QUARESIMALE (XXIV)

QUARESIMALE (XXIV)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMAQUARTA
Nella Feria terza della Domenica quarta


II tesoro scoperto a’ peccatori nella preziosità dell’anima.

In die Festo mediante ascendit Jesus in Templum. San Giov.: cap. 7

Considerò Giovanni Crisostomo, con le pupille attonite per lo stupore, quel maestoso tempio di Gerosolima in cui nihil erat quod auro non tegeretur, ed in esso nulla più ravviso’, salvo che l’ombra d’un’anima, Unicum Templum diruit Dominus Jerosolymis, et innumerrabilia erexit illo longe venerabiliora, vos inquit, Templum estis Dei viventis. Or se così splendida è l’ombra, che deve essere la vera luce, l’anima! Ah, che ella è sì preziosa, che non v’è cosa creata, che la superi, e basti dire che è abitazione di Dio, e che qui veramente ascendit Jesus, come in suo Tempio. Diamo dunque un’occhiata al gran tesoro, che è l’anima, ed alla poca stima che taluno ne fa; acciò risolva una volta, renderla abitazione di Dio. E son da capo … – Non v’è giocatore, che senta meno d’afflizione nel perdere il suo, di chi si pone a giuocare sulla parola. Quel non vedere ciò che si perde, riesce un impoverire tanto più dolce, quanto meno osservato. Ecco la maniera con la quale giuocano tutto il giorno i peccatori. L’anima col diavolo giuocano come per polliza, senza numerare, o pensare ciò che essi perdono. M’indurrei, sto per dire, a perdonarli questa gran pazzia, se almeno e’ ricordassero, che giuocano da davvero, e non da burla. La maniera, a mio credere, più efficace per emendare un tal uomo è porli avanti gli occhi quella ricchezza medesima, che egli troppo facilmente perdendo, disprezza. Così Agrippina bramò correggere il suo figlio Nerone, che in un sol giorno arrivò a sborsare ad uno ottocento mila scudi. Fece ella adunare insieme in monte quella gran somma d’oro; e poi: questo, disse, o Figlio è quel poco, che voi ieri buttaste. Voglio anche io valermi di questa regola; e vedendo tanti che per nulla giuocano, e perdono l’anima loro, voglio porli avanti gli occhi il gran tesoro che buttano, la gran perdita che fanno. Non v’ha dubbio, che la preziosità dell’anima non può conoscersi qual ella sia qua giù fra noi; e che solo ben si conoscerà quando farà nel suo proprio lume in Paradiso. L’anima finché è chiusa nel nostro corpo non mostra il suo bello a guisa della conchiglia, che serrata non palesa la bellezza della perla che racchiude. Non è però che io non voglia darvene al meglio, che so qualche notizia. Sentite come parlano dell’anima anche coloro che non avevano bagnata la fronte d’acque battesimali. Aristotile ci dice che l’Anima è un ristretto virtuale di tutte le creature: est quodammodo omnia. Parli Seneca, che quantunque privo del vero lume della Fede, asserì ad ognuno, che quanto ha di buono è l’anima, cogita in te præter animam nihil esse mirabile; ed il padre della romana eloquenza giudicò sconvenevole ogni paragone alla sua grandezza, attribuendoli solo il Divino, con dire: Humanus animus excerptus ex mente Divina cum nullo alio, ni si forte cum ipso Deo, si hoc est fas dictu, comparari potest, il che quantunque fosse un iperbolico trascorso di lingua, non deviò però dalle Cattoliche verità. Sebbene, a che cercarne la preziosità da Aristotele, da Seneca, da Cicerone? E non è forse la Fede che ci dice esser l’anima una sostanza spirituale spirata in faccia all’uomo dalla bocca di Dio? Spiravit in faciem ejus spiraculum vita. Dunque l’anima nostra è d’origine celeste, benché cittadina terrena; e come tale, se ebbe principio, non avrà mai fine. Ella è degna d’esser stimata per la sua preziosità intrinseca; essendo una vera immagine di Dio; e perciò l’opera più bella che sia uscita dalle mani della Onnipotenza Divina. Manus tua, Domine, fecerunt ed o quanto stimabile per la sua preziosità estrinseca! Avendomi Dio fatta stima sì alta, che ha voluto mandare il suo Figlio in terra a’ ludibri, a’ flagelli, alla corona di spine, alla croce, alla morte per ricomperarla dalla schiavitù di satanasso: Magna res est anima, quæ Christi Sanguine redempta est. Erigete, dirò io pertanto con Agostino, a chiunque m’ode, erigete anima tanti vales; gloriati pure, o anima di te stessa; perché tu sei di prezzo senza prezzo. O anima quanto sei stimabile! E pure sì poco conosciuta dagli uomini, mentre la pospongono ad ogni più succido piacere, e l’oltraggiano con i peccati; sicché bisogna dire, nescit homo pretium ejus. E perché non ho io qui un paio di bilance, ma non già quelle del mondo, le quali fanno apparire di più peso la terra che il Cielo: Mendaces Filii bominum in stateris: Le vorrei simili a quelle di Teodorico il Savio, il quale intendendo che con pesi falsificati si riscotevano i pubblici pagamenti della plebe ed i tributi esorbitanti de’ principi, comandò subito che le bilance si riformassero ad libram cubiculi regii, alla misura delle regie bilance; che vale a dire bilance perfettissime, bilance di tutta sincerità; poiché con queste spererei di farvi conoscere in parte l’inestimabile prezzo d’un anima. Poniamo dunque su queste, da una parte l’anima, dall’altra quanto v’è di prezioso nel mondo di gioie. Qua presto tutti i carbonchi de’ Garamanti, tutti i coralli della Sicilia, tutti gli smeraldi della Scitia, tutti i diamanti dell’Arabia, tutte le perle della Pescheria: né qui mi fermo. Aggiungete a questo gran tesoro di gemme quanto di danaro conservano ne loro erari tutti i principi d’Italia; passo avanti, quanto ne possiede ogni monarca del mondo. Or pesiamo. Ah che troppo vi corre: assai più, e di gran lunga pesa l’anima sola del più vile uomo che viva sopra la terra. Che dite? Credete voi veramente che l’anima vostra sia più preziosa di tutti i tesori e di tutte le gemme preziose del mondo? Padre sì, Padre no, perché tu o donna hai dato il tesoro dell’onor tuo, mancando di fede al consorte per un poco d’argento. Ma perché tu o fanciulla deste la più preziosa gioia che ne avessi, la pudicizia, la verginità, per un lucro vilissimo, per un brillo, per un dono di fiera? No, che non stimi l’anima, o mercante, più preziosa di tutti i tesori, perché tu per avere quel piccolo guadagno non curi l’anima oltraggiandola con bugie, con falsità, con giuri, spergiuri e bestemmie, no, che non la stimi più preziosa o nobile d’ogni gemma; perché tu per avere maggior facoltà non curi l’anima; sottoponendola alle ingiustizie, alle frodi, agl’inganni. Ma diamo di nuovo un altro peso per eguagliare almeno, se non altro, il peso e prezzo dell’anima. Ecco, che la pongo dall’una parte della bilancia, e dall’altra vi si ponga il valore di quante sono le gloriosissime città d’Italia. Dissi poco; di quante ne domina la Spagna, ne comanda la Francia, ne regge l’Impero Cristiano. Più; se vi si ponga l’Europa tutta con la grandezza de’ suoi monarchi; l’Asia con la sontuosità de’ suoi coronati; l’America con la nobiltà de’ suoi principi; l’Africa con la magnificenza de’ suoi Imperi. Alza ora uditori miei, che tengo su la bilancia, il valore d’un mondo. Ah, che di gran lunga supera il valore d’un’anima; né sono paragone proporzionato i regni della terra con la preziosità d’un’anima. Dico bene o dico male? Dico il vero oppure il falso? Voi mi rifpondete, che dico il falso, se non con le parole, certo co’ fatti; perché voi per possedere non una parte del mondo, non un regno, non una provincia, non una città, ma talora un piccolo feudo, un’entrata maggiore, un misero guadagnuccio non vi curate di perder l’anima con frodi indegne, con instrumenti falsi. No, perché per aver un dominio maggiore non guardate a precipitare intere famiglie. Diasi dunque l’ultimo peso, e si faccia l’ultimo confronto, ponendo sull’altra parte a dirimpetto dell’anima un tesoro maggiore di tutto il mondo. Eccolo, vi si pongano degli uomini sì regi, come imperatori e pontefici, non solo stati e che saranno, ma ancora possibili a tutte quelle vite di monarchi sì grandi, e non è forse un’anima assai più preziosa? Mercè che ella è immortale, e tutte le vite degli uomini hanno da finire. Ah, che sento chi mi dice: presso di me è più preziosa la vita di quella dama a cui servo, di quel cavaliere a cui corrispondo, che non é l’anima. Avete ragione, dite il vero; perché per questi fare getto dell’anima?Tacete, v’intendo, presso di voi val più la vita dell’innamorato, del padrone, della serva, che tutta l’anima vostra. Ah miseri! che nulla stimate il gran tesoro, che dentro di voi racchiudete. Che farò io dunque per indurvi à prezzarlo? Io non posso far altro, che porvi avanti gli occhi la stima, che hanno fatta dell’anima vostra, quei che se ne intendono, e che ne hanno più cognizione di voi. Diteci dunque o voi che vivete a Dio, o nel mezzo del mondo, o ne’ chiostri religiosi: e perché passate la vita in digiuni, in asprezze, in vigilie, in orazioni? Perché, Figli riveriti del Serafico Padre S. Francesco, vi vedo vestiti di ruvido sacco, cinti di rozza corda, sempre con piede nudo anche ne maggiori rigori del verno, perché vi nutrite sempre di cibo vile e mendicato? Ditemi perché? Ecco la risposta: perché vogliamo mettere in sicuro il bel tesoro che abbiamo, l’anima nostra. Perché, o Vergini consacrate a Dio nel chiostro, vi siete ritirate dal mondo; avete abbandonato parenti, amici, e quanti avevate del vostro sangue? Perché avete lasciate le ampie facoltà, date le spalle alle pompe; ed abbracciata col disprezzo la povertà? Dite: perché vogliamo assicurare l’anima nostra. Cari UU. questi, che sono veri intendenti del prezzo dell’anima così operano; e voi, e voi alle crapole, a’ lussi, agli spassi, a’ giuochi, a’ balli, a veglie, agli amori per annichilare il bel tesoro che avete dell’anima vostra. Io non vi dico che a guisa d’Alessio abbandoniate le spose; rinunciate alle comodità; vi poniate in stato mendico. Mi basta, che non contaminiate l’altrui letto; che abbandoniate quell’amicizia; che non amoreggiate con vampe indegne; lo non vi dico, che a similitudine di Francesco di Assisi dispensate a’ poveri quanto avete: ma che non succhiate il lor sangue mendico. Eh via, principiate a far la stima dovuta dell’anima vostra, già che vedete, che gli uomini da bene, che ne conoscono il prezzo, tanto la stimano. E l’anima quando non vogliate credere a questi intendenti; date fede a quelli che ne sono più periti, e che vedono l’anima nel suo lume. Tali sono i Santi, che regnano in Cielo. Io, vi dirà quel gran Patriarca Domenico, or che vedo nel suo proprio lume la bellezza d’un’anima, conosco, che pochi furono i patimenti che tollerai per fondare la mia Religione, acciò tutta impiegasse a salute dell’anime. Pochi furono, vi dirà Francesco Saverio, i miei stenti, i miei sudori per salvar anime. Li dieci anni che spesi per la salute di tante erano ben impiegati per un’anima sola: tanto ella è stimabile. E pure una gioia tanto stimata dagli uomini da bene nel mondo, da’ Santi in Cielo sì poco si prezza da tanti peccatori; anzi si strapazza con odi, con bestemmie, con spergiuri, con amori, con laidezze. Come è possibile, che un’anima così preziosa da voi sì poco si prezzi? Orsù, giacché le mie voci col testimonio de’ buoni e de’ Santi al vedere, non bastano per farvi conoscere la preziosità dell’anima, lo saranno forse quelle dell’inferno, ed essendo queste a voi più amiche, avranno forse maggior forza da persuadervi. Tanto più, che dimorando colaggiù gente peritissima, potranno darvene certe le informazioni. Interrogate, miei UU., uno di quegli spiriti ribelli che precipitosi caddero dal Cielo nel più cupo profondo degli abissi, che cosa sia anima; e sentirete rispondervi: io, che pur sono più d’ogn’altra creatura superbo ed altero; io, che gareggiar volevo col mio Creatore, e farmi simile all’Altissimo; io, io per l’acquisto d’un’anima pur volentieri m’abbasso, m’umilio, e mi soggetto all’uomo, con servirlo, con ubbidirlo. lo, che fui annoverato tra le angeliche squadre, benché tumido, e gonfio per alterigia, ad ogni modo desideroso di acquistar un’anima servii per lo spazio di sei anni ne’ più vili ministeri che immaginar si possano, un vilissimo Fantaccino, fino a farmi sgabello de’ suoi piedi con le spalle del corpo, che avevo assunto; ogni qual volta voleva montare a cavallo, e speravo ben impiegate le mie umiliazioni, la mia servitù; perché so quanto sia preziosa un’anima; ed altrove costretto il demonio a forza d’esorcismi ebbe a dire per bocca d’un energumeno, che per un’anima tutti i diavoli, se fosse possibile, che a guisa d’uomini potessero patire nel corpo, volentieri si lascerebbero precipitare dal Cielo in terra per una scala ripiena tutta di rasoi, di coltelli e di ferri pungentissimi. Non ci partiamo ancora dall’inferno per bene intendere la preziosità d’un’anima, chiede un dì il demonio licenza a Dio d’esercitare la pazienza di Giob con tutto il suo diabolico talento condiscende Iddio, con questo però che non tocchi anima: Verumtamen animam illius serva. Sfoga dunque il demonio le maggiori rabbie d’inferno, ma in vano; perché Giob quanto più combattuto, tanto più si rende forte, onde è, che tornato lo spirito infernale da Dio, sente dirsi: or che ti pare della pazienza del mio servo Giob? Ah che egli prontamente: e chi non sa, che l’uomo per salvar l’anima porrà ricchezze, figli, sanità, e vita? Cuncta, quæ babet homo dabit pro anima sua. Ah peccatori, grida qui contro di voi Origene, udite. Lo stesso demonio dice ed asserisce esser l’anima sì preziosa, che deve preferirsi a figli, a moglie, a’ mariti, reputazione, a roba, a tutti i beni del mondo: satan ipse omnia pro anima daturum hominem dicit; e voi con strapazzo più che diabolico la posponete a quel ballo, ove con piè leggero gravemente calpestate la modestia; a quella amica che con la morte dell’anima v’appresta il corpo; a quell’interesse, che vi renderà povera la vita, e mendico lo spirito; a quella nemicizia, che partorirà a voi un colpo che fermi il corpo in mezzo ad una strada e butti l’anima nell’inferno. Lasciate, deh lasciate, che io, o miseri peccatori, esclami con Salviano, e me la prenda contro di voi, che sì poco fate conto dell’anima; lasciate pure che io gridi fino alle stelle, che ne ho ben ragione, quis furor viles a vobis animas vestras haberi, quas et diabolus putat esse pretiosas? Che furore è mai questo, o Cristiani, che pazzia è mai la vostra, stimar si poco quell’anima creata da Dio, redenta da Dio  mentre tanto la stimano i diavoli e la prezza l’inferno. Ma passiamo agli altri periti, che sono gli Angeli. Spiriti Angelici Santi, voi che state custodi al nostro fianco, diteci, che cosa è un’anima? Udite la risposta: io, dice uno di loro, benché Principe del Soglio Celeste, benché di natura superiore all’umana, benché sempre beato; con tutto ciò non sdegno di servire all’uomo per vile ed abietto che sia: l’ammonisco con esortazioni e lumi interiori; lo consiglio, l’aiuto, mai l’abbandono, io, io son quello, che mi umiliai in forma di chirurgo per sanare le piaghe di Cristina; che mi feci cameriere scopando la stanza d’Aurelio; m’abbassai fino al vil mestiere di bifolco, e di marinaro, guardando gli armenti d’Isidoro, e guidando la barca di Basilide. Or io replico adesso  … ditemi, per qual motivo una sì nobile creatura, un purissimo spirito, un Principe del Soglio Celeste soggettarsi a tante bassezze? Ah, che non per altro al certo, se non perché l’anima è preziosa sopra quanto può trovarsi di prezioso. Tutto è vero; ma ad ogni modo non vogliono i peccatori stimar l’anima, benché gli Angeli la stimano, la vogliono morta tra quelle lascivie, tra quelle mormorazioni, tra quelli odi, tra quei maledetti interessi. E che posso dunque fare io? Io non posso far altro se non che gli confermi il valore lo stesso Dio. Egli dunque, che è eterna Verità, che è infinita Sapienza, che conosce il giusto peso di tutto il creato vi dia la notizia accertata della preziosità d’un’anima. Cristiani date orecchio alle parole, attenzione al discorso: è un Dio che parla, audiat terra verba onis mei. Per l’Anima, dice Iddio nostro Redentore, scesi dal seno dell’Eterno Padre; per l’anima nacqui in una stalla, tra due animali; per l’anima vissi in miserie, tollerai patimenti, soffersi ingiurie, mi sottoposi a fieri strapazzi per l’anima in somma diedi il corpo ai flagelli, il capo alle spine, le mani ed i piedi a’ chiodi, per esser confitto in una croce ove per l’anima ignominiosamente fra due ladri come capo d’assassini spirai la vita in braccio a dolorosissima morte. Gridi pur Bernardo dal suo eremo di Chiaravalle magna res est anima, qua Christi Sanguine redempta est; gran cosa è l’anima, mentre per ricomperar la vi è voluto il Sangue di Cristo. Io non ho che dir di vantaggio, o peccatori; e se non arrivate à conoscere il prezzo dell’anima vostra e la sua preziosità, mentre vedete esser costata il sangue e la vita d’un Dio, che posso io fare? O cosa invero deplorabile! Vede apertamente il peccatore che l’anima sua, costata a Dio tanto sangue, va in rovina, ed ad ogni modo non vi pensa; vede che già sta con un piede nell’inferno, e non riflette: sa di certo, che egli è in disgrazia di Dio, e che ad ogni momento lo può coglier la morte e mandarlo in eterna dannazione ed egli, come se non fosse fatto suo, come se non gli importasse niente, ne vive totalmente spensierato; e quel che è peggio, ride, scherza, burla. Deh aprite gli occhi al ricordo di Santa Teresa, lasciato a’ suoi figli e figlie: Memento unicam esse animam, unicam esse gloriam, pensate e seriamente pensate, che avete un’anima sola, e che se la perdete, è perduta per sempre. Peccatore, peccatrice, rispondi alle interrogazioni di San Giov. Crisostomo, il quale sopra quelle parole: Quam dabit homo commutationem pro anima sua? Così dice: si non aliam habes animam, quam possis pro anima tua dare? Dimmi, o tu, che sì poco prezzi l’anima tua: quante Anime hai? Perduta che ne abbi una, te ne rimane forse un’altra, con cui tu possa riparare la perdita della prima? Certo che se hai fede, confesserai di non aver che un’anima. Un’anima sola dunque ti trovi, e ne vivi sì trascurato? E la vedi andare in rovina, in perdizione, e non ci rimedi? Io per me so che di quelle cose delle quali l’uomo non ha più che una, ne tiene cura straordinaria. Fate che quel padre di famiglia non abbia più d’un figlio, voi vedrete che se ne prende un grandissimo pensiero. Oh come l’accarezza! Quanto amore gli porta! E se per disgrazia gli si ammala, voi vedrete che il buon padre non trova quiete, gli porge a tempo prefisso i medicamenti; e se mai morisse quel figlio, o che pianti! O che sospiri! Non vi sarebbe voce o di amico o di congiunto presente, non vi sarebbe penna d’assente che lo potesse consolare. Perdonatemi Angeli Santi, che assistete al Trono di Dio; se scendo a paragoni assai più vili. Lo fo per più confondere il peccatore. Fate che quella dama abbia per suoi onesti sollievi un cagnolino, che compagno fedele la segua ovunque ella si porti; s’ammali questa bestiola; non si perdona a spesa; si fa talora vegliare chi v’assista per vedere i combattimenti del male; s’adoperano medicamenti, e sol si desiste dal chiamar medico per sicurezza o di negativa, o di riprensione. Se poi a forte morisse l’amato cagnolino, sono sì copiose le lagrime dell’addolorata padrona, che non cessano per giorni, e forse per mesi. Or, se tanta cura si ha d’un figlio … che d’un figlio? D’un animale, d’una bestia, che la lor perdita tanto ci affligge, perché una sola ne abbiamo; è possibile, che dell’anima, che non solo non ne abbiamo più d’una, ma neanche ne possiamo aver più, così poco ce ne prendiamo cura e così poco ci duole il perderla? Voglio finire a pro dell’anima con quella gran sentenza la quale ben ruminata ha partorito a tanti il Paradiso. ́ Ah Dio, che se perdete l’anima, avete perduto il tutto; e se salvate l’anima, avete posto in sicuro il tutto: Quid prodest homini, si mundum universum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur? Quid prodest? Rispondete o cavalieri; che vi gioverà aver atterrato l’inimico, accresciute le facoltà con mercedi ritenute, con estorsioni praticate; in una parola, con roba altrui? che vi gioverà l’applauso riportato in quella giostra, in quella barriera, in quell’azione cavalleresca, se avete danneggiata l’anima vostra, sicché resti eternamente dannata? Quid prodest? che gioverà? Tutto vanità, tutto nulla. Quid prodest? Parlate o dame: che vi gioveranno quelle giornate felici delle vostre nozze concluse, l’allegrezza del banchetto nuziale, che vi gioverà la pompa del corteggio, l’esser voi stato l’oggetto di tutti gli occhi, quando tutta vaga nelle ricche e capricciose vesti eri ne’ corsi da tutti ammirata, e con profondi inchini riverita? Che vi gioverà tutto questo, se l’anima vostra si perderà per tutta l’eternità? Quid prodest? Che vi gioverà? Nulla! Tutto è dato vanità, vanitas. O ecclesiastici, o regolari, o secolari che siate, dite: Quid prodest? che vi gioverà l’esser stati esaltati a gradi sublimi; l’aver ricevuto le maggiori acclamazioni? Quid prodest? Se per questi motivi voi avrete resa l’anima vostra degna d’inferno; Quid prodest e a che gioverà? Nulla! Tutto è vanità, che dura finché arrivi al sepolcro, vanitas, etc.. A che giovano o letterati le vostre cattedre, i vostri plausi, le vostre glorie? A che, o mercanti, le vostre fortune negli interessi, la prosperità ne’ vostri negozi, l’abbondanza d’ogni danaro? Quid prodest che, o giovani, l’esservi sempre ricreati ne’ piaceri, a che le conversazioni, i giuochi, a che le veglie, i canti, i balli, gli amori? A che quelle commedie rappresentate agli occhi del corpo; mentre i peccati, facevano tragedia nell’anima? A che? Quid prodest? Che gioverà tutto questo, o giovani, o mercanti, o letterati, se in fine fra pochi giorni stesi sul cataletto col corpo, avrete l’anima nell’inferno? Quid prodest? o Peccatori dopo, che vi farete ben bene satollati nelle vostre laidezze prendendovi le vostre felicità bestiali dopo che avrete saziata la vostra avarizia, la vostra vendetta, le vostre crapule, che vi gioveranno tutti questi falsi beni? Se in fine perderete totalmente l’anima vostra, che vi gioverà? Nulla! morto voi, tutto morendo con voi mostrerà, che tutto fu vanità, vanitas vanitatum. Donne, che peccaste senza punto pensare all’anima, dopo che avrete appagate le vostre voglie, e vi sarete soddisfatte negli amori; dite a voi stesse: Quid prodest? Che mi giovano tutte le mie allegrezze, contenti e vanità, mentre io mi danno? Nulla! Tutto sarà stato vanità; perché l’anima sarà perduta, vanitas. Quid prodest? In somma, che vi gioverebbe aver avuto i tesori di Salomone, le fortune d’Alessandro, l’imperio d’Augusto, le delizie di Sardanapalo, la dottrina d’Aristotele? che vi gioverebbe, o donne l’aver avuti gli amanti di una Taide, ed i piaceri d’una Venere, se poi, perduta l’anima, precipitate nelle fiamme ad ardere per tutta l’eternità … a nulla; tutto finisce; e l’anima sarebbe dannata: vanitas, et cogita itaque, mi rivolto a voi, de Anima, noli de alienis curare te, ac tua negligere. Deh rivoltate, o Cristiani, il vostro pensiero all’anima: pensate di proposito a questo; e già che ella è di tal prezzo, che per redimerla vi è voluto il Sangue di Cristo; non vogliate voi venderla per nulla, ucciderla con i peccati. Non vogliate esser più trascurati nelle cose che appartengono alla vostra salute di quello siate in quelle cose che poco, o nulla importano. Noli, noli de alienis curare et te, ac tua negligere; non vi scordate di voi stessi, dell’anima vostra, della vostra salute; per non aver a piangere tal dimenticanza finché Dio sarà Dio, ed imparare a tener conto dell’anima …


