre a paragone. Il popolo figurativo ha egli bisogno nelle differenti epoche della sua esistenza, di un prodigio di forza, di sapienza, di scienza, di pietà? Lo Spirito dai sette doni lo fa apparire ben presto: sotto la sua mano nessuno elemento è ribelle. « Egli prende un bifolco, dice un Padre, e ne fa un suonatore d’arpa che incanta gli Spiriti maligni. Egli vede un pastore di capre che sta sbucciando i sicomori, e ne fa un profeta. Ricordatevi di Davide e di Amos. Egli scorge un bel giovine, e lo costituisce giudice degli anziani: testimone Daniele. «Nemico degli avari e dei falsari, egli colpisce Giezi con una lebbra pestifera. Impone silenzio a Balaam, pagato per maledire, lo fa riprendere dalla sua asina, gli fa troncare la gamba e lo rimanda nel suo paese pieno di confusione con le mani vuote, e azzoppito. È Esso che mantiene il bell’ordine che ammiriamo presso la santa nazione, che crea i re ed i principi, che consacra i pontefici e che elegge i sacerdoti. » Siccome lo Spirito Santo è l’anima della Chiesa, così era l’anima della Sinagoga. Nei secoli di preparazione Lo vediamo di continuo preludere con una grande varietà di figure alle realtà che doveva operare nei secoli di compimento: “Haec omnia operatur unus atque idem Spiritus”. – Ma razione dello Spirito Santo non si manifesta sull’antico mondo in nessuna parte, con più lucentezza e perseveranza, come nelle ispirazioni dei profeti. Questi uomini divini, i quali per venti secoli si succedono senza interruzione, sono incaricati di riprendere a un tempo Israele, per le sue prevaricazioni, e di annunziare al genere umano le future meraviglie della misericordia infinita. Chi dà ad essi la forza di parlare arditamente ai re ed ai popoli? Chi pone sulle loro labbra le reprimende, le minacce e le promesse? Chi apre ai loro occhi gli orizzonti dell’ avvenire, e mostra loro nella lontananza delle età, gli immensi avvenimenti, or consolanti, or terribili, di cui i fatti mosaici non sono che i preludi rudimentali? Per bocca di David tutti i profeti rispondono: « Lo Spirito del Signore ha parlato per me, e la sua parola è uscita dalle mie labbra. » [Spiritus Domini locutus est per me, et sermo ejus per linguam meam. II Reg.; XXIII, 2]. – San Pietro, a nome di tutti gli apostoli, dichiara che la profezia non è nata mai dalla volontà umana. «Ma, dice egli, gli uomini di Dio ispirati dallo Spirito Santo hanno parlato.» [II Petr., I, 21]. E tutti i padri greci e latini per organo di san Crisostomo e di san Girolamo aggiungono: « E un fatto ammesso da tutti, che lo Spirito Santo fu dato ai profeti… Che nessuno s’immagini che un altro Spirito Santo fosse dato ai santi, anteriori alla venuta del Messia, e un altro agli Apostoli e ai discepoli del Signore. » [S. Chrys., homil. LI , in Joan., n. 2]. Finalmente nella sua professione di fede la Chiesa canta, da un capo all’altro del mondo, lo Spirito Santo, che ha parlato per bocca dei profeti, “qui locutus est per prophetas”. Perché l’ispirazione dei profeti è ella attribuita allo Spirito Santo, e non al Padre, come principio dei lumi, Pater luminum; ovvero al Figliuolo, Sapienza eterna, Sapientia Dei? È qui il luogo di risolvere una questione che si presenta naturalmente allo spirito. Ricordiamo da prima con san Leone, che la maestà dello Spirito Santo non è mai separata dall’onnipotenza del Padre e del Figliuolo ; e che tutto ciò che la divina Sapienza fa nel governo dell’ universo, è opera della Trinità tutta intera. – « Se il Padre o il Figliuolo o lo Spirito Santo, aggiunge il gran dottore, fa qualche cosa che gli sia propria, si dee attribuirla alla necessità della nostra salute. La santa Trinità si è divisa l’opera della nostra redenzione. Il Padre ha dovuto essere pacificato, il Figliuolo pacificare e lo Spirito Santo santificare. Di più, dandoci certi fatti o certe parole sotto il nome del Padre o del Figliuolo o dello Spirito Santo, la Scrittura vuole preservare da errore la fede dei cristiani. Difatti, essendo la Trinità inseparabile, non intenderemmo mai che sia Trinità, se Essa fosse sempre nominata senza distinzione di Persone. – Ciò posto, ecco la ragione fondamentale per cui l’ispirazione profetica viene attribuita allo Spirito Santo. Qual’ è il fine di tutte le profezie dell’Antico Testamento? È di annunziare il Nuovo. E il Nuovo Testamento che cos’è? L’Incarnazione del Verbo e la formazione della Chiesa. E l’ Incarnazione del Verbo e la formazione della Chiesa? L’opera per eccellenza dell’amore divino. Lo Spirito Santo è l’Amore divino in persona; a giusto titolo dunque si attribuisce ad esso la incarnazione del Verbo e la formazione della Chiesa. Le profezie sono l’annunzio e la preparazione dell’uno e dell’altra. Che cosa di più ragionevole che l’attribuirle allo Spirito Santo? Sarebb’egli ancora possibile di concepire che essendo incaricato del fine, non fosse incaricato dei mezzi? Parimente, le parole e le azioni ispirate dai profeti, sono l’opera dello Spirito Santo; e come abbiamo notato, esse formano nell’antico mondo il doppio preludio delle meraviglie analoghe, ma assai più grandi, che egli doveva compiere nella pienezza dei tempi. – Ascoltiamo gli interpreti e i dottori: « Per lunghi secoli, dicono essi, lo Spirito Santo preludeva alla formazione del Verbo incarnato: ogni profeta, ogni azione profetica ne è un disegno, uno schizzo. Chi altri che Lui è raffigurato in Isacco che porta le legna del suo sacrificio? Chi altri che Lui nel montone impacciato tra le spine è offerto in olocausto? Chi altri che Lui nell’angelo che lotta con Giacobbe, e per cui benedice la posterità rimasta fedele? È Lui, Giosuè, che introducendo il popolo nella terra promessa; Sansone che uccide il leone, e che va a cercare una sposa straniera, figura della Chiesa dei Gentili. – « Chi è Gioele, donna piena di fiducia che uccide Sisara generale degli eserciti di Giabin, e che ficca nelle tempie il chiodo della sua tenda? È la Chiesa la quale armata della croce, schiaccia il demonio, e rovina il suo impero. Che cosa è quella pelle ricoperta di rugiada sulla terra asciutta, quindi la pelle asciutta sulla terra umida? il Messia, da prima nascosto nel mistero della legge giudaica, mentre il resto del mondo rimane come una terra senz’acqua; poi il mondo che possiede la divina rugiada, della quale l’Ebreo si è reso indegno. Che cosa è Elia, che moltiplica la farina e l’olio alla povera vedova, oppure Eliseo che risuscita un morto? Il Cristo futuro! – Così l’Antico Testamento è la sementa, il Nuovo la messe; e l’uno come l’altro, è opera dello Spirito Santo. » [Corn. Alap. Proem. in Proph.] [S. Aug., lib. XII contra Faust. c. xxvi, xxxi, xxxii, xxxv. — Satores fuerunt Prophetae, messores Apostoli. S. Chrys. homil. XXXIV, in Joan., 4.]. – In questo sbozzo, se vi aggiungiamo mille tratti, facili a raccogliersi, avremo il quadro delazione dello Spirito Santo sul mondo angelico, sul mondo fisico e sul mondo morale, per tutta la durata dell’antica alleanza. – Lungi dall’essere lo Spirito Santo inerte in seno all’eternità, ci apparirà invece come il Principio sempre operoso nella creazione, e come il preparatore instancabile dell’Alpha e dell’Omega delle opere divine: Gesù Cristo e la Chiesa.

Omelia della DOMENICA II dopo Pentecoste

Omelia della DOMENICA II dopo Pentecoste

 [Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

giudiz.univ. giotto. part.

 Numero dei Peccati.

    E perché al primo rifiuto degl’invitati nell’odierna parabola vien fulminata sentenza fatale di esclusione perpetua dal regno di Dio? Un uomo di qualità, imbandita una grande cena, mandò il suo servo ad invitare molti. Il primo di questi invitati si scusò con dire, aver lui fatto acquisto di una villa, e conveniva si conducesse sul luogo a vederla. Il secondo allegò per scusa aver comprato cinque paia di buoi, e doveva andar a provarli se erano idonei all’aratro. Disse il terzo, che di fresco aveva presa moglie, e gli era impossibile venir al convito. Offeso da questi villani rifiuti quel personaggio, altamente si protestò che niun di costoro si sarebbe mai più assiso alla sua mensa, mai più avrebbe gustato della sua cena. Quest’uomo qualificato, al dir di S. Cirillo e del magno Gregorio, riportati dall’angelico dottor S. Tommaso (in Cat. Aurea), egli è Dio che ha imbandita una lauta mensa delle carni immacolate del divino agnello, ha spedito il suo servo, cioè i ministri della sua Chiesa ad invitar tutti i fedeli, a partecipare di così santo e salutare convito; ma molti ingrati corrispondono a tanta bontà con un rifiuto. E perché, io ripeto, dopo il primo rifiuto gl’invitati dell’indicata parabola sono fulminati con fatale sentenza? Ecco, uditori, una risposta, che racchiude una spaventosissima verità. Compirono con quel rifiuto la misura della loro malvagità. Che in fatti vi sia un certo numero di peccati da Dio stabilito universalmente per tutti, dopo il quale non resti più luogo a perdono, e qual possa essere in particolare per ciascuno quell’istesso numero, è ciò che formerà il soggetto della presente spiegazione.

Che il grande Iddio, che tutto ordina dispone ed eseguisce in numero, peso e misura, abbia determinato un certo numero di peccati, compiuto il quale più non accordi perdono, è cosa certa, dice S. Agostino, comprovata dal giudizio di Dio medesimo nelle divine Scritture: “Esse certum peccatorum numerum atque mensuram, ipsius Dei iudicio certissime comprobatur”. Promette infatti Iddio ad Abramo la fertilissima terra di Canaan, ma tu, soggiunge non entrerai al possesso della medesima, finché non sian compiute le iniquità degli Amorrei: “Necdum enim completae sunt iniquitates Amorrhaeorum (Ge. XV, 16), Gesù Cristo, rinfacciando ai caparbi scribi e a’ superbi farisei l’empietà delle loro massime, e la scostumatezza delle loro opere. Compite, dice ad essi, compite la misura dei malvagi vostri genitori: “et vos implete mensuram patrum vestrorum (Matth. XXV, 32). Lo stesso finalmente conferma l’apostolo nella prima sua epistola (cap. II, 15) a quei di Tessalonica. – A rendervi più sensibile questa importantissima verità fatevi tornare a mente l’universal diluvio, allorché Iddio, per castigare con esempio inaudito il peccato della disonestà, tutta sommerse l’umana generazione. Poteva l’onnipotente Iddio in un sol giorno, in un’ora, in un istante affogare nell’acque il mondo intero, pure volle impiegarvi lo spazio di giorni quaranta di pioggia dirotta. Fu questo, dice S. Giovanni Crisostomo, un tratto di misericordia, acciocché in vista di un castigo che aveva cominciamento e progresso, potessero i rei aver tempo a salvarsi; ma fu altresì, ripiglia Origene, un atto di sua tremenda giustizia; perciocché ne’ primi giorni andarono in fondo quei che compito avevano il numero de’ propri peccati, e così ne’ giorni susseguenti gradatamente restarono sommersi coloro che ripiena avevano la misura dei loro delitti: “Quam mensuram credendam et fuisse completam ab iis, qui diluvio perierunt” (Orig.). – Mi chiedete ora qual sia per ciascuno in particolare questa determinata misura? Questa per alcuni è più ampia, per altri è più ristretta. Apriamo di nuovo le divine Scritture: ah, diceva Iddio a Mosè, io voglio una volta disfarmi queste tue genti; e assegnando la cagione della sua collera. È già la decima volta, soggiunge, che questa malnata genìa provoca il mio furore: “Tentaverunt me iam per decem vices” (Num. XIV, 22). – Lo stesso Dio, parlando de’ popoli di Damasco, dice ad Amos profèta: Io perdonerò a questo popolo le sue scelleratezze la prima, la seconda, la terza volta, e non più: “Super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam eum” (Am. I, 3). Ma, Signore, non siete sempre il Dio delle misericordie tanto la prima, che la seconda, la quarta e la centesima fiata?- Io sono in natura, in sostanza, in ogni tempo, ma per il popolo di Damasco nol sarò in effetto, se non fino alla terza volta, ma non per la quarta. “Super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam eum”. Ecco dunque per gli Ebrei nel deserto, che la loro misura arriva fino a dieci, e per quel di Damasco fino a tre. Vi sono o esser vi possono ancor più corte misure? O giudizi di Dio tremendi, profondi, inscrutabili! Vi sono purtroppo numeri più ristretti, misure più scarse. Per alcuni talvolta il primo peccato è l’ultimo. Così avvenne agli Angeli nel cielo empireo, così agl’invitati nell’odierna parabola. – Fissate bene le prove di questa formidabile verità, ditemi, fedeli amatissimi, siete voi nello stato d’innocenza? Mi giova il crederlo. Ah! se così, tenetevi ben cara questa gemma preziosa, guardatevi bene di macchiare la candida stola della vostra battesimale integrità, perché il primo peccato potrebbe forse essere l’ultimo, potrebbe cadere su voi quel fulmine improvviso e irreparabile, che colpì gli Angeli prevaricatori, e i convitati dell’odierno Vangelo, come già vi accennai. – Se poi, perduta la prima tavola dell’innocenza, vi siete appigliati alla seconda della penitenza, se, abbandonata la strada di perdizione, vi siete incamminati in quella della salute, deh! Per pietà non tornate addietro, non date un passo, non mettete un piede fuor di questa via, perché il primo passo potrebb’essere per voi un precipizio, una caduta, che vi sprofondasse nel baratro sempiterno. – Se finalmente foste ancora nello stato di peccato, stato d’inimicizia con Dio, stato di dannazione, uscite per carità da stato sì pericoloso, non aggiungete colpa a colpa, peccato a peccato; perché la bilancia che sta in mano alla divina giustizia è già carica dal peso de’ vostri reati e va ondeggiando, sostenuta, a non preponderare a vostro danno, dalla divina misericordia; ma un altro peccato, che vi si accresca, può farla tracollare a vostra rovina. – Forse alcun di voi andrà dicendo fra sé: “conviene dire che la misura de’ miei peccati sia ben dilatata ed estesa: poiché dopo tanti che ne ho commessi senza numero, senza fine, in ogni genere, in ogni modo, la giustizia di Dio non mi ha fatto sentire neppure il fischio del suo flagello; invece io vivo sano, vegeto, robusto e prosperoso. – Perdonatemi se vi compiango, e uditemi con pazienza. Un orologio montato a svegliarino corre con un leggiero moto e poco si fa sentire tutta la notte, ma giunto al punto fissato da chi lo caricò, ecco un’improvvisa rivoluzione di ruote, uno strepito di martelli, un sì forte trambusto, che sveglia chi anche profondamente dormiva. – Voi al presente dormite tranquillo in seno al peccato, sentite però a qualche ora un leggiero movimento, il rimorso cioè della rea coscienza, che non sa tacere; pur proseguite il vostro sonno, o piuttosto il vostro letargo; ma al giungere di quel punto fatale determinato dal padrone della vita e della morte, si scaricherà su di voi la giusta sua collera, vi sveglierete dalla profonda letargia, aprirete gli occhi, e vedrete il mondo che vi fugge, la morte che v’incalza, l’eternità che vi assorbe, l’ira di Dio che vi sta sopra in atto di fulminarvi, e sprofondarvi all’abisso. Succederà a voi come a tanti pari vostri, uomini di bel tempo, che nel fior dell’età, nel più bello de’ loro sozzi piaceri, venuto il fatal punto, furono all’improvviso precipitati all’inferno: “Ducunt in bonis dies suos, et in puncto, notate bene, et in puncto ad inferna discendunt [finiscono nel benessere i loro giorni e scendono tranquilli negli inferi] (Job. XXI, 13). Questo terribile punto fissato dalla mano dell’Onnipotente, arrivò già per i superbi e rivoltosi Core, Datan e Abiron, “si aprì loro la terra sotto de’ piedi, e vivi piombarono nel profondo dell’inferno”: “Descenderuntque vivi in infernum” (Num. XVI, 33). Questo formidabile punto non preveduto arrivò per l’incestuoso Ammone, e la mano di Dio lo colse sedente a lauto convito, che fu il palco funesto della sua morte. Questo punto non preveduto giunse per l’empio Baldassarre, e la divina vendetta lo colpì, mentre giaceva in un profondo sonno, trucidato dalle spade nemiche de’ Medi e de’ Persiani. Questo punto arrivò per Sisara generale di grande armata, addormentato nel padiglione di Giaele, da lungo chiodo dall’una all’altra tempia miseramente trafitto. Questo punto arrivò per l’orgoglioso Oloferne, mentre sepolto nel sonno e nel vino, lasciò la testa sotto la spada della forte Giuditta. Questo punto, a finirla, arrivò per tanti libertini de’ nostri tempi, increduli, scostumati, scandalosi, da noi conosciuti, che nella debolezza de’ loro animi, e nella bruttezza de’ loro vizi, affettavano spirito forte e mascherato patriottismo, colpiti da improvvisa morte nel fiore degli anni, senza sacramenti, senza un segno di religione, senza un atto di cristiana pietà. Per tutti quest’infelici, non è egli evidente che si avverò l’oracolo dello Spirito Santo per bocca di Giobbe: “Ducunt in bonis dies suos, et in puncto – notate di nuovo – et in puncto ad inferna descendunt”? Questo divino oracolo, questa tremenda minaccia si compirà in chiunque mette la sua felicità nelle terrene cose, ne’ vietati piaceri, nello sfogo delle brutali passioni, in chiunque non teme Dio, non si cura di Dio, calpesta le sue leggi e mena una vita peggiore delle bestie insensate. Sì, miserabili, seguite pure la via del piacere, vedrete ove andrà a terminare: impegolatevi nelle crapule, ubriacatevi nelle sensualità, coronatevi di rose; anche i montoni s’incoronano di fiori, e si lasciano carolare sul prato, ma son già destinati alla scure ed al macello. Cantino pure nella prigione quei scioperati malfattori, si divertano con giuochi villani, con tresche brutali; intanto la sentenza del loro supplizio è già pronunziata dal giudice e spiccata dal tribunale, ed essi nol sanno, e proseguono a ridere ed a cantare. Voi li compiangete; ma ecco il vostro caso precisamente (perdonatemi se vi parlo con evangelica libertà pel bene che vi voglio, per l’amore che vi porto), ecco, diceva, precisamente il caso vostro. È fissato, peccatori restii, il punto di vostra sorte, siete posti sulla bilancia come Baldassarre, tanti peccati farete e non più, tanti saranno i vostri giorni e non più: suonerà per voi l’ultima ora, la vostra sentenza è già scritta in cielo, la vostra condanna è in moto, già ne sento il tuono, già ne veggo il fulmine diretto a togliervi di questa terra, e ad inabissarvi all’inferno.

