IL PERDONO DI ASSISI

Nozione del perdono di Assisi.

perdono assisi

… Che dai primi vespri della vigilia al tramonto del sole del dì 2 di agosto di ogni anno si può lucrare in qualunque chiesa dell’ordine francescano e in ogni altra che ne goda il privilegio.

A poco più di un miglio da Assisi, città di Romagna presso Perugia, fin dall’anno 342, fu da quattro pii eremiti innalzata una piccola cappella in onore di Maria. Data nel sesto secolo ai Padri Benedettini, fa ampliata ed abbellita, non che dotata di una piccola porzione di terreno, donde le venne il nome di Porziuncola a cui, per le apparizioni degli Angeli in progresso di tempo avvenute, fu sostituito quello di: Santa Maria degli Angioli.

Francesco detto serafico, che diede tanto lustro ad Assisi in cui ebbe i natali, frequentò da fanciullo codesta piccola chiesa: e vedendola derelitta e cadente, la domandò e la ottenne dal benedettino Abate P. Tebaldo, e si occupò con molta premura a t’istaurarla: e fabbricatasi in sua vicinanza una piccola abitazione, la preferì a qualunque altro luogo per farvi la propria dimora: tanto più che, dopo avervi abitati per due anni senza la compagnia di alcuno, sentendo un giorno al Vangelo della Messa, la raccomandazione di Cristo ai proprii discepoli di non portare nei loro viaggi né denaro, né bisaccia, né abiti, né scarpe, né bastone, prese queste parole per norma della sua vita, e per prima regola del nuovo ordine dei Minori, che instituì poco dopo, onde promuovere con più efficacia la gloria di Dio e la santificazione delle anime. – Fu in questo suo domicilio che nell’anno 1221, una notte gli apparve un Angelo, e lo avvisò di recarsi subito al vicino Oratorio, dacché ivi lo attendevano Gesù Cristo e la Vergine con un numeroso corteggio di Angioli. A questo annuncio, tripudiarne di gioia, andò Francesco nella nuova cappella; e appena vi scese, che vide, come gli era stato predetto, in mezzo a un gran corteggio di Angeli, Gesù Cristo insieme alla Vergine, che amorosamente lo incoraggiava a domandargli quella grazia che egli credesse più opportuna, non solo pei Frati del suo Ordine, ma ancora per tutti quelli che visitassero quella Chiesa. Il serafico Patriarca, più premuroso del bene spirituale che di quello temporale, domandò che chiunque andasse a visitare quella piccola chiesa, potesse avere un’Indulgenza Plenaria di tutti quanti i propri peccati, quando presso approvato confessore ne avesse fatto sincera confessione. Gesù Cristo mostrò il più vivo gradimento per tal domanda, e gli impose d’andar dal Papa, per raccontargli l’avuta visione, e pregarlo d’accordargli con decreto questa Plenaria indulgenza. Stupì a tal domanda il Pontefice Onorio III, che allor si trovava in Perugia, a cui appunto per questo poté facilmente parlare il Santo, ma pur vi aderì, per quanto a principio gli paresse poco conveniente la concessione di un’Indulgenza non mai accordata prima di lui, cioè un’Indulgenza Plenaria, libera, universale, perpetua come era quella che domandava Francesco. Volendo però dargli in proposito l’opportuno diploma, Francesco lo ricusò dicendo che Iddio medesimo avrebbe pensato ad autenticargli questo favore, dacché chi aveva cominciato l’opera si sarebbe dato premura di renderla intera e compita. Ed ecco come venne a verificarsi quanto si predisse dal Santo. – Siccome per la sopradetta indulgenza non era stabilito alcun giorno particolare, così san Francesco pregò il Signore di fargli conoscere in proposito la sua volontà. Nè rimase egli deluso nella sua aspettazione. Al principio dell’ anno 1223, mentre trattenevasi in orazione nella detta cappella, si trovò agitato da bruttissima tentazione. Per trionfare compiutamente egli si spogliò de’ suoi abiti, e si ravvolse in un vicino cespuglio di pungentissime spine. Piacque tanto al Signore questo eroismo che il compensò con tre prodigi. Il primo fu quello di coprire il serafico Patriarca d i nuovo abito bianco; il secondo che tra le spine spuntarono improvvisamente le più belle rose, ad onta del rigore della stagione, dacché era il mese di gennaio; il terzo che alcuni Angeli, i quali lo ricrearono col loro canto, lo avvisarono di tornare alla chiesa ivi lo attendeva Gesù Cristo colla sua ss. Madre. Andatovi Francesco all’istante, e adorato il divin Redentore, che vi trovò fatto visibile ai suoi occhi mentre il pregava a fargli conoscere il giorno più opportuno per l’Indulgenza, ebbe in risposta che dessa doveva cominciare al dopo pranzo del giorno in cui S. Pietro fu liberato dal carcere (1 Agosto) e durare fino alla sera del giorno susseguente. Sparita la visione, andò Francesco dal Papa per raccontargli l’accaduto. E siccome la sua visione era autenticata dalla presentazione delle rose, che solo per miracolo si potevano trovare in quella stagione, così Onorio III, non solo gli accordò la Bolla implorata, ma ordinò che i sette vescovi delle città più vicine, cioè d’Assisi, di Perugia, di Todi, di Spoleto, di Foligno, di Nocera e di Gubbio io vi si recassero il primo giorno di agosto per farne la solenne pubblicazione, il che avvenne fra un concorso sterminato di popolo, a cui s. Francesco medesimo fece conoscere con apposito discorso la preziosità della grazia ottenuta. – Una così solenne Indulgenza, che fin dal principio fu dichiarata perpetua, era ristretta alla sola chiesa della Madonna degli Angioli che ben tosto venne cambiata in un magnifico tempio. Ma dal Papa Gregorio XV con Bolla 4 luglio 1622, fu estesa a tutte le chiese dell’Ordine Francescano. Innocenzo XI poi il 12 gennaio 1678 la dichiarò applicabile ai defunti; e Innocenzo XII il 21 agosto 1699, la dichiarò perpetuamente in vigore anche nell’Anno Santo in cui cessano tutte le altre. – questa Indulgenza che comincia dopo mezzodì del giorno 1 agosto, e dura fino al tramonto del giorno 2 ha una particolarità tutta sua, ed è, che in detto tempo si può acquistarla tante volte, quante volte si ripete la visita di qualsivoglia chiesa appartenente al Francescano istituto. – Questo privilegio affatto nuovo, oltre ad avere l’incontrastabile appoggio delle Bolle Pontificie e dello dichiarazioni della Congregazione del Concilio del 7 luglio 1700, e 4 dicembre 1722, fu dichiarato per vero, legittimo, quindi sussistente in perpetuo, dalla santa Congreg. delle Indulgenze il 22 febbraio 1847. – Unitevi adunque ancor voi a quei fedeli sinceramente divoti che si fanno una gloria di approfittare d’un dono così prezioso, qual è la Indulgenza plenaria acquistabile “Toties Quoties”, cioè quante volte si rinnova la visita di una delle chiese in cui ha luogo, come nella gran chiesa della Porziuncola, il così detto Perdono d’Assisi, il quale fu solennemente riconosciuto dallo stesso Benedetto XIV nel lib. 13, cap. 18 della sua celeberrima opera sul Sinodo Diocesano. Datevi quindi premura di fare speciale ricorso alla SS. Vergine, per la cui intercessione fu da Gesù Cristo accordato il tesoro inestimabile di sì preziosa indulgenza, al quale scopo troverete utilissime le seguenti Orazioni:

I. Per quella benignità tutta particolare con cui per mezzo degli Àngioli resi più volte visibili nella ristorata Chiesa della Porziuncola, mostraste di gradir la premura del vostro fedelissimo servo S. Francesco d’Assisi, perché colle elemosine da lui raccolte, la tolse al totale decadimento a cui si trovava vicina, e la vestì di nuovo decoro, ottenete a noi pure, o gran Vergine, di meritarci sempre più amorevole il vostro patrocinio col cooperare costantemente alla vostra maggiore glorificazione. Ave

II. Per quel favore specialissimo che voi impartiste al vostro fedelissimo servo san Francesco d’Assisi quando con voce miracolosa lo avvisaste di recarsi alla chiesa della Porziuneola per godervi la vista di voi e del vostro divin Figliuolo visibilmente comparsi tra mezzo agli Angioli in quella chiesa; e vedendolo poi prostrato ai vostri piedi, lo assicuraste del vostro appoggio per ottenervi qualunque grazia egli fosse per dimandare al vostro divino Unigenito, ottenete a noi tutti, o gran Vergine, di vivere, a somiglianza di quel gran Patriarca una vita di continua mortificazione e di continua preghiera, onde essere certi del compimento delle nostre speranze in qualunque cosa facciamo a voi ricorso. Ave…

III. Per quell’ammirabil prontezza con cui interponeste presso il vostro divin Figliuolo la vostra mediazione a favore del vostro fedelissimo servo San Francesco d’Assisi, quando vi domandò che fosse accordata Plenaria Indulgenza a tutti coloro che visitassero la chiesa della Porziuncola nel giorno anniversario della vostra apparizione, e poi moveste il pontefice Onorio III a garantire a tutto il mondo la verità dell’avvenuto prodigio, e a confermare colla sua autorità la da voi ottenuta Indulgenza, ottenete a noi tutti, o gran Vergine, di far sempre, a somiglianza di S. Francesco, nostra particolare premura l’assicuramento del perdono dei nostri falli, e di esser sempre solleciti d’acquistar lo spiritual tesoro delle ssante Indulgenze, con cui scontando ogni pena alle nostre colpe dovuta, ci rendiamo sempre più certo l’immediato possesso della gloria, sempiterna del cielo dopo i brevi travagli di questa misera terra. Ave, Gloria…

Oremus

Concede, misericors Deus, fragilitati nostrae presidium, ut qui sanctae Dei Genitricis memoriam agimus, intercessionis ejus auxilio, a nostris iniquitatibus resurgamus. Per eundem Dominum, etc.

 

1 AGOSTO: SAN PIETRO IN VINCOLI

San PIETRO IN VINCOLI – 1 AGOSTO.

catene S. Pietro

L’anno 42 di Cristo, Erode Agrippa, dopo aver fatto decapitare S. Giacomo il Maggiore, dietro l’approvazione del popolo, fece pure imprigionare S. Pietro con intento di darglielo nelle mani la prossima festa di Pasqua. Venuti a conoscenza del fatto, i cristiani di Gerusalemme ne furono assai desolati e radunatisi nella casa di Maria, madre di Giovanni Marco, cominciarono a far fervida orazione al Signore per la di lui liberazione. Era già la notte che precedeva la festa ed essi ancora vi perseveravano in digiuni e preghiere. Nel tempo stesso ecco che un Angelo del Signore appare nella prigione ove stava legato Pietro, lo tocca al lato destro e gli dice: “Presto, levati”: ed all’istante le catene gli cadono dalle mani e dai piedi, cosicché si vede libero. E l’Angelo gli dice ancora: “Cingiti e legati i sandali; indossa il mantello e seguimi”. Pietro stupito a tal prodigio segue il celeste Nunzio in un barlume di luce senza pur sapersi dar ragione dell’avvenuto. I due, passati la porta della prigione, uscirono da quella che metteva in città e trovatisi all’imbocco della prima via la celeste guida disparve. – Pietro allora, svegliatosi come da un sogno, rientrò in se stesso e conobbe qual era il miracolo, onde lodando Dio esclamò: « Or veramente riconosco che il Signore ha mandato il suo Angelo e mi ha liberato dalle mani di Erode e dall’attesa del popolo dei Giudei ». Le quali parole piene di gaudio e di riconoscenza ci dimostrano l’ardente cuore di quel Pietro che uscito dall’atrio di Anna, pianse amaramente il rinnegamento del Maestro. – Quindi continuando la strada giunse in breve alla casa di Maria, ove si pregava incessantemente per la sua liberazione. – Bussò la porta ed al rumore accorse una fanciulla di nome Rode, la quale, avendo udito la voce di Pietro, per la gioia, senza neppure aprire, ritornò ad annunziare agli altri la venuta del loro pastore. Quelli esitarono al lieto annunzio, ma poi essendo andati ad aprire constatarono la felice realtà dei loro desideri e dei loro voti. E Pietro entrato in casa, raccontò quanto il Signore aveva operato per liberarlo, ordinando di annunziarlo anche agli altri fratelli. – Le miracolose catene colle quali fu legato S. Pietro, venute poi in possesso dei cristiani, rimasero per molto tempo a Gerusalemme, in grande venerazione di tutti; ma nel 439 Eudossia moglie di Teodosio, ne mandò una a sua figlia in Roma, che fu donata al Papa. L’altra pure non molto tempo dopo fu unita a questa per divina volontà e si dice che appena furono toccate assieme per miracolo si congiunsero da non mai più separarsi. – Non sono a dirsi i prodigi e le guarigioni che esse operarono ed operano tuttora: i fedeli le venerano come le reliquie dei Santi, e tutti coloro che si recano a Roma non tralasciano certamente di visitarle e pregare innanzi ad esse.

FRUTTO. — La Chiesa quest’oggi ci invita a pregare il Signore, affinché ci liberi dal vincolo dei nostri peccati, ma non dimenticheremo certo di pregare anche per il Sommo Pontefice, il Papa (quello “vero”), domandando a Dio la sua conservazione e la liberazione dai suoi nemici.

PREGHIERA. — O Signore, che hai sciolto dalle catene il beato apostolo Pietro e ne l’hai tratto illeso, ti preghiamo di sciogliere i vincoli dei nostri peccati, e siaci propizio nell’escludere da noi ogni sorta di male. Cosi sia. [da;: “I Santi”; Alba-Roma, 1933]

Catene che liberano.

Facendo un Dio dell’uomo che l’aveva asservita, Roma consacrò il mese di agosto alla memoria di Cesare Augusto. Quando Cristo l’ebbe liberata, essa pose come monumento della libertà riconquistata in capo allo stesso mese la festa delle catene che Pietro Vicario di Cristo aveva portate per infrangere le sue. – O Divina Sapienza, che regni su questo mese, tu non potevi inaugurare in modo più autentico il tuo impero. Forza e dolcezza insieme sono l’attributo delle tue opere (Sap. VIII, 1), e appunto nella debolezza dei tuoi eletti tu vinci i potenti (I Cor. i, 18-31). Tu stessa per darci la vita, avevi accettato la morte; per riscattare la terra a lui affidata, Simone figlio di Giovanni è diventato prigioniero. Dapprima Erode e più tardi Nerone, hanno fatto conoscere quale fosse il prezzo della promessa ch’egli ricevette, un giorno, di legare e di sciogliere sulla terra come in cielo (Mt. 16, 19): doveva in cambio portare l’amore del Pastore supremo fino a lasciarsi al pari di Lui (Gv. XVIII, 12) caricare di catene per il gregge e condurre dove egli non voleva (ibid. XXI, 15-18). Catene gloriose, che non farete mai tremare nemmeno i successori di Pietro, voi sarete di fronte agli Erodi, ai Neroni e ai Cesari di tutti i tempi la garanzia della libertà delle anime. Di quale venerazione dunque vi onora il popolo cristiano!

Le catene degli Apostoli Pietro e Paolo.

Gli anelli che avevano stretto il braccio del Dottore delle genti, furono anch’essi raccolti dopo il suo martirio. Da Antiochia, san Giovanni Crisostomo, che desiderava andare a Roma per venerarli, esclamava: « Che vi è di più magnifico di quelle catene? Prigioniero per Cristo è un nome più bello che apostolo, evangelista o dottore. – Essere legati per Cristo è meglio che abitare i cieli: sedere sui dodici troni (Mt. XIX, 28) è un onore meno sublime. Chi ama mi comprende, ma chi mai penetrò queste cose come il santissimo coro degli Apostoli? – Per parte mia, se mi si desse da scegliere fra quei ferri e tutto il cielo, non esiterei; poiché in essi sta la felicità. Io vorrei ora trovarmi nei luoghi dove si dice che sono ancora custodite le catene di quegli uomini meravigliosi. Se mi fosse dato di essere libero dalle cure di questa chiesa, di avere un po’ di salute, non indugerei a intraprendere questo viaggio per vedere solo la catena di Paolo. Se mi si dicesse: Che cosa preferisci essere: l’Angelo che liberò Pietro o Pietro incatenato? io preferirei essere Pietro, a motivo delle sue catene » (Vili Omelia sull’Epistola agli Efesini). – Pur sempre venerata nell’augusta basilica che custodisce la sua tomba, la catena di Paolo non è divenuta tuttavia come quelle di Pietro oggetto d’una festa speciale nella Chiesa. Questa distinzione era dovuta alla preminenza di colui che fu il solo a ricevere le Chiavi del Regno dei cieli e che è il solo a continuare attraverso i suoi successori a legare e a sciogliere sovranamente. La raccolta delle lettere di san Gregorio Magno testimonia come, nel secolo vi fosse universalmente diffuso il culto delle sante catene, alcune particelle delle quali, racchiuse in chiavi d’argento o d’oro, formavano il più ricco dono che i Sommi Pontefici avessero l’usanza di offrire alle chiese illustri e ai principi che essi volevano onorare. Costantinopoli, in un’epoca piuttosto incerta, fu anch’essa dotata di qualche porzione di quei preziosi legami; ne fissò la festa al 16 gennaio, esaltando in quella circostanza nell’Apostolo Pietro il detentore della prima Sede, il fondamento della fede, la base incrollabile dei dogmi (Menei).