LIMOSINA
Uno de’ maggiori contrassegni di prezzar l’anima è la limosina ai poveri, e se la farete partorirà a voi, ed ai vostri discendenti la salute eterna. Udite; mi ricordo aver letto come Eutichio Senatore Romano, uomo nobilissimo e ricchissimo, allorché si ritrovava al governo della provincia di Borgogna, venne colà tanta penuria di viveri, che i poveri ne morivano di fame. Eurichio, che veramente aveva viscere di pietà, mantenne con le sue entrate in quella dolorosa carestia, più di quattro mila poveri. Terminata la penuria rimandò Eurichio tutti i poveri alle proprie case, ringraziando il Signore, che l’avesse inspirato ad una tal opera, e n’ebbe per risposta, da una voce del Cielo che gli disse: Eurichio perché tu nel tempo della fame m’hai sostentato ne’ miei poveri, ti fò sapere, che alla tua discendenza non mancherà mai la mia grazia. Tanto io dico a voi, a nome di questo Cristo. Slargate dunque la mano.

SECONDA PARTE.

I popoli dell’America tenevano da principio l’oro in più vile stima del ferro; ma osservando a poco a poco che gli Europei navigavano con tante pene e pericoli per averlo, che vi lavoravano attorno con tanto studio e che lo difendevano anche con la vita, cominciarono anche essi a farne più conto, ed a servirsene come di mezzo per supplire con quello a’ propri bisogni. Per l’addietro, miei Uditori, siamo vissuti in somma ignoranza, senza conoscere l’anima, ma ora che abbiamo avuta qualche luce della di lei preziosità, bisogna farne la dovuta stima. Ei è pur vero che con tutte queste cognizioni della preziosità dell’anima, ad ogni modo si conculcherà. E qual è la ragione? Perché più si stima il corpo, ed a questo si pospone l’anima. Pianse questa disgrazia, quasi dissi comune, d’anteporsi indegnamente il corpo all’anima quel santo Vescovo Nonno, quando incontratosi a caso nella pubblica peccatrice Pelagia, poiché vedutala tutta intenta alla cultura del corpo, e del tutto scordata dell’anima, considerolla con occhio santo da capo a piedi; e tutto pieno di confusione esclamò: Mira o Nonno, mira costei, come attende di proposito a farsi bello quel palmo di viso, che ella ha; quanto vi studia d’intorno, quanto tempo vi spende; sai a che fine indirizza tanto lavoro? A fine di piacere agli uomini, a’ suoi innamorati da’ quali all’ultimo non ne ritrarrà che assenzio amarissimo di disgusti: quantas horas facit in cubiculo suo hac mulier, ne turpis videatur esse amatoribus suis, qui hodie sunt et crastine non sunt; indi tratto dal più cupo del cuore un profondo sospiro, seguì a dire: tanto dunque fa Pelagia per piacere agli amanti, tanto coltiva il suo corpo; ed io per piacere al mio Dio Sposo dell’anima mia, che fo? Sì, che fo per l’anima mia? ed in così dire, rinnovando le lagrime, e i gemiti, rivolto a’ Vescovi astanti, e compagni: Posuit faciem suam super genua sua sie omnem sinum suum replevit lacrymis et suspirans graviter dixit ad Episcopos: costei, fratelli miei, ci griderà nel dì del Giudizio, e ci metterà contro Dio, mentre noi non avremo fatta la minima parte per l’anima di quel che ella fece per il corpo, intorno a cui consumò doti e dissipò patrimoni. Quanto disse il santo Vescovo, tanto io dico a voi: che sarà di voi nel dì del Giudizio, che tutto faceste per il corpo, e quasi nulla per l’anima? Esclamate pure, o gran maestro di Carlo Magno, e dite:  En quod corrumpitur tanta diligentia amatur quod permanet tanta socordia negligitur. Terrenum colitur, et colesie non curatur Dei imago vilescit, terræ species bonoratur.  Eppure è vero, Dio immortale! Dove è il giudizio, o Cristiani? dove è la Fede, o Cattolici? Che cosa è anima? Che cosa è corpo? L’anima è eterna, il Corpo
fra quattro dì fracido nel sepolcro per ingrassar rospi e vermi. Tutto si fa per il corpo, nulla per l’anima; e questo è quello che con lagrime di dolore amaramente deplorava San Giovanni Crisostomo: Si corpus patitur, medicos vocamus, et herbas inquirimus; Sì, sì, per purgare il corpo non si guarda a fatica, a stento, a spesa di più se dirà talora il medico all’infermo: signore, per non morire convien pigliare una buona dose d’amarissime pillole, che si prendano. Dice il confessore: per esser più certo di vostra salute convien domare la vostra carne ribelle con qualche colpo di disciplina … O questo no! C’è la pietra nella vescica (così parla il cerusico) ci vuole il taglio; son prontissimo; io stesso affilerò i rasori; replica il confessore, bisogna dare un taglio, e slontanar da sé colei … Padre non è possibile, e si dice in fatti: più tosto l’anima, che l’amica; ma Signore, replica il medico, per guarire questa cancrena vi vuol fuoco: bruciate pure; esorta il Confessore per placare Iddio bisogna fare qualche limosina; Padre non ne parlate, ho troppe spese: e pure talora la fai a quella poverella per darla al disonore, e toglierla a Dio. Per il corpo in somma si trangugia ogni più amaro boccone, si tollera ferro, e fuoco; tutto si fa per il corpo, nulla per l’anima, Animam vero vitiis laborantem negligimus, grida il Boccadoro; dove si tratta d’anima lacerata da’ vizi, neppure un poco d’impiastro per risanarla. Mutate vita; fate più conto dell’anima, se non volete perdere anima e corpo. Come appunto intervenne a quel cavaliere, il quale viveva nella corte di Corrado Re de’ Merci. Questi quanto amava il corpo, altrettanto strapazzava l’anima; il re, che era piissimo, e molto l’amava, l’ammoniva di quando in quando, e l’esortava a pensare all’anima, acciò sopravvenendogli d’improvviso la morte non fosse colto in disgrazia di Dio. Il cavaliere con sorrisi di riverenza ringraziava il re e l’assicurava, che l’avrebbe fatto a suo tempo. Avvenne intanto che sopraffatto da una malattia gli convenne darsi al letto; il re allora spinto più dalla pietà che dalla cortesia si portò a visitarlo ed instantemente pregollo che avanti si aumentasse l’infermità si confessasse. Udite diabolica risposta: sacra maestà non è questo tempo da confessarsi, mostrerei a’ miei soldati d’aver avuto paura della morte, come se fosse prodezza da capitano non temere né morte, né inferno. Non dubiti però vostra maestà, perché guarito che io sia voglio confessarmi. Invece di guarire gli crebbe il male; fu disperato della salute. Tornò il re a più fervorose esortazioni, perché si confessasse; non dava retta l’infermo; finché, quasi annoiato delle sante parole del suo re, tutto pieno di sdegno, verso di lui rivolto gli disse: sire non vi stancate perché voi non mi potete portar salute né al corpo né all’anima; non è vero replicò il re, l’anima si può salvare, se si perde il corpo. No, no, ripigliò il moribondo, per me non v’è più tempo … v’è tempo … non v’è; e se volete sapere il perché, ecco che ve lo dico. Poco prima che voi entraste in questa camera vennero qui da me due giovani d’aspetto vaghissimo ed uno di essi cavatosi dal seno un nobile libretto, me lo diede a leggere, ed in esso vidi espresso quel poco o nulla di bene da me fatto; indi ritiratosi da parte diede luogo ad un esercito di demoni, che riempirono questa camera ed uno di essi m’aprì il libro delle tante mie scelleratezze e rivolto a quei due bellissimi giovani, che erano due Angeli, disse loro: che fate qui? Costui non è vostro, ma nostro; così è, così è, replicarono gli Angeli, ve lo cediamo, prendetelo pure, e conducetelo al baratro dell’inferno. Allora gli spiriti nemici mi vennero alla vita, e due di loro, che tenevano uno spiedo per uno in mano, me li ficcarono nella vita uno per la testa, e per i piedi l’altro, ed ora mentre parlo lentamente mi vanno trafiggendo con spasimo terribile delle mie viscere, ed allorché questi ferri si uniranno insieme, io morirò dannato; ah che già mi trapassano il cuore, ah già mi pigliano, ah che già mi seppelliscono nel fuoco. Così dicendo sospirò, anima infelice, portata, come dice il Venerabile Beda, da’ demoni nella eternità delle pene; questo è quel che fa chi non pensa all’anima.

QUARESIMALE (XXV)

QUARESIMALE (XXIII)

QUARESIMALE (XXIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMATERZA
Nella feria seconda della Domenica quarta


Si fa palese che quanto Dio  benefica chi rispetta le Chiese, altrettanto castiga chi le profana con irriverenza.


Ascendit Jesus Jerosolymam, et invenit in Templo ementes,
et vendentes.
San Gio: cap. 2.