Ma dove mi trasporta l’amore di giovarvi, peccatori miei cari? Perdonate lo zelo di chi vi amareggia a fin di sanarvi, di chi vi minaccia a fin di salvarvi. Confortate il vostro cuore, e ditegli ch’è ancor luogo a sperare. La misura de vostri peccati è ampia, è vero, ma non è ancor compita: si compie, dice S. Agostino, quando una improvvisa morte colpisce un’anima impenitente; ma fin che Dio vi soffre in vita, è segno che non sono ancor chiuse le viscere della sua misericordia. Cessate da quest’ora dal più peccare: cancellate or ch’è tempo accettevole il chirografo delle colpe con lacrime di contrizione sincera, provvedete a’ vostri novissimi, riformate la vostra condotta, intraprendete la via di salute: all’invito che oggi vi fa per mia bocca Iddio pietoso, non allegate scuse, come i convitati dell’odierno Vangelo: un rifiuto vi può costare la vita temporale ed eterna: ricordatevi che il primo peccato può essere l’ultimo, e il sigillo fatale della vostra eterna riprovazione. Che Iddio vi guardi!

 

Lo Spirito Santo nell’Antico Testamento

 

Lo Spirito Santo nell’Antico Testamento

J.-J. GAUME

[Da: “Il trattato dello Spirito Santo”, vol II capp. VIII e IX]

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Lo Spirito Santo nell’Antico Testamento, promesso e figurato.

   Il Messia è promesso, lo Spirito Santo è promesso. Dopo la promessa tante volte rinnovata, in termini più o meno espliciti della venuta dello Spirito Santo sulla terra, [Is. XLIV, 3., Ezech. XI, 19; xxxvi, 26. ecc.], Iddio ordina al profeta Gioele di pubblicarla chiaramente, più di seicento anni avanti il giorno memorando in cui essa doveva compiersi. Nella persona degli Ebrei, il profeta si indirizza a tutti i popoli, chiamati a divenire per la fede i figliuoli d’Abraham. Il suo sguardo ispirato vede nel tempo stesso il Verbo che s’incarna e lo Spirito Santo che discende. Dinanzi a lui, sono presenti le due adorabili Persone, e con lo stesso entusiasmo, parla egli dell’uno e dell’altro. « Voi, figliuoli di Sion, esclama, esultate e rallegratevi nel Signore Dio vostro, perché Egli ha dato a voi il maestro della giustizia, e manderà a voi le pioggie d’autunno e di primavera, come in antico. E le aie saranno piene di grano, e le cantine ridonderanno di vino e di olio. E compenserò gli anni resi sterili dalla locusta, dal bruco, dalla ruggine e dall’eruca, terribili eserciti mandati da me contro di voi. E mangerete allegramente e sarete satolli e celebrerete il nome del Signore Dio vostro che ha fatte mirabili cose per voi: e il mio popolo non sarà confuso in sempiterno. E conoscerete come io risiedo in mezzo ad Israele, ed io sono il Signore Dio vostro, ed altro non v’è, né rimarrà giammai confuso il mio popolo » [Gioele, XI, 23-27]. La gioia e l’abbondanza di tutti i beni spirituali, la riparazione di tutti i mali, sotto il cui peso gemeva l’uman genere dopo la primitiva caduta, la presenza permanente dello stesso Signore in mezzo al suo popolo, la grande nazione cattolica; questi appunto sono i tratti distintivi del regno del Messia. Quando il Verbo incarnato avrà posto le fondamenta di questa felicità universale e bagnato del proprio suo sangue, alla mattina ed alla sera della sua vita, questa terra del mondo, che cosa avverrà? Ascoltiamo il profeta : « E dopo tali cose avverrà che io spanderò il mio spirito sopra tutti gli uomini, e profeteranno i vostri figliuoli e le vostre figliuole; i vostri vecchi avranno de’ sogni e la vostra gioventù avrà delle visioni. Ed anche sopra i servi miei e sopra le serve spanderò in quei giorni il mio spirito.2 » [Ivi, XXVIII, 30]- (Lo stesso giorno delle Pentecoste, san Pietro dichiara agli Ebrei che le meraviglie che risplendono ai loro occhi, sono il compimento della promessa del Signore fatta dal profeta Gioele. Tutti i Padri parlano come il capo degli apostoli. Vedi tra gli altri S. Crisost. in princip. Act. Apostoli II, t. III, p. 927, II. 11,12, e Corn. a Lap. in Gioel. II, 28). Tali sono nei loro tratti generali, i benefizi dei quali il mondo andrà debitore allo Spirito Santo. Come dovevano tutti i cuori palpitare a tale annunzio! Come i giusti dell’antica legge dovevano scongiurare il Signore di affrettare questo giorno, unico tra i giorni! Per consolarli, il Signore vuol altresì prometter loro per bocca del profeta Aggeo la prossima venuta dello Spirito Santo. Giuda ritornava di Babilonia; egli era occupatissimo della costruzione del secondo tempio; ma i cuori erano tristi. Non si poteva pensare senza gemere alla magnificenza dell’antico tempio ed alla povertà relativa del nuovo, che sorgeva a stento ed in mezzo a difficoltà d’ogni sorta. – Aggeo riceve ordine d’incoraggiare il popolo. Come Gioele, egli vede ed annunzia la venuta delle due Persone dell’adorabile Trinità: Lo Spirito Santo, che, conforme alle antiche promesse, verrà bentosto a risedere in mezzo al suo popolo; il Verbo fatto carne, che degnerà santificare il nuovo tempio, con la sua personale presenza: « O profeta, gli disse il Signore, parla a Zorobabel figliuolo di Salathiel, principe di Giuda, ed a Gesù figliuolo di Iosedech, sommo sacerdote, e al resto del popolo, e di’ loro : “Fatti cuore, o Zorobabel, dice il Signore, e, fatti animo, o Gesù figliuolo di Iosedech; e tu fatti animo, o popolo quanto sei, dice il Signore degli eserciti, ed operate (perché io sono con voi, dice il Signore degli eserciti). Io sto per mantener la parola promessavi quando uscivate dalla terra d’Egitto, e il mio Spirito sarà in mezzo a voi: non temete, perché così dice il Signore degli eserciti: ancora un pochetto, e io metterò in movimento il cielo, la terra, il mare e il mondo. E metterò in movimento tutte le genti, perché verrà il Desiderato da tutte le genti ed empirò di gloria questa casa, dice il Signore degli eserciti; maggiore sarà la gloria di quest’ultima casa che della prima. » [Agg., II, 2-10. – Tutti i Padri, sant’Atanasio, san Cirillo di Gerusalemme, san Gregorio di Nissa, Teodoreto, hanno visto in queste notevoli parole la promessa dello Spirito Santo. Vedi tra gli altri S. Girolamo, in Agg. II, opp. t. III, p. 1694, e Corn. Alap., ivi]. Questa seconda promessa, più esplicita della prima, non si contenta di annunziare la venuta dello Spirito Santo, ma ne designa 1’epoca. Egli verrà allorché il mondo sarà tratto fuori dalla vera cattività d’Egitto, mediante il sangue dell’Agnello di Dio: e che gli apostoli saranno pronti a costruire il grande edificio cattolico, in cui lo Spirito Santo deve eternamente abitare.  Verso la medesima epoca un altro profeta Zaccaria è incaricato di annunziare la venuta del divino Spirito, il quale deve mutare la faccia alla terra, dopo aver cambiato i cuori. Qui pure, il Signore ha cura di riunire nella medesima predizione la venuta del Messia e la discesa dello Spirito Santo. La ragione si è che questi due avvenimenti si collegano l’uno con l’altro. Il primo é la prova del secondo, e il secondo la conseguenza del primo; quindi non si può ammettere l’uno senza dell’altro: « In quel giorno, dice il Signore, mi studierò di abbattere tutte le genti che si muoveranno contro Gerusalemme. E spanderò sopra la casa di Davide e sopra gli abitatori di Gerusalemme lo Spirito di grazia e di orazione, e volgeranno lo sguardo a me che han trafitto : e lui piangeranno come suol piangersi un unico figlio e meneran duolo per lui come si fa duolo alla morte di un primogenito. » [Zach., XII; 9, 10].  Leggendo nell’avvenire delle età, dicono i Padri e gli interpreti, Zaccaria vede davanti a’ suoi occhi il giorno memorabile della Pentecoste, in cui lo Spirito Santo discende sugli Apostoli riuniti in Gerusalemme. Ei lo vede producente la grazia e la santificazione; poi, i gemiti e le supplicazioni nelle anime che ha illuminate sull’enorme attentato, commesso dalla nazione ebrea sulla persona adorabile del Messia. Tutto ciò è cosi fattamente preciso che gli Atti degli Apostoli, raccontando la storia della Pentecoste, non sembrano essere che la riproduzione delle parole di Zaccaria. 22 [Vedi Corn. Alap. in Zach., XII, 9; e S. Girolam. In Zach. , opp. t. III, p. 1784, 1785]. Non solamente Iddio annunziava al mondo la venuta dello Spirito santificatore con queste promesse solenni e con molte altre sparse nell’antico Testamento, ma a favore del Messia, noi vediamo camminare di pari passo con le promesse innumerevoli figure le quali fissavano di continuo l’attenzione sul futuro Liberatore. Altrettanto è a favore dello Spirito Santo; poiché accanto alle promesse si mostrano costantemente alcune figure che lo rivelano nella sua natura e nei suoi doni. Appoggiati all’autorità dei santi dottori ne faremo conoscere alcune. Lo Spirito dei sette doni che è il principio vitale, la luce, la lealtà del mondo morale e della Chiesa in particolare, trovasi rappresentato dai diversi settennari, i quali ritornano cosi di sovente nella creazione del mondo materiale e nella formazione del popolo figurativo. Ne citerò due soli esempi: il mondo fisico fu creato in sei giorni, seguiti dal giorno di riposo: cosi è il medesimo del mondo morale. L’uomo che ne è il sublime compendio, é formato dallo Spirito dei sette doni.

Nell’ ordine della natura, la luce comparisce il primo giorno. Essa figura il dono di “timore”, per mezzo del quale l’uomo comincia a conoscere Dio efficacemente, secondo quella parola del profeta: il Timore del Signore è il principio della sapienza. – Nel secondo giorno della creazione, si spiega il firmamento, il quale separa le acque inferiori dalle superiori; e questo è l’emblema del dono di “scienza” che c’insegna a discernere le vere dottrine dalle false. L’uomo adorno di questo prezioso dono, rassomiglia al firmamento mediante la incrollabile stabilità della sua fede. Mantenendo una separazione radicale tra la verità e l’errore, impedisce a questi di non riunirsi giammai nella sua intelligenza per produrvi il caos. Cosi il firmamento posto immutabilmente tra le acque inferiori e le acque superiori, impedisce ad una di confondere le loro masse e di produrre un nuovo diluvio. – Il terzo giorno ha luogo la separazione delle acque e della terra. La terra mostrando la sua superficie asciutta la copre di ogni sorta di erbe e di piante: e questa è la viva immagine del dono di “pietà”. L’uomo separato dalle acque inferiori, cioè dire dalle dottrine di menzogna, l’idolatria, la superstizione, l’incredulità, vivificato invece dal dono di pietà, onora il vero Dio e produce i fiori dei buoni desideri, cioè le erbe delle sante parole, infine i frutti eccellenti delle opere di carità verso Dio e verso il prossimo. – Il quarto giorno compariscono i due grandi luminari, il sole e la luna, accompagnati da miriadi di stelle. Qui si vede in tutta la sua magnificenza il dono di “consiglio”. Come faro mattutino, simile al sole, egli illumina tutto il sistema del mondo soprannaturale; come faro notturno, pari alla luna, esso illumina tutto il sistema del mondo inferiore; parimente le stelle, le quali, sparse in tutta la estensione del firmamento, ne illuminano tutte le parti, cosi illumina ciascuna delle nostre facoltà, e dirige ciascuno dei nostri sensi. – Il quinto giorno, i pesci e gli uccelli prendono nascimento dallo stesso elemento; i primi vivono nelle acque, i secondi volano nell’ aria. La sapienza eterna poteva ella meglio prefigurare il dono di “forza” ? Mercé la sua efficacia, le buone risoluzioni nascono e si fortificano nella tribolazione; ed i buoni pensieri volano verso Dio, rompendo le resistenze dei demoni che riempiono l’aria da cui siamo circondati. – Il sesto giorno ha luogo la creazione degli animali e dell’uomo, loro re. Questo è appunto il dono d’“intelletto”. L’uomo che lo possiede conosce chiaramente la sua duplice natura e l’apprezza; ei sa che la parte superiore di se stesso deve dominare l’inferiore, ei conosce di più le regole da seguire per mantenere questa subordinazione, principio di virtù e di universale armonia. – Il settimo giorno Iddio si riposa e benedice questo giorno. Tale è la figura perfettamente giusta del dono di “sapienza”, di tutti il più nobile. Per lui l’anima si riposa deliziosamente in Dio. Disgustata di tutto ciò che non è lui, attende essa nella pace al giorno eterno, in cui essa andrà a benedirlo di tutto quel che ha fatto per lei e per mezzo di lei. A questo modo Iddio il settimo giorno corona l’opera della creazione del mondo materiale; e parimente lo Spirito Santo col settimo dono compie la creazione di un mondo nobile, cioè l’uomo, sua immagine e suo figliuolo. [Vedi intorno a questa bella filosofia, S. Anton., Summ. theol., I, art., t. X, c. I, § 4.].

A coloro che fossero tentati di non vedere che un gioco d’immaginazione, in questo parallelo tra la creazione del mondo materiale e la creazione del mondo morale, tra quel che è preceduto sin dall’origine dei tempi e ciò che si è compiuto nella pienezza delle età, basta ricordare la dottrina di san Paolo e dei Padri. Tutti insegnano che l’Antico Testamento, è al Vangelo, ciò che è la rosa in gemma, è alla rosa sbocciata, poiché il mondo fisico non é che l’irradiazione del mondo morale; che l’uno e l’ altro sono stati fatti dallo stesso Spirito sul medesimo piano e nel medesimo fine; e che cosi comincia l’annunzio figurativo dello Spirito Santo, come quello del Messia, dal primo giorno del mondo. – Un’altra figura, più trasparente della prima, è il candelabro dalle sette braccia. Israele uscito d’Egitto trovavasi in mezzo al deserto, ed era incamminato verso la terra promessa. Iddio chiama Mosè e gli ordina di lare il tabernacolo, opera in cui il mistero e la figura dell’avvenire risplendono da ogni parte. Il tabernacolo, dicono gli ebrei, Giuseppe e Filone, era l’immagine del mondo; e il Santo dei santi rappresentava il cielo empireo. Ivi appunto Iddio comanda a Mosè di porre un candelabro d’oro, a sette braccia, destinato ad illuminare il cielo della terra. Dove trovare una figura più bella dello Spirito dai sette doni, luminare del tempo e della eternità [Corn. Alap., in Exod. xxv, 31].