La gloriosa prigionia.

« Metti i tuoi piedi nei ceppi della Sapienza, e il tuo collo nelle sue catene – diceva profeticamente lo Spirito durante l’antica alleanza; – non avere in uggia i suoi legami: perché alla fine troverai in lei il riposo, ed essa diventerà il tuo diletto, e i suoi ceppi saranno tua valida protezione e base di virtù, la sua catena una veste di gloria, e i suoi legami la salvezza » (Eccli. VI, 25-32). E la Sapienza incarnata, applicandoti essa stessa l’oracolo, o Principe degli Apostoli, annunciava che in testimonianza del tuo amore sarebbe venuto il giorno in cui avresti realmente conosciuto la costrizione e le catene (Gv. XXI, 18). La prova, o Pietro, fu convincente per quella Sapienza eterna che proporziona le sue esigenze alla misura del proprio amore (Eccli. IV, 17-22). Ma anche tu l’hai trovata fedele: nei giorni della terribile battaglia in cui volle mostrare la sua potenza nella tua debolezza, essa non ti abbandonò nei ceppi (Sap. X, 12-14); appunto sulle sue braccia tu dormivi di un sonno così tranquillo nella prigione di Erode (Atti XII, 6); discesa con te nella ossa di Nerone (Sap. X, 13) ti tenne fedele compagnia fino all’ora in cui, soggiogando all’oppresso gli stessi persecutori, pose nelle tue mani lo scettro e sulla tua fronte la triplice corona.

Preghiera per la liberazione.

Dal trono su cui siedi con l’Uomo-Dio nei cieli (Apoc. III, 21), come l’hai seguito quaggiù nella prova e nell’angoscia (Lc. XXII, 28), sciogli le nostre catene che purtroppo non hanno nulla che le avvicini alla gloria delle tue: spezza i ferri del peccato che ci riportano sempre a Satana, gli attacchi di tutte le passioni che ci impediscono di trovare il nostro sbocco in Dio. Il mondo, più che mai schiavo nell’ingorgo delle sue false libertà che gli fanno dimenticare l’unica vera libertà, ha più bisogno di riscatto che non al tempo dei Cesari pagani: tu che solo puoi esserlo, sii una volta ancora il suo liberatore. Che soprattutto Roma, caduta più in basso perché è stata precipitata da un’altezza maggiore, provi nuovamente la virtù di emancipazione che risiede nelle tue catene; esse sono diventate per i suoi fedeli un segno di unione nelle ultime prove (i); fa’ che si realizzino le parole dette un tempo dai suoi poeti, che « stretta da quelle catene essa sarebbe stata sempre libera ». [Dom Guéranger: “l’anno liturgico”, vol.II]

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In questo giorno e in tutti i successivi mettiamoci, da veri Cattolici, in preghiera costante per ottenere, con digiuni, penitenze ed invocazioni, come già gli Apostoli con S. Pietro, la liberazione del santo Vicario di Cristo in esilio, come profetizzato dalla SS. Vergine Maria a La Salette e a Fatima: “… Roma perderà la fede e diventerà la sede dell’anticristo” – “… la Chiesa sarà eclissata” [La Salette]; “… satana effettivamente riuscirà ad introdursi fino alla sommità della Chiesa” [Fatima]. Al Signore è possibile tutto, anche scalzare, e quanto meno se lo aspetta, il “giullare” della sinagoga satanica dei deicidi, il rappresentante dei M.A.M. (Marrani, Apostati, Modernisti), usurpante il Trono e la Sede Apostolica. La SS. Vergine ha promesso e non mente: “Ed il mio Cuore Immacolato trionferà”!

CALENDARIO CATTOLICO DI AGOSTO

Agosto è il mese che la Chiesa dedica al Cuore Immacolato di Maria

“… Dio desidera stabilire nel mondo la devozione al mio Cuore Immacolato”.
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“… alla fine che il mio Cuore Immacolato trionferà”.

-Nostra Signora di Fatima 1917 D.C.

PREGHIERA DI CONSACRAZIONE AL CUORE IMMACOLATO DI MARIA.

O più amabile Cuore di Maria! che di tutti i cuori assomiglia più perfettamente al Cuore di Gesù ed è quindi degno dell’amore e del rispetto di tutte le creature, Ti consacro con fervore il mio cuore, e scelgo Te, dopo il cuore di Gesù, come oggetto della mia imitazione e fiducia. Vi supplico, O Vergine Santa! per tutte le grazie che Vi sono state attribuite da vostro Figlio diletto, datemi un transito attraverso il vostro Cuore Beato al Cuore di Gesù. Portatemi Voi stessa in quel Santuario adorabile, perché io impari a praticare le virtù che Vi rendevano così fedele copia di Colui che era mite ed umile di cuore. Voi sapete che io vorrei più sinceramente venerare, amare e imitare quel Cuore divino, che era la fonte di tutti i vostri meriti e felicità, e come unico oggetto del vostro amore; ma siccome sento la mia debolezza, faccio ricorso a Voi, e supplicante presento questo mio cuore a Gesù in Unione con il vostro; in considerazione della vostra perfezioni e dei vostri meriti, le mie miserie e i miei peccati siano dimenticati, e il mio cuore consacrato per sempre, attraverso Voi, all’amore perfetto del mio Creatore. Scelgo Voi ora, O sacro cuore di Maria, come mio avvocato e modello, che le vostre preghiere possano aiutarmi ad imitarVi e rendano conforme il mio cuore a quello del mio divino Salvatore. Rendetemi, il cuore più puro, felicemente inaccessibile al peccato mortale! Il vostro Cuore si è esacerbato con l’umiliazione ed il dolore per i peccati del mondo: ottenete che il mio cuore possa essere veramente contrito per i miei peccati e possa amare Dio abbastanza per sentire e deplorare i peccati degli altri. Che io sia ripieno della mitezza e della misericordia del Cuore di Gesù e consumato dal suo amore più ardente; quindi attraverso di Voi spero più saldamente di ricevere una parte di quelle virtù, e soprattutto la grazia di detestare il peccato d’orgoglio, che mi renderebbe così odioso al Cuore adorabile di Gesù, e di praticare quell’umiltà sincera che meglio di tutto mi permette di paragonarmi al mio Salvatore e a Voi. A voi, Cuore Beato di Maria, mi affido durante la mia vita, e in Voi anche spero con fiducia di trovare un rifugio sicuro e una potente Avvocata nell’ora della mia morte.

[Fonte: ed. del manuale delle Orsoline, Cork, Irlanda, 1855]

RIPARAZIONE AL CUORE IMMACOLATO DI MARIA.

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Cerchiamo di adempiere con precisione alla devozione dei primi cinque sabati, come richiesto dalla Madonna di Fatima!

LITANIA DEL CUORE IMMACOLATO DI MARIA

Signore, abbi pietà di noi.

Cristo, abbi pietà di noi.

Signore, abbi pietà di noi.

Gesù, ascoltaci;

Gesù, esaudiscici.

Dio Padre del cielo, abbi pietà di noi.

Dio Figlio, Redentore del mondo, abbi pietà di noi.

Dio, Spirito Santo, abbi pietà di noi.

Santissima Trinità, unico Dio, abbi pietà di noi.

[Risposta alle seguenti invocazioni: prega per noi!]

Cuore di Maria, ….

Cuore di Maria, secondo il Cuore di Gesù, ….

Cuore di Maria, unita al Cuore di Gesù, ….

Cuore di Maria, Santuario dello Spirito Santo,

Cuore di Maria, Tempio della divinità,

Cuore di Maria, Tabernacolo del Verbo Incarnato,

Cuore di Maria, sempre esente da peccato,

Cuore di Maria, sempre piena di grazia,

Cuore di Maria, benedetta fra tutti i cuori,

Cuore di Maria, illustre trono della gloria,

Cuore di Maria, abisso e prodigio di umiltà,

Cuore di Maria, gloriosa olocausto dell’amore divino,

Cuore di Maria, inchiodata alla Croce di Gesù,

Cuore di Maria, conforto degli afflitti,

Cuore di Maria, rifugio dei peccatori,

Cuore di Maria, speranza degli agonizzanti,

Cuore di Maria, sede della misericordia,

Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, perdonaci, O Signore.

Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, ascoltaci, O Signore.

Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi.

V. pregate per noi, Santa Madre di Dio.

R. affinché siamo fatti degni delle promesse di Cristo.

Preghiamo.

O Divino Gesù, che amate teneramente la più Santa delle vergini e siete reciprocamente amato da Lei, concedete, Vi supplichiamo, per intercessione della vostra Santissima Madre, e per la somiglianza del suo Sacro Cuore con il vostro, di non staccarci mai dall’amore e dall’affetto della vostra cura e tenerezza nei nostri riguardi, Voi che, con il Padre e lo Spirito Santo, vivete e regnate, nel mondo, in eterno. Amen.

[Fonte: ed. Manuale delle Orsoline, Cork, Irlanda, 1855]

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Qui di seguito elencati sono le feste che cadono in questo mese:

1 agosto: San Pietro in catene, doppia maggiore; Commemorazione di San Paolo e i martiri Santi Maccabei.

2 agosto: San Alfonso Maria de’ Liguori vescovo, confessore e dottore della Chiesa, Double; Commemorazione di Santo Stefano I Papa e martire.

3 agosto: Invenzione di s. Stefano Protomartire, semplice.

4 agosto: S. Dominico confessore, doppio maggiore.

5 agosto: Primo venerdì / dedizione di nostra Signora della neve, doppio maggiore.

6 agosto: Primo sabato / Trasfigurazione di nostro Signore Gesù Cristo, Double della classe II; Commemorazione di SS. Sisto II Papa, Felicissimo e Agapito martiri.

7 agosto: XII domenica dopo Pentecoste, doppio.

8 agosto: SS. Ciriaco, Largus e Smaragdo martiri, semplice.

9 agosto: S. Giovanni M. Vianney confessore e sacerdote, Doppio; Commemorazione della Veglia (di San Lorenzo) e San Romano martire.

10 agosto: S. Lorenzo martire, doppio della classe II.

11 agosto: Commemorazione dei Santi Tiburzio e Susanna Vergine, martiri.

12 agosto: S. Clara Vergine, doppio.

13 agosto: Commemorazione dei Santi Ippolito e Cassiano martiri.

14 agosto: XIII domenica dopo Pentecoste, doppio.

15 agosto: Assunzione della Beata Vergine Maria, doppia di I classe.

16 agosto: S. Gioacchino padre della Beata Vergine Maria, confessore, doppio della classe II.

17 agosto: San Giacinto di Polonia confessore, doppio.

18 agosto: Commemorazione di San Agapito martire.

19 agosto: S. Giovanni Eudes confessore, doppio.

20 agosto: San Bernardo Abate, confessore e dottore della Chiesa, doppio.

21 agosto: XIV domenica dopo la Pentecoste, il doppio.

22 agosto: Doppio cuore immacolato della Beata Vergine Maria, della classe II; Commemorazione dei SS. Timoteo, vescovo di Ippolito e Symphorianus martiri.

23 agosto: S. Filippo Benizio confessore, doppio.

24 agosto: San Bartolomeo Apostolo, doppio della classe II.

25 agosto: s. Luigi re, confessore, semplice.

26 agosto: Commemorazione di San Zefirino Papa martire.

27 agosto: S. Giuseppe Calasanzio confessore, doppio.

28 agosto: XV domenica dopo la Pentecoste, il doppio.

29 agosto: Decapitazione di S. Giovanni Battista, maggiore doppio; Commemorazione di Santa Sabina martire.

30 agosto: S. Rosa della s. Vergine Maria di Lima, Double; Commemorazione dei SS. Felice e Adaucto martiri.

31 agosto: San Raimondo Nonnato confessore, doppio.
Indossare lo scapolare marrone e 

Pregare il Rosario ogni giorno per il trionfo del cuore immacolato di Maria

 cuore di Maria

 

Dolce cuore di Maria, siate la nostra salvezza!

Omelia della Domenica XI dopo Pentecoste

Omelia della Domenica XI dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

[Vangelo sec. S. Marco VII, 31-37]

muto guar.

-Lingua oscena-

E perché Gesù Cristo per dar la favella a un muto tanti adopra modi inusitati, e riti misteriosi? Udite, è S. Marco che nel Vangelo della corrente Domenica ci narra come il divin Signore a guarire quel muto si lasciò prima pregare da molti, “deprecabantur eum”: indi lo trasse fuor della turba in disparte, poscia gli pose le dita nelle orecchie, in seguito con poca saliva tratta dalla sua bocca toccogli la lingua, e alzati gli occhi al cielo, alzò un sospiro, e finalmente in tuono imperioso pronunziò una parola siriaca “Ephetà”, apritevi, ed ecco sull’istante aperte le sue orecchie, e sciolta la sua lingua per modo che felicemente parlava: “Loquebatur recte”. E perché, io ripeto, tanti adopera il Redentore segni misteriosi e insolite maniere ? Non eran queste a guarirlo assolutamente necessarie, dice qui un saggio Spositore (Cardin. Cajet.): senza di queste aveva pure risanati infermi, risuscitati morti o col solo tocco della sua mano, o col semplice suono della sua voce. Ecco, se io ben mi avviso, la vera cagione. – Si trattava di dare l’uso della lingua ad un muto: la lingua suole essere strumento di mille peccati, e perciò bisognava, dirò così, consacrarla con mistiche significazioni, e colla saliva dell’Uomo-Dio. Anche verso di noi furono nel nostro battesimo dalla Chiesa praticati quasi tutti i riti, che Gesù adoperò a riguardo dell’odierno mutolo, e con tutto ciò qual uso abbiamo fatto della nostra lingua? Quante volte l’abbiamo contaminata colle mormorazioni, e colle oscene parole? Delle prime già vi parlai in altra Spiegazione. – Ora mi desidero un fuoco di santo zelo per scagliarmi contro le lingue oscene; la onde passo a dimostrarvi quanto male fa a sé stesso, tanto nell’ordine civile, quanto nel morale, l’impuro parlatore.

I. Il peccato della disonestà è un vizio così infamante, un mostro così abominevole, che ama le tenebre, cerca nascondigli, esige segreti, egli è una colpa così vergognosa, che per nasconderne i turpi effetti si ricorre talvolta a micidiali bevande, anzi che sopravvivere allo scoprimento d’un fallo di questa sorta, si elegge la morte. Ora l’osceno parlatore viene coll’impura sua lingua a scoprire, e ad infamare sé stesso. Non bada è vero alla sua onta, alla sua infamia, ma per sé ne copre, e svela senza riflettere l’interna infezione del suo cuore impuro. È detto evangelico, e la ragione e l’esperienza lo confermano, che la lingua parla dall’abbondanza del cuore, “ex abundantia cordis os loquìtur” (Matth. XII, 34); onde per quella relazione tanto fisica quanto morale, che passa tra il cuore e la lingua, ne segue che scopre la lingua l’interne qualità l’intime disposizioni dell’animo buono o malvagio. Fuori la lingua, dice il medico all’infermo, e dalla lingua sporca, nera, immonda, argomenta l’interno malore. – Domandiamo ai Teologi se sia temerario giudizio il pensare di alcuno, che fa sovente laidi discorsi, o vomita spesso disoneste parole, il pensare, dissi che abbia corrotto e marcio il cuore, e ci risponderanno che non è né giudizio temerario e né pur giudizio, ma bensì una giusta necessaria conseguenza derivata da una certa premessa, o pure una evidente cognizione della causa per mezzo del suo effetto, come chi dicesse: “fumus, ergo ìgnis”; così lingua oscena, dunque anima oscena. – Infatti se la lingua d’un oriuolo [cucù] segna le ore fuor di regola, se l’oriuolo stesso batte l’ore a sproposito, non si può dire che l’interno movimento delle ruote non sia guasto e sconnesso? Se un vaso esala dalla bocca un fetore intollerabile, dovrem dire che sia pieno d’acqua odorifera? Se un tale per tosse frequente, sputa marcia e sangue corrotto, chi potrà dire o credere che abbia sani i polmoni? È questo il primo male che cagiona a sé stesso l’impuro parlatore, si qualifica per un impudico sfacciato, per uomo carnale, incivile, spregevole, da cui fuggono come da una puzzolente cloaca le oneste persone, meno quelle che com’esso lui son avvezze allo stesso linguaggio. Ma questo è un’ombra di male in paragone degli altri eccessi di cui fa reo, pel suo immondo e scandaloso parlare.

II. Il Re Profeta rassomiglia una di queste bocche immodeste ad un’aperta sepoltura piena di verminosi e fetenti cadaveri, “sepulchrum patens est guttur eorum” (Ps. V, 11) . È avvenuto talora che all’alzarsi la lapide d’un sepolcro, per l’esalazione di quell’aria fetida, pestifera, sono caduti morti tutt’i circostanti. Così suole avvenire qualora una bocca immonda s’apre in oscene parole, restano per lo più infetti, avvelenati e morti nell’anima tutti gli ascoltanti. “Sepulchrum patens est guttur eorum”. Or chi può calcolare la strage di tanti innocenti, e la spiritual morte di quegl’incauti, che con piacere ascoltano, o non correggono, o non s’allontanano con orrore da quelle bocche infernali? Tutte quest’anime ferite ed uccise son tutte a carico del sordido e pessimo ciarlatore. Con questo di più che le oscene parole, le favole disoneste, i turpi racconti, i motti allusivi, gli equivoci maliziosi, le sporche buffonerie con gusto s’imparano, si ripetono, come malvagie sementi, passano di bocca in bocca, di orecchio in orecchio, e con diabolica fecondità crescono e si moltiplicano all’infinito. Ecco in effetti quel che asserisce l’Apostolo S. Giacomo: la lingua scorretta è un fuoco d’inferno, “lingua ignis est inflammata a gehenna” (Jacob. III, 6). Una sola scintilla di questo fuoco tartareo basta ad eccitare un incendio immenso, che incenerisca un numero sterminato di mille anime e mille. “Ecce quantus ignis quam magnam sìleum intendit” (V, 7). Ma di questo incendio divoratore, che forse non s’estinguerà mai più, tutta sarà la colpa della lingua oscena. Dirò di più, dirò cosa che a prima giunta sembrerà strana. Può darsi il caso che un parlatore osceno pecchi tuttavia, ancorché confinato col corpo in un sepolcro, e coll’anima nell’inferno. Non è mio questo sentimento, ma del gran Padre S. Agostino, il quale parlando dell’empio eresiarca Ario, già morto e dannato, dice che pur pecca a va peccando, “Arius adhuc peccat”; pecca ne’ suoi pervertiti seguaci, pecca per l’eresie da esso sparse e seminate, che in tanti incauti pullulano e si riproducono; laonde tutti questi tristi germogli attribuirsi debbono alla velenosa radice, come effetti della causa primiera; e perciò in un senso ancorché Ario sia “in terimino”, nell’eterna dannazione, ove non v’è più luogo a merito o a demerito, pure per le conseguenze funeste a lui imputate in origine, si può dire che ancor pecca. “Arius adhuc peccat”. Già forse mi preveniste nell’applicazione dell’esempio. Un uomo di lingua impura, già incenerito nella tomba, già sepolto nell’abisso, pecca ancora per la zizzania sparsa dalle sue turpi parole, per la peste uscita dalla lorda sua bocca, con cui ha infette tante anime, peste che forse si propagherà fino alla consumazione de’ secoli. – Possibile! Dirà qui alcuno di voi, possibile un male sì grande, anzi una serie di tanti mali! “Io pronunzio, è vero, qualche sconcia parola, qualche motto allusivo, ma così per ischerzo a muovere il riso, ben lontano dal prevedere, molto meno dal voler tanta rovina”. Lo so, e lo dice ne’ Proverbi lo Spirito Santo, che lo stolto, cioè il peccatore, fa il male come per riso e per trastullo, “quasi per risus et stultus operatur scelus” (Prov. I, 23); ma quella turpe facezia, quella ridicola maliziosa parola è un cancro micidiale, dice l’Apostolo, che dall’orecchio passa al pensiero, dal pensiero si attacca al cuore, e fa nell’anima una piaga insanabile, “sermo eorum ut cancer serpit” (ad. Tim. II, 17). Scolpatevi ora col pretesto di dire per burla e per scherzo, la vostra scusa accrescerà la vostra colpa. Non trovate voi dunque altro modo di ricreare lo spirito, che ridendo a danno dell’anima vostra, e delle anime altrui che costano tutto il sangue preziosissimo di Gesù Cristo? Sarà dunque minore l’oltraggio fatto alla sua Divina Maestà, perché lo fate per giuoco per sollazzo? Scusereste voi i Giudei quando per burla schernivano il divin Redentore, e con finte adorazioni Lo acclamarono Re da beffe e da teatro? Voi ne fate altrettanto; ma udite le proteste e le minacce di un Dio vilipeso. Voi ridete oltraggiandomi, voi mi oltraggiate ridendo, anch’Io quando sarete tra le fauci di morte nelle angustie estreme della vostra agonia, anch’Io mi riderò di voi: “Ego quoque in interitu vestro ridebo, et subsannabo” (Prov. I, 26). – Ma noi, soggiungono altri, noi senza malizia alcuna e senza riflessione ci lasciamo uscire di bocca certe parole veramente poco oneste, ma non si bada, la lingua scorre, siamo avvezzi così, bisogna compatire. – A questo passo vi voleva S. Giovanni Crisostomo per farvi tornar in gola le vostre discolpe, frivole insieme, ed aggravanti il vostro reato. – Un ladro (dice egli in una delle sue Spiegazioni al popolo di Antiochia) un ladro non è così folle da dire al giudice: “Signore perdonate o almeno compatite il mio fallo, io sono assuefatto a rubare che non mi posso astenere”; sarebbe per tale scusa più severamente punito. “Cur non praetendit fur consuetudinem, ut a supplicio liberetur” (Rom. XII)? Ecco l’esempio che vi condanna. L’abito malvagio non diminuisce, anzi aggrava la colpa. Si forma quest’abito dagli atti ripetuti, continuati, pe’ quali la rea consuetudine passa in seconda natura. Da ciò ne segue, che sebbene vi cadan di bocca parole scorrette senz’avvedersene, in forza dell’abito cattivo da voi contratto, siete più rei per inveterata malizia, come d’accordo parlano i Teologi. – E pur non è ancor questo il colmo de’ mali che cagiona a sé stessa una lingua oscena. Il colmo de’ mali suoi, lasciatemi così esprimere, si è lo scrivere colle sue sozze parole sulla propria fronte il carattere della sua riprovazione. Per poco che uno sia versato nelle divine Scritture sa che figura de’ predestinati fu Giacobbe, e immagine dei presciti Esaù. Ora Giacobbe, sebbene nascosto sotto le spoglie del fratello, e sotto le pelli del capretto, fu dal cieco padre riconosciuto alla voce: “Vox quidem, vox Jacob est” (Gen XXVII, 22). Per simil modo sebbene il mistero della predestinazione sia recondito ed inscrutabile, pure da certi contrassegni si può averne una cognizione capace a darcene una probabile e quasi certa congettura. Uno di questi chiari e forti segni è la lingua. Volete sapere se sarete predestinato o reprobo? parlate ch’io vi vegga: “Loquere ut videam”. Dal canto si conoscono gli uccelli, dal linguaggio gli uomini delle diverse nazioni. Aveva un bel dire S. Pietro là nel pretorio, e confermare col giuramento le sue proteste, che l’ancella più che a lui, credeva al suo linguaggio: “tu sei Galileo, gli diceva, il tuo parlare ti scopre per quel che sei”: “Loquela tua manifestum te facit” (Matth. XXVI, 73). Parlate orsù voi, se volete che io argomenti se sarete nel numero dei reprobi o de’ predestinati. Voi avete una lingua pessima, laida, immonda, un vocabolario di termini nefandi? Ohimè, voi vi assomigliate ai dannati, voi sarete con essi abitatori dell’inferno. Laggiù si bestemmia, si maledice, si parla e si parlerà sempre male. Voi, come mi giova sperare, avete una lingua modesta, un parlar da buon cristiano, vi servite della lingua, come l’odierno muto risanato, a parlar rettamente, a lodare Dio, a edificare il prossimo? Consolatevi, voi sarete cittadini del cielo. Lassù quei beati comprensori hanno sempre in bocca le glorie dell’Altissimo: “Exaltationes Dei in gutture eorum” (Ps. CXLIX). Aspiriamo colla purità delle nostre lingue, ad esser loro consoci.

 

Visita alla SS. VERGINE MARIA

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Visita alla SS. VERGINE MARIA

In Nomine Patris, et Filii etc.

Santissima Vergine Immacolata, e Madre mia Maria, a Voi che siete la Madre del mio Signore, la Regina del Cielo, e della Terra, l’Avvocata, e la speranza, e il rifugio dei peccatori, umilmente ricorro io, che sono di tutti il più miserabile. – Vi adoro o Vergine purissima, nella vostra Divina Maternità, e vi ringrazio di quanto bene mi avete fatto, e specialmente di avermi con la vostra efficacissima protezione liberato dall’inferno, tante volte da me meritato. – Io credo tutto quello che di Voi crede la S. Chiesa, e vi amo, Signora amabilissima, e per l’amore che vi porto, prometto di volervi sempre servire, di far quanto posso, perché dagli altri ancora siate servita ed amata. – Io ripongo in Voi tutte le mie speranze, tutta la mia salute: accettatemi per vostro servo, e difendetemi sotto il vostro manto, Madre di misericordie. E giacché siete così potente con Dio, liberatemi da tutte le tentazioni, o impetratemi la grazia di vincerle fino all’ultimo mio respiro. – A voi domando il vero amore a Gesù vostro Figlio, da Voi spero una buona e santa morte. Madre mia, per l’amore che portate all’Augustissima Triade sacrosanta, soccorretemi sempre, ma centuplicate la immensa vostra Carità nella ultima ora e punto della mia vita; non mi lasciate insomma, finché non mi vedete già salvo in Paradiso a benedirvi, a ringraziarvi, e a cantare le vostre misericordie per tutta la beata eternità. Così spero: Così sia.

Sia benedetta la santa purissima Concezione immacolata della Beatissima Vergine Maria. Ave Maria etc.

Cosi direte tre volte, e poi farete a Maria SS. le seguenti Offerte:

La Domenica le offrirete i vostri occhi, allontanandoli da ogni oggetto vano e pericoloso. Il Lunedì le orecchie, non ascoltando discorsi vani, oziosi, e peccaminosi. Il Martedì la lingua, guardandovi da ciarle inutili, scandalose, e impure. Il Mercoledì la gola, mortificandola, e privandola di qualche cibo, e bevanda, che più vi piaccia. Il Giovedì le mani, impiegandole in fare elemosine, e in altre opera di carità. Il Venerdì i piedi, sfuggendo le compagnie, e i luoghi profani, e andando a visitare le Chiese e gli Infermi. Il Sabato le offrirete il vostro cuore, staccandolo da ogni affetto mondano, e impegnandolo maggiormente nell’amore di Gesù e di Maria. – Finalmente, dopo recitate le tre Ave Maria, come sopra, direte il seguente:

I N N O

O gloriosa Virginum,

Sublimis inter sidera

Qui te creavit, parvulum

Lactente nutris ubere.

Quod Heva tristis abstulit,

Tu reddis almo germine,

Intrent ut astra flebiles,

Coeli recludis cardines.

Tu regis alti janua,

Et aula lucis fulgida:

Vitam datam per Virginem.

Gentes redemptas, plaudite.

Jesu, tibi sit gloria,

Qui natus es de Virgine,

Cum Patre, et almo Spiritu;

In sempiterna saecula. Amen.

 Antif. Beata Dei Genitrix Maria Virgo perpetua, Templum Domini, Sacrarium Spiritus Sancti, tu sola sine exemplo placuisti Domino nostro Jesu Christo; ora pro Populo, interveni pro Clero, intercede pro devoto foemineo Sexu.

V.: Domine, exaudi orationem meam.

R.: Et clamor meus ad te veniat.

Oremus.

Defende, quaesumus, Domine, Beata Maria semper Virgine intercedente, istam ad omni adversitate Familiam, et toto corde Tibi prostratam ab hostium propitius tuere elementer insidiis. Per Christum etc..

Nos cum Prole pia, benedicat Virgo Maria. Amen.

Doni dello Spirito Santo: Il dono di FORTEZZA

Il dono di Fortezza.

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[J.-J. Gaume: “Il trattato dello Spirito Santo”; vol. II, Cap. XXX]

II dono di scienza è un magnifico supplemento alla ragione. Esso è all’anima ciò che il telescopio è all’occhio. Per via della conoscenza certa e ragionata della verità, egli ci comunica la semplicità della colomba e la prudenza del serpente, sventa i sofismi dell’empietà, illumina tutte le scienze umane e le riunisce in una vasta sintesi. Con la rettitudine ch’egli dà al giudizio, scevera il vero dal falso, e il bene dal male. Mediante il giusto apprezzamento delle cose, ci preserva dagli incanti affascinatori del mondo e del demonio, dalle illusioni dello spirito, dagli errori del cuore, fonte di tormenti e d’ire, di divisioni e di disperazioni. Ne risulta che il dono di scienza sulla terra è la pace; senza di questo è la guerra. Due ragioni soprattutto dovrebbero renderlo oggi più che mai prezioso: l’ardore per la scienza e l’affascinamento per le cose futili. – Senza questo dono necessario, il dotto è una talpa cui offusca la luce, o un bambino che balbetta, e l’uomo qualunque si sia, un filatore di tele di ragno, un. Costruttore di castelli di carta. – Tuttavia, conoscere chiaramente la verità, sia nell’ordine soprannaturale, che nell’ordine naturale, non basta: occorre all’uomo il coraggio d’essere conseguente con sé medesimo. Grande dev’essere questo coraggio; imperocché la verità esige sovente fiere battaglie, e la virtù costosi sacrifici. A questo bisogno lo Spirito Santo provvede con un nuovo dono : la fortezza. La cognizione di questo nuovo beneficio ci sarà data con la risposta ai nostri tre quesiti: Che cosa è il dono di fortezza? Quali sono gli effetti? quale ne è la necessità? -1° Che cosa è il dono di fortezza ? La fortezza è un dono dello Spirito Santo che comunica il coraggio ad intraprendere grandi cose per Iddio e la fiducia di compierle, malgrado tutti gli ostacoli. [“Domini fortitudinis est habitus in appetitu irascibili infusus, quo disponitur animus ad hoc quod perveniat ad fìnem cujuslibet operis inchoati et evadat quaecumque pericula imminentia: quod quidem excedit naturam humanam”. Vig., c. XII, p. 418]. – Fra il dono di fortezza e la virtù di fortezza, sant’Antonino enumera quattro differenze. – 1° L’uno e l’altro suppongono una certa fermezza d’anima, sia per operare, ossia per soffrire; ma la virtù di fortezza ha la sua sfera d’azione dentro i limiti della potenza umana, e non si estende al di là. Il dono di fortezza ha la sua nella misura della divina potenza, su cui si appoggia, secondo la parola del profeta: “Nel mio Dio io attraverserò il muro”: cioè dire, atterrerò tutti gli ostacoli insormontabili alle forze naturali. – 2° La virtù di fortezza dà all’anima il coraggio di affrontare i pericoli, ma non la fiducia di affrontarli e di evitarli tutti. Il dono di fortezza opera l’uno e l’altro, sia che occorra affrontare gravi pericoli o superare grandi difficoltà. – 3° La virtù di fortezza non si estende a tutto ciò che è difficile. La ragione si è che la virtù di fortezza si appoggia sull’umana potenza. Ora, la potenza umana non è una in faccia a tutte le difficoltà. Ma essa si divide, secondo le difficoltà, in facoltà differenti. Cosi, gli uni hanno la forza di vincere le concupiscenze della carne; ma non hanno quella di cimentarsi ai supplizi e alla morte. Altrimenti è del dono di fortezza. Appoggiandosi sulla potenza divina come sulla sua propria, ei si estende a tutto e basta a tutto. Giobbe lo proclama con quelle generose parole: “Ponetemi vicino a voi, e venga ad assalirmi chi vuole”. – 4° La virtù di fortezza non conduce sempre le sue intraprese al loro fine, perché non dipende dall’uomo di raggiungere il fine delle sue opere, e di scansare tutti i mali e tutti i pericoli: e la prova è che fluisce col soccombere morendo. Il dono di fortezza compie tutte queste consolanti meraviglie. Difatti, per le opere generose che gli fa compiere, conduce l’uomo alla vita eterna: lo che è il fine di tutte le imprese e la liberazione da tutti i pericoli. Glorioso risultato in cui lo riempie di una fiducia che esclude il timore contrario, e che san Paolo cantava dicendo: “Io posso tutto in quegli che mi fortifica. [S . Anton., iv p., tit. XIII, c. I, p. 210. — S. Th., 2a, 2a, q. 139, art. 1, corp..; Vig., ubi supra.] – Tale è il dono di fortezza in sé medesimo. Resta a dimostrarsi nei suoi rapporti con gli altri doni e negli effetti che produce. -2° Quali sono gli effetti del dono di fortezza? Sia che lo si annoveri salendo o discendendo, il dono di fortezza occupa il quarto grado tra i doni dello Spirito Santo. – Esso è posto nel centro di questo brillante corteggio, come un re sul suo trono, o come un generale d’armata in mezzo ai suoi ufficiali. Due ragioni spiegano il posto che gli è assegnato. Da un lato, tra tutte le opere divine, quelle che più colpiscono sono le opere di forza; dall’altro, il dono di fortezza protegge tutti gli altri doni e gli riduce in atto. È per essi, per la loro conservazione e per la loro gloria che libera da continue battaglie. Se il riposo interiore è soprattutto il loro premio, razione esteriore è il suo. [Rupert., De oper. Spir. Sanct., lib. VI, c. I].Ora, operare e soffrire sono i due obietti del dono di fortezza: fare l’uno e l’altro con coraggio e perseveranza, sono i suoi effetti.Operare. Il dono di fortezza, abbiamo detto, comunica il coraggio d’intraprendere grandi cose: e quali sono? Se non si trattasse che di certe azioni strepitose, fuori della vita ordinaria della maggior parte degli uomini, il dono di timore non sarebbe di un grandissimo pregio, imperocché sarebbe raramente necessario. Però, come tutti gli altri, il dono di fortezza è indispensabile alla salute. Quali sono le grandi cose alle quali si applica? per conoscerle, basta studiare questa questione: che cosa è l’uomo?L’uomo è un re decaduto che cerca il suo trono. Che l’uomo sia stato creato re e che sia decaduto dal suo regno, è verità che si trova scritta in capo all’istoria di tutti i popoli. È il domma che rivela ogni giorno e ogni ora del giorno, anche a quello che lo nega, la lotta intestina del bene e del male, la coesistenza nello stesso cuore di sublimi istinti e d’ignobili tendenze. Che l’uomo sia chiamato a riconquistare il suo regno, è una seconda verità, non meno certa della prima. Su di essa riposano e la religione e la legislazione di tutti i popoli; imperocché su di essa riposa la distinzione del bene e del male. Il bene è ciò che conduce l’uomo alla sua riabilitazione, il male è ciò che ne lo allontana. Risalire sopra il suo trono è dunque la grande opera che l’uomo deve compiere.Ora, essendo i mezzi sempre della stessa natura del fine, grandi sono quelli dati all’uomo per arrivare al fine suo ultimo. Impiegarli con coraggio e perseveranza è dunque compiere una gran cosa, per la quale il dono di fortezza è indispensabile. [“Ad magna praemia perveniri non potest, nisi per magnos latore”. S. Greg., in Evang. Homil., XXXVII]. – Quali sono questi mezzi di riabilitazione e di conquista? Essi sono del numero di dieci, chiamati per eccellenza il Decalogo, o le dieci parole. Queste dieci parole, o dieci verbi sono come dieci incarnazioni di Dio. Praticandoli, l’uomo diventa un decalogo vivente, si riabilita, diventa re, e diventa Dio. Compiere il decalogo é dunque la gran cosa che l’uomo deve fare, e l’unica per la quale il tempo gli sia dato. – Questa intrapresa è tanto difficile quanto grande. Tre potenze formidabili sono legate per farla cadere: il demonio, la carne e il mondo. Il demonio: e ciò che abbiamo detto nella prima parte del nostro lavoro, ci dispensa di parlare dell’astuzia, della crudeltà, dell’odio di questo primo nemico, e per conseguenza, dei pericoli che ci fa correre. Faraone il quale, congiungendo l’ipocrisia alla crudeltà, intraprende di sterminare il popolo d’Israele; Nabuccodonosor che fa gettare i giovani Ebrei nella vasta fornace, riscaldata sette volte più del necessario, e la cui fiamma si eleva sino al cielo; Erode il carnefice dei bambini di Bethleem, rappresentano imperfettamente il demonio, il suo odio, i suoi inganni e la sua sete insaziabile delle anime. – La carne: focolare furibondo dove fermentano notte e giorno, dalla culla sino alla tomba, la dilettazione, l’amore, la vanità, l’ira, il desiderio, l’avversione, l’odio, la tristezza, l’audacia, l’insubordinazione, la speranza, il timore, la disperazione. Come rappresentare questa carne che cospira perpetuamente contro lo spirito? È Eva che offre il frutto proibito al suo marito, e lo invita a dilettarsi con lei nel male. È la moglie di Putifar che sollecita al delitto il bello e casto Giuseppe. È Tamar che, abbigliata di vesti da cortigiana, si pone a sedere sull’angolo della via per aspettare Giuda, e attirarlo nei suoi vergognosi lacci. È Dalila che addormenta Sansone sulle sue ginocchia, gli taglia la chioma ove risiede la sua forza, e lo consegna ai Filistei, cioè dire ai demoni, che gli cavano gli occhi e ne fanno il loro zimbello. – La carne, abile a condurre al male, non lo è meno a svolgere dal bene. Nessun genere di guerra contro se medesimo che l’uomo non debba conoscere, mai un sacrificio che non debba esser pronto a imporsi. Ora è una passione da lungo tempo nutrita che bisogna domare, un legame pieno d’incanti seduttori che bisogna rompere; ora un bene male acquistato, del quale bisogna spogliarsi; ma quanti reclami, quante obiezioni, quante impossibilità e quanti rimorsi! – Altre volte Iddio chiama ad una vocazione sublime: egli vuole un prete, un missionario, una carmelitana, una suora di carità. È Abramo che deve abbandonare la terra dei suoi padri, la sua famiglia, i suoi amici, e partire per una lontana regione. Qui pure, chi dirà le lacrime, le preghiere, i pretesti, gli ostacoli che la carne e il sangue oppongono alla chiamata divina? E pur nonostante, sotto pena di morte, bisogna tutto sormontare. – Il mondo: moltitudine immensa di rinnegati che scompiglia in mezzo a piaceri insensati e le cui provocazioni, i sogghigni, le massime, i costumi, il lusso, le feste, i teatri, le mode, i quadri, le incisioni, le statue, le danze, i canti, gli scritti sono altrettanti dardi infiammati. Bisogna che l’uomo viva in mezzo a questo affascina mento generale, senza lasciarsi ammaliare; in mezzo a questo incendio di lussuria, senza bruciare come i tre fanciulli nella fornace di Babilonia, senza perdere uno dei loro capelli. Vincere il demonio, vincere se stesso, tale è l’opera che l’uomo deve compiere: opera immensa e molto superiore alle forze sue. Pur tuttavia, non è che la prima e la meno difficile parte del suo compito: soffrire è la seconda. – Soffrire. Sant’Antonino e san Tommaso danno parecchie ragioni per mostrare che ci vuole più forza per patire che per operare. « Senza dubbio, dicono essi, attaccare e gettarsi nel pericolo, precede, quanto al tempo, il tollerare e soffrire. Nonostante, tollerare e soffrire è più essenziale alla forza, più nobile, più difficile e più perfetto. – Prima di tutto è più difficile combattere contro un più forte che contro un più debole. Ora colui che assalta si pone in atto di più forte, mentre colui che sostiene l’urto si presenta come più debole. – Di poi, colui che sopporta e che soffre sente attualmente il male e il pericolo, mentre quegli che assale non gli vede che nel futuro. Ora è assai più difficile non essere tocco dal male presente che dal male futuro. – Finalmente sopportare implica una certa lunghezza di tempo, mentre assalire può farsi ad un tratto. Ma per rimanere lungo tempo incrollabile all’attacco; al pericolo e al dolore, vi vuole assai più energia che il portarsi subitamente ad un opera difficile. » [S. Th., 2a 2ae, q. 123, art. 6, ad 1, S. Anton., iv p., tit. XIII, c. I, fol. 210]. – Di qui, quella parola di un grande capitano: Le migliori truppe non sono le più ardenti alla battaglia, ma le più costanti alla fatica. – Che cosa deve l’uomo soffrire? Meglio sarebbe domandare quel che non deve soffrire. Dolori fisici e dolori morali, dolori nati internamente, dolori venuti dal di fuori, “foris pugnae, intus timores”; malattie d’ogni genere e di tutti gli organi, povertà, contraddizioni, calunnie, ingiurie, ingiustizie, assalti da parte del demonio, della carne e del mondo; insomma, la pena del corpo e la pena dell’anima sotto tutte le forme: tale è il corteggio che lo circonda durante tutto il corso del suo pellegrinaggio. – Non parliamo che della condizione comune a tutte le esistenze. Sovente l’uomo, e soprattutto il cristiano è predestinato a dei patimenti eccezionali. La sua virtù irrita il mondo e il demonio. Per lui in particolare, sono il loro odio, i loro sarcasmi, i loro disprezzi. Per lui, oggi come a tempo addietro, sopra una gran parte del globo, si battono le catene, si aprono le prigioni, si sollevano le potenze, si affilano le spade, e si accendono i roghi. Bisogna che l’uomo, il fanciullo, il vecchio, e la timida vergine affrontino tutto questo apparecchio di morte e la morte medesima: l’apostasia sarebbe l’ inferno. – Ma che cosa è l’uomo? La debolezza stessa. Cercate tutto ciò che vi è di più debole nella natura; una foglia che porta via il vento, quest’è l’uomo. Così lo definisce lo stesso Spirito Santo: “Folìum quod vento rapitur”. [Job., XIII, 25] .- Incapace d’avere un buon pensiero, non può da se stesso né operare né volere, a benefizio del suo ultimo fine. – Incostante, egli forma buone risoluzioni che egli non mantiene. Come vile, la più piccola pena lo spaventa; sensuale, la mortificazione gli è in orrore: insubordinato, il giogo dell’obbedienza gli pesa. Alla più piccola violenza che egli é obbligato farsi per Iddio, lo scontento è in fondo del suo cuore, la resistenza nella sua volontà, l’opposizione nel suo spirito, il lamento e il mormorio sulle sue labbra. Ecco, e assai meno ancora, la secca foglia che si appella l’uomo.- Con tutto ciò, bisogna che questo essere cosi debole diventi la forza viva; bisogna che questo figlio di Dio diventi perfetto come suo Padre. A malgrado di tutti gli ostacoli che abbiamo accennati, malgrado il demonio, malgrado il mondo, malgrado se stesso, bisogna che questo re caduto riconquisti il trono che egli ha perso. – Misurate la sua debolezza e la grandezza dell’impresa, e voi avrete la misura del bisogno continuo ch’egli ha del dono di fortezza. – Grazie a questo dono divino, il mondo, da diciotto secoli in qua, ha visto incredibili meraviglie. Egli ha visto milioni d’anime, anime di ricchi e anime di poveri, anime di dotti e d’ignoranti, anime di vecchi, di donne e di fanciulli, anime viventi nel chiostro e nel secolo, in Oriente ed in Occidente, sotto tutte le latitudini, forti, coraggiosi e costanti nell’esecuzione dei loro santi propositi; forti e coraggiosi per vincere le tentazioni, forti, magnanimi e generosi per sopportare le avversità e i dolori. Lo stesso Spirito Santo rende loro questo omaggio « Essi debellarono i regni, operarono la giustizia, conseguirono le promesse, turarono le gole ai leoni, estinsero la violenza del fuoco, schivarono il taglio della spada, guarirono dalle malattie, diventarono forti in guerra, misero in fuga eserciti stranieri, riebbero le donne i loro morti resuscitati. »[Hebr., XI, 38, 85]. Noi conosciamo ciò che hanno fatto: vediamo adesso quel che hanno patito. « Altri poi furono stirati non accettando la liberazione per ottenere una migliore risurrezione. – Altri poi provarono e gli scherni e le battiture, e di più le catene e le prigioni; furono lapidati, furono segati, furono tentati, perirono sotto la spada; andarono raminghi, coperti di pelli di pecora e di capra, mendichi, angustiati, afflitti: coloro dei quali il mondo non era degno; errando per i deserti e per le montagne e nelle spelonche e caverne della terra. E tutti questi lodati colla testimonianza renduta alla loro fede, non conseguirono la promissione; avendo disposto Dio qualche cosa di meglio per noi affinché non fossero perfezionati senza di noi. »[Ibid., 35 e seg.]. Ecco ciò che il mondo ha visto; ed ecco ciò che ha inteso. In nome di tutti questi allievi della forza, egli ha sentito Paolo che getta questa sublime sfida a tutte le potenze nemiche: « Io non temo nulla: imperocché io posso tutto in Colui che mi fortifica. Chi ci separerà dall’amore di Gesù Cristo? La tribolazione o l’angoscia o la fame? o la nudità? o il pericolo? o la persecuzione, o la spada?… Io sono assicurato che né la morte, né la vita, né gli angeli, né i principati, né le potenze, né le cose presenti, né le future, né la violenza, né tutto ciò che vi è di più alto o di più’ profondo, né nessun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù. »[ Act. XX, 24; Philipp., IV, 13; Rom., VIII, 35-89]. – Ha inteso Teresa che piglia per divisa: “O patire o morire”. Ha sentito una delle figlie di Teresa, Maddalena de’ Pazzi, ancor più sublime, se è possibile, di sua madre, che dice: “patire e non morire”. Ha sentito Giovanni della Croce, riassumente tutti i suoi voti in queste parole: “soffrire ed esser disprezzato per amor di Dio”. – Quanti altri accenti non meno ignoti al mondo pagano, non hanno risuonato nell’umanità cristiana dal giorno in cui lo spirito di fortezza è disceso su di lei. E per credere al Cristianesimo, vi è ancora chi chiede dei miracoli! – qual’è la necessità del dono di fortezza? Dopo quel che abbiamo detto, una simile questione sembra superflua. Ciò non è nulla. In quanto al dono di fortezza, come in quanto agli altri doni dello Spirito Santo, l’uomo si trova nell’alternativa che non si sfugge, che abbiamo segnalata: o vivere sotto l’impero dello spirito di fortezza, o vivere sotto la tirannia dello spirito contrario. E qual è? lo Spirito di accidia. [“Spiritus fortitudinis illummat Spiritum tristem accidiae, quae propter taedium laboris sùbterfugit viriliter bona operari, infirmitate victus sensualitatis. S. Anton., IV p., tit. X, c. I, p. 158]. – Vediamo in che consiste e quel che fa dell’uomo e del mondo. L’accidia è un torpore spirituale che ci impedisce di adempiere ai nostri doveri. 3 3 [“Acedia est torpor mentis bona spiritualia inchoare abhorrentis et inchoata perfìcere fastidientis.” Ferraris, verb. Acedia]. È il cloroformio di Satana. Appena che questo virus si é insinuato nel l’anima, subito la rende pesante e gli dà delle nausee per tutto ciò che è bene spirituale. – Il suo fine supremo, l’amicizia di Dio in questo mondo, la sua gloria nell’altro, i mezzi di giungervi, i doveri, le virtù, le istruzioni cristiane, le. feste, i sacramenti, la preghiera, le buone opere, la religione tutta quanta, le è grave e di disgusto. – Di qui nasce, secondo la spiegazione di san Gregorio, la pussillanimità, pussillanimitas) specie d’abbattimento e di mollezza, di fronte a una obbligazione sia pure poco costosa: come, per esempio, il digiuno, l’astinenza, la mortificazione dei sensi o della volontà; la tiepidezza, torpor, che fa tralasciare il dovere o che non lo compie che imperfettamente e per mezzo di quietanza; il divaga mento dello spirito, mentis evagatio, il quale negli esercizi di religione, è dappertutto altrove che alla presenza di Dio; l’instabilità del cuore, instabilitas cordis, le cui incostanze nel bene sono meno facili a contare dei movimenti di canna agitata da venti contrari; la malizia, malitia, all’idea dei doveri imposti all’uomo ed al cristiano, il pigro si pone a lagnarsi d’essere nato, e specialmente nato in seno al Cristianesimo; l’odio, rancor, pel sacerdote e per chiunque gli predica le sue obbligazioni o anche per gli oggetti materiali che gliene richiamano la reminiscenza; la fomentazione di tutti i vizi, imperocché sta scritto dell’ozio, figlio dell’accidia, ch’egli insegna ogni sorta di male; finalmente lo scoraggiamento, la disperazione e l’impenitenza finale. [Apud Ferraris, verb. Acedia]. – Si capisce ciò che deve diventare un uomo, un popolo, un mondo, sotto la tirannia d’un demonio simile. Se nulla è più brillante del quadro tracciato dallo stesso Spirito Santo, degli allievi del dono di fortezza, nulla è più triste del ritratto degli schiavi dello spirito d’accidia. – Essere degradato, senza energia per il bene, stupidamente indifferente per i suoi interessi eterni, confondendo tutte le religioni in un comune disprezzo, a fine di non praticarne nessuna, immerso nella materia, l’accidioso spirituale, uomo, popolo, o mondo, vuole e non vuole. Ha orecchie e finge di non sentire; occhi e finge di non vedere; piedi e non cammina; mani e non lavora.Ei rassomiglia alla porta che si apre e si serra venti volte al giorno e che la sera si trova sempre sui suoi cardini. Ei si nasconde la mano sotto l’ascella, ed è gran fatica per lui il portarla alla bocca.11 [Prov., XXXVI, 18, 15]. – Non solamente quest’uomo, questo popolo, questo mondo si degrada, ma altresì si impoverisce in verità e virtù. Ascoltiamo ancora lo Spirito Santo: « Il leone è sulla via, dice il pigro; se io esco fuori sarò divorato. Inoltre sono passato per il campo del pigro, e l’ho trovato pieno di ortiche, tutto coperto di spine, e la siepe distrutta. Vai dunque o pigro a guardare la formica, ed istruisciti alla sua scuola. Durante l’estate essa accumula per l’inverno. E fino a quando, o pigro, dormirai tu, fino a quando farai vedere il bianco per nero? – « Ecco che viene a te l’indigenza, come un viaggiatore, e la povertà come un’ armato. Agresto ai denti, fumo agli occhi: tale ó il pigro per colui che l’adopra. S’egli è tale per gli uomini, che cosa sarà per Iddio? – Spada immobile che si arrugginisce, piede inerte che si intorpidisce, veste non portata che la tignola divora, acqua stagnante di cui si formano e brulicano insetti più disgustosi, cibo stucchevole che la bocca rigetta e che non riprende mai più. Non bisogna lapidare il pigro con pietre, perché non è degno, ma bensì con lo sterco dei bovi.1 »1 [“De stercore boum lapidatus est piger; et omnis qui tetigerit eum excutiet manum ejus”. Eccl., XXII, 2 ; XXIII, 29; Prov., VI, 11; id., X, 26 ; id., XIII, 4 ; id., XXIV, 30. “De stercore boum”, dicono i commentatori, perché il bove è il modello del lavoro.

 

Visita al SANTISSIMO SACRAMENTO

VISITA

Al Santissimo Sacramento

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In Nomine Patris , et Filii etc.

Deus, in adjutorium meum intende; Domine, ad adjuvandum me festina. Gloria Patri etc.

Antif. O Sacrum Convivium, in quo Christus sumitur; recolimur memoria Passionis ejus; meus impletur gratia, et futurae gloriae, nobis pignus datur. Alleluja.

Adorabile mio Gesù, che avete riunita la vostra infinita Carità, la vostra infinita Sapienza, e la vostra Onnipotenza nell’Augustissimo Sacramento dell’Altare, profondamente vi adoro in quel Tabernacolo di misericordia, e di grazie, ove quanto più ve ne state nascosto, e come annientato ai nostri sensi, tanto più siete manifesto, e amabile alla nostra Fede. Sacerdote eterno, vi ringrazio, che volete supplire in questo altissimo Mistero alla nostra insufficienza, adorando degnamente Dio per noi. Vi ringrazio, che c’insegnate ad offerirci insieme con Voi al vostro Padre Celeste; Vi dono per sempre quanto ho, quanto sono, e quanto posso, e Vi domando con cuore contrito umilmente perdono delle tante mie colpe, che furono la causa della vostra morte. – Mio Sacramentato Gesù, riguardatemi da quel Trono di Amore con quella stessa pietà, con la quale dall’Atrio del Principe de’ Sacerdoti riguardaste il diletto vostro Discepolo Pietro, e come nel Convito rimiraste la dolente Maddalena, e dalla Croce il buon Ladrone, perché con l’Apostolo Pietro continuamente io pianga i miei peccati, con la penitente Maddalena vi ami di perfetto amore, e col ravveduto Ladrone sia fatto degno di giungere a lodarvi, e ringraziarvi in eterno. – Siate benedetto, mio Divin Redentore, vittima di salute immolata una volta sull’Altare della Croce, e continuamente offerta per noi sugli Altari della Chiesa per meritarci le benedizioni del Cielo. – O Frutto benedetto del seno purissimo di Maria e dell’Albero della Croce, dateci, Vi prego, quella benedizione che per i meriti della vostra Santissima Passione arricchisce le anime di forza, di santità, di consolazione, e di pace. – Benedite la mia memoria, perché si ricordi sempre di Voi; benedite il mio intelletto, perché pensi unicamente a Voi; benedite la mia volontà, perché non ami che Voi; benedite i miei affetti, perché non mi allontanino mai da Voi; benedite le persone, che mi appartengono, perché si riposino in Voi; benedite i beni che mi date, perché mi servano di mezzo per venire a Voi; benedite i miei parenti, amici e nemici, perché siamo tutti uniti in Voi; benedite i mali, e le afflizioni, che Vi piacerà di mandarmi, perché le offra pazientemente per amore di Voi; e benedite le Anime del Purgatorio, e specialmente quelle, per le quali ho maggior obbligo di pregarVi, perché presto volino a Voi. – Ecco, o mio dolcissimo Gesù, le benedizioni che Vi chiedo; e Vi supplico a volermele concedere promettendoVi, che nell’avvenire Vi adorerò come mio Dio, Vi obbedirò come mio Re, e Vi ascolterò come mio Maestro: Voi sarete sempre l’oggetto delle mie adorazioni, e lo scopo de’ miei desideri pel tempo, e per l’eternità. – Molto io Vi domando, o Signore, ma infinitamente più grande de’ miei desideri è la vostra beneficenza; onde, sicuro delle vostre misericordie, prima di allontanarmi da questo santo Altare:

Signor mio Gesù Cristo, adoro la Piaga della vostra mano destra, e per quel sangue che dalla medesima versaste, Vi prego a darmi una invincibile fortezza contro i miei capitali nemici: demonio, mondo e carne, onde io possa dire col Profeta: “La vostra destra, mi ha difeso dalle insidie infernali; la vostra destra operò in me ogni virtù, e benedizione. Amen. Pater, Ave, Gloria.

Signor mio Gesù Cristo, adoro la Piaga della vostra mano sinistra, e per quel sangue, che dalla medesima versaste, Vi prego a munirmi con lo scudo di una viva Fede, di una ferma Speranza e di una Carità perfetta, per non avermi a trovare nella valle di Giosafat con i reprobi alla sinistra. Amen. Pater, Ave , Gloria.

Signor mio Gesù Cristo, adoro la Piaga dei vostro Piede destro, e per quel sangue, che dalla medesima versaste, Vi prego a guidarmi pel diritto sentiero delle sante Virtù, perché giunga a quel beato fine, per cui mi avete creato, e redento. Amen. Pater, Ave, Gloria.

Signor mio Gesù Cristo, adoro la Piaga del vostro piede sinistro, e per quel sangue, che dalla medesima versaste, Vi prego ad innamorarmi dei patimenti e delle umiliazioni, perché, morto a me stesso, viva unicamente, in Voi, che siete la Via, la Verità, e la Vita. Amen. Pater, Ave, Gloria.

Signor mio Gesù Cristo, adoro la Piaga del vostro SS. Costato, e del vostro Cuore amoroso, e per quel sangue e quell’acqua, che dalla medesima versaste, Vi prego a non permettere, ch’io passi all’altra vita senza esser munito de’ SS. Sacramenti da quella misticamente emanati, affinché esali lo spirito mio in quel Porto sicuro di eterno riposo. Amen. Pater, Ave, Gloria.

V. – Adoramus te, Christe, et benedicimus tibi;

R. -Quia per Sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Oremus.

Deus, qui Unigeniti Filii tui Domini nostri Jesu Christi Passione, et copiosa per sancta vulnera sui Sanguinis effusione humanam naturam peccato perditam reparasti, concede propitius, ut qui ejus Stigmata venerando colimus, haec in nostris cordibus impressa moribus et vita teneamus. Per eumdem Christum etc.

Signor mio Gesù Cristo, per la vostra SS. Vita, Passione, e Morte, per la crudelissima Coronazione di Spine, e per i sublimi meriti di Maria Vergine Addolorata vostra beatissima Madre, e di tutti i Santi, caldamente Vi supplico ad esaltare sempre più la S. Romana Chiesa, ad unire in pace i Principi Cristiani, a distruggere l’Eresie, a conservare nella Grazia i Giusti, a convertire i peccatori e gl’increduli, a liberare le anime purganti, e a concedermi il frutto delle sante Indulgenze, affinché tutti cantiamo in eterno le vostre misericordie. Amen. Pater, Ave, Gloria.

V.- Domine, exaudi Orationem meam.

R.- Et clamor meus ad te veniat.

Oremus.

Ecclesiae tuae, quaesumus, Domine, preces placatus admitte, ut destructis adversitatibus, et erroribus universis, secura tibi serviat libertate. Deus omnium Fidelium Pastor, et Rector, Famulum tuum Gregorium, quem Pastorem Ecclesiae tuae praeesse voluisti, propitius respice; da Ei, quaesumus, verbo, et exemplo, quibus praeest proficere, ut ad vitam una cura Grege sibi credito perveniat sempiternam. Per Christum etc.

INNO

Tantum ergo Sacramentum

Veneremur cernui,

Et antiquum documentum

Novo cedat ritui;

Praestet fides supplementum

Sensuum defectui.

Genitori, Genitoque

Laus, et jubilatio,

Salus, honor, virtus quoque

Sit, benedictio;

Procedenti ab utroque

Compar sit laudatio. Amen.

V.- Panem de coelo praestitisti eis.

R.- Omne delectamentum in se habentem.

Oremus.

Deus, qui nobis sub Sacramento mirabili passionis tuae rnemoriam reliquisti, tribue, quaesumus, ita nos Corporis, et Sanguinis tui sacra mysteria venerari ut redemptionis tuae fruetum in nobis jugiter sentiamus. Qui vivis, et regnas per omnia saecula saeculorum. Amen.

Divinum auxilium maneat semper nobiscum. Amen.

Et Fidelium Animae per misericordiam Dei requiescant in pace. Amen.

Sia laudato e ringraziato ogni momento il Santissimo e Divinissimo Sacramento. Santus Sanctus Sanctus, Dominus Deus exercituum, plena est omnis terra gloria tua, gloria Patri, gloria Filio, gloria Spritui Sancto. Amen.

Misereatur nostri omnipotens Deus, et dimissis peccatis nostris, perducat nos ad vitam aeternam. Amen.

Indulgentiam, absolutionem, et remissinem peccatorum nostrorum tribuat nobis omnipotens, et misericors Dominus. Amen.

Benedicat nos Deus, Deus noster; benedicat nos Deus, et metuant eum omnes fines terrae. Amen.

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Questo esercizio di pietà è tra i più importanti in assoluto tra le pratiche della Religione Cattolica, e da farsi ogni giorno. Il pio compilatore del volumetto : “La via del paradiso” [Siena 1823 – con imprim.] così si esprime: “Non mancate di rendere i vostri omaggi ogni giorno al SS. Sacramento, e alla sua SS. Madre. “.

Nel caso la chiesa sia chiusa, lo stesso esercizio può farsi a casa propria rivolgendosi, col cuore, l’anima e possibilmente anche con il corpo, al Tabernacolo più vicino. Lo stesso vale per i Tabernacoli ove non c’è certezza della Consacrazione fatta in modo invalido o illecito, o da un falso prete sacrilego [= – 1° ordinato da un falso vescovo modernista consacrato dopo il 1968 con la formula sacrilega, invalida ed eretica di Montini, l’antipapa sedicente Paolo VI;   -2° un prete falso della radice di Lienart, o un sedevacantista, formale o materiale, scismatico]. In questo caso la Visita risulterebbe sacrilega, e quindi peccato contro la fede ed il primo comandamento! Attenzione quindi, siate molto prudenti ed attenti nel non sbagliare obiettivo, confondendo il sacro con il sacrilego! Le conseguenze sarebbero disastrose.

HOC FAC, ET VIVES !

 

La strana sindrome di nonno Basilio: 30

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La strana sindrome di nonno Basilio 30

     Carissimo direttore, eccomi col mio aggeggio elettronico per ragguagliarla sulle vicende strane che mi coinvolgono oramai da tempo, nel cercare di comprendere le anomalie che sembrano dominare la “scena di questo mondo” oramai ribaltata nei valori di un tempo, scena che si propone sempre più tragica, senza che alcuno ne comprenda l’epilogo al quale si sta avviando. Ma veniamo al dunque. Qualche giorno fa, mi trovavo nel mio studiolo a consultare un volume di Storia della Chiesa, e mi ero soffermato sulla voce “Pelagianesimo e Neopelagianesimo”. Come lei certamente saprà, si tratta di una eresia del lV secolo, sostenuta da un monaco bretone, certo Pelagio, che minò il Cristianesimo dell’epoca. Essa – lo sintetizzo per quei due o tre lettori che se ne fossero dimenticati – sosteneva la naturale capacità dell’uomo ad ottenere la salvezza col solo uso della ragione e della libertà e senza l’intervento soprannaturale di Dio, e negava, insieme alla sostanza e alle conseguenze del peccato originale, l’assoluta necessità della Grazia per le opere soprannaturali. Il peccato originale, nel senso inteso dalla Chiesa, per Pelagio non esisteva; l’uomo infatti, secondo questa strampalata teoria, all’opposto di quella ancor più strampalata di Lutero e Calvino, nasce senza alcuna macchia, con una perfetta integrità di natura simile a quella con cui Adamo uscì dalle mani del Creatore; il peccato del primo uomo non portò, secondo il bretone, alcun nocumento né alcuna conseguenza nella posterità, fu però un cattivo esempio, e intanto si potrebbe parlare di peccato originale in quanto gli uomini peccano a somiglianza di Adamo. Di conseguenza: né il Battesimo è di assoluta necessità per la vita eterna – anche se però è richiesto per far parte della Chiesa [come una cerimonia di introduzione o iniziazione ad una qualsiasi associazione o conventicola]-, né è necessaria la grazia per le opere soprannaturali, e neppure la Redenzione deve essere considerata come un riscatto. A ben vedere è quello che sostiene la filosofia di base delle conventicole dei “figli della vedova” e del “modernismo” attuale, infiltratosi con gli usurpatori delle poltrone ecclesiastiche e delle giurisdizioni. Fu il santo Vescovo di Ippona Agostino a combattere tenacemente il Pelagianesimo, condannato poi solennemente da Papa Zosimo (Epistola tractoria) e definitivamente dal Concilio di Efeso del 431. Immerso nelle mie considerazioni non mi ero accorto dell’ingresso di Caterina, mia nipote, con in braccio un tenero “fagottino”, una splendida bimba neonata, figlia della sua, ed adesso anche mia, amica Angelica. Nel complimentarmi con la neo-mamma, colgo l’occasione di chiederle (mia moglie direbbe: “ma perché non ti fai i fatti tuoi?”), se la bimba fosse stata già battezzata. Lei, con grande affabilità, mi risponde che no, non lo era stata ancora, anche perché il suo parroco le aveva detto che non c’era alcuna fretta. “…. Ma come, dico io, ma questo è contro la logica ed il buon senso, che vuole che i genitori assicurino il meglio per il benessere fisico e, soprattutto, spirituale del loro bimbo, che non è un animaletto da ingrassare, spupazzare, mostrare in giro, ma un’anima immortale, destinata alla gloria eterna! Quindi, il suo bene spirituale, in assoluto la cosa più importante, esige che lo si liberi subito dal “peccato originale” per dargli, al più presto, la vita divina. Forse che questo non è un “dono”? E che dono! “Mirabiliter creasti, mirabilius reformasti” (si diceva un tempo nell’Offertorio della Messa, ora… così piatto … ma di questo ci occuperemo in altra sede!). Inoltre il “farfariello” (come mia nonna Margherita appellava l’innominato nostro nemico) è libero di fare i suoi comodi in un’anima sprovvista di ogni difesa spirituale!!… ed i cui risultati si osserveranno negli anni, quando sarà poi difficilissimo recuperare il tempo perduto! Ma a questo punto arriva l’immancabile Mimmo, che interrompe il mio discorsetto, con il solito fare beffardo, dicendo: “ Ma nonno, ti faccio leggere qui nel “Rapporto sulla fede”, (ma la fede in chi? … libro scritto nel 1984 da un noto giornalista con un cardinale ritenuto tradizionalista, ma in realtà un ultra-modernista, il classico “lupo vestito da agnello”, direbbe lo zio Tommaso, sacerdote “integrale”, che lo avrebbe segnalato senza indugi al Sodalitium planum!)… guarda qui …. parlando del “Limbo” si dice: «Il Limbo non è mai stato una verità definita di Fede. Personalmente, lascerei cadere questa che è sempre stata soltanto unʼipotesi teologica». Ah, rispondo io sbigottito, così, il “Limbo dei bambini”, durato 800 anni, oggi, non è considerato più dogma da questo finto cardinale illuminato, è stato abbandonato per sempre”. “Certo, ribatte Mimmo, tanto più che il 19 gennaio 2001, questo stesso cardinale approvava il Documento della “Commissione Teologica Internazionale” dando le basi teologiche e liturgiche alla “speranza” che i bambini morti senza Battesimo, siano salvi e godano della visione beatifica”. “Ah, quindi -sono ancora io – lʼabolizione del Limbo non sarebbe più un problema dogmatico, ma solo pastorale!”. “E sì, lo dice anche il mio parroco – Mimmo all’arrembaggio! – non ci dovrebbe più essere il Limbo, perché la Chiesa ha sempre ritenuta questa come una questione aperta, non dogmatica, tanto che, nel “Catechismo della Chiesa cattolica” del 1992, il Limbo non è neppure citato”. Direttore, non le dico la mia pressione alla notizia blasfema della cancellazione del “Limbo” dalla teologia (che per 800 anni quindi è stata sbagliata, corretta oggi dai supermodernisti che non sanno più che “veritas Domini manet in aeternum”), prova ulteriore che si sta eliminando tutto ciò che è Tradizione della Chiesa, per tranquillizzare e rassicurare intanto gli abortisti dellʼandata in Paradiso anche dei bambini trucidati dal folle omicidio dell’aborto, abbracciando così la “dottrina a-cattolica” della “salvezza universale”, per cui si salverebbero anche coloro che sono rei nel “Peccato Originale”, nonché blasfemi, sacrileghi, peccatori di ogni tipo, adulteri e pederasti orgogliosi! Ma questa, esimio direttore, lei ben lo comprende, è unʼopinione che offende la Sacra Scrittura, la Sacra Tradizione e lʼunanime opinione dei “Padri della Chiesa”, da cui trae origine il “dogma cattolico”. Questo mi fa venire alla mente lo zio Pierre, il “complottista”, di cui li ho già parlato, che sempre diceva che nel “Nuovo Ordine Mondiale”, l’ordine a cui vuole assoggettarci il potere dei reprobi figli di Beliaal, non esiste alcun peccato, non esiste lʼInferno, non esiste neppure il Purgatorio. Quindi il cardinale “lupo travestito” ha accettato il “nonsenso” che la “Misericordia Divina” salva tutti indistintamente, anche quelli che non vogliono la salvezza, cancellando il Sacrificio redentore del Cristo (mi chiedo e le chiedo: ma questo cardinale sarà battezzato, o è, come direbbe lo zio Pierre, un marrano d.o.c., discendente dai kazari, coloro che si dicono ebrei, ma non lo sono? …). Ma questa è pura eresia!! È l’eresia vecchia e tenebrosa dell’apocatastasi o del panteismo o del “Cristo cosmico” (che sono poi – essenzialmente – la stessa cosa), mi scaldo con Mimmo, non si può rigettare un dogma “de fide” della Chiesa Cattolica, definito, e te lo dimostro subito, da diversi veri Concili dogmatici secondo il quale il “peccato” di Adamo ed Eva ha fatto perdere la Grazia santificante attraverso il “Peccato Originale”, per cui questo alberga in ogni anima non battezzata. “E poi, caro Mimmo, guarda che questo cardinale è un ignorante e dei peggiori, poiché finto ignorante, perché questo insegnamento fu codificato nel XVI Concilio di Cartagine nel 418, dal Secondo Concilio di Lione nel 1274, nel Concilio di Firenze nel 1436-1445,….; nel 1546, nel Concilio di Trento. Per chi volesse contestare, come i parroci di Mimmo o della povera sprovveduta Angelica, consiglio di riaprire il Denzinger (lo facciano però ben spolverare, mi raccomando!) al num. 410 – lettera di Innocenzo III all’Arcivescovo di Arles -, al num. 796 (definizione del Concilio di Trento) “dopo l’annunzio del Vangelo questo passaggio [allo stato di grazia] non può avvenire senza il lavacro della rigenerazione o senza il desiderio di esso”, ed infine al n. 1526, ove è riportata la bolla di Pio VI “Auctorem Fidei” del 28 agosto 1794. Ma questa, mi consenta direttore, la voglio proprio ricordare a lei e ai suoi cari lettori, per fugare ogni dubbio, eccola: “Della pena di quelli che muoiono col solo peccato originale. Del Battesimo, § 3. XXVI. [È condannata come falsa, temeraria, ingiuriosa per le scuole cattoliche] la dottrina che rigetta come una favola Pelagiana quel luogo dell’Inferno (che i fedeli comunemente chiamano Limbo dei fanciulli) nel quale le anime di coloro che muoiono con la sola colpa originale sono puniti con la pena del danno [privazione della visione di Dio], senza la pena del fuoco, come se, ammettendone l’esistenza ed escludendone la pena del fuoco, per questo stesso si ammettesse un luogo ed uno stato di mezzo, privo di colpa e di pena, fra il Regno di Dio e la dannazione eterna, come favoleggiavano i Pelagiani. [Cfr. Denzinger, Enchiridion Symbolorum, n. 1526]. Mimmo ed Angelica, aprite il Vangelo, e con questo rispondete a chi vuole ingannarvi coscientemente o meno, ma sempre colpevolmente!! Dite loro che sono falsi, temerari, ingiuriosi. “Nessuno, se non rinasce per acqua e Spirito Santo, può entrare nel Regno di Dio” (Jo. III, 5), che – ha precisato la Chiesa contro i sofismi dei pelagiani e dei modernisti apostati – è la vita eterna e quindi la visione beatifica. Si vadano a leggere, questi soloni modernisti, quelli della società dei M.A.M. [lo zio Pierre, pittorescamente indicava quelli del conciliabolo da lui definito il vat’inganno, come Marrani, Apostati, Modernisti, quindi M.A.M. Che soggetto!]. San Gregorio Nazianzeno (In sanctum Baptisma n. 23, PG, t.36, col. 390) e San Gregorio di Nissa (De infantibus qui premature moriuntur, PG, t. 46, col. 177, 180), gli scolastici Sant’Anselmo di Canterbury, Ugo di San Vittore, Pietro Abelardo, e se non hanno i testi (visto che le loro biblioteche sono piene solo di luridume, ciarpame e sterco modernista), che almeno ricordino S. Agostino: “Chiunque dica che saranno vivificati in Cristo anche i bambini che muoiono senza aver partecipato al suo Sacramento certamente contraddice la predicazione apostolica e condanna tutta la Chiesa, dove ci si affretta a battezzare i bambini perché indubbiamente si crede che essi non possano con nessun altro mezzo essere vivificati in Cristo”. (Epist. CLXVI, cap. VII, n. 21, ed. Migne), ed ancora: “Se vuoi essere cattolico, non credere, non dire, né insegnare che i bambini morti senza Battesimo possano ottenere la remissione del peccato originale” (De anima et eius origine, lib. III, cap.9). Caro direttore ce ne sarebbe per giornate intere di citazioni, ma voglio limitarmi a citare il “mio” Papa, l’è-un-genio Pacelli, Pio XII, che ha parlato dell’argomento ancora il 29 ottobre del 1951: “non vi è altro mezzo [che il Battesimo di acqua] per comunicare questa vita [soprannaturale] al bambino, che non ha ancora l’uso della ragione”, con buona pace di tutti i novatori, usurpatori, agnelli travestiti, volponi illuminati e gattoni della pampa. Per concludere, dico all’allibita Angelica ed al divenuto furente Mimmo: “La negazione del Limbo è di una  gravità smisurata, poiché i princìpi da cui deriva sono smisuratamente falsi” (naturalismo, panteismo, “Cristo cosmico”, diritto alla grazia da parte della natura: gnosticismo puro, e la gnosi si sa, è la dottrina di satana!), errori tutti già confutati e condannati, ma oggi riproposti a noi dalla banda dei … “soliti noti”, quelli appunto del M.A.M. . Vedrà, direttore, questo cardinale “marrano” per i suoi “meriti e servigi resi al modernismo” sarà anche fatto “papa” (attento, non “Papa”!), o meglio ancora “pap’occhio” … ed io chiedo a Mimmo: “… ma secondo te, uno che pecca contro lo Spirito Santo (impugnare la verità conosciuta e definita dal Magistero irreformabile della Chiesa, oltre che dalla Tradizione e dalla Sacra Scrittura – “non contraddire alla verità, ma vergognati della tua ignoranza”: Sir. IV-25), peccato che Gesù, nel Vangelo, ci assicura non essere perdonato né in cielo né in terra (ad es. in S. Matt. XIV,31-32), potrà mai essere un Papa, la voce di Cristo in terra, assistito dallo Spirito Santo, o non piuttosto il vicariuccio dell’anticristo? Con questo interrogativo amletico, (ai teologi l’ardua “banale” sentenza!), saluto Angelica e le sua piccola, deliziosa bimba, che intanto comincia a frignare per la fame. Caro direttore, adesso la saluto e se ha un poco di tempo passi, lei con i suoi lettori, a mangiare i confetti del Battesimo della piccola Pia (chiamata così in omaggio al “mio” Papa, Eugenio Pacelli, S.S. Pio XII), fatta rapidamente battezzare da un parroco imbarazzato ed esterrefatto dalla determinazione di Angelica. Intanto ne sgranocchio uno io … oh sono proprio buoni!! (… ah se mi vedesse Genoveffa, mia moglie!… ma non glielo dica se la vede, la prego! Grazie). L’aspetto per i confetti, venga ne vale la pena, non è peccato di gola ma un augurio affettuoso di santità alla bimba.! Alla prossima, suo nonno Basilio.

SANT’ANNA, MADRE DELLA BEATA VERGINE MARIA

26 LUGLIO

SANT’ANNA, MADRE DELLA BEATA VERGINE MARIA

[Dom Guéranger: L’anno liturgico, vol. II]

S. Anna

L’avola di Gesù.

Unendo il sangue dei re a quello dei pontefici, Anna appare ancor più gloriosa della sua ineguagliabile discendenza. La più nobile di tutte le donne che concepirono in virtù del Crescete e moltiplicatevi dei primi giorni (Gen. 1, 28), ad essa si arresta, come giunta al suo vertice, come alla soglia di Dio, la legge di generazione di ogni carne, poiché dal suo frutto deve uscire Dio stesso, figlio unicamente quaggiù della Vergine benedetta, e insieme nipote di Anna e di Gioacchino. – Prima di essere favoriti della più sublime benedizione che unione umana dovesse ricevere, i due santi avoli del Verbo fatto carne conobbero l’angoscia che purifica l’anima. Alcune tradizioni la cui espressione, insieme con particolari di scarsissimo valore, risale alle origini stesse del cristianesimo, ci mostrano gli insigni sposi sottoposti alla prova d’una lunga sterilità, soggetti per quel motivo al disprezzo del loro popolo, Gioacchino respinto dal tempio che va a nascondere la sua tristezza nel deserto, e Anna rimasta sola a piangere la sua vedovanza é la sua umiliazione. Quale squisito sentimento in questo racconto, paragonabile ai più stupendi che ci abbiano conservato i Libri Santi! « Era il giorno d’una grande festa del Signore. Anna, non ostante la sua estrema angoscia, depose le sue vesti di lutto, si ornò il capo e si vestì della sua veste nuziale. E verso la nona ora discese nel giardino per passeggiare; e vedendo un lauro, sedé alla sua ombra ed effuse la sua preghiera al cospetto del Signore Iddio, dicendo: “Dio dei miei padri, benedicimi ed esaudisci le mie suppliche, così come hai benedetto Sarà e le hai dato un figlio!» E levando gli occhi al cielo vide sul lauro un nido di passeri, e gemendo disse: Oh! Quale seno mi ha portata, perché io fossi così la maledizione in Israele?»A chi paragonarmi? Non posso paragonarmi agli uccelli del cielo, poiché gli uccelli sono benedetti da te, o Signore.» A chi paragonarmi? Non posso paragonarmi agli animali della terra, poiché anch’essi sono fecondi al tuo cospetto.» A chi paragonarmi? Non posso paragonarmi alle acque, poiché esse non sono sterili al tuo cospetto, e i fiumi e gli oceani ricolmi di pesci ti lodano quando sono agitati o quando scorrono pacificamente.» A chi paragonarmi? Non posso paragonarmi nemmeno alla terra, poiché anche la terra porta i suoi frutti al tempo stabilito, e ti benedice, o Signore ».

Nascita della Madonna.

« Or ecco sopraggiungere un Angelo del Signore che le disse: Anna, Dio ha esaudito la tua preghiera; tu concepirai e partorirai, e il tuo frutto sarà celebrato in ogni terra abitata.» E giunto il tempo, Anna diede alla luce una figlia, e disse: La mia anima è magnificata in quest’ora. E chiamò la figlia Maria; e dandole il seno, intonò questo cantico al Signore:» Canterò la lode del Signore mio Dio, poiché egli mi ha visitata, ha allontanato da me l’obbrobrio, e mi ha dato un frutto di giustizia. Chi annuncerà ai figli di Ruben che Anna è divenuta feconda? Ascoltate, ascoltate, o dodici tribù: ecco che Anna allatta! » (Protovang. Di Giacomo). – La festa di Gioacchino, che la Chiesa ha posta dopo la festa dell’Assunzione della sua beata figlia, ci permetterà di completare presto l’esposizione così dolce di prove e di gaudi che furono anche i suoi. Avvertito dal cielo di lasciare il deserto, aveva incontrato la sposa sotto la porta Dorata che dà accesso al tempio dal lato orientale. – Non lontano, presso la piscina Probatica, dove gli agnelli destinati all’altare lavavano la loro candida lana prima di essere offerti al Signore, si eleva oggi la restaurata basilica di sant’Anna, chiamata in origine Santa Maria della Natività. È qui che, nella serenità del paradiso, germogliò sul tronco di Jesse il benedetto ramoscello salutato dal Profeta (Is. XI, 1) e che doveva portare il divin fiore sbocciato nel seno del Padre da prima dei secoli. Sephoris, patria di Anna, e Nazareth dove visse Maria, disputano, è vero, alla Città santa l’’onore che reclamano qui per Gerusalemme antiche e costanti tradizioni.- Ma i nostri omaggi certo non potrebbero deviare quando si rivolgono in questo giorno alla beata Anna, vera terra incontrastata dei prodigi il cui ricordo rinnova il gaudio del cielo, il furore di satana e il trionfo del mondo.

Anna, Santuario dell’Immacolata.

 Nell’aureola di incomparabile pace che la circonda, salutiamo in essa anche la terra di vittoria che oscura tutti i più famosi campi di battaglia: santuario dell’Immacolata Concezione, qui fu ripresa dalla nostra stirpe umiliata la grande battaglia (Apoc. 12, 7-9) iniziata presso il trono di Dio dalle celesti falangi; qui il drago scacciato dal cielo si vide schiacciare il capo, e Michele superato nella gloria lascia felice alla dolce sovrana che in dal suo destarsi all’esistenza si rivelava tale, il comando degli eserciti del Signore. – Qual labbro umano potrà descrivere l’ammirato stupore degli angelici Principati, allorché la serena compiacenza della Santissima Trinità, passando dagli ardenti Serafini fino alle ultime schiere dei nove cori, fece chinare i loro sguardi di fuoco alla contemplazione della santità sbocciata d’un tratto nel seno di Anna? Il Salmista aveva detto della Città gloriosa le cui fondamenta si celano in colei che prima fu sterile: “Le sue fondamenta sono poste sui monti santi” (Psal. LXXXVI, 1); e le gerarchie celesti che coronano i pendii dei colli eterni scoprono qui altezze ignote che esse mai raggiunsero, vette che si avvicinano tanto alla divinità che questa già si appresta a porvi il suo trono. – Come Mose alla vista del roveto ardente sull’Horeb, esse sono prese da un sacro terrore, riconoscendo al deserto del nostro mondo da nulla il monte di Dio, e comprendono che l’afflizione d’Israele sta per cessare (Es. III, 1-10). Per quanto sotto la nube che ancora la copre, Maria nel seno di Anna è infatti già quel monte benedetto la cui base, il punto di partenza della grazia, sorpassa i fastigi dei monti dove le più sublimi santità create trovano il loro compimento nella gloria e nell’ amore.

Santità di Anna.

Oh, come giustamente dunque Anna, per il suo nome, significa “grazia”, essa che, per nove mesi, fu il luogo delle supreme compiacenze dell’Altissimo, dell’estasi dei purissimi spiriti, e della speranza di ogni carne! Senza dubbio fu Maria, la figlia e non la madre, che col suo profumo attrasse fin d’allora con tanta forza i cieli verso le nostre umili regioni. Ma è proprio del profumo di impregnare di sé innanzitutto il vaso che lo conserva e di lasciarvi anche quando ne è stato estratto, il suo aroma. Non è del resto usanza che anche quel vaso sia preparato con mille cure in precedenza, che venga scelto tanto più puro e di tanta più nobile materia, e sia rivestito di tanti più ricchi ornamenti quanto più squisita e rara è l’essenza che ci si propone di versarvi? Così Maria di Betania racchiudeva il suo prezioso nardo nell’alabastro (Mc. XIV, 3). Non crediamo che lo Spirito Santo, il Quale presiede alla composizione dei profumi del cielo, abbia potuto avere di tutto ciò minor cura degli uomini?

Compito materno di Anna.

Ora il compito della beata Anna fu lungi dal limitarsi, come fa il vaso per il profumo, a contenere passivamente il tesoro del mondo. Dalla sua carne prese un corpo colei in cui Dio a sua volta prese carne; dal suo latte fu nutrita; dalla sua bocca, per quanto fosse inondata direttamente della luce divina, ricevette le prime e pratiche nozioni della vita. Anna ebbe nell’educazione della sua sublime Figlia la parte di ogni madre; non solo ne guidò i primi passi, quando Maria dovette lasciare le sue ginocchia, ma fu veramente la cooperatrice dello Spirito Santo nella formazione di quell’anima e nella preparazione dei suoi ineguagliabili destini.

Patrocinio di Anna.

“Sic fingit tabernaculum Deo”, così essa ha creato un tabernacolo a Dio: era l’iscrizione che recavano, attorno all’immagine di Anna che ammaestrava Maria, i distintivi dell’antica corporazione degli ebanisti e dei falegnami la quale considerando la confezione dei tabernacoli delle nostre chiese dove Dio si degna di abitare come la loro opera più nobile, aveva preso sant’Anna come patrona e modello sublime. Felici tempi in cui quella che si suole chiamare la ingenua semplicità dei nostri padri andava così oltre nella comprensione pratica dei misteri che la stolta infatuazione dei loro figli si gloria di ignorare! – I lavori di fuso, di tessitura, di cucito, di ricamo, le cure dell’amministrazione domestica, decoro della donna forte esaltata nel libro dei Proverbi (Prov. XXXI, 10-31) radunarono naturalmente anche a quei tempi le madri di famiglia, le padrone di casa, le lavoratrici degli abiti sotto la diretta protezione della santa sposa di Gioacchino.- Più d’una volta, quelle che il cielo faceva passare attraverso la prova dolorosa che, sotto il nido di passeri, aveva dettato la commovente preghiera della beata madre di Maria, esperimentarono il suo potere d’intercessione per attirare anche sulle altre donne la benedizione del Signore.

Il culto in Oriente.

L’Oriente precede l’Occidente nel culto pubblico all’avola del Messia. Verso la metà del secolo vi, Costantinopoli le dedicava una chiesa. Il Typicon di san Saba riporta la sua commemorazione liturgica tre volte nell’anno: il 9 settembre, insieme con lo sposo Gioacchino; il 9 dicembre, in cui i Greci, che ritardavano di un giorno rispetto ai Latini la solennità dell’Immacolata Concezione della Vergine, celebrano tale festa con una motivazione che ricorda più direttamente la parte avuta da Anna al mistero; e infine il 25 luglio, che è chiamato Dormizione o morte preziosa di sant’Anna, madre della santissima Madre di Dio: sono le stesse espressioni che doveva adottare in seguito il Martirologio romano.

Il culto in Occidente.

Se Roma, sempre più riservata, autorizzò solo molto più tardi l’introduzione nelle Chiesa latina d’una festa liturgica di sant’Anna, non aveva tuttavia atteso per indirizzare in tal senso e incoraggiare la pietà dei fedeli. Fin dal tempo di san Leone III (795-806) e per espresso ordine dell’illustre Pontefice, veniva rappresentata la storia di Anna e di Gioacchino sui paramenti sacri destinati alle più illustri basiliche della Città eterna. L’ordine dei Carmelitani, così devoto di sant’Anna, contribuì potentemente, con la sua felice trasmigrazione nelle nostre regioni, allo sviluppo crescente d’un culto richiesto d’altronde quasi naturalmente dal progredire della devozione dei popoli alla Madre di Dio. Questa stretta relazione dei due culti è infatti richiamata nei termini della concessione con la quale, il 28 luglio 1378, Urbano VI soddisfaceva i voti dei fedeli dell’Inghilterra e autorizzava per questo regno la festa della beata Anna (Labbe, Les Conciles, XI, p. 11. col. 2050]. – Già nel secolo precedente, la Chiesa di Apt nella Provenza possedeva tale festa: priorità che si spiega con il fatto che essa pretendeva di essere in possesso del corpo di sant’Anna, che le sarebbe stato portato da alcuni Crociati dalla Terra Santa. Fu la Chiesa di Apt a far dono più tardi di quelle reliquie a molte chiese, e particolarmente all’insigne Basilica di san Paolo fuori le Mura. – Ma soltanto il 1 maggio 1584 Gregorio XIII ordinò la celebrazione della festa del 26 luglio nel mondo intero, con il rito doppio. – Leone XIII doveva, nel 1879, elevarla insieme a quella di san Gioacchino alla dignità delle feste di seconda Classe. Ma già in precedenza, nel 1622, Gregorio XV, guarito da una grave malattia per intercessione di sant’Anna, aveva messo la sua festa nel numero di quelle di precetto che impongono l’astensione dalle opere servili.

Auray.

Anna riceveva finalmente quaggiù gli omaggi dovuti al grado che essa occupa in cielo, e non tardava a riconoscere con nuovi benefici la lode più solenne che le veniva dalla terra. Negli anni 1623, 1624 e 1625 nel villaggio di Keranna presso Auray nella Bretagna, apparve a Ivo Nicolazic, e gli fece rinvenire nel campo di Bocenno da lui coltivato l’antica statua la cui scoperta avrebbe, dopo 924 anni di interruzione, ricondotto i popoli al luogo dove già l’avevano onorata gli abitanti dell’antica Armorica. Le grazie senza numero ottenute in quel luogo dovevano infatti risonare molto al di là delle frontiere d’una provincia alla quale una fede degna dei tempi antichi aveva meritato il favore dell’avola del Messia; sant’Anna d’Auray sarebbe stata presto annoverata fra i principali luoghi di pellegrinaggio del mondo cristiano.

Lode all’avola.

Più fortunata della sposa di Elcana, che ti aveva raffigurata con le sue prove e con il suo stesso nome (1 Re 1, 1), o Anna, tu canti ora le magnificenze del Signore (ibid. 2, 1-8). Dov’è la superba sinagoga che tanto ti disprezzava? I discendenti della sterile sono oggi innumerevoli; e noi tutti fratelli di Gesù, figli come lui di Maria che è tua figlia, guidati nel gaudio della nostra Madre ti presentiamo insieme con Lei i nostri voti in questo giorno. Quale festa più commovente in casa che quella della nonna, quando attorno ad essa, come oggi, vengono a radunarsi i suoi nipoti pieni di deferenza e di amore!

Preghiera per la donna.

O Madre, sorridi ai nostri canti, benedici i nostri voti. Oggi e sempre, sii propizia alle suppliche che salgono a te da questo luogo di prova. Esaudisci, nei loro desideri e nelle loro dolorose confidenze, le spose e le madri. Conserva, dove si è ancora in tempo, le tradizioni del focolare cristiano. Ma, purtroppo, quante famiglie in cui il vento di questo secolo è passato riducendo a nulla il lato serio della vita, indebolendo la fede, seminando solo impotenza, stanchezza, frivolezza, se non peggio, al posto dei fecondi e veri gaudi dei nostri padri! Oh, come il Savio, se tornasse fra noi, ripeterebbe ancora: « Chi troverà la donna forte?» (Prov. XXXI, 10). Essa sola infatti, con il suo ascendente, può ancora scongiurare quei mali, ma a patto di non dimenticare dove risiede il suo potere, cioè nelle più umili cure domestiche esercitate da essa stessa, nella dedizione che si dispensa senza rumore, nelle veglie notturne, nella previdenza continua, nel lavoro della lana e del lino, nel menare il fuso: tutte quelle forti cose (ibid. 13-18) che le assicurano fiducia e lode da parte dello sposo, autorità su tutti, abbondanza presso il focolare, benedizione del povero assistito dalle sue mani, stima del forestiero, rispetto dei figli, e per lei stessa, nel timore del Signore, nobiltà e dignità, bellezza e forza insieme, sapienza, dolcezza e letizia, e serenità nell’ultimo giorno (Prov. XXXI, 11-28).

Supplica per tutti.

O Sant’Anna, soccorri la società che muore per mancanza di quelle virtù che furono le tue. Le tue materne premure, le cui effusioni si son fatte più frequenti, hanno accresciuto la fiducia della Chiesa. Degnati di corrispondere alle speranze che essa pone in te. – Che la tua benedetta iniziativa ti faccia conoscere nel mondo a quelli dei nostri fratelli che ancora ti ignorassero. E quanto a noi che già da lungo tempo abbiamo conosciuto la tua potenza, esperimentato la tua bontà, lasciaci sempre cercare in te, o Madre, riposo, sicurezza, forza in qualunque prova. A chi si affida a te nulla può far paura quaggiù; ciò che il tuo braccio porta è ben portato.

 

p.s.: I redattori del blog augurano Buona FESTA a tutte le NONNE! AUGURI, possiate essere come S. Anna, santuario vivente della Madre del VERBO di DIO incarnato.

MATRIMONIO

MATRIMONIO

[da: I tesori di Cornelio Alapide]

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  • 1. Chi vuole abbracciare lo stato coniugale, deve prepararvisi. — 2. Scopo che deve proporsi chi va a matrimonio. — 3. Di quale benedizione si serva la Chiesa per santificare il matrimonio. — 4. Il matrimonio è degno di rispetto. — 5. Quale unione deve esistere tra gli sposi. — 6. Doveri dei coniugi: 1° Doveri della sposa; 2° Doveri dello sposo. — 7. Il matrimonio è inferiore alla verginità. — 8. Il matrimonio profanato. — 9. Castighi riservati ai profanatori del matrimonio.
  1. Chi vuole abbracciare lo stato coniugale, deve prepararvisi. — Udite innanzi tutto a questo proposito ravviso del concilio di Trento: « Esorta il santo Sinodo i fidanzati, che prima di contrarre il vincolo, o almeno tre giorni avanti di consumare il matrimonio, confessino diligentemente i loro peccati, e si accostino devotamente alla santa Eucaristia». « Casa e ricchezze ci vengono dai parenti, leggiamo nei Proverbi, ma solo da Dio ci viene la sposa assennata » (XIX, 14). E l’Ecclesiastico: « Marita la figlia tua e avrai fatto gran cosa; ma dalla ad un uomo saggio » (VII, 27). Ora, se è Dio solo che dà una moglie assennata, e i parenti fanno buona cosa solo quando uniscono la loro figlia a uno sposo prudente, ne consegue che è necessario prepararsi, come conviene a buoni cristiani, prima di entrare nello stato coniugale… D’altronde poiché il matrimonio cristiano è stato elevato da Gesù Cristo al grado di Sacramento dei vivi, ognuno vede che bisogna accostarvisi con le dovute disposizioni; da queste poi dipende la felicità e l’infelicità degli sposi. Bisogna apparecchiarvisi principalmente con la prudenza, con la preghiera, con la modestia; si consultino il proprio confessore ed i parenti; si cerchino informazioni su la persona che si vuole sposare, su la sua pietà, condotta e onoratezza… Si preparano forse così la maggior parte degli uomini al matrimonio?… Volesse il Cielo che la preparazione di molti non fosse invece una catena di scandali e di peccati! Si profana questo grande Sacramento, e invece di meritare la benedizione, si riceve la maledizione… Non ci sfugga di mente che Gesù Cristo, la sua santa Madre e gli Apostoli furono invitati e intervennero alle nozze di Cana: così si deve fare in ogni matrimonio cristiano.
  2. Scopo che deve proporsi chi va a matrimonio. — Triplice è il fine al quale deve mirare chi vuole contrarre matrimonio con timore e amor di Dio: 1° di ricevere degnamente questo S acramento e di non mai profanarlo; 2° di conservare la fedeltà coniugale; 3° di allevare piamente la prole che Dio sarà per concedere… Questi doveri sono sacri e gli sposi cristiani devono averli in cima dei loro disegni.
  3. Di quale benedizione si serva la Chiesa per santificare il matrimonio. — Per benedire un matrimonio, la Chiesa toglie le sue espressioni alla sacra Scrittura, e adopera le parole usate già da Raguele nello sposare Tobia e Sara: (Il Dio di Abramo, d’Isacco, di Giacobbe sia con voi; vi unisca Egli medesimo e adempia in voi la sua benedizione » (Tob. VII, 15). Dopo di aver domandato agli sposi il loro mutuo consenso, la Chiesa pronunzia per bocca del suo ministro che la rappresenta, questa formula solenne: « Io vi congiungo in matrimonio, nel nome del Padre, del Figliuolo, dello Spirito Santo » (Ritual. rom.)… Santo è dunque il matrimonio, e tre volte santo… Guai a chi lo profana!…
  4. Il matrimonio è degno di rispetto. — « Onorevole in ogni cosa è il matrimonio, dice l’Apostolo, ed il letto immacolato; i fornicatori e gli adulteri li giudicherà Iddio » (Hebr. XIII, 4). « Guàrdati, flgliuol mio, diceva Tobia, guàrdati da ogni fornicazione, e non ti prenda mai la voglia di conoscere altra donna che la tua» (Tob. IV, 13). Platone medesimo già stabiliva che nessuno osasse accostarsi ad altra donna che non fosse la propria legittima moglie, e che la fedeltà nel matrimonio fosse sacra.
  5. Quale unione deve esistere tra gli sposi. — L’unione che deve esistere tra gli sposi, risulta chiara dallo scopo che ebbe Dio, e dal modo che tenne nel formare e presentare ad Adamo la prima donna. « Facciamo ad Adamo, disse il Signore, un aiuto simile a lui » (Gen. II, 18). « E fattolo cadere in un profondo sonno, gli tolse una delle coste e con essa formò la donna. Appena Adamo la vide, uscì in queste parole: Questo è osso delle mie ossa, e carne della mia carne. Perciò abbandonerà l’uomo il padre e la madre sua, e starà congiunto alla sua donna, e saranno due in una sola carne » (Gen. II, 21-24). Ora ecco la spiegazione di Gesù Cristo: «In virtù di quest’origine, gli sposi non son due, ma una sola carne. L’uomo dunque non separi quello che Dio ha congiunto » (Matth. XIX, 6). Quindi il Savio, tra le tre cose che dice piacere sopra tutte le altre a Dio, pone questa, cioè un marito ed una moglie così d’accordo, che formino un cuore ed un’anima sola: (Eccli. XXV, 1-2). Gli sposi sono e per il consenso che precede il connubio e per il contratto e il Sacramento del matrimonio, e per l’abitazione e la tavola comune, e per il letto nuziale, così intimamente congiunti, che formano una sola persona civile; perciò si chiamano coniugi (coniuges) quasi uniti a un giogo. Se vivono nella pace, nella concordia, nella fedeltà, la loro vita è piacevole, gradita e santa; se invece vivono in discordie, in alterchi e risse, trascinano giorni di amarezza e d’inferno. Quando due buoi o due cavalli aggiogati camminano d’ugual passo, avanzano senza stento ed hanno molto maggior forza; ma se non si muovono d’accordo, soffrono tutti e due, sentono più grave il peso del lavoro, e meno facilmente adempiono il loro compito. Lo stesso è dei coniugati… Il principio e la vita dell’unione coniugale sta nell’amore reciproco… Perché esista tra gli sposi un’armonia perfetta, si richiede: 1° identità di religione, di fede, di pietà; 2° uguaglianza di carattere…; 3° parità di condizione…; 4° affetto reciproco…; 5° risoluzione di dividere tanto le gioie quanto le pene del loro stato…; 6° la pace e la concordia in seno alla famiglia… Se agli sposi sta a cuore il godere di questi beni, preghino Iddio e Lo servano. Quando siano uniti a Dio per l’orazione e l’amore, saranno anche uniti tra di loro; sia perché due cose che sono unite a una terza, lo sono anche tra sé; sia perché l’amore con cui si ama Dio e quello con cui si ama il prossimo in riguardo a Dio, sono in sostanza, e specialmente negli sposi, un medesimo amore…
  6. Doveri dei coniugi. — 1° Doveri della sposa. I doveri di una moglie verso il marito consistono nell’onorarlo, rispettarlo, amarlo, essergli fedele, sopportarne i difetti e assisterlo. 1) L’onore ed il rispetto dovuti dalla sposa allo sposo importano ch’essa e nel parlare di lui e nel parlare a lui medesimo usi sempre termini rispettosi, adoperi un linguaggio che denoti la stima in cui essa tiene la persona di lui; ne procuri in tutto la buona fama, non badando ai segreti disgusti che forse le arrechi, e mantenga alto silenzio su le mancanze in cui egli cade. Tutte le sante donne delle quali si parla nella santa Scrittura, osservarono puntualmente questa norma ed onorarono gli sposi loro, tenendo con essi un linguaggio di onore e di rispetto. Sara non chiamava mai Abramo con altro titolo che con quello di suo signore (Gen. XVIII, 12). Il medesimo nome dava Rebecca ad Isacco, perché vedeva nella persona di lui la maestà di Dio e pensava che l’onore che essa gli rendeva, si riverberava sopra di lei medesima. Così pure Anna, madre di Samuele, e la madre del giovane Tobia, furono ragguardevoli per le testimonianze di riverenza che diedero ai loro mariti. 2) La sposa deve nutrire per il suo marito, un amore intero e costante, un amore figlio della castità coniugale, un amore spirituale e santo. Essa guadagnerà il marito suo alla pietà meglio ancora con l’esempio che con la parola piena di soavità e di dolcezza; questa però non la risparmierà mai ogni volta che le si presenterà l’occasione favorevole di mettergli in orrore il vizio e la dissolutezza, se per disgrazia il marito ne ha bisogno. L’amore di una moglie deve rivolgersi non tanto a quello che sa di sensibile e di carnale, quanto a ciò che ne riguarda la salvezza; deve quindi impegnarla a fargli in tempo e luogo conveniente salutari rimostranze, maneggiandosi secondo i suggerimenti della prudenza. Non vi è cosa che più eserciti potere ed efficacia nel cuore di un uomo, quanto la voce di una moglie virtuosa; ma bisogna per ciò saper scegliere i momenti, cercare i modi più adatti alla buona riuscita. Scagliarsi contro il marito e rimproverarlo e tempestarlo mentre è tuttavia cotto dal vino o infiammato dalla passione, è una imprudenza le cui conseguenze riescono sommamente pericolose e funeste. Bisogna che l’amore renda ingegnose le donne ad insinuarsi nel cuore dei loro mariti prima di arrischiarsi a dire quello che naturalmente a costoro non garba; ed innanzi tutto devono pregare con fervore e con assiduità per ottenerne il ravvedimento e la conversione. 3) La moglie deve stare sottomessa al marito, come la Chiesa sta soggetta a Gesù Cristo in tutto ciò che è secondo il Signore. Dio medesimo sottomise la donna all’uomo, in punizione della sua disobbedienza. Essa è dunque tenuta ad obbedire in tutto ciò che è secondo Dio, cioè in quelle cose che non contrariano né l’onore di Dio, né la carità del prossimo. Ma se un marito esigesse dalla moglie cosa contraria alla legge di Dio, alla religione, al pudore, alla modestia, insomma a’ suoi sacrosanti doveri, non gli dovrebbe punto obbedire, perché obbedendo a lui disobbedirebbe a Dio, a Gesù Cristo, alla religione, alla virtù, alla coscienza… Negli affari indifferenti, in cui non ci sta di mezzo la religione, né si fa torto alla sana ragione, è debito della donna arrendersi al piacere del marito. Similmente quando insorgono dispareri, la donna deve cedere, perché il calore della disputa non rompa l’unione, la concordia, e la carità che deve regnare fra di loro due. Conviene alla donna conservare la calma e la tranquillità di spirito necessari alla pietà ed al servizio di Dio, il non dare cattivo esempio ai figli ed ai domestici, il non avvezzarli a mancare di rispetto o di sottomissione, a piatire o rimbeccare quando loro si parla. Ancorché il marito in qualche caso avesse torto, la moglie dovrebbe procedere con grande riservatezza, specialmente in presenza dei ragazzi e dei suoi. Non deve rimbeccare quello che può sfuggire di bocca al marito mentre è in bizza e fuori di cervello, per non inasprirlo, e per non metterlo in puntiglio, con pericolo di conseguenze più dolorose. Appunto per la trascuranza di queste regole, dettate dalla prudenza e dalla carità, parecchie donne mancano al dovere principale loro imposto dalla religione, di sopportare i propri mariti, ancorché ne ricevano senza motivo cattivi trattamenti. In queste difficili occorrenze, la loro obbedienza riuscirebbe tanto più preziosa agli occhi di Dio, quanto più, nulla avendovi d’umano, comparirebbe fondata unicamente su la carità cristiana. Ma ahimè! quante ve ne sono le quali, invece di vincere i loro sposi con la dolcezza, rimbeccano con ingiurie una parola un po’ duretta; che cominciano dal versare in capo al marito, alle volte abbrutito dalle dissolutezze e incapace di comprendere che ha torto, un diluvio di rimproveri, d’invettive, d’imprecazioni! Quindi i giuramenti, le bestemmie, le collere, le minacce, le brutalità, gli scandali, i disordini che, secondo l’espressione di S. Gerolamo, fanno di tali case un’immagine anticipata dell’inferno. 4) Occorre forse ricordare alle spose ch’esse devono mantenere inviolata la fedeltà giurata ai piedi degli altari? Chiunque abbia una leggera tintura dei principi del Cristianesimo, o darà retta anche solo alla ragione, non si illuderà sulla gravità di certi disordini dei quali non solamente i pagani, ma perfino le più barbare nazioni, come i Cafri brutali e gli Oceanici antropofagi ebbero ed hanno maggior orrore, che non certi sedicenti cristiani del secolo corrotto. 5) Devono sopportare con pazienza e rassegnazione i loro mariti e tollerare con pazienza le debolezze, i difetti e le infermità che alle volte possono avere. 6) Finalmente devono ai loro consorti ogni sorta di assistenza, e corporale e spirituale… – La Scrittura c’insegna che i genitori di Sara ravvisarono e le inculcarono che rispettasse i suoceri, amasse il marito, educasse la figliolanza, governasse la famiglia e si mostrasse irreprensibile in ogni cosa: (Tob. X, 13). Ecco a grandi tratti i doveri delle mogli verso i mariti. Oh! fossero tutte le spose, tutte le madri di famiglia altrettante copie viventi di Sara! 2° Doveri dello sposo. — I doveri dei mariti verso le mogli sono di amarle, di essere loro fedeli, di mantenerle, sopportarle ed assisterle. Uno sposo è obbligato ad amare la sposa: niente di più giusto e più legittimo; è questo per i due coniugi un dovere reciproco. Ma questo solo non basta. Perché l’amore sia cristiano e gradito a Dio, bisogna che si riferisca a Dio, come ad ultimo suo fine, che miri alla sua gloria e abbia le qualità dell’amore di Gesù Cristo verso la Chiesa. Senza di questo, ogni altro amore non ha nessun valore innanzi a Dio, non ha carattere di cristiano. I pagani si amavano di tale amore e se si possiede solo questo, non si è nulla più che pagani. Che uno sposo ami la donna sua, è cosa buona e legittima; ma il non amare niente altro è un delitto; infatti in tal caso l’amore rimane nella creatura come in suo ultimo fine, e non produce che frutti di corruzione e di morte… Affinché dunque un marito ami cristianamente la propria moglie deve, scrive S. Paolo, amarla come Gesù Cristo amò la sua Chiesa. Come Gesù è divenuto il capo della Chiesa in forza dell’unione che volle contrarre con lei, come non ebbe in cuore altro se non la salute di questa sposa di cui si fece il Redentore, così il fine dell’alleanza che un marito stringe con la moglie, deve mirare a ciò, che si santifichi con essa e le dia aiuto a salvarsi. Egli l’amerà come un altro se medesimo, e siccome nessuno ama veramente se stesso, se non amando Dio come suo vero bene, egli amerà in primo luogo Iddio perfettamente e insegnerà alla sua sposa a fare lo stesso. Egli procurerà di compiacerla in tutto ciò che non sarà contrario a quello che deve a Dio… Lo sposo si ricordi che egli è il capo della donna ma in quel modo e con quello spirito che Gesù Cristo è capo della Chiesa. Il Salvatore governa la Chiesa come una sposa ch’egli considera come carne e ossa sue, che tratta sempre con carità, e per la quale si è immolato su la croce; così il marito deve considerare la propria consorte come una porzione di se stesso, governarla con autorità temperata da dolcezza, da discrezione, da carità; correggerla, quando occorra, più con la persuasione che col comando, con dimestichezza più che con alterigia, perché lo sposo non ha il diritto di trattare con la moglie come un padrone coi servi. La donna non fu tratta dal capo di Adamo, come se dovesse comandare; non dai piedi, quasi ne fosse la schiava; ma dal fianco, per indicare che deve esserne la compagna e, secondo la parola divina, un aiuto simile a lui. Essa fu tolta dalla vicinanza del cuore, perché l’uomo comprenda tutta la carità che per essa deve avere. Non è dunque lecito al marito fare della moglie tutto ciò che gli pare e piace, né trattarla da serva, né comandarle con alterigia, né maltrattarla anche nel caso di gravi torti, né obbligarla a farsi cieco strumento di ogni suo capriccio. Non sarebbe questo un operare da cristiano, da uomo, che tiene nella casa il luogo di Gesù Cristo… Il marito contrasse società con la sposa per mezzo del matrimonio, per vivere in perfetta comunanza di spirito, di cuore, d’interesse, di beni spirituali e temporali, di pietà, di religione, di salute. La moglie è osso delle sue ossa, è carne della sua carne; ora chi ha mai visto un uomo il quale non si curi del suo corpo e lo tratti con durezza e con prepotenza? Anzi, ciascuno si dà ogni cura di nutrirlo e mantenerlo; gli stessi riguardi deve usare con la consorte… Un marito amoroso e fedele metterà a parte de’ suoi affari, con leatà e confidenza, la propria moglie, e le domanderà consiglio, per operare di buon accordo. È necessario per il bene della pace che ciascuno ceda una parte de’ propri diritti… – Degli altri doveri dei mariti, cioè la fedeltà, l’assistenza nei bisogni corporali e spirituali, il compatimento, già abbiamo parlato: essi sono gli stessi doveri che hanno le spose.
  7. Il matrimonio è inferiore alla verginità. — Scriveva S. Paolo ai Corinzi: Buona cosa è per l’uomo starsene senza moglie. Non ne hai tu ancora presa alcuna? non pensarci. Tuttavia, se vi ammogliate, non fate male, e se una zitella va a marito, non pecca. Avranno però costoro a patire tribolazione della carne… Io dunque vi dico che il tempo è breve e che quelli i quali hanno moglie, vivano come se non l’avessero… Io desidero che voi siate senza inquietudine; ora chi non è ammogliato ha il pensiero alle cose del Signore, studia come piacere a Dio. Invece chi ha preso moglie, cerca ciò che è del mondo e la maniera di piacere alla sposa, ed è diviso. Così pure la vergine pensa alle cose del Signore per essere santa di spirito e di corpo; ma quella che ha marito, cura le cose del mondo e cerca di ingraziarsi il consorte. Dunque chi marita la figlia sua fa bene, chi non la marita fa meglio. (I Cor. VII, 26-38). E poco prima aveva detto: «Bramo che voi tutti siate come me (celibe); ma ciascuno ha da Dio il suo dono, uno in un modo, uno in un altro. Io dico ai non ammogliati ed ai vedovi che è bene per loro starsene così, come sto io » (Ib. 7-8). S. Basilio vede nello stato coniugale un’officina di dolori (Constìt. monast. c. II). L’Apostolo chiama tribolazioni della carne, le prove che vanno congiunte al matrimonio, alla paternità, alla famiglia. Egli contrappone tutto questo ai vani piaceri di cui si pasce l’immaginazione degli imprudenti e dei ciechi; infatti le cure, le noie, le pene, i fastidi, le malattie, i pericoli a cui va esposto lo stato matrimoniale, superano e fanno pagare troppo care le poche gioie che dà… Quanti patimenti, quanti pericoli non corre la donna nel tempo: che porta in grembo e nell’ora in cui mette alla luce il bambino! Quante cure e sollecitudini e fatiche per nutrire, vestire ed allevare una famiglia! Che angosce, che trafitture quando la prole muore!… Che impacci, che studi, che brighe per dare loro una posizione, se campano!… Quante lag rime e quanti gemiti, se traviano!… Per tutti questi malanni che toccano agii ammogliati, S. Ambrogio e S. Agostano non ebbero mai cuore di consigliare a nessuno le nozze… Nella Chiesa vi sono tre stati, disse S. Anselmo, vescovo dei Sassoni; la verginità, il celibato, il matrimonio. Se volete conoscere la differenza che passa tra di loro, eccovela: la verginità è l’oro, il celibato è l’argento, il matrimonio è il ferro; la verginità è l’opulenza, il celibato l’agiatezza, il matrimonio la povertà; la verginità è la pace, il celibato, la libertà, il matrimonio, la schiavitù; la verginità è il sole, il celibato una lampada, il matrimonio tenebre; la verginità è una regina, il celibato un signore, il coniugio un servo (De Laud. Virg. c. IX. — Biblioth. Patr.). « Le nozze, dice S. Girolamo, popolano la terra, la verginità popola il cielo » — Nuptiae terram replent, virginitas paradisum (De Virg.). Ma intanto, dice S. Paolo, chi non può mantenersi nella continenza, vada a matrimonio; è meglio maritarsi, che cedere alla tentazione: (I Cor. VII, 9). Queste parole di S. Paolo sono commentate così da S. Girolamo : « Quando una giovane non può o non vuole conservare la continenza, le conviene meglio sposare un uomo, che un demonio ». Il matrimonio, questo stato degno di onore e che non va disgiunto da gioie quando gli sposi hanno il timor di Dio e stanno uniti, è un inferno quando succede il contrario. Se la donna che sposate è capricciosa, bisbetica, malvagia, essa vi porterà in casa la guerra, vi si presenterà come una bestia feroce; la sua lingua è uno stocco affilato di fresco. Triste, penosa, deplorabile cosa, che colei la quale dovrebbe essere aiuto e rimedio, sia tormento e veleno! Intanto, o uomo, se tu non sei stato pio, se la donna ti è cagione di perdita e di disgusto perché l’hai traviata tu stesso, cura con la pazienza il male che essa ti fa. Ti serva essa da medico e da chirurgo, per medicare le piaghe dell’anima tua: Dio l’adopera con te e su di te, come una lama tagliente e sebbene il ferro tra le mani del chirurgo non sappia quello che si fa, lo sa benissimo il chirurgo, e questo basta. Benché una moglie persecutrice non sappia quello che si fa, lo sa Dio e purché in voi vi sia pietà e rassegnazione, ella vi salverà. « La donna rissosa, leggiamo nei Proverbi, è come un tetto che in giorno di nebbia lascia gocciolare l’acqua. Chi vuole ammansarla, vuole stringere in pugno il vento » (XXVII, 15-16). La donna e la nave non hanno mai abbastanza di ornamenti, dice Plauto; chi dunque vuole aver da fare, sposi una donna, o costruisca un vascello (Anton. in Meliss.). « La donna malvagia è il peggiore di tutti i mali! esclama il Crisostomo; insoffribili e intrattabili sono i dragoni, malefici e orribili sono gli aspidi, ma la cattiveria di una donna è più terribile che le belve medesime. Una donna maligna non conosce mitezza : se la battete severamente, infuria, se l’accarezzate, alza le corna e s’inorgoglisce. È più facile fondere il ferro che correggere una donna viziosa: chi si è sposato a una moglie siffatta, deve riconoscere che ha ricevuto il castigo che meritavano i suoi peccati. Non vi è mostro nel mondo che si possa paragonare alla donna cattiva. Qual belva più feroce del leone? Nessuna, se non una donna malvagia. Qual rettile più crudele del dragone? Nessun altro fuorché la donna malvagia ». L’uomo che ha sposato una femmina di questa sorte è il più sventurato degli uomini. Non gli resta che un rimedio : la pazienza; ma questa pazienza gli procurerà il cielo… Quello che si dice di un uomo ammogliato a donna senza virtù e senza pudore, vale pure per una moglie virtuosa sposata a un marito corrotto, libertino, ubriacone, collerico, vizioso. Che disgrazia è mai per lei essere costretta ad abitare con un soggetto di tal fatta! Che inferno! Poveretta! Ma via, si rassegni e preghi, Dio le darà una ricca e splendida corona. Quando la donna è viziosa, il marito è infelicissimo, e viceversa; ora che cosa sarà quando tutti e due gli sposi siano cattivi arnesi, senza pazienza, né dolcezze, né religione, né castità? Non vi sono espressioni che bastino a numerare e qualificare i malanni che nascono da tale alleanza maledetta…
  8. Il matrimonio profanato. — Vi sono degli sposi, dice la Sapienza, i quali non rispettano né la castità delle nozze, né la vita del matrimonio, uccidendosi l’un l’altro spiritualmente e facendosi reciproco oltraggio con cattivi costumi. Presso di loro tutto è disordine: il sangue, l’uccisione, il furto, la frode, la corruzione, l’infedeltà, la dimenticanza di Dio, l’ingratitudine, la profanazione delle anime, l’aborto, le dissolutezze dell’adulterio e dell’impudicizia, tutto è da loro insieme confuso e menato in trionfo (Sap. XIV, 24-26). Dove sono i figli che Dio destinava a vedere il giorno? Respingere nel nulla esistenze che dovevano avere per fine la vita eterna, che nefandità, che delitto, e quale conto ne dovranno rendere i colpevoli!
  9. Castighi riservati ai profanatori del matrimonio. — I figli degli adulteri saranno infelici, sentenzia il Savio, e il frutto di un letto impudico non arriverà alla maturità (Sap. III, 16). Onan metteva ostacolo all’adempimento della volontà di Dio, facendo azione detestabile, perciò Dio lo percosse di morte: (Gen. XXXVIII, 9-10). Un tale delitto viola la legge naturale e la santità del matrimonio. E’ paragonato da Dio medesimo all’omicidio e la Scrittura lo chiama detestabile. Che nome dargli quando è commesso dai cristiani? Molti genitori si lagnano delle disgrazie che loro piovono addosso, delle infermità che travagliano i loro figli, della morte che loro spietatamente li strappa. Giuste punizioni di Dio! Sposi colpevoli, aprite gli occhi, riconoscete che avete calpestato i vostri più sacri doveri, convertitevi, e la giustizia di Dio cesserà dal percuotervi… Perché la casta Sara vide consecutivamente trucidati da un demonio, la prima notte delle nozze, i sette sposi da lei impalmati? la ragione la manifestò Raffaele a Tobia il quale, udendosela proporre in isposa, ebbe il timore che la stessa sorte toccasse anche a lui: Se dài retta a me, rispose l’angelo, non ti toccherà nulla di simile, perché sai tu chi siano quei mariti sui quali ha potestà il demonio? Sono quelli che abbracciano il matrimonio con tale disposizione di animo, che scacciano Dio da sé e dalla loro mente, e soddisfano la loro libidine come il cavallo e il mulo che non hanno intelletto. Ma tu prenderai la sposa nel timor di Dio, mosso più dal desiderio di prole che di libidine, per ottenere la benedizione riservata alla stirpe di Abramo (Tob. VI, 11-22). Prima della legge mosaica, l’adultero presso i Giudei era bruciato vivo; dopo, si lapidava (Levit. XX, 10). Gli Egizi punivano l’adulterio negli uomini con cento colpi di verga; nelle donne, con recidere loro il naso, affinché il loro disdoro non cessasse mai di essere pubblico (Diod. Bibl. hist.). Presso gli Arabi, i Parti e altre antiche nazioni, gli adulteri erano condannati alla decapitazione (Ib.). Il re Tenedio stabilì per legge, che gli adulteri fossero segati per metà e condannò a tale supplizio il suo medesimo figlio (Maxim. Orat.). Nel suo nono libro delle Leggi, Platone decretò la morte contro il fornicatore, e permise a chiunque di uccidere l’adultero. Solone permetteva di uccidere chi fosse sorpreso in atto di adulterio (Plutarco). Giulio Cesare, Augusto, Tiberio, Domiziano, Severo, Aureliano, stabilirono gravi castighi contro gli adulteri. Aureliano, per esempio, faceva legare i piedi dei colpevoli a due rami di alberi piegati a viva forza, che poi, essendo lasciati ritornare alla loro posizione naturale, squartavano il corpo del condannato (C. Aelian., Var. histor. Lib. X, c. VI). Macrino, successore, di Caracalla, li faceva bruciare vivi (Alex.) Maometto medesimo ordinò che sia inflitta all’adultero la pena di cento colpi di bastone. I Sarmati, per testimonianza, di Orosio, uccidevano le donne adultere, o le vendevano schiave. I Sassoni, ancor pagani, costringevano l’adultera ad impiccarsi, e mettevano il complice pubblicamente su un rogo, cui appiccavano il fuoco (S. Bonif. Epist.).