Non fu detto arguto de’ savi, fu grave sentimento de Santi, essere i Sacri Templi
piccoli Cieli della Terra, Ecclesiam non secus, ac Cælum frequenta, disse Sant’Ilo. Locus est Angelorum, regia Domus Dei, ac Cælum ipsum definì il Crisostomo; e n’ebbero ragione. Presiede nelle Chiese, miei Uditori, quel medesimo Monarca che regna in Cielo; ivi beatifica i Comprensori che, svelato lo contemplano; qui
benefica i mortali, che in enigma l’adorano; né minor gelosia ha del Cielo che dei Templi; in quello perché reperit pravitatem, ordinò ad un Arcangelo, che con spada di fuoco, fulminasse chi lo contaminava con colpe; in questi, perché vi vede ementes, et vendentes, Dio medesimo flagella chi l’oltraggia con irriverenza, et cum fecisset quasi flagellum de funiculis omnes ejecit de Templo. Or datemi licenza che io, lasciata ogn’altra superfluità d’esordio in materia di tanta importanza, sì per incitamento della pietà de’ devoti, come per correggimento della sfacciataggine de’ dissoluti, vi faccia vedere Dio quanto liberale sia in beneficare chi nelle Chiese l’adora, tanto severo in fulminare chi le profana. – Folle e temerario fu il consiglio di quel regnante persiano, il quale avendo udito dagli astrologi non essere egli rimirato con volto benefico dalle stelle, fece subito architettare nella sua regia un Cielo con tal positura di pianeti, che non solo gli volgessero benigno l’aspetto, ma gli presagissero felicissimo l’impero. Quanto tardi, tanto male avvedutosi, la temerità non fabbricar grandezze, ma precipizi. Savia però e pia è la consuetudine de’ Cattolici nell’ergersi Cieli in terra, non ad onta, ma alla venerazione di Dio, per quivi fabbricarsi la propria fortuna, e quasi dissi, mutare Dio di severo in piacevole, di sdegnato in amante, di Giudice in Padre, bene intendendo essere la pietà poco meno che l’arbitra della Onnipotenza. E che ciò sia vero, che favori, che grazie, che benefici non impetrano i fedeli da Dio ne’ Templi? – Te chiamo in testimonio o Roma, che presso al seicento, prima soffocata dalla inondazione del tuo Tevere, poi quasi estinta dalla infezione di contagiosa pestilenza, allora risorgesti a nuova vita, quando t’incurvasti nella Basilica Liberiana cessando in quel medesimo tempo la strage dell’Angelo percussore, in cui principiarono le preghiere del tuo popolo supplichevole. Te pure voglio in conferma del mio dire, o Verona, quando, come narra San Gregorio, il tuo Adige gonfio per le piogge, e per l’influsso di numerosi torrenti che in sé riceve, superando ogni sponda, rompendo ogn’argine uscì e si stese facendo d’ogni via un ben grosso fiume, della piazza un lago, della città tutta, e delle campagne un piccol mare, e degli uomini averia fatto un comune naufragio, se il popolo ritiratosi dalle case non si raccoglieva nel Tempio ad orare come in arca di salute contro quel domestico diluvio, ed infatti nel fuggire i pericoli del diluvio trovarono i privilegi del Mare Eritreo. Cresciute per ogni lato a dismisura le acque, s’alzavano alle porte, alle finestre, aperta all’ingresso ogni via; ma il non trascorrere, il non entrare, il far di sé argini e sponda fu forza d’un miracolo, che le congelò, le impietrì, e le fermò in soliditatem parietis. Cinto dunque il popolo da tanti miracoli, quante erano le acque, ebbe necessità d’un altro miracolo, perché le acque fatte già un muro non si facessero un sepolcro a quanti starebbero quivi imprigionati, penuriando e morendo di fame e sete. Eccole pertanto alla sodezza sasso, alla fluidezza fonti, scorrere per le strade, e disfarsi, liberando quel Popolo contrito. Voi vi stupite, miei UU., in udire prodigi sì belli della Onnipotenza Divina: Roma liberata da fierissima peste; Verona sottratta dalle inondazioni funeste del suo Adige; non vi stupirete però, se rifletterete tutto essere effetto di somma riverenza alle Chiese. Che meraviglia, che le Chiese partorissero sì gran bene, quando tanto erano riverite non pure dall’infima plebe, ma da’ monarchi. Leggete le Storie antiche, e troverete che Teodosio il Giovane, Imperatore di sì gran nome e stima, a cui servivano riverenti più nazioni, al di cui comando obbedivano numerose province, ed al balenar della di cui spada anche i regi s’intimorivano. Or questi, prima di por piede nella soglia adorata della Chiesa, non solo licenziava da sé quante l’attorniavano milizie, e quanti lo corteggiavano cavalieri; ma scintasi la spada, si spogliava del regio ammanto, deponeva l’imperial diadema, e tutto lasciando nei liminari della Chiesa quivi stava in atto d’ogni ordinario cavaliere con gli occhi fissi al sacro altare, ed in portamento sommamente modesto. Che meraviglia, torno a dire, che le Chiese partorissero sì gran prodigi, mentre in quei tempi era somma la riverenza de’ fedeli alle Chiese. Celebrava il Santo Vescovo Ambrogio nella Basilica maggiore della città di Milano ogni giorno i Divini Offizi con gran frequenza di gente. Si stimò offesa l’Imperatrice eretica da esercizio sì devoto, e sì pubblico. Scelte pertanto delle sue guardie due compagnie d’uomini d’arme, spietati di natura, idolatri di setta, ed inviolli alla Chiesa con ordine che trucidassero quanti sacrificavano col Prelato o assistevano al Sacrifizio. Giunta la Soldatesca alla porta della Chiesa, con urti violenti la sforzò; indi entrati i barbari fino ai liminari del Santuario, già calavano le lance per investire chi cantava; ma che? in vedere il silenzio del popolo, in udire la melodia de’ cherici, in considerare quel bell’ordine de’ ministri, in riflettere alla maestà d’Ambrogio, che celebrava, in rimirare finalmente i raggi di predestinazione che rilucevano in fronte de’ supplicanti, talmente si commossero che deposte le armature, e gettate le aste, disarmati e piangente, chiedessero ad alta voce il Battesimo; e tale e tanto fu il lume ed il fervore che concepirono per la modestia di quel popolo, e per la maestà di quel clero, che dopo breve istruzione ne’ Misteri di nostra Fede, vollero lavarsi nel sacro fonte e rinascere a Cristo. Quanto in tal congiuntura fosse il giubilo di quel santo prelato e di quel popolo, chi può mai esprimerlo? Questo però venne non poco amareggiato, quando videro che i soldati appena ricevuto il carattere di Cristo con più furia di prima si rivestirono delle armature, si cinsero le spade al fianco, ed impugnarono con mano ardita l’alabarde, sicché in quel subito stima ognuno che quei barbari avessero chinate le teste al sacro fonte non per altro, che per beffare i riti della Chiesa Cattolica; quando ben presto tornarono alle prime e maggiori alle grezze, poiché quella nova squadra di Cristo, preso posto alle porte del Tempio, giurarono tutti di difender la Chiesa da chiunque tentasse d’oltraggiarla, protestandosi di non conoscere in ciò l’augusta regnante, e minacciando animosamente, che quando ella non rispettasse quella vera casa di Dio, l’avrebbero assediata nel proprio palazzo. Eccovi le parole del Santo Vescovo nell’Epistola 33 ad Sororem: Venerunt cum armis, et circumfusi occupaverunt Ecclesiam; qui enim venerunt facti sunt Christiani, defensores habeo quot hostes putabam, socios teneo quot adversarios existimabam. Voi esclamate: o che Prodigi son questi veder barbare milizie, che venute per far strage de’ Cattolici, depongono l’armi, si fanno Cristiane, e difensori della Santa Fede. Non vi stupite, perché son tutti effetti prodotti dalla riverenza alle Chiese. Tali e sì prodigiosi effetti non si potrebbero vedere oggidì, poiché se entrassero nelle nostre Chiese i gentili, qual riverenza scorgerebbero nella plebe? Qual modestia nella nobiltà? Qual ritiramento nel clero? Ditemi; ammirati dalla devozione, chiederebbero forse d’esser prontamente battezzati? Eh Dio! Lasciate che io lo dica, eh Dio! Sarebbe tale lo scandalo che riceverebbero per la profanità de’ discorsi, per l’irriverenza di chi volta le spalle al venerabile Sacramento a titolo di compiacere o al prurito della lingua o alla curiosità degl’occhi, che stomacati volterebbero. Sì, dico, volterebbero le spalle, perché vedrebbero le Chiese di Cristo posposte alle anticamere de’ principi, ove per riverenza del monarca, o non si parla o se si parla, appena si articolano le parole; e nelle Chiese si articolano le parole? non solo si articolano, ma si proferiscono talora le più insolenti, le più sconce, le più laide, quelle che talora per gran timore non avrebbe ivi ardire di pronunciare un diavolo d’inferno; né solo non si tace, ma vi si fa strepito tale, di riverenze, di saluti, d’inchini, che spesse volte son costretti a fermarsi nel Sacrifizio i Sacerdoti, ed ad interrompere da pergami le prediche fatte. Oratore. Se bene, che parli? mi rimprovera San Gio. Crisostomo; dovevi dire che le Chiese si pospongono non alle anticamere, ma ai teatri stessi di commedie, ove par che le scelleraggini abbiano porto di franchigia. Piacesse a Dio che si rispettassero i tempi, come si rispettano i saloni delle commedie. Basterebbe, per così dire, che in tal guisa si trattassero i Sacerdoti, quando alzano l’Ostia consacrata, come son trattati gl’istrioni quando rappresentano in palco o le frenesie di Didone, o le mascherate di Giove. Basterebbe che alle scene si eguagliassero gli Altari; può mai chiedersi cosa inferiore a questa? E non impallidite a paragoni simili? Udite ciò che dice Crisostomo: si nega a Cristo ne’ Templi, ciò che si concede a’ commedianti ne’ palchi; non v’è, dice il Santo, non v’e giovinastro sì scorretto, né femmina sì dissoluta, che al calar della tenda non si acquieti e non oda con somma attenzione ciò che espone la favola, eppure l’autore di essa è il demonio, ed il contenuto sono sciocchissimi sacrilegi. Ad ogni modo, se in tanta moltitudine alcuno si scomponesse con i gesti, o si strepitasse con le parole, l’udienza tutta lo sgriderebbe, ed a forza di bastoni lo caccerebbe fuori: Cum in Theatro Chori canunt Satanici, summa quies, et magnum silentium. Per l’opposto, nella Chiesa, ove si leggono gli Evangeli di Cristo, si cantano Salmi di David, si vedono talora circoli scandalosi, ove non manca chi con ciarle moleste offenda le orecchie di chi ora; Hæc ne grida il Grisostomo, sunt tollerabilia hæc ne ferenda? Son cose queste da tollerarsi, da sopportarsi? Non è lecito per ricreazione innocente d’un popolo in alzare un teatro in quel luogo, ove sta collocata la statua dell’Imperatore; e nella Chiesa, ove sta il Re del Cielo, non rappresentato, ma vero e vivo, alzano molti Cristiani dentro de’ loro cuori indegni, teatri di amor profano, sicché se si hanno da tendere insidie all’onestà, il sito più opportuno è la Chiesa di Dio! Peggio, sì, v’è di peggio ed è che da molti, e molti si trattano al pari de’ luoghi infami. Ah, che mi sento serrare il cuore in pensare a’ peccati che si commettono nelle Chiese davanti a Dio talora Sacramentato. – Voleva l’empio Caligola profanare il Tempio di Gerosolima con porvi la sua statua; Quando Filone a lui Ambasciatore, per dissuaderlo, dissegli: Monarca, al nostro impero sono suddite tante città, tante isole, tante Province, e tanti Regni. Deh, riflettete esser troppo non voler lasciar a Dio neppur il Tempio elettosi in terra per sua abitazione: … Non contentus Imperio tot Provinciarum, Insularum, Gentium Deo in terra nihil vis relinquere, ne Fanum quidem? Tanto io dico a quelli indegni che, dato un calcio al Paradiso, a Dio, cambiano le Chiese in lupanari, trafficando, comprando e vendendo l’altrui onestà; mancano piazze, mancano case, mancano abitazioni, mentre volete profanare le Chiese di Dio? Ah Paolo Apostolo, voi, che pieno ed acceso di santo zelo, rimproveraste coloro, solo perché mangiavano in Chiesa gridando: Numquid Domos non babetis ad manducandum, et bibendum. Rinfacciate, rimproverate la sacrilega sfacciataggine di non pochi Cristiani, e dite loro: Numquid Domos non habetis; Oh Dio! lo dovrò dire? già m’intendete; non mancano camere, non mancano sale, che profanate ancor la Casa di Dio. O Dio! Lupanar ergo vobis videtur Ecclesia, griderò anch’io inorridito col Boccadoro. Hai ben ragione o santo Profeta Geremia mentre tutto addolorato al riflesso di queste verità vai esclamando: Quid est quod dilectus meus in Domo mea fecit scelera multa? quasi dir volesse: pur troppo mi duole che i gentili ed i Turchi strapazzino le mie Chiese; che gli eretici e gl’Ebrei disprezzino i miei Templi; ma pure il sapere, che questi mi sono nemici, m’è d’alleggerimento al dolore; quello che mi trapassa il cuore, è che dilectus meus, che il popolo Cristiano a me diletto, da me ricomprato col mio Sangue abbia ardire in casa mia, nelle mie Chiese, alla mia presenza Sacramentale commettere scelleraggini! Questo è quello che non posso né capire, né sopportare, in Domo mea scelera multa; e quali sono queste iniquità? Quali lo stesso Cristo l’esprime in quelle parole: Vos autem fecistis illam speluncam latronum; avete resa la Chiesa una spelonca di ladri, che vale a dire voi fate nelle Chiese, ciò che gli assassini nelle pubbliche strade: questi, preso il passeggero, per potere senza timore spogliarlo di tutto, lo conducono alla vicina spelonca, e quivi commettono quella scelleraggine, che temono di commettere nella pubblica strada. Così fate voi, o scellerati, che cambiando le Chiese in scellerati ridotti, poiché ardite di farvi ciò che non ardireste nelle più frequenti contrade. Non vi stancate o Girolamo che non è più tempo di dire a chi patisce o incendi di sdegno, o fiamme d’avarizia, o lordure di senso: entra, entra in quella Basilica di Martire, od Apostolo, e subito a’ riverberi della santità che esce da’ marmi stessi de’ santuari, ricupererai e pace e luce, e temperanza. Do consilium ingredere Basilicas Martyrum, et aliquando purgaberis; non parlereste, no, così a’ tempi nostri, perché scorgereste regnare nelle nostre Chiese la sfacciataggine a tal segno, che molti entrano ne’ Templi meno rei di quel che n’escano. Riveriti ministri del Tempio, cessate vi prego di più solennizare con sacra pompa la memoria di chi regna in Cielo; non vestite né di preziosi addobbi le sacre mura, non cercate no musici che con voce angelica allettino la gente ad udirli, no no, mutate parere, spogliate i sacri altari, celebrate con ordinario apparecchio le vostre feste, perché pietas vestra contumeliam suscitabit, la vostra pietà sarà cagione di maggiori irriverenze. E voi sacri Sacerdoti, nelle solennità di vostre Chiese, non esponete a pubblica udienza l’adorato Signore nell’Ostia consacrata, perché pietas vestra, grida Ugon Cardinale, contumeliam suscitabit, perché sarete cagione di maggiori peccati, non verranno per adorar Cristo, ma per ucciderlo con più sacrilega cospirazione; non per placare l’ira di Dio, che già stringe fulmine per incenerirli, ma bensì con più insolente petulanza la provocheranno a vendicarsi. Voi salmeggerete ed essi cicaleranno, voi con affetti castissimi porgerete preghiere a Dio ed essi, con ragionamenti lascivi, con cuor impuro l’offenderanno. Sacri Pastori della Chiesa Cattolica piangete pure amaramente la profanazione de’ vostri Santuari, e se sarete interrogati da Dio, come già, Ezechiele, di quello che vedete praticarsi ne’ vostri Templi, dite pure ancor voi con singulti: video, video abominationes … vedo i Santuari divenuti postriboli, ove sono ementes, vendentes con ardire da ateo e con sfacciataggine da barbaro l’onestà, la continenza. Video abominationes magnas, vedo uomini, che immersi in pensieri laidi, somigliano non a Cristiani nel Tempio, ma ad animali nel bosco: Et ecce similitudo reptilium animalium. Passate avanti col Profeta e, col custode del tempio, pronunziate: video abominationes majores, vedo donne idolatrate con occhi impuri, ed incensate con sospiri d’incontinenze, idola domus depicta, ed a ragione, perché molte donne han la faccia dipinta a fresco; veggo stantes ante picturas, unusquisque habebat turibulum. Né qui fermatevi, ma esclamate col Profeta, e col custode del tempio: Video abominationes majores, vedo uomini, che stanno in Chiesa con ginocchia piegate, ma subito che entra colei, ecco che voltate le spalle all’altare si rivoltano ad adorar quel viso, dorsum habentes contra templum Domini, et adorabant ad ortum solis; mentisce forse il Profeta, miei UU.? Mentiscono i sacri Pastori con i custodi del tempio? Mentisco io con dire che si fanno le Chiese postriboli? No! Ditemi: perché venite alla Chiesa molti e molte di voi? Per sozzi amori, per esser rimirate e vagheggiate; negate ciò, se potete, voi giovani, che state sulla vita amorosa, e molto più voi donne, e dame, che con tanta boria venite ed ascoltate a questo proposito un bel racconto. – Un gran titolato, benché cavaliere di gran nascita, si portò con pompa anche superiore a’ suoi natali alla corte di Carlo Quinto, a solo titolo, come egli diceva, di vedere quel grande imperatore. Non è vero disse Cesare, allorché seppe l’addotto motivo. Questo cavaliere non è venuto per vedere né la corte, né me, ma è venuto per farsi vedere e dalla corte e da me; non son venuti alla Chiesa quei giovani tutti profumati e nell’abito e nella persona per riverire la Vergine Santissima, Iddio, ma per amoreggiare; non si sono portate al tempio quelle donne tutte vane nell’abito e tanto più leggere nella testa, quanto più la caricano d’ornamenti, che sollevati in alto mostrano nell’agitarsi ad ogni vento l’incostanza del cervello che le inventò; non sono venute, dico, per impetrare grazie da’ Santi, da Maria, da Cristo, ma per farsi vedere scollate, sbracciate, spettorate, e così tirarsi addosso l’ira de’ Santi, della Vergine, e di Dio; e non è questo trattar le Chiese da postriboli? mentre quivi si va senza riserba a caccia libera d’ogni sorte di disonestà. Platone nelle sue leggi proibì la pesca dentro i porti del mare, parendogli crudeltà, che dove gli uomini trovavano la sicurezza, i pesci incontrassero i pericoli; non così fanno gli empi profanatori de’ templi mentre neppur ne’ porti de’ Santuari, nelle Chiese vogliano sicura delle loro reti l’innocenza, l’onestà. E dove siete ministri de’ sacri altari, che non gli chiudete le porte in faccia e non gridate ancor voi con i custodi del Cielo foris canes? Almeno sottentrate voi all’offizio Angeli tutelari. Deh ruotate quella spada, al di cui folgoreggiare inorridì una volta Costantinopoli, e tra gli empi soldati di più empia imperatrice, ad alcuni inaridirono le braccia, a tutti il cuore. Ma se, non i custodi, né gli Angeli si risentono degli oltraggi di questi Cieli terreni delle Chiese sacrosante, se ne risente Iddio, e se da esse tramanda benefiche le influenze in quelli che le rispettano, sa altresì senz’ombra di pietà scaricar fulmini severissimi sopra le teste di quegli iniqui che le strapazzano fino a farle divenire postriboli. Ricordatevi, miei UU., che il Tempio di Salomone si stringeva in forma di leone per additare agli irriverenti nelle Chiese, che Dio contro di loro si sarebbe fatto implacabile e spietato leone, li avrebbe assaliti, uccisi e sbranati. Li altri delitti si scrivono nella polvere, perché facilmente restano scancellati dall’aria d’un fiato penitente; ma i commessi nella Chiesa si scrivono, come dice il Profeta, ne’ corni dell’altare con l’ugna di Diamante, come quasi impossibili a scancellare: Domus mea, Domus orationis, questa è casa di santità, non di lascivie; Domum tuam decet sanctitudo, così parla il Salmista, non occorre altro, è delitto di lesa Maestà offender Dio in sua Casa. La testa di chi sguaina la spada, nonché alla presenza del Principe, ma nel suo palazzo, ne paga il delitto; e non volete che Dio si palesi terribile contro chi uccide nelle Chiese alla sua presenza e l’anima propria, e quella de’ prossimi? Volete voi vedere quanto grave delitto sia portar poco rispetto alle Chiese? Negate, se potete, che ogni qual volta un principe voglia eseguir la giustizia di sua mano, non vi venga tirato per un eccesso de’ più enormi; scorrete dunque le sacre carte, e non troverete che Iddio abbia mai castigato i delinquenti di sua mano. Peccarono i nostri primi Padri tra le delizie del Paradiso Terrestre, Iddio, che li volle puniti, vi spedì un’Angelo che gl’intimasse l’esilio. Peccò Erode superbo affettator d’onori anche divini, e fu da Dio percosso, ma per mano d’un Angelo. Mai, mai Iddio ha steso la sua mano divina al castigo de’ peccatori salvo che nel profanamento delle sue Chiese; chi può dunque negare, che non sia un grand’eccesso portar poco rispetto alle Chiese; e qual castigo non si può aspettare chi le profana con pensieri, con parole, con discorsi, e talora con opere indegne? Aspettatevi pure i più fieri castighi, che possano uscire dalla mano sua onnipotente. E che credete voi, che Iddio o non possa, o non voglia, o non li usi? V’ingannate.  Dicalo Arnolfo imperatore, che per esser stato irriverente nel Tempio si vide il corpo ridotto in cadavere, tenuto però lungamente vivo in corte, perché i Cortigiani imparassero a meglio vivere nelle Chiese. Dicalo quell’infelice nel Settentrione, che nel Secolo passato fu scannato sopra quella medesima pietra sacrata da lui vilipesa. Dicalo quel giovane a cui, pochi anni orsono, dolendosi avanti l’Immagine della Vergine per la morte d’alcuni suoi Compagni, seguita nell’età più florida, sentissi rispondere dalla Madre di Dio che erano morti in pena del poco rispetto portato alla Chiesa, e però da sua parte ne avviasse il predicatore, che ne intimasse al popolo. Voi ve la ridete in sentir quelle mie minacce, perché le stimate spari d’artiglieria sì, ma senza palla; tuoni sì, ma senza fulmini; non sarà così, non sarà; interverrà a voi come alla infelice città di Gerico, che cambiò le risa in amarissimo pianto. Aveva Giosuè dato ordine che per sette mattine si portasse l’Arca in giro delle mura, che precedessero le truppe armate, e che appresso seguisse il popolo, ed i Sacerdoti intanto facessero risuonare suono di trombe; fu eseguito l’ordine del generale, con gran terrore della città assediata, la quale nel veder quell’ordinanza, ed udir quelle trombe guerriere, già si aspettavano la rovina della patria; ma quando poi s’accorsero, che a tanto strepito non seguì niuno effetto, si sollevarono da timori concepiti, i quali del tutto svanirono. La seconda mattina, mentre videro che con eguale ordinanza, accompagnamento e suono si circondarono nuovamente le mura. Non così seguì la terza mattina, perché nel vedersi girar le milizie attorno alle mura, non solo non ne ebbero spavento, ma cambiarono tutto il terrore in deriso, vedendo che tutto il loro assalto terminava in apparenza di milizie, ed in vano strepito di trombe. Lascio ora a voi, miei UU., il considerare quali dovettero essere i beffeggiamenti e le risa del popolo di Gerico verso le milizie di Giosuè, nel vederle girar la quarta, quinta e sesta mattina, certamente dovevan dirgli e con le voci e col cuore: suonate pure allegramente, che noi al suono delle vostre trombe faremo le nostre danze, i nostri balli. E che vi credete di poterci sbalordir con lo strepito, già che non potete col valore? E se tanto probabilmente dissero in questi giorni, che dovettero dire allorché le rimirarono la settima mattina? Dovettero a dismisura crescer le beffe ed i risi. Ma che! Ecco che in quella mattina succede l’universale ruina delle muraglie. Septimo circuitu clangentibus tubis muri illico corruerunt, … cadono le cortine, rovinano i torrioni, entrano gl’Israeliti e senza riguardo né a sesso, né a condizione, né ad età svenano quanti trovano ed allagano la città di sangue, seminando ogni via, ogni piazza di cadaveri. Or che voglio io dire? Ecco cari miei UU., Iddio minaccia, Iddio grida per mezzo de’ suoi ministri, suonano le trombe evangeliche: si rispettino le Chiese, modestia nella Casa di Dio. E voi che fate la prima volta? Concepite qualche terrore, come i popoli di Gerico, e per ciò entrate con più modestia nella Chiesa. Ma nel sentir poi strepitar la seconda volta: rispetto alle Chiese! Cambiate il timore in meraviglia, e cominciaste a dire dentro di voi: che pretendono con questi schiamazzi che ogn’anno replicano su’ pulpiti? E la terza volta? La terza volta ve la rideste apertamente con i compagni nelle esse Chiese, dicendo: io non vedo quel colpo, questa spada; non vedo castighi, benché amoreggi nelle Chiese: bene, verrà la rovina a voi come venne a Gerico; non è giunto ancora il tempo, come venne a quel misero giovane, di cui ne fu stampato il funesto accidente accaduto in una città del Piceno. Se ne stava questo giovine alla predica del rispetto alle Chiese; ma egli avvezzo a strapazzare Dio in Casa sua più che mai in quella mattina lo vilipendeva; poi nell’atto della predica stessa stava con uno stile facendo un foro a quelle tavole che servono di divisorio tra gli uomini e le donne per mirare lascivamente certa femmina. Se ne accorse il predicatore e dall’alto sgridò con parole ben capite da lui, benché non intese dal resto dell’udienza; minacciò il predicatore che quel ferro che adoperava a servizio sì indegno gli avrebbe data la morte. Cieco costui d’amore, chiuse il cuore a quelle voci, che ben presto si verificarono, poiché non passarono giorni che venuto a rissa con un rivale a causa di quella stessa femmina, non avendo quegli armi, tolse al nemico quello stilo, glielo piantò in petto, gli schiantò l’anima dal seno. Gran caso è questo; ma non minore è il seguente. Udite, irriverenti alle Chiese, profanatori de Templi. Una Chiesa in Roma, non ha molto, che fu per più giorni scena aperta alle impudicizie di sguardi, di cenni, e d’imbasciate d’un giovane scapestrato, e d’una sfacciata donna. S’inoltrarono tanto i reciproci affetti, che dagli sguardi si giunse alle parole, e riuscì da stabilire un lungo congresso da farsi nella medesima Chiesa, in cui si sarebbe determinato il modo e l’ora per giungere all’adempimento della loro disonestà. Si portò dunque alla Chiesa l’indegna femmina nel giorno ed ora accordata, e dopo aver con cuor immondo, e con sozza mente recitate poche Ave, si pose ad aspettare l’amico; passò l’ora prescritta ed il giovane non si vedeva; penava la donna, ma pur sperava, che dovesse venire quando vedendo farsi l’ora tarda, ecco che si alzò per partirne; ma fu fermata da una turba di popolo, e dal canto flebile del clero, che portava in quella Chiesa a seppellirvi un morto; interrogò, curiosa la donna, chi fosse defunto, e sentissi dire, il tale di tale, cioè il nome e cognome di quello appunto che ella ivi aspettava per concluder con esso il giorno e l’ora della vendita dell’onore e dell’anima. Considerate qual fu l’orrore; ma non potendosi persuadere, replicava … ma chi? Ora il vedrete, gli fu risposto, ed ecco che scopre telo, fu ‘l cataletto lurido, lercio, squallido, per esser tra poco cacciato in una fossa, quello con cui in quella Chiesa si doveva stabilir l’ora del peccato. – Queste sono le risposte de’ peccati che si commettono in Chiesa, la morte! Non ci volete credere? Seguitate pure con cenni disonesti, con occhiate lascive, con discorsi laidi, con opere nefande a contaminar le Chiese, ma poi aspettatevi la morte temporale in castigo, per preludio della eterna.