I Padri della Chiesa hanno visto una nuova figura dello Spirito Santo nei sette figli di Giobbe: « I sette figli del patriarca del dolore, scrive san Gregorio Magno, imbandivano conviti, ciascuno alla sua volta, ogni giorno della settimana, in compagnia delle loro tre sorelle, in un edificio quadrangolare. « Ecco dunque i sette doni dello Spirito Santo che nutriscono l’anima, ciascuno a suo modo, e ciò in compagnia delle loro tre sorelle, vale a dire delle tre virtù teologali, la fede, la speranza e la carità; in un edificio spirituale di forma quadrata, vale a dire formato delle quattro virtù cardinali, la prudenza, la giustizia, la fortezza, la temperanza. Ciascuna dà il suo banchetto, perché ciascun dono dello Spirito Santo nutrisce l’amina. La sapienza mediante l’esperienza tanto certa quanto deliziosa dei beni futuri ; l’intelligenza, per la luce tutta divina che ella fa brillare nelle tenebre del cuore ; il consiglio, per l’ alta prudenza di cui lo riempie; la fortezza, per l’invincibile coraggio, sia nell’azione, ossia nel soffrire ; la scienza, per la serenità dello sguardo e la solidità dei pensieri; la pietà, per la sazietà, frutto delle opere di misericordia ; il timore, per l’ umile fiducia, ricompensa dell’ orgoglio vinto. » [S. Greg. Morale lib. I et II.] Via, via che noi avanziamo, le figure diventano più trasparenti; è 1’aurora che succede all’ alba e che annunzia il sorgere del sole. Dietro l’esempio dei Padri, studiamo la bella figura dello Spirito dai sette doni, tanto bene delineata dall’autore della Provvidenza. « La sapienza, dice il sacro scrittore, si è fabbricata una casa, e ha lavorato sette colonne. Ha immolate le sue vittime, ha annacquato il suo vino, imbandita la sua mensa. Ha mandate le sue ancelle ad invitare la gente alla cittadella, e alla città di forti mura, dicendo: chiunque è fanciullo venga a me: e a quelli che sono poveri di senno, ella dice: venite, mangiate il mio pane e bevete il vino che io ho annacquato per voi, abbandonate la fanciullaggine e vivrete: e battete le vie della prudenza. [Prov. IX, 1-6]. Qual’è questa Sapienza? Il Verbo eterno, la stessa sapienza di Dio. La casa fabbricata di sua propria mano, qual’è? La Chiesa, palazzo del Figliuolo di Dio sulla terra: E quelle sette colonne che sorreggono l’edificio? i sette doni dello Spirito Santo che rendono la Chiesa incrollabile in mezzo alle tempeste ed ai terremoti. Come mai? Opponendo, ciascuno in particolare, una forza di resistenza superiore alla violenza dei sette spiriti maligni, nemici potenti della Città del bene. Al demone dell’orgoglio, resiste il dono di timore ; al demone dell’ avarizia, il consiglio; al demone della lussuria, la sapienza; al demone della gola, l’intelligenza; al demone dell’invidia, la pietà; al demone dell’ira, la scienza; al demone della pigrizia, la fortezza. Tale è l’armonioso contrasto che i santi dottori scoprono tra le forze opposte dello Spirito del bene e lo Spirito del male. Niente è più reale come lo mostreremo altrove.[V. Coirn. Alapid. in Proverbi., c. IX, 1-6]. – Contentiamoci di notare qui che questa nuova figura dello Spirito Santo, presenta lo stesso carattere delle altre. Le due Persone divine che il mondo attendeva vi sono insieme designate. Quali sono infatti queste vittime immolate dalla sapienza, quel pane, quel vino, quella mensa imbandita per i suoi fanciulli? Ad una voce unanime i Padri ed i commentatori rispondono che è il Verbo incarnato. Quanto alle ancelle incaricate ad invitare i convitati, la tradizione costante vi scorge le anime zelanti, i predicatori ed i sacerdoti, le cui preghiere, le parole e gli esempi attraggono i loro fratelli al divino banchetto. Quelli stessi fanciulli che vengono a parteciparvi, rappresentano al naturale tutti gli uomini, grandi fanciulli, sempre occupati in fanciullaggini, sino ai momento in cui, illuminati da quel Dio che ricevono alla sacra mensa, prendono seri gusti e procedono nelle vie della vera prudenza. È inutile aggiungere che tutte queste figure erano comprese dagli antichi, secondo il grado di cognizione che Dio voleva dar loro dei suoi adorabili consigli.

Spirito Santo

Lo Spirito Santo predetto.

Nella preparazione del genere umano alla venuta della seconda e della terza Persona della Trinità, trovasi lo stesso procedere provvidenziale. Promesse moltiplicate rendono certa la venuta del grande Liberatore: alcune figure danno in sbozzo il suo ritratto. Più esplicite delle prime e più trasparenti delle seconde, alcune profezie danno il suo completo contrassegno; di guisa che a meno di un volontario accecamento, sarà impossibile all’uomo di disconoscere il Desiderato delle genti. Rispetto allo Spirito Santo, uguale condotta. Alle assicurazioni date mediante le promesse, ai tratti sparpagliati, diffusi nelle diverse figure, succederanno gli oracoli più precisi dei profeti, e i tocchi più accentuati del loro pennello. Tale sarà la perfezione di questo ritratto anticipatamente disegnato, che gli stessi ciechi riscontreranno in ciò il divino Spirito. – Mille anni avanti la sua venuta, David lo segnala all’attenzione universale mostrandolo col suo incomunicabile carattere. « Signore, esclama, Tu manderai il tuo Spirito e ogni cosa sarà rigenerata. » [Psalm. CIII.]. Come se dicesse: Abitatori della terra state attenti: verrà il giorno in cui lo Spirito Santo, terza Persona della augusta Trinità, scenderà in mezzo a voi. Voi Lo riconoscerete dai prodigi che opererà sotto gli occhi vostri. Il mondo, morto alla vita soprannaturale, alla vita della intelligenza, della virtù, della carità e della libertà, sorgerà dalla tomba di fango, nella quale è sepolto. Le catene della schiavitù cadranno da un polo all’altro: il vizio cederà il posto alla più pura virtù, e i vivi splendori della verità succederanno alla lunga notte dell’errore: uomini nuovi e un nuovo mondo usciranno dal nulla: questo prodigio sarà l’opera dello Spirito Santo. Quando voi lo vedrete compiuto, sappiate che questo Spirito rigeneratore, oggetto della vostra aspettativa, sarà venuto, ed a un tal segno voi Lo riconoscerete. – Interroghiamo ora la storia, e domandiamole in qual giorno ebbe luogo questa miracolosa creazione. Tutte le nazioni civilizzate nominano il giorno della Pentecoste. Giorno eterno il quale, dopo diciotto secoli si leva successivamente sui diversi paesi della terra, operando dappertutto lo stesso prodigio che a Gerusalemme. Qual è l’istante in cui i popoli barbari sono venuti, di dove essi vengono alla luce, alla virtù, alla civiltà ? — Quest’è l’istante in cui lo Spirito Santo, dato mediante il Battesimo, domina su di essi è gli vivifica: come nei primi giorni del mondo ei dominava sulle acque del caos per fecondarle. Come compirà lo Spirito Santo questo meraviglioso cambiamento? Isaia ce lo insegna: « Spunterà un pollone dalla radice di lesse e un fiore dalla radice di lui si alzerà. E sopra di lui riposerà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà. E lo spirito della fortezza del Signore lo riempirà…. La scienza del Signore riempirà la terra, come le acque riempiono il mare. » Is. XI, 1-9]. In questa profezia noi troviamo altresì riunite ed operanti insieme le due Persone dell’augusta Trinità che devono onorare il mondo della loro visita. Il Figliuolo è chiaramente designato da questo fiore che spunterà dal ramo, nato dalla radice di lesse. Vedete la giustezza del linguaggio profetico! Il Messia è paragonato ad un fiore a cagione della sua umiltà, della grazia della sua Persona, e del profumo delle sue virtù. Maria è il ramo che Lo porta: ramo per la sua dolcezza, per la flessibilità sotto la mano di Dio, per la sua integrità poiché il fiore nasce dal ramo senza farle alcuna lesione. È detto che questo ramo non esce dall’albero e dal tronco ma dalla radice. Perché? Perché ai giorni del Messia la famiglia reale di lesse, privata del potere sovrano e perpetuata nei rampolli umili e poveri, non era più un albero dai rami magnifici, ma una semplice radice nascosta nel seno della terra; radice però piena di succo che produce il ramo più perfetto, il fiore più bello che l’albero stesso abbia mai prodotto. [“Virga beata virgo Maria, flos Christus, radix familia Davidis jam ablato sceptro quasi emortua et succisa, ita ut sola ejus radix in plebe latere et vivere videatur : sed haec ipsa reflorescente profert florem Christnm tanquam regem regum.” S. Hier., in hunc loc.]. – Dopo aver dipinto con tratti cosi graziosi e cosi perfettamente incomunicabili, il Messia Figliuolo di Dio e figlio di lesse, il profeta ripiglia il suo pennello per disegnare l’azione dello Spirito Santo. Egli è Colui che darà tutta la sua bellezza al divin fiore e che comunicherà alla radice di David i doni necessari al compimento delle meraviglie, nel seguito della profezia che è per riferirci la storia. Lo Spirito del Signore, dice il profeta, lo Spirito dei sette doni riposerà sopra di Lui. Non havvi padre della Chiesa, né interprete della Scrittura, il quale in questo Spirito dei sette doni non riconosca la terza Persona della SS. Trinità. A quale altro Spirito difatti, potrebbe convenire questo carattere? Qual altro Spirito potrebbe riposare sul figliuolo di Dio ? Qual altro Spirito potrebbe essere chiamato l’autore o il cooperatore delle meraviglie compiute mediante il Verbo fatto carne? [S. Hier. Ibid. in Is. XI opp. t. III, p. 99]. – Riposerà su di lui, dice il profeta. Nell’energia del significato originale, questa parola indica la forza, la pienezza, il luogo naturale del riposo dell’augusta Persona. Ciò vuol dire che lo Spirito Santo resta incrollabilmente nel nostro Signore; che Lo riempie nella pienezza de’ suoi doni, e che é in lui come nel suo inviolabile santuario, per motivo dell’unione ipostatica della natura divina con la natura umana. Isaia, dopo avere descritto questo spettacolo, sorpreso da ammirazione, canta le meraviglie del mondo sottomesso all’azione combinata della seconda e terza Persona dell’adorabile Trinità. Il regno della giustizia succedente al regno del capriccio, della forza e della crudeltà; la sconfitta del demonio e dei tiranni, suoi ciechi sostegni; il sepolcro del grande Liberatore rifulgente di gloria immortale; il leone e l’agnello, tutto ciò insomma che vi ha di più feroce e di più mansueto, vivente pacificamente insieme; immagine con cui la graziosa energia designa l’unione fraterna in seno del Vangelo, degli Ebrei coi Gentili, dei Greci e dei barbari, dei più fieri potentati co’ più deboli figli. Tali sono le meraviglie che si mostrano agli occhi del profeta.

Interroghiamo ancora qui la storia, e domandiamole in qual giorno si è compiuto questo meraviglioso cambiamento? In qual giorno si è rotto lo scettro di ferro che ha pesato per più di duemil’anni sul capo del mondo pagano? In qual giorno ha incominciato la distruzione del regno della idolatria? In qual giorno gli Ebrei ed i Gentili si sono per la prima volta abbracciati come fratelli? In qual giorno hanno cominciato, per non mai più finire, la venerazione del Calvario e il culto solenne del suo glorioso sepolcro? Ad unanime voce la terra tutta, nomina il giorno per sempre memorabile della Pentecoste. Se voi domandate allo stesso Messia, autore di tante meraviglie, a chi dobbiamo noi testificare la nostra riconoscenza, Egli vi risponde umilmente: «Lo Spirito Santo é stato sopra di me, e per questo mi ha mandato ed ho operato i prodigi dei quali voi siete testimoni» [Luc. , IV, 18-21].

Ascoltiamo un altro profeta. Ezechiele descrive con la medesima precisione d’Isaia, la terza Persona della SS. Trinità, la sua venuta, i suoi caratteri, le sue meravigliose operazioni. Anche qui il Verbo e lo Spirito Santo si danno la mano per lavorare alla rigenerazione del mondo. « Io santificherò il nome mio che é grande, dice il Signore per bocca del profeta, il mio nome che è macchiato tra le nazioni, affinché sappiano che io sono il Signore…. Ed Io spargerò sopra di voi un’acqua pura, e quando avrete lavate tutte le vostre brutture, vi purificherò di tutti i vostri idoli. E vi darò un cuore nuovo, e porrò in mezzo a voi un nuovo spirito. E toglierò dal vostro petto il cuor vostro di pietra, e vi darò un cuore di carne. E porrò il mio Spirito in mezzo a voi, e vi farò camminare nella via dei miei comandamenti. E voi custodirete la mia santa legge, e sarete il mio popolo, ed io Sarò il vostro Dio. [Ezech., XXXIV, 28-28]. – La prima cosa che ferisce gli sguardi del profeta, è il gran nome di Dio indegnamente profanato fra tutte le nazioni. Ecco appunto il regno della idolatria, quale la storia ce lo fa conoscere alla venuta del Redentore; regno di superstizioni vergognose e crudeli, in cui il nome di Dio dato ai coccodrilli, ai serpenti, ai gatti, alle erbe, alle rozze pietre, riceveva i più sanguinosi oltraggi. Poi, lo stesso profeta vede tutto ad un tratto cadere dal cielo una pura onda, che lava la terra ed i suoi abitanti di tutte le loro iniquità, e il gran nome di Dio ridiventare l’oggetto del rispetto e dell’amore universale. – Ecco ora i Sacramenti, soprattutto il Battesimo, in cui l’ebreo ed il pagano hanno perdute le loro macchie, e trovato la candidezza dell’innocenza. Dopo questa universale purificazione, Ezechiele vede discendere lo Spirito del Signore. Egli anima questi nuovi uomini e gli fa camminare con passo sicuro nei sentieri della virtù, di guisa che il vero Dio sarà d’ora in poi per essi il Dio unico, ed essi medesimi, ‘gli adoratori degli idoli, saranno il suo popolo diletto. Potevasi meglio descrivere il miracolo della Pentecoste? Non è egli chiaro che incominciando da questo gran giorno il genere umano ha perduto il suo cuore di pietra, ha preso un cuore nuovo, e che il gran cieco il cui cammino per più di duemil’anni era stata un’aberrazione continua, e entrato nella via luminosa della verità e della civiltà? [S. Aug., De doct. Christ. lib. III, c. XXXIV, n. 28; e Patres, passim apud Corn. a Lap. in Ezech., XXXIV, 25]. – Altrove lo Spirito Santo rivela ad Ezechiele sotto la più viva figura, l’azione rigeneratrice dello Spirito Santo. Per mostrare a lui che questo Spirito di vita, annunziato da David, come dovente trarre il mondo dal sepolcro dell’errore e del vizio, compierà in tutta la sua estensione la sua miracolosa missione, ecco ciò che fa il Signore. « La sua mano fu sopra di me, dice il profeta, e mi menò fuori in ispirito e mi posò in mezzo di un campo che era pieno di ossa; e mi fece girare intorno ad esse: ora esse erano in gran quantità sulla faccia del campo e secche grandemente. E (il Signore) disse a me: Figliuolo dell’uomo, pensi tu che queste ossa stiano per riavere la vita? Ed io dissi: Signore Dio tu lo sai. Ed ei disse a me: profetizza sopra queste ossa e dirai loro: ossa aride, udite la parola, del Signore. Queste cose dice il Signore Dio a queste ossa: ecco che io infonderò in voi lo spirito e avrete vita; e sopra di voi farò nascere i nervi e sopra di voi farò crescere le carni, e sopra di voi stenderò la pelle e darò a voi lo spirito e vivrete e conoscerete che io sono il Signore. « E profetai come ei mi aveva ordinato; e nel mentre che io profetava udissi uno strepito ed ecco un movimento, e si accostarono ossa ad ossa, ciascuno alla propria giuntura. E mirai, ed ecco sopra di esse vennero i nervi e le carni e si stese sopra di esse la pelle, ma non avevano spirito. Ed ei disse a me: profetizza allo spirito, profetizza, figliuolo dell’uomo, e dirai allo spirito: queste cose dice il Signore Dio: dai quattro venti vieni o Spirito, e soffia sopra questi morti ed ei risuscitino. « E profetai com’egli mi aveva comandato, ed entrò in quegli lo Spirito, e riebbero vita e si stettero sui piedi loro, esercito grande for misura. Ed ei disse a me: Figliuolo dell’uomo, tutte queste ossa sono la famiglia d’Israele: essi dicono: le ossa nostre sono aride ed è perita la nostra speranza e noi siam rami troncati. Per questo tu profetizza e dirai loro: queste cose dice il Signore Dio: ecco che io aprirò i vostri sepolcri e da’ sepolcri vostri vi trarrò fuori, popolo mio, e vi condurrò nella Terra d’Israele. E conoscerete che io sono il Signore, quando avrò infuso in voi il mio Spirito e vivrete e nella terra dei Padri vostri vi avrò dato riposo. [Ezech., XXXVII, 1-14.]. Energia, precisione, lucidezza, che cosa manca a questa profezia della risurrezione morale dell’umanità mediante l’alito dello Spirito Santo? Allorché per voce degli apostoli che escono dal cenacolo, la terza Persona dell’augusta Trinità soffiò sul mondo, tutta quanta la terra non era essa un campo coperto di ossa? Qual popolo viveva allora della vera vita? Quelle ossa non erano esse aride per il tempo, calcinate mediante il soffio ardente dello Spirito omicida, spirito d’orgoglio e di voluttà? Qual altro spirito ha propagato il moto e la vita in quell’ampio carnaio del genere umano? Porre simili questioni è risolverle.

Passiamo ad una nuova profezia. Anche in questa appariscono riunite le due adorabili Persone della Trinità la cui venuta salverà l’universo. È Zaccaria che parla. Sotto la figura del ristabilimento d’Israele nella patria dei suoi avi, e della costruzione del secondo tempio, egli annunzia la grande realtà del ristabilimento universale di tutte le cose e l’edificazione della Chiesa, tempio immortale del vero DIO. Il grande Oriente si alza sul mondo: ei si costruisce un tempio da sé stesso, del quale è insieme e il pontefice e la pietra angolare. Sette occhi scintillano su questa pietra magnificamente cesellata. Ai fuochi che n’escono sparisce l’iniquità dalla terra e la pace regna dappertutto. « Ascolta, o Gesù sommo sacerdote, Tu e i tuoi amici che abitano presso di Te, che sono uomini da portènti: perché ecco che io farò venire il mio servo, l’Oriente. Perché questa è la pietra che io ho posta innanzi a Gesù: sopra quest’unica pietra sono sette occhi: ecco che Io collo scalpello la lavorerò, dice il Signore degli eserciti, e in un giorno torrò via l’iniquità dalla terra. In quei giorno l’amico inviterà, l’amico ad andare sotto la sua vite e sotto il suo. fico, dice il Signore degli eserciti.1 » [Zach., III, 8-10]. Tutta la tradizione ha visto chiaramente designato il Messia in questo oracolo degno di nota. Come Dio, è esso altresì il vero Oriente, il solo principio di ogni luce. Come uomo, inferiore a suo Padre, è pure il vero servo del Dio degli eserciti. Certo egli, egli solo è altresì la pietra fondamentale della Chiesa figurata dal tempio., la edificazione del quale occupava allora Gesù, figlio di Iosedech. Ora, siccome la Chiesa è un tempio vivente, la pietra che gli serve di base deve essere vivente. Siccome essa è opera di Dio, cosi il fondamento deve essere lo stesso Dio; gli occhi dei. quali questa pietra è ornata, l’indicano sotto una eloquente figura. Per mostrare che è di essenza della Divinità di essere dappertutto e di tutto vedere, l’uso costante presso i differenti popoli è di rappresentare Dio sotto la figura di un occhio aperto. In Egitto, un occhio sormontato da uno scettro era l’emblema di Osiride. Nella Grecia, la statua di Giove aveva tre occhi per mostrare la sua triplice provvidenza sul cielo, sulla terra e sul mare.[Macrob. lib. I, c, XXI, Plutarco, De Iside et Osiride; Pausan., in Corinth; Pierìus, hierogl. XXXIII, 15]. – Nell’arte cristiana l’occhio è parimente l’emblema della Divinità. Cosi l’occhio dato alla pietra misteriosa della quale parla Zaccaria, denota senza alcun dubbio che questa pietra è l’emblema di Nostro Signore, il fondamento della Chiesa. Ma perché Dio la mostra egli al profeta con sette occhi e non con due, o con uno solo? Perché il numero sette e non un altro ? Ricordiamoci innanzi tutto, che in questa figura, essendo opera della infinita sapienza, non ci si può trovare nulla di arbitrario; quanto più essa apparisce strana, tanto più dobbiamo noi sospettarvi un senso profondo e un grande insegnamento. Per conoscerlo, ascoltiamo quelli che,Dio medesimo ha incaricato di spiegare i suoi oracoli, affidando ad essi il segreto dei suoi pensieri.       «Sopra questa unica pietra, dice san Gregorio Magno, vi sono sette occhi. Ora questa pietra è il Nostro Signore: dire che ha sette occhi, è dire che sul Verbo incarnato riposa lo Spirito dei sette doni. Fra noi vi è chi possiede il dono di profezia, e chi il dono di scienza; un altro il dono dei miracoli, un quinto il dono delle lingue, un sesto il dono d’interpretazione, secondo la distribuzione che lo Spirito Santo giudica a proposito di fare dei suoi doni; ma nessun uomo li possiede tutti nello stesso tempo, e nella loro pienezza. Quanto al Divin Redentore egli ha mostrato che rivestendo la nostra inferma natura Egli possedeva, come Dio, tutti i doni dello Spirito Santo. Per questo egli riunisce nella sua Persona tutti gli occhi brillanti di cui parla il profeta. » [“Super lapidem unum septem oculi sunt. Huic enim lapidi (Cristo) septem oculos habere, est simul omnem virtutem Spiritus septiformis gratiae in operatione retinere, etc.” – Moral., lib. XXIX, 16. Ita S. Hier., S. Remig., Rupert, Emmanuel, et alii]. – Tale è altresì la interpretazione degli altri Padri e dei più celebri commentatori. Resta a dare il significato delle ultime parole della profezia; Io stesso lavorerò collo scalpello questa pietra e toglierò via l’iniquità dalla terra e ciascuno riposerà all’ombra della sua vite e del suo fico. Chi sarà l’autore di queste magnifiche cesellature, di cui sarà adorna la pietra vivente, eterna base della Chiesa? Quello stesso che parla per organo del profeta, lo Spirito Santo in Persona. È Esso che nell’Incarnazione, scolpirà con una perfezione inimitabile il corpo e l’anima del Redentore. È Esso che con un’arte non meno meravigliosa gli unirà personalmente al Verbo eterno. Egli che adornerà la sua anima di tanta sapienza, di tanta virtù, di grazia e di gloria che ne farà come un cielo divino, raggiante di tutto lo splendore del sole, della luna e delle stelle. Esso, Spirito d’amore, che formerà sull’adorabile corpo dell’augusta vittima, con la punta acuta delle spine, dei chiodi e della lancia, le adorabili cesellature che fecero durante la passione 1’ammirazione degli Angeli e che faranno per tutta l’eternità l’amore dei Santi. – Qual sarà l’effetto di queste cruenti sculture? L’abolizione dell’iniquità. Il sangue del Redentore sgorgante a grandi gocce per le incisioni delle divine stimmate con cui lo Spirito Santo ornerà la sua carne immacolata, purificherà la terra dai suoi delitti. Iddio pacificato renderà le sue buone grazie al genere umano, e la pace dell’uomo con Dio, diventerà il principio della pace dell’uomo co’ suoi simili. È egli possibile di dipingere con più vivi colori l’azione simultanea del Figliuolo e dello Spirito Santo nella rigenerazione dell’umano genere? I fatti compiuti dopo la Pentecoste cristiana lasciano eglino il minimo dubbio sull’influenza dello Spirito Santo nel mondo, la minima oscurità sulle sue operazioni nel Verbo fatto carne, la minima ambiguità sulle parole del profeta? [S. Iren., De haeres., lib. III, 28]. – Sarebbe facile di continuare questo quadro cominciato sino dall’ origine dei tempi, e che va svolgendosi coi secoli. Noi vedremmo’ il Verbo, mediante il quale tutto è stato fatto, e lo Spirito Santo da cui tutto dee essere rifatto, uniti costantemente nelle predizioni dei profeti. Intenderemmo la misteriosa Giuditta che celebra la sua misteriosa vittoria, e nel suo cantico pure ‘misterioso, annunziante un più glorioso trionfo sopra un Oloferne più terribile di quello, del quale aveva già tagliata la testa; nominante il futuro vincitore del grande Oloferne ed esclamante: « Signore, Signore mio, tu sei grande e insigne per tua possanza e nessuno può superarti. A Te obbediscono tutte le tue creature, perché alla parola tua furono fatte, mandasti il tuo Spirito e furono create; e nessuno resiste alla tua voce. Saranno scossi da’ fondamenti i monti e le acque, e le pietre qual cera si struggeranno dinanzi alla tua faccia. Ma quei che temono Te, saranno grandi in tutte le cose dinanzi a te .» [Iudit., XCI, 16 a 19]. Quando l’umano genere da lungo tempo prostrato ai piedi di satana, ha egli cominciato a cadere ginocchioni dinanzi al vero Dio? Quale Spirito ha scosso gli imperi pagani, ridotto in polvere le mura ed i templi del Campidoglio, posto la croce vittoriosa sulla fronte dei Cesari? A quale epoca risale la generazione dei veri Apostoli, martiri, santi sul trono o nella solitudine, nobili vincitori di se medesimi e del mondo? Tutte le voci rispondono, benedicendo lo Spirito Santo ed il Cenacolo. – Il profeta che canta le meraviglie della increata Sapienza, non manca di aggiungergli lo Spirito Santo. L’uomo ispirato nella sua estasi, vede tutta la terra coperta di tenebre. Gli uomini incerti vanno brancolando in pieno meriggio, pigliando il falso per il vero, il male per il bene, ignorando Dio, e ignorando se medesimi. A tale spettacolo egli esclama : « Signore chi conoscerà i tuoi voleri, se Tu non dai la sapienza, e non mandi dal più alto cielo il tuo Santo Spirito? Onde così siano emendati gli andamenti di que’ che vivono sulla terra e gli uomini apprendano quel che sia grato a te ?» [Sap. IX, 17-18]. – Spirito di luce che dissiperà la notte del mondo morale, lunga notte di due mil’anni, notte profonda che i vacillanti lumi della ragione, piuttosto che dissiparne l’oscurità, rendevano palpabile; Spirito di forza che riempiendo l’uomo di un ignoto coraggio, lo ritrarrà dalla via del vizio, e lo farà camminare di un passo fermo nei difficili sentieri della virtù: tal è il doppio carattere, sotto il quale è annunziato lo Spirito necessario alla salute del mondo. V’è egli bisogno di dire che questi due caratteri convengono allo Spirito Santo e non convengono altro che à Lui? Non sono essi scritti in testa a tutte le opere rigeneratrici, le quali cominciate alla Pentecoste continuano sotto i nostri occhi per non finire che sul limitare dell’eternità? Infine, il Figliuolo e lo Spirito Santo sono sempre associati nelle predizioni dei profeti. Non essendo l’uno meno necessario dell’altro, per la rigenerazione del mondo, Dio ha voluto che essi fossero del pari annunziati. Queste due grandi figure dominano tutta la storia, illuminano tutti gli avvenimenti, provocano tutti i sospiri, sostengono tutte le speranze dell’antico mondo, come essi devono eccitare l’eterna riconoscenza del nuovo. – In quella guisa che studiando tutte le circostanze della nascita, della vita e della morte di Nostro Signor Gesù Cristo, il suo carattere, la sua dottrina, i suoi miracoli, è impossibile di non riconoscere in lui il Messia annunziato dai profeti; cosi considerando le opere meravigliose, e le operazioni intime dello Spirito del Cenacolo, è impossibile di non adorare in Lui la terza Persona dell’augusta Trinità, di cui gli oracoli profetici avevano dato il contrassegno. Questo costante parallelismo, di cui abbiamo già delineato i tratti principali, si continuerà nella preparazione dello Spirito Santo.

 

Il Segno della Croce e le Preghiere ai pasti

Il segno della croce e le Preghiere ai pasti

Carte Postal Religieuse Italienne de De Chirico"Il segno della croce " Anderson Credit: Rue des Archives/DS/18 rue le Bua 75020 Paris France
 

[Mons. J.-J. Gaume: “Il segno della croce”, 1864 – XVII-XVIII e XIX lettera]

Arma universale ed invincibile per l’uomo, parafulmine per le creature, simbolo di libertà pel mondo e monumento di vittoria pel Verbo Redentore: tale fu mio caro Federico, il segno della croce agli occhi dei primi cristiani. Da questa convinzione procedeva l’uso ch’eglino ne facevano, i sentimenti, che loro inspirava, il magnifico e piacevole spettacolo, a cui testé assistemmo. Conservammo noi la fede de’ padri nostri? Per i cristiani del secolo decimonono qual cosa mai è il segno della croce? come usano di esso a pro di sé stessi e delle creature? I sentimenti di fede, di confidenza, di rispetto, di fiducia e di amore, che loro inspira, sono vivi e reali? Il maggior numero di quelli, che fanno un tale segno non lo eseguono forse ignorando quel che operano, e senza attribuirgli valore alcuno, ed importanza? Quanti non lo eseguono affatto? Quanti credono ricevere onta dall’eseguirlo? Quanti ancora non son presi da sdegno al vederlo? E per fermo, eglino l’hanno tolto dalle loro case e da’ loro appartamenti, cassato dalla loro mobilia, ed inutilmente lo si cercherebbe nelle pubbliche piazze, nelle passeggiate delle città, lungo le vie e ne’ parchi; poiché l’han fatto disparire da tutti i luoghi, dove i padri nostri l’avevano innalzato. Essi, nuovi iconoclasti del secolo XIX, hanno spezzate le croci! Qual cosa mai è questa, ed a quale avvenire accennano siffatti sintomi? Vuoi saperlo? Rimonta al principio illuminatore della storia. Due principi opposti si disputano il dominio del mondo, Io spirito del bene e lo spirito del male. Tutto ciò che si opera è, o per inspirazione divina, o per inspirazione satanica. L’istituzione del segno della croce, l’uso continuo di esso, la fiducia che inspira, la potente virtù attribuitagli, è una inspirazione divina o satanica ? È o l’una, o l’altra!  Se è una inspirazione satanica, il fiore della umanità, che sola fa questo segno, è da poi oltre diciotto secoli incurabilmente cieca, mentre che il rifiuto della umana compagnia, che sprezza la croce, avrebbe ogni lume: è un dire, che i miopi, i loschi e i ciechi del tutto vedano più di colui, che ha due buoni occhi. Credi possibile che l’orgoglio possa tanto impazzire da affermare simile paradosso, e che vi sia tale una incredulità, e di sì robusti polsi da sostenerlo? Ma se il segno della croce praticato, ripetuto, caro, considerato come arma invincibile, universale, permanente, necessaria alla umanità contro satana, le sue tentazioni e i suoi angeli, è una inspirazione divina, che vuoi che io pensi di un mondo, che non comprende più un tal segno, che più non lo esegue, che si vergogna di esso, che più non lo saluta, che lo vuole scomparso dalla vista degli occhi suoi, e dal cospetto del sole? A meno che la natura umana non si sia del tutto immutata, e che il dualismo non sia che una chimera; a meno che satana non abbia abbandonata la pugna; a meno che le creature non abbiano cessato di essere i veicoli delle sue funeste influenze: il cristiano d’oggidì sprezzatore del segno della croce non è, che un rampollo degenere di una nobile razza. Desso è un razionalista insensato che non comprende più la lotta, né le condizioni di essa ; il secolo decimonono è un soldato presuntuoso, che, spezzate le armi, e deposta ogni armatura, si getta alla cieca nel mezzo delle spade e delle lance nemiche, con braccia legate, e a petto nudo; la società moderna, una città, sommersa nel sensualismo de’ baccanali, smantellata, circondata d’innumerevoli nemici, che agognano a farne rovina e passare a fil di spada la guarnigione. Farne una rovina ! Ma non è questa già fatta ? Rovina di credenze, rovina di costumi, rovina dell’autorità, rovina della tradizione, rovina del timor di Dio e della coscienza, rovina della virtù, della probità, della mortificazione, dell’ubbidienza, dello spirito di sacrificio, di rassegnazione e di speranza: dappertutto, rovine cominciate, o rovine compite. Nella vita pubblica e nella privata, nelle città e nelle borgate, nei governanti e nei governati, nell’ordine delle idee e nel dominio de’ fatti, quanto di perfettamente cattolico resta incolume, ed intero? Ma in tutto ciò nulla v’ha, caro Federico, che ci debba meravigliare. Togli il segno della croce e tutto si spiega. Meno v’ha di croci nel mondo, più v’ha di satana. La croce è il parafulmine del mondo; toglilo, e la folgore cade a schiacciare e bruciare. Il segno della croce accenna al dominio del vincitore, n’è trofeo: spezzarlo è un far rivivere l’antico tiranno, e preparargli il ritorno. Ascolta quanto scriveva, or sono diciassette secoli, uno degli uomini, che abbiano intesa tutta la misteriosa potenza di questo segno, dico il martire, il più illustre fra i martiri, Ignazio di Antiochia. Contempla questo vescovo dai bianchi capelli, carico di catene, che attraversa seicento leghe per condursi a farsi dilaniare da’ leoni al cospetto della gran Roma. Vedilo: è calmo quasi fosse sull’altare, ilare, come se andasse ad una festa, e dà, lungo il cammino, istruzioni ed incoraggiamenti alle chiese dell’Asia accorse a salutarlo. Questi nella sua ammirabile lettera a’ cristiani di Filippi, scrive: “e II principe di questo mondo mena gran festa, quando qualcuno rinnega la croce”. Esso conosce esser la croce, che gli apporta la morte, perché dessa è l’arma distruggitrice di sua potenza. La vista di essa gli mette orrore, il suo nome lo spaventa. Innanzi questa venisse fatta, nulla trasandò perché la si formasse, ed a siffatta opera egli spinse i figli della incredulità, Giuda, i Farisei, i Sadducei, i vecchi, i giovani, i sacerdoti: ma tosto che la vide sul punto d’essere compita si turba. Immette rimorsi nell’animo del traditore, gli presenta la corda, lo spinge a strangolarsi; spaventa con sogni la moglie di Pilato, ed usa ogni sforzo ad impedire che venisse compiuta la croce, non perché avesse rimorso, che se ne avesse non sarebbe del tutto cattivo; ma perché presentiva la sua disfatta. Né s’ingannava: la croce è il principio della sua condanna, di sua morte, e della sua perdita » . Ecco due insegnamenti: orrore e timore di satana alla vista della croce e del segno di essa; gioia di lui nell’assenza dell’ una e dell’altro. Vede egli un’ anima, un paese senza la croce: vi entra senza paura, e vi dimora tranquillo. Come inevitabilmente al cader del sole le tenebre succedono alla luce, cosi del pari desso ristabilisce il suo impero al disparir della croce. Il mondo attuale n’è sensibile prova.  Non parlo del diluvio di negazioni, empietà, bestemmie inaudite che inondano il mondo, ma, che cosa mai sono, per chi non si soddisfa di sole parole, i milioni di tavole giranti e parlanti, gli spiriti battenti o familiari, le apparizioni, le evocazioni, questi oracoli e consultazioni medicali, le comunicazioni con i pretesi morti, che, ad un tratto, hanno invaso il vecchio ed il nuovo mondo (1 ). Son forse queste cose nuove ì No: l’umanità le ha già viste. Ma quando? Quando il segno della croce non proteggeva il mondo, quando satana era dio e re delle società! Di presente siffatte cose col ricomparire con proporzioni ignote di poi il vecchio paganesimo, quale avvertenza ne danno? Se non che il segno liberatore cessando di proteggere il mondo, Satana lo invade di nuovo. Tu il vedi, caro amico, sono ben poco intelligenti quelli che abbandonano il segno della croce. Siano essi oggetto di nostra compassione e non d’imitazione! Fra tutte le circostanze in cui è da separarsi da loro, ve n’ha una in che lo si deve inevitabilmente. Per noi, come per i nostri padri, il segno della croce avanti e dopo il pranzo dev’esser cosa sacra; poiché come tale lo comandano la ragione, l’onore, la libertà.Gaume-282x300

La ragione. Se interroghi i tuoi compagni domandando loro perché non facciano il segno della croce innanzi prendano il cibo, ciascuno ti dirà: Non voglio singolarizzarmi operando altrimenti degli altri. Non voglio ch’io sia segnato a dito, e che altri si burli di me, per la osservanza di una pratica inutile, ed ormai fuori moda. Non vogliono singolarizzarsi! Per loro onore, stimo credere, che non intendano la forza di siffatta espressione. Singolarizzarsi, è un dire, isolarsi, non operare come tutti gli altri. In siffatto senso si può ben essere singolare senza taccia di ridicolo; anzi, v’hanno delle circostanze ch’è mestieri esserlo ad isfuggire la colpa. Nel mezzo di un manicomio, l’uomo ragionevole che opera assennatamente; in un paese di ladri, l’uomo onesto, che rispetta l’altrui, sono de’ singolari: son dessi ridicoli? Nel senso in che è presa da’ tuoi compagni, “singolarizzarsi” vuol dire isolarsi, operando con maniere, che, movendo al riso, si oppongono agli usi ammessi e ci rendono ridicoli. Resta però vedere se, fare siffatto segno innanzi e dopo il pranzo sia un singolarizzarsi in maniera ridicola. Per fermo, ti diranno, perché è un operare altrimenti dagli altri. Ma v’hanno altri ed altri. V’hanno alcuni, che fanno il segno della croce, e ve n’hanno altri ancora che non lo eseguono. Di siffatto modo facendolo o non facendolo noi non ci singolarizziamo, noi siamo sempre con altri. Siam noi ridicoli? Per rispondere a tale domanda è da osservare chi siano quelli, che fanno un tal segno, e chi quelli, che lo trasandano. Quelli che lo praticano sono tu, io, la tua onorevole famiglia, la mia, nè siam soli; prima di noi e con noi ve n’hanno ben altri ancora. V’hanno tutti i veri e coraggiosi cattolici dell’Oriente e dell’Occidente da poi diciotto secoli, i quali, come vedemmo, sono il fiore della umanità, e con siffatta compagnia si diviene si poco ridicolo, ch’è un esserlo al sommo, non appartenendo ad essa. Se ne eccettui quelli che vivono di parole, e che con esse vorrebbero tutto pagare, la proposizione è indegna di esser discussa. Nulla v’ha di più certo dell’aver con tutto studio il fiore della umanità eseguito il segno della croce, avanti e dopo il pranzo. I Padri de’ quali, ho testé apportate le sublimi testimonianze, Tertulliano, S. Cirillo, S. Efrem, S. Crisostomo, non lasciano alcun dubbio sulla universalità di questa religiosa usanza, presso tutti i cristiani della primitiva Chiesa. Ma lascia che io ne aggiunga qualche altro. Quando si siede a mensa, dice il grande Atanasio, e si spezza il pane, lo si benedice per tre volte col segno della croce, e si rendono le grazie » [Omel. 1, contra Julian., Theodoret.J. Hist., lib. Ill, c. 16.] . La benedizione della mensa col segno della croce non era solamente in uso presso le famiglie nella vita civile, ma l’era altresì negli eserciti, nella vita del campo. S. Gregorio di Nazianzo racconta, a questo proposito, un fatto venuto in gran fama.    Giuliano, l’Apostata, gratificava l’esercito con istraordinaria distribuzione di viveri e di danaro. Dal lato al principe v’era un braciere acceso, e tutti i soldati vi gettavano un granello d’incenso. I soldati cristiani imitarono i commilitoni pagani, nulla sapendo che in ciò vi fosse idolatria. Compiuta la distribuzione, tutti in uno raccolti desinavano in onore del principe. Sul cominciar della mensa, fu presentata la coppa ad un soldato cristiano, e questi, secondo l’usato, la benedisse. Tosto una voce si levò a dirgli: Quello che fai ripugna a quanto testé operasti. Che feci? Hai tu dimenticato l’incenso ed il braciere? Ignori che idolatrasti, che rinnegasti la tua fede?Com’ebbe ciò inteso, si levò il guerriero e con lui i compagni d’arme, e tutti gemendo e strappandosi i capelli, a grandi grida, si dichiararono cristiani, e protestarono contro l’inganno loro fatto dall’imperatore, e domandarono nuove prove per confessare la propria credenza. L’apostata fattili arrestare e legare li condannò a morire, e dispose venissero condotti al luogo del supplizio: ma, a non far de’ martiri, accordò loro la vita rilegandoli nelle più lontane frontiere dell’impero [Ruinart. Actes du martyrs de saint Theod.]. Quando un prete trovavasi in un convito, a lui apparteneva l’onore di fare il segno della croce su gli alimenti. La benedizione della mensa era in tanta stima di cosa santa, che al nono secolo i Bulgari convertiti alla fede domandavano al Papa Nicolò I, se il semplice laico potesse supplire al prete in tale funzione. Per fermo, rispose il Pontefice: “avvegnaché, a tutti è commesso preservare, col segno della croce, quanto gli appartiene, dalle insidie del demonio, e trionfare di tutti i suoi attacchi per lo nome di nostro Signore (Nam omnibus datum est, ut et omnia nostra hoc signo debeamus ab insidiis munire diaboli, et ab ejus omnibus impugnationibus in Christi nomine triumphare. (Resp. ad consult. Bulgar.). I tempi successivi han visto perpetuarsi presso tutti i veri cattolici dell’Oriente e dell’Occidente l’uso del segno della croce prima e dopo il pranzo, e tu sai come sussista ancora di presente. Noi conosciamo quelli che fanno il segno della croce, e gli altri che non lo fanno; è da vedere a chi i tuoi compagni diano la preferenza. I pagani non lo fanno, ed i giudei nemmeno, i maomettani neppure, gli atei e i cattivi cattolici neanche, i cattolici ignoranti o schiavi del rispetto umano parimente lo trasandano. Ecco quelli che non fanno il segno della croce, e che beffano quanti sono teneri di si pia usanza. Da qual lato è la singolarità ridicola?

L’onore è la seconda ragione, che ci obbliga a restar fedeli all’antico uso del segno della croce avanti e dopo il pranzo. I tuoi compagni al contrario ostentano credere essere onorevole cosa lo astenersene, ed eglino dicono: Non voglio che altri mi rimarchi, e che si burli di me. Facciamo l’autopsia di questo nuovo pretesto. Innanzi tutto la ragione, ed il vedemmo, condanna quelli che disprezzano la croce, epperò l’onore non saprebbe essere per loro, poiché non lo si trova con lo sragionare. Aggiungono, non voler essere notati. Impossibile! checché eglino facciano, saranno sempre notati, e rimarcati. Io non li credo sì infelici da non trovarsi mai con veri cattolici allo stesso desco, ed allora, per fermo, saranno necessariamente e ben tristemente osservati. È vero che ciò per essi, come dicono, è indifferente; ma questo disprezzo è poi fondato? Qui ritorna la questione degli uni e degli altri che abbiamo già risoluta. Lo scherno, di che tanto sessi hanno paura, segue sempre l’osservazione, solo presso il vero cattolico, questa si rimuta in un sentimento di compassione verso di loro. Contentandomi d’esporre i tuoi compagni, e quelli che ad essi si assomigliano alle osservazioni de’ cattolici, uso indulgenza con esso loro; pertanto essi, come vedrai, astenendosi dal pregare innanzi e dopo il pranzo, pel pretesto di non farsi notare, si disonorano al cospetto di tutta la umanità: seguimi nel mio ragionare. Quegli si disonora agli occhi di tutta l’umanità che volontariamente si pone nel rango delle bestie. Ora sino a’ dì nostri non si conosceva in natura che una sola specie di esseri che mangiasse senza pregare, ma di presente due: le bestie e quelli che loro si assomigliano. Dico “che loro si assomigliano”, perché tra un uomo che mangia senza pregare ed un cane, quale differenza vi trovi tu? Per me io non ve ne trovo alcuna, e l’Accademia è con me. Bipede o quadrupede, seduto o coricato, gracidando, ciarlando o grugnando, essi sono gli uni come gli altri; poiché con le mani, o con le branche, gli occhi, il cuore, i denti immersi nella materia, divorano stupidamente il loro pasto senza elevare la lesta verso la mano che lo dona. L’uomo che agisce di siffatto modo si degrada; egli da bestia si mette a tavola, bestialmente vi dimora, e come bestia ne sorte. La mia proposizione ti sembra troppo assoluta, e tu esclami: “È poi vero, mi dici, che per lo innanzi non si conoscesse che le sole bestie, i buoi, gli asini, i muli, i porci, le ostriche, mangiassero senza pregare?” Nulla v’ha di più vero: “La preghiera su gli alimenti è antica quanto il mondo, estesa quanto il genere umano”.  Dai primordi dell’antichità la si trova presso gli Ebrei. « Quando tu avrai mangiato e sarai satollo, dice la legge di Mose, benedici il Signore » [Cum comederis et satiatus fueris, dicas Domino.] (Deuter. VIII, 10). Ecco la preghiera su gli alimenti. Fedeli a tale comando gli Ebrei usavano tali cerimonie nel benedire la mensa, che il padre circondato dai figli, diceva: Benedetto sia il Signore Dio nostro, la cui bontà concede il cibo ad ogni creatura. Quindi presa una coppa di vino nella destra la benediceva, dicendo: Benedetto il Signore nostro Dio, che ha creato il frutto della vite. Egli lo gustava il primo, e poi la passava a’ convitati. In seguito, preso il pane con entrambe le mani, continuava dicendo: Lodato e benedetto sia il Signore Dio nostro, che ha creato il pane dalla terra. Lo spezzava, ed imboccatone un pezzo, lo passava agli altri. Dopo tutto questo cominciava la mensa. E se accadesse cangiar di vino, o, che nuova vivanda si apprestasse, si facevano nuove benedizioni, perché ogni alimento venisse purificato c consacrato. Il pranzo era seguito da un cantico di ringraziamento. Tutti questi riti diventano a dismisura più venerandi da che sono stati consacrati dallo stesso figlio di Dio, e nulla potrebbe meglio mostrare la importanza di essi. In effetti, che fa l’adorabile Maestro del genere umano nell’ultima sua cena, quando unito a’ cari discepoli mangia l’agnello pasquale ? [“Et accepto calice, gratias egit et dixit: accipite et dividite inter vos”.] (Luc. XXII, 17). Qual cosa fa egli quando dopo la cena canta con i suoi discepoli il cantico di ringraziamento? “Et hymno dicta exierunt in montem Oliveti” [Marc. XIV, 26]. Egli si conforma religiosamente agli usi della santa nazione. V’hanno altresì ben altre circostanze, in cui vediamo il modello eterno dell’uomo pregare innanzi prendesse il cibo, o che ad altri il desse! Egli rompe i pani, e fatti in pezzi i pesci li distribuisce al popolo; ma, prima eleva al cielo li occhi e benedice quel cibo [Marc. VIII. — Math. XIV.].

Tutte queste espressioni, secondo i padri, mostrano la benedizione degli alimenti, e che il Verbo incarnato l’ha fatto per insegnarci di non prendere cibo alcuno senza benedirlo, e rendere a Dio le grazie (Teofilat. In Math. XIV). Non v’ha da meravigliare se troviamo in uso presso i primi cristiani la benedizione della mensa; poiché le azioni dell’ Uomo-Dio erano la regola della loro condotta, e gli Apostoli le ricordavano loro di continuo. «Presso di noi, dice Polidoro Virgilio, v’ ha il costume di benedire la mensa innanzi il pranzo; e ciò per imitare il Signor Nostro. L’Evangelio ci ricorda ch’Egli di essa usò sì nel deserto, benedicendo i pani, che in Emmaus, alla mensa de’ discepoli ». E Tertulliano aggiunge : « Con la preghiera comincia e finisce il pranzo » [Oratio auspicatur et claudit cibum] ( Tertull. Apologet.).Potrei a queste autorità aggiunger quelle del Crisostomo, di S. Girolamo, di Origene, de’ Padri latini e greci, ma non è mestieri citarli, poiché il fatto non è messo in dubbio. Dirò solo, che abbiamo il Benedicite ed il Gratias in magnifici versi di Prudenzio : Christi prius Genitore potens. Siffatti cantici provano a filo ed a segno, quanta coscienza si facessero i nostri avi di conformarsi agli esempi di Nostro Signore, come questi se era conformato all’uso degli antichi Ebrei, che ubbidivano in ciò al comando di Dio. Noi abbiamo altresì in prosa queste formule di benedizioni, e noi riporteremo questi monumenti della veneranda nostra antichità. Innanzi il pranzo: « O voi che apprestate il nutrimento a quanti respirano, benedite gli alimenti che prendiamo. Voi avete detto, cha se accadesse bere qualche cosa avvelenata, questo non ci apporterebbe nocumento alcuno, se invocassimo il vostro nome, poiché Voi siete Onnipotente. Togliete da questi alimenti quanto può esservi di nocivo, e male per noi » [Mamachi:Costumi de’primitivi cristiani”] . E dopo il pranzo: « Benedetto mille volte siate, o Signore, che ci avete nutrito sin dalla infanzia nostra, e con noi tutto, che respira. Colmate i nostri cuori di gioia, perché facile ci torni compiere ogni maniera di buone opere per Gesù Cristo Signor nostro, cui, con voi, e con lo Spirito Santo sia gloria, onore e potenza. Cosi sia » [Stukius: Antiq. Convivial.]. Queste formule profondamente filosofiche, come tosto vedremo, hanno attraversato i secoli, e, o nella loro primitiva integrità, o con qualche modificazione, sono in uso fra cattolici fino ad oggidì. I protestanti, malgrado la loro avversione agli usi cattolici, 1’hanno conservate, e buon numero di famiglie in Alemagna ed Inghilterra, non tralasciano la preghiera innanzi il pranzo. Ma quello che potrà sembrare più strano, è la benedizione della mensa in uso presso i pagani. Si, mio caro Federico, questi modelli di obbligo per la gioventù da collegio, usavano religiosamente di quanto i tuoi compagni, discepoli ed ammiratori di essi, si vergognano. « Mai, dice Ateneo, gli antichi prendevano il cibo, senza prima invocare gli dei ». E parlando degli Egiziani, aggiunge: « Dopo aver preso posto sul letto da mensa, si alzavano, e postisi in ginocchio, il capo della festa, od il prete, recitava le consuete preghiere, che gli altri dicevano con lui: dopo ciò cominciava il pranzo ». Né altrimenti era in uso presso i Romani. Tito Livio a proposito della morte di un uomo ordinata da Quinto Flaminio, per piacere ad una cortigiana, si esprime con siffatti termini. « Questo atto mostruoso fu commesso nel mezzo delle coppe, lungo il pranzo, quando è costume, pregare gli dei, ed offrir loro delle libazioni » [Liv. Decad. IV. Lib IX]. Tu sai che le libazioni erano una specie di preghiera quanto usatissima, altrettanto nota. I Romani, a mo’ di esempio, ne facevano quasi in tutte le ore: il mattino alzandosi, la sera andando a letto, quando facevano qualche viaggio, ne’ sacrifici, in occasione de’ matrimoni, al cominciamento e fine del pranzo. Questi antichi maestri del mondo non assaporavano il cibo, senza averne prima consacrata una parte alla divinità. La parte prelevata era posta su di un altare, o su di una tavoletta, Patella, che ne faceva le veci. Era questo il loro Benedicite ed il loro Gratias.

Perpetuità della tradizione degna di osservazione! Abbiamo veduto presso gli Ebrei delle nuove benedizioni al mutarsi del vino, ed alle nuove portate, e lo stesso uso era presso i Romani. AI secondo servito, avevano luogo delle libazioni particolari in onore degli dei, che si credeva assistessero alla mensa, e ciascun convitato spargeva un po’ di vino sulla tavola, o sulla terra, accompagnando tale spargimento di alcune preghiere in onore degli dei. I Greci avevano servito da modello a’ Romani. Presso di loro, tessa era la frequenza, ed istesso l’uso delle libazioni sul cominciar del pranzo ed in fine di esso, né diverse le preghiere al mutar del vino. Quando, dice Diodoro di Sicilia, si mesceva a’ convitati del vino puro, era antico costume dire: Dono del buon genio ; e quando lo si apprestava con l’acqua, dicevasi : Dono di Giove Salvatore; perché il vino puro è contrario si alla salute del corpo, che a quello dello spirito » (Diod. Sicul. Lib. III). Ma non era questa la sola forma di rendimento di grazie, ve n’era un’altra generale usala alla fine del pranzo, che s’indirizzava al padre degli dei (idem Lib. II). L’uso di benedire il cibo presso i pagani era sì comune da dar luogo a questo proverbio: Non prendere dalla caldaia il cibo innanzi sia santificato. [“Ne a chytropode cibum nondum santificatum rapias”]. Questo proverbio, secondo Erasmo, voleva dire: Non vi gettate da bestia su gli alimenti; mangiateli dopo averne offerte le primizie agli dei. Ed in effetti, presso gli antichi, secondo che Plutarco dice, il giornaliero pranzo stesso era classato fra le cose sacre; il perché i convitati consacrandone le primizie agli dei, testimoniavano con ciò, che, secondo loro, prendere il cibo, era reputata cosa santa. Quindi, Giuliano l’apostata, nel celebre banchetto del sobborgo di Antiochia, per riconoscere pubblicamente, e tener salda la tradizione pagana, fece benedire la mensa dai sacerdoti di Apollo (Sozomen Hist., lib. III, c. IX). I barbari stessi imitavano in ciò i popoli inciviliti. I Vandali ne’ loro pranzi facevano circolare una coppa consacrata a’ loro dei con stabilite formole (3). Presso gli Indiani il re non gustava alcuna vivanda se non fosse stata consacrata a’ demoni. Malgrado la differenza de’ costumi, de’ gradi d’incivilimento e di clima, gli abitanti della Zona glaciale avevano le medesime pratiche di quelli della Zona torrida. Gli antichi Lituani, quelli della Samogizia [regione della Lituania -n.d.r.-], e gli altri barbari del nord invocavano i demoni per santificare le loro mense. Nel fondo delle loro capanne aveano de’ serpenti addomesticati, che, in dati giorni, per lo mezzo di lini bianchi, lasciavano salire sulla tavola, perché gustassero le vivande allestite, e queste allora venivano considerate come sacre, ed i barbari allora solo le mangiavano senza alcuna paura. La benedizione della tavola trovasi egualmente presso i Turchi, e presso gli Ebrei moderni. Questi ultimi, fedeli alle paterne tradizioni conservano ancora l’uso di ripetutamente pregare lungo il pranzo. Cosi alle frutta dicono: Benedetto sia il Signore nostro Dio, che ha creato le frutta degli alberi. All’ultimo servito: Benedetto sia il Signore nostro Dio, che ha creato vari alimenti (Stukius: ubi supra et c. XXXVIII, “De libationibus ante et post epulas”). Per quanto materialisti siano, i popoli contemporanei dell’Indo-China, della Cina, e del Thibet non fanno eccezione a questa legge, la quale, porto opinione, che si trovi presso i popoli i più degradati dell’Africa. Come ho detto, tu il vedi, caro amico, la preghiera, innanzi e dopo il pranzo, è antica quanto il mondo, estesa come il genere umano. Ora, se l’esistenza di una legge si conosce dalla permanenza degli effetti; se a cagion d’esempio, vedendo che il sole levasi ad un determinato punto dell’orizzonte, ogni uomo ha ragione di affermare che una legge dirige i suoi movimenti, io non ho minor ragione di affermare che benedire la mensa è una legge della umanità.  Osservarla adunque, è un agire come tutto il genere umano; il non osservarla, è operare come gli esseri che non appartengono alla umana famiglia ; è, alla lettera, assomigliarsi alle bestie (1). Tu puoi dimandare a’ tuoi compagni se l’onore vi trova il suo conto. Fra breve esplicherò la legge, che comanda la benedizione della mensa.

« I soli coccodrilli mangiano senza pregare. » Tale assioma, tu mi dici, caro amico, riassume le nostre due ultime lettere. Questa tua parola non sarà dimenticata: “I miei compagni, tu continuando dici, sono stati come francesamente dicesi, aplatis, dai fatti da voi riportati, per essi tutto cosa nuova. Ma eglino sono come per lo passato, non fanno il segno della croce avanti il pranzo. — La sola novità che vi ha, è il poter io eseguirlo liberamente, avendo eglino paura del mio assioma ». Non mi maravigliano punto siffatte cose ! — Come tanti altri, i tuoi compagni, e quelli, che loro si assomigliano, benché parlino di libertà a gran gola, sono schiavi del tiranno il più vile, del rispetto umano. Poveri giovani! per meglio nascondere la loro schiavitù, terminano la loro obbiezione dicendo : “Il segno della croce su gli alimenti è una pratica inutile, e fuori moda”. Nel fondo del loro intimo pensiero, questo parlare vuol dire: Tutti quelli che non mangiano come noi, cioè da bestie, appartengono alla specie de’ gonzi, più o meno rispettabile. I preti, ed i religiosi de’ gonzi; i veri cattolici della patria tua, gonzi; gli Ebrei, gli Egiziani, i Greci, i Romani, gonzi; il fiore della umanità, gonza; l’umanità tutta è gonza, e con essa, mio padre, mia madre, le mie sorelle: io, ed i miei simili, noi soli siamo saggi sulla terra, i soli illuminati fra tutti i mortali! È mestieri che io strappi la maschera di che cercano coprirsi: a che fare, basterà il mostrare come la benedizione della tavola col segno della croce, sia un atto di libertà, azione utilissima, e ch’è fuori moda solo nelle basse regioni del cretinismo moderno. Questa ultima considerazione unita a quella dell’onore e della ragione, giustifica pienamente la nostra condotta, e nel medesimo tempo, rende ragione della pratica universale del genere umano.

La libertà. — Tre tiranni si disputano la libertà dell’uomo; la mia, la tua, quella de’ tuoi compagni. Questi tiranni sono il mondo, la carne, il demonio. Per non essere schiavi di questi tiranni, noi, e con noi tutta la famiglia umana benediciamo la mensa. Lo abbiamo veduto, ed il ripeto: il non fare il segno della croce avanti il desinare, è un separarsi dal fiore della umanità; il non pregare, è un assomigliarsi alle bestie. Nell’un caso, e nell’altro è schiavitù; poiché questo è sottomettersi ad un potere dispotico, ed è tale, quel potere, che comanda senza averne il dritto, o, che comanda contro la ragione, contro il dritto, contro l’autorità. Chi è il potere, che m’inibisce fare il segno della croce, e che, se ho il coraggio di disobbedirlo, mi minaccia di farmi oggetto di beffe? Qual è il suo dritto? da chi ha ricevuto egli il mandato? Dove sono i titoli che lo raccomandano alla mia docilità? Le ragioni della sua difesa? Questo potere usurpatore, è il mondo attuale, mondo ignoto agli annali dei secoli cristiani, mondo da sale, da teatro, da caffè, da bettole, da traffico, da borsa; è l’uso di questo mondo, l’empietà di questo mondo, il suo marcio materialismo: la beozia dell’intelligenza. Ora, questa minorità, nata ieri e già decrepita, questa minorità in permanente insurrezione contro la ragione, contro l’onore, contro il genere umano, ha la pretensione d’impormi i suoi capricci! E sarò io sì dappoco da sottomettermi? E dopo aver fatto divorzio con la ragione, con l’onore, col fiore della umanità, avrò io il coraggio di parlare di dignità, di libertà, d’indipendenza? Vana parola sarà questa ! Le catene della schiavitù si mostrerebbero di sotto l’orpello dell’orgoglio; la maschera bucata non nasconderebbe la figura della bestia, ed il buon senso ci seguirebbe dicendo: Mida, il re Mida ha gli orecchi di asino. Vadano pure gli indipendenti d’oggidì superbi di un tale complimento; noi altri gonzi, nol vogliamo a nessun prezzo. Vergognosa è la schiavitù professata al mondo, ma l’è più ancora quella del vizio. L’ingratitudine è vizio; la ghiottoneria è vizio, come l’è altresì l’impurità. Contro questi tre tiranni ci difendono il segno della croce, e la preghiera della mensa.

L’ingratitudine. — L’hanno al presente due religioni, quella del rispetto, e quella del disprezzo. — La prima rispetta Dio, la Chiesa, l’autorità, la tradizione, l’anima, il corpo, le creature.—Per essa lutto è sacro; perché tutto è da Dio, tutto gli appartiene, ed a lui ritorna. Essa m’insegna usare di tutto con spirito di dipendenza, perché nulla mi appartiene; con spirito di timore, perché sarà mestieri rendere di tutto conto; con spirito di riconoscenza, perché tutto è benefizio, l’aria stessa che respiro. — La seconda disprezza tutto — Dio, la Chiesa, l’autorità, la tradizione, l’anima, il corpo, e le creature; i suoi settatori usano ed abusano della vita e de’ beni di Dio, quasi ne fossero proprietari ed irresponsabili. La prima ha scritto sulla sua bandiera, riconoscenza; la seconda ingratitudine. L’una e l’altra mostrano la loro presenza dal momento in cui l’uomo si assimila i doni di Dio col prendere il cibo necessario alla vita. Il fiore della umana famiglia prega e ringrazia; avendo tale coscienza della sua dignità da non soffrire che vada confusa con le bestie; ed è tale il sentimento del dovere, da non poter restare muto alla vista de’ benefizi di che è colmato. Esso trova, con ragione, mille volte più odiosa l’ingratitudine verso Dio che non lo sia quella esercitata contro gli uomini, e non può patire essere schiavo di tal vizio.— Vergogna per colui, cui la riconoscenza è peso insopportabile; il cuore ingrato non fu mai un buon cuore!

L’adepto alla religione del disprezzo si vergogna di essere riconoscente, e mangia come la bestia, o come il figlio snaturato, che non trova né nel suo cuore, né nelle sue labbra, una parola di gratitudine da indirizzare al padre, che, con bontà senza limiti, sopperisce ai bisogni e provvede ai piaceri di lui. E perché si sottrae al dovere, si crede libero! Si proclama indipendente! Indipendente da chi, e da che? Indipendente da quanto è da amare, e da rispettare: dipendente da quanto è degno di disprezzo, e bisogna odiare. L’è veramente gloriosa questa maniera d’indipendenza! — La ghiottoneria. — Altro tiranno che siede con noi al nostro desco, e che incatenando gli occhi, il gusto, l’odorato alle vivande, rende l’uomo adoratore del dio ventre. — Allora l’uomo non parla per l’abbondanza del cuore, ma dello stomaco ; egli non cerca la qualità de’ cibi atti a riparare le forze, ma quella che solletica il gusto; non mangia per vivere, ma fine e scopo del suo vivere è il mangiare. Di siffatto modo l’organismo sviluppa il suo impero, e l’intelligenza si affievolisce, diventa schiava. La delizia della carne non è compatibile con la saggezza; i grandi «omini non furono ghiottoni, tutti i santi sono stati modelli di sobrietà! [Sapientia non invenitur in terra suaviter viventium: Iob. XXVIII, 13]. Osserva bene, mio caro amico, che io parlo della ghiottoneria come ricercatezza negli alimenti, dilicatezza nella scelta, avidità e sensualità nel mangiare, il che troppo sovente è seguito dalla intemperanza. Ora l’intemperanza mena seco un tal corteggio d’infermità e malattie, che la ghiottoneria uccide più uomini che la stessa spada: Plures occidit crapula, quam giadius [Vigilia, cholera, et tortura viro infrunito. (Eccli. XXXI, 23, et XXXVI, 3].  Cosi Nabucodònosor, Faraone, Alessandro, Cesare, Tamerlano e tutti i carnefici coronati, che hanno coperto il mondo di cadaveri, hanno fatto morire minor numero di uomini che la ghiottoneria. Dispiacevole mistero è questo, che mostra tutta la saggezza, che v’ha nell’uso del segno della croce e della preghiera innanzi e dopo il pranzo. Con essa noi chiamiamo Dio a nostro soccorso, e ci armiamo contro un nemico che attacca tutte le età, tutti i sessi e le condizioni, e che agogna incatenarci al più grossolano de’ nostri istinti. Per essa, noi apprendiamo che mangiare è una guerra, e che per non essere vinti è mestieri, secondo il detto di un gran genio, prendere gli alimenti come le medicine per bisogno, e non per piacere [“Hoc docuisti me, Domine, ut quemadmodum medicamenta, sic alimenta sumpturus accedam”. S. August. Confess, lib. X, c. 311].

L’impurità. — La schiavitù dell’animo cominciata per la ghiottoneria, si compisce con l’impurità. — Chi nutre delicatamente la sua carne, tosto ne subirà la rivolta vergognosa. — Cosa lussuriosa è il vino, in esso risiede la lussuria. Il vino puro nuoce alla sanità dell’anima, ed a quella del corpo. — Nello stomaco del giovane il vino è come l’olio nel fuoco. — La ghiottoneria è la madre della lussuria, ed il carnefice della castità. — Essere ghiottone e pretendere d’essere casto, è un voler estinguere il fuoco con l’olio. — La ghiottoneria estingue l’intelligenza.— Il ghiottone è un’idolatra, adora il dio ventre. — Il tempio del dio ventre è la cucina; l’altare, la tavola; i suoi sacerdoti, i cuochi; le vittime, le vivande; l’incenso, l’odore di esse. — Questo tempio è la scuola dell’impurità. — Bacco e Venere si danno la mano. — La ghiottoneria ci fa guerra continuamente; se trionfa chiama tosto la sua sorella, la lussuria. — La ghiottoneria e la lussuria sono due demoni inseparabili. — La moltitudine delle vivande, e delle bottiglie attira quella degli spiriti immondi, di cui il peggiore è il demonio del ventre. — La sanità fisica e morale de’ popoli, è da dedurre dal numero dei cuochi ». Intendi gli oracoli della saggezza divina, ed umana? È la voce de’secoli confermata dalla esperienza. Qual è il mezzo che ha l’uomo per conservare la sua libertà contro di un nemico, altrettanto più pericoloso, che seducendo incatena ed uccide? Il passato, ed il presente non ne conoscono che un solo; il soccorso di Dio: l’avvenire non potrà conoscerne altri da questo. Il soccorso divino si ottiene da Dio con la preghiera, ed una prece particolare è stata stabilita presso tutti i popoli per fortificarsi contro le tentazioni della mensa. Ora se quelli, che la fanno, non restano sempre vittoriosi (1), come sarà possibile, che quelli, che non l’hanno in uso, che la disprezzano e la beffano, possano persuadersi che eglino restino vittoriosi sul campo di battaglia. Per crederlo, è mestieri avere ben altre prove dalle loro asserzioni, bisognano de’ fatti, e questi sono i loro costumi. Ch’essi mostrino i misteri de’ loro pensieri, de’ loro desideri, degli sguardi, de’ secreti discorsi, della loro condotta. Ma una tal mostra non è necessaria; noi l’abbiamo di continuo nella esposizione, che di sé fa lo scandalo della pubblica immoralità.

Il demonio. — Qui si mostra pienamente la stupida ignoranza del mondo attuale. — Per fermo che il sacro dovere della riconoscenza, come la imperiosa necessità di difendersi contro la gola e la voluttà, giustificano pienamente l’uso della benedizione della tavola; ma, io oso affermare ch’esso poggia su di una ragione più forte, e profonda. — Noi lo abbiamo detto: v’ha un dogma, mai dimenticato dal genere umano, che insegna esser tutte le creature sotto l’azione del principe del male, da poi che questo trionfò del padre della specie umana: tutti i popoli hanno creduto, come alla esistenza di Dio, che le creature, penetrate dalle maligne influenze del demonio, sono gli strumenti del suo odio contro l’uomo. Da siffatta credenza traggono origine le infinite purificazioni in uso presso tutte le religioni, in tutti i climi, lungo tutto il corso de’ secoli; ma v’ha una circostanza, in cui l’uso delle purificazioni si mostra invariabile, ed è quella del desinare. L’universalità, l’inflessibilità di questo uso nel prendere il cibo, è fondato su due fatti. —Il primo, che il demone della tavola è il più pericoloso; il secondo, che l’unione operata per l’azione del mangiare tra l’uomo ed il cibo è di tutte le unioni la più intima, questa arriva fino all’assimilazione. — L’uomo può dire del cibo digerito: È l’osso delle mie ossa, la carne della mia carne, il sangue del mio sangue. — Ecco perché, essendo le creature si viziate, Iddio non ha fatto mai perdere di vista all’uomo il pericolo di tale azione. Che siffatto timore, sia la profonda ragione del segno della croce e delle preghiere su degli alimenti, è reso manifesto dalle formule stesse delle benedizioni, e dell’azione di grazie. Cristiani e pagani, tutti, senza alcuna eccezione, domandano, che, le tristi influenze a che le creature sono sottomesse, siano allontanate.  Ecco qualche argomento, che calza meglio a’ tuoi compagni, e per essi più convincente di tutte le autorità della Chiesa. —Porfirio — il primo fra tutti i teologi del paganesimo, e l’interprete il più dotto dei misteri, e dei riti pagani, scriveva in siffatti termini: “È da sapere che tutte le abitazioni son piene di demoni; il perché si purificano scacciandone questi ospiti malefici col pregare gli dei. Ancor più: di essi tutte le creature sono piene, ed alcune specie di cibi particolarmente;di modo, che quando noi sediamo a mensa, non solo essi prendono posto di lato a noi, ma si attaccano al nostro corpo. Ecco la ragione dell’uso delle purificazioni, il cui scopo principale, non è solo invocare gli dei, ma altresì scacciare i demoni. Questi si dilettano di sangue e d’impurità, ed a soddisfare tale piacere s’introducono ne’ corpi di coloro che ad essi sono soggetti. Non v’ha movimento di voluttà violento, e desiderio veementemente disordinato, che non sia eccitalo della presenza di questi ospiti » (Porphyr, apud Euseb. Praep. Erang. lib. IV. o. 22 ). Non ti parrebbe ciò scritto da san Paolo, tanto è precisa questa rivelazione del mondo soprannaturale? Oltre queste influenze occulte e permanenti di satana su gli alimenti, Iddio di tanto in tanto, permette de’ fatti straordinari, che rivelano la presenza del nemico, e la necessità di allontanarlo dagli alimenti, innanzi di essi si taccia uso. Leggesi in S. Gregorio il Grande: “Nel monastero dell’abate Equizio accadde che una religiosa entrando nel giardino, vide una pianta di lattuga che le solleticava l’appetito. La prese, e dimenticando di fare il segno della croce, la mangiò avidamente. All’istante medesimo fu posseduta dal demonio, cadde rovescione per terra dimenandosi per fortissime convulsioni. Tosto accorre il santo abate e prega Dio che si degnasse confortare la povera religiosa. Il demonio tormentato ancora esso per le preghiere, gridò: Che mai ho fatto? Che ho fatto io? Io era su quella lattuga; la religiosa non me ne ha scacciato. In nome di Gesù Cristo l’abate gli ordinò di uscire dal corpo della serva del Signore, e di non più tormentarla. Il demonio ubbidì, e la religiosa immantinente fu guarita » [S. Gregor. Dialog, lib. I, dial. IV.].  I fatti parlano come le autorità, la teologia pagana come la cristiana, J’oriente come l’occidente, l’antichità come i tempi moderni, Porfirio come san Gregorio. Quali autorità possono a queste opporre i tuoi compagni? Dire che il genere umano è un gonzo, e che l’uso universale di benedire gli alimenti sia una “superstizione fuori moda”, è fucile cosa: ma io non so appagarmi di sole parole; però di’ a’ tuoi compagni, che se per legittimare l’uso di non benedire la mensa, possono apportare una ragione, che valga un soldo di Monoco, prometto loro, a seconda del gusto di ciascuno, o un merlo bianco, o un busto al Panteon.

Aspettando, resta stabilito, che pregare avanti il pranzo è una legge della umanità; e che era riserbato all’epoca nostra produrre degli spiriti forti che vanno superbi di assomigliarsi due volte al giorno a’ cani, a’ gatti, al coccodrillo.

coccodr.

Giovedì 26-5-2016: Festa del Corpus Domini – Il Lauda Sion

CORPUS DOMINI

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La visione della beata Giuliana.

   Simone di Montfort era stato il vindice della fede. Ma nel tempo stesso in cui il braccio vittorioso dell’eroe cristiano sbaragliava l’eresia, Dio preparava al suo Figliolo indegnamente oltraggiato dai settari nel Sacramento del suo amore un trionfo più pacifico e una riparazione più completa. Nel 1208, un’umile religiosa ospedaliera, la Beata Giuliana di Mont-Cornillon presso Liegi, aveva una visione misteriosa, in cui le appariva la luna nella sua pienezza, che mostrava sul proprio disco una incrinatura. Due anni dopo, le fu rivelato che la luna significava la Chiesa del suo tempo, e l’incrinatura che vi rilevava, l’assenza d’una solennità nel Ciclo liturgico, poiché Dio voleva che una nuova festa fosse celebrata ogni anno per onorare solennemente e in modo distinto l’istituzione della Santissima Eucarestia: il ricordo storico della Cena del Signore il Giovedì santo non rispondeva ai nuovi bisogni dei popoli turbati dall’eresia; non bastava più alla Chiesa, distratta del resto allora dalle importanti funzioni di quel giorno, e presto assorbita dalla tristezza del Venerdì santo.  Nel tempo stesso che Giuliana riceveva tale comunicazione, le fu ingiunto di porre ella stessa mano all’opera e di far conoscere al mondo i voleri divini. Passarono vent’anni prima che l’umile e timida vergine potesse trovare il coraggio d’una simile iniziativa. Si confidò infine con un canonico di San Martino di Liegi, Giovanni di Losanna, che stimava in modo singolare per la sua grande santità, e lo pregò di discutere sull’oggetto della sua missione con i dottori. – Tutti furono d’accordo nel riconoscere che non solo nulla si opponeva all’istituzione della festa progettata, ma che ne derivava al contrario un aumento della gloria divina e un gran bene nelle anime. Riconfortata da questa decisione, la Beata fece comporre e approvare per la futura festa un Ufficio proprio che cominciava con le parole: Animarum cibus, e di cui rimangono ancor oggi dei frammenti.

La festa del Corpus Domini.

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   La Chiesa di Liegi, a cui la Chiesa universale era già debitrice della festa della Santissima Trinità, era predestinata al nuovo onore di dar origine alla festa del Santissimo Sacramento. Fu un giorno radioso, quando, nel 1246, dopo così lungo tempo e innumerevoli ostacoli, Roberto di Torote, vescovo di Liegi, ordinò con un decreto sinodale che ogni anno, il Giovedì dopo la Santissima Trinità, tutte le Chiese della sua diocesi avrebbero dovuto osservare d’ora in poi, astenendosi dalle opere servili e praticando un digiuno di preparazione, una festa solenne in onore dell’ineffabile Sacramento del Corpo del Signore. – La festa del Corpus Domini fu dunque celebrata per la prima volta in quella insigne Chiesa, nel 1247. Il successore di Roberto, Enrico di Gueldre, uomo d’armi e gran signore, aveva altre preoccupazioni che quelle del suo predecessore. Ugo di San Caro, cardinale di Santa Sabina, legato in Germania, venuto a Liegi per porre riparo ai disordini che vi accadevano sotto il nuovo governo, sentì parlare del decreto di Roberto e della nuova solennità. Già priore e provinciale dei Frati Predicatori, era stato fra quelli che, consultati da Giovanni di Losanna, ne avevano favorito il progetto. Volle avere l’onore di celebrare egli stesso la festa, e di cantarvi la Messa in pompa magna. Inoltre, con mandato del 29 dicembre 1253 indirizzato agli Arcivescovi, Vescovi, Abati e fedeli del territorio della sua legislazione, confermò il decreto del vescovo di Liegi e lo estese a tutte le terre di sua giurisdizione, concedendo una indulgenza di cento giorni a tutti coloro che, contriti e confessati, avessero visitato devotamente le chiese in cui si celebrava l’Ufficio della festa, il giorno stesso oppure durante l’Ottava. L’anno seguente, il cardinale di Saint-Georges-au-Voile-d’Or, che gli succedette nella legazione, confermò e rinnovò le ordinanze del cardinale di Santa Sabina. Ma quei reiterati decreti non poterono vincere la freddezza generale; e furono tali le manovre dell’inferno il quale si vedeva raggiunto nei suoi profondi abissi, che dopo la partenza dei legati, si videro degli ecclesiastici di gran nome e costituiti in dignità opporre alle ordinanze le loro decisioni particolari. Quando morì la Beata Giuliana, nel 1258, la Chiesa di San Martino era sempre l’unica in cui si celebrasse la festa che ella aveva avuto la missione di stabilire nel mondo intero. Ma lasciava, perché continuasse la sua opera, una pia reclusa chiamata Eva, che era stata la confidente dei suoi desideri.

L’estensione della festa alla Chiesa Universale.

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Il 29 agosto 1261 saliva al trono pontificio Giacomo Pantaleone assumendo il nome di Urbano IV. Aveva conosciuto la Beata Giuliana quando era ancora arcidiacono di Liegi, e ne aveva approvato i progetti. Eva credette di vedere in quell’esaltazione il segno della Provvidenza. Dietro le insistenze della monaca, Enrico di Gueldre scrisse al nuovo Papa per congratularsi con lui e per pregarlo di confermare con la sua sovrana approvazione la festa istituita da Roberto di Torote. Nello stesso tempo diversi prodigi, e in special modo quello del corporale di Bolsena insanguinato da un’ostia miracolosa quasi sotto gli occhi della corte pontificia che risiedeva allora ad Orvieto, parvero spingere Urbano da parte del cielo e rafforzare il grande zelo che egli aveva un tempo manifestato in onore del divin Sacramento. San Tommaso d’Aquino fu incaricato di comporre secondo il rito romano l’Ufficio che doveva sostituire nella Chiesa quello della Beata Giuliana, adattato da essa al rito dell’antica liturgia francese. La bolla “Transiturus” fece quindi conoscere al mondo le intenzioni del Pontefice: ricordando le rivelazioni di cui aveva avuto un giorno notizia. Urbano IV stabiliva nella Chiesa universale, per la confusione dell’eresia e l’esaltazione della fede ortodossa, una speciale solennità in onore dell’augusto memoriale lasciato da Cristo alla sua Chiesa. Il giorno fissato per tale festa era la Feria quinta ossia il Giovedì dopo l’ottava della Pentecoste.

Sembrava che la causa fosse finalmente giunta al termine. Ma i torbidi che agitavano allora l’Italia e l’Impero fecero dimenticare la bolla di Urbano IV prima ancora che fosse messa in esecuzione. Quarant’anni e più passarono prima che essa fosse di nuovo promulgata e confermata da Clemente V nel concilio di Vienne. Giovanni XXII le diede la forza di legge definitiva inserendola nel Corpo del Diritto nelle Clementine, ed ebbe così il vanto di dare l’ultima mano, verso il 1318, a quella grande opera il cui compimento aveva richiesto più d’un secolo. (Dom Guéranger: “l’anno liturgico”). 

Concilio di Trento

« Il santo Concilio dichiara piissima e santissima l’usanza che si è introdotta nella Chiesa, di consacrare ogni anno una festa speciale a celebrare in tutti i modi l’augusto Sacramento, come pure di portarlo in processione per le vie e le pubbliche piazze con pompa ed onore. È giustissimo infatti che siano stabiliti alcuni giorni in cui i cristiani, con una dimostrazione solenne e specialissima, testimoniano la loro gratitudine e il loro devoto ricordo verso il comune Signore e Redentore, per il beneficio ineffabile e divino che ripropone ai nostri occhi la vittoria e il trionfo della sua morte. Così bisognava ancora che la verità vittoriosa trionfasse sulla menzogna e sull’eresia, in modo che i suoi avversari, in mezzo a tanto splendore e a tanto gaudio di tutta la Chiesa, o perdano il coraggio o, confusi giungano alfine alla resipiscenza » (Sessione XIII, c. V).

Riportiamo, per essere cantata con fede, la stupenda sequenza della Messa: “Lauda Sion Salvatorem”:

Sequentia

Thomæ de Aquino.

Lauda, Sion, Salvatórem, lauda ducem et pastórem in hymnis et cánticis. – Quantum potes, tantum aude: quia maior omni laude, nec laudáre súffícis. –  Laudis thema speciális, panis vivus et vitális hódie propónitur.  –  Quem in sacræ mensa cenæ turbæ fratrum duodénæ datum non ambígitur.  – Sit laus plena, sit sonóra, sit iucúnda, sit decóra mentis iubilátio.  –  Dies enim sollémnis agitur, in qua mensæ prima recólitur huius institútio.  –  In hac mensa novi Regis, novum Pascha novæ legis Phase vetus términat. –  Vetustátem nóvitas, umbram fugat véritas, noctem lux elíminat.  –   Quod in coena Christus gessit, faciéndum hoc expréssit in sui memóriam. – Docti sacris institútis, panem, vinum in salútis consecrámus hóstiam. – Dogma datur Christiánis, quod in carnem transit panis et vinum in sánguinem. –  Quod non capis, quod non vides, animosa fírmat fides, præter rerum órdinem.  –   Sub divérsis speciébus, signis tantum, et non rebus, latent res exímiæ.  –  Caro cibus, sanguis potus: manet tamen Christus totus sub utráque spécie.  –   A suménte non concísus, non confráctus, non divísus: ínteger accípitur. –  Sumit unus, sumunt mille: quantum isti, tantum ille: nec sumptus consúmitur. –  Sumunt boni, sumunt mali sorte tamen inæquáli, vitæ vel intéritus.  –  Mors est malis, vita bonis: vide, paris sumptiónis quam sit dispar éxitus. –  Fracto demum sacraménto, ne vacílles, sed meménto, tantum esse sub fragménto, quantum toto tégitur. –  Nulla rei fit scissúra: signi tantum fit fractúra: qua nec status nec statúra signáti minúitur. – Ecce panis Angelórum, factus cibus viatórum: vere panis filiórum, non mitténdus cánibus. – In figúris præsignátur, cum Isaac immolátur: agnus paschæ deputátur: datur manna pátribus.  –  Bone pastor, panis vere, Iesu, nostri miserére: tu nos pasce, nos tuére: tu nos bona fac vidére in terra vivéntium.  –  Tu, qui cuncta scis et vales: qui nos pascis hic mortáles: tuos ibi commensáles, coherédes et sodáles fac sanctórum cívium. Amen. Allelúia.

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« LAUDA SION SALVATOREM » sequenza della Messa del Corpus Domini, composta da Tommaso d’Aquino, probabilmente a Orvieto nel 1264 in occasione della bolla Transiturus, Con cui Urbano IV stabilì per tutta la Chiesa la solennità eucaristica, a imitazione della festa instituita a Liegi, nel 1246 dal vescovo Roberto de Tonile sotto l’influsso delle rivelazioni della b. Giuliana di Cornillon. L’attribuzione dell’Ufficio e della Messa (ove è contenuta la sequenza) a S. Tommaso fu subito contestata dal bollandista D. Papebroch, ma venne subito rivendicata dai domenicani J. de Maison e A. Natalis. (….) Oggi la critica è decisamente favorevole alla tesi domenicana, poiché la preziosa testimonianza del contemporaneo e amico di S. Tommaso, Tolomeo da Lucca, non può essere sminuita dalla tardiva comparsa liturgica dell’ufficiatura; questo ritardo infatti trova una soddisfacente spiegazione nelle speciali circostanze storiche: dopo la morte di Urbano IV, la S. Sede, totalmente assorbita dalle grandi difficoltà del momento, non poté vigilare sull’applicazione della bolla “Transiturus”; soltanto dopo il Concilio di Vienne (1311), dove Clemente V aveva richiamato in vigore le disposizioni di Urbano IV, si cominciò a diffondere la festa del Corpus Domini che pertanto detta “nova solemnitas” e poiché né Urbano, né Clemente avevano imposto l’ufficiatura imposta redatta da S. Tommaso, questa comparve soltanto qualche decennio dopo e divenne quasi universale, sostituendo rapidamente, per la superiorità del contenuto e per il crescente prestigio del suo autore, l’Ufficio e la Messa, che la Curia romana dovette usare prima di accettare l’opera dell’Aquinate.

La sequenza, soltanto verbalmente inspirata agli inni di Adamo di san Vittore, è composta da 24 strofe, che si susseguono con logica serrata: dopo l’esordio solenne costituito da un pressante invito alla lode e alla gioia (1-5), il ritmo si allarga nella rapida rievocazione delle ombre del Vecchio Testamento (6-8), realizzatesi nella Eucaristia (9-10), che moltiplicando nel mistero della Transustanziazione la presenza di CRISTO « non concisus, non confractus, non divisus » lo rende cibo di tutte le anime (11-15), le quali traggono frutti di vita o di morte, secondo le disposizioni con cui lo ricevono (16-20). Un commosso grido di ammirazione (ecce panis Angelorum) ed una tenera preghiera al Pastore Divino conclude questa luminosa e geometrica composizione, circondata dal fervore di un immenso amore. — La simmetria del L. S. non è artificiosa, ma nasce dalla interiorità logica del pensiero: è il gotico della poesia; come la cattedrale di Colonia è un fascio poderoso di scarne linee protese verso il cielo, quasi braccia in preghiera, così il ritmo di S. Tommaso si eleva nella concettosa linearità del dettato verso gli spazi dell’alta speculazione per tramutarsi, con impeto lirico, in una calda implorazione. Queste strofe, tanto limpide da formare altrettanti articoli di un perfetto credo eucaristico, tanto robuste da essere ritenute versi fusi nel bronzo, costituiscono la perla della liturgia cattolica e fanno del loro autore l’«Eucharistiae praeco et vates maximus»! (Pio XI, encicl. “Studiorum ducem”) [Antonio Piolanti in: Enciclopedia Cattolica – vol. VII].

Studiorum ducem” 29-6-1923, S.S. Pio XI

… In tutte le opere che egli (S. Tommaso) scrisse, ebbe somma cura di mettere a base e fondamento le Sacre Scritture. Tenendo fermo che la Scrittura in tutte e singole le sue parti è parola di Dio, egli ne esige l’interpretazione secondo le norme stesse che diedero i Nostri Predecessori Leone XIII nell’Enciclica « Providentissimus Deus» e Benedetto XV nell’altra Enciclica « Spiritus Paraclitus», e posto per principio che « lo Spirito Santo è autore principale della Sacra Scrittura… mentre l’uomo non ne fu che l’autore strumentale », non permette che alcuno muova dubbi contro l’autorità storica della Bibbia; mentre dal fondamento del significato delle parole, o sia senso letterale, egli ricava le copiose ricchezze del senso spirituale, di cui suole spiegare con la massima precisione il triplice genere: l’allegorico, il tropologico e l’anagogico. Infine, il Nostro ebbe il dono e il privilegio singolare di poter tradurre gl’insegnamenti della sua scienza in preghiere ed inni della liturgia, e divenire così il poeta e il « massimo lodatore della divina Eucaristia » [«Eucharistiae praeco et vates maximus»]. Poiché la Chiesa Cattolica in ogni parte del mondo e presso tutte le genti, nei riti sacri si serve e si servirà sempre, con ogni zelo, dei cantici di Tommaso, dai quali spira il sommo fervore dell’animo supplichevole, e che contengono ad un tempo l’espressione più esatta della dottrina tradizionale intorno all’augusto Sacramento, che principalmente si chiama «Mistero di fede », ripensando a questo e ricordando l’elogio già citato fatto a Tommaso da Cristo stesso, nessuno si meraviglierà se a lui è stato dato anche il titolo di Dottore Eucaristico. (….) Infine, perché sotto la guida dell’Angelico Maestro d’Aquino gli studi dei nostri alunni diano sempre maggiori frutti a gloria di Dio e a vantaggio della Chiesa, aggiungiamo a questa Lettera, con la raccomandazione di divulgarla, la formula della preghiera da lui stesso usata. A coloro che devotamente la reciteranno, Noi concediamo per ogni volta, con la Nostra autorità, l’indulgenza di sette anni e sette quarantene. Auspice infine dei doni celesti e segno della Nostra benevolenza, Noi impartiamo di tutto cuore a voi, Venerabili Fratelli, al clero ed al popolo affidato alle vostre cure, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 29 giugno 1923, festa del Principe degli Apostoli, anno secondo del Nostro Pontificato.

PREGHIERA DI SAN TOMMASO

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“Creatore ineffabile, che dai tesori della tua sapienza hai tratto le tre gerarchie degli Angeli, le hai collocate con meraviglioso ordine sopra il cielo empireo ed hai disposto con grandissima precisione tutto l’universo; Tu, che sei celebrato come autentica Fonte della Luce e della Sapienza, e supremo Principio di ogni cosa, dégnati di infondere sulle tenebre del mio intelletto il raggio della tua chiarezza, liberandomi dalle due tenebre in cui sono nato: il peccato e l’ignoranza. Tu, che rendi faconde le lingue degl’infanti, istruisci la mia lingua e infondi nelle mie labbra la grazia della tua benedizione. Dammi l’acutezza dell’intelligenza, la capacità della memoria, il modo e la facilità dell’apprendere, la perspicacia dell’interpretare, il dono copioso del parlare. Disponi Tu l’inizio, dirigi lo svolgimento e portami fino al compimento: Tu che sei vero Dio ed uomo, che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen”.

I NOVISSIMI

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[da. I tesori di Cornelio Alapide – vol. II)

-1.- Grande disgrazia è dimenticare i novissimi. — 2. Quanto è utile ricordarsi dei novissimi. — 3. Come dobbiamo ricordare i novissimi.

novissimi

 1. -Grande disgrazia è dimenticare i novissimi. — I novissimi, cioè gli ultimi fini, sono la morte, il giudizio, il paradiso, l’inferno, l’eternità. Dimenticare cose di tanta importanza, non prevederle, non prepararvisi, è la somma delle disgrazie che possa accadere ad un uomo. Infatti dimenticare la morte, vuol dire non pensare a prepararvisi, ed avventurarsi alla triste morte del peccatore: disgrazia irreparabile. Dimenticare il giudizio di Dio è un disprezzarlo; e allora sarà molto terribile questo giudizio. Dimenticare il cielo è grande sciagura, perché così facendo non si fa nulla per guadagnarlo, e si perde; e perduto il paradiso, tutto è perduto. Dimenticare l’inferno, è un andarvi incontro; e chi vi si incammina, facilmente vi precipita. Dimenticare l’eternità, è lo stesso che perdere il tempo e l’eternità; si può immaginare disgrazia più tremenda? Ciò non ostante, oh come è comune nel mondo la dimenticanza dei novissimi! Per ciò Gesù fulminò quello spaventevole anatema: «Guai al mondo» (Matth. XVIII, 7). A quanti si possono rivolgere quelle parole del Signore nel Deuteronomio: « Gente senza consiglio e senza prudenza, perché non aprire gli occhi e comprendere e provvedere ai loro novissimi? » (XXXII, 28-29). E quelle altre d’Isaia : « Tu non hai pensato a queste cose, e non ti sei ricordato dei tuoi novissimi » (- Terribile imprudenza che ha conseguenze fatali è quella di dimenticare le cose future, di non considerare i novissimi per arrivarvi preparati. Che onta, che rabbia non sarà per i figli del mondo l’udirsi rinfacciare dai demoni nell’inferno: O sciagurati! voi sapevate che c’era un inferno, e potendolo schivare con poco costo, vi ci siete tuffati a capo fitto! Voi avete dimenticato i novissimi, e avete perduto tutto. Ci si parla dei nostri novissimi; noi li conosciamo, vi crediamo, e intanto operiamo come se non ci riguardassero affatto e non ne diventiamo migliori! O cecità fatale! O follia incredibile! O uomini stupidi e da compiangersi! Non pensare, non penetrare, non temere cose tanto gravi, non prepararvisi!

2. Quanto è utile ricordarsi dei novissimi. — « In tutte le tue opere, dice il Savio, proponiti sotto gli occhi i tuoi novissimi, e non cadrai mai in peccato » (Eccli. VII, 40). La ragione è chiara, poiché il fine che uno si propone, diventa il principio e la regola di tutte le azioni; ora il fine di tutte le cose sta compreso essenzialmente nei fini ultimi, ossia nei novissimi. Tutte le persone operano per un fine; perché dunque non operare guardando ai fini ultimi?… Chi dice a se stesso, quando si sente tentato a offendere Dio: Al punto di morte, vorrò io aver commesso questo peccato? — tosto si mette su l’avviso e resiste. — Quando sarò innanzi al tribunale di Dio, quando il Giudice divino mi peserà nella bilancia della sua giustizia, vorrò che il peso dei miei misfatti vinca quello delle mie virtù? Ebbene, schiverò il peccato e praticherò la virtù. Mi sta a cuore di passare dal tribunale di Dio al cielo? dunque mi studierò di guadagnarmi questo cielo. Forse che mi garberà udirmi al giudizio quella terribile sentenza : “Partitevi da me, o maledetti, e andate al fuoco eterno?” Dio me ne scampi! Dunque mi applicherò a chiudermi l’inferno per sempre, schivando soprattutto il peccato mortale. Quando entrerò nell’eternità, vorrò io aver perduto il tempo? Certo che no: conviene dunque che non ne perda un istante; — queste sono le salutari considerazioni che fa colui il quale non dimentica i suoi novissimi. Dunque chi non vede ch’egli diventa quasi impeccabile, compiendosi in lui il detto dello Spirito Santo — Il fine dell’uomo che è la beatitudine eterna, lo porta alla fuga del peccato e alla pratica della virtù, come a mezzi coi quali si ottiene la beatitudine. Per ciò S. Agostino dice: «La considerazione di questa sentenza: — Ricorda i tuoi novissimi e non peccherai in eterno — è la distruzione dell’orgoglio, dell’invidia, della malignità, della lussuria, della vanità e della superbia, il fondamento della disciplina e dell’ordine, la perfezione della santità, la preparazione alla salute eterna. Se ti preme non andare perduto, guarda in questo specchio dei tuoi novissimi ciò che sei e ciò che sarai tu la cui concezione è macchia vergognosa, l’origine è fango, il termine è putredine. Davanti a questo specchio, cioè in faccia ai novissimi, che cosa diventano le delicate imbandigioni, i vini squisiti, le splendide calzature, il lusso del vestire, la mollezza della carne, la ghiottoneria, la crapula, l’ubriachezza, la magnificenza dei palazzi, l’estensione dei poderi, l’accumulamento delle ricchezze? ». Prendiamo dunque il consiglio di S. Bernardo e nel cominciare un’azione qualunque diciamo a noi medesimi: Farei io questo, se dovessi morire in questo momento? (In Speculo monach.). Simile a quella di S. Bernardo è la regola di condotta suggerita da Siracide, per ordinare e santificare tutte le nostre azioni: « In ogni tua impresa scegli quello che vorresti aver fatto e scelto quando sarai in punto di morte ». Fate tutte le vostre azioni come vorreste averle fatte il giorno in cui comparirete innanzi a tutto il mondo, per renderne conto al supremo tribunale di Dio. Non fate cosa di cui abbiate a pentirvi eternamente: schivate quello che vi farebbe piangere per tutta l’eternità, quello che vi toccherebbe pagare nell’eterno abisso dell’inferno. Studiatevi di fare benissimo e perfettissimamente ogni cosa, affinché abbiate da rallegrarvi di tutto ciò che pensate, dite, e fate; e ne riceviate una ricca mercede in cielo. Ora la memoria dei novissimi procura tutti questi vantaggi… Non dimenticate anche che sono prossimi i vostri novissimi…; che incerta è l’ultima ora… Chi non teme una cattiva morte, come avrà paura del giudizio e dell’inferno? Ah! se gli uomini pensassero di frequente al giorno della loro morte, preserverebbero la loro anima da ogni cupidigia e malizia… O voi, che volete essere eternamente felici, pensate sempre a quella sentenza. — Parlando di Gerusalemme, Geremia dice che « ella si dimenticò del suo fine, per ciò sdrucciolò in un profondo abisso di miserie e di degradazione » (Lament. I, 9). Dunque, pensando agli ultimi fini non si cade, e chi è caduto, si rialza. « Noi cessiamo di peccare, dice S. Gregorio, quando temiamo i tormenti futuri ». Ripetiamo anche noi col Salmista: « Ho pensato ai giorni antichi, ho meditato gli anni eterni » (Psalm. LXXVI, 5).

  1. Come dobbiamo ricordare i novissimi. — Perché il ricordo dei novissimi abbia tutta l’efficacia che ne promette lo Spirito Santo, conviene in primo luogo che non si fermi soltanto sopra di uno, ma li abbracci tutti. Per qualcuno infatti il pensiero della morte, invece di essere incentivo al bene, può essere uno stimolo al male: « La nostra vita sfumerà come nebbia » (Sap. II, 3), dissero gli empi ricordandosi della loro morte imminente; ma da questo pensiero conclusero: « Venite dunque e godiamo finché abbiamo tempo » (Ib. 6). Perciò non dice il Savio nel citato testo: memorare novissimum tuum, ma novissima tua; perché il pensiero della morte riesca proficuo, ricordiamoci che alla morte terrà dietro un duro giudizio (Hebr. IX, 27); che al giudizio andrà annessa una sentenza o di eterna pena o di eterno premio (Matth. XXV, 46). Dal ricordo dei novissimi trae pure un gran vantaggio la vita spirituale del cristiano, la quale consistendo nella pratica delle quattro virtù cardinali, prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, trova nella meditazione dei novissimi un ottimo alimento. Infatti il ricordo della morte distrugge l’ambizione e la superbia, e così dà la prudenza. La memoria del giudizio, mettendoci dinanzi agli occhi quel Giudice rigoroso, ci porta a usare giustizia e bontà col prossimo. Il ricordo dell’inferno reprime l’appetito dei piaceri illeciti e così avvalora la temperanza. La memoria del Paradiso diminuisce il timore dei patimenti di questa vita e cosi rinsalda la fortezza. – Si richiede in secondo luogo, che questo ricordo sia fatto su la propria persona, come pare ci dica il Savio il quale non dice semplicemente: memorare novissima, ma vi aggiunge tua. Quanti vi sono, che ricordano i novissimi anche spesso, ora discorrendone nelle chiese, ora trattandone nei libri, ora disputandone su le cattedre, ora figurandoli o su marmi, o su bronzi o su tele? eppure non menano tutti una vita santa. Bisogna che chi ricorda i novissimi, pensi che proprio lui si troverà, e forse tra brevissimo tempo, al letto di morte… nella bara, al camposanto… Che proprio lui si presenterà al giudizio di Dio e a lui toccherà il castigo o il premio eterno. Conviene in terzo luogo che questo ricordo dei novissimi non sia cosa speculativa ma pratica, perciò lo Spirito Santo fa precedere al testo citato quelle parole: in ogni tua azione. Se prima di ogni azione considerassimo i novissimi, non solo eviteremmo il peccato, ma troveremmo in quella considerazione la forza di praticare le più eroiche virtù. Sarebbe poi un errore il credere che il pensiero dei novissimi porti con sé la tristezza. Se lo Spirito Santo ci assicura che il ricordo frequente dei novissimi basta a tenerci pura la coscienza: — In aeternum non peccabis — è cosa chiara che porta con se la gioia del cuore che è la più grande di tutte le gioie. — Non est oblectamentum super cordis gaudium (Eccli. XXX, 16). E ne abbiamo infatti una conferma nel medesimo Ecclesiastico il quale dopo di aver detto in altro luogo: « Non abbandonarti alla tristezza, ma cacciala da te» (XXXVIII, 21), soggiunge subito: e ricordati dei novissimi, quasi che il pensiero dei novissimi sia il più sicuro per tenere lontana dal cuore umano la tristezza.