QUARESIMALE (XIX)

QUARESIMALE (XIX)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile, 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMANONA
Nella Feria quarta della Domenica terza.


Gli spasimi del peccatore moribondo; per il mondo che lascia; per la severità del Giudizio che gli sovrasta; per l’eternità delle pene che aspetta.


Morte moriatur. San Matteo cap. 15

Preparatevi pure, o peccatori, a provare i giusti sdegni dell’ira divina. Si protesta Cristo in San Matteo con quelle parole … morte moriatur, che non solo vi vuole morti, ma morti di morte; che vale a dire di quella morte già preveduta dal Profeta Reale allorché disse: mors peccatorum pessima: sarete dunque percossi da Dio, se non vi emendate, da questo fulmine di pessima morte. Santi, che foste interpreti delle Sacre Carte, diteci in che consisterà questa pessima morte de’ peccatori. Ecco che dall’Eremo di Chiaravalle mi risponde San Bernardo, dicendomi: sarà pessima, in amissione Mundi, in severitate judicii, in horrore inferni, che vale a dire, sarà pessima la morte de’ peccatori per la perdita che sanno del mondo, allorché muoiono; per la severità del Giudizio che incontrano dopo morte; per la sentenza, che li condanna alle pene eterne dell’inferno. Cominciamo dal primo. Come non volete che sia pessima la morte del peccatore, mentre dovendo morire, non solo deve lasciare, ma deve rubarsi tutto dalla morte, che nell’Ecclesiastico vien chiamata: dies finitionis; perché la morte non è altro che un finire del mondo per chi muore. Se la morte, dunque, è un finire del mondo per chi vive, datemi attenzione, e poi rispondetemi mentre io con voi così discorro. Se voi sapeste di certo che tra cinque o sei anni dovessero rovinare tutte queste case, sprofondare tutte queste campagne, il mondo tutto ridursi in cenere, ditemi, che conto dovreste voi fare della vostra roba, de’ vostri passatempi, delle vostre amicizie? credete voi che tanto facilmente offendereste Dio, per condiscendere ad un amico, per soddisfare ad un piacere, ad un capriccio? Certo che no, mentre sapeste che in breve tempo tutto il mondo dovesse ritornare al suo niente. Or io vi dico: e non è forse tuttuno, o che il mondo finisca e voi restiate; o che resti il mondo, e voi finiate di vivere? Non ve ne ha dubbio: morto che sarete voi, il mondo è finito per voi, e pure vi state attaccati come se mai dovesse finire; e pur talora manca nel più bello. – La sanguisuga, allorché dal cerusico vien attaccata ad una vena, vi si attacca con una avidità grandissima. Qui vi succhia, gode, si gonfia, e si satolla di quel sangue che tanto avidamente brama. E si crede d’aver sempre a seguitare in quel contento; ma che? Nel più bello viene il cerusico, la stacca dalla vena, la pone in un tondo, la taglia per il mezzo, e gli fa rendere tutto quel sangue, che ha bevuto, e col sangue gli toglie la vita. Questo stesso interviene a’ peccatori. Si crede colui di aver sempre il sangue de’ poverelli con defatigarli nelle liti, con succhiar loro il sangue: si crede doversi sempre ingrassare con la roba altrui, con portare a’ mercanti la roba cattiva e venderla per buona; gli armenti, i bestiami infetti ed esitarli per sani; con promettere a chi lavora il danaro, e poi volergli dar la roba, di più della peggiore, ed a gran prezzo; ma che ne segue nel più bello de’ suoi acquisti sì ingiusti? Viene la morte, lo taglia per il mezzo  e lo fa vomitare quanto ha radunato in questo mondo, senza lasciargli più che uno straccio da rinvoltare il suo cadavere: Divitias quas devoraverit, evomet. Così pur quel superbo si crede d’aver sempre a sopraffare i minori, a vendicarsi d’ogni piccolo oltraggio, anche con vendette trasversali, ed ecco nel meglio de’ suoi disegni, delle sue vendette, viene la morte; lo taglia per il mezzo; e buttandolo in una sepoltura, lo fa pascolo de’ vermi, e si verifica quello d’Abdia al quarto: Si inter sydera posueris nidum tuum, inde detrabam te. Si credevano di dover sempre tendere insidie, ora all’onestà di quella donzella, ora all’onore di quella maritata, al decoro di quella vedova, senza perdonarla neppure al proprio sangue: ed ecco che nel più bello vien la morte, tagliandoli per il mezzo gli strappa a forza da tutte le più care conversazioni. Non occorre altro: la morte si chiama: dies finitionis, presto ha da finire tutto il mondo per te, e de’ tuoi piaceri non ti ha da rimaner altro che il travaglio di averli goduti. Ed ecco la morte pessima in ammissione mundi. –  Tutto è vero: sento chi mi replica… ho da morire, ha da finir tutto; ma intanto io mi scapriccio, vivo a mio modo, e godo. Oh stolto, che sei! Mentre così discorri, tu godi mentre vivi in peccato? Il tuo godere è come i frutti di Sodoma, belli al di fuori, ma cenere dentro. Tu ridi, tu burli, tu scherzi, l’apparenza è bella, ma se ti miro il cuore, non trovo che il mondo ne’ suoi diletti t’abbia mai dato altro che amarezze. Ecco, che ve lo mostro. Volete sapere come tratta il mondo co’ peccatori? Come il cacciatore con suoi cani. Se ne esce di casa il cacciatore con il suo cane al cusso e, veduta la fiera gli lascia il cane che con ogni sforzo fra balze e fra spine la segue; e finalmente animato dalle voci del padrone, che grida: piglia, piglia … gli riesce tutto ansante e mezzo morto l’afferrarla. Ma che? Ecco che il padrone crudele gli è alla vita e gli dice: lascia, lascia; onde il cane è costretto a lasciare quella preda, che credeva dovesse satollarlo ed altro non resta al meschino che la fame; e per lui è uno stesso il conseguire quel che cerca ed il perderlo. Così appunto ha da intervenire a te, misero peccatore. Ora il mondo, che è il tuo padrone crudele, ti dice: Piglia , piglia, piglia quella roba che non è tua, non pagar mercedi; non soddisfare a’ legati pii; dilata i confini del podere, tieni corte le misure, scarsi i pesi: piglia, piglia; pigliati quel piacere che non è lecito, quella vendetta; e tu insensato, come se avessi da godere di un gran bene, t’affatichi, ti sfianchi, ti sfiati per conseguirlo; ed ecco che nel più bello ti senti intimare dalla morte: lascia, lascia, lascia ricchezze a chi non si ricorderà mai di te; lascia il tuo corpo a chi lo porrà fotto terra dentro il sepolcro; lascia i tuoi amori a chi li andrà raccontando per suo passatempo e per tua grandissima infamia. Lascia, lascia. Son vere sì o no queste cose che ti dico? Certo, che non le puoi negare, ma te le immagini, te le figuri oh quanto lontane, e questa è la maggior pazzia; perché non t’accorgi, che la morte ti viene incontro a gran passi: Memor esto, quoniam Mors non tardat, ti dice lo Spirito Santo, tu la credi lontana molte miglia, e forse ella sta per battere all’uscio della tua camera. Chissà, che forse ora non ti lavori nelle tue vene quel veleno che tra pochi giorni ti metta nel sepolcro? Forse ora si distilla quel catarro che ti ha da soffocare; forse la morte ha teso l’arco e tu vivi del tutto spensierato? – Nella nobilissima città di Siena vi fu un cavaliere di prima nascita, il quale trattenendosi un dì tutto sano in quel luogo che chiamasi Banchi, per certi suoi domestici affari; vide alla lontana venire una compagnia di Confrati col cataletto, e voltatosi a chi seco tratteneva, disse loro: dove va, per chi serve questa bara? Varie furono le risposte, che gli furon date; la verità però è che colto da accidente inaspettato quel cavaliere, se ne morì subito, e quella bara servì per lui. Credete voi che questo cavaliere si aspettasse allora la morte? Memor esto quoniam mors non tardat … intendetela: la morte non tarda, è vicina ed oh quanto vicina se la vide quell’indegno giovane che, stato lontano per qualche tempo dall’amica, volle ripassar per quella strada, e dare il solito cenno; sicché fattasi alla finestra la rea femmina gli disse: so che m’avete abbandonato. Non sarà mai vero, rispose il giovane; appunto, replicò la donna; voi più non mi amate. V’amo tanto, riprese l’uomo, che per voi darei tutta la parte del Paradiso che mi tocca; e di fatto la diede, poiché soffocato da una piena di catarro, appena proferita l’esecranda bestemmia, restò ivi morto, spettacolo infelice della Divina Giustizia. Su, dunque, staccatevi; altrimenti la vostra morte sarà altresì terribile in severitate Judicii. – Tu fai bene, o peccatore, o peccatrice, che appena spirata, appena uscita l’anima dal tuo corpo, subito in quella medesima stanza ove Dio t’ha tante volte tollerato nelle tue disonestà, in quella medesima s’alza il Divino Tribunale; sicché subito morto devi comparire avanti Cristo Giudice per esser giudicato, secondo le tue opere, o buone o ree. Or dimmi: e non è vero, che tu tutto attonito e spaventato dirai col Santo Giob: quid faciam, cum surrexerit ad judicandum Deus? A qual partito ti appiglierai? ad uno di questi due converrà che t’appigli da fuggire dagli occhi del Giudice; o ad ingannarlo… ma che dissi? come potrai fuggire dagli occhi di Dio? questo è impossibile; mentre Egli è quel Dio di grandezza eguale alla sua forza: Deus Judex fortis; basterà solo che tu miserabile lo veda per rimanere in un stesso tempo atterrito ed inorridito. L’allodola, allorché vede lo Sparviero ne concepisce tal timore, che si è veduta volare a piombo dentro le fiamme d’un acceso forno. Sarà tale il tuo terrore alla presenza di Cristo Giudice, che per fuggirne volentieri t’andresti a seppellire nelle fiamme dell’inferno? Quis mihi det, ut in inferno protegas me, et abscondas me, donec pertranseat furor tuus? Fuggire dunque non potrai essendo più facile fuggire dal mondo e da se stesso, che da Cristo Giudice. Quid facies, dunque, che farai? Ricorri alla frode: procura d’ingannarlo. Ingannare il tuo Dio; Cum surrexerit ad
judicandum Deus
. Appunto Egli è quel Dio che tutto vede: intuetur cor, agli
uomini si può dare ad intendere quello che si vuole, ma non a Dio scrutatore de
cuori! – Non so, se camminando di notte tempo, vi siate mai abbattuti in certi legni
putridi; se allora v’avrete fissati gli occhi, vi saran parsi luminosi; ma se poi li avrete rimirati di giorno chiaro, gli avrete scorti per mezzo fracidi, per legni sol buoni ad esser gettati nel fuoco. Che voglio dire? Voglio dire che in questo mondo siamo tra
le tenebre, e ci può riuscire talora il far comparire per luce quel che è tenebre; poco penerà colui che nega quella pace a dire, che lo fa per zelo della giustizia; oh che bella luce a chi non vede il fondo putrido di quel cuore! Ma in faccia a Dio non potrà dir così; si vedrà allora, che non era zelo, ma rabbia. Riuscirà facile a quel marito l’ingannare la sua moglie, con riprenderla di gelosa, con assicurarla che l’amicizia con colei non è mala, che vi tratta innocentemente; ma quando si farà giorno alla venuta del Giudice, chiaramente si vedrà che l’amicizia era un continuo peccare. Ancor tu donna, potrai con i tuoi inganni, con le tue finzioni farti tenere per donna da bene, onorata; che vai alla Chiesa per mera devozione, quando vi vai non con altro fine che per concludere con gli occhi e con i gesti quei trattati d’amore indegno. Ma quando si farà giorno, alla presenza del sommo Giudice, si scopriranno le tue laidezze: Hæccine est urbs perfecti decoris? Questa è quella donna, si dirà, che quando più spacciavasi per onesta, allora più nefande commetteva in segreto le laidezze; e con le laidezze andava mescolando i Sacramenti! Questa è quella Giovane che diceva che i suoi amori erano tanto innocenti, ed erano tanto infami? Questa è quella donna, che protestavasi senza errore; e cambia confessore per non essere ripresa, e talora taceva i peccati, vergognandoli di confessarli chi non ebbe rossore di commetterli: Hæccine est urbs perfecti decoris? Adesso puoi negar quei furti, quelle scritture, quel debito, quelle lettere, quei memoriali, quelle mormorazioni; ma nel tremendo Giudizio tutto scoprirà. Che farai dunque? quid facies cum surrexerit ad judicandum Deus?
non si può far altro, per non aver la morte pessima ancora in severitate Judicii che mutar vita. – Appigliatevi ancor voi a questo partito: lasciate l’amicizia, fate la pace; restituite l’altrui. Non vi sapete risolvere? Perciò la vostra morte sarà pessima in severitate Judicii. Oh Dio! Volete sapere perché i peccatori non si risolvono? perché si figurano Iddio sempre amorevole, e Gesù sempre loro Avvocato; senza riflettere che, quanto è maggiore ora la sua misericordia, tanto poscia sarà più severa la giustizia: tacui, patiens fui sicut parturiens loquar. Avete mai fatto riflessione all’orologio, che se ne va per molto tempo cheto cheto: ma come giunge l’ora si mette tutto sossopra; si sconvolge, si fa sentire per tutto … tacui, patiens fui, dice Dio, pareva che io non vedessi le tue iniquità; e perché? Perché non era giunta l’ora del giudizio; ma giunta quell’ora, mi farò sentire a tutto il Paradiso, come appunto si fa sentire la donna a tutta la casa, allorché è oppressa da’ dolori di parto: sicut parturiens loquar, e così parlando vi farà provare la morte pessima nelle fiamme dell’inferno: in horrore inferni.

LIMOSINA

 Volete esser ricchi? Non vi stancate più ne’ mercati, per le fiere, ne’ traffici. Honora Dominum de tua fubstantia, dice Iddio, et implebuntur horrea tua, saturitate vino torcularia tua redundabunt. Fate limosine. e poi vedrete, che vi si empiranno i magazzini di grano, d’ottimo vino le cantine. Eccovi ricchi: Che dite? Negate che siano parole di Dio? Se sono di Dio, credete non possa adempirle? Questo sarebbe un trattar Dio da fallito? Se credete che Egli non voglia mantenerci la parola: questo è trattarlo da falso. Provatelo; probate me super hoc, e vedrete!

SECONDA PARTE

Sarà dunque pessima la morte del peccatore per l’orrore dell’inferno. Vedrà il misero spalancato sotto de’ suoi piedi l’inferno, cioè una prigione, le di cui mura siano di fuoco, di fuoco la volta, di fuoco il pavimento, i ferri di fuoco, l’aria di fuoco, Or io ti dico: ti daria l’animo per tutti i beni del mondo d’entrarvi dentro, e trattenerviti per una mezza giornata? Ah stolto! Ed è pur vero che sei sì privo di senno, che per cose molto minori, per un sozzo piacere, per 9un piccolo interesse, per un sfogo d’odio, accetti di buona voglia di stare in una somigliante prigione, non solo col corpo, ma con l’anima per tutti i secoli senza fine. Senti quel che ti dice Isaia al cap. 33. Quis poterit habitare de vobis cum igne devorante? Aut quis habitabit ex vobis cum ardoribus sempiternis? Rispondi tu a questa interrogazione del Profeta: come potrai stare tra le fiamme per tutta un’eternità? Hai mai provato ciò che sia fuoco? Certo, perché tu sei quello che hai paura infin d’una favilla che ti schizzi in mano e non puoi soffrirla: come dunque ti eleggi di stare in una fornace, che distruggerebbe i monti? Montes a facie ejus diffluerent, a guisa di cera, non per breve tempo, ma finché Dio sarà Dio. Domanda parere se sia bene per lo sfogo delle passioni guadagnarsi un inferno; a quella moglie scellerata di santo marito  come si riferisce nelle Vite de’ Santi Padri: … vivevano insieme marito e moglie; e quanto uguali di nascita, tanto erano diversi di costumi: santo il marito, perversa la consorte. Venne al suo fine il marito; ed alla vita santamente menata corrispose una morte all’apparenza funesta, poiché piena di pene di tormenti e di agonie tremende. Morto il marito restata libera di sé la rea consorte, si diede con maggior libertà allo sfogo delle passioni, conducendo la sua vedovanza tra suoni, canti, balli e bagordi. Finalmente venuta a morte questa rea femmina, passò all’altra vita con una tal quiete che parve piuttosto la sua morte un placido sonno. La figlia, che era stata spettatrice e della vita santamente menata dal padre, ma sempre tra disgusti ed amarezze, e della vita della madre sempre condotta tra piaceri peccaminosi, e della morte dolorosa del padre, e della morte quieta della madre, andava fra se stessa pensando a qual delle due vite dovesse appigliarsi. Allorché dunque più che mai trovavasi perplessa, ecco che si vide comparir davanti un uomo di aspetto venerando, il quale le disse: che pensieri sono i tuoi, o donzella? Io già li so; teme la fanciulla; la rincorò il vecchio venerando e gli soggiunge: io non son qui per nuocerti, non temere; so che tu vivi irresoluta, né sai determinarti se devi prendere la strada penosa di tuo padre o la lieta di tua madre. Vieni e non temere; e la condusse sulla cima d’un monte, ove introdotta in una gran città, la vide tutta lastricata d’oro e ricoperta di gemme: s’inoltrò, e dentro un palazzo alla reale vide suo padre risplendentissimo e lo riconobbe per beato: gli parlò, si rallegrò, si consolò; voleva trattenersi, ma non glielo permise il vecchio venerando, e condottola giù del monte, la guidò dentro un’oscurissima grotta, ove la giovane intimorita sentendo urli, e strida spietate, non aveva cuore da inoltrarsi; pure rincorata dal condottiere s’inoltrò e vide da lungi una ardentissima fornace, ed in mezzo ad essa la misera madre che ardeva, ed arrabbiata altro non faceva che bestemmiare. Quanto fosse il dolore, ed il terror della figlia, immaginatevelo. Fu tale che, partita da quello spettacolo ritirossi dal mondo a vivere vita santa a similitudine del padre. Muta vita peccatore, perché se tu balzi colaggiù in quella fornace, alzerai il capo da quell’incendio doppo mille, e mille anni, e perché …  griderai, mi tengono in questo zolfo ardente? Ecco la risposta, perché non desti quella pace; perché non ti riconciliasti col prossimo tuo; su dunque, replicherai, mi mandino al mondo e mi farò calpestare da’ miei nemici; mi lascerò fare in pezzi e poi bacerò loro i piedi: odi la risposta: non v’è più tempo; Juravit per viventem in sæcula sæculorum. quia tempus non erit amplius, ardi, brucia. Alzerai la testa e dirai: perché mi tengono in questi incendj? Perché non volete restituire il mal tolto: … lasciate, replicherai, che torni a vivere e dispenserò tutto per limosina sino a morir di fame; ma la risposta sarà: non v’è più tempo, Juravit, etc … Alzerai la testa da quelle tenebre e dirai attonito perché tra tanti tormenti che ancora non hanno fine? Perché vivesti tra gli amori, perché non portaste rispetto neppure alle maritate; neppur la perdonaste al proprio sangue; perché vestiste scandalosamente, e tiraste più d’uno alle disonestà. Lasciate, dirai, che io torni in vita e non solo non prenderò diletti illeciti, ma punirò le mie carni con ogni più rigorosa asprezza; vestirò con tutta modestia senza ombra di vanità: … non è più il tempo, Juravit …. Bisognava pensarvi prima, onde allora non potrai far altro che fremere, arrabbiarti e maledir sopra ogni altro te stesso: … peccator videbit et irascetur, dentibus suis fremet et tabescet, e tutto ciò senza rimedio, perché … desiderium peccatorum peribit ….

QUARESIMALE (XX)

QUARESIMALE (XVIII)

QUARESIMALE (XVIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMAOTTAVA
Nella Feria terza della Domenica terza.


Chi pecca sul fondamento della Divina Misericordia; non sa
ciò che sia la Divina Misericordia; non ne sa il fine; neppure il numero de’ suoi effetti
.

Tunc accedens Petrus ad Jesum dixit, quoties peccabit in me Frater
et dimittam ei? dicit illi Jesus: non dico tibi septies, sed
usque septuagies septies. San Matteo al cap. 28.

Una buona nuova vi reco questa mattina o peccatori. Riceve Pietro da Cristo la potestà di prosciogliere da’ peccati: quodcunque solveris super terram, erit solutum, et in cœlis … Né questa la riceve limitata a poche colpe, ma per quante ne commetterete: non dico tibi septies, sed usque septuagies septies. – Voi, o Padre, pretendete di manifestarci una cosa da noi non saputa con palesarci la Divina Misericordia nel perdono de’ nostri peccati. Eh che ben sappiamo, che misericordia Domini plena est terra; e che Dio est Deus misericordiarum. Fra gli Attributi Divini, siccome ci confessiamo ciechi nella cognizione di quella onnipotenza, che può quanto vuole; di quella sapienza, che conosce tutte le virtù possibili; di quella bontà che accoglie nell’immensità del suo seno ogni bene; così ci dichiariamo di perfettamente conoscere la Divina Misericordia. Che dite miseri? Voi siete pur ciechi. Voi altro non avete in bocca che Misericordia Divina; e pure niente la conoscete. Non me lo credete? Uditemi, che vi farò toccare con mano, non sapersi da voi, che cosa sia Divina Misericordia; non sapersi il fine, non sapersi il numero de’ suo effetti. Taci, o peccatore, taci; né più magnificare la Misericordia Divina, giacché non sai, che cosa ella sia. Se tu sapessi ciò che sia Misericordia Divina, non giungeresti a segno di servirtene per oltraggiarla co’ peccati. Per Misericordia Divina, tu non apprendi altro, che una non curanza del peccato, sicché nulla importi a Dio il tuo mal vivere, nulla le tue sozzure, nulla le ingiustizie, nulla le bestemmie; e par che tu dica le parole degli empii di Giob: eh che Dio trattenendosi con i suoi Angeli in Cielo non bada a ciò che facciano gli uomini in terra, non mira alcun vizio per punirlo, né virtù per premiarla, circa cardines cœli ambulat, nostra non considerat. Ma stolto, che tu sei; come può mai essere, che Egli non curi il tuo pessimo vivere, mentre a sopportarti peccatore sopra la terra e non ti profondar subito nell’inferno, Egli fa uno sforzo della Divina sua clemenza? Quæ te vicit clementia, esclama Santa Chiesa, ut nostra serres crimina? La ragione poi di questo sforzo che Iddio fa alla sua Divina Clemenza, sopportandoti peccatore sopra la terra, è doppia; perché una riguarda lo stesso Dio, l’altra riguarda il peccato; la ragione, che riguarda Iddio è, perché avendo Iddio un odio infinito contro l’iniquità, che vale a dire eguale a quell’amore immenso che porta à sé, ed alle sue divine perfezioni, dovrebbe, subito che tu pecchi punire la tua temerità, e non facendolo fa un sforzo si grande alla sua Divina Clemenza, che Egli stesso per Malachia se ne stupisce, dicendo : Ego Deus, et non  mutor vos et vos non estis consumpti. Come è possibile, dice Iddio, che essendo Io un Signore sì grande e sì potente, voi che tanto m’avete offeso siate ancor vivi, e non siate stati annichilati dalla mia suprema Giustizia? … et vos non estis consumpti. Senti, o peccatore: di buona ragione, dovrebbe sempre succedere a te ciò che accadde a quel Re di Scozia, il quale  nel prendere dalla mano d’una statua un pomo d’oro, che teneva nella destra in  atto di porgerlo, nello stesso tempo fu ferito da uno strale che teneva nella sinistra ed ucciso, pagando con la vita il prezzo di quella avidità: tanto, dico dovrebbe accadere a te, ogni qual volta tu stendi la mano al pomo vietato dalla legge divina, levando  o ritenendo la roba altrui, procurando vendette, cercando sozzure; dovrebbe Iddio scagliare un fulmine sì potente, che ti facesse pagare con la morte temporale ed eterna la disubbidienza; e se non l’ha fatto finora, ciò è derivato dallo sforzo grande, che Egli ha fatto alla sua Divina Clemenza – Come è dunque possibile, che Egli non curi il tuo mal vivere mentre Egli fa sforzo a sé stesso per non punirti nel tuo peccato, che tanto odia? – Né solo fa sforzo per quel che riguarda l’odio, che Egli necessariamente porta al peccato; ma altresì sforza la Divina Clemenza a tollerare il peccato per il peso immenso dello stesso peccato. O quanto è mai smisurato il peso del peccato mortale! È tale, che per sua propria natura dovrebbe in un punto piombare negli abissi chi lo commise: in puncto ad Inferna descendunt. Così seguì negli angeli ribelli, appena si posò sopra le loro spalle questo peso, che non potendo sostenerlo piombarono ad un tratto giù nell’inferno: Videbam satanam tanquam fulgur de cælo cadentem. Il fulmine, voi ben sapete, che subito, che si accende cade a precipizio; né basta, che il fuoco, che di natura sua vola alla sua sfera, voglia sollevarlo; perché il peso di quella esalazione terrestre, di quella pietra, lo sforza a precipitarsi al basso, Tanto per appunto avvenne a lucifero, ed a’ suoi compagni, allorché insuperbendosi, peccarono, poiché il peso del loro peccato gli aggravò tanto, che non bastarono le forze della natura angelica per trattenerli dal precipizio. Sentimi però, tu peccatore, tu peccatrice: quando acconsentiste a quell’invito malvagio, prima anche di venire all’opera dovevi come gli angeli ribelli esser precipitato nelle fiamme, e teco pure doveva esser precipitato quella femmina scellerata che ti portava, quel che ti sollecitava al mal fare; anche le ambasciate; che ti prestava la casa; e se ciò non è seguito, è stato per un sforzo immenso, che ha fatto la Divina Clemenza, e poi ardirai di dire che la Misericordia di Dio sia una non curanza, che Iddio non si curi del tuo mal vivere; mentre Egli fa un sforzo sì grande a non castigarti per il peso immenso del peccato, che di sua natura, come a suo centro ti porta all’Inferno? E se meglio vuoi conoscere di qual peso sia il peccato; rifletti, che l’ombra stessa della iniquità posta sulle spalle del Figlio di Dio umanato, lo fece cadere colà nell’orto di Getsemani; allorché vi comparve in mentre in sembianza di peccatore, per pagare, come mallevadore, quei delitti che non aveva contratto: quæ non rapui, tunc exolvebam. Or se l’apparenza, l’ombra sola del peccato posta sulle spalle del Redentore lo fece cadere a terra, procidit in faciem suam, di che peso deve mai essere questo peccato di cui tu, scellerato, non porti l’ombra ma la sostanza? Se le spalle d’un Dio non ressero al solo sembiante del peccato: sicché ebbe a dire laboravi sustinens; non posso più come vuoi dunque che Egli non faccia sforzo a sostenere te pieno di tanti vizi? Sì, sì, grida l’Apostolo: sustinuit in multa patientia vasa iræ, non vi vuol meno della sua infinita pazienza, per trattenersi dal fracassare questi vasi pieni d’iniquità tanto a lui odiosi? – Passo ora avanti e dico che se Iddio fa tanto di sforzo a sopportare il peccato, qual non farà mai a perdonarlo? O che sforzo immenso! Il peccato si commette con somma facilità, mentre basta uno sguardo a compirlo: basta una parola, un pensiero; ma commesso è di sua natura difficilissimo a disfarsi; ed è sì difficile che tra tutte le creature sì passate, come presenti, sì possibili, come future, non vi è forza che basti a tanto. Attenti. Cada sopra di voi (Dio non lo voglia) scossa da fiero terremoto la vostra casa certo da per voi non potreste liberarvi dal peso: non così, se tutti gli uomini si accordassero; e molto, più se un Angelo vi soccorresse: e pure quanti vivono buoni in terra, quanti regnano beati in Cielo, neppure la Madre di Dio sarebbero sufficienti a distruggere un peccato mortale. Chi è caduto nel peccato vi farebbe infallibilmente eternamente sotto, se il Signore non v’impiegasse la sua destra; dicendo Egli per bocca d’Isaia: Ego ego sum, qui deleo iniquitates tuas. O peccato mortale quanto mai sei terribile! mentre per scancellarti vi vuole l’Onnipotenza Divina. Allor che voi UU. miei nell’andarvi a confessare dite: Io mi confesso a Dio Onnipotente: Confiteor Deo omnipotenti … voi intendere di dire, secondo l’intenzione di Santa Chiesa, che vi vuole l’Onnipotenza Divina a perdonarvi i vostri peccati. E che ciò sia vero, sappiate che l’Onnipotenza Divina nel perdonarvi i vostri peccati fa uno sforzo maggiore, che non ha fatto precipitando all’inferno tutti i demonii, e con essi tante, quante sono le anime de’ dannati; in quella guisa appunto che prodigio molto maggiore sarebbe respingere un fiume solo all’indietro verso la sorgente, che lasciarli correre tutti a scaricarsi nel mare. Se così è, pongansi dunque, dirò io, sopra le porte dell’inferno le parole che a suo malgrado confessò Faraone colà percosso nell’Egitto: Digitus Dei est bic, qui Iddio nel castigare i ribelli impiega un dito della sua destra, e sopra i tribunali della sacra Confessione incidasi a caratteri indelebili, questa verità: Dextera Domini fecit virtutem, qui la destra di Dio impiega tutta la sua virtù, per perdonare i peccati; giacché vi vuole lo sforzo della sua Onnipotenza. – Uditemi, e stupite: più fa Iddio di sforzo a perdonare un peccato solo, che non fa a dare il Paradiso a tutti i suoi eletti. Serafini del Paradiso, affacciatevi ad uno di quei balconi celesti, è ordine di Dio, che apriate una di quelle porte eternali, acciò possiamo dare un’occhiata a quei tanti Beati, che colassù regnano. Miei UU. quei che colassù vedete fra quelli splendori, sono quei cento quaranta mila predestinati veduti da San Giovanni, e quelli che con egual pompa vestiti portano in mano l’Aureola di Martiri, sono quei dieci mila Crocifissi già sul Monte Árat. E quel Coro di Vergini immenso, che tanto tira a sé l’ammirazione, sappiate che sono quelle undici mila donzelle, che sotto le bandiere di Sant’Orsola conservarono perpetua la Verginità. Or figuratevi , che questi tre gran Cori di Confessori, Vergini e Martiri tutti insieme, e tutti in un dì avessero fatto il loro ingresso trionfale nella Città de’ Beati: dissi poco, voglio, che a questi stuoli sì numerosi aggiungiate quanti furono Confessori e Vergini, ed a loro uniate quegli undici milioni di Martiri, che vanta Santa Chiesa, e tutti, tutti in un dì facciano il loro ingresso nel Paradiso. O che trionfo, o che pompa sarebbe mai questa. Qui sì, che potrebbe esclamare con San Paolo: nec oculus vidit, nec auris audivit. Io non credo, che possiate immaginarvi liberalità maggiore del nostro Dio: e pure Iddio fa più di sforzo con perdonare un peccato solo a quella donna impudica, a quel giovane svergognato, che non fà con dar la corona a tutti gli Eletti del Paradiso; e la ragione è chiara, perché una tal Corona è loro dovuta per giustizia dopo la promessa fattane alle opere buone; là dove ad un peccatore altro non si deve che fuoco e tenebre, disperazione e morte eterna e però il rimettergli quella pena, il distruggere la loro colpa, il donargli la grazia, è come uno sforzo della Divina Misericordia, corroboravit misericordiam suam. Bisogna dunque confessare a primo ad ultimum, che la Misericordia Divina non è una noncuranza di Dio del vostro mal vivere, mentre Dio fa uno sforzo sì grande a perdonare il peccato. Confessa dunque, o peccatore, che quando tu magnifichi l’attributo sì bello della Divina Misericordia, tu non sai, che cosa dici; mentre per te vivendo in peccato mortale non vuoi dir altro se non che Dio non guarda alle tue laidezze, a’ tuoi furti, alle tue vendette; non è così no! È bensì vero che quanto sei peccatore ignorante in ciò che sia Misericordia Divina, altrettanto sei ignorante in non sapere il fine che ha la misericordia di Dio nel sopportar le tue colpe e nel perdonartele. Perché credi tu che Iddio non ti abbia ancora castigato di quelle insidie che tramasti; di quei voti segreti che consegnaste più alla passione, che al giusto; di quelle irriverenze alle Chiese; di quella disubbidienza a’ tuoi maggiori; di quella negligenza sì mostruosa nell’allevare i figli, lasciando che i maschi girino male accompagnati per ogni strada, e le femmine discorrano con chi che sia dalle finestre e su le porte. Perché, dico, credi tu, che Dio non ti abbia ancora castigato? Credi tu che Iddio abbia avuto per fine per che tu seguiti una tal vita, e v’aggiunga di più l’andare casa per casa seducendo or questa ed or quella; sicché il fine d’una amicizia malvagia sia il principio d’un’altra e non rimanga al fine prato, ove la tua disonestà non lasci stampate le orme de’ tuoi eccessi? O quanto t’inganni! Non è questo il fine, perché la Divina misericordia tarda ed aspetta a castigarti; ma è quello che ti pone avanti gli occhi l’Apostolo, allorché dice: benignitas Dei ad pænitentiam te adducit. Il fine che ha Iddio in non castigarti subito dopo il peccato, è per darti tempo di riconoscersi, e perché tu distrugga per mezzo d’una santa Confessione il peccato che annidi nel cuore, prima che venga l’ora di distruggere te nella tua ostinazione: ad pænitentiam te adducit. Se Egli non ti castiga per le tue scelleraggini, e perciò ti si fa conoscere per buono; è segno che vuole che tu impari a temerlo, giacché non sarebbe buono, se non fosse nemico degli scellerati. Vuoi, che tu intenda, che quanto più Egli è buono, tanto più farà grave la tua colpa; ricompensando tu co’ tuoi tradimenti i Divini suoi benefizi; vuole, perché Egli è buono, che tu ti sforzi d’imitarlo nella bontà e nell’odio che Egli porta al peccato: respicere ad iniquitatem non potest. Intendila, o peccatore, fine perché Iddio ha di te misericordia, e non ti castiga, è perché tu ti emenda; ma tu a guisa di Napello velenoso, quanto sei più bagnato dalle rugiade della Divina pietà, tanto diventi più reo. Perché Dio ti aspetta, perché Dio ti chiama, perché Dio ti colma d’ogni bene; vai dicendo, se non con le parole, certo co’ fatti, dunque si può vivere a capriccio. Taci, taci, e confessa pure, che senza sapere ciò che sia Divina misericordia, né pur capisci, che il fine delle sue Divine operazioni è perché tu ti ravveda: Ignoras quod benignitas Dei ad pænitentiam te adducit. Né pur l’intese a suo gran costo un certo giovane, che vivendo una vita più da bestia, che da uomo, allorché ne era corretto, rispondeva: Iddio è buono: con tre parole mi salvo: Domine, miserere mei. Avvenne però, che un giorno dopo molti stravizi, montato per diporto sopra un cavallo, nel passar che faceva per un ponte, gli si inalberò di tal maniera che gettato di sella il suo cattivo padrone, lo precipitò in un profondo d’acqua. Privo all’ora l’indegno e d’aiuto e di consiglio, invece di ricorrere a Dio con le sue tre premeditate parole, Domine miserere mei: Signore abbiate pietà di me, ne proferì arrabbiato tre altre del tutto opposte, e disse disperato rapiat omnia demon, il diavolo si pigli ogni cosa; e con questa raccomandazione d’anima, si annegò. Or mirate un poco, amatissimi peccatori, quanto siano ben fondate le speranze di quelli che, sulla speranza della Divina Misericordia, offendono Dio più temerariamente. Eh scuotetevi una volta, ed aprite gli occhi per conoscere la vostra ignoranza: intendendo, che se Dio non ci castiga, è perché ci vuole emendati; e se non volete errare appigliatevi al consiglio del Savio, che vi dice: Ne dixeris misericordia Domini magna est, misericordia enim et ira illius cito proximant. Non ti lasciar mai uscir di bocca questa parola con fine di peccare più francamente. Ma, e perché? Non è forse grande, e grandissima? Ma bisogna che tu sappia, che a lato di questa grandissima Misericordia, vi sta la Giustizia: misericordia enim, ira illius cito proximant. Sappi pertanto, che Iddio, se tu non ti risolvi di lasciar quella pratica, di levarti dal cuore quell’odio; di restituire quella roba male acquistata, metterà mano alla spada dell’ira: e con un colpo solo te le farà pagare tutte, troncherà la tua vita in mezzo a’ tuoi giorni: farà che tu non trovi un confessore che ti ammonisca. Darà su l’estremo tuo, licenza più ampia al diavolo di tentarti, ti assisterà con un aiuto meno speciale, e tu perduto ingannatore di te stesso, andrai ad imparare nelle fiamme dell’inferno il fine che aveva la Misericordia Divina nel sopportarti. – Poveri peccatori, che non siete meno ignoranti nel sapere il numero de’ suoi effetti. Aprite gli occhi. Talpe infelici d’inferno, per conoscere che se la misericordia di Dio è infinita, non sono però infinite le sue miserazioni; cioè a dire, non sono infinite le volte che vuole aspettare, che vuole perdonare, anzi sono determinate dal consiglio della sua Providenza. Tutte le opere di Dio non sarebbero di Dio, se non fossero fatte in numero, pondere et mensura. Sappi, dunque, o peccatore, che tutte quelle grazie che ha stabilito Iddio di darti, tutte quelle inspirazioni e lumi con cui vuol sollecitare il tuo cuore a pentirsi, sono tutte parimenti in numero, peso e misura. Or se tu consumi invano questa misura, che sarà di te? Avrai, non lo nego, sempre la grazia sufficiente a resistere alle tentazioni; ma non l’avrai sempre a risorgere, e quando l’avrai, non te ne saprai prevalere. – L’Evangelista San Matteo vi confermi questa verità. Vi fu un certo padrone di vigna, il quale tra le sue viti aveva piantato un albero di fico; ma cresciuto al debito segno, invece di far frutti faceva sol pompa di foglie. Tre anni tollerò il padrone la sterilità di questa pianta, per chiarirsi se il mancamento veniva dalla stagione; ma in capo a questi vedendo sempre più sterile l’albero: olà, disse al lavoratore, taglia questa pianta inutile, e gettala al fuoco, perché non è dovere che occupi sì lungamente il terreno senza dar frutto. Ecce tres anni sunt ex quo venio, quærens fructum et, non invenio; succide ergo illam ut quid terram occupat. A tali risoluzioni del padrone resistette il lavoratore ed intercede tanto di tempo da potere adottare intorno alla pianta infruttuosa qualche coltura più singolare, con protestarsi che se quella diligenza non fosse stata bastevole, si venisse, pure allora, al taglio senza rimedio: sine illam, et hoc anno usque dum sodiam circa illam, mittam stercora, fin autem non fecerit fructum in futurum succides eam. Peccatori miei dilettissimi, intendete voi questo linguaggio di Cristo, per il quale io mi riempio d’orrore da capo a piedi? In questo fico sterile vien figurata l’anima vostra. Quanti anni sono che il Signore aspetta da voi veri frutti di penitenza? Non sono tre, ma forse dieci, venti, trenta, e voi gli porgete foglie. Avete tante volte promesso al confessore l’emendazione, ma non se n’è fatto nulla; vi siete protestati di lasciar quei compagni amici di corpo e nemici crudeli dell’anima, e pur con quelli ancora si continua la pratica ed il peccato. Quante volte avete detto: restituirò, restituirò? E la roba è ancora in casa, e che altro potete aspettarvi che rovine? Eh che Iddio annoiato per tante ricadute, e per vedere che non solo non si danno frutti buoni, ma bensì pessimi d’iniquità e di scandalo; avrà di già spedito l’ordine del taglio irrevocabile per più d’uno di voi. E se così è, che sarà di voi? Io non credo che per anche sia data questa terribile sentenza, perché mi figuro che l’Angelo vostro custode, i vostri Santi Avvocati, la Vergine vostra Madre si saranno portati al Trono di Dio con supplicare che si sospenda il comando; perché sperano che nell’udir voi la Divina Parola. E nel vedere esempi di compunzione vi convertirete, ma se taluno poi dopo aver sentita questa intenzione, rimanendo ostinato con continuare nella sua vita scellerata altro non si aspetti che esser miseramente reciso da colpo di morte spietata per esser gettato in quel fuoco che merita … Sin autem non fecerit fructum in futurum, succides eam. – Peccatore, peccatrice, non vi andate più lusingando con dire dentro di voi: Iddio è buono m’ha aspettato finora m’aspetterà in avvenire: falso, falso. Se quella pianta sterile avesse così discorso, il padrone m’ha tollerato quattro anni senza frutto, dunque mi tollererà in futuro… certo non avrebbe discorso che pazzamente. Tu altresì discorri da pazzo, e tanto più che non solo sei inutile ma ancora nocivo, mentre non solo lasci di fare il bene, ma commetti anche tanto di male. Deh lasciati una volta condurre da questa guida amorevole a penitenza; e non voler più resistere alle divine chiamate; perché, se è infinita la Divina Misericordia, sono però limitate le miserazioni. Da che viene questa grande ignoranza intorno alla Divina Misericordia, ed i suoi effetti? Non da altro per verità, se non perché si considerano solamente i peccati presenti, quelli soli, che per anche non si sono confessati, senza prendersi alcun travaglio di quelli che già furono manifestati al confessore; quasi di partite già saldate abbastanza. È vero miei UU. che se avete fatta una buona confessione con vero dolore e fermo proposito, i vostri peccati son rimessi, ma è altresì vero ciò che il Santo Giob ci significa in quelle parole: signasti quasi in sacculo peccata mea, che vale a dire la Divina Giustizia poste tutte le nostre colpe una sopra l’altra quasi dentro un sacco, perché quando il sacco sia poi pieno, il fulmine dell’Ira Divina piomba sopra degli Empi senza riparo. Voi non sapete, o peccatori, di quanti peccati sia capace il vostro sacco, e però state avvertiti, perché  può essere che il primo che commetterete lo riempia, e se così è, siete perduti. Confesso il vero, che alle proteste dei maggiori Dottori della Chiesa, sì Greca come Latina, San Basilio e Sant’Agostino, io m’inorridisco: ci fanno questi sapere, avere Iddio determinato una certa misura de peccati che vuole sopportare da ciascheduno, la quale se si oltrepassa da chicchessia, o il Signore mette subito mano al castigo, o almeno lascia di assistere con quelli aiuti straordinari, senza de’ quali, sebbene il peccatore potrebbe salvarsi, pure de facto, non si salverà per sua colpa; ma se m’inorridisco a queste proteste de Santi, che farò alla voce di Dio, che nelle Sagre Scritture ci insinua questa stessa misura di colpe, protestandosi, che per aver i peccatori passato quel segno, che Egli aveva stabilito ad usar loro pietà, non l’avrebbero ottenuta, super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam; super tribus sceleribus Gaze, et super quatuor non convertam eum. Ecco le proteste terribili di Dio per bocca d’Amos Profeta: Si dichiara assolutamente che quella misericordia, che averebbe presso di lui trovato il primo, il secondo, il terzo eccesso, non era per ritrovarla il quarto, … super quatuor non convertam eum. E tu, peccatore, discorrendo da quell’ignorante che sei, vai teco stesso divisando di dover trovare la stessa facilità in Dio nel perdonarti due, tre, e quattro peccati, come nelle centinaia, che finora hai commesso? Bene, seguita pure, che presto verrà la morte, e ti accorgerai del tuo errore allorché l’anima tua a viva forza sarà portata dai diavoli nel mezzo delle fiamme per ardervi eternamente. Tanto appunto intervenne ad un uomo che non contento della compagnia datagli da Dio d’una buona donna, si teneva con scandalo una concubina. La moglie, a cui più dispiaceva l’offesa di Dio che il suo torto, di continuo pregava per lui: s’ammalò l’indegno marito, e per scampare da quella pericolosa malattia fece molte promesse di mutar vita; le credette la donna, e però per impetrarli più facilmente la sanità ricorse ad un Servo di Dio, Frate Innocenzo de Cusa, uno de primi Compagni di San Pietro d’Alcanrara, per mezzo di cui l’infermo risanò: ma che? siccome i voti fatti in mare si rompono in terra, così le promesse fatte da costui in letto si ruppero in sanità, gli era stata impetrata con condizione di servirsene in bene; tornato al peccato, tornò altresì la malattia; tornarono ancora le promesse a Dio ed alla moglie di conversione: sicché la buona donna tornò la seconda volta da Fra Innocenzo, e nuovamente impetrò la sanità. Era pur vero, che neppure questo secondo avviso bastò, perché lasciasse il peccato; tornò la terza volta ad abusarsi della sanità ricevuta, ed a ripigliare le sue disonestà, persuadendosi di trovar sempre aperta ad un modo la porta della Divina Misericordia, ma s’ingannò! Imperocché mentre Fra Innocenzo stava in orazione sentì uno strepito di cavalli ed un mormorio di voci nella strada, e fattosi a vedere che cosa era: vide una quantità di diavoli sopra cavalli d’inferno, che conducendo un cavallo vuoto per la briglia, e … chi siete? Disse, ed a chi serve quella bestia scarica? Noi siamo ministri della Divina Giustizia, ed andiamo a prender quel mal uomo, che sì lungamente si è abusato della Divina Misericordia. Si fermò il sant’uomo, ed ecco che indi a poco vide tornar la cavalcata con quel meschino in mezzo tutto piangente e con le mani alzate, chiedendo aiuto, ma troppo tardi ripigliò Fra Innocenzo: Iddio ti maledice ed io con Lui, e ciò detto con un fracasso orribile apertasi la terra, sprofondò il tutto. E perché non ho io una lingua di bronzo, una voce di tuono, per rivoltarmi a’ peccatori e dir loro: … ah ingratissimi più spietati delle fiere, più sordi degli scogli, più barbari delle furie, che a sì benefizi rispondete con offese: interverrà a voi invisibilmente ciò che visibilmente intervenne a costui. Non dite più, Iddio mi ha sopportato, dunque mi sopporterà; mi ha perdonato, dunque mi perdonerà; v’è sempre tempo a convertirsi. L’argomento non cammina, cammina bensì così: Iddio m’ha perdonato per l’addietro, dunque non mi perdonerà per l’avvenire, già che mi sono abusato delle sue grazie finora, dunque non le merito più, non mi avrà più pietà. E se fosse così, che al primo peccato che commetterai Iddio ti voltasse le spalle, che sarebbe mai di te? Lascia dunque di peccare e non ti abusare di vantaggio della Divina Misericordia, se non vuoi esperimentare severamente la Divina Giustizia.

LIMOSINA
L’Inghilterra sollevata depose il re Alfredo dal suo trono, e voleva privarlo anche di vita per dar principio a quella tragedia che fu poi compita in un altro re del nostro secolo. La fuga salvò la regia persona che, scampata in fretta dalle mani nemiche nulla più portò seco di vettovaglia, che un pane, e questo chiestoli da un povero per limosina, tutto il diede. Piacque tanto a Dio questo atto, che per mezzo di San Gutberto, apparsogli di notte gli fece dire che tornasse indietro perché sarebbe da’ vassalli ubbidienti ricevuto nella città, introdotto nella regia, e riposto in trono. O che bel cambio: per un pane un Regno!

SECONDA PARTE

Non tornate a peccare, miei UU. sulla speranza di quella misericordia che non intendete, perché io v’assicuro che resterete delusi, come appunto rimasero gli antichi Israeliti colà nel deserto. Essi così dicevano: Iddio è buono, ci ha perdonato altre volte; ha promesso d’introdurci nella Palestina, adunque ci perdonerà nuovamente, e non lascerà d’esserci sempre propizio, ma non l’indovinarono: tentaverunt me per deces vices, dice Dio, nectamen non videbunt terram pro qua juravi Patribus eorum, m’hanno irritato dieci volte, li ho sopportati, ora la mia pazienza non ne vuol più: rimangano tutti estinti nel deserto, vedano con gli occhi propri la Terra promessa, ma non per possederla. Ditemi quanto sarebbe tornato conto a quei meschini non arrivare a quel decimo peccato, che fu l’ultimo a compire la misura? Se non vi fossero giunti avrebbero trovata propizia la Divina Misericordia, avrebbero goduto il frutto delle Divine promesse; ma perché vi giunsero, restarono privi d’un tanto bene … chissà che non debba intervenire lo stesso a quel giovane, a quella giovane? Chissà   che la prima volta che tornate in quella casa maledetta, che tratterete disonestamente con quell’uomo, che commetterete quel peccato, non sia quello che dia il crollo alla bilancia? Chissà che il primo peccato, che farai non sia quell’ultimo che Dio non vuol sopportare? Forse non sarà così, potrai dirmi, ma se fosse? Sebbene che dico in forse posso con molto fondamento asserire che sarà? Perché tu non contento di dieci peccati, ne hai commessi cento, e più con le opere, più di duecento con le parole ed a migliaia con i pensieri indegni, o di vendette, di lascivie. Non è più dovere che Dio ti tolleri tanto scellerato: è dovere che la sua Giustizia ti piombi nell’inferno. Confida pure, spera pure, ed intanto non ti convertire, ed assicurati che ti troverà ove non credi. – Si era ribellato a Filippo Secondo in Fiandra il Conte d’Egmont, e ne sperava il perdono su la fidanza della clemenza del suo signore, onde diceva ad un suo confidente, salvabit me clementia regis, la clemenza del mio re mi renderà salvo, ma l’altro l’indovinò meglio, ripigliando, perdet te clementia regis, la clemenza che tu ti prometti con sì poco fondamento, ti manderà in rovina, e così avvenne, perché il conte lasciò la testa sopra d’un palco per mano di carnefice. – Io non ho genio di fare a’ miei UU. cattivi pronostici; ma mi dice il cuore che quell’ostinato che qui si trova tra voi, quel temerario che vuol per l’avvenire seguitare ad essere cattivo, perché Dio è stato buono con lui, abbia da piangere il suo errore con lacrime che non si asciugheranno in eterno. Deh apri gli occhi infelice. Ha forse Dio bisogno di te per esser servito? Forse si ha da vestire a bruno il Paradiso se tu non vi entri? Forse si ha da cambiare in deserto se tu vi manchi? Chi non vuol la pace abbia la guerra; chi non vuole la benedizione abbia la maledizione; chi non vuol salvarsi si danni! Ma che dico? Oh mio Dio: neppur uno si ha da perdere di questi che m’ascoltano. È troppo gran perdita la perdita di un’anima sola, che costa il vostro preziosissimo Sangue, e perciò non sia mai vero che perisca. Ah mio caro Signore purtroppo conosco la mia poca abilità per convertire questi cuori, e se io guardassi a questa sola, non mi sarei posto all’impresa che ho per le mani di convertire quei peccatori che ancora sono ostinati. E che posso fare io miserabilissimo? Io posso parlare, posso pregare, posso minacciare; … docebo iniquos vias tuas… posso dire col Profeta, ma non posso egualmente soggiungere … et impios hos ad te convertam, perché il convertire tocca a Voi, et impii ad te convertentur, la vostra grazia è quella che può far tutto, e questa è quella che imploro! M’avete comandato che io venga a questo popolo, son venuto. M’avete comandato che io l’inviti a penitenza; l’ho invitato. M’avete comandato che io l’ammonisca; l’ho ammonito … fecit quod jussisti; ma il muoverlo, il convertirlo, il ridurlo a Voi, non è impresa delle mie forze, ella è tutta riservata all’onnipotenza del vostro aiuto, secondo la promessa fatta, la spero … fecit quod jussisti, imple quod promissisti!

QUARESIMALE XIX

QUARESIMALE (XVII)

QUARESIMALE (XVII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)


PREDICA DECIMASET


Si mostra la sciocchezza di chi importunamente giura, l’enormità di chi spergiura, l’indegnità di chi bestemmia.
In veritate dico vobis. San Luca, cap. 4



Se la medicina delle anime si deve valere a proporzione di quelli stessi aforismi de’ quali si serve la medicina de’ corpi, male per chi importunamente giura, peggio per chi spergiura, pessimamente per chi bestemmia. Guai a voi, che con giuramenti senza proposito vilipendete il nome di Dio, con spergiuri ne strapazzate l’autorità, e con bestemmie ne disprezzate la Maestà; voi che così fate, siete a mio credito, con un piede nell’Inferno. È legge stabilita dai medici, che nei mali singolarmente acuti, i più certi segni si colgano dalla lingua, stimata allora sì fedele nel darli, che vince il polso. Quando vedasi per tanto in bocca d’un febbricitante una lingua che nel medesimo tempo comparisca o nera come uno spento carbone, o ardente come un acceso, sappiate che in tal caso, quantunque il polso, sto per dire, ottimamente regolato, asserisce perfezione di sanità, non gli si deve credere, ma dovendosi prestare tutta la fede alla lingua, può apparecchiarsi il funerale ed aprirsi il sepolcro, perché l’infermo è spedito. Lingua nigra e virulenta calamitosissima, scrisse da suo pari, Ippocrate. Lo stesso dirò io nella cura delle anime vostre. Se io tocco il polso ad alcuni, non lo trovo cattivo; vengono molti alla Chiesa, altri digiunano, dispensano altri larghe limosine, non tralasciano le quotidiane orazioni, assistono ogni dì al Sacrificio della Messa, tutto è vero. Ma a che servirà se la lingua loro è tutta infiammata per i continui giuramenti e spergiuri, e quel che è peggio annerita ed avvelenata per le bestemmie? Avvertite voi che avete lingue sì perfide, e che senza riguardo alle anime vostre, senza rispetto a Dio giurate, spergiurate e bestemmiate, perché avete dentro di voi un’occulta malignità, la quale vi darà morte eterna. Con voi dunque me la prendo, mostrandovi la sciocchezza di chi giura importunamente e l’enormità di chi spergiura, e l’indegnità di chi bestemmia; l’argomento merita attenzione. – Non vi crediate già miei UU., che io intenda vietarvi il giuramento lecito, o questo no! Pertanto, se la necessitá di purgare voi stessi falsamente accusati, o per motivo di liberare il prossimo a torto oppresso, siete costretti a giurare, giurate. Tanto v’approva ancor Socrate, vel ut teipsum turpi suspicione liberes, vel ut amicum ex magnis periculis eripias. Lo stesso Dio per Geremia al Cap. 4. v’assicura di giuramento ben fatto e senza colpa, ogni qual volta vi concorrano tre circostanze: et jurabis vivit Dominus, in Veritate, in Judicio, in Justitia; Io dunque torno a dirvi, non intendo del giuramento ben fatto, ma bensì me la prendo contro l’intollerabile costume di non pochi Cristiani, i quali non fanno aprir bocca senza giurare, ed è sì frequente un tal abito in loro, che Sant’Agostino potrebbe tornare, anche ai dì nostri ed esclamare, non essere ormai tante le parole che si proferiscono, quanti i giuramenti che si fanno. Entrate per le botteghe e sentirete che le bocche di quei lavoranti non sanno parlare senza giurare; portatevi a quei fondachi, a quei banchi, non sentirete altro linguaggio che per Dio, alla fede di Dio. Penetrate le case, non solo della plebe più infima, ma della nobiltà, e quivi pure sentirete lo stesso; così per le strade, così per le piazze, sicché l’aria è ammorbata di giuramenti; anche le Chiese son costrette a sentire questi giuramenti, e talora da Sacerdoti, nelle di cui bocche, se le bagattelle, al dir d’Agostino, sono quasi bestemmie, che sarà sentir continui giuramenti? È vero Padre, si giura; ma non per questo si commette peccato grave. Basta, io non voglio qui decidere se siano peccato mortale! Dico bene che questo è un disprezzare il Nome di Dio, e che Iddio, così maltrattato da voi con tanti giuramenti senza necessità, si dichiara volersi vendicare. Sentite come parla nel Deuteronomio al 5. Non erit impunitus, qui super re vana nomen meum assumpserit: sarà castigato, chi mi maltratta, servendosi invano del mio Nome. Ma se Iddio si dichiara di voler severamente punito chi giura per cose indifferenti, quali castighi non adoprerà per punire quelli indegni che ardiscono chiamare in testimonio Iddio per un’azione proibita dallo stesso Dio? Mi spiego: quali castighi non adoprerà per punire quel giovane che chiama in testimonio Iddio per sedurre quella giovane, con giurarle l’amore che le porta, che la sposerà, e la fedeltà che le userà nel tradimento, che sarà per farle togliendole l’onore. Sarebbe, quasi dissi, poco male, se il giurar senza proposito che vale a dire vilipendere il Nome di Dio, partorisse solo gli accennati mali. Il peggio è, che dal giuro si passa facilmente allo spergiuro, impossibile est jurantem non perjurare; dal giuro allo spergiuro v’è un breve passo, che è quanto dire che dal vilipendere il Nome di Dio con giuramenti, si passa a strapazzare l’autorità con gli spergiuri. Mento forse a dire che gli spergiuri strapazzino l’autorità di Dio? Appunto, ecco che ve’l fo toccar con mano, e vi fo vedere che strapazzate in modo l’autorità di Dio, chiamandola in testimonio delle vostre falsità, che vi vergognereste di strapazzare in tal forma quella d’un uomo vostro pari. Vien qua tu che nelle piazze, nelle botteghe, ne’ tribunali giuri il falso, dimmi: quando tu sei risoluto di fare quel giuramento falso, ardireste di chiamare quell’amico, quel cavaliere, e di dirgli: signore, venite di grazia meco e con me fate falso testimonio che questa roba val tanto; dite che il tale ha rubato, ha ucciso, quantunque non sia vero, oppure venite a dire, che ho pagato, benché non sia vero. Dì su, ardireste di richiedere ad un cavaliere queste cose? No per certo. Come dunque le chiedi a Dio? Esclama Filone: quod ab amico non audes postulare, ad id Deum vocas? O cosa orribile, chiamare in testimonio Iddio per opprimere il prossimo. Ma che meraviglia che costoro spergiurando disprezzino l’Autorità Divina, mentre con i loro spergiuri giungono a far di peggio. Sapete quello che voi fate con giurare il falso? Voi con lo spergiurare in un certo modo rinegate Dio, rinunciate a Cristo, abiurate il Vangelo, negate la Chiesa, i Sacramenti con tutti gli articoli di nostra Fede e divenite ateisti. Ecco le parole di Damiano: Quisquis jusjurandum violat, a Christi se corpore separat, a Redemptionis humanæ misteriis alienat; chi viola il giuramento si separa, quale scomunicato, dal Corpo Mistico di Cristo, che è la Chiesa, ed aliena da sé tutti i Misteri dell’umana Redenzione. Quando ti viene offerto il libro de’ Vangeli, acciò che tu giuri sopra di quelli, tu dici così: è tanto vero ciò che io giuro, quanto è vero questo santo Vangelo; dunque, se è vero ciò, che tu giuri, vieni a dire, che è vero ciò che dice il Vangelo, e se giuri il falso, vieni a dire che è falso il sacrosanto Vangelo, ed è come se tu dicessi: non è vero che Cristo sia Figlio di Dio; non è vero che si sia incarnato per opera dello Spirito Santo; non è vero che sia nato di Maria Vergine; non è vero, che per noi abbia patito, e sia morto; non è vero che sia risorto, né salito al Cielo; nego che sia per venire a giudicare il mondo, nego il suo eternamente regnare in Cielo, nego Purgatorio, nego inferno, nego Paradiso, e dico in somma esser falso quanto contiene questo libro dei Vangeli. O Dio, si può sentir cose più indegne dalla bocca d’un ateo, e pure tutto ciò dice uno che giuri il falso sopra del Vangelo. Che farà dunque di questi spergiuri? Ve lo dicano le sacre carte .. – Venite meco al terzo de’ Re, ove vedrete per un spergiuro, castigata la persona, puniti i figli, sterminata la famiglia, rovinata la casa e perduto quanto mai nel mondo possedeva. Nabuccodonosor tolse la corona di Giudea a Giochimo, che con le sue scelleraggini se ne era reso indegno, e la pose in capo di Sedecia, ed il dichiarò re, constituit Regem Judae, e dichiaratolo suo tributario volle prestasse il giuramento di fedeltà. Giurò, ma spergiurò, perché con pensiero di non osservare il vassallaggio che giurava; onde soggiunge il sacro testo, che partito di li spergiurò, si riempì di scelleraggini … discessit, fecit omne malum in conspectu Domini, apostatò da Dio, si diede all’idolatria. Qui fo io una riflessione, e dico: gran cosa, di tante scelleraggini che colui commise, non parla il sacro testo che per queste fosse castigato, ma lo dichiara bensì castigato per lo spergiuro. Così è, così è, tutta la collera e lo sdegno Divino va a cadere sopra del giuramento falso, perché Dio abborrisce tanto chi spergiura, che quasi si scorda d’ogn’altra scelleraggine per castigar questa, e contro di questa si mostra implacabilmente sdegnato; permise dunque Dio che fosse catturato e condotto in Babilonia, ove processato sotto i comandi di Nabucco, fu condannato a morte; né qui finì lo sdegno, poiché, presi i figli, su gli occhi del padre furono fatti scannare. Di più. Ecco la città tutta a fuoco, a sangue; i Tempii, i Palazzi, le mura s’abbruciano, s’inceneriscono. Che dite UU. miei? Iddio è implacabile contro chi spergiura. Di tanto v’assicura Crisostomo, oracolo della Chiesa, segretario di Paolo Apostolo. Intendetela, Dio è implacabile contro chi spergiura, e se tale si mostrò nel vecchio Testamento, tale ancora si è mostrato nel nuovo. Servavi un caso solo spaventoso per tanti che potrei narrarvi, E voi figli infelici, che nascete da padri spergiuri, preparatevi alle vostre rovine, perché Iddio vuole spiantata da’ fondamenti quella casa ove sono spergiuri. In Corsica presso San Bonifacio rimase vedova una donna dabbene a cui il marito, morendo, lasciò trecento ducati per accasare, a suo tempo, una figlia, unico frutto delle loro onorate nozze. Or la bontà di quella semplice donna che dubitava, temendo il danaro le fosse rubato, consigliatasi, lo consegnò ad un suo vicino, totalmente lontana dal sospettare quella frode in altri, che non ammetteva in sé. Cresciuta la figlia in età da maritarsi, domandò il danaro al conoscente, il quale, accecato dall’interesse, negò sfacciatamente d’aver avuto nulla, e se nulla vuoi, disse, va’, chiamami alla giustizia. Afflitta la meschina portò a piangerci amaramente al giudice, adducendo solamente per testimonio la rea moglie del perfido marito. Chiamato in corte l’uomo malvagio con la consorte, si diede loro il solito giuramento, e l’una e l’altro giurarono sopra la propria vita e de’ poveri figli, che nulla sapevano intorno a’ danari. Ma, o Divina Giustizia quanto siete terribile! Tre figli avevano questi due spergiuri, uno di due mesi, di cinque anni l’altro, di venticinque il terzo. Tornata a casa la madre trovò sotto la culla estinto il suo piccolo figliolino, e conoscendo il divino castigo che già arriva, invece di chieder perdono, disperata, uccide l’altro putto con un coltello, né qui termina la tragedia. Giunge il marito, ed attonito per lo spettacolo de’ due figli uccisi, agitato da fieri rimorsi di coscienza, montato in rabbia, con una spada passò petto alla moglie, ed empiendo di grida il vicinato, come la casa era piena di sangue, scoprì da sé gli eccessi. Ecco la Corte che, preso quell’empio col ferro ancor grondante di vivo sangue, lo condanna a morte. Parerà a voi miei UU., che tanto bastasse per punire un giuramento falso, ma non bastò a Dio. Udite e non inorridite, se potete. Mancava in quel paese il carnefice per eseguire la sentenza di morte, quando ecco che ad effettuarla si offre il di lui figlio stesso primogenito, che si fece avanti per vendicare la morte della madre a lui sì cara, vinse col furore la vergogna, montò le scale ed eseguì la sentenza, strozzando su la forca il proprio padre spergiuro, e di poi fattolo in quarti si palesò ingiusto con un atto di somma giustizia. Né qui si quietò la vendetta divina, poiché, passato il furor della rabbia nel giovane, e riflettendo alla ignominia ritratta per essersi fatto carnefice del proprio padre, uccise con quella mano parricida anche se stesso. Intendete o iniqui la protesta che fece Iddio allorché disse, che la maledizione sarebbe discesa sopra gli spergiuri, né mai si farebbe partita, finché non avesse finito di sterminarli da’ fondamenti: maledictio veniet ad Domum jurantis in nomine meo mendaciter; ma non basta che vi venga, vi abiterà, e commorabitur in medio Domus ejus; e di più la consumerà fino a ridurre in polvere quanto vi è dentro, et consumet eam, ligna, et lapides ejus. Criftiani, il giurare il falso è un mettere in rovina totale le vostre case, in evidente pericolo di dannarsi l’anima. Povere case, che avete i vostri capi che spergiurano. Poveri figli che nascete da padri spergiuri. Povere figlie, che per vostra disgrazia siete figlie di spergiure, vi compatisco, perché temo alle vostre persone, alle vostre case rovine irreparabili, non recedet a domo illius plaga, sempre saranno sotto il flagello di Dio! Quando vedete che una casa comincia a dare indietro, gli mancano l’entrate, non può più vivere col primiero splendore, troverassi d’ordinario che o vi fu, o v’è un spergiuro. Assicuratevi che al Mondo non v’è peccatore più iniquo e perverso dello spergiuro. Ogni peccatore ricusa, dice il Santo David, d’aver Iddio presente alle sue iniquità; dixit insipiens in corde suo non est Deus, solo lo spergiuro lo vuol presente, e lo chiama per testimonio delle sue scelleraggini. Poveri loro, che non avranno chi l’aiuti, essendo in dispetto anche ai Santi. San Gregorio fa questa osservazione, che a suo tempo venivano ai sepolcri de’ Santi Martiri, gl’infermi e guarivano, gl’indemoniati e si liberavano; ma se venivano gli spergiuri, questi più che mai erano travagliati da’ loro mali; ad Martyrum sepulchra veniunt ægri, et sanantur, veniunt dæmoniaci curantur, veniunt perjuri, a demonio vexantur; se la sono presa con Dio, e però par che non trovino, neppur pietà ne’ tempii, e par che loro intervenga, come suole avvenire nelle cause contrarie al Principe, per le quali non si trova né avvocato che scriva, né procuratore che voglia agitare la lite, né giudice che sentenzi; hanno troppo vilipesa l’autorità di Dio con i loro spergiuri. – Ah lingue indegne raffrenatevi, e giacché v’ho mostrato quanto indegna cosa sia, ed a quali castighi vi porti non solo il vilipendio del Nome di Dio negli inutili giuramenti, ma molto più il disprezzo dell’Autorità divina negli spergiuri, sappiate che questi, come gradino alle bestemmie, vi condurranno a disprezzarne la Maestà, e di conseguenza alla, quasi dissi, sicura perdita dell’anima vostra. Intendetela, quanto e difficile non mentire a chi giura, altrettanto è difficile non bestemmiare a chi spergiura, non essendovi dallo spergiuro alla bestemmia, che un breve traghetto. Accade in quest’affare ad un’anima, ciò che avviene ad una piazza assediata, finché si difendono le fortificazioni esteriori non vi è paura; ma come l’inimico arriva a sbucar nel fosso è agevolissimo che dal fosso arrivi a piantare vittoriosa bandiera sopra le muraglie. Appigliatevi dunque, miei UU., al consiglio di Cristo in San Matteo al quinto: nolite jurare omninò; non giurate senza cagione molto grave, altrimenti il giuramento vano, in breve aprirà la strada allo spergiuro, e questo alle bestemmie, come s’avviene per ordinario che pochi soldati lasciati incautamente salire sul muro aprono poi le porte al grosso dell’esercito che è di fuori; temete questo gran pericolo di passare dal giuramento agli spergiuri, e dallo spergiuro alle bestemmie. – Sapete voi quello vuol dire bestemmiare: vuol dire che, siccome con lo spergiuro si strapazza l’autorità divina, così con le bestemmie si strapazza la Maestà. Questo è quello che voi fate con quelle vostre bestemmie, non solo semplici, ma talora ereticali. Sapete a che segno arrivate con le vostre sacrileghe bocche (perdonatemi Angeli Santi del Paradiso, se io mi servo degli scellerati termini di questi indegni, altro fine non ho che emendare il peccatore, e pur temo che non mi si ascriva a colpa) arrivate a dire, lo dirò con parola meno indegna; ma no, perché tuttavia, me l’impedisce il rossore. Cieli, e perché tenete oziosi i fulmini? Mare, e perché non allaghi la terra che contiene questi empi? Terra, e perché non li subissi? Quello però che più aggrava il vostro esecrabile delitto è quel non capirsi a qual fine, per qual pretesto, con che speranza d’utile, voi v’induciate a bestemmiare. Certo che voi non bestemmiate per gusto, perché i bestemmiatori si cibano di veleno amarissimo, né pur di reputazione, perché, se è infame chi bestemmia il suo Principe,
conforme la legge, quanto sarà più infame chi bestemmia il Principe de’ Principi: Rex Regum; né tampoco d’interesse, perché dopo aver bestemmiato non hanno accresciute le loro facoltà, né soddisfatto a’ loro creditori. O che pazzi, o che stolti sono mai i bestemmiatori, perché senza un’ombra d’utile assassinano l’anima loro con colpe gravi. Dio immortale, (perdonate al mio parlare) che i vendicativi vi oltraggino con le vendette hanno pure qualche diletto in quello sfogo di vendetta; che i sensuali v’offendano con le loro sensualità è un gran male, ma pure hanno il piacere nelle loro sfrenatezze; che tanti s’ingrassino con la roba altrui, è deplorabile, ma finalmente ne provano qualche utilità. Ma questi bestemmiatori indegni, che ne ritraggono dal loro sputare in faccia de’ Santi, della Vergine, di Dio, le loro bestemmie? Nulla, nulla, tutta è malizia d’inferno. Il bestemmiatore supera la malizia del diavolo, perché, se il diavolo bestemmia Iddio, lo bestemmia, perché è tormentato con pena di fuoco, e fuoco eterno, ma esso bestemmia quando è favorito con benefizi. Arrossitevi al racconto d’un fatto degno. Quel Santo Vescovo di Smirne, Policarpo, fu in età cadente citato al tribunale del proconsole come adoratore di Cristo. Era però di tal fama presso ognuno, che anche i nemici ne avevano venerazione; onde è, che quello stesso tiranno, che prima lo citò per ucciderlo come reo, dopo bramò salvarlo come innocente; ma non potendo ottener da lui, né con preghi, né con promesse, né con terrori, che ritrattasse la Religione Cristiana, gli fece per ultimo queto partito, che egli, se non col cuore, almeno con la lingua bestemmiasse una sol volta il Nome di Dio, e se ciò faceva gli prometteva di mandarlo subito alla sua Chiesa, non solamente libero d’ogni insulto, ma carico di doni. A questa diabolica proposta si riempì d’un Santo orrore il venerabile vecchio; indi, alzati gli occhi al Cielo: sono, disse, ottantasei anni che io servo questo Signore dal quale, non solo non ho ricevuto disgusti, ma sommi benefici, e come posso indurmi à betemmiare un tanto padrone? Sono venti anni, sono trenta, sono cinquanta, o peccatore, che questo padrone ti benefica con roba, con figliolanza, e tu in ricompensa, altro non fai che bestemmiarlo. Ma non dubitare, che Dio ti castigherà, quando meno te l’aspetti. –  Si racconta come si trovava in un circolo un bestemmiatore, il quale fu sì preso, e gli fu detto, che Dio l’avrebbe castigato, ed egli rispose sfacciatamente: che vuol farmi Iddio? Sì è? Lo vedrai adesso; non ti vuol mandare fulmini dal Cielo che t’inceneriscano, né terremoti che ti subissino. Ecco, come vuole castigarti. Ecco, che per aria si fa vedere un piccolo moscerino, il quale girando e ronzandosi posò sul naso di quel bestemmiatore. Egli lo scaccia, torna il moscerino e lo manda via; ritorna e gli entra nel naso; procura di levarlo, ma non fi può; sale il moscerino alla testa, s’aiuta quel bestemmiatore. (Or vedi cosa può farti Iddio! ). Ed in un tratto alla vista di quelli amici dà il meschino tre girate tondo tondo, e cadde morto. Ecco il fine di questi superbi, così son trattati da Dio. Che farà di te, se non t’emendi? – O Padre, è vero, che bestemmio, ma solo quando sono in collera, ed io vi rispondo è possibile che per le vostre rabbie, e per i dardi della vostra lingua non abbiate bersaglio più vile di quello del Nome della Vergine, di Dio? Mancano forse altre parole per sfogar la vostra collera; e poi per questo siete rei, perché nominate Dio in collera! Giacché nominarlo con riverenza non è male. Padre, io non bestemmio in collera, ma per una mala consuetudine, per una maledetta usanza; neppur questo vi scusa, ma v’aggrava, perché è segno, che avete bestemmiato più lungamente. “UU., se tra voi v’è chi abbia sì brutto vizio, lo lasci presto, perché ogni indugio gli costerà assai, e forse la morte eterna. Non vi è segno peggiore per un infermo, che mandar fuori una respirazione del tutto fredda, frigida respiratio lætalis, dice Ippocrate. È cattivo segno, non v’ha dubbio, aver fredde le mani, freddi i piedi; ma, se sia freddo il fiato, aprite la sepoltura, perché l’infermo già muore. Così dico io de’ mali dell’anima; se sarete freddi nelle mani fino a non fare un’opera buona d’una limosina, se sarete freddi ne’ piedi fino a non aspirare né pur di farla, male; ma pure potrete sperare di salvarvi; ma quando in voi si scorga anche freddo il fiato, l’alito, ch’è quanto dire, quando non solo non onoriate Dio con le opere, ma di più lo strapazziate con spergiuri e bestemmie, questo respiro così freddo e mortale, frigida respiratio lætalis, l’inferno può dirsi aperto per voi. Nelle nostre lettere annue si legge che uno de’ nostri Padri nella Città del Messico, andò a confessare i prigionieri, e fu da essi avvertito che vi era fra di loro un gran bestemmiatore, affinché venendo ai suoi piedi lo correggesse di buona maniera. Ma se lo scellerato lasciò di confessarsi, non lasciò però il Padre di fargli un’amorevole correzione dicendogli, che non strapazzasse Iddio con quelle orride bestemmie, e, se non vi emenderete, dissegli, aspettatevi pure l’inferno. Che inferno? soggiunse quell’iniquo. Io voglio bestemmiare più che mai per farvi dispetto. Vedendosi dal Sacerdote tanta protervia, lo lasciò stare, e solo nel partire soggiunse: presto v’accorgerete a chi avrete fatto dispetto. Venne la sera, e l’indegno bestemmiatore si pose quietamente a dormire nella sua prigione, come se nulla avesse di debito con Dio. Ma nel meglio del sonno comparvero due demoni, uno con lanterna in mano, e l’altro con le mani del tutto libere; lo svegliarono di fretta, e gli dissero: tu sei quell’infame, che vuoi bestemmiare per far dispetto al confessore? Or bene, la pagherai, ed in così dire, quel diavolo che nulla aveva nelle mani, l’afferrò e lo cominciò a gettare in alto come un pallone ed ogni volta che cadeva giù, gli dava un gran colpo nella bocca. Così, doppo averlo ben ben pestato, lo pose in terra, e pigliatagli a forza la lingua, gliela cucì al palato, e si partirono. La mattina seguente, nell’entrar che fece il soprastante delle carceri a rivedere le prigioni, vide questo spettacolo, e vide, che l’indegno non poteva più parlare se non con i cenni. Si chiamò il cerusico, il quale, vedutolo, disse non esser male per la sua cura. Si chiamò il confeffore, ma neppur questo poté far nulla; onde il sacrilego bestemmiatore morì con la lingua attaccata al palato. Voi dite che questo fu un gran castigo; ma io dico: piacesse a Dio, che se molti di quelli che son rei di simile peccato fossero castigati in simil modo, così almeno perderebbero quell’istrumento della loro dannazione, che è quella lingua iniqua, con la quale bestemmiano. Ecco che, per ultimo rimedio voglio usar con voi quell’arte appunto, che si usa con i basilischi per ucciderli; gli si mette avanti gli occhi uno specchio, sicché alla orribilissima vista del loro sembiante muoiono. Così io pure vi pongo avanti gli occhi l’esecrabile malizia delle vostre bestemmie, chiamate da Cristo medesimo peccato irremissibile, perché quantunque assolutamente parlando non vi sia piaga che col balsamo della penitenza non sia sanabile, con tutto ciò, questa è tra tutte si putrida, che rare volte si sana. Voi con questo vostro linguaggio ben mostrate a qual patria apparteniate: la vostra patria, o bestemmiatori, è l’inferno; siete concittadini de’ diavoli, e de’ dannati, tra le vostre bestemmie e quelle de’ diavoli vi passa una straordinaria corrispondenza, e si formano due cori di musica, uno sotto terra, l’altro sopra terra, sicché simili a loro nel bestemmiare di qua, gli farete simili eternamente bestemmiando di là.

LIMOSINA
Il dare a’ poveri, Cristiani miei, non è perdere il suo, ma è cambiarlo in meglio, è un darlo ad usura nelle mani di Dio, dove ogni granellino sparso moltiplica a mille e mille. Da Altissimo, septies tantum reddet tibi. Da’ pure a Dio, a proporzione di quello egli ha dato a te, e vedrai quanto ti frutterà; avrete da fare con un Signore che non si lascia vincere di cortesia, e che senza paragone vi darà più di quello voi deste a lui ne’ suoi poverelli. Così appunto tratta il Cielo con la terra, toglie da lei alcuni vapori inutili, e glieli rimanda poi sopra in rugiada, allattando le Piante.

SECONDA PARTE.

Questa predica par fatta solamente per gl’uomini; molte però di queste donne s’accusano d’aver bestemmiato anche loro, ma per verità le loro bestemmie d’ordinario non sono che imprecazioni e verso de’ loro figliuoli, o del prossimo, o di loro, e talora alle creature irragionevoli, pregandoli qualche male, dicendo: che tu arrabbi, che ti rompi il collo, e simile. Queste non son bestemmie, ma imprecazioni, dalle quali bisogna guardarsi, prima perché son di disgusto a Dio, poi perché fanno male all’anima vostra, poi perché molte volte il Signore permette che accadano, benché voi non le diciate di cuore; sopra tutto avvertite di non mandarle a’ vostri figli. Udite ciò che si racconta nella vita di San Zenone Martire. Una povera madre aveva un figlio solo, e tornata la sera a casa, trova che al ragazzo è venuta una gran febbre, lo pone a letto, ove anche ella voleva riposare, ma non fu possibile, perché il figliuolo bruciando di sete, ad ogni tratto la svegliava con dire: mamma, da bere; e la madre per l’amor che gli portava si levava, e lo consolava; si levò la poverina per tanto da trenta volte senza adirarsi, e l’ultima volta si lasciò vincere talmente dalla passione che, dandoli da bere, gli disse: va’, che possa bere un diavolo, e così avvenne, poiché entrò subito il diavolo addosso al figliuolo. Immaginatevi il dolore della povera madre, pianse amaramente, lo condusse al Sepolcro di San Zenone, e fu liberato. Un’altra madre diceva ben spesso ad una sua figlia … che ti mangino i lupi, ed una mattina, tornando dalla Messa, trovò che il lupo l’aveva portata via, e solamente gli lasciò in testimonio la testa. Un padre sempre diceva al suo figlio: che tu possa abbruciare; volete altro, si dié fuoco alla Chiesa de’ PP. Francescani in una città di Toscana, ed il figlio vi restò arso. Né solamente il Signore permette che vengano addosso quelle imprecazioni che mandiamo ad altri, ma quelle ancora che fulminiamo contro di noi. Sentite, caso spaventoso riferito da Martino del Rio .. In Sassonia, una fanciulla aveva data parola ferma ad un giovane di sposarsi con esso lui, con l’aggiunta di questa imprecazione: se non vi piglio, il demonio mi porti via. Si raffreddò l’amore e la giovane si cambiò talmente, che si accasò con un altro. Seguirono le nozze, e finito il convito, cominciossi un ballo di festa, il quale per l’infelice sposa, fu un ballo di funerale; imperocché comparvero due diavoli in abito di giovani forestieri, ed introdottisi a ballare, presero in mezzo la sposa per più onorarla; ma dopo alcuni giri, levarono seco in alto, a guisa di due sparvieri la preda fatta, e se la portarono via. Immaginatevi pure che i suoni si cambiarono in pianto, e le allegrezze in terrore, tanto più che il di seguente, sulla stessa ora, comparvero gl’istessi giovani con gl’abiti, con gli anelli, col vezzo, con tutti gli ornamenti della sposa da loro rapita, e gettatili avanti la dolente madre, gli dissero: prendi pur queste robe, che a noi basta l’anima della tua figlia. – Inoltre, con queste imprecazioni che dite nelle vostre case, date un pessimo esempio alla famiglia, sicché i vostri figli le imparano e questo poi e il linguaggio col quale parlava. In Liegi si smarrì un piccolo figliolino, e preso con carità da alcuni per ricondurlo alla propria casa, gli dissero: chi è tuo padre? Rispose, il diavolo. Chi tua madre? il diavolo. Qual è la tua casa? La casa del diavolo. Queste erano le riposte, e perché? Perché in casa non si sentiva altro che dire, salvo che il diavolo ti porti; questa è la casa del diavolo; il marito alla moglie, sei un diavolo; così la moglie al marito. Signori confessori, quando le madri, ed i padri si lamentano de’ figli scorretti, invece di compatirli, dite loro: ben vi stà, voi li allevate malamente. Contentatevi, che io per ultimo me la prenda anche con certe donne, e certi uomini, i quali fanno lega col demonio, ricorrendo a lui con indegne superstizioni, perché li aiuti a vincere nel gioco, a sortire uno sposalizio, a sapere un segreto, a liberarsi da’ colpi delle armi nemiche, a torsi qualche male d’occhio, di stomaco, di sciatica, e che so io. O poveri voi, se praticate quest’arte diabolica! Ne mi state a dire: Padre, le pollize che fo, le parole che dico per guarire il male, per sapere il segreto, per far che le palle non feriscano, son buone; Che importa che le parole siano buone, se poi ve ne mescolate delle cattive; per viziare una cosa buona, basta mescolarvene delle cattive. La vipera non è tutta velenosa, e pure quel tossico, che ella ha, è sufficiente a dar la morte. Questi che praticano le superstizioni hanno commercio col diavolo, mentre con patti se non espressi, almeno taciti se l’intendono con esso, e perciò sono nemici giurati di Dio: Inimicus meus, qui versatur cum inimicis meis, così parla la legge. O Padre, queste superstizioni ei giovano per liberarci da vari mali, per liberar le nostre bestie, per farci trovar danari. O pazzi che siete, io vorrei prima morir mille volte che vincere col demonio. Avvertite bene, che se il demonio vi risana, vi risana per darvi la morte; se or vi libera la bestia, di qui a poco ve la farà precipitare; se or vi libera il figlio, di qui a poco ve lo farà cader nelle braci; vi promette molto e poi vi toglie tutto. Così appunto intervenne a quel misero giovane in Roma, il quale, dopo aver dato fondo ad un ottimo patrimonio, ricorse al diavolo per via di superstizioni per cavarne un tesoro; ebbe ad intendere che il demonio da lui chiamato con la superstizione, non conosceva altro tesoro, che quello, che il misero gli voleva dare dell’anima sua. Ecco dunque, che una notte sentì bussare alla sua camera, e chiedendo chi fosse, udì rispondersi: sono il diavolo da te chiamato con le superstizioni: eccomi, aprimi; gli aprì con qualche terrore, e presa una spada in mano, e con l’altra appesasi un’immagine della Madonna al collo (per averla, come vorrebbero la maggior parte degl’uomini: Avvocata non de’ peccatori, ma del peccato) S’incamminò al luogo del tesoro, ove trovò un monte d’oro, d’argento e di gioie; ma credete voi, che gioisse a questa vista? che stendesse le mani? Appunto, fu subito preso da un grande orrore; gli scorse per le vene gelo di morte, e con poco fiato ricondottosi nel suo letto in capo a tre dì, morì. Questo è il fine di chi se la tiene col diavolo con le superstizioni: domandate a Dio, ai Santi, ciò che volete, e non al diavolo vostro nemico: Qui porrigit Pomum, surripit Paradisum; vi mostra un pomo, e vi toglie il Paradiso…

QUARESIMALE (XVIII)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – “NON MEDIOCRI”

Sempre straordinario fu l’impegno del Santo Padre Leone XIII, nella formazione teologica, filosofica, ecclesiastica del giovane clero di ogni Nazione cattolica. L’istituzione di numerosi collegi in Roma per la formazione di Sacerdoti cattolici provenienti da ogni parte del mondo rende testimonianza di questo zelo ed impegno massimo dei Pontefici romani e dei Vescovi delle conferenze nazionali. Ecco perché i nemici della Chiesa di Cristo hanno da sempre cercato di infiltrare questi luoghi di sapienza cristiana onde corrompere i giovani nascenti Dacerdoti con filosofie bislacche e teologie di novatori di dubbia retta dottrina o francamente eretiche. Questa lenta infiltrazione ha fatto sì che i giovani Sacerdoti imbevuti di modernismo e pensiero laico-paganizzante, diventassero alti prelati in grado di scardinare i fondamenti più solidi della fede cattolica, fino a generare una falsa chiesa diretta da, e rispondente a logge massoniche ed a personaggi occulti ferocemente anticristiani, che hanno dato vita ad una “sinagoga satanica” che ha ribaltato dottrina, liturgia, modalità di preghiera, devozioni, introducendo novità di matrice pagana ed esoterica nel culto e nella prassi ecclesiastica; esempi lampante ne sono l’invocazione esplicita del “signore dell’universo”, cioè il massonico lucifero baphomet al quale è offerto il rito rosa+croce della cosiddetta messa del novus ordo, la intronizzazione con doppia messa nera di satana in Vaticano del giugno 1963, e la più recente introduzione, sempre ufficiale in Vaticano, della dea pagana Pachamama. Ma noi Cattolici del pusillus grex resistiamo e manteniamo la nostra fede di sempre fondata sulla vera ed unica Chiesa di Cristo, cioè la Chiesa cattolica, una, santa, ed apostolica, sicuri della sua riapparizione più splendente e santificante che mai. Preghiera, pazienza, penitenza, fiducia incrollabile in Gesù Cristo Signor nostro ci porteranno alla vittoria pur se perseguitati, combattuti, martirizzati per Cristo. Eamus et moriamur cum Illo!

NON MEDIOCRI

EPISTOLA ENCICLICA
DI SUA SANTITÀ
LEONE PP. XIII

Ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi di Spagna.
Il Papa Leone XIII. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Come voi sapete, non appena abbiamo assunto il governo della Chiesa Ci siamo dedicati con grande zelo e diligenza a difendere e ad accrescere nella vostra terra il patrimonio della Cattolicità e a confermare, anzitutto, la concordia degli animi e a stimolare la salutare operosità del Clero. – Ora, animati dallo stesso zelo, rivolgiamo la Nostra attenzione ai vostri giovani chierici, per potere, in unità di intenti con voi, contribuire alla loro formazione. Vogliamo che questa sia una nuova dimostrazione della paterna benevolenza con la quale, in un gesto abituale, abbracciamo voi tutti. Ciò è dovuto. Non ci siamo infatti dimenticati della realtà spagnola, né ignoriamo la vostra incrollabile fermezza nella fede ricevuta dai padri e la vostra deferenza verso la Sede Apostolica. È questo il vero motivo, per cui il nome della Spagna è assurto a tanta grandezza di gloria e di potenza, come attestano le memorie storiche. È ben fisso nella Nostra mente, e non intendiamo ora passarlo sotto silenzio, che nei momenti di sventura Ci sono giunti proprio dalla Spagna motivi di profonda consolazione. Ci torna quindi sommamente gradito ricambiare le vostre attestazioni di affetto. Per lungo tempo il Clero spagnolo si distinse per la scienza divina e per la raffinatezza degli studi letterari; per mezzo di queste doti, riuscì a far progredire non poco la verità cristiana e la reputazione del proprio paese. Non mancarono persone munifiche che, fattesi carico del patrocinio delle arti più eccelse, le sostennero in modo adeguato ai tempi; non mancarono pure ingegni ben preparati nello studio delle discipline teologiche e filosofiche, nonché di quelle letterarie. Sappiamo quanto abbiano contribuito ad incrementare questi studi sia la libertà dei Re Cattolici, sia l’impegno e lo zelo dei Vescovi. – A questi stimoli la Sede Apostolica ne aggiunse altri di ogni genere, sempre preoccupata che non venissero a mancare alla santità della tradizione cristiana né la luce della filosofia, né lo splendore di una cultura più raffinata. In questo campo hanno lasciato un insigne patrimonio uomini che non trovano molti alla loro altezza: Francesco SuarezGiovanni Lugo, Francesco da Toledo e, degno di particolare menzione, quel Francesco Ximenes che, sotto la guida e gl’indirizzi dei Romani Pontefici, assurse ad un livello così elevato di dottrina da dare lustro non solo alla Spagna, ma all’intera Europa, specie con l’istituzione dell’Università degli studi di Alcala, dove i giovani, educati “nella Chiesa di Dio con la luce della sapienza, come rilucenti stelle del mattino, potevano illuminare gli altri sulla via della verità[1]. Da questa messe, coltivata con tanta maestria e con tanto impegno, uscì quella mirabile schiera di illustri dottori che, convocati dal Romano Pontefice e dal Re Cattolico al Concilio Tridentino, corrisposero in pieno alle loro attese. – Non desta affatto meraviglia che la Spagna possa aver generato un così alto numero di uomini illustri: occorre certo riconoscere la loro naturale capacità intellettiva, ma avevano anche a disposizione risorse e mezzi sicuramente idonei al conseguimento di una perfetta padronanza della dottrina. È sufficiente fare menzione delle importanti Università di Alcala e di Salamanca, autentiche dimore, sotto la vigilanza della Chiesa, della sapienza cristiana. Il loro ricordo richiama immediatamente anche quello di altri Istituti che offrirono agli ecclesiastici, che si segnalavano per il talento e per l’amore della scienza, l’opportunità di una sede a loro disposizione. Ma è pure davanti ai vostri occhi, Venerabili, Fratelli, la catastrofe dei tempi successivi. In mezzo agli sconvolgimenti sociali che nel secolo scorso e nell’attuale hanno turbato l’intera Europa, sono stati travolti e sradicati, come da un violento uragano, quegli Istituti alla cui fondazione il potere regio ed ecclesiastico avevano profuso attenzioni e sostanze. Essendo state tolte di mezzo le Università cattoliche degli studi e i loro Istituti, anche i Seminari inaridirono, perché si era gradualmente immiserito quel fiume di sapere che scaturiva da quelle grandi scuole. Non era peraltro possibile che mantenessero inalterata l’antica situazione, a causa delle guerre civili e dei moti rivoluzionari che, per molto tempo, assorbirono gl’impegni e le risorse dei cittadini. – La Sede Apostolica, intervenne in tempo utile e le rivolse tutta la sua attenzione a rimettere ordine, con il consenso dell’Autorità civile, negli affari ecclesiastici, che gli eventi passati avevano sconvolto. Rivolse anzitutto la sua attenzione ai Seminari diocesani; il riportarli alla precedente situazione che li rendeva vera dimora della pietà e della erudizione, rientrava nell’interesse dei singoli e della società. Voi, tuttavia, sapete bene che l’impresa non è proprio riuscita come si era ipotizzato. Non vi erano infatti mezzi sufficienti, né il corso degli studi poteva riprendere vigore con prospettive di gloriosi traguardi, perché la scomparsa degli antichi Istituti aveva portato alla penuria di validi insegnanti. Le due più alte autorità convennero sull’opportunità di creare in alcune province dei Seminari generali, con l’intesa che i loro allievi che avessero compiuto tutti gli studi teologici potessero essere ammessi ai gradi accademici secondo le usanze del passato. Ma la piena attuazione di tutto ciò trovò, e trova tuttora, numerosi ostacoli. Essendo scomparsa la risorsa delle antiche Università, si sente viva la mancanza di quei mezzi, l’assenza dei quali rende assai arduo al Clero aspirare all’onore di una cultura compiuta e profonda. Si sono così fatte unanimi la voce e l’opinione dei competenti sulla necessità di mettere mano al programma degli studi nei Seminari, per ampliarlo e perfezionarlo. Tutto questo rientra fra le principali Nostre preoccupazioni, essendo intenzionati a ricalcare le orme dei Nostri Predecessori, che non tralasciarono alcuna occasione per favorire gli studi più qualificati. La provvida azione dei Pontefici si rilevò in modo particolare quando vollero far venire a Roma, capitale del mondo cattolico, i giovani chierici stranieri e li riunirono nei Collegi, con tanta maggior decisione ogni qualvolta vedevano venir meno nel loro paese la possibilità dello studio, o compromessa l’affidabilità delle Istituzioni, sottratte alla vigilanza della Chiesa. – Vennero così fondati in Roma numerosi Collegi, dove confluivano dall’estero molti giovani da erudire nella scienza sacra, con la prospettiva, una volta elevati al Sacerdozio, di mettere a disposizione dei loro connazionali la ricchezza spirituale e culturale conseguita nell’Urbe. Essendone derivati salutari e abbondanti frutti, e tuttora ne derivano, abbiamo ritenuto che valesse la pena di impegnare Noi stessi per aumentare il numero di questi Istituti. Abbiamo pertanto aperto in Roma un Collegio per gli Armeni e uno per i Boemi, e Ci siamo anche adoperati per restituire all’antico prestigio quello dei Maroniti. Eravamo sinceramente contrariati dal fatto che, nel numero dei giovani stranieri, erano pochi quelli che provenivano dalle vostre regioni. Con la speranza quindi di ricavarne dei frutti, abbiamo deciso di operare perché il Collegio romano dei Chierici spagnoli, fondato da tempo per la provvida lungimiranza dei devoti Sacerdoti, mantenga non solo la sua efficienza, ma possa anche raggiungere risultati migliori. – Abbiamo perciò deciso che quanti giungeranno in questo Collegio dalla Penisola Iberica e dalle isole vicine sottoposte al potere del Re Cattolico, siano sotto la Nostra protezione; con la vita in comune e sotto la guida di maestri scelti potranno attendere a quegli studi che affinano veramente la mente e lo spirito. Pensiamo di poter offrire una dimora e una sede adatte a quest’opera nel palazzo urbano che prende il nome dagli antichi proprietari, i duchi Altemps, passato ora in proprietà Nostra e della Sede Apostolica. La Nostra scelta è confortata dal fatto che questa sede è nobilitata dal Santuario di Aniceto, Papa Martire, del quale custodisce le ceneri, e anche dal ricordo del soggiorno di Carlo Borromeo. – Concediamo e affidiamo dunque la disponibilità e il diritto di usare questa sede al Collegio dei Vescovi Spagnoli, con la precisa disposizione di accogliervi e di alloggiarvi i chierici delle loro Diocesi, qualora decidano di inviarne alcuni a Roma, come abbiamo detto, per motivi di studio. Affinché quanto abbiamo progettato possa al più presto realizzarsi, nel lasso di tempo necessario per approntare tutto ciò che occorre all’arredamento della sede, i chierici prendano dimora in un’ala del palazzo dell’illustre famiglia Altieri destinata a questo scopo. – Affidiamo agli Arcivescovi di Toledo e di Siviglia l’incarico di trattare con Noi e con i Nostri Successori i problemi più importanti del Collegio. A tal fine ordiniamo al Rettore del Collegio di riferire, ogni anno, sulla situazione economica, sulla formazione e sul comportamento degli alunni, sia al Nostro sacro Consiglio che presiede agli studi, sia agli Arcivescovi sopra menzionati, i quali si faranno carico di informarne i loro Colleghi Vescovi Spagnoli. Spetta dunque a voi, Venerabili Fratelli, sostenere e realizzare questa Nostra iniziativa con quella solerzia e quella intraprendenza che la situazione richiede e che le vostre virtù episcopali garantiscono. – Frattanto, quale testimonianza di particolare benevolenza, a voi, Venerabili Fratelli, al Clero e ai fedeli affidati alla vostra tutela impartiamo con tanto affetto nel Signore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 ottobre 1893, anno sedicesimo del Nostro Pontificato.

LEONE PP. XIII

DOMENICA III DI QUARESIMA (2023)

DOMENICA III DI QUARESIMA (2023)

 (Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Lorenzo fuori le mura.

Semidoppio, Dom. privil. di I cl. • Paramenti violacei.

L’assemblea liturgica si tiene in questo giorno a S. Lorenzo fuori le mura che è una delle cinque basiliche patriarcali di Roma. In questa chiesa si trovano i corpi di due diaconi Lorenzo e Stefano. L’Orazione del primo (10 agosto) ci fa domandare di estinguere in noi l’ardore dei vizi come questo Santo superò le fiamme dei suoi tormenti; e quella del secondo (26 dicembre) ci esorta ad amare i nostri nemici come questo Santo che pregò per i suoi persecutori. Queste due virtù: la castità e la carità, furono praticate soprattutto dal patriarca Giuseppe, di cui la Chiesa ci fa la narrazione nel Breviario proprio in questa settimana. Giuseppe resistette alle cattive sollecitazioni della moglie di Putifarre e amò i fratelli fino a rendere loro bene per male. (Nel sacramentario Gallicano – Bobbio – , Giuseppe è chiamato il predicatore della misericordia; e la Chiesa, nella solennità di S. Giuseppe, proclama in modo speciale la sua verginità.) Quando Giuseppe raccontò ai fratelli i suoi sogni, presagio della sua futura gloria, essi concepirono contro di lui tanto odio, che presentatasi l’occasione, si sbarazzarono di lui gettandolo in una cisterna senza acqua. Di poi lo vendettero ad alcuni Ismaeliti che lo condussero in Egitto e lo rivendettero ad un nobile egiziano di nome Putifarre. Fu appunto lì che Giuseppe resistette energicamente alle sollecitudini della moglie di Putifarre e divenne per questo il modello della purezza (la Chiesa nel corso di questa settimana, – Epistola e Vangelo di sabato – legge ì brani della donna adultera e di Susanna. I Padri della Chiesa spesso hanno messo in rapporto quest’ultima con Giuseppe). – « Oggi, dice S. Ambrogio, vien offerta alla nostra considerazione la storia del pio Giuseppe. Se egli ebbe numerose virtù, la sua insigne castità risplende in modo del tutto speciale. È giusto quindi che questo santo Patriarca ci venga proposto come lo specchio della castità » (Mattutino). Giuseppe accusato ingiustamente dalla moglie di Putifarre, fu messo in prigione: egli si rivolse a Dio, lo pregò di liberarlo dalle sue catene. L’Introito usa espressioni analoghe a quelle della preghiera di Giuseppe: « 1 miei occhi sono rivolti senza tregua verso il Signore, poiché Egli mi libererà dagli inganni ». « Come gli occhi dei servi sono fissi verso i padroni, continua il Tratto, cosi io volgo il mio sguardo verso il Signore, mio Dio, fino a quando non avrà compassione di me ». Allora « Dio onnipotente riguarda i voti degli umili, e stendi la tua destra per proteggerli » (Orazione). Faraone difatti fece uscire Giuseppe dalla prigione, lo fece sedere alla sua destra e gli affidò il governo di tutto il suo regno. Giuseppe prevenne la carestia che durò sette anni; il Faraone allora lo chiamò « Salvatore del popolo ». (Il Vangelo dà una sola volta questo titolo a Gesù, quando parla alla Samaritana presso il pozzo di Giacobbe, Questo Vangelo è quello del Venerdì della stessa settimana, consacrato alla storia di Giuseppe). – In questa occasione i fratelli di Giuseppe vennero in Egitto ed egli disse loro: « Io sono Giuseppe che voi avete venduto. Non temete. Dio ha tutto disposto perché io vi salvi da morte ». La felicità di Giacobbe fu immensa allorché poté rivedere il figlio; egli abitò con i suoi figli nella terra di Gessen, che Giuseppe aveva loro data. « La gelosia dei fratelli di Giuseppe, dice S. Ambrogio, è il principio di tutta la storia di Giuseppe ed è ricordata nello stesso tempo per farci apprendere che un uomo perfetto non deve lasciarsi andare alla vendetta di un’offesa o a rendere male per male » (Mattutino). È impossibile non riconoscere in tutto questo una figura di Cristo e della sua Chiesa. – Gesù, figlio della Vergine Maria (Vang.), è il modello per eccellenza della purità verginale. Il Vangelo lo mostra in lotta in modo speciale contro lo spirito impuro. Il demonio che egli scaccia col dito di Dio, cioè per virtù dello Spirito Santo, dal muto ossesso, era « un demonio impuro », dicono S. Matteo e San Luca. La Chiesa scaccia dalle anime dei battezzati il medesimo spirito immondo. Si sa che la Quaresima era un tempo di preparazione al Battesimo e in questo Sacramento il Sacerdote soffia per tre volte sul battezzato dicendo: « esci da lui, spirito impuro, e fa luogo allo Spirito Santo ». « Ciò che si fece allora in modo visibile, dice S. Beda nel commento del Vangelo, si compie invisibilmente ogni giorno nella conversione di quelli che divengono credenti, affinché dapprima scacciato il demonio esse scorgano poi il lume della fede, indi la loro bocca, prima muta, si apra per lodare Dio » (Mattutino). « Né gli adulteri, né gli impudichi, dice parimente S. Paolo nell’Epistola di questo giorno, avran parte nel regno di Cristo e di Dio. Non si nomini neppure fra voi la fornicazione ed ogni impurità. Specialmente in questo tempo di lotta contro satana, noi dobbiamo imitare Gesù Cristo di cui Giuseppe era la figura. Questo Patriarca ci dà ancora l’esempio della virtù della carità, come Gesù e la sua Chiesa. Gesù, odiato dai suoi, venduto da uno degli Apostoli, morendo sulla croce, pregò per i suoi nemici. Pregò Dio, ed Egli lo glorificò facendolo sedere alla sua destra nel suo regno. Nella festività di Pasqua, Gesù, per mezzo dei Sacerdoti, distribuirà il frumento eucaristico, come Giuseppe distribuì il frumento. Per ricevere la Santa Comunione, la Chiesa esige questa carità, della quale S. Stefano, le cui reliquie si conservano nella chiesa stazionale, ci diede l’esempio perdonando ai suoi nemici. Gesù esercitò questa carità in grado eroico « allorché offrì se stesso per noi » sulla croce (Ep.), di cui l’Eucaristia è il ricordo. — La figura di Giuseppe e la stazione di questo giorno illustrano in una maniera perfetta, il mistero pasquale al quale la liturgia ci prepara in questo tempo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XXIV: 15-16.

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam unicus et pauper sum ego.

[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

Ps XXIV: 1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam,

[A Te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam únicus et pauper sum ego.

[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

 Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, vota humílium réspice: atque, ad defensiónem nostram, déxteram tuæ majestátis exténde.

[Guarda, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, ai voti degli úmili, e stendi la potente tua destra in nostra difesa.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.

Ephes. V: 1-9

“Fratres: Estote imitatores Dei, sicut fílii caríssimi: et ambuláte in dilectióne, sicut et Christus dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis oblatiónem, et hostiam Deo in odorem suavitátis. Fornicatio autem et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, sicut decet sanctos: aut turpitudo aut stultiloquium aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet: sed magis gratiárum actio. Hoc enim scitóte intelligentes, quod omnis fornicator aut immundus aut avarus, quod est idolorum servitus, non habet hereditátem in regno Christi et Dei. Nemo vos sedúcat inanibus verbis: propter hæc enim venit ira Dei in filios diffidéntiæ. Nolíte ergo effici participes eórum. Erátis enim aliquando tenebrae: nunc autem lux in Dómino. Ut fílii lucis ambuláte: fructus enim lucis est in omni bonitate et justítia et veritáte.”

[Fratelli: siate dunque imitatori di Dio come figlioli diletti, e vivete nell’amore, come Cristo che ci ha amati e ha dato per noi se stesso a Dio in olocausto come ostia di soave odore. La fornicazione, la impurità di qualsiasi sorta, l’avarizia non si senta neppur nominare fra voi, come a santi si conviene. Non oscenità, non discorsi sciocchi, non buffonerie, tutte cose indecenti; ma piuttosto il rendimento di grazie. Perché, sappiatelo bene, nessuno che sia fornicatore, o impudico, o avaro (che è un idolatra) ha l’eredità del regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi seduca con vani discorsi, perché a causa di questi vien l’ira di Dio sugli increduli. Dunque non vi associate con loro. Una volta eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signore. Vivete come figli della luce. Or frutto della luce è tutto ciò che è buono, giusto e vero.

PAROLE ALTE E SOAVI.

Se si paragonano queste esortazioni di San Paolo a quelle dei moralisti suoi contemporanei, pagani o giudei, e d’ogni tempo, purché non Cristiani, uno stupore ci invade e ci domina. Quanta altezza fin dalle prime battute dell’odierna epistola: « imitatores Dei estote, » siate imitatori di Dio. Non si può andar più in là, più in su. Specie se si rifletta che il Dio proposto a modello non è la divinità antropomorfica, malamente, fiaccamente antropomorfica del paganesimo, bensì la divinità austeramente, moralmente trascendente del Cristianesimo; non una divinità umanizzata a cui è difficile mostrarsi anche per l’uomo sub-umano, ma la divinità sublime e pura a cui l’uomo non s’accosta se non superando se stesso. Talché la formula pagana « sequere Deum » che altri potrebbe citare come equivalente a questa di San Paolo, per sminuire la nostra meraviglia, sarebbe fuor di proposito. Ma la meraviglia cresce quando noi sentiamo Paolo dir queste cose tanto difficili ed alte in tono d’infinita semplicità e dolcezza. « Imitate Dio, continua l’Apostolo, come figli carissimi voi che siete in Lui ». Vi è già una gran dolcezza nell’idea stessa della Paternità Divina; è, figlioli di Dio; figli, noi piccoli, di Lui che è così grande! Ma San Paolo accentua ancora la dolcezza di quella grande parola e ricorda ai Cristiani per eccitarli ad essere fedeli, eroici emulatori del Padre Celeste, che essi ne sono i figli carissimi, diletti; anzi prediletti. Figli che Dio veramente da Padre ha amati ed ama, ha amati nel giorno della creazione, riamati anche più teneramente e fortemente nel giorno della redenzione. Figli carissimi! Noi rasentiamo il mistero, siamo tuffati nel mistero dell’amore divino. – Che Dio possa avere caro l’uomo! « quid est homo (vien fatto di esclamare) quod memor es eius » che cosa è l’uomo, perché occupi un posticino qualsiasi nei Tuoi pensieri! — e più nel Tuo cuore. Eppure è così. Di Dio noi siamo i figli carissimi. Perciò amorevole deve essere il nostro sforzo per accostarci a Dio, per riprodurlo nella nostra vita. « Ambulate in dilectione », camminate nell’amore, nell’atmosfera dell’amore. L’appello del Monarca è pieno di maestà, l’appello del padrone è pieno di forza, l’appello di Dio è appello di Padre al figlio, appello pieno di dolcezza, pieno d’amore. Ma nell’amore c’è il segreto dell’entusiasmo, e pei sentieri dell’amore, additati da Paolo a noi Cristiani, come i sentieri veramente nostri, le anime volano portate dal vento dell’amore. Nessun segreto migliore di questo per vincere l’altezza che si erge formidabile dinanzi a noi quando guardiamo come a nostra meta niente meno che a Dio.

(G. SEMERIA: Le Epistole delle Domeniche, Milano – 1939, con imprim.)

 Graduale

Ps IX: 20; IX: 4

Exsúrge, Dómine, non præváleat homo: judicéntur gentes in conspéctu tuo.

[Sorgi, o Signore, non trionfi l’uomo: siano giudicate le genti al tuo cospetto.

In converténdo inimícum meum retrórsum, infirmabúntur, et períbunt a facie tua.

[Voltano le spalle i miei nemici: stramazzano e periscono di fronte a Te.]

Tractus

Ps. CXXII:1-3

Ad te levávi óculos meos, qui hábitas in cœlis.

[Sollevai i miei occhi a Te, che hai sede in cielo.]

Ecce, sicut óculi servórum in mánibus dominórum suórum.

[Ecco, come gli occhi dei servi sono rivolti verso le mani dei padroni.]

Et sicut óculi ancíllæ in mánibus dóminæ suæ: ita óculi nostri ad Dóminum, Deum nostrum, donec misereátur nostri,

[E gli occhi dell’ancella verso le mani della padrona: così i nostri occhi sono rivolti a Te, Signore Dio nostro, fino a che Tu abbia pietà di noi].

Miserére nobis, Dómine, miserére nobis.

[Abbi pietà di noi, o Signore, abbi pietà di noi.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam. [Luc XI: 14-28]

“In illo témpore: Erat Jesus ejíciens dæmónium, et illud erat mutum. Et cum ejecísset dæmónium, locútus est mutus, et admirátæ sunt turbæ. Quidam autem ex eis dixérunt: In Beélzebub, príncipe dæmoniórum, éjicit dæmónia. Et alii tentántes, signum de coelo quærébant ab eo. Ipse autem ut vidit cogitatiónes eórum, dixit eis: Omne regnum in seípsum divísum desolábitur, et domus supra domum cadet. Si autem et sátanas in seípsum divísus est, quómodo stabit regnum ejus? quia dícitis, in Beélzebub me ejícere dæmónia. Si autem ego in Beélzebub ejício dæmónia: fílii vestri in quo ejíciunt? Ideo ipsi júdices vestri erunt. Porro si in dígito Dei ejício dæmónia: profécto pervénit in vos regnum Dei. Cum fortis armátus custódit átrium suum, in pace sunt ea, quæ póssidet. Si autem fórtior eo supervéniens vícerit eum, univérsa arma ejus áuferet, in quibus confidébat, et spólia ejus distríbuet. Qui non est mecum, contra me est: et qui non cólligit mecum, dispérgit. Cum immúndus spíritus exíerit de hómine, ámbulat per loca inaquósa, quærens réquiem: et non invéniens, dicit: Revértar in domum meam, unde exivi. Et cum vénerit, invénit eam scopis mundátam, et ornátam. Tunc vadit, et assúmit septem alios spíritus secum nequióres se, et ingréssi hábitant ibi. Et fiunt novíssima hóminis illíus pejóra prióribus. Factum est autem, cum hæc díceret: extóllens vocem quædam múlier de turba, dixit illi: Beátus venter, qui te portávit, et úbera, quæ suxísti. At ille dixit: Quinímmo beáti, qui áudiunt verbum Dei, et custódiunt illud.”

“In quel tempo Gesù stava cacciando un demonio, il quale era mutolo. E cacciato che ebbe il demonio, il mutolo parlò, e le turbe ne restarono meravigliate. Ma certuni di loro dissero: Egli caccia i demoni per virtù di Beelzebub, principe dei demoni. E altri per tentarlo gli chiedevano un segno dal cielo. Ma Egli, avendo scorti i loro pensieri, disse loro: Qualunque regno, in contrari partiti diviso, va in perdizione, e una casa divisa in fazioni va in rovina. Che se anche satana è in discordia seco stesso, come sussisterà il suo regno? Conciossiachè voi dite, che in virtù di Beelzebub Io caccio i demoni. Che se Io caccio i demoni per virtù di Beelzebub, per virtù di chi li cacciano i vostri figliuoli? Per questo saranno essi vostri giudici. Che se io col dito di Dio caccio i demoni, certamente è venuto a voi il regno di Dio. Quando il campione armato custodisce la sua casa, è in sicuro tutto quel che egli possiede. Ma se un altro più forte di lui gli va sopra e lo vince, si porta via tutte le sue armi, nelle quali egli poneva sua fidanza, e ne spartisce le spoglie. Chi non è meco, è contro di me; e chi meco non raccoglie, dissipa. Quando lo spirito immondo è uscito da un uomo, cammina per luoghi deserti cercando requie; e non trovandola, dice: Ritornerò alla casa mia, donde sono uscito. E andatovi, la trova spazzata e adorna. Allora va, e seco prende sette altri spiriti peggiori di lui, ed entrano ad abitarvi. E la fine di un tal uomo è peggiore del principio”

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LA GRAZIA DI DIO E LA RETTA INTENZIONE

Vi erano molti di così dura cervice che altro non sapevano fare fuorché essere maligni, e accusavano Gesù di compiere miracoli con l’aiuto del demonio. Il Signore però, che conosceva i loro pensieri, davanti a simile calunnia non volle stare in silenzio e cominciò a ragionare così: « Quando un regno è diviso in se stesso e in preda a due opposti partiti, necessariamente cade in rovina. « Ora se voi dite che io caccio i demoni in nome di beelzebub, allora satana combatte se stesso, allora il suo regno è finito per sempre. Ma perché questo non può capitare, se io caccio i demoni e combatto il regno del diavolo, è segno che è giunto il Regno di Dio. « Tra Dio e il demonio non ci può essere qualche cosa di mezzo; se dunque posseggo la forza di Dio, chi non è con me è contro di me; chi non raccoglie con me, disperde » – « Ma, senza dubbio, il più forte sono Io, perché il demonio non può resistermi quando Io lo scaccio dall’uomo. Guai all’uomo però che gli riapre ancora la porta del cuore, perché la sua condizione nuova diviene assai peggiore dell’antica ». Fin qui il santo Vangelo. Quaggiù sulla terra — lo dice il Signore — ci sono due regni che si combattono senza mai aver pace: il regno di beelzebub che tien schiave le anime e le rende mute; il regno di Dio che porta la libertà. C’è dunque da scegliere se vogliamo seguire Colui che è il nostro Salvatore oppure andar dietro ai vessilli di satana. Gesù è stato mandato dal Padre a ricondurre la umanità dalla schiavitù, in cui la teneva il demonio, alla libertà dei figli di Dio. E questa figliolanza divina, che è tutta un favore di Dio, Gesù ce l’ha procurata per mezzo della grazia. È la grazia che ci rende fratelli di Cristo e per ciò figlioli di Dio. Se dunque ci manca la grazia noi non siamo di Cristo e di Dio, ma siamo contro Cristo, contro Dio. Questa stessa figliolanza divina, che la grazia ci ha saputo portare, deve sempre manifestarsi nei fatti: le azioni che andiamo compiendo devono essere azioni di un figlio di Dio, devono essere azioni di un fratello di Cristo. Se dunque mancasse la retta intenzione che al nostro operare dia questo indirizzo, invece di raccogliere tanti frutti di bene noi disperderemmo le energie. Sono due pensieri che dobbiamo. fissare. – 1. È CONTRO GESÙ CHI HA PERDUTO LA GRAZIA. La storia d’Italia, al sec. VIII, ricorda le vicende dei re Longobardi. Barbari ancora, alternano, con facilità che sorprende, la guerra e la pace, le ostilità e l’alleanza. Astolfo, divenuto re nel 749, ruppe subito col Papa la tregua giurata dai suoi predecessori, e colle truppe focose dei suoi uomini mosse contro la città di Roma prendendola d’assalto. Il Papa Stefano II va ad incontrarlo alle porte dell’urbe, gli si avvicina, lo prega di ritirarsi. Il re, sconfitto da quella maestà, così debole e pur così potente, domanda perdono e giura una tregua che doveva durare tre anni. Il suo proposito, perché non fosse di sole parole, volle scritto con atto solenne. Non era passato un anno ed Astolfo, violando la parola giurata, assale la città, la mette al saccheggio e, quasi fosse l’assoluto padrone, la costringe ad un grave tributo. Fu allora che il Romano Pontefice, per sollevare le calamità del suo popolo, ordinò preghiere e digiuni. Anzi il Papa in persona, nudi i piedi, con una grave croce sopra le spalle, effondendosi in lagrime, percorre in processione le vie di Roma, seguito dal Clero e dal popolo asperso di cenere. Davanti a tutto il corteo di penitenza e di pianto, su una croce, veniva portata la pergamena della tregua infranta dal re. Cristiani, quante tregue infrante, quante volte anche noi abbiamo rotto l’amicizia di Dio. Losca figura quella di Astolfo, ma forse qualche volta gli siamo assomigliati. Nel giorno del nostro Battesimo noi fummo portati alla Chiesa. Di fronte a Dio eravamo… dei barbari, degli stranieri che non vantavano diritto alcuno. Ma il Signore ci ha voluto bene, ci ha accolto nella sua terra ed ha stretto con noi non solo un patto di alleanza, ma un vincolo di vera parentela. In quel giorno gli siamo divenuti figli adottivi. Il patto fu scritto non su un foglio di carta, ma nell’intimo dell’anima nostra, non in inchiostro ma col Sangue del Figlio di Dio, non con una penna qualunque ma col legno della Croce di Cristo. Eppure, noi col peccato mortale abbiamo dimenticato quel giorno così bello. Coll’esercito scomposto e barbaro delle nostre passioni abbiamo dato l’assalto alla città santa di Dio che era il nostro cuore adorno di grazia; in un momento di pazzia abbiamo infranto lo splendore dell’anima nostra, abbiamo distrutto le tracce del Sangue di Cristo, abbiamo resa inutile la morte stessa di Lui. Gesù fu obbligato a porre su la nuda sua croce la nostra amicizia infranta e mostrarla agli Angeli che avranno pianto il nostro spergiuro. Proprio sul legno benedetto della Croce, che ricorda la misericordia di Dio infinita, Gesù ha dovuto appendere, come Papa Stefano II, la prova vergognosa della nostra ingratitudine e della nostra cattiveria. Ma, se noi vogliamo, Gesù è ancora pronto a perdonare e per un atto di sincero dolore, scriverebbe ancora col suo sangue un’amicizia più bella. – 2. NON RACCOGLIE CON GESÙ CHI NON HA RETTA INTENZIONE. S. Agostino, nelle sue Confessioni, racconta questo episodio. Mentre l’imperatore Teodosio era a Treviri a vedere i giochi del Circo, due dei suoi cortigiani vollero rinunciare a quei divertimenti per godersi qualche ora di libertà dei campi. Attraverso un bosco, giunsero ad una rozza capanna solitaria. Entrarono, ma non c’era nessuno. Squallide pareti, poche masserizie, una grande croce. Sopra una tavola tarlata, stava aperto un libro, logoro dall’uso continuo. Uno di loro lo prese in mano e si mise a leggere forte: era la vita di S. Antonio Abate. Intanto la grazia lavorava in quelle anime, e colui che leggeva deponendo il libro, cominciò: « Noi allora siamo su una strada sbagliata! Dove vanno a finire le nostre azioni? Che facciamo al servizio dell’imperatore? Sopportiamo fatiche, accettiamo umiliazioni, affrontiamo contrasti per divenire suoi favoriti: e poi… ci attiriamo invidie, calunnie e nulla più. Teodosio è un uomo mortale… potrà essere immortale la sua mercede? Lasciamo un padrone che dovrà morire, per servire Iddio che non muore mai! ». E tutti e due si fecero eremiti (Confessioni, lib. VIII, c. 6). – Anche noi, o Cristiani, abbiamo spesso bisogno di staccarci dalle cose del mondo per raccoglierci un poco nel fecondo silenzio di una meditazione severa. Se in questa solitudine dell’anima noi leggessimo gli esempi dei Santi e facessimo passare almeno qualche pagina della nostra vita, vedremmo, come quei cortigiani, quanti passi sono davvero perduti, quante azioni rimangono senza frutto, quanto tempo è miseramente sciupato. Manca la retta intenzione, manca l’offerta a Dio delle opere nostre ed allora rimane il vuoto. «Chi non raccoglie con me, disperde », dice Gesù nel Vangelo di oggi. Che direste voi di un contadino che lavora tutto l’anno il suo campicello e poi, quando giunge il tempo della messe, si vede disperso dalla bufera e dal vento tutto quanto il raccolto? È quello che capita all’anima di colui che non ha la retta intenzione. – Quando andiamo alla Chiesa soltanto per farci vedere o per una intenzione tutt’altro che santa, noi disperdiamo ogni cosa: non è con Gesù che facciamo il raccolto. Quando il lavoro di ogni giorno è compiuto unicamente per fare danaro, la nostra mercede l’abbiamo già ricevuta. Il padrone che abbiamo servito non è il Dio che non muore ma è un tesoro che la ruggine può sempre corrompere ed i ladri possono rapirci. – Dovessimo fare le grandi elemosine di S. Carlo Borromeo, se ci manca la intenzione giusta, diventeremmo poveri anche davanti a Dio; facessimo pure le grandi penitenze dei padri del deserto, se non ci muove la gloria di Dio saremmo degli stolti: perdiamo i piaceri della terra e non acquistiamo quelli del cielo. – Supponete che un uomo abbia impiegato parecchi giorni e parecchie notti a comporre una lunga lettera da cui dipende un affare di capitale importanza, ma, dopo averla ben descritta, la consegnasse alla posta con l’indirizzo sbagliato. Poveretto! Ha sciupato tutto il suo tempo e ha concluso nulla! Cristiani, se le nostre azioni, da cui dipende la nostra salvezza eterna, le cominciamo senza la grazia di Dio o con una intenzione che non riguarda il Signore, noi sbagliamo indirizzo. O siamo andati contro Gesù o non abbiamo raccolto con Lui: le nostre mani rimangono vuote. — IL DEMONIO DELL’IMPURITÀ. Mentre Gesù predicava gli condussero davanti un povero indemoniato, perché lo liberasse. Lo spirito immondo che travagliava quell’infelice è il demonio dell’impurità. E lo possiamo dedurre dalle parole del santo Vangelo: a) illudque erat mutum: un demonio muto che non lo lasciava parlare. Se c’è un peccato che ci fa diventar muti nella santa Confessione e che per palesare occorre vincere una grande e diabolica riluttanza è appunto il peccato impuro: b) ambulat per loca inaquosa: quærens requiem et non inveniens. L’impuro può stordirsi nella burrasca delle passioni, può tentare qualsiasi divertimento e saltare qualsiasi barriera, ma nel suo cuore c’è un’arsura che non si placa, è un fuoco e non si spegne. Chi non ricorda la notte dell’Innominato? c) Et fiunt novissima illius, peiora prioribus. Poche parole, ma tremende. Ogni ricaduta in questo peccato, è un nuovo salto nel precipizio, sempre con minor speranza di poter risorgere, perché indebolite le forze nostre spirituali, siamo zimbello di ogni capriccio di satana. Eppure il mondo, e fors’anche non pochi Cristiani. stimano questo peccato una cosa da nulla, un bisogno della natura, una galanteria, Ci apra Iddio gli occhi, ci faccia comprendere la gravità del peccato impuro, ci doni la forza contro ogni suggestione della carne. – 1. DEMONIO DELLA MUTOLEZZA I nemici della religione hanno gridato che il Sacramento della Penitenza è una carneficina d’anime. Noi sappiamo come questo non sia vero: e che una grande serenità e un’intima pace viene in noi dopo aver confessato i nostri difetti con sincerità davanti a Gesù Cristo. Forse la calunnia degli avversari è vera nel senso che per confessare certe miserie è necessario vincere la nostra superbia, è necessario farci grande violenza, è necessario scacciare il demonio che con la sua mano ci tura la bocca. …Et cum eiecisset dæmonium, locutus est mutus… Talvolta oppressi dalla vergogna, piuttosto che confessare la propria colpa e risorgere, si preferisce perdere la fede e negare la verità del sacramento della Confessione. Ecco perché il Santo Curato d’Ars faceva confessar tutti quelli che a lui si presentavano anche se dicevano di non credere più. « Ma signor Curato, io non vengo a confessarmi, vengo per ragionare… ». « Non importa, inginocchiatevi ». « Ma Padre… ». « Scacciate quel demonio che vi chiude la bocca e parlate ». Credetelo, Cristiani, i sacrilegi della Confessione, quelli magari che si trascinano in lunghe catene fino al letto di morte e oltre… cominciano da qui, dal peccato impuro. – Un giorno in mezzo alla Corte, ove eransi radunati molti illustri cittadini, apparve il profeta Geremia attorcigliato da immense catene. Tutti stupirono: ma egli gridò: « Hæc, dicit Dominus, subiicite colla vestra sub iugo regis Babylonis, et servite ei ». Chi è questo re di Babilonia? Il demonio impuro. Quel demonio che prima dipeccare vi dice: godi; poi, se ci sarà bisogno, ti confesserai! Ma poi vi chiude la bocca, e vi lega con infinite catene, così che immobili siete trascinati dal fiume torbido che sfocia all’inferno. Così dopo averci rovinato l’anima, il demonio impuro cerca anche d’impedirci il divino rimedio che solo ci può guarire. – 2. DEMONIO DELL’INQUIETUDINE. Lo sventurato Lamennais, forse senza saperlo, ha scritto una leggenda piena di verità. In un giorno di afosa caldura un uomo assetato vide al basso d’una costa una vite carica di grappoli maturi: ma tra lui e quel frutto dissetante s’adagiava una palude melmosa. Rimase un momento in forse. Ma poi si decise: « Può darsi che il fango non sia alto ». E vi entrò. Mano mano che procedeva, il suo piede affondava; coperto da una fanghiglia nera che gli cola da ogni membro, protende la mano e strappa quel frutto fatale, lo divora avidamente, trovandolo alla seconda boccata assai meno dolce e dissetante di quello che s’era ripromesso. Poi cerca un’acqua che lo lavi. Invano: l’odore della melma resta: ha penetrato la sua carne, le sue vene, le sue ossa ed esala incessantemente, formando intorno a lui un’atmosfera fetida. Egli si esaspera invano. Balza nella notte, riprova a lavarsi: invano. Non ha più pace. Gli uomini civili lo fuggono: s’è fatto un rettile, vive tra i rettili. Così è dell’uomo impuro: quærens requiem et non inveniens. Ricordate il rimorso dell’impuro Erode che ad ogni istante intravvedeva la figura del profeta ucciso, ne udiva come un tuono, la tremenda voce: e muore disperato: quærens requiem et non inveniens. Et non inveniens: da parte di Dio Creatore e Giudice della sua vita e delle sue azioni. Et non inveniens: neppure in mezzo alle impure fiamme che lo incendiano. L’uomo voluttuoso che crede di trovar riposo nell’accontentare i suoi reprobi desideri perde la sua pace e non può ritrovarla. – S. Agostino ne fece l’esperimento per diciassette anni. Ed esclama: « Mio Dio! Quanto ero infelice; un’immensa tristezza riempiva il mio cuore… portavo dentro un demonio… tutto l’inferno nell’anima… Io morivo… ». – 3. DEMONIO DELLE DISASTROSE CADUTE. Dio aveva dato al suo popolo un tempio stupendo. Costruito con pietre perfette, era stato ricoperto di lamine d’oro, ornato con statue e con marmi di terre lontane, abbellito con gemme e rarissime perle: c’era voluta tutta la ricchezza di Salomone e tutta la sua sapienza. Ma un giorno di guerra, passò un nemico spietato ed il tempio degno di Dio fu distrutto e gli Israeliti trasportati a piangere lungo i fiumi di Babilonia. Finito l’esilio, Dio suscitò Zorobabele a riedificare il tempio. Ma nel giorno della dedicazione, mentre i giovani tripudiavano, i vecchi, ricordando la magnificenza del tempio di Salomone, scoppiarono in pianto davanti alla modestia del nuovo. Ma venne un giorno di guerra: passò il nemico e profanò con mano sacrilega e distrusse il secondo tempio: non rimase pietra su pietra. E quando si tentò di riedificarlo dopo la distruzione romana, balzarono dal suolo globi di fuoco a significare che pesava un tremendo anatema sopra quel tempio due volte risorto e due volte caduto. Et fiunt novissima peiora prioribus. Quest’anima umana, questo tempio di Dio, se è calpestato dal nemico impuro una volta, potrà risorgere, ma l’unghia del cavallo del demonio come già quello di Attila vi lascerà sempre un’impronta. Se poi l’uomo ricade più e più volte in questo peccato, fiunt novissima peiora prioribus e non risorgerà più. Fiunt novissima peiora prioribus: ogni volta che cadiamo anche risorgendo, saremo sempre più deboli. Fiunt novissima peiora prioribus: perché Dio non parlerà più: come già Cristo davanti al disonesto tetrarca. Fiunt novissima peiora prioribus: perché il peccato impuro acceca così che si calpestano tutti i doveri più sacrosanti: la famiglia, la moglie, i figli, gli interessi, la pace, la salute, l’onore, l’amore, e perfino il santo Paradiso. –  Una volta, in Grecia, era scoppiata una peste orrenda che mieteva innumerevoli vittime. I capi delle città spaventati domandano consiglio a Ippocrate, e questi rispose: « Si accendano fuochi a monte, fuochi a valle, fuochi nei villaggi, fuochi nelle città. Purifichiamo l’aria! ». La nostra società è contristata dalla peste del demonio impuro. Fuoco! È necessario del fuoco che purifichi, che abbruci in noi le fibre malsane, che consumi ogni affetto non santo. Questo fuoco è la mortificazione: fuoco che deve purificare le cime e i pensieri impuri, le valli degli affetti torbidi, ed ogni parola ed ogni azione.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps XVIII: 9, 10, 11, 12

Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulci ora super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea.

[I comandamenti del Signore sono retti, rallegrano i cuori: i suoi giudizii sono più dolci del miele: perciò il tuo servo li adempie.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet.

[Ti preghiamo, o Signore, affinché questa offerta ci mondi dai peccati, e santifichi i corpi e le anime dei tuoi servi, onde possano degnamente celebrare il sacrificio.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]


Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXXXIII: 4-5 – Passer invénit sibi domum, et turtur nidum, ubi repónat pullos suos: altária tua, Dómine virtútum, Rex meus, et Deus meus: beáti, qui hábitant in domo tua, in sæculum sæculi laudábunt te.

[Il passero si è trovata una casa, e la tortora un nido, ove riporre i suoi nati: i tuoi altari, o Signore degli eserciti, o mio Re e mio Dio: beati coloro che abitano nella tua casa, essi Ti loderanno nei secoli dei secoli.]

Postcommunio

Orémus.

A cunctis nos, quaesumus, Dómine, reátibus et perículis propitiátus absólve: quos tanti mystérii tríbuis esse partícipes.

[Líberaci, o Signore, Te ne preghiamo, da tutti i peccati e i perícoli: Tu che ci rendesti partécipi di un così grande mistero.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (243)

LO SCUDO DELLA FEDE (243)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (12)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

CAPO III

IL SACRIFICIO DIVINO

Il Canone.

Siamo giunti al terribile momento dell’Azione la più tremenda per cui eseguire con dignità è ordinato il Canone, il qual nome significa la grande regola. In esso sta, come in grandi caratteri, scolpita la legge eterna immutabile della sostanza, dei modi dell’esecuzione del gran Sacrificio da offrirsi per tutto l’universo. S. Gregorio e s. Cipriano chiamano il Canone « la preghiera per eccellenza, » il Pontefice Vigilio « il testo della preghiera canonica, » tanti altri Padri (Ben. XIV.) « l’Azione; » perché in esso si compie l’Azione delle azioni, l’azione più grande, più perfetta, anzi più divina, che per gli uomini sì possa fare nella Chiesa, per virtù di Gesù Cristo; regolare cioè la legittima consacrazione del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, e il sacrificio che si fa di essi a Dio in ricognizione della sua Divinità. –  Fermarci a far questione per trovare l’autore di alcune sue parti particolari, o a cercare chi l’abbia ordinato e così ridotto, né giova, né piace, né abbiam tempo da sprecare in ciò, che non è di grande importanza. Solo osserveremo, che di molte e delle più solenni e più comuni, e pubbliche orazioni, e dei riti più universalmente ricevuti, per lo più s’ignora l’autore. E doveva essere così; perché  l’autore non ebbe poi la parte maggiore nella loro istituzione. Sovente esso interpretava, e traduceva in atto un’idea, che era nel popolo cristiano, e che dove più, dove meno, si manifestava in qualche modo: sicché egli collo stabilire il rito e dar la forma all’orazione, non altro faceva che coglierne la più vera espressione, e la più rispondente all’idea, purgandola da ogni inutile ingombro. Piuttosto a consolazione dei fedeli tradurremo ciò che insegna lo Spirito Santo, per mezzo del Concilio generale di Trento, intorno al Canone stesso. (Sess. XXII, cap. 4). Dice adunque il sacro Concilio: « E conveniente che le cose sante siano santamente amministrate; ed essendo questo (della s. Messa) il santissimo di tutti i sacrifici, la cattolica Chiesa, perché degnamente e con la dovuta riverenza venisse offerto ed adempiuto, già da molti secoli istituì il sacro Canone, d’ogni errore così depurato, che niente in esso si contenga, che non sappia specialmente di certa santità, e pietà, e le menti sollevi in Dio, perocché esso consta, e delle stesse parole del Signore e delle tradizioni degli Apostoli, e delle pie istituzioni dei Pontefici. » E questo basta, perché, derivato a noi da queste fonti così pure e santissime, noi lo veneriamo come cosa tutta celeste, anzi come dono fattoci da Dio, nella sua carità, per alimentarci la divozione. Noi lo teniamo in conto di un misterioso componimento, in cui sono espressi i segreti adorabili dell’amor santo di Dio. Perché ci pare di scorgere nei riti i tratti più espressivi, e nelle parole i più santi affetti, che ci rivelano le ragioni più intime, che legano a Dio la sua sposa, la Chiesa. La Sapienza divina, dice lo Spirito Santo, si ha fatto un talamo nuziale in sulla terra (S. Thom. in Off. SS. Sacram.). Questo talamo è l’altare, vero santuario degli amori divini; ed il canone è l’epitalamio dello sposalizio di Dio coll’umanità. In esso troviam compendiati e spiegati i più reconditi misteri della Natura Divina; in esso appare nella sua grandezza la tremenda giustizia eterna, e si scorge come essa s’accorda in pace colla misericordia, e come questa trionfa. Del qual trionfo della misericordia sulla giustizia di Dio si manifesta quella bontà sua essenziale, che alimenta la beatitudine del paradiso. Così il canone contenendo in sé tanti misteri divini, adombrati nella santità dei riti, è quasi come quella gran nube che involgeva l’uomo eletto a parlar con Dio sul monte Sinai, la quale nella grandezza sua e maestà, e nei baleni di vivissima luce, di che sfolgorava, dava segno della presenza di Dio, che dentro ad essa compariva, e si manifestava a quegli argomenti. – Noi ci avvicineremo tremanti, e coll’anima umiliata, e lasceremo che parli in esso lo Spirito di Dio, e la sua sposa, la Chiesa, e solo ridiremo quel poco che abbiamo imparato da coloro, che furon degni per la loro santità di farsi più dappresso a contemplare. Quali oggetti! quali idee per un credente in questo istante! La terra non fu mai meglio in armonia col cielo. In cielo la Trinità augustissima sul trono d’inaccessibile luce, e intorno intorno le schiere dei Principi angelici, e di tutte le Virtù dei cieli; mentre l’Agnello Divino, sull’altare d’oro si presenta innanzi, e rompe il misterioso sigillo al Libro che contiene i secreti della Divinità, i quali fino agli Angeli eran nascosti; e tutta la Corte celeste si prostra cantando il trisagio dell’eternità. In terra tutti i fedeli genuflessi intorno alla croce vessillo di loro speranza sull’altare: alla loro testa il Sacerdote, che innalza le braccia innanzi al Crocifisso, quasi ponendo la sua testa sotto il Capo di Gesù coronato di spine, le mani su quelle sante Mani insanguinate, il petto sul Petto divino squarciato. Tutto assorto in Gesù Cristo, cogli occhi in cielo, quasi vi cerchi il volto del suo divin Padre, stende le palme, come per slanciarsi a Lui: e contemplando nella SS. Trinità Dio nell’alto della sua intima Vita Divina adora il Padre col Figlio in seno a lui generato ab eterno, e lo Spirito Santo, che dal Padre e dal Figliuolo procede; e insieme col Figlio, che si fa Agnello Divino sull’altare celeste, cade anch’esso sull’altare terrestre per trovare in cielo la redenzione. – Per esprimere quest’atto di adorazione, s’inchina, s’inabissa nel suo nulla, e cadendo colle mani giunte si mette come vittima legata; bacia l’altare, e coll’anima bacia in cielo le soglie dell’eterno trono. – Poi sorge, e comincia a trattare i più cari interessi, per cui Egli quella missione divina ha intrapreso. – Noi qui ci ricorderemo del prefazio, di quel cantico, che lasciò per dir così nell’anime del Sacerdote e dei fedeli quale una certa vibrazione e una eco di armonia celeste, che continua nei movimenti degli affetti, come dopo la scossa continua a vibrare ancora la corda od il metallo sonante. Ben qui a lui ancora nell’estasi dell’armonia di paradiso, fluiranno come espressioni spontanee quei gemiti inenarrabili, che lo Spirito Santo mette in bocca alla sua Sposa divinizzata: e sono queste le orazioni del canone. Buon Dio! Ci voleva proprio lo Spirito del Signore nella Chiesa, per dir quello, che si conviene, in un istante così tenero e così tremendo, così terribile, e così consolante. Prega il Sacerdote in secreto: e questo silenzio esprime il nascondersi che fece Gesù, quando non era ancora venuta l’ora sua. Veramente in questo terribile momento l’anima ha bisogno di non esser da rumore di parole disturbata dal suo raccoglimento con Dio (Innoc. III, lib. 2, Myster. Miss. cap. 54, et lib. 3, c. 1.). Veramente inspira anche grande venerazione il veder il popolo col Sacerdote all’altare pregar segretamente, quando lo Spirito del Signore opera segretamente sotto il velo dei simboli il gran mistero (Bened. XIV. lib. 2, c. 23, 16). Le anime adunque si hanno qui da trovare sole con Dio: e davanti a Dio che si sacrifica vogliono lagrime e non parole. Giova, ripeterlo: noi esitammo qui, se tornasse meglio tentare la spiegazione, o metterci di conserva col lettore a meditare ciascuna parola nel silenzio del labbro, e nella profonda umiltà del cuore. Ma abbiamo sperato di non riuscire inutili, se cercheremo d’inspirarci ai pensieri dei Santi, nell’esporre così sante orazioni. Ecco la prima, che procureremo di spiegare.

Art. I.

PRIMA PARTE DEL CANONE.

Orazione I: Te Igitur.

« Voi adunque, o clementissimo Padre, per Gesù Cristo Figliuol vostro e Signor nostro, supplichevoli preghiamo, e vi chiediamo che vi degniate di aver per accettevoli, e benedir questi, (qui fa tre segni di croce sull’offerta colla destra stesa nel pronunciare le seguenti parole) questi + doni, questi presenti, questi sacrifici santi, illibati, che noi vi offriamo in prima per la Chiesa vostra, santa, cattolica; cui vi preghiamo che vi degniate di purificare, custodire, adunare, e reggere per tutto il mondo universo, insieme col vostro servo, il Papa nostro (e qui nomina il sommo Pontefice) ed il nostro Vescovo (nomina il Vescovo), e con tutti gli ortodossi cattolici adoratori dell’apostolica fede. »

Esposizione di quest’orazione.

Pertanto il canone comincia colle parole: « Te igitur, Clementissime Pater, Voi adunque, o Padre,la cui clemenza è infinita, ecc. ecc. »Alcuni autori con bizzarria piuttosto, che conacume e solidità di ragione vorrebbero, che laChiesa avesse incominciata questa importantissimapreghiera col T; perché la lettera T ha forma dicroce.Ma noi avvertiamo ora per sempre, che le pratiche della Chiesa sono semplici, ma piene di maestà,e non bisognose di fantastiche interpretazioni,che pendano all’inezia, come è questa, di che noinon ci cureremo. La quale nacque forse dal vedere il pio uso di mettere, di fianco alla prima preghiera del canone, stampata l’immagine del Crocifisso: pratica suggerita dalla pietà dei fedeli, che spiega essere intenzione della Chiesa, che noi accompagniamo questa tremenda azione colla mente tutta piena delle idee della passione e della morte del Salvatore benedetto. « Voi adunque o clementissimo Padre, noi preghiamo supplichevoli ecc. ecc. » Questa congiunzione adunque fa intendere, che questa preghiera, come abbiam detto, è una continuazione del prefazio. In esso, reso omaggio di profonda umiltà al Signore dei cieli gli abbiam detto: « Egli è giusto e ragionevole e salutare di rendere grazie a Voi, Signore santo, Padre onnipotente, eterno Iddio ; » continuiamo ora qui la preghiera: Voi adunque, o clementissimo Padre, noi preghiamo supplichevoli ecc. Ammiriamo tratto di confidenza devota, in cui il Sacerdote parla a Dio come a tenerissimo Padre. E per giustificarsi di tal atto, che dovrebbe sembrar ardimento, gli mette dinanzi, per ossequiosa scusa, che il figlio suo Gesù ci acquistò il merito, e ci ottenne il diritto di chiamar Padre Iddio, soggiungendo subito: « Per Gesù Cristo, Figlio vostro, e Signor nostro preghiamo, e vi chiediamo di avere bene accetti, e di benedire questi doni, questi presenti, ed officiose offerte, questi sacrifici santi. » – Li segna di croce perché siano bene accolti dal Padre, vedendoli sotto la croce del suo Figliuolo. I tre segni poi esprimono che questo gran mistero si verrà compiendo dalla santissima Trinità ( Marsebius, Sum. Christ. 3 p.). È pure devota e commovente la spiegazione di questi tre segni di croce, che dà il Serafico Bonaventura (Esp. Miss. c. 4, 1. 7). Il primo segno, dice egli, significa 1’atto della carità del Padre verso di noi, che il proprio Figlio non risparmiò, come c’insegna l’Apostolo: ma ce lo diede per la salute di tutti. Onde possiam dire: «questo è dono vostro, perché da Voi ci fu dato. » Il secondo esprime quell’atto, in cui Gesù si abbandonò nella morte l’anima sua, e coi scellerati venne riputato: e qui possiam dire: « queste offerte sono nostre; perché il Redentore, che ci fu donato, è nostro. » Il terzo par voglia esprimere il tradimento di Giuda, con cui diede Gesù col bacio in mano ai nemici; e qui noi ancora possiamo dire nell’offrire « ma questo ora è santo sacrificio illibato , in cui non ha più parte umana malvagità. » – Giova qui osservare, che queste tre diverse espressioni di doni, presenti, santi sacrifizi illibati, non sono già una semplice ripetizione della stessa cosa; ma contengono tre idee diverse. Chiamasi l’offerta in prima doni, e sono doni la sostanza del pane e del vino presentata a Dio per essere trasmutata nel Corpo e nel Sangue di Gesù. No! l’oblazione non poteva essere fatta di una sostanza più conveniente. Dovendo noi rendere a Dio tutto che abbiam ricevuto, scegliamo una porzione di quella cosa, che maggiormente concorra al nostro sostentamento: e nell’offrirgliela preghiamo Dio di aggradire ciò ch’Egli ha posto nelle nostre mani (Paralip. XXIX, 14.). Così confessandogli con umiltà, che i doni che gli offriamo, come ogni cosa, sono già suoi, è un atto di giustizia che noi esercitiamo, essendo l’umiltà vera giustizia: poiché l’umiltà è virtù, che di tutto il bene rende l’onore a Dio. Ora, come tutto ciò che è bene, viene da Dio; (così conviene intenderla), la prima giustizia è rendere a Dio del tutto almen l’onore, come dice il Salmo: « Non a noi, non a noi, o Signore, ma al nome vostro date gloria » (Psal. CXIII.). Ci si perdoni di questo che ripetiamo qui: perché crediamo dover ripetere con Ss. Agostino che il primo, il secondo, il terzo fondamento della santificazione delle anime è sempre questa primiera giustizia, l’umiltà. Chiamansi poi questi doni col nome di presenti, cioè di offerte officiose, presentate da noi come un regalo nostro: così dicendogli doni, si confessa che sono cosa, che viene direttamente da Dio; dicendogli offerte officiose, o presenti, si dice in certo qual modo, che in essi si offerisce anche qualche cosa del nostro (Ugo, De sanct. Vict.). E qui nel modo più delicato diamo gloria alla bontà di Dio che benignamente alla nostra povertà ha provveduto, rendendo proprii di noi, o personali questi doni suoi. Invero il pane ed il vino sono doni suoi materiali, ma e’ sono anche nostri: perché la terra, che li produce per comando di Dio, ce li somministra rispondenti alle nostre fatiche. Sicché sono doni di Dio, e frutto del nostro lavoro. Ma elevando poi il nostro pensiero, sentiamo nella fede di poter dire, che sono doni e presenti nostri anche il Corpo e il Sangue SS., in che il pane ed il vino verranno trasmutati. E questo è il più gran trovato della divina bontà, che la mostra veramente infinita, e vince di lunga mano le più grandi speranze dei Profeti. Dio pagò egli stesso la divina giustizia per noi: e, si veda raffinamento di carità! ci volle anche risparmiare la vergogna di fare per noi il pagamento gratuito, senza nulla metterci del nostro, ma il prezzo del riscatto ci pose in mano, lo fece nostro, e di vera nostra ragione: e poi disse: « pagate. » Ci risparmia così quella naturale timidità di comparire debitori, e colle mani vuote ((3) Cesar. Oraz. del S. Natal.). Esso ci ha provvista la vittima; ma l’ha fatta nostra. L’infinito debito noi pagheremo, sì noi veramente pagheremo, e con valsente di nostra proprietà !… Qual sarà adunque questo presente di nostra ragione?….. Qual sarà?… Forse Gesù Cristo in Persona?! Sì proprio il Corpo e il Sangue di Gesù, che essendo Dio fatto uomo, si è fatto porzione di nostra natura; fratello nostro, a noi donato dal Padre: Ah! noi siamo d’avviso che neppure gli Angioli vanno al fondo di tanto mistero, vero Subisso d’amore divino! Chiamansi infine santi sacrifici illibati: santi, perché sono riservati a Dio solo, ed a Lui solo vengono offerti in ricognizione del suo supremo dominio: sacrifizi, perché rendono al gran Monarca dell’universo l’onor dovutogli da tutto il creato. In essi il supremo suo dominio è riconosciuto. In essi lasciando noi nelle mani di Lui l’offerta dei frutti della terra e dei nostri sudori, Dio trasmuta il dono terreno in un santo Sacrificio mondissimo, che sarà il vero olocausto per l’intera consumazione della vittima a gloria di Dio; e sacrificio eucaristico, offerto in ringraziamento; come pure vera ostia pacifica e sacrificio propiziatorio, che riconcilierà gli uomini a Dio, ed otterrà la remissione dei peccati; sacrificio accettevole impetratorio, che impetrerà tutte le grazie a favore degli uomini. Il che tutto già abbiam toccato, ed avremo occasione di esporre ancora con maggiore chiarezza. Da ultimo sacrifizi illibati, integerrimi, siccome li ha fatti Dio, senza che né uomo, né spirito immondo vi possa metter sopra la mano ad usurparli, o profanarli. Illibati, dice anche Innocenzo III (1), cioè immacolati; perché senza macchia e di cuore e di corpo devono essere offerti, sicché niente vi sia frammesso, che degno non sia dello sguardo santo di Dio. Essendo questo, pertanto, il santo Sacrificio illibato, affrettiamoci, che questa è l’occasione più bella, di presentar con esso le nostre suppliche, e chiedere ciò che più ci sta a cuore. Quindi continua l’orazione. « I quali sacrifici, vi offeriamo per la Chiesa vostra santa, cattolica. » Anche Gesù Cristo faceva per essa la sua preghiera, e raccomandava di porre gl’interessi di essa in cima di tutti i nostri voti. « Cercate, dice Egli, prima il regno di Dio e la sua giustizia », ed il regno e la sua giustizia sta nel trionfo della Chiesa Cattolica. Quindi il Sacerdote la raccomanda subito in prima.

QUARESIMALE (XVI)

QUARESIMALE (XVI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMASESTA
Nella Domenica terza di Quaresima

Confessione, vuol dire conversione. Convertirsi a Dio con la lingua, dicendo tutti i peccati mortali. Convertirsi a Dio col cuore, avendo vero dolore. Convertirsi a Dio con le opere, avendo un fermo proposito di non peccare e di lasciare l’occasione prossima.


Erat Jesus ejiciens dæmonium, et illud erat mutum. San Luca cap. 11.

Nei tribunali del mondo la confessione del delitto tira seco la morte; nel sacro
tribunale della Penitenza, la confessione del peccato porta seco salute d’anima, e vita di grazia. Eppure un effetto sì prodigioso più d’uno non l’esperimentano. Sapete perché? Non si fa come si deve, non si fa sincera, schietta, reale, severa; e per questo molti che si confessano, non ricevano né perdono di colpa, né vita di Grazia. – La Confessione non è qual molti se la figurano, non è un negozio di sole parole nate sulle labbra, ma altresì di sensi usciti dal cuore; non risiede solamente nella punta della lingua, ma principalmente nel profondo della volontà. Confessarsi vuol dire convertir a Dio: Convertere ad Dominum relinque peccata, et minue offendicula. In queste brevi parole detteci dallo Spirito Santo sta racchiusa la norma d’una vera, perfetta, e santa Confessione, perché contiene in sé: convertirsi a Dio con la lingua, convertirsi col cuore, convertirsi con l’opere. Convertirsi a Dio con la lingua, dicendo tutti i peccati. Convertir a Dio col cuore, avendo un vero dolore. Convertir a Dio con le opere, avendo ferma risoluzione, non solo di non peccare, ma altresì di fuggire ogni occasione prossima di peccato. Cominciamo dal primo. – È da piangersi a lacrime di sangue la miseria infelicissima di tanti e tanti, che dopo avere anche diligentemente esaminata la loro coscienza, tanto si perdano e si dannano tacendo qualche peccato non perché non se ne ricordano, giacché in tal caso non sarebbe peccato, salva la negligenza nell’esame, ma perché hanno timore a manifestarlo, si vergognano di palesarlo. Mi meraviglio di voi. E da quando in qua deve stimarsi vergogna palesare il suo peccato? Vergogna fu il farlo. No, no, vi dico non deve stimarsi vergogna palesar quel peccato, né dalla parte vostra, né dalla parte della Confessione, né dalla parte del confessore. Non è dalla parte vostra perché mai è stato, né mai sarà vergogna alcuna mostrare al cerusico una ferita mortale acciò la guarisca; mai è stato, né mai sarà vergogna palesare al medico una febbre acuta perché ci risani; mai sarà vergogna vomitare alla presenza del medico, che vi dà l’antidoto a quel veleno che racchiudete nelle viscere. Or non è vergogna scoprir la piaga al cerusico, palesar la febbre al medico, ed alla presenza sua render quel veleno che ci toglieva la vita temporale. Come ha da stimarsi vergogna scoprire quelle piaghe incancherite al cerusico spirituale di quei peccatacci, palesare al medico spirituale quelle febbri ardenti di tante laidezze, rendere alla presenza sua quel veleno che dava morte all’anima vostra? mentre così operando si ricuperava la salute dell’anima? Eh mi meraviglio di voi! Non deve stimarsi vergogna dalla vostra parte, ma neppure dalla parte della Confessione. Voi, quando siete in peccato, siete mostri orribili; non siete punto dissimili al diavolo nella deformità mostruosa. Or, qual è il modo di ritornare allo stato primiero? Ecco, dice Sant’Agostino, la Confessione: Fœdus eras confitere, ut fis pulcher; e se non vi basta l’autorità d’Agostino, sentitelo dalla bocca stessa del Profeta Reale, che apertamente si protesta: Confessionem, et decorem induisti; Iddio ha posto vicino alla Confessione la bellezza, per il peccatore allor che s’umilia d’avanti a lui e davanti a’ suoi ministri ricopre le sue colpe di tal maniera che par che sopra loro ponga un prezioso ricamo, in virtù del quale, rimane nascosta ogni laidezza passata. Confessionem, et decorem induisti. Confessio, pulchritudo in conspectu ejus; al cospetto di Dio tanto è dire confessarsi bene con dire tutti i peccati, quanto è vestir d’una bellezza celeste. Sarà dunque vergogna manifestar chiaramente le sue colpe, se manifestandole vi rendete belli agli occhi di Dio. – Un certo scolaro di Socrate in Atene, entrato in una casa di cattivo nome, vedendo passar di là il suo maestro, corse per vergogna a nascondersi, ma Socrate fatto sulla porta, tutto piacevole e grave, vien fuori, e dice: o figlio, poiché l’uscir da questa casa non  è  vergogna, vergogna fu l’entrarvi. Lo stesso dico io a quelli che tacciono i peccati per vergogna: non è vergogna uscir dal peccato per mezzo della Confessione, vergogna fu peccare. Mi meraviglio di voi, dirò con Sant’Agostino che pazzia è la vostra non vergognarsi di peccare, e vergognarsi di far penitenza? Questo è un vergognarsi della fascia, e non arrossirsi della ferita. O crudelis insania de vulnere non erubescit, et de ligatura vulneris erubescit. Neppure deve stimarsi vergogna dalla parte del confessore. O che pazzia! Vergognarsi di palesare un brutto peccato per temenza che il confessore si scandalizzi? E da quando in qua avete trovato medico, il quale si turbi per avere alle mani una persona gravemente inferma mentre sa, che può risanarla s’ella l’obbedirà? E da quando in qua avete trovato un cerusico che si rammarichi per aver alla sua cura una piaga pestifera; mentre sa, che può guarirla, purché l’infermo voglia? Ah, che il medico, ah, che il cerusico godono in simili cure, perché devono ridondare in loro utile, in loro gloria. – Era solito di dire un confessore gran Servo di Dio, che mai più tanto si rallegrava, quanto che, quando aveva a’ suoi piedi a guisa d’un San Michele Arcangelo, un dragone d’inferno, e voleva dire, che allor godeva, quando aveva un gran peccatore a’ suoi piedi. Come dunque volete che sia vergogna dalla parte del confessore? Non dovete vergognarvi per la parte del confessore, perché egli, quanto siete maggior peccatore, tanto più gode. Confessavasi un dì da San Luigi Beltrando un dissolutissimo giovane, il quale ad ogni peccato che diceva, dava un’occhiata al santo confessore, ed osservò, che stava con volto tutto ridente. Finita la Confessione: Padre, disse, ho un altro peccato da accusarmi, ed è un giudizio fatto adesso, che anche voi siate un tristo come me, perché ridendo nell’assolvermi, mi sono immaginato che vi consoliate nel vostro cuore con dire: manco male che al mondo vi sono degl’altri ribaldi al pari di me. Allora il Santo rispose: fratello, son peccatore anch’io, benché non sappia d’aver mai fatti peccati simili a’ vostri, ma gioisco nell’udire la vostra confessione, considerandovi non più peccatore, ma penitente glorioso, che fuggendo dalle mani del diavolo, si butta in quelle di Dio. Cari Uditori, non temete mai che il confessore si scandalizzi, anzi assicuratevi che, quanto più gravi saranno i peccati, tanto più godrà, giacché egli allor gode, quando acquista anime a Dio. Non dovete dunque stimar vergogna manifestare il peccato né per vostra parte, né della confessione, né del confessore. Su, dunque, ditelo e non lo covate più in cuore a tanto danno dell’anima vostra. Eh Padre, dite bene, ma è troppo grande il rossor che provo a sol pensarvi di doverlo dire; ma se poi volete, che ci sta questa vergogna, sarò con voi e dirò ancor io, che è vergogna; ma vergogna, o non vergogna, bisogna confessarlo. È vergogna sù, sì, è vergogna, ma qual è più vergogna, dirlo ad un uomo, come voi soggetto a miserie, oppure farlo sapere a tanti uomini da bene? Certo che è minor vergogna dirlo ad un uomo impastato di carne come voi così, vi dice Sant’Agostino: O homo vir confiteri erubescis peccata tua? Peccator sum sicut es tu; altrimenti, se non li dite ad un uomo solo, nel confessore, l’hanno poi da sapere i vostri peccati tutti gl’uomini del mondo nel giorno estremo. Su via, è vergogna dirlo ad un uomo impastato di miserie come voi? Su via, son con voi, e giacché il diavolo vi ha restituita per confessarvi quella vergogna che vi tolse perché peccaste; su, voglio che fa vergogna; ma quale è più vergogna? Che ora lo sappia un uomo solo, oppure, che poi quel vostro brutto peccato sia manifestato per bocca de’ diavoli a suono di tromba per tutto il mondo? Se voi non lo confessate adesso per la vergogna ad un uomo in segreto, con sì alto segreto, che maggiore non può essere, s’avrà poi da manifestare con tanto maggior vituperio al marito, alla moglie, al padre, ai figli, alla madre; quel vostro peccataccio ha da essere manifestato a quanti furono uomini nel mondo, quanti regnano Beati in Cielo, ed a quanti penano tra’ diavoli, e dannati nell’inferno. E tu peccatore, e tu peccatrice non vorrai ora soggiacere a questa piccola vergogna per esser poi svergognato presso il mondo tutto per tutta l’eternità? Sappiate, Uditori, che il confessore ha tal segreto di quanto gli dite, che v’andasse la salute del genere umano, non può palesar le vostre colpe. Sogliono i principi farsi servire volentieri da mutoli affinché le loro azioni non si risappiano. Dieci di questi ne aveva Solimano re dei Turchi, eppure, se questi non parlavano con la lingua, potevano certamente parlare con i cenni; ma il nostro Iddio ci fa servire nelle Confessioni da Sacerdoti talmente mutoli, che nemmeno con un gesto, benché minimo, possono scoprire i nostri peccati. E voi ad ogni modo con tanta certezza che nulla si saprà, con tanta sicurezza del vostro eterno vituperio, se ora non dite il peccato, ad ogni modo, per un piccolo rossore presente vorrete tacerlo? Orsù, se così è, io non posso far altro, salvo, che intimarvi con Agostino la dannazione. Elige quod vis, si non confessus lates, inconfessus damnaberis, o confessarsi, o dannarsi; o confessione, o dannazione. Una tal verità provò a suo gran costo quella infelice giovine riferita da autor moderno. Fu questa allevata con gran cura da’ suoi maggiori, i quali affine di levarla affatto dai pericoli che corre la gioventù, la collocarono per educazione in un monastero, consegnandola ad una zia vergine di gran pietà; e pure, in questo giardino sì chiuso trovò l’antico serpente la sua entrata: imperocché un giovinastro, sotto pretesto di volerla chiedere a’ parenti per sua consorte, le inviò una lettera piena di sensi affettuosi, per cui si mostrava tutto appassionato per lei, e tutto preso dalle sue belle maniere. Or queste lodi, e questa grande affezione, sebbene potevano parere non più che poche scintille, bastarono per un gran fuoco, poiché la giovane incauta si accese tutta di desiderio di corrispondenza; e perché chiusa in quel luogo aveva comodità di parlare, fomentava l’ardore concepito con lo scrivere, manteneva per via di lettere una continua corrispondenza, non d’altro al principio, che d’una semplice benevolenza col fine di maritarsi, se non che quella febbre che da principio pareva effimera, crebbe a segno di divenire affatto putrida; dietro all’amore cominciarono i cattivi pensieri e le suggestioni impure, e sotto pretesto di matrimonio l’inimico s’inoltrò tanto nel suo cuore, che la meschina diede il consenso. È vero che questo consentimento non passò a niuna opera cattiva, ristagnando nel cuore; ma che importa, fu peccato mortale; quello però, che compì l’infelicità della giovane, fu che ella per vergogna non manifestò mai al confessore né la tresca col giovane, né l’assenso al peccato, né  pure i continui sacrilegi che faceva nell’accostarsi a’ divini Sacramenti. Perseverò lungamente in questo stato, e così sacrilega fu colta da fiera malattia, per cui se ne morì senza essersi confessata di quel peccato. Volle Iddio servirsi della disgrazia di costei per ammaestramento di tante che si danno in preda agli amori, e di quelle che non vogliono dire i lor peccati, e perciò permise, che la morta giovine comparisse alla zia cinta di fiamme, in atto di metter compassione fino alle pietre. Ed ecco, disse, quella che voi avete allevato con tanto studio, eccola dannata per aver taciuto un peccato mortale di solo pensiero; così detto, disparve, e lasciò più morta che viva la sconsolata zia. O quanto pagherebbe questa giovane infelice non aver mai fatto l’amore! Quanto bramerebbe d’aver detto quel peccato che ora la tiene nell’inferno. Intendetela cari Uditori, o confessarsi, o dannarsi. Annibale doppo aver passato il mare fece dar fuoco alle navi, e poi, rivolto a’ soldati, disse loro ad alta voce: soldati miei, qui non v’è più speranza di ritornare indietro; convien vincere, o morire: Aut vincendum, aut moriendum milites est. Lo stesso dico ancor’io, o convien vincere quella maledetta vergogna, che vi leva la lingua, o convien morire eternamente; o confessione, o dannazione; non occorre altro. – O Padre, già che questa vergogna m’ha preso si altamente, non vi farebbe altro modo per ritornare in grazia di Dio? Digiuni, pellegrinaggi, stenti, limosine? No, Quot ignorat, medicina non curat. V’entri una spina in un piede; finché la spina non è cavata, non è possibile saldar la piaga, ponetevi pure unguenti, e balsami; cavate la spina, e guarirete. – Racconta Sant’Antonino Arcivescovo di Firenze, come un santo confessore, mentre se ne stava al confessionario, vide venire una sua penitente al solito tutta modesta, tutta devozione; ma vide che intorno a lei v’era un brutto demonio che con grande allegrezza gli saltava d’intorno. Restò stupito il Santo, e chiamato a sé, con comando di Dio, quel demonio, gli disse: e perché  con tanta allegrezza intorno ad una donna sì pia, che digiuna, che fa limosine, che frequenta i Sacramenti? Per questo, disse il diavolo, sto allegramente. Quomodo non rideam, si hæc jejunans et plorans descendit ad inferos? E non volete che rida, mentre costei con tutte le sue penitenze e devozioni viene all’inferno? Ve  lo dirò, rispose il diavolo: questa donna commise già un peccato di pensiero, v’acconsentì.  È vero che stagnò nel cuore, ma vi diede perfetto l’assenso e non se ne è mai confessata; onde faccia quante penitenze vuole, che mai mai, si salverà. Intendetela, finché la spina non è cavata, non v’è rimedio. Portatevi dunque a piedi d’un buon confessore e dite ciò che avete celato. – Se bene a che tanto stancarmi, mentre la maggior parte non fa le confessioni male per lasciare i peccati e li dicono tutti? Pensate, se quella donna si vergogna di dire i peccati, mentre ne discorre con le compagne? Pensate se ne vergogna quel giovane che se ne vanta. Peggio, pensate, se si vergognerà di dire i peccati che ha fatto quell’uomo che si gloria di quelli, che non ha fatti, con perdita della riputazione di quella povera donna. Appunto la maggior parte fa un diligente esame, e dice tutti i peccati, anzi per non se ne scordare li scrivono e pure, come dice Santa Teresa, la maggior parte si danna per non far bene la Confessione. Da che deriva? Deriva, perché confessarsi, non vuol dire pagare una gabella; gl’ho fatti, gl’ho detti, dunque sono assolto, … È necessità dirgli, ma non basta; bisogna aver dolore, e se non avete questo dolore, la confessione non vale. – Quando si dice che avete d’aver dolore, non s’intende del dolore sensibile, il quale, quantunque fosse buono, non è però necessario per una buona Confessione; è il dolore della volontà, cioè quel dolore, con cui si detesta il peccato, come il maggior di tutti i mali, e si abbomina sopra ogn’altra cosa, che meriti odio; Qui diligitis Dominum, odite malum, dice il Profeta Reale. Or io sento taluno, che mi dice: come ho da fare per aver questo dolore, che mi faccia odiare il peccato da me commesso. Io mi pento, dice quella donna, del mio peccato, perché mi trovo tradita dall’amante e svergognata. Io mi pento, dice colui, perché quel fallo da me commesso m’ha portato tante disgrazie. Questo è dolore naturale, il quale non giova nel Sacramento della Confessione, e queste lacrime sono per appunto come le lacrime d’una pianta potata, la quale non per altro geme, se non perché ha perduta la pompa de’ suoi rami. Il dolor naturale, non basta, vi vuole il soprannaturale! E qual è questo dolore soprannaturale? Eccolo, dolersi d’aver offeso Dio o per timore d’inferno o per perdita di Paradiso, o per bruttezza di peccato; meglio però sarebbe, se voi vi doleste de’ vostri peccati con dolore perfetto, che vuol dire, non con altro motivo, che per avere offeso Dio sommo Bene, che merita d’essere infinitamente amato. E se volete conoscere la differenza di questi due dolori, d’Attrizione, e di Contrizione, immaginatevi una Figlia così maledetta la quale, in collera dato un pugno a sua madre si fosse fatta male nel percuoterla. Questa si potrebbe dolere e per il male fatto a se, e per il disgusto dato alla madre. Così voi, se vi pentite e vi dolete per timore d’inferno, bruttezza di peccato, perdita di Paradiso, vi pentite per il male che fate a voi, e questa è Attrizione. Se voi vi pentite solo per il disgusto dato a Dio Sommo Bene, questa è Contrizione e dolor perfetto , ed uno di questi due dolori sono necessarii per Confessarsi bene, altrimenti la Confessione non val nulla. – Intendetela bene questa verità. Confessate pur tutti i vostri peccati, non ne lasciate niuno. Comunicatevi, prendete l’Olio Santo, tutti i Sacramenti, se non avrete uno di questi due dolori, siete dannati: Nisi pœnitentiam egeritis omnes simul peribitis. Ma sento chi mi dice: come potrò fare ad avere questo dolore soprannaturale? Prima raccomandarsi a Dio, da cui ha da venire questo dolore. Mettetevi dunque in ginocchioni avanti d’entrare al confessionario e dite: Signore, giacché volete che mi penta di cuore, datemi voi questo dolore, che è dono vostro. In secondo luogo, considerate tutta la vostra vita iniqua, e non vi fermate in quei soli peccati, de’ quali volete allora confessarvi, e vedrete, che a quella moltitudine concepirete dolore. Considerate chi siete voi, chi è Dio, e queste considerazioni v’ecciteranno a pentimento. Basta dire tutti i peccati? Basta il dolore per ben confessarsi? No, convien salire un gradino più sù, vi vuole un proposito risoluto di mutar vita. Qui sta il punto, Uditori miei, non basta odiare il peccato passato, vi vuole anche una vera risoluzione di non peccar mai più per l’avvenire, altrimenti la Confessione non è buona. Sovvengavi di quello, che San Remigio disse a Clodoveo Re di Francia prima di battezzarlo: signore, se volete godere i frutti del Battesimo, bisogna che di cuore adoriate ciò che abbruciaste, cioè le Croci; e che abbruciate ciò, che adoraste, cioè gl’idoli . Tanto io dico a voi: se volete far buona Confessione, bisogna fuggire quel peccato che amaste; bisogna seguir quel Dio a cui voltaste le spalle. E se io avrò questo proposito di mai più peccare, sarò poi ben confessato? tornerò in grazia di Dio? No, no, non siete ancora in cima alla scala. Non basta per molti, se voglian fare la pace con Dio, che propongano di non voler più peccare, ma bisogna che propongano di voler levare l’occasione prossima di peccare; e la ragione è chiara, perché chi vuole una cosa che moralmente è connessa con la colpa, è convinto di voler ancora la medesima colpa. Bisogna dunque proporre di voler levare l’occasione prossima, che è quel pericolo di peccare, nel quale, quando uno si pone frequentemente, cade. Non basta dunque che quel giovane, il quale, quando discorre con quella donzella frequentemente offende Dio con pensieri, con discorsi, dica al confessore: Padre, prometto di non consentire un’altra volta; ma bisogna dire: Padre, prometto di lasciar questa conversazione, che m’è occasione di tante colpe. Quella donna, che nel servire, o nell’andare in quella casa a lavorare frequentemente cade in peccato, deve dire: non andrò più a lavorare in quella casa; ed il padrone della casa deve dire non chiamerò più quella donna a fare i fatti di casa, ne chiamerò un’altra, che non mi serva d’inciampo. Così chi giocando frequentemente bestemmia Dio, o inganna il compagno, deve promettere di non maneggiar più le carte. Chi passa il tempo con un compagno scandaloso per l’anima sua, deve promettere di cambiar compagni, o di non trattarvi a solo a solo. Chi frequentemente s’ubriaca, deve promettere di non andare alla bettola, o almeno di non trattarvi, andarvi in compagnia d’altri, ma da sé solo, per evitar quel prossimo pericolo d’ubriachezza. Se non fate questi propositi, la Confessione non vale. Ditemi, se voi foste cascato quattro, o cinque volte giù per una scala, e vi foste rotto quando una gamba, quando una spalla, quando la testa, che proposito fareste, di non salire, o di non ricadere? Il vostro proposito farebbe di non salire mai più. Perché dunque si ha da stimar sì poco l’anima? Che sapendo d’averla uccisa tante volte in quei luoghi con quei compagni, vogliate di nuovo tornarvi? Dio immortale, se un cavallo sia caduto in qualche malpasso, dategli quanto volete, non vuol passarvi. E voi caduti tante volte, vi ritornate e poi credete di far buona Confessione, senza proposito di levar l’occasione prossima? Un padrone tiene una serva in casa con la quale di tanto in tanto cade, la può mandar via e non la manda, non può essere assolto, e dir il contrario è una delle Proposizioni condannate dalla Santità d’Innocenzo Undecimo. O’ fà per la mia casa. Se la trovate a rubare alla cassa, subito la caccereste, vi ruba l’anima e si tiene? Chi dicesse che costui si confessa bene, è scomunicato. Una serva si trattiene in una casa e spesso pecca, può lasciar quel pericolo ed andare altrove, chi dicesse, che questa donna in tale stato si confessa bene, sarebbe scomunicato. E se si trovassero de’ confessori che assolvessero chi sta nell’occasione prossima si dannerebbero col penitente. Udite a questo proposito un avvenimento referito da gravi autori. Un certo cavaliere dato in preda alle disonestà aveva per sua disgrazia trovato un confessore che, senza riprenderlo, e senza costringerlo a lasciare l’occasione prossima, l’assolveva ogni volta con grande amorevolezza; e benché la moglie di questo cavaliere, signora di gran pietà, riprendesse frequentemente il marito e gli dicesse spesso: chi v’assolve? Mentre i predicatori replicano tante volte nel pulpito che chi non lascia l’occasione prossima non può assolversi da niuno. Il cavaliere rispondeva ridendo: voi, signora, volete fare del teologo, se il confessore non mi potesse assolvere, non mi assolverebbe, badate all’anima vostra, ed io baderò alla mia. Seguitò dunque a viver nella pratica ed a confessarsi. Venne la morte, la quale fu somigliante alla vita. Poco doppo la morte essendo la signora rimasta vedova, standosene ritirata a fare orazione, vide in mezzo ad un gran fuoco un uomo spaventoso, che portava su le spalle un altro uomo tormentato dalle medesime fiamme. S’intimorì grandemente la signora, e tanto più crebbe l’affanno, quanto che udì dirsi da quello che stava sulle spalle dell’altro: io son l’anima del tuo marito, non accade pregar per me, son dannato; questo che mi porta sulle spalle è il mio confessore; io perché malamente mi son confessato, ed egli perché malamente m’ha assolto, siamo condannati, e ciò detto disparve. Capitela dunque: se voi senza proposito di lasciare non solo il peccato, ma l’occasione prossima del peccato andrete a confessarvi, e troverete chi v’assolva, non andrete a casa del diavolo con i vostri piedi, ma con quelli di chi vi assolve. Il confessore dice io t’assolvo, ed Iddio, che vede che non avete vero dolore e vero proposito, dice, ed io ti condanno. Fate dunque buon proposito di lasciar l’occasione prossima del peccato, e così vi confesserete bene; ma levatela, se no, la confessione è invalida, anzi sacrilega. – Un certo giovane allacciato malamente dall’amore d’una femmina se n’andò per sua buona sorte a confessarsi da un Sacerdote, il quale gli mise sì bene avanti gl’occhi la gravezza del suo peccato, e la necessità di fuggire l’occasione, che il giovane compunto gli promise non solamente di non tornar più in quella casa, ma di partirsi anche da quella città ed andarsene tanto lontano che la donna non sapesse più nuova di lui, perché diceva: ella è tanto scellerata, che se io mi rimanessi in queto luogo, mi tirerebbe di nuovo a mal fare. Il Confessore vedendolo sì ben risoluto, l’assolse, ed il giovine ritornato a casa dette ordine alle cose sue e se ne partì. In tanto la mala donna, aspetta la prima sera, aspetta la feconda, la terza, e l’amante non tornava. Ah traditore, disse, m’ha abbandonato; Che fece? Così donna com’era cominciò a girare d’intorno intorno a paesi vicini, e tanto fece, che lo vide in una piazza, e tutta allegra gli s’accostò di nascosto, come per gioco, e presolo per il mantello glielo tirò. Voltossi allora il giovane e, benché riconoscesse subito quella malvagia, non gli corrispose. Onde la donna soggiunse: non mi conosci? Son quella; se tu sei quella, rispose il giovane, non son quello io, e guardandola con occhio bieco le voltò le spalle. Or confessatevi così, miei Uditori, e non dubitate, che le vostre confessioni non siano buone, saranno ottime, perché piene di vero dolore, e di fermo proposito. – Deh miseri voi aprite gl’occhi, e non v’accorgete dell’inganno che vi tesse il demonio, affinché non facciate una buona confessione? Ite sacrificate Domino, oves tantum vestræ remaneant. Così disse Faraone al Popolo d’Israele, dopo esser costretto, a forza di castighi e di prodigi, lasciarli partire; giacché volete andare nel deserto a sacrificare al vostro Dio, mi contento, purché rimangano qui nell’Egitto tutte le vostre bestie; ma che rispose Mosè a questa richiesta così ingannevole? Non remanebit ex eis ungula. Questo fa a proposito per voi o peccatori; non solo non avete a lasciare, dice Mosè, nell’Egitto le vostre mandrie, ma nemmeno un’ugna d’esse, non remanebit ex eis ungula. Ecco l’astuzie del Faraone d’inferno, il demonio: quando s’accorge , che avete detto tutti i peccati, e che ne avete concepito buon dolore, si rivolta agl’inganni con procurare che non abbiate un vero proposito e dice, confessatevi, purché non lasciate, né quella amicizia, né quel passatempo, né quella casa, ove frequentemente avete perduta l’anima, fate proposito d’andarvi, ma di non peccarvi mai più: Oves tantum vestræ remaneant! No dilettissimi, non acconsentite a questo partito, è troppo ingiusto; rispondete francamente con Mosè: Non remanebit ex eis ungula; non solo non tornerò in quella casa, non solo non manterrò più quella amicizia sì dannosa, ma brucerò tutti i doni che ne ricevei, m’asterrò di mirarla, non manderò più imbasciate, ne toglierò dalla mente ogni memoria, come se mai non l’avessi conosciuta, non remanebit ex eis ungula. Fate così miei Uditori, e le vostre confessioni, come ottimamente fatte, vi torranno dall’inferno, e vi porteranno in Paradiso.

LIMOSINA
Siccome la Confessione dà la salute all’anima, così la limosina la dà al corpo. Eleemosina est ars, dice San Giovanni Grisostomo, omnium quæstuosissima;
è un’arte, che con i beni di fortuna, porta anche la sanità. Ben s’accorge di questa verità il poverello di cui si racconta nelle vite dei santi Padri che quanto guadagnava tutto dava per limosina e così si manteneva sano; ma volendo poi adunare per i bisogni delle malattie, e resecando la limosina ai poveri, subito s’ammalò con una piaga, in cui logorò tutti i danari, ma senza utile, e già si pensava di venire al taglio della gamba. Quando una Notte lagnandosi, si vide comparire fra la luce un Angelo che gli disse, che il modo di mantenersi sano era la limosina; poi lo guarì, dicendogli, che seguitasse. Che cosa bella è esser sani, questo è il maggior tesoro; sta nelle vostre mani: fate limosina!

SECONDA PARTE

Eccovi mostrato il modo di fare un’ottima, e santa Confessione; convertirsi a Dio con la lingua, dicendo tutti i peccati; convertirsi a Dio col cuore, concependo un vero dolore e pentimento d’aver offeso Dio; convertirsi a Dio con le opere, facendo un fermo proposito di lasciare non solo il peccato, ma l’occasione prossima del peccato. Ma o che miseria del Cristianesimo, mentre una gran parte de’ fedeli si serve male del Sacramento della Penitenza cavando veleno dall’antidoto. Così fate voi, quando andate alla Confessione senza le dovute preparazioni, v’andate per usanza, v’andate per rispetto umano, v’andate senza volontà risoluta di lasciare il peccato. Se un buon confessore non v’ha voluto assolvere, ne andate a cercare uno che sia ignorante, o almeno non curante né della sua, né della vostra anima, e così v’assolva, benché l’occasione sia prossima, e si possa rimediare. Talora vi sono di quelli che vanno cercando confessori che non sentano. Se così fate, voi uscite peggiori dalla Confessione di quello v’andaste. Poveri voi. Un inganno grande per i penitenti è che, quantunque vadano indisposti a questo Sacramento, ad ogni modo non hanno altra mira che ad avere l’assoluzione, quando con finzioni l’hanno strappata dalle mani del confessore, senza riflettere che se veramente non hanno la disposizione necessaria, ricevono dal Sacerdote quella materiale assoluzione, e da Dio l’eterna condannazione. – Poveri penitenti, mentre non vi servite bene d’un tanto rimedio alla vostra salute. Più poveri però, quando andate da medici che, invece di risanarvi, vi rovinano. Ma se sono infelici i penitenti, infelicissimi sono i confessori, che male amministrano il Sacramento della Penitenza. Ricordatevi o Sacri Ministri della penitenza, che siete padri del penitente, che non merita nome di padre, quello che, vedendo il figlio o piagato, o sull’orlo del precipizio, non gli porge rimedio, non l’avvisa con maniere da padre. Fate però conoscere la gravezza del peccato, riprendete ma con dolcezza; di grazia, nel sentire le colpe, quantunque enormissime, fatela da padre amoroso, che mira le piaghe del figlio per curarle; e però non date segno né con gesti, né con parole, d’impazienza, perché il penitente non scoprirà il suo male, e così non avrà rimedio. Finita la Confessione, con dolcezza di padre direte quanto v’occorre. Uno degli avvertimenti che danno i sapienti medici nella cura degli infermi si è, che quando l’ammalato fa crisi non si muova punto, non si sbatta, né si alteri; ma che scopertolo, non ad altro si badi, che a tenerlo caldo. Questo avvertimento danno i Dottori ai confessori, che quando il penitente butta fuori le sue colpe, non s’interrompa, non si alteri. Né solo siete padre, ma medico. Or che direte d’un medico che arrivato dall’ammalato sentisse il suo male, e poi non interrogasse, non ordinasse? Voi lo stimereste indegno della vostra cura. Come medici, se volete risanar l’infermo, convien che interroghiate quanto tempo è che quell’odio si cova, che quell’amicizia si frequenta, e poi diate i rimedi di penitenze salutari. Siete padri, siete medici, e siete cerusici. Che direste di quel cerusico, il quale medicasse la piaga, e poi non la fasciasse? Così siete voi, se veduta la piaga del peccato, in cambio di medicarla con attenzione e con applicamento di consigli, di riprensioni, vi mettete un impiastro: se così farete, ecco che il penitente affolto in tal forma s’alza dal confessionario, gli cade l’impiastro dalla ferita e torna subito a versar sangue, come se mai fosse stato medicato; appena finita la confessione si ripiglia l’amicizia. Poveri confessori, io vi vedo in un gran pericolo, se non amministrate bene il Sangue di Cristo. Quando vi viene a’ piedi uno di questi avaroni, ricco, potente, e sentite ch’egli è pieno di roba altrui, buscata per via di donazioni sforzate, di testamenti falsi, di mercedi ritenute, ditegli liberamente: pretium Sanguinis est, non licet mittere in corbonam. Non ammettete le scuse che non può, che vedrà, etc. Se vi capita a’ piedi un lascivo attaccato a una carogna che tiene in casa, oppur la va a trovare, ditegli francamente con Giovanni: Non licet tibi babere uxorem fratris tui, proximi tui; lasciate la rea femmina, altrimenti non v’è assoluzione. Quel figlio di famiglia, quel giovinastro ha il comodo di peccare in casa, parlategli chiaro: Eice ancilla de domo tua, esca la donna di casa; non crediate subito al non si può, non tocca a me. Se viene per confessarsi quel cuore che cova odii e nemicizie, ed è molto tempo, che non parla col prossimo, non vi lasciate ingannare con vari pretesti di politica del mondo, ma ditegli: Vade prius reconciliari, fate pace, riconciliatevi, parlatevi, e poi vi confesserò.

QUARESIMALE (XVIII)

LA GRAN BESTIA E LA CODA (17)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (17)

LA GRAN BESTIA SVELATA AI GIOVANI

dal Padre F. MARTINENGO (Prete delle Missioni

SESTA EDIZIONE – TORINO I88O

Tip. E Libr. SALESIANA

XII.

LA STATUA DI NABUCODONOSOR,

GLI UOMINI TUTTI D’UN PEZZO E I FATTI COMPIUTI.

Ricordate, o giovani, quella statua colossale veduta in sogno dal re Nabucodonosor? Capo d’oro, petto e braccia d’argento, ventre e cosce di bronzo, gambe di ferro, e pie’, parte di ferro e parte di creta. Il re guardava e guardava; quand’ecco staccarsi dal monte e rotolare sino ai piè della statua un sassolino; e al primo urto ridurla in frantumi. — Oh come mai un picciol sasso struggere un sì immane colosso? — Non v’accorgete? era di più metalli mal legati fra loro. Oh fosse stato tutto d’un pezzo, il sassolino non l’atterrava di certo. – Gli è per dirvi, che gli uomini a me non piacciono, non paiono uomini veri, se non son tutti d’un pezzo, e d’un colore; cioè fermi, costanti, consentanei sempre a sé medesimi. Questi cosiffatti uomini non c’è sasso, grande o piccolo, che li faccia vacillare. Ma gli altri, che, acconciandosi a tutti i capricci della GRAN BESTIA, mutano idee, parole, fatti, come le brache e la giubba, ad ogni mutar di stagione, son come la statua sopradetta, che ogni sassolino fa crollare; son la veste d’Arlecchino, cucita a cento toppe disuguali: e la porta appunto Arlecchino, vedete! Perché è personaggio tutto da ridere. O vorreste esser uomini da ridere, essere arlecchini anche voi?… No, cari giovani; credete a me, non vi torna conto: la merce è in ribasso. Ce n’ha già tanti degli arlecchini! E son coloro, per lo più, che non solo s’inchinano ai ciarlatani che parlano e ai ciarlatani che scrivono, di che testé vi ho parlato; ma anche alle vicende dei fatti. Uomini, vo’ dire, i quali loro regola di pensare e d’operare pigliano dagli avvenimenti del giorno. Or come non v’ha cosa più incerta e mutabile degli umani avvenimenti, sarà egli a stupire ch’ei riescano arlecchini in grado superlativo? – Frutto di tal sistema è la famosa teorica, che chiamano de’ fatti compiuti, la cui scoperta doveva. Toccare a questo secolo idolatra della forza. Volete che ve ne spieghi? … Ecco: un furbo ma prepotente, un Nabucodonosor qualunque tenta una solenne bricconeria. La gli riesce? Cosa fatta capo ha: bisogna gridargli l’evviva, e tristo a chi osi zittirgli contro. – Ma a questa stregua (voi dite) dovrassi gridar viva all’assassino, anzi alla tigre che sbrana il viandante? … — Ma! Che ne so io? Dimandatene ai ciarlatani. – Io dico che questo è il peggiore degli scandali, plaudire ai tristi fatti, e che di questo scandalo, il mondo, dall’alto al basso ne è pieno. Or voi, se a cosiffatto scandalo non volete soccombere, adusatevi per tempo ad aver sempre per regola del vostro pensare ed operare, non il fatto mutabile e contingente, ma la ragione e la fede che mai non muta. Solo a tal condizione riuscirete uomini tutti d’un pezzo, da reggere, non ai sassolini soltanto, ma ad ogni grandine di sassi vi scaglino addosso gli amici della BESTIA, i ciarlatani del mondo. – Del resto il mondo, vedete, fu sempre sossopra lo stesso; umile adoratore della forza e de’ fatti compiuti. Guardate Gesù Cristo. Quando lo videro preso, condannato, inchiodato e morto su una croce, i più crollarono il capo e dissero: — Ormai siam chiari: ei non era che un uomo. — E l’inganno fu sì generale, che per poco non vi cascarono gli stessi discepoli. Quei d’Emmaus: Nos sperabamus! — Sclamavano mesti e sfiduciati; quasi volesser dire: – Fummo corbellati per bene! — Ecco i giudizi regolati sul fatto. Ma intanto che avvenne? Passavano pochi anni, e quel Cristo, a cui davan torto perché s’era lasciato crocifiggere, abbatteva l’idolatria, conquistava il mondo. – Simile accadde nei primi secoli del Cristianesimo. I Cristiani erano oppressi, perseguitati, uccisi a milioni dai Nabucodonosorri del romano impero. — Dunque han torto, dunque e’ sono una man di scellerati, dunque: morte ai Cristiani! I Cristiani alle fiere! -— urlava il popolazzo, Ecco logica del mondo! – E forsechè da que’ tempi in qua il mondo ha cambiato vezzo o natura?… Quando a’ principii del secolo ci saltò sul collo quel gran demonio di Napoleone, chi seppe tenersi dall’incensate e dagli applausi? I preti (ce l’ha detto Balbo) e co’ preti pochi altri che ricusarono curvar le ginocchia innanzi a Baal. Del resto neppur certi ingegni, neppur gli scrittori nostri, neppur. quel gran poeta che fu Vincenzo Monti stette saldo alle mosse. E me ne spiace, povero Monti! che, oltre l’alto ingegno, aveva un’anima bella, un cuor d’oro. Ma era debole, e sì lasciò spaventare dalla BESTIA, si lasciò imporre dai fatti; e così, dopo aver levato a cielo nel Pellegrino apostolico, e nella bellissima cantica in morte di Baswille, Roma cristiana e la Religione, e il Papa; si lasciò tirare a scrivere in servizio di Napoleone, certi versacci; che poi ebbe a provarne rimorso e rossore. – O vedete, giovanetti miei! Se persino i Monti cascano, che vorrà essere delle basse colline !… – Che se poi dal primo Napoleone volessi far salto al terzo, e dal terzo a questi giorni nostri … Quasi quasi mi vien voglia d’aprirvi anche una volta la mia Lanterna magica; ma la è un tantino pericolosa; lasciamola lì. E poi; e poi se la riapro dove si va a finire con questa benedetta CODA ?…. – Sicché, per far più presto e non abusare più avanti della vostra pazienza, vi dirò: cari giovani, datevi un’occhiata dattorno: che fatti si presentano al vostro sguardo? … Non vedete? In Russia i Cattolici polacchi pigliati a schioppettate, perché credono che il Papa è Papa: in Prussia Vescovi e preti spogliati, imprigionati, esigliati, perchè credono che il Papa è infallibile; in Isvizzera suppergiù le stesse delizie, e per soprassello i parroci deposti, cacciati dalle loro parrocchie: da ultimo persino al di là dei mari, nel lontano Brasile, castigarsi un Vescovo perché osò dire scomunicati i framassoni. — Ecco i fatti, ecco la forza. E i burattini, gli arlecchini, i ciarlatani, i devoti dei fatti compiuti… o cheti, o batter le mani. – Ma lode a Dio, che accanto a tanta viltà ecco levarsi maestoso l’eroismo degli uomini forti, degli uomini tutti d’un pezzo, che negano adorare lo BESTIA. Ecco i Cattolici polacchi di Dziéelow; di Dolhi, di Pratolina far siepe de’ lor petti alle lor chiese’ minacciate, e gridare agli incalzanti soldati: — tirate pure; non apostateremo giammai! — e cader morti a diecine. Ecco l’arcivescovo di Posen Ledokowski spogliato, multato, condannato, avviarsi sereno e tranquillo alla prigione d’Ostrowa fra il plauso de’ suoi Cattolici e de’ suoi Vescovi; che pubblicamente si dichiarano parati con lui in carcerem et in mortem ire. Ecco il Nunzio pontificio Lachat, e il vescovo di Ginevra Mermillod, ecco i parrochi, della libera Svizzera multati e proscritti, scuoter la polvere de’ loro calzari e pigliare animosi le vie dell’esilio: ed ecco i lor fedeli parrocchiani, il dì della festa, varcare a migliaia il confine per vedere ed ascoltare i pastori loro strappati dalla forza. Ecco il giovane Vescovo di Pernambuco, Oliveira, accoglier pentiti a’suoi piedi ben dugento franco-muratori, e lieto di tanta vittoria darsi in mano a’ suoi nemici. Ed ecco, ecco da ultimo, nel bel centro di questa cara nostra Italia, un santo e fortissimo Pontefice che a castigo dell’Infallibilità che Dio gli ha data, i potenti della terra hanno abbandonato; levarsi gigante sul mondo accasciato appié della forza, e coll’immutabile parola; coll’ammirabile esempio, ispirare a migliaia di Vescovi, di preti, dì fedeli il suo stesso eroismo. — Questi, o carissimi giovani, questi i fatti che rigenerano il mondo, questi gli esempi che dovete imitare.

CONCLUSIONE

Qui fo punto, o cari giovani, non senza pena di lasciarvi di lasciarvi, ma non senza una dolce speranza che torneremo a parlarci un’altra volta. Vi ho mostrato in due libretti, quanto brutta e feroce e schifosa la GRAN BESTIA dell’umano rispetto, e vi ho incuorato a combatterla animosamente; vi ho scaltriti intorno alle difficoltà e ai pericoli di questa battaglia, vi ho additate e quasi messe in mano l’armi più acconce a riuscir vincitori; finalmente vi ho mostrato quanto vili e miserabili e schifosi coloro che alla BESTIA s’inchinano e le bruciano incensi, come al contrario quanto forti e generosi quegli altri, che riescono combattendo senza posa, ad abbattere il mostro e metterselo sotto i piedi. — Ora a voi tocca, o giovani cari, la scelta. Volete abbandonare l’onorata schiera dei valorosi e dei forti, per imbrancarvi cogli abbietti e coi vili?… No, no; eternamente no! Troppo generosa anima avete. Voi ve la terrete coi firti. Vi toccherà faticare; soffrire, combattere; ma n’avrete, certo e soprabbondante ristoro, la più bella, la più splendida delle vittorie. Udite ancora un esempio… – Quel Nabucodonosor; di cui sopra ho parlato, aveva a volte di strani e terribili capricci. Già pativa della malattia del Dio-Stato; una malattia cui van soggetti i re; specie a’ dì nostri; e com’essi de’ Cattolici che si inchinano al Papa, così egli adombrava di quegli Ebrei che osavano adorare il Dio d’Israele. — Che Dio d’Israele (disse un giorno). Qui non ci ha altro Iddio fuori di me. E detto fatto, ordinò una statua, non già quella che aveva sognato, composta di tanti metalli, ma tutta di fino oro, alta la bagatella di sessanta cubiti, che rappresentava la sua divina persona. E fattàla collocare in mezzo a una grande pianura, e convocati alla festa della dedicazione i satrapi, i principi, i prefetti, i magistrati e gli altri dignitari dell’impero, fra un’onda immensa di popolo; comandò che al suon della reale fanfara tutti dovessero prostrarsi a terra e adorarla, sotto pena di esser gettati in una ardente fornace. Demonio d’un re! Gli ordini furono appuntino eseguiti. Nella gran pianura di Dura fa eretta la statua, convennero principi e popolo, suonò la fanfara, e giù tutti colla fronte per terrra. Solo tre giovanetti ebrei (quanto mi piace pensar erano giovani!) stettero’ ritti in piedi dando in giro con occhio di compassione, e di sprezzo all’immensa pianura, tutta gremita di schiene curve, come di vili, giumenti. E ci fu chi li adocchiò in quell’atto; e acceso di un santo zelo per la gloria del dio-re, corse ad informarnelo. – Sappi, o re, che i giovinetti ebrei Anania, Azaria e Misaele non hanno adorata la tua statua. — Il re li fa chiamare: — È vero che vi ricusate d’inginocchiarvi alla mia statua? — Vero (rispondono a fronte alta e sicura); perocché noi non adoriamo che un sol Dio, il Dio d’Israele. E quanto a quella tua statua… gli è inutile che ci comandi, non l’adoreremo in eterno. — Il re monta sulle furie; ordina s’accenda la fornace sette volte più del consueto, fa prendere e legare i giovani, e così belli e vestiti com’erano, gettarveli dentro. Voi sapete il miracolo. Quel fuoco non ebbe sui giovanetti altra efficacia che di bruciar le funi che li tenevano avvinti, e così liberi e sciolti se la passeggiavano tra le fiamme stridenti come in prato di fresca verzura, lodando e benedicendo il Signore finché cavati di là entro, si trovò che il fuoco non avea bruciato loro nemmeno un capello. Di che que’gran principi e satrapi e magistrati, che poc’anzi s’erano inchinati alla statua, e lo stesso re superbissimo, dovettero inchinarsi a loro che avean ricusato inchinarsi. – E così accadrà pure di voi, miei cari giovani se terrete alta verso il cielo la fronte, negando piegarla davanti al simulacro della BESTIA. Lasciate  pure che tutti s’incurvino, lasciate che ridano di voi e della vostra ostinazione a tenervi su ritti, mentre tutti strisciano a terra; nessun male potran farvi; anzi, o tosto o tardi, saranno lor malgrado costretti a rendervi giustizia: mentre voi, operando francamente il bene, n’avrete le benedizioni di tutti gli uomini di buona volontà, e tocco il termine di vostra mortale carriera, potrete presentarvi a Dio e dirgli con santa fiducia: — Signore, non ho servito che a voi:

— Amen, amen, amen !

FINE.

BREVE NOVENA A SAN GIUSEPPE

BREVE NOVENA A SAN GIUSEPPE

(G. Riva: Manuale di Filotea, Milano, 1888)

(Inizia il 10 marzo, festa il 19 marzo)

I. Gloriosissimo S. Giuseppe, che per quell’alto pregio che aveste di essere sposo della gran Madre di Dio, e d’avere sopra del Figlio di Lei e Salvator nostro autorità, onore e provvidenza di padre, intercedeteci, vi preghiamo, di niente più apprezzare al mondo che la grazia di Gesù e la protezione  di Maria, onde ci rendiam degni della vostra e loro compagnia nel cielo. Gloria.

II. Gloriosissimo S. Giuseppe, per quel carattere esimio che fu in voi riconosciuto dallo stesso oracolo divino di Uomo Giusto, e per quella estensione  di potere che vi fece proclamare da Pio IX Patrono di tutta la Chiesa, ottenete ancora a noi di vivere sempre da veri giusti con Dio, col prossimo e con  noi stessi; con Dio, non cercando che la sua gloria, col prossimo amando tutti come fratelli, e con noi medesimi travagliando incessantemente per la nostra e la comune santificazione. Gloria.

III. Gloriosissimo S. Giuseppe, per quell’inesplicabil contento che provaste al termine dei vostri giorni nell’esalare l’estremo spirito fra i casti amplessi di Gesù e di Maria, impetrate ancora a noi simil grazia affinché, confortati alla morte dai SS. Sacramenti, le ultime nostre voci non facciano che ripetere, Gesù, Giuseppe e Maria, vi raccomando l’anima mia. Gloria.

QUARESIMALE (XV)

QUARESIMALE (XV)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMAQUINTA
Nella Feria sesta della Domenica seconda.

Si mostra che chi mal vive mal muore.


Malos male perdet . San Matteo al 21.


E dove mai cadrà fulmine sì spietato dell’ira divina, malos male perdet? Se vivranno male si perderanno eternamente? Io non credo già mio Signore, che minaccia sì terribile sia inviata a questa città tanto cattolica. S’intimi a Ninive ogni sterminio, come scellerata; ma non già a N.N. perché dedita alla pietà porge incenso a Santi, ed adorazioni al vero Dio; ma piaccia pure al Cielo che l’iniquità ancor tra voi non abbia innalzato trono sacrilego, e perciò meriti l’espressa denunzia di Cristo, malos male perdet. Se voi al pari de’ vangelici vignaioli avete talmente strapazzato il vostro Padre di famiglia Iddio, che a guisa di nemici più fieri, non contenti d’oltraggiarlo nel suoi servi, e vostri prossimi, percuotendoli con mormorazioni, lapidandoli con ingiurie, ed uccidendoli con strapazzi, avete per ultimo ardito di mettere le mani addosso all’erede suo Figlio, ammazzandolo, apprehensum occiderunt, che altro potrete aspettarvi, che l’esecuzione della sentenza, malos male perdet; giacché, e sarà l’assunto del mio discorso, così sentono i Santi, così parla Dio, tanto richiede ogni ragione, ogni giustizia, tanto comprova l’esperienza. Un gran punto s’agita questa mattina UU. miei cari; si tratta di sapere qual speranza possa avere di morir bene chi vive male. Voi peccatori non siete buoni giudici per decidere questo punto perché siete in causa propria. Che si ha dunque da fare? Ecco, per accertar la verità negli interessi temporali, si ricorre a’ periti e saviamente si pratica. Per indagar dunque la verità in negozio di tanto momento ricorriamo ai periti; e quali sono i periti in simile materia? E chi non lo sa? I Santi Padri e Dottori della Chiesa; diteci dunque o Santi il vostro parere; qual speranza date voi di morir bene a chi mal vive? Ecco che risponde il Dottor massimo di Santa Chiesa, hoc timeo, hoc verum puto, quod ei bonus non est finis, cui semper mala vita fuit. Io per me, dice il Santo, non sono sì fuori di me, che possa dar speranza di morir bene a chi visse male; anzi hoc verum puto, stimo di certo che morirà male. Odo il Santo Vescovo d’Ippona Agostino, che risolutamente afferisce, vix potest bene mori, qui male vixerit, è un gran miracolo, che ad una vita cattiva succeda una morte buona. E Bernardo Santo, Abbate di Chiaravalle, così dall’eremo suo si protesta: Mors peccatorum pessima, quorum nativitas mala, vita pejor, fu mala la vita de’ peccatori, pessima sarà la morte. Quanto dicono questi, crediatemi miei UU. che tanto afferiscono quanti furono Santi Padri. Leggeteli ad uno ad uno e tutti a chiare note vi risponderanno, che la speranza di morir bene in chi mal vive, è sì tenue, che può dire ridursi al nulla. È pur familiare tra voi quel proverbio così celebre: dicami la vita che fai, e ti dirò la morte che farai. E pure così non fosse, vi sarà taluno tra miei UU.. che pretenderà dare una mentita a tutti i Santi Padri, mostrando di tenere tutto il contrario; e, se ciò non farà con le parole, lo praticherà con i fatti, menando una vita scellerata! Deh sciocchi non vi lasciate lusingare dal peccato, date retta ai Santi Padri che afferiscono esser cosa quasi infallibile, che chi mal vive, mal muore. Chi è più in pericolo di sbagliare in un tanto negozio, essi o voi? Voi che non sapete nulla delle cose dell’anima, che già vi siete messa sotto de’ piedi per sfogar quella vendetta, per ritener quella roba non vostra, per continuare in quella disonestà, o pur essi che l’hanno posta in sicuro e regnano in Cielo? Eglino sono gli intendenti, ed a loro bisogna credere. Io vedo che nelle cose di mondo non credete a voi se non siete pratici, ma bensì ai periti. Vi fu una dama di gran conto, la quale per più anni portò al dito un anello in cui credeva che fosse legato un ricco diamante, ma s’ingannò, e fu miracolo, che in materia di vanità s’ingannasse una femmina, ed in sentirsi dire da un’orefice perito in simili gioie: questo non è diamante, ma brillo; tanto bastò, perché ella deponesse come vile ciò che prima pregiava come prezioso. Così si pratica nelle cose di mondo, si crede a’ periti; ma non già negli interessi dell’anima; poiché, quantunque tutti i periti asseriscano esser questa la legge universale, che chi mal vive, mal muoia, e che la speranza di morir bene e viver male, non è diamante, ma brillo, ad ogni modo si segue nella pessima vita. Sarebbe stata una sciocca, una stolta quella dama, se contro l’asserzione di quell’orefice perito avesse voluto tener per diamante quello che era brillo. E non sarete voi iniqui, peccatori, se invece di credere ai Santi, che sono i periti, vorrete credere a voi nulla intendenti dell’anima. Quando non vi bastasse l’autorità de’ Santi per arrendervi a credere esser tenuissima la speranza di salute in chi mał vive, ed esser quali indubitata una mala morte, vi convincano le parole di Dio. Attenti, è Dio che parla. Si secundum carnem vixeritis, moriemini … se vivrete secondo i dettami del senso, morirete di mala morte e vuol dire: avrete una pessima morte, se non lascerete quegli amori peccaminosi, quelle laide amicizie, quelle pessime corrispondenze; avrete pessima morte, se non fuggirete le occasioni di peccare, che è quanto dire veglie, balli, feste, giuochi, ove per esperienza sapete che per lo più l’anima vostra resta uccisa dal peccato mortale. Così parla Iddio; ed in un altro luogo soggiunge: Impii in puncto ad inferna descendunt, gli empi fanno una pessima morte, che è quanto dire, quelli che covano odi in cuore, che scrivono lettere cieche, che formano memoriali indegni che fanno quanto possono per atterrare l’inimico; che è quanto dire, morirete male voi tutti che ritenete mercedi, che falsificate pesi, che v’ingrassate con la roba altrui. Così parla Iddio; ed in un altro luogo si fa sentire: Iniqui Regnum Dei non possidebunt, morirete male o voi, che siete irriverenti nelle Chiese, o voi sfacciati ne’ templi; intendetela, quæ seminaverit bene, hæc et metet, se vivrete bene, morirete bene; se male, male. E chi non spaccerebbe per stolto quel villano che avendo seminato orzo, pretendesse di raccogliere grano; che, avendo piantato querce, aspettasse che producessero limoni. Se seminerete iniquità, alla morte raccoglierete iniquità. È pazzia, questo è un pretendere di dare un pugno in Cielo, questo è un pretendere tirare con un carbone nero una linea bianca. Padre di famiglia; che tu pretenda di vivere con nemicizie, con pratiche, con tanti mali esempi a’ figli, e poi morir bene? me la rido! Ecclesiastico: che tu pretenda di strapazzare o lasciare l’Offizio, di dir la Messa con tanto poco decoro, di farti vedere nelle botteghe, nelle feste etc., e poi morir bene è pazzia; parroco, che tu pretenda di non far niente del tuo offizio, e poi morir bene? È pazzia, padrone che tu pretenda di non aver cura de’ servitori, delle donzelle e sai, e vedi e dissimuli, e poi morir bene? È pazzia. Piano, volete toccar con mano, che morirete male? Qua, ditemi, dove morirete? E chi lo sa! E non lo sapete? Padre no; pure, dove credete? In questa mia patria; ma perché non a Venezia, a Bologna? Non ci andate voi? Padre sì, ma per lo più sto in Patria, onde è quasi indubitato, che morrò in Patria … Male, voi morirete in Patria, perché per lo più state in Patria. Voi morirete in peccato, morirete male, perché per lo più state in peccato, a mala pena state in grazia di Dio quel giorno della Comunione: chi mal vive, mal muore. Prendete pure tutta la Sacra Scrittura, leggetela e rileggetela, e da per tutto troverete minacce che chi mal vive, male altresì muore. Che dite, che rispondete? E non tremate a proteste sì orribili della Divinità? Sto a vedere, che voi dopo aver data una mentita ai Santi, abbiate altresì ardire di darla a Dio. Chi mal vive, mal muore, questa è legge assai universale, e vi vuol di molto per dispensarla. Or pensa, peccatore qual merito abbia tu presso la Divinità, perché a favor tuo dispensi a questa legge; anzi rifletti, che la tua vita quasi necessita Dio a confermarla sopra di te a tua rovina. Temono i Santi di morir male, e non temono i perversi. Tanto appunto successe nel vascello del disubbidiente Profeta Giona. Si sollevò, come sapete, quella gran tempesta di mare, e da tutti si temeva lo scompaginamento del legno e la perdita delle robe e delle vite. Tutti per tanto quanti erano marinai, quanti passeggeri altamente temevano, e tutti si affaticavano ammainando le vele, vuotando la sentina, alleggerendo il Vascello, chi dava ordini, chi consiglio, chi aiuto, tutti piangevano, tutti gridavano, tutti sospiravano, e Giona? E Giona, che era il delinquente, quello per cui si era sollevata la tempesta, profondamente dormiva senza punto risentirsi al grande strepito, Jonas dormiebat sopore gravi, né mai si svegliò, finché il pilota non lo scosse e gli disse: surge, invoca Dominum Deum tuum. O quanto spesso succede: chi è innocente teme, chi è colpevole nulla paventa. I Santi temono di morir male, e son Santi; e voi colpevoli vi credete dover morir bene? Eh pazzi che siete … Quid tu sopore gravi deprimeris. Surge, surge, invoca Dominum, sorgi dalle tue disonestà, altrimenti morirai male; Surge da quelle bestemmie, altrimenti andrai in un luogo ove bestemmierai per tutta l’eternità; surge … torno a dire, temono i Santi e tu non vuoi temere? Se io leggo gli scritti di San Bernardo, io vedo che egli spesso si protesta con i suoi monaci d’aver gran paura di perdersi; e pure, se si scorre la sua vita, si trova che quella purità che trasse dal ventre materno, quella conservò illibata fino all’ultimo fiato; che per avere incautamente mirato una femmina, ne fece tal penitenza, che si ridusse in fin di vita; troverete che egli abbandonando le ricche facoltà, si rinchiuse in un chiostro a menar vi vita austerissima; che fu sì mortificato negli occhi, che sempre li tenne bassi, sì mortificato nel gusto, che sol si cibava di foglie cotte, ed il suo pane era o di orzo o di miglio; e pure egli torna a protestarsi d’avere gran paura d’una mala morte. Né solo Bernardo con una vita da santo temeva, ma temeva altresì quel gran lume delle Spagna Giovanni d’Avila, che dopo aver consumata tutta la vita in servizio di Dio arrivò a temere di morir male; e perciò richiedeva un anno di vita per piangere le sue colpe; temeva altresì quella serafina d’amore Maria Maddalena de Pazzi, che in tutta la sua vita conobbe solo Cristo per amarlo, e se stessa per strapazzarsi, e pure prima di morire richiede al suo confessore, se morirà bene o male. Dio immortale, teme di morir male un Bernardo, che con quella purità che nacque, con quella morì, e spera di morir bene quello che superò l’età con la malizia, e che fino dalla puerizia principiò ad imbrattarsi nelle lascivie, e pur finora segue? Teme morir male chi sempre procurò salvar anime, e spera di morir bene chi sempre le condusse al precipizio? Fin ne’ postriboli? Teme di morir male chi amò sempre Gesù, e strapazzò se stessa, e spera di morir bene chi sempre vilipese Dio, conculcando i suoi Divini precetti, mettendosi sotto de’ piedi quelli della Chiesa, e spera di morir bene chi sempre visse tra le crapule, tra feste, tra conviti, tra veglie, tra gli amori indegni? Eh toglietevi di capo questa pazzia, ed intendetela una volta esser questa la legge assai universale che: chi mal vive mal muore. –  Se per farvi risolvere a credere questa verità non vi basta né l’autorità de’ Santi, né le parole di Dio, né pure il timore di quelli che, quantunque fossero vissuti bene, temevano di morir male, vi convinca la ragione, ed è, che non merita d’avere una buona morte chi non se ne cura, e nulla opera per averla chi la disprezza posponendola a tutte le cose del mondo, e chi fa quanto può per non averla buona. Non parlo in aria, no! Cominciamo e cominciamo. Non è dovere, che Dio dia una buona morte a chi non se ne cura; e perciò nulla opera per averla. Cosa fate voi per avere una buona morte? Nulla! Dunque non ve ne curate. Attenti, ve lo dimostro. Pensieri, parole ed opere devono trafficarci una buona morte . I pensieri vostri sono di Paradiso o d’inferno? D’inferno, d’inferno, così non fosse. Li vostri pensieri sono tutti intenti alla vendetta, alle crapule, alle disonestà, e piaccia a Dio che neppure per un’Ave Maria si pensi al Cielo. Le vostre parole son di Paradiso, o pur d’inferno? Imprecazioni, bestemmie, spergiuri, toglimenti di fama, ragionamenti sporchi, sono il pascolo delle vostre lingue, e Dio sa, se un quarto d’ora s’impieghi in dir la corona. Le opere sono di Paradiso o di dannazione? Traffici illeciti, laide disonestà, furti e rapine occupano tutto il giorno, sicché a mala pena si ode la Messa ne’ di festivi. Questo è il vivere di non pochi Cristiani, pensare, parlare ed operar da demoni, e poi pretendere una buona morte. O che pazzia, voi non operate nulla per averla, onde mostrate non curarvene punto e poi la sperate? Eh via, ogni ragion vuole che non si dia una buona morte a chi non se ne cura. – Qua fronte, grida Sant’Agostino , postulas quod promisit Deus, et non facis, quod jussit Deus? E come speri d’avere una buona morte se altro non fai che procurarla pessima con i peccati? Non è dovere, no, che si dia buona morte a chi non se ne cura, nulla operando per averla; e molto meno è giusto, che si dia a chi la disprezza, posponendola, a tutte le cose del Mondo. Non è vero eh? Rispondimi iniquo, che vuoi tu, una buona morte, o la vendetta? La vendetta. Vuoi una buona morte o quella vanità scandalosa? La vanità. Una buona morte, oppur seguitare tra gli amori, tra le laide amicizie? Seguitar tra’ piaceri. Dunque, se tu la disprezzi, posponendola a tutte le cose del mondo, non è dovere che tu l’abbia. E se non è dovere che si dia una morte buona a chi la disprezza, posponendola a tutte le sue passioni, molto meno è dovere che si dia a chi fa quanto può per non averla. Voi sì con i vostri peccati fate quanto potete per non avere una buona morte, e stimolate Dio a permettervene una pessima. Voi sapete che quei contratti usurari, quantunque comincino col nome di Dio, si finiscono però con la dannazione de’ contraenti, e pur li volete fare. Voi sapete che salendo quelle scale dell’amica scendete quelle dell’inferno, e tanto volete tornarvi. Voi sapete che tanto è trattar con quel compagno, quanto imbrattarsi di lascivie, e pur non lo lasciate. Se andate a quei ridotti, a quelle bettole, a quei giuochi, voi sapete che mai ne uscite senza aver macchiata l’anima, e pur ritornate. Questo è fare quanto si può per avere una mala morte, e poi la sperate buona? O stolti; non l’avrete, no, troppo vi raccomandate per averla pessima. O questo no, Padre, che dite? O questo sì, vi rispondo io. Sentite bene. Voi peccatori iniqui per avere una pessima morte ne porgete tutto di quasi memoriali a Dio; Come è possibile? Eccolo. Sappiate, che ogni qual volta voi commettete un peccato mortale, voi porgere quasi un memoriale al diavolo, acciò che egli lo presenti a Dio ed in esso stanno scritte queste parole espressevi dalle vostre pessime operazioni. Signore, nelle di cui mani sta il salvarmi o dannarmi, vi supplico che mi neghiate il Cielo, e mi diate inferno, che è quanto dire una pessima morte. Quanti, o quanti ne avete finora inviati al tribunale di Dio di questi memoriali per mano de’ diavoli e poi siete sì sciocchi, che vi stringete in pugno una buona morte. Chi mal vive mal muore, questa è la legge assai universale. Se volete una buona morte, bisogna morire al peccato e vivere a Dio. Bona mors est, dice San Bernardo, si peccato moriaris, et justitiæ vivas. Quando finora non siate restati convinti a capire questa verità, vi strozzi almeno la ragione d’una certa equità, che porta seco non dover fare una buona morte a chi visse male. Non v’è chi dubiti che Dio vuole, che differentemente sia trattato il reo dall’innocente, l’iniquo dal giusto. Alzate dunque le pupille vostre al Cielo, e rimirate colassù nel Paradiso Luigi Gonzaga della Minima mia Compagnia, e rimiratelo con quelli occhi che ve lo vide la Serafina di Firenze Maria Maddalena de Pazzi, allorché tutta estatica esclamò o che gloria è mai quella di Luigi figlio d’Ignazio. Or sappiate, che questa gran gloria gli fu guadagnata con una santissima vita, che vale a dire, per mezzo d’una purità angelica, la quale non gli permetteva di rimirare in volto neppure la propria madre, per mezzo d’un staccamento totale da tutte le creature del mondo; e questa vita gli partorì una morte giocondissima tra le braccia di Gesù e di Maria. Or ditemi: qual ragion mai vuole che quel giovinotto simile à Luigi nell’ età, ma dissimilissimo ne’ costumi, perché tutto disonesto e tanto attaccato alle creature, dovesse poi sortire una simil morte? Appunto, chi mal vive mal muore, così ogni ragione d’equità richiede che abbia morte buona chi visse bene, mala chi visse male. Ecco lassù la Vergine e Martire Santa Lucia, ella gode la Gloria del Paradiso, ella tripudia tra quello stuolo di vergini; ella vive e vivrà sempre beata; ma perché? Perché mentre visse, visse innocente, visse illibata, visse tra patimenti e morì tra’ martiri, e questa vita innocente, condotta tra tante pene, gli meritò una giocondissima morte. Or qual ragion vuole che quella donzella d’età poco o nulla dissimile a Lucia, ma dissimile ne’ costumi, perché dedita ai balli, alle veglie, agli amori, debba poi avere una buona morte? Appunto, appunto, ragion vuole, che muoia bene chi visse bene, e male chi male. Vedete Santa Monica, ella è in Cielo, ma come visse, quante lacrime sparse perché il suo figliuolo si convertisse a Dio. Parmi di vedere tra quegli splendori di beatitudine quella gran regina di Francia per nome Bianca, la quale altra preghiera non mandava a Dio, salvo che gli facesse morire il suo figlio, quando dovesse offenderlo, ed un tal vivere partorì a questa, quella felice morte che fece. Or come pare a voi, che sarebbe giustizia che una simile morte sortissero quelle madri le quali non solo non allevano bene i figli, ma li lasciano tra gli amori, e molte volte chiudono gli occhi ai peccati? No, no, non è dovere che abbiano queste scellerate madri quella morte gioconda, che si concede alle Sante. Del pari dunque ha da essere trattato da Dio chi, simile a Francesco d’Assisi, rinunziò quanto aveva e tutto diede per limosina, con chi succhia il sangue de’ poveri, e tutto dì li spoglia? Una egual morte gioconda ha da sortire chi simile a Giovanni Gualberto perdonò all’inimico, e chi si porta da Caino fratricida? E sarà dovere che un Sacerdote, che visse scorretto, immodesto nel parlare, sfacciato nel guardare, che interveniva a balli, che mentiva gli abiti sacri, che fomentava amori, faccia una morte simile a quella di chi con mani pure e con cuore angelico sempre offriva l’Ostia adorata? No, che non sarà, no; levatevi di testa questa presunzione di morir bene se vivrete male, perché balzerete nell’inferno. Sì, sì, morirete male o giovani che, divenuti avvoltoi, andate in preda anche delle colombe di Dio. Voi, che singolarmente ne’ dì festivi andate in Chiesa con tanta baldanza, che pare che per i Santi sia, non il giorno della festa, ma della berlina. Voi o padri e madri di famiglia, che usurpate la roba altrui per lasciar ricchi i vostri figli. Sappiate tutti voi, che per voi, se non muterete vita, non vi è buona morte. Dunque o peccatore mio amatissimo, e vorrai perderti? Non  sia mai vero; vivi bene per morire bene, ma se vivrai male, male altresì morirai. –  Se bene pensate, se i peccatori ciechi per la passione, hanno mente da conoscere esser questa ragion d’equità, che chi mal vive mal muoia. Se così è, già che i peccatori sono grossolani, né restano convinti, salvo o da quel che vedono con gli occhi corporali, o dalla esperienza di casi seguiti. Questa dunque sia l’ultima batteria che vi convinca, mettendovi avanti gli occhi un funestissimo caso di chi, se visse male, male altresì morì. Vergine Santissima assistere al funesto racconto, e voi UU. non vi distraete. Viveva in una Terra della Marca non ha molti anni, un giovine con una rea compagna. Quando, una sera, allorché cenavano, cadde giù nella stanza un piccolo sassolino; credette il giovine ingelosito, che fosse segno di qualche corrispondenza con altro; poi finita la cena cadde un altro sassolino, sicché il giovine allora più che mai ingelosito, dié su le furie, e principiò non solo a sgridare, ma a percuotere la scellerata compagna, volendo che ella confessasse quali altre corrispondenze tenesse. Asseriva la donna non aver altra amicizia che la sua, lo giurava, l’attestava con mandarsi orride imprecazioni, e tutto ciò si udiva da una vicina, che a muro a muro le stava a lato. Quando (o caso orrendo) cadde loro addosso tutta la casa e li uccise vivi e li seppellì morti. Corsero i vicini al fracasso, si pose il popolo a levar via i materiali per ritrovar quei due corpi che, in quanto alle anime, certo non poteva ritrovarle, perché eran perdute, e fu cosa veramente di stupore, veder che sotto i sassi eran rimasti interi, non che i piatti anche i vetri, acciò si sapesse che diede la morte a quegli empi, non la disgrazia, ma Dio. Chi mal vive mal muore. La volete intendere sì o no? Rispondetemi, volete morire da buoni Cristiani? Padre sì. Padre no, perché avete un sì nella bocca, e cento no nelle mani. No, che non vuoi morir bene o giovane, perché hai un parlar sì laido che se la tua lingua non fosse di carne, lo diverrebbe. No o mormoratore, che laceri la fama altrui, che non porti rispetto né ad età, né a sesso, né a condizione. No, o potente, che t’ingrassi col sudore de’poverelli, e fai sacrificio alla tua ambizione ed al lusso con le loro lacrime. No, o avaro, che per la roba male acquistata lasci in testamento a i figli la dannazione. No o pittor sacrilego, che con i tuoi sozzi pennelli fai lance a Cristo e stiletti alle anime. No, no, che non vi volete salvare o peccatori qualunque vi fiate se non mutate vivere, perché chi mal vive mal muore. Deh per amor di Dio, vi dirò con Salviano: miserere animæ tuæ, cujus vides miseratione me frangi … abbiate compassione della vostra povera anima, di cui vedete quanta ne ho io, che non perdono a fatica per salvarvela, e credo che darei anche il sangue, quando tanto bisognasse. O quanto desidero che vi salviate; ma son costretto a dire col mio Saverio: ego id quod valde cupio, tam parum spero, quanto più lo desidero tanto meno lo spero. Deh per l’amor che portare a Maria non vi fidate, mutate vita se volete fare una buona morte. Miseri voi, che quando sarete laggiù dannati, ahi, ahi, direte, che non abbiamo voluto credere né ai Santi, né a Dio, né cedere alla ragione, né ad ogni dover di giustizia, né pure alla stessa esperienza, che chi mal vive mal muore. Ed ora conviene, che non solo lo crediamo, ma lo proviamo.

LIMOSINA
Qui in Nomine Christi, dice il Damasceno, pauperibis subvenit, centuplum recipiet, chi dà ai poveri per amor di Dio, riceverà il centuplo. Non poteva tollerare l’Imperatrice Sofia, che Tiberio suo consorte fosse tanto liberale verso de’ poveri, e lo rimproverava, dicendogli che per sovvenire i mendici avrebbe impoverito il regno. Non così la discorreva Iddio, che un giorno nel levarsi da un pavimento una croce, gli fece trovare tant’oro che formava un tesoro, ed indi a poco fece pervenire nelle sue mani un tesoro molto maggiore nascosto già da Narseste in una cisterna, in cui erano tanti milioni d’oro, che per trasportarli al palazzo vi fu necessaria la fatica di più uomini e di più giorni.

SECONDA PARTE.

Miei UU. il mio discorso non ha mostrato altro se non che chi male vive, mal muore; ora faccio un passo più avanti e dico … e chi mal muore sarà finito per sempre, non potrà sperar mai di mutare stato, no, mai, mai. Si ceciderit lignum ad Austrum aut ad Aquilonem, in quocunque loco ceciderit, ibi erit. O che protesta da far raccapricciare ancora un animo di macigno. Da quella parte, dice l’Ecclesiastico, dalla quale cadrà l’albero quando verrà tagliato, da quella dovrà rimanersene immobile. Se cadrà all’austro, rimarrà all’austro. Se cadrà all’aquilone, rimarrà all’aquilone: Si ceciderit lignum ad Austrum, aut ad Aquilonem, in quocunque loco ceciderit, ibI erit. Per austro s’intende la parte de’ predestinati; per aquilone s’intende la parte de’ presciti; da quella dunque dalla quale cadrà l’uomo, quando a guisa di albero sarà reciso dalla mano implacabile della morte, da quella dovrà restar per tutti i secoli, o eterno pianto, o eterno riso, o eterna povertà, o eterna ricchezza o eterna miseria, o eterna felicità. Chi però saprà dire a ciascuno di noi qual sorte finalmente ci toccherà? eh non è difficile indovinarla. Quando si sega un albero, da qual parte viene a cadere? Da quella dalla quale pende: se pende a destra, cade a destra, se pende a sinistra, cade a sinistra. Orsú, non accade più cercar altro: peccatore, peccatrice, da qual parte pendi tu ora? pendi sempre a sinistra? Sempre compiacere il diavolo. Tu sempre pendi a sinistra, e poi pretendi, morendo, cadere a destra? Pretendi morir come un Santo fra le braccia d’un Crocifisso? Oh quanto t’inganni. Se vuoi cadere a destra, pendi a destra, che vuol dire, muta vita! Ahimè, che cotesta tua vita non è da chi brama fare una buona morte, e perché? Chi mal vive, mal muore, tale è la legge, e legge assai universale. Può avvenire qualche volta il contrario, non lo nego, ma questo è per accidente, e però che prova? Chi dai casi accidentali vuol prendere a regolarsi in opere di momento, è uno scimunito. Ma la misericordia di Dio non è grandissima? Certo, certissimo. Ti basti di sapere che ella ha tollerato ancor te fino al giorno d’oggi, guarda se è grandissima! Ma che? Questa misericordia, benché grandissima, non lascia andare all’inferno tanti Gentili, tanti Turchi, tanti Tartari, tanti Ebrei? Che meraviglia però, se lasci anche andarvi un Cristiano par tuo, abusandosi sempre de’ suoi favori. Anzi mira quanto io discorra diversamente da te. Tu dici che Dio ti donerà dopo una cattiva vita una morte buona, perché è misericordioso, ed io ti dico, che per questo medesimo che Egli è misericordioso, non vorrà donartela. Se Dio è misericordioso, a chi deve, come tale, aver più riguardo? Alla salute particolare d’un solo, come sei tu, o alla salute universale di molti? Alla universale di molti, non ve ne ha dubbio; ma quanti prenderebbero cotesto cattivo esempio, se essi vedessero che tu, dopo una vita menata contro ogni regola di ragione, sortissi fortunatamente una morte, qual fanno i giusti. Quanto però rimarrebbero nel loro cuore scandalizzati i pusilli, quanto tituberebbero i buoni quanto trionferebbero gli empi, e quante anime conseguentemente verrebbero a perdere il Cielo per una che l’acquistasse; adunque spetta alla misericordia divina, siccome ancora, alla divina Giustizia, disporre in modo le cose, e permettere, che per lo più, chi visse male muoia male, altrimenti qual dubbio, che tutto il mondo verrebbesi a popolare d’iniquità, che si diserterebbero i chiostri , che si desolerebbero i cleri e che appresso il volgo ignorante rimarrebbero in derisione tutti quei Macari, quegli Arsenj, quegli Ilarioni, quei che vollero comprare a così gran costo ciò che da’ Cristiani, anche perfidi, anche protervi si soleva ottenere a sì vil prezzo. È grande dunque la misericordia di Dio, è grande, grandissima, ma per chi la vuole usare, non per chi la vuole abusare, altro è ricorrere alla misericordia di Dio dopo il peccato, altro è peccare perché rimane il ricorso alla misericordia; il primo è volere che la misericordia perdoni il peccato, il secondo è volere che lo protegga, e questo non sarà mai. Adunque, che si ha da fare? Mutar vita.