LIMOSINA

Un povero padre, carico di dodici figli, non avendo più che un piccolo podere da lasciargli, fece una scrittura autentica, nella quale cedeva a Dio tutto quel podere in benefizio de’ poveri, e postala nella punta d’una saetta, la scoccò in aria per mandarla al Cielo, né mai più la vide. Morto poco dopo e salito al Cielo, vide dal Paradiso tutti quei suoi figli con la lor discendenza straordinariamente beneficati. Intendetela con Agostino  che chi dà a Dio, non può di meno di non arricchire, poiché Egli è quello di cui dice il Santo, et aliud dabo, plus dabo, et melius dabo, e quel che più importa, in æternum dabo.


SECONDA PARTE.

Gran castighi son questi, ma in essi non vi apparisce, salvo che la perdita della vita. Eh che a chi è irriverente nelle Chiese son preparati castighi eterni; ecco le voci d’Isaia, che mi risuonano alle orecchie, abili ad atterrire ogni protervo: iniqua gessit in terra Sanctorum, non videbit gloriam Dei; Non siete castigati di qua, lo sarete di là nell’inferno: profanatori de’ templi, irriverenti nelle Chiese, non vi è Paradiso per voi; non vi punisce Iddio di quà, perché per voi la pena temporale è poca. Iddio, perché non può darvi pena proporzionata in questo mondo, ve la riserva nell’altro … gessit iniqua in terra Sanctorum non videbit gloriam Dei. Cristiani miei, se per farvi mutar vita, ed essere riverenti nelle Chiese non basta il dirvi per bocca di Dio, che non v’è Paradiso per voi, non so più che dirmi, e pure ci son di quelli che hanno orecchie sì sorde, onde seguiranno a parlare, a contar novelle, e ridere, amoreggiare, a discorrere con tal temerità, come se fossero non nella Reggia d’un Dio sensitivissimo di un sì fatto disprezzo, ma ne’ giardini d’Eliogabalo, che rimunerava l’irriverenza. Se così è, mio Dio, non più pazienza, fulmini, fulmini per incenerire questi empi, e per sotterrarli nelle fiamme eterne. Ecco che ve l’intima l’Apostolo a nome di Dio, … si quis violaverit Templum Domini perdet illum Dominus; a guisa di Giuda sarà figlio di perdizione, sarà dannato l’irriverente nelle Chiese; ma dove piomberà? Dove appunto sprofondò quella nobildonna in Calabria a solo titolo delle sue irriverenze nelle Chiese fatte da lei teatri d’amori e scene di vanità. Uditene… Questa riconoscendosi pur troppo vaga di sembiante, abusandosi d’un tal dono, ad onta del donatore, in ogni luogo, ma specialmente nelle Chiese interveniva per essere idolatrata. Fu più volte, ma indarno ammonita; ond’è che Dio stanco di tollerarla venne al castigo. Stavasene ella di sera ad una gran festa; quando sorpresa improvvisamente da fiere doglie di viscere’ fu costretta a strani lamenti, a smanie, Giacché scompigliata la testa, fu ella più morta che viva e portata alla casa paterna. Quivi chiamati i medici, ogni rimedio fu vano, ond’è che disperata di salute, fu consegnata a’ Sacerdoti, uno de’ quali ingegnandosi di ridurla ad una buona Confessione, altro non ritrasse dalla bocca di quella rea femmina, che difese de’ suoi peccati, senza mostrar principio di pentimento, e perché il Sacerdote neppur si quietava per farla ravvedere del suo errore, la sentì prorompere come una furia in queste parole: se Iddio mi vuole qual io mi sono, mi pigli, se no, lasciami stare; e rivoltate le spalle, cominciò rabbiosamente a muggire, né più parlò. Frattanto il padre della giovane che l’aveva veduta trattenersi molto col Confessore, credette che si fosse confessata, e perciò mandó ad avvisare il curato, che senza indugio portasse il Santissimo Viatico. Ecco, che se ne viene il buon curato con grandissimo accompagnamento di gente stordita al caso di morte tanto inaspettata. Deh mio Dio, datemi, vi prego ora una energia, una efficacia pari al successo, che mi rimane a raccontare. Non prima il Sacerdote comparve con la sacra pisside in mano avanti la stanza ove giaceva la rea femmina, che subito dalla finestra di rimpetto si levò un furiosissimo vento che gli serrò con impeto dispettoso la porta in faccia; corsero i servitori per riaprirla, ma spaventati fuggirono, giacché cominciossi subito a sentire entro la camera un tal fracasso di strascinate catene, una confusione di voci tartaree che ben pareva essersi quivi racchiuso un piccolo inferno. Si scompiglio’ a questo rumore tutto impaurito quel popolo che colà si era adunato, ed il Sacerdote, dopo aver per qualche tempo aspettato, deliberò tornarsene col Santissimo Sacramento alla Chiesa. Partito che egli fu, tra pochissimo d’ora cessò lo strepito, si mitigò lo spavento e così riuscì aprir con somma facilità la porta. Pareva che tutta la camera fosse stata messa a ruba, spezzata la lettiera, sconvolto il letto, abbattuto il bel padiglione, tutte per terra le vesti, disperse le anella, le ambre, sparse le acque odorose; ma quello che soprattutto metteva orrore era la donna, la quale del tutto spogliata, giaceva sul pavimento già morta, e con volto sì spaventoso a rimirarsi che ben vi si leggeva sulla fronte descritta la dannazione. Lascio a voi il considerare qual fosse l’afflizione di quel povero padre, scongiurò tutti i domestici a non voler per riputazione svelare il fatto, e poi fatte in tutta fretta private esequie alla defunta la fece di notte seppellire in sagrato; ma che? Credete voi, che la Chiesa volesse in seno ricever morta colei dalla quale aveva ricevuti tanti oltraggi, con tante irriverenze d’amori, di vanità? Appunto, ecco, che la mattina seguente vien data nuova all’afflitto padre, che la figlia giaceva all’aria insepolta, egli la fece allora seppellire in diversi luoghi, ma vedendo che da per tutto da terra l’escludeva, e non poteva trovar modo da levarsi davanti agli occhi quell’obbrobrioso cadavere tutto pieno di furore, esclamò: se così è, vengano dunque i diavoli, e via si portino nell’Inferno anche il corpo di mia figlia, dacché v’hanno l’anima. Non tardarono questi, gradirne il dono … Venne uno stuolo di demoni, quasi stormo avidissimo d’avvoltoi, e come è fama anche grande in quella città, si portò seco con una festa propriamente infernale quell’infelice cadavere, né mai più comparve. Rispetto alle Chiese, miei Uditori, rispetto alle Chiese, perché tali castighi si preparano ancor per voi, se profanerete con sguardi lascivi, con amori impuri, con vanità scandalose con discorsi laidi i Templi di Dio.

QUARESIMALE (XXIV)

FESTA DI SAN GIUSEPPE (2023)

FESTA DI SAN GIUSEPPE 2023

Sancta Missa

San Giuseppe, Sposo della B. V. Maria, Conf.

Doppio di 1* classe. – Paramenti bianchi.

La Chiesa onora sempre, con Gesù e Maria, San Giuseppe, specialmente nelle feste di Natale; ecco perché il Vangelo di questo giorno è quello del 24 dicembre. La Chiesa diede a questo Santo fin dall’VIII sec, secondo un calendario copto, un culto liturgico nel giorno 20 luglio. Alla fine del XV sec. la sua festa fu fissata al 19 marzo e nel 1621 Gregorio XV l’estese a tutta la Chiesa. – 1870 Pio IX proclamò San Giuseppe protettore della Chiesa universale. Questo Santo, « della stirpe reale di Davide », era un uomo giusto (Vang.) e per il suo matrimonio con la Santa Vergine ha dei diritti sul frutto benedetto del seno verginale della Sposa. Una affinità di ordine legale esiste tra lui e Gesù, sul quale esercitò un diritto di paternità, che il Prefazio di San Giuseppe designa delicatamente con queste parole « paterna vice ». Senza aver generato Gesù, San Giuseppe, per i legami che l’uniscono a Maria, è, legalmente e moralmente, il padre del Figlio della Santa Vergine. Ne segue che bisogna con atti di culto riconoscere inquesta dignità o eccellenza soprannaturale di San Giuseppe. Vi erano nella famiglia di Nazareth le tre persone più grandi ed eccellenti dell’universo; il Cristo Uomo-Dio, la Vergine Maria Madre di Dio, Giuseppe padre putativo del Cristo. Per questo al Cristo si deve il culto di latria, alla Vergine il culto di iperdulia, a San Giuseppe il culto di suprema dulia. Dio gli rivelò il mistero dell’incarnazione (ìd.) e « lo scelse tra tutti gli uomini » (Ep.) per affidargli la custodia del Verbo incarnato e della Verginità di Maria [Toccava al padre imporre un nome al proprio figlio. L’Angelo, incaricando da parte di Dio di questa missione, Giuseppe, gli mostra con ciò che, nei riguardi di Gesù, ha gli stessi diritti che se egli ne fosse veramente il padre.]. – L’inno delle Lodi dice che: « Cristo e la Vergine assistettero all’ultimo momento San Giuseppe il cui viso era improntato ad una dolce serenità ». San Giuseppe salì al cielo per godere per sempre faccia a faccia la visione del Verbo di cui aveva contemplato cosi lungamente e da vicino l’umanità sulla terra. Questo santo è dunque considerato giustamente come il patrono ed il modello delle anime contemplative. Nella patria celeste San Giuseppe conserva un grande potere sul cuore del Figlio e della sua Santissima Sposa (Or.). Imitiamo in questo santo tempo la purezza, l’umiltà, lo spirito di preghiera e di raccoglimento di Giuseppe a Nazaret, dove egli visse con Dio, come Mosè sulla nube.

Incipit

In nómine Patris,et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XCI : 13-14.


Justus ut palma florébit: sicut cedrus Líbani multiplicábitur: plantátus in domo Dómini: in átriis domus Dei nostri.

 [Il giusto fiorisce come palma, cresce come cedro del Libano: piantato nella casa del Signore: negli atrii della casa del nostro Dio.]

Ps XCI: 2.
Bonum est confiteri Dómino: et psállere nómini tuo, Altíssime.
[É bello lodarTi, o Signore: e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

Justus ut palma florébit: sicut cedrus Líbani multiplicábitur: plantátus in domo Dómini: in átriis domus Dei nostri.

[Il giusto fiorisce come palma, cresce come cedro del Libano: piantato nella casa del Signore: negli atrii della casa del nostro Dio.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Sanctíssimæ Genetrícis tuæ Sponsi, quǽsumus. Dómine, méritis adjuvémur: ut, quod possibílitas nostra non óbtinet, ejus nobis intercessióne donétur:

[Ti preghiamo, o Signore, fa che, aiutati dai meriti dello Sposo della Tua Santissima Madre, ciò che da noi non possiamo ottenere ci sia concesso per la sua intercessione]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli XLV: 1-6.

Diléctus Deo et homínibus, cujus memória in benedictióne est. Símilem illum fecit in glória sanctórum, et magnificávit eum in timóre inimicórum, et in verbis suis monstra placávit. Glorificávit illum in conspéctu regum, et jussit illi coram pópulo suo, et osténdit illi glóriam suam. In fide et lenitáte ipsíus sanctum fecit illum, et elégit eum ex omni carne. Audívit enim eum et vocem ipsíus, et indúxit illum in nubem. Et dedit illi coram præcépta, et legem vitæ et disciplínæ.

[Fu caro a Dio e agli uomini, la sua memoria è in benedizione. Il Signore lo fece simile ai Santi nella gloria e lo rese grande e terribile ai nemici: e con la sua parola fece cessare le piaghe. Lo glorificò al cospetto del re e gli diede i comandamenti per il suo popolo, e gli fece vedere la sua gloria. Per la sua fede e la sua mansuetudine lo consacrò e lo elesse tra tutti i mortali. Dio infatti ascoltò la sua voce e lo fece entrare nella nuvola. Faccia a faccia gli diede i precetti e la legge della vita e della scienza].

Graduale

Ps XX :4-5.
Dómine, prævenísti eum in benedictiónibus dulcédinis: posuísti in cápite ejus corónam de lápide pretióso.

[O Signore, lo hai prevenuto con fauste benedizioni: gli ponesti sul capo una corona di pietre preziose.]

V. Vitam pétiit a te, et tribuísti ei longitúdinem diérum in sæculum sæculi.

[Ti chiese vita e Tu gli concedesti la estensione dei giorni per i secoli dei secoli].

Ps CXI: 1-3.
Beátus vir, qui timet Dóminum: in mandátis ejus cupit nimis.
V. Potens in terra erit semen ejus: generátio rectórum benedicétur.
V. Glória et divítiæ in domo ejus: et justítia ejus manet in sæculum sæculi.

[Beato l’uomo che teme il Signore: e mette ogni delizia nei suoi comandamenti.
V. La sua progenie sarà potente in terra: sarà benedetta la generazione dei giusti.
V. Gloria e ricchezza sono nella sua casa: e la sua giustizia dura in eterno].

Evangelium

Sequéntia + sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt 1: 18-21.

Cum esset desponsáta Mater Jesu María Joseph, ántequam convenírent, invénta est in útero habens de Spíritu Sancto. Joseph autem, vir ejus, cum esset justus et nollet eam tradúcere, vóluit occúlte dimíttere eam. Hæc autem eo cogitánte, ecce, Angelus Dómini appáruit in somnis ei, dicens: Joseph, fili David, noli timére accípere Maríam cónjugem tuam: quod enim in ea natum est, de Spíritu Sancto est. Páriet autem fílium, et vocábis nomen ejus Jesum: ipse enim salvum fáciet pópulum suum a peccátis eórum.

[Essendo Maria, la Madre di Gesù, sposata a Giuseppe, prima di abitare con lui fu trovata incinta, per virtù dello Spirito Santo. Ora, Giuseppe, suo marito, essendo giusto e non volendo esporla all’infamia, pensò di rimandarla segretamente. Mentre pensava questo, ecco apparirgli in sogno un Angelo del Signore, che gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria come tua sposa: poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, cui porrai nome Gesù: perché egli libererà il suo popolo dai suoi peccati].

Sermone di san Bernardo Abbate
Omelia 2 su Missus, verso la fine


Chi e qual uomo sia stato il beato Giuseppe, argomentalo dal titolo onde, sebbene in senso di nutrizio, meritò d’essere onorato così da essere e detto e creduto padre di Dio; argomentalo ancora dal proprio nome, che, come si sa, s’interpreta aumento. Ricorda in pari tempo quel gran Patriarca venduto altra volta in Egitto; e sappi ch’egli non solo ha ereditato il nome di quello, ma ne ha imitato ancora la castità, ne ha meritato l’innocenza e la grazia. E se quel Giuseppe, venduto per invidia dai fratelli e condotto in Egitto, prefigurò la vendita di Cristo; il nostro Giuseppe, fuggendo l’invidia d’Erode, portò Cristo in Egitto. Quegli per rimaner fedele al suo padrone, non volle acconsentire alle voglie della sua padrona: questi, riconoscendo vergine la sua Signora madre del suo Signore, si mantenne continente e fu il suo fedele custode. A quello fu data l’intelligenza dei sogni misteriosi; a questo fu concesso d’essere il confidente e cooperatore dei celesti misteri. Il primo conservò il frumento non per sé, ma per tutto il popolo: il secondo ricevé la custodia del Pane vivo celeste e per sé e per tutto il mondo. Non v’ha dubbio che questo Giuseppe, cui fu sposata la Madre del Salvatore, sia stato un uomo buono e fedele. Voglio dire, « un servo fedele e prudente»

Omelia di san Girolamo Prete
Libr. 1 Commento al cap. 1 di Matteo


Perché fu concepito non da una semplice vergine, ma da una sposata? Primo, perché dalla genealogia di Giuseppe si mostrasse la stirpe di Maria ; secondo, perch’ella non fosse lapidata dai Giudei come adultera: terzo, perché fuggitiva in Egitto avesse un sostegno. Il martire Ignazio aggiunge ancora una quarta ragione perché egli fu concepito da una sposata : affinché, dice, il suo concepimento rimanesse celato al diavolo, che lo credé il frutto non di una vergine, ma di una maritata. Prima che stessero insieme si scoperse che stava per esser madre per opera dello Spirito Santo» Malth. 1, 18. Si scoperse non da altri se non da Giuseppe, al quale per la confidenza di marito non sfuggiva nulla di quanto riguardava la futura sposa. Dal dirsi poi: « Prima che stessero insieme », non ne segue che stessero insieme dopo: perché la Scrittura constata ciò che non era avvenuto.

Omelia di sant’Ambrogio Vescovo
Lib. 4 al capo 4 di Luca, verso la fine


Guarda la clemenza del Signore Salvatore: né mosso a sdegno, né offeso dalla grave ingratitudine, né ferito dalla loro ingiustizia abbandona la Giudea: anzi dimentico dell’ingiuria, memore solo della clemenza, cerca di guadagnare dolcemente i cuori di questo popolo infedele, ora istruendolo, ora liberandone (gl’indemoniati), ora guarendone (i malati). E con ragione san Luca parla prima di un uomo liberato dallo spirito malvagio, e poi racconta la guarigione d’una donna. Perché il Signore era venuto per guarire l’uno e l’altro sesso; ma prima doveva guarire quello che fu creato prima: e non bisognava omettere (di guarire) quella che aveva peccato più per leggerezza di animo che per malvagità.

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

GRANDEZZA E BONTÀ DI SAN GIUSEPPE

Il piccolo figliuolo di Giacobbe, una mattina svegliandosi, diceva ai suoi fratelli e a suo padre: « Io ho sognato una bellissima cosa. Mi trovavo sospeso non so per quale virtù, in mezzo all’azzurro del cielo: ed ecco il sole, la luna e undici stelle fermarsi in giro a me; e adorarmi ». Dopo averlo ascoltato, tutti sgranarono gli occhi e non compresero il significato: quel bambino sarebbe un giorno diventato il Viceré d’Egitto, e suo padre e sua madre e i suoi undici fratelli si sarebbero prostrati a’ suoi piedi implorando un po’ di pane e di misericordia. Il fanciullo sognatore narrò ancora un’altra visione: « Si era nel campo in una giornata ardente di mietitura. Io mieteva ed anche voi mietevate: quand’ecco il mio covone levarsi da solo e starsene ritto mentre i vostri, curvi attorno ad esso, l’adoravano ». I fratelli, tra invidiosi e irosi, scoppiarono a ridere. « Forse che tu sarai il nostro Re? Forse che noi saremo i sudditi della tua minuscola potestà? ». Essi non sapevano come l’avvenire avrebbe dato ragione a quei sogni. Noi invece lo sappiamo dalla storia sacra. Ma noi sappiamo anche come Giuseppe figlio di Giacobbe non è che un’immagine profetica di Giuseppe, il padre putativo di Gesù, lo sposo della vergine Maria. È per lui che in modo più grande e più vero si realizzarono i sogni dell’antico Giuseppe. Vidi quasi solem et lunam et stellas undecim adorare me. Il sole di giustizia e di verità che illumina ogni uomo che viene al mondo è Gesù Cristo. La luna di grazia e di candore è Maria che nella Scrittura è detta splendida più che la luna. Ebbene, nella quieta dimora di Nazareth, Gesù e Maria si curvavano ubbidienti al cenno di Giuseppe, capo della santa famiglia, e lo veneravano affettuosamente. Vidi consurgere manipulum meum et stare; vestrosque manipulos circumstantes adorare. La Chiesa è simile ad un’ampia campagna pronta per la mietitura: S. Giuseppe, patrono della Chiesa universale, vi sta ritto in mezzo a custodirla e a benedirla; mentre intorno a lui accorrono i fedeli da ogni parte. Oh come è grande, come è buono San Giuseppe! Della sua grandezza e della sua bontà dobbiamo parlare quest’oggi, ch’è la sua festa. – GRANDEZZA DI GIUSEPPE. Un retore famoso tesseva un giorno nell’aeropago l’elogio di Filippo il Macedone. Decantate le nobili origini del suo eroe, le ricchezze, la potenza, il coraggio, le vittorie, tacque un istante come se non avesse più nulla d’aggiungere. Ma poi subitamente gridò: « Tutto questo è nulla. Egli fu il padre d’Alessandro, il conquistatore del mondo; ecco la sua gloria immensa ». Anch’io, se vi facessi passare ad una ad una le virtù di S. Giuseppe, potrei infine concludere: « Tutto questo è nulla, la sua gloria eterna è di essere stato il padre custode di Gesù, Salvatore del mondo, e d’essere stato il casto sposo della Vergine Maria, Madre di Dio. Per ciò egli è al disopra dei santi. Questi sono i suoi titoli di nobiltà: consideriamoli singolarmente. a) Sposo di Maria. — Benché Giuseppe e Maria rimanessero per tutta la vita vergini, vivendo insieme come vivrebbero gli Angeli, tuttavia contrassero un legittimo matrimonio; e così S. Giuseppe fu suo sposo vero. Ora, la sposa — come dice anche S. Paolo — è soggetta allo sposo: Maria quindi fu soggetta a S. Giuseppe. Pensate, quanto onore! Sposo di Maria significa essere sposo della creatura più grande che vi fu mai in cielo e in terra, della creatura che fu Madre di Dio. – Sposo di Maria significa essere sposo della Regina degli Angeli, degli Arcangeli, dei Patriarchi, dei Profeti, degli Apostoli, dei martiri; della Regina senza macchia; della Regina di pace. b) Padre di Gesù. — Giuseppe non fu, è vero, il padre naturale di Gesù, perché il Figlio di Dio si fece uomo incarnandosi nel seno purissimo di Maria Vergine per opera dello Spirito Santo. Eppure nel Vangelo più volte è chiamato col nome di padre. Dopo d’aver descritto il mistero della presentazione al tempio, dopo d’aver ricordato le profezie di Simeone, l’Evangelista aggiunge: « Erano suo padre e sua madre meravigliati » (Lc, II, 33). E la Madonna stessa nella gioia di ritrovare il Bambino tra i dottori ricorda S. Giuseppe col nome di padre: « Tuo padre ed io, piangendo, t’abbiamo molto cercato ». Perché, se non cooperò alla sua generazione, S. Giuseppe fu chiamato Padre di Gesù? Per due motivi: perché fu sposo di Maria, e perché di padre ebbe tutta l’autorità e la responsabilità. – Il primo motivo è spiegato da S. Francesco di Sales. « Supponete che una colomba, volando dal suo becco lasci cadere un dattero in un giardino. Il frutto caduto dall’alto s’interra, e sotto l’azione dell’acqua e del sole germoglia, cresce, e diventa una bella palma. Questa palma di chi sarà? Evidentemente del padrone del giardino, come ogni altra cosa è sua che in esso vi nasca. Ora: quella colomba raffigura lo Spirito Santo che lasciò cadere il dattero divino, — il Figlio di Dio, — nel giardino conchiuso dove ogni virtù è fiorita, — il seno di Maria. — E Gesù nacque da Maria; ma appartenendo essa di pieno diritto al castissimo suo sposo, anche Gesù, — palma celeste, — almeno in qualche modo appartiene a Giuseppe ». – Il secondo motivo è spiegato da S. Giovanni Damasceno: « Non è appena la fecondità nel generare che ad alcuno dà il diritto di chiamarsi padre, ma anche l’autorità nel governare, e la responsabilità della vita ». E fu S. Giuseppe che lo sottrasse ad ogni pericolo, che lo allevò in casa sua, che lo fece crescere. Fu S. Giuseppe che insegnò un mestiere al Figlio di Dio, che comandò a Lui come a un garzone. E chissà come tutto tremava in cuore, e come gli si inumidivano gli occhi, quando Gesù gli diceva: « Padre! ». c) Più grande dei Santi. — Se Iddio destina una persona a qualche sublime ufficio, lo riveste di tutte le virtù necessarie per bene adempirlo. Così avendo eletto Maria ad essere sua Madre, la riempì di grazia sopra ogni creatura. Allo stesso modo, in proporzione, avendo eletto S. Giuseppe alla dignità di suo padre putativo e di sposo della Vergine, lo colmò di grazie immense, come nessun altro santo. – Il Vangelo chiama Giuseppe « uomo giusto ». E S. Girolamo spiega che quella parola « giusto » significa che egli possedeva tutte le virtù. Mentre gli altri santi si segnalarono particolarmente chi nell’una chi nell’altra virtù, egli fu perfetto egualmente in tutte le virtù. Per questo il 31 dicembre 1926, nella Basilica di S. Pietro, Pio XI cantando solennemente le litanie dei Santi, immediatamente dopo l’invocazione alla Madonna soggiunse quella a S. Giuseppe : — Sante Joseph intercede prò nobis. – 2. BONTÀ DI GIUSEPPE. Re Assuero, una notte che non poteva prendere sonno, si fece leggere gli annali del suo regno. Il lettore nella quietudine notturna rievocava le gesta del re insonne: le battaglie sanguinose, le vittorie sonanti di grida, i movimenti più trepidi di gioia, e quelli spasimanti di pericolo, ed arrivò ad una congiura. Una congiura ordita da due ufficiali nella stessa reggia: fatalmente il re sarebbe caduto sotto le lame dei cospiratori, se la sagacia vigilante del primo ministro non fosse giunta a svelare la trama iniqua a tempo opportuno. «Fermati!» esclamò Assuero balzando sul letto d’oro… « Chi dunque mi ha salvato? ». « Il primo ministro, sire ». « E quale ricompensa si ebbe? ». « Finora nessuna ». Allora ordinò che al levar del sole il primo ministro fosse rivestito con abiti regali, e cavalcasse il suo cavallo più bello e girasse per le strade di tutta la città, mentre un araldo gridasse davanti a lui: — Così è onorato colui che il re vuol esaltare. — Questi ordini furono eseguiti: e chiunque aveva bisogno di grazia si rivolgeva al primo ministro, sicuro d’essere esaudito dal re. – Ma anche S. Giuseppe, o Cristiani, ha salvato la vita del Re del Cielo, — di Gesù Bambino, — quando la congiura d’Erode ha cercato di soffocarlo nel sangue. E pensate voi che verso il suo salvatore il Re del Cielo sia meno generoso di Re Assuero? Come potrà Iddio negare una grazia quando colui che gliela chiede è San Giuseppe? Si capisce allora come S. Teresa poteva dire: « Non si è mai sentito che alcuno abbia ricorso alla bontà di S. Giuseppe e non sia stato esaudito. Se non mi credete, per amor di Dio vi supplico a farne la prova, e mi crederete ». Gesù predicando alle turbe insegnava: « Chi avrà dato anche solo un bicchier d’acqua chiara all’ultimo povero di questo mondo in Nome mio, avrà gran mercede ». Quale mercede non avrà dunque in Paradiso S. Giuseppe che, non appena un bicchier d’acqua all’ultimo poverello, ma per trent’anni ha nutrito e protetto in casa sua il Figlio di Dio? Rallegriamoci: presso il trono dell’Altissimo abbiamo un protettore onnipotente e buono, che può e desidera soccorrerci in tutti i travagli della vita. La vita è un peso, ha detto S. Paolo, e noi lo esperimentiamo ogni giorno: peso per i dolori, peso per i lavori, peso per la morte. a) Ricorriamo a S. Giuseppe nel dolore. — Tutta la vita non la passò forse in patimento? Ricordate la notte di Natale: nell’albore del verno bussò invano di porta in porta, e fu costretto a porre nella greppia delle bestie il Figlio di Dio. Ricordate la sua fuga, lontano dai parenti, dal paese, dalla bottega, da’ suoi affari. Ricordate i tre giorni di affannosa ricerca, quando lo smarrì in Gerusalemme. Oh! insegni anche a noi a far la volontà di Dio quando siamo tribolati; ci dia la pazienza di vivere in questa valle di lacrime; ci conforti. h) Ricorriamo a S. Giuseppe nel lavoro. — Ci sono alcune volte in cui gli affari vanno male, ed il guadagno manca; in cui ci sembra d’andare in rovina, noie la nostra famiglia. Alziamo lo sguardo a lui: queste angustie egli le ha provate. Chi sa quante volte nella bottega nazarena si sarà sentito accasciato sotto la fatica,e quante volte anch’egli avrà visto i suoi modesti affari prendere una cattiva piega, e forse avrà pianto nel timore di far duramente soffrire la Vergine e il Figlio, dicui aveva la custodia e la responsabilità. Questo Santo che prima di noi ha provato quello che soffriamo noi, non ci negherà nulla. Ma avanti d’esigere che ci ascolti, bisogna sforzarci sull’orma delle sue virtù. Siamo onesti nel lavoro come onesto era lui? c) Ricorriamo a S. Giuseppe per una buona morte. — Morir bene è la cosa più importante di questo mondo. Eppure non è cosa facile: i progressi della civiltà, automobili, treni, velivoli, navi, hanno segnato un crescendo di morti improvvise; la corruzione dei costumi ha segnato un crescendo di morti impenitenti. Occorre il protettore per una morte buona: è S. Giuseppe. Ed invero nessuno ha fatto una morte buona come la sua. Quando Gesù non ebbe più bisogno di chi lo nutrisse e lo allevasse, egli si sentì male ed entrò in agonia. Da una parte aveva la Madonna che piangeva e pregava; dall’altra aveva Gesù che gli sosteneva la testa languida e gli sussurrava: « Grazie di tutto quello che mi hai fatto; ora muori in pace. Muori nel mio bacio, e discendi al Limbo ove annunzierai che l’ora della redenzione è ormai giunta. Pochi anni, e passerò di là a prenderti per sollevarti nel Paradiso che dischiuderò con le mie mani che saranno trafitte ». S. Giuseppe non risponde che non ha più la forza: solo accenna a sorridere e muore. – « Oh che anch’io possa morire così! » sospira ognuno di noi, pensando a quelle beata fine. Questa sarebbe la grazia più bella e più grande che S. Giuseppe ci possa fare. Ma la morte del Giusto, o Cristiani, l’otterrà soltanto chi nella vita l’avrà imitato ed invocato.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps LXXXVIII: 25.


Véritas mea et misericórdia mea cum ipso: et in nómine meo exaltábitur cornu ejus. [La mia fedeltà e la mia misericordia sono con lui: e nel mio nome sarà esaltata la sua potenza].

Secreta

Débitum tibi, Dómine, nostræ réddimus servitútis, supplíciter exorántes: ut, suffrágiis beáti Joseph, Sponsi Genetrícis Fílii tui Jesu Christi, Dómini nostri, in nobis tua múnera tueáris, ob cujus venerándam festivitátem laudis tibi hóstias immolámus.

[Ti rendiamo, o Signore, il doveroso omaggio della nostra sudditanza, prengandoTi supplichevolmente, di custodire in noi i tuoi doni per intercessione del beato Giuseppe, Sposo della Madre del Figlio Tuo Gesù Cristo, nostro Signore, nella cui veneranda solennità Ti presentiamo appunto queste ostie di lode.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

Præfatio
  de S. Joseph

… Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beáti Joseph débitis magnificáre præcóniis, benedícere et prædicáre. Qui et vir justus, a te Deíparæ Vírgini Sponsus est datus: et fidélis servus ac prudens, super Famíliam tuam est constitútus: ut Unigénitum tuum, Sancti Spíritus obumbratióne concéptum, paterna vice custodíret, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Coeli coelorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti júbeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno: noi ti glorifichiamo, ti benediciamo e solennemente ti lodiamo di S. Giuseppe. Egli, uomo giusto, da te fu prescelto come Sposo della Vergine Madre di Dio, e servo saggio e fedele fu posto a capo della tua famiglia, per custodire, come padre, il tuo unico Figlio, concepito per opera dello Spirito Santo, Gesù Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus:

Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt 1: 20.


Joseph, fili David, noli timére accípere Maríam cónjugem tuam: quod enim in ea natum est, de Spíritu Sancto est.

[Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria come tua sposa: poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo].

Postcommunio

Orémus.
Adésto nobis, quǽsumus, miséricors Deus: et, intercedénte pro nobis beáto Joseph Confessóre, tua circa nos propitiátus dona custódi.

[Assistici, Te ne preghiamo, O Dio misericordioso: e, intercedendo per noi il beato Giuseppe Confessore, propizio custodisci in noi i tuoi doni].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XII – ” LITTERAS A VOBIS”

Anche in questa Lettera Enciclica, indirizzata ai Vescovi brasiliani, si coglie la preoccupazione del Santo Padre per l’educazione dei Sacerdoti in primis, e poi dei giovani ed ignoranti affinché con la conoscenza acquisita e l’esempio dei Pastori, possano camminare lungo la via della salvezza. Saggio era e rimane ancor oggi il proposito di una formazione cattolica che modelli i costumi dei popoli in senso cristiano e faccia fiorire le virtù cristiane tra i fedeli e la santità eccellente tra i Prelati. Il “chiodo” del Pontefice romano resta sempre la formazione dei Seminari affinché preparino Sacerdoti autenticamente diffusori delle verità evangeliche, del messaggio salvifico, e della meta da raggiungere in Cielo. Era quello che avevano compreso bene anche i nemici della Chiesa di Cristo, i settari ipocriti pseudofilantropi guidati dall’angelo decaduto negli inferi, che hanno provveduto per tempo a diffondere la “zizzania” della vana e falsa filosofia, della teologia rinnovata da uno spirito modernista paganeggiante, per sfociare poi nello gnosticismo più abietto, come oggi vediamo nell’antichiesa insediata in Vaticano dal 26 ottobre del 1958, che ha messo in scena in falso concilio guidato da un “Illuminato” capo delle logge più infernali per ribaltare la dottrina cristica del culto divino, sostituendola con una ideologia umanista che nega i diritti di Dio per attribuirli all’uomo, la creatura che detronizza il Creatore e rivendica tutti i vizi ed i libertinaggi, anche i più vergognosi ed innominabili, come “diritti dell’umanità”. Dio misericordioso e giusto li fa procedere riservandosi poi ogni diritto nell’esercizio della sua giustizia eterna … e là sarà pianto e stridor di denti..

S. S. LEONE XIII

LITTERAS A VOBIS

Agli Arcivescovi e ai Vescovi del Brasile.

L’anno scorso abbiamo ricevuto la vostra lettera che annunciava con gioia l’aggiunta di una nuova provincia ecclesiastica e la fondazione di quattro nuovi vescovati. – Questo nuovo segnale di sollecitudine apostolica nella vostra nazione è stato certamente motivo di gioia. Infatti, tra le molte cause del declino del Cattolicesimo tra di voi, c’è il fatto che il numero dei Vescovi è troppo esiguo per le dimensioni smisurate della regione e per la distribuzione ineguale dei suoi abitanti. Di conseguenza, i Vescovi non hanno potuto esercitare la vigilanza che desideravano sul clero e sulle greggi a loro affidate. Non erano in grado né di allontanare gli inadatti né di promuovere la forza e la dignità del nome cattolico. Perciò avete dato prova del vostro zelo pastorale quando, riuniti a San Paolo, avete chiesto al Romano Pontefice di allargare la Gerarchia episcopale. Abbiamo accettato volentieri di accogliere la vostra richiesta. – Ora c’è speranza di un fecondo incremento del patrimonio cristiano, dal momento che avete più Vescovi; tuttavia, ognuno di voi deve applicare i rimedi opportuni ai mali che si stanno diffondendo ovunque. A questo proposito, desideriamo raccomandarvi alcune idee utili per incrementare la fede e la pietà cristiana.

Responsabilità dei Sacerdoti

2. In primo luogo, fate insegnare agli uomini che si preparano agli Ordini sacri le cose migliori, quelle di cui c’è più bisogno e che li metteranno in grado di insegnare le verità cattoliche e di difenderle strenuamente contro tutti gli attacchi. Troppo spesso l’esperienza quotidiana rende evidente che laddove i ministri mancano di un’adeguata conoscenza dottrinale, il loro popolo soffre generalmente di ignoranza della fede e della Religione. Infatti, è dalla bocca del Sacerdote che i fedeli dovrebbero apprendere la legge: Egli è l’angelo del Signore. Per questo leggiamo l’annuncio: le labbra del Sacerdote custodiranno la conoscenza.(Mal II.6. ). Anche l’Apostolo menziona la conoscenza tra le altre ragioni per dimostrarsi vostro servo in Gesù.( 2 Cor IV. 6.) E dove manca questa conoscenza, ne consegue un male anche per i Sacerdoti: essi sono condannati dal popolo, e Dio esige anche una pena per la loro negligenza. Perciò vi ho anche resi spregevoli e infimi davanti a tutti i popoli”. (Mal II.9.) – Ma l’abbellimento del sapere e la sua difesa non portano mai alla meta se sono separati dalla santità di vita e dai costumi. Infatti, la conoscenza senza amore non costruisce, ma gonfia.(1 Cor VIII. 1.) Questa è la pratica abituale dell’uomo. Sebbene Cristo abbia insegnato che l’apprendimento debba essere accettato dai sacri Ministri senza tener conto delle loro azioni non conformi alla dottrina, tuttavia gli uomini sono più influenzati da ciò che vedono che da ciò che sentono. Per questo motivo leggiamo la chiara testimonianza di Dio Salvatore, che non solo fu il Maestro dei pastori ma divenne anche il loro modello, che iniziò a fare e a insegnare. Pertanto, le azioni del Sacerdote devono confermare la dottrina che predica e raccomanda. Prima di ogni altra cosa, colui che è incaricato di governare una parrocchia non deve essere insofferente al lavoro. Chiamato alla vigna del Signore, la coltivi diligentemente, consapevole di dover rendere un giorno o l’altro conto delle anime che gli sono state affidate. E non lavora invano se in ogni momento e in ogni cosa si mantiene fedele all’apprendimento. Dobbiamo sì combattere strenuamente per Cristo, ma solo per volontà e autorizzazione di coloro che Cristo ha scelto come leader.

Seminari e insegnanti

3. Formare questi aiutanti per voi stessi, Venerabili Fratelli, è il vostro compito. L’esperienza insegna infatti che i futuri Sacerdoti saranno quelli che avete avuto cura di formare. Avete il luogo, i Sacri seminari, dove potete formare Ministri per i vostri desideri e per quelli della Chiesa, come approvati da Dio, operai che non hanno bisogno di vergognarsi.(2 Tm II. 15.) Il nome stesso di Seminario dice per quale grande scopo sono stati eretti. Perciò incoraggiate la crescita e la prosperità dei Seminari ecclesiastici che già avete, sia per lo studio del sapere sacro che per la formazione delle anime. Affinché questa formazione proceda in modo adeguato, sono necessari i migliori insegnanti, che non solo devono essere dotati di una solida cultura, ma devono anche insegnare la dottrina in modo corretto e fedele secondo i Nostri precetti. Affinché il giovane clero si impregni del vero spirito della Chiesa e coltivi la virtù, le guide spirituali devono essere scelte con cura. Inoltre, il loro lavoro deve essere aiutato e perfezionato con tutta la sollecitudine delle vostre fatiche. Ma nelle diocesi in cui non ci sono ancora Seminari, i Vescovi usino ogni mezzo per istituirne al più presto di eccellenti. Il Concilio di Trento si è occupato di questo, e anche Noi lo abbiamo considerato nella Nostra lettera apostolica del 27 aprile 1892. La libertà di educazione che prevale ora nel vostro Paese vi dà una maggiore facilità nel fare ciò che abbiamo raccomandato riguardo all’organizzazione degli studi. – A questo scopo avete anche un grande aiuto nel collegio per chierici che Pio IX si è impegnato a fondare per la comodità del Sud America e che anche Noi abbiamo promosso e favorito. Il suo esito soddisfa felicemente le nostre aspettative. Ricordiamo con gioia che molti di voi si sono laureati in questo collegio. Vi incoraggiamo a inviare a Roma giovani particolarmente promettenti per i loro studi, e a utilizzarli in seguito in modo appropriato come insegnanti o per qualsiasi altro scopo.

Ordini religiosi soggetti all’autorità dei Vescovi

4. È difficile esprimere a parole i vantaggi per il vostro ministero sacro che la comunità degli Ordini religiosi vi porterà. Con la Nostra provvidenza apostolica abbiamo deciso di ripristinare l’osservanza originale dei loro istituti dalle perdite dei tempi passati. A tal fine, il 3 settembre 1890 abbiamo stabilito che le comunità religiose autoctone siano soggette all’autorità dei Vescovi. – In una questione così utile e importante confidiamo che la vostra collaborazione non mancherà. Sono stati ottenuti risultati piacevoli, operati a questo scopo sotto la direzione del Venerabile Fratello Girolamo [Gotti], Arcivescovo di Petra, Internunzio della Sede Apostolica presso il vostro governo. Affinché questi inizi possano progredire sempre di più ed essere portati al fine desiderato, vi esortiamo a lavorare diligentemente in questa materia per la Religione e soprattutto per le vostre greggi. Nel frattempo, le comunità religiose, sia maschili che femminili, si congratulano per aver accolto di buon grado i Nostri comandi e per essersi mostrate pronte alla restituzione dell’istituto originario di ciascuna.

Esigenze dei fedeli

5. Questi argomenti riguardano la corretta educazione e applicazione del clero al sacro Ministero. Ma le esigenze dei fedeli richiedono il vostro impegno non meno di quelle dei fedeli. Nei loro confronti, ciò che ha la precedenza è che i bambini e gli ignoranti siano adeguatamente istruiti sugli elementi della nostra santissima Religione; ciò richiede l’incessante diligenza dei Pastori. Poi, dove è pubblicamente permesso, si deve organizzare l’istruzione per i giovani, in modo che non siano costretti a frequentare le strutture sportive degli eretici o a frequentare scuole in cui la disciplina cattolica non sia menzionata se non per essere calunniosamente derisa, con grande danno per la fede e i buoni costumi. – Inoltre, poiché le menti siano rafforzate e stimolate dal consiglio e dall’esempio reciproco a fare e a soffrire grandi cose per la Religione, avrete un buon merito se incoraggerete e convincerete i laici, soprattutto i giovani, a unirsi alle società cristiane. Le abbiamo spesso elogiate nelle esortazioni come istituzioni che si sforzano di prendersi cura dei bisogni della Religione e di migliorare i vantaggi dei poveri; allo stesso tempo, diminuiscono l’attrattiva di quelle associazioni che abusano del titolo di pubblica carità, poiché si oppongono molto al benessere della Chiesa e dello Stato.- Inoltre, non mancate di rendervi conto di quanta influenza nel bene e nel male, soprattutto in questi nostri tempi, abbiano acquisito le riviste e simili scritti popolari. Usate queste armi in difesa del nome cristiano, con la guida dell’Episcopato adeguatamente preservata e con tutto il rispetto dovuto al potere civile. Infine, tutti i Cattolici dovrebbero ricordare che per la Chiesa è di estrema importanza il tipo di uomini che vengono eletti al potere legislativo. Pertanto, preservando i diritti della legge civile, tutti devono sforzarsi di eleggere coloro che uniscono lo zelo per la Religione a quello per gli affari pubblici. Ciò avverrà più facilmente se ciascuno obbedirà all’autorità suprema che governa lo Stato e se ciascuno sosterrà costantemente ciò che abbiamo pubblicato non molto tempo fa nelle Lettere Encicliche sulla costituzione cristiana dello Stato.

6. Per il resto, che fioriscano tra voi l’amore e la concordia degli animi, pensando allo stesso modo con un’anima sola e una sola mente. (Phil 2.2.) Per questo motivo vi raccomandiamo vivamente di condividere spesso i vostri progetti tra di voi e di tenere sinodi episcopali in vari luoghi per soddisfare gli obblighi del vostro sacro ufficio. Avete con voi il Legato della Sede Apostolica, che vi dirà il Nostro pensiero e i Nostri consigli. Inoltre, per l’amore paterno con cui vi abbracciamo, avete Noi in ogni momento pronti a prestare aiuto al vostro lavoro.

7. Dio vi conceda molto benevolmente i doni delle sue benedizioni celesti, che forniscono la forza necessaria per ricoprire l’ufficio pastorale in modo santo e corretto. Come promessa di questi doni, Venerabili Fratelli, impartiamo con grande amore la Benedizione Apostolica a voi, al vostro clero e al popolo che è stato affidato alle vostre cure.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 2 luglio 1894, nel diciassettesimo anno del Nostro pontificato.

LEO XIII

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2023)

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Croce in Gerusalemme.

Semidoppio; Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei o rosacei.

In questa settimana la Chiesa, nell’Ufficio divino, legge la storia di Mosè (Le lezioni del 1° Notturno e i responsori della Domenica e della settimana sono presi dal libro dell’Esodo. È un riassunto di quanto si leggeva anticamente). Là si riassumono due idee. Da una parte Mosè libera il popolo di Dio (2a lezione della Domenica) dalla cattività dell’Egitto e gli fa passare il mar Rosso (Idem 4° e 5° Respons.). Dall’altra egli lo nutre con la manna nel deserto (2° respons. di martedì.); gli annunzia che Dio gli invierà « il Profeta » che è il Messia; gli dà la legge del Sinai (6° e 7° respons. della Domenica) e lo conduce verso la terra promessa ove scorrono latte e miele (2° e 3° respons. di lunedì. –  Nelle catacombe troviamo rappresentata l’Eucaristia per mezzo di un bicchiere di latte o di miele, intorno al quale volano delle api simbolizzanti le anime). Là un giorno sarà costruita Gerusalemme (Com.) e il suo Tempio, fatto ad immagine del Tabernacolo nel deserto, là le tribù di Israele saliranno per cantare ciò che Dio ha fatto per il suo popolo (Intr., Grad., Com.). « Lascia andare il mio popolo perché mi onori nel deserto », aveva detto Dio, per mezzo di Mosè, a Faraone. La Messa di oggi mostra la realizzazione di queste figure. Il vero Mosè, difatti è Cristo, che ci ha liberati dalla schiavitù del peccato (id.) e ci ha fatto passare attraverso le acque del Battesimo; che ci nutre della sua Eucaristia, della quale ne è figura la moltiplicazione dei pani (Vang.), e che ci fa entrare nella vera Gerusalemme, cioè nella Chiesa, figura dei Cielo ove noi canteremo per sempre « il cantico di Mosè e dell’Agnello » (Apocalisse), per ringraziare il Signore della sua bontà infinita a nostro riguardo. È dunque naturale che in questo giorno la Stazione si tenga in Roma a Santa Croce in Gerusalemme. Sant’Elena, madre di Costantino, che abitava sul Celio una casa conosciuta col nome di casa Sessoriana, trasformò questa casa in un santuario per riporvi le insigni reliquie della S. Croce: e questo santuario rappresenta, in qualche modo, Gerusalemme a Roma. Così l’Introito, il Communio e il Tratto parlano di Gerusalemme che S. Paolo paragona nell’Epistola al Monte Sinai. Là il popolo cristiano canterà in mezzo alla gioia « Lætare » (Intr., Epist.) per la vittoria ottenuta da Gesù sulla Croce a Gerusalemme, e sarà evocato il ricordo della Gerusalemme celeste le cui porte ci sono state riaperte da Gesù con la sua morte. Questa è la ragione per cui in altri tempi si benediceva in questa Chiesa e in questo giorno una rosa, la regina dei fiori, perché così la ricordano le formule della benedizione; — uso consacrato dall’iconografia cristiana — essendo il cielo rappresentato da un giardino fiorito. Per questa benedizione si usano paramenti rosacei e così tutti i Sacerdoti possono oggi celebrare coi paramenti di questo colore. Questo uso da questa Domenica è passato alla 3a di Avvento, che è laDomenica Gaudete « Rallegratevi » e che nel mezzo dell’Avvento, viene ad eccitarci con una santa allegrezza a proseguire coraggiosamente la nostra laboriosa preparazione alla venuta di Gesù (Il diacono si riveste della dalmatica e il suddiacono della tunica, segni di gioia. L’organo fa sentire la sua voce armoniosa e l’altare è ornato di fiori.). A sua volta la Domenica Lætare (Rallegratevi) è una tappa in mezzo all’osservanza quaresimale. « Rallegriamoci, esultiamo di gioia », ci dice l’Introito, perché morti al peccato con Gesù durante la Quaresima, presto risusciteremo con Lui mediante la Confessione e la Comunione pasquale. Per questa ragione il Vangelo parla nello stesso tempo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, simbolo dell’Eucaristia e del Battesimo, che si riceveva una volta proprio nel tempo di Pasqua, e l’Epistola fa allusione alla nostra liberazione per mezzo del sacramento del Battesimo (altre volte ricevuto dai catecumeni a Pasqua). E se noi abbiamo avuto la sventura di offendere Dio gravemente, la Confessione pasquale, ci darà la liberazione. Così l’Epistola ci ricorda, con l’allegoria di Sara e di Agar, che Gesù Cristo ci ha liberati dalla schiavitù del peccato.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Is LXVI: 10 et 11

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ.

[Allietati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni.]

Ps CXXI: 1.

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ.

[Alliétati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut, qui ex merito nostræ actiónis afflígimur, tuæ grátiæ consolatióne respirémus.

[Concédici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che mentre siamo giustamente afflitti per le nostre colpe, respiriamo per il conforto della tua grazia].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal IV: 22-31. “Fratres: Scriptum est: Quóniam Abraham duos fílios habuit: unum de ancílla, et unum de líbera. Sed qui de ancílla, secúndum carnem natus est: qui autem de líbera, per repromissiónem: quæ sunt per allegóriam dicta. Hæc enim sunt duo testaménta. Unum quidem in monte Sina, in servitútem génerans: quæ est Agar: Sina enim mons est in Arábia, qui conjúnctus est ei, quæ nunc est Jerúsalem, et servit cum fíliis suis. Illa autem, quæ sursum est Jerúsalem, líbera est, quæ est mater nostra. Scriptum est enim: Lætáre, stérilis, quæ non paris: erúmpe, et clama, quæ non párturis: quia multi fílii desértæ, magis quam ejus, quæ habet virum. Nos autem, fratres, secúndum Isaac promissiónis fílii sumus. Sed quómodo tunc is, qui secúndum carnem natus fúerat, persequebátur eum, qui secúndum spíritum: ita et nunc. Sed quid dicit Scriptura? Ejice ancillam et fílium ejus: non enim heres erit fílius ancíllæ cum fílio líberæ. Itaque, fratres, non sumus ancíllæ fílii, sed líberæ: qua libertáte Christus nos liberávit”.

“Fratelli: sta scritto che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava, e uno dalla libera. Ma quello della schiava nacque secondo la carne, quello della libera, invece, in virtù della promessa. Le quali cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono le due alleanze. L’una del monte Sinai, che genera schiavi, e questa è Agar. Il Sinai, infatti, è un monte dell’Arabia, che corrisponde alla Gerusalemme presente, la quale è schiava coi suoi figli. Ma l’altra, la Gerusalemme di lassù, è libera, ed è la nostra madre. In vero sta scritto: Rallegrati, o sterile, che non partorisci; prorompi in grida di gioia, tu che sei ignara di doglie, poiché i figli della derelitta son più numerosi che quelli di colei che ha marito. Quanto a noi, fratelli, siamo, come Isacco, figli della promessa. E come allora chi era nato secondo la carne, perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così avviene anche adesso. Ma che dice la Scrittura? Scaccia la schiava e il suo figlio, perché il figlio della schiava non sarà erede col figlio della libera. Perciò, noi, o fratelli, non siamo figli della schiava, ma della libera, in virtù di quella libertà con cui Cristo ci ha affrancati”. (Gal. IV, 22-31) .

LA SCHIAVITÙ DELLA LEGGE E LA LIBERTA’ DI GESÙ CRISTO.

Colla Epistola di questa domenica noi tocchiamo, fratelli, un punto fondamentale nella dottrina di San Paolo, non oserei dire famigliarissimo oggi ai nostri Cristiani. La ragione è, in parte nelle mutate condizioni religiose dell’età nostra di fronte a quella che fu davvero l’età di San Paolo. Fervevano allora le dispute fra i Giudei e i Cristiani, quelli attaccati alla loro legge, la legge di Mosè e questi fieri della Religione nuova, la Religione del Vangelo di Cristo. La Legge era la sintesi del giudaismo, di quella che oggi chiamiamo la sinagoga; essa abbracciava tutto l’insieme, per allora, poderoso di aiuti che per secoli e millenni la religione dei Patriarchi e dei Profeti fornì agli ebrei per portarli a Dio. Per allora, ho detto: perché noi sappiamo che quella economia religiosa era un’economia passeggera, transeunte. Un altro ordine di cose doveva inaugurare Iddio nella pienezza dei tempi. Infatti, quando venne N. S. Gesù, e parlò Lui il Verbo suo nuovo, e operò e patì, allora l’umanità accettò il Vangelo, sentì la povertà (relativa) del precedente regime; come chi riesce ad andare oggi in automobile sente la povertà (relativa) delle vecchie carrozze, anche le più veloci e famose. In Paolo questo sentimento fu acutissimo, quasi spasmodico. Aveva respirata con orgoglio l’atmosfera della legge negli anni del suo bollente nazionalismo religioso; dalla chiusa torre della legge aveva guardato con orgoglio il resto dell’umanità, si era irritato fino alla crudeltà quando degli Israeliti come lui, avevano cominciato a parlare di un’altra cosa che non era più la legge e che la superava e si proponeva di sostituirla. E un bel giorno egli Paolo, fece la esperienza di quella novità che aveva fino allora odiata e bestemmiata. – Amò Gesù, ne accettò il Vangelo, la novella buona: buona e nuova. L’accettò con tutta la sua anima. E fu un senso di liberazione. Non la liberazione da un appoggio, che ti fa cadere più in basso; no; liberazione, invece, da un peso, la vera liberazione che ti fa ascendere più in alto, dal mondo della luce, pura e fredda, la sua anima era passata nel mondo del calore. Il mondo della luce era la legge. Proprio così. – La legge, qualunque essa sia, divina od umana, religiosa e civile, ti fa vedere la strada: ecco tutto. Non ti aiuta a percorrerla. In questo la legge somiglia alla filosofia, antica e moderna, anche la filosofia morale ci fa vedere il bene ed il male, ma l’anima ripete col vecchio sapiente: vedo il meglio e l’approvo come tale con la mente, seguo il peggio con la mia volontà. Mancano le forze, l’energia. Gesù ha portato questo al mondo: l’energia che si chiama amore, carità. Il bene non pesa più. Il giogo, senza cessare di essere severo, anzi essendolo diventato anche di più, si è alleggerito. Gesù aveva detto: Il mio giogo è soave, il peso ne è più leggero… in confronto, si intende, del vecchio giogo legale. Lo aveva detto Gesù e lo ripete sotto altra forma e lo corrobora con ragionamenti adatti a quei Farisei con i quali Egli discuteva: sottili, sofistici, disquisitori, ai quali Paolo tiene testa bravamente. E noi dobbiamo riprendere questo insegnamento di libertà non per liberarci dalla Legge morale, ma per sentirci liberi dalla legge per liberarci dalla perfidia, non per amare meno la legge Divina, ma per amarla di più, per osservarla più generosamente e più liberamente. È  la libertà vera dei figli di Dio.

Graduale

Ps CXXI: 1, 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis.

[V. Regni la pace nelle tue fortezze e la sicurezza nelle tue torri.]

Tractus

Ps. CXXIV: 1-2

Qui confídunt in Dómino, sicut mons Sion: non commovébitur in ætérnum, qui hábitat in Jerúsalem.

[Quelli che confídano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno chi àbita in Gerusalemme.]

Montes in circúitu ejus: et Dóminus in circúitu pópuli sui, ex hoc nunc et usque in sæculum.

[V. Attorno ad essa stanno i monti: il Signore sta attorno al suo popolo: ora e nei secoli.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VI:1-15

“In illo témpore: Abiit Jesus trans mare Galilææ, quod est Tiberíadis: et sequebátur eum multitúdo magna, quia vidébant signa, quæ faciébat super his, qui infirmabántur. Súbiit ergo in montem Jesus: et ibi sedébat cum discípulis suis. Erat autem próximum Pascha, dies festus Judæórum. Cum sublevásset ergo óculos Jesus et vidísset, quia multitúdo máxima venit ad eum, dixit ad Philíppum: Unde emémus panes, ut mandúcent hi? Hoc autem dicebat tentans eum: ipse enim sciébat, quid esset factúrus. Respóndit ei Philíppus: Ducentórum denariórum panes non suffíciunt eis, ut unusquísque módicum quid accípiat. Dicit ei unus ex discípulis ejus, Andréas, frater Simónis Petri: Est puer unus hic, qui habet quinque panes hordeáceos et duos pisces: sed hæc quid sunt inter tantos? Dixit ergo Jesus: Fácite hómines discúmbere. Erat autem fænum multum in loco. Discubuérunt ergo viri, número quasi quinque mília. Accépit ergo Jesus panes, et cum grátias egísset, distríbuit discumbéntibus: simíliter et ex píscibus, quantum volébant. Ut autem impléti sunt, dixit discípulis suis: Collígite quæ superavérunt fragménta, ne péreant. Collegérunt ergo, et implevérunt duódecim cóphinos fragmentórum ex quinque pánibus hordeáceis, quæ superfuérunt his, qui manducáverant. Illi ergo hómines cum vidíssent, quod Jesus fécerat signum, dicébant: Quia hic est vere Prophéta, qui ventúrus est in mundum. Jesus ergo cum cognovísset, quia ventúri essent, ut ráperent eum et fácerent eum regem, fugit íterum in montem ipse solus.”

 “In quel tempo Gesù se ne andò di là dal mare di Galilea, cioè di Tiberiade; e seguivalo una gran turba, perché vedeva i miracoli fatti da lui a pro dei malati. Salì pertanto Gesù sopra un monte, e ivi si pose a sedere co’ suoi discepoli. Ed era vicina la Pasqua, solennità de’ Giudei. Avendo adunque Gesù alzati gli occhi e veduto come una gran turba veniva da lui, disse a Filippo: dove compreremo pane per cibar questa gente? Lo che Egli diceva per far prova di lui; imperocché egli sapeva quello che era per fare. Risposegli Filippo: Duecento denari di pane non bastano per costoro, a darne un piccolo pezzo per uno. Dissegli uno de’ suoi discepoli, Andrea, fratello di Simone Pietro: Evvi un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che è questo per tanta gente? Ma Gesù disse: Fate che costoro si mettano a sedere. Era quivi molta l’erba. Si misero pertanto a sedere in numero di circa cinquemila. Prese adunque Gesù i pani, e rese lo grazie, li distribuì a coloro che sedevano; e il simile dei pesci, nuche ne vollero. E saziati che furono, disse ai suoi discepoli: Raccogliete gli avanzi, che non vadano a male. Ed essi li raccolsero, ed empirono dodici canestri di frammenti dei cinque pani di orzo, che erano avanzati a coloro che avevano mangiato. Coloro pertanto, veduto il miracolo fatto da Gesù, dissero: Questo è veramente quel profeta che doveva venire al mondo. Ma Gesù, conoscendo che erano per venire a prenderlo per forza per farlo loro re, si fuggì di bel nuovo da sé solo sul monte” (Io. VI, 1-15).

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LA TENTAZIONE DI FILIPPO

Oramai tutta la Galilea era piena di prodigi del Signore, tutti ne parlavano, tutti desideravano vederlo e toccarlo perché dalla sua Persona raggiava un’invisibile virtù che sanava ogni malanno: quelli del corpo e quelli dell’anima. Perciò le turbe lo seguivano, di là dal lago di Tiberiade, dovunque andasse. E Gesù salì un monte brullo e deserto, e le turbe dietro. Seduto sulla cima, coi discepoli, il Maestro riguardava quella povera gente che grondante e anelante s’affaticava per i viottoli rupestri fino a raggiungere lo spiazzo dov’Egli era ad aspettarli: erano forse cinquemila uomini senza contarvi i fanciulli e le donne che non dovevano essere pochi. Intanto il sole volgeva al suo tramonto, e le folle, lontane da casa nel deserto, avevano fame. Allora Gesù, per tentarlo nella fede e nell’amore, si chiamò vicino Filippo, quell’Apostolo così semplice che una volta gli aveva chiesto: « Fammi vedere il tuo Padre celeste che poi non ti domanderò più niente » (Giov., XIV, 8). « Filippo — gli disse il Signore, — guarda quanta gente: dove e con che cosa possiamo comprare il pane che basti a sfamarla? » Il buon uomo cominciò a pensarci, a tormentarsi, a non raccapezzarci più. Con voce tremante rispose: « Poveri noi, in quali angustie ci troviamo! Ma nemmeno duecento danari basterebbero a dare a ciascun di costoro un frustolo di pane! ». Il Figlio di Dio sapeva bene che voleva fare. Comandò alle turbe di sedere sull’erba dei pascoli, poi prese da un ragazzo, che li aveva, cinque pani d’orzo e due pesci e li moltiplicò. Tutti mangiarono a sazietà e vi fu un avanzo di dodici canestri di frammenti. Chissà con che grandi occhi Filippo avrà guardato il miracolo, e chissà con che pentimento avrà detto a se stesso: « Dunque, Gesù ha fatto così per tentarmi! ed io ignorante non ho capito, e mi sono lasciato scappare la bella occasione per testimoniargli la mia fede nella sua divinità, per testimoniargli il mio piccolo amore nel suo amore infinito ». O Cristiani! La bella occasione che Filippo, l’Apostolo ingenuo, si è lasciato sfuggire, noi l’abbiamo qui. Che cosa sono le croci, le tribolazioni, le malattie, se non una prova che Gesù vuol fare di noi? Diamogli dunque la testimonianza entusiastica del nostro cuore. Come un giorno Filippo, così oggi anche noi, Gesù viene a tentare, non già per indurci a peccato, — che questo è proprio del demonio, e in questo senso nessuno dica di essere tentato da Dio (Giac., I, 13) — ma per sperimentare la nostra virtù. Gedeone mosse alla guerra con trecento uomini: ciascuno portava una tromba, ciascuno portava un’anfora vuota con dentro una fiaccola accesa. Giunsero sul campo verso la mezzanotte: il capitano ordinò improvvisamente che squillassero le trombe e battessero le anfore, perché rompendole apparisse nella notte il lume svelato. E la vittoria fu grande. Proprio così fa Gesù Cristo con noi, suoi soldati: ci fa talvolta gridare dal dolore e ci fa percuotere in tutto ciò che è caduco e terreno, perché risplenda più lucida la nostra virtù (Giudici, VII). – « Allora, oh beato l’uomo che sopporta la tentazione di Gesù! Perché, una volta provato, riceverà la corona di vita che Dio ha promesso agli amici suoi » (Giac., I, 12 – 1. GESÙ CI TENTA NELLE COSE TEMPORALI. Gesù spesso prova i suoi amici nelle cose temporali: 1) nella roba: per sperimentare la nostra fiducia nella Provvidenza; 2) nella salute: per sperimentare la nostra pazienza nelle malattie; 3) nell’onore: per sperimentare la nostra umiltà. a) Gesù ci tenta nella roba. — Nella vita del Beato Cottolengo, si racconta come un certo Cuvertino, panettiere della « Piccola Casa » si presentò per il saldo della partita, che ammontava già a diciotto mila lire. Il Beato, che aveva nemmeno l’ombra di un quattrino, cercò di condirgli il rifiuto con buone parole, rassicurandolo che la Provvidenza non avrebbe mancato per tutti e due. Giunta la sera, mentre il santo Sacerdote pregava e piangeva davanti al Sacramento chiedendo aiuto, il panettiere nella sua casa si struggeva pensando come avrebbe potuto salvarsi dal fallimento se il Cottolengo non gli saldava la fattura. Quand’ecco qualcuno bussa alla sua porta, ed entra uno sconosciuto: « Ditemi, signor Cuvertino, a quale cifra ammonta il debito del Cottolengo con voi? » « A diciotto mila ». « Prendete: fate una ricevuta che domani porterete al Canonico ». Questa non è un’antica parabola; ma un fatto reale. E simile a questo, tanti altri, ogni giorno, avvengono alla « Piccola casa della Provvidenza ». Talvolta anche le nostre famiglie sono provate nelle strettezze della miseria: ricordiamoci che è Gesù che ci tenta, per provare la nostra fiducia. Quel Dio che provvede agli uccelli e ai gigli, quel Dio che fece cadere la manna agli Israeliti affamati e che moltiplicò i pani nel deserto, ha cura anche di noi. Lavoriamo e preghiamo, sperando. b) Gesù ci tenta nella salute. — Il vecchio Tobia, mentre pranzava in un giorno di festa, seppe che sulla piazza giaceva il cadavere d’un israelita. Tosto balza da tavola, corre a prendere il morto, e lo nasconde in casa sua, per seppellirlo cautamente nella notte, ché una legge iniqua lo proibiva. Proprio un giorno che stanco per una di queste opere di misericordia, riposava sotto un murello, gli cadde negli occhi, dall’alto, un non so che d’immondo e divenne cieco. Allora vennero i suoi parenti e i conoscenti a trovarlo, e lo derisero: « To’, che bel guadagno! Hai messo a repentaglio la vita per fare del bene, abbondavi in elemosine, temevi il Signore sopra ogni cosa, ed ecco come sei stato ripagato ». « Non dite così; — rispondeva il Santo; — noi siamo figli del popolo eletto ed aspettiamo quella vita che Dio è per dare a quelli che sopportano in pazienza ». – Quando le malattie ci affliggono, quando penose infermità colpiscono i nostri cari, ricordiamoci di questi generosi sentimenti. È Gesù che ci prova, e non dobbiamo lamentarci, e nemmeno ripetere le bestemmie che dissero i parenti e i conoscenti di Tobia. c) Gesù ci tenta nell’onore. — L’onore, il buon nome, è forse la cosa a cui l’uomo s’attacca più tenacemente. Si sono visti dei re, che dopo aver perso tutto, si consolavano perché non avevano perso l’onore. Gesù talvolta ci prova in questo orgoglio; per insegnarci che più d’ogni cosa nostra dobbiamo amare Iddio. V’era forse una donna più casta di Susanna, la sposa di Ioachim? Eppure ecco che due scellerati, non avendo potuto vincerla nella virtù, la calunniano di cose infami. Tutto il popolo ne è scandalizzato, tutti accusano quella donna che fin allora aveva rispettato come la più onesta figlia d’Israele. I giudici la condannarono a morte e la costrinsero a levarsi il velo con cui coprivasi gli occhi. Susanna levando gli occhi al cielo sperò in Dio contro la stessa speranza: « Dio eterno, — esclamò piena di confidenza — tu le cose occulte conosci come le palesi, tu sai come costoro m’hanno calunniata: ed ecco ch’io muoio; innocente, ma disonorata ». Mentre Susanna veniva condotta alla lapidazione, Dio suscitò il profeta Daniele a salvarla. Capita quaggiù, e non di rado, di sentirsi calunniati ingiustamente; di vedersi sprezzati dal prossimo, segnati a dito come malfattori, disonorati. È questa una delle prove più dure, ma pur essa è una prova che Gesù ci manda per sperimentare la nostra umiltà. Non disperiamoci, non scagliamoci contro i calunniatori ma sopportiamo; anche per noi, come già per Susanna, verrà il giorno della verità, se non in questa vita nell’altra davanti a Dio. E sarà più bello. 2. GESÙ CI TENTA ANCHE NELLE COSE SPIRITUALI Con le aridità. — Santa Teresa di Gesù per due anni non seppe aprir bocca a pregare. Appena si metteva in ginocchio, appena raccoglieva le mani e la mente, subito un fastidio la tormentava così che doveva alzarsi e attendere ad altro. Perfino nella S. Comunione sentiva la sua anima chiusa e lontana, e non poteva dire una parola. E per due anni, invece di fare il ringraziamento, giacché il suo confessore le imponeva di comunicarsi egualmente, si metteva a spolverare le panche della Chiesa. « O Gesù, — disse una volta addoloratissima, — mi hai Tu proprio abbandonata? » E Gesù le rispose: « In tutta la tua vita non hai fatto tanto bene come in questi due anni ». Anche a molti Cristiani capita di perdere il gusto della preghiera e delle opere buone. Guai a quelli che si lasciano vincere dall’aridità e tralasciano di far bene, di pregare, ubbidire al loro confessore! Dimostrerebbero che nella pietà loro non cercano Dio ma se stessi e la propria consolazione. Invece non bisogna scoraggiarsi, ma seguire il consiglio di Davide: « Aspetta che il Signore ritorni, ma intanto conforta il tuo cuore ad agire fortemente » (Ps., XXVI, 14). E poi ricordiamoci che il bene tanto più vale quanto più costa. – Col permettere che il demonio ci lusinghi al male. — Dopo una giornata di terribili tentazioni, superate vittoriosamente, S. Caterina da Siena vide Gesù Cristo venirle incontro: « Signor mio! — esclamò la vergine — e dov’eri Tu un momento fa quando fantasmi turpissimi tutta mi travagliavano? » « Ero nel tuo cuore, e godevo di assistere a così bella lotta » rispose Gesù. « E come fu possibile che il mio Signore rimanesse in un cuore infestato da pensieri cattivi »? Cristo le soggiunse: « Ogni volta che tu resistevi alla tentazione, compivi il più bell’atto d’amore che tu sai fare; ed ogni vittoria rendeva la tua anima più bella che non l’avrebbero resa molt’anni di penitenze e di preghiere ». – Ecco perché il Signore anche a noi permette le tentazioni del demonio; ecco perché non dobbiamo lamentarci e nemmeno spaventarci se per giorni interi satana rugge intorno alla nostra anima. La lotta ci rende robusti, la lotta ci rende più cari a Dio, la lotta ci acquista il premio in Paradiso. – È scritto nella storia sacra che Giuseppe, elevato alla più alta dignità dell’Egitto. vide arrivare dalla terra di Chanaan colpita dalla carestia i suoi fratelli, quei fratelli che erano stati invidiosi di lui, che l’avevano sepolto nella cisterna, che l’avevano venduto come uno schiavo di poco prezzo. « Donde venite? » disse loro fingendo cipiglio crucciato. « Dalla terra di Chanaan per comprare il grano, perché là si muore di fame, risposero tremanti. « Invano; mentite! » ripigliò Giuseppe mostrando di non riconoscerli e di metterli alla prova. « Voi siete spie: siete arrivati in Egitto per conoscere i luoghi meno fortificati del paese ». Essi si prostrarono per terra e supplicarono: « Noi siamo tuoi servi, noì siamo dodici fratelli: il più piccolo, Beniamino, è rimasto a casa col vecchio padre; ne avevamo un altro, Giuseppe… ma adesso non c’è più ». Il Vice Re soggiunse: « La cosa sta come ho detto: voi siete spie! ». Allora pallidi e spauriti si dissero l’un l’altro: « Con ragione soffriamo, abbiamo venduto un fratello, abbiamo disprezzato l’angoscia ch’era nel suo cuore, abbiamo riso sulle sue preghiere: per questo sopra di noi è venuta la tribolazione ». Essi pensavano che Giuseppe non li intendesse, ma egli tutto capiva e voltandosi da una parte pianse per qualche momento. Poi ricompose la faccia scura. Avertit se parumper et flevit… et reversus quasi ad alienos durius loquebatur (Gen., XLII, 1,24). È così che nostro Signore Gesù Cristo tenta anche noi, suoi fratelli, che l’abbiamo perseguitato, che l’abbiamo venduto più volte, che l’abbiamo sepolto nella cisterna dei nostri peccati. Egli finge di non riconoscerci più: e ci parla duramente e ci prova con la miseria, con la malattia, con la calunnia, con l’aridità, col permettere al demonio di tentarci. Ma Egli ci ama, e vedendoci soffrire, come Giuseppe nasconde la sua faccia e piange. Avertit se parumper et flevit. Passata la prova, come Giuseppe l’ebreo, così Gesù si disvelerà ai nostri occhi, ci bacerà sulla fronte, e sarà una gioia senza confine. – – L’USO DEI BENI MONDANI. Questa folla assetata di verità che segue Gesù per aspro cammino fin nel deserto, dimenticando la povera natura con le sue necessità, ci insegna quale conto dobbiamo noi fare dei beni terreni. Quæ sursum sunt quærite! La nostra dimora non è questa, ma è lassù in Paradiso, cerchiamo dunque i beni non di terra, ma del Paradiso. – Ma intanto noi siamo in esilio, a contendere con le dure esigenze della vita materiale, perciò, non possiamo totalmente prescindere dalle cose terrene: poiché alcuni beni sono necessari alla nostra vita; altri, quantunque superflui, possono allietarci l’esistenza e li possiamo veder raffigurati in tutto quel pane che è sopravanzato alla fame della folla; in fine ci sono ancora quaggiù dei beni che ci elevano sopra gli altri uomini dandoci una maggior gloria e potenza. Deduciamo dal santo Vangelo di questa domenica in qual modo dovremo noi diportarci con questi diversi beni terreni e fugaci, se non vogliamo perdere l’unico Bene celeste ed eterno. 1. I BENI NECESSARI ALLA VITA TERRENA. Gesù un giorno, in mezzo ai suoi dodici, disse stupendamente così: « Non crucciatevi per il vitto, e come vi procurerete da mangiare; non crucciatevi per le vesti e di come vi procurerete da vestire. La cosa più importante è l’anima: tutto il resto passa e finisce. Guardate i corvi che non seminano, non coltivano, non mietono, non hanno granai: eppure non muoiono di fame. Guardate i gigli che non hanno niente, non sanno neppur filare: ebbene, non sono nudi, ma hanno un vestito che non ebbe l’eguale neanche Salomone nei giorni della sua gloria. Ma se il Signore ha tanta premura per i corvi e per i gigli, quanta non ne avrà per voi, creati per amarlo in tutta l’eternità!… ». Queste parole infondono nell’anima di ciascuno una quieta fiducia nella divina Provvidenza che dal Cielo ci sorveglia e conosce ogni nostro bisogno. Quærite primus regnum Dei. La nostra premura principale deve essere per ciò che è più importante: la vita eterna. Il resto ci sarà aggiunto, se però non è di impedimento.  E così hanno fatto le turbe: hanno cercato per primo il bene della loro anima senza preoccuparsi del corpo e delle sue necessità, e nel deserto non sono morti né di fame, né di sete. Facite homines discumbere… et distribuit discumbentibus quanmem volebant…. impleti sunt. Quando il popolo di Israele, emigrante dall’Egitto, si trovò affamato nella solitudine del deserto, la Provvidenza di Dio fece piovere per loro la manna. Ci furono degli ingordi che per la gretta paura di non averne abbastanza, ne raccolsero per più giorni. Ma al giorno dopo, protendendo la loro avida mano ai vasi colmi, trovarono che la celeste manna s’era tramutata in vermi schifosi. Cristiani: quegli uomini che dimenticano gli interessi dell’anima. per il cibo materiale e le cose, siano pur necessarie, della vita corporale, dopo la giornata di questa vita, troveranno il frutto dei loro sudori tramutato in vermi. – 2. I BENI SUPERFLUI ALLA VITA TERRENA. Sulla terra non ci sono appena uomini che hanno da sudare per vivere giorno per giorno; ma ci sono anche quelli che vivono in una discreta agiatezza ed alla cui mensa c’è sempre qualche cosa che sopravanza. Ebbene, è per essi la lezione che il divin Maestro c’insegna oggi dal deserto: « Colligite fragmenta, quæ superaverunt, ne pereant ». Nel castello dei signori d’Aquino c’era qualche cosa di più del semplice necessario. Ed era un immenso piacere per il giovanetto Tommaso quando poteva raccogliere un poco di quel superfluo per distribuirlo ai poverelli di Cristo. Il padre suo che vedeva ogni giorno scomparire dalle dispense non poche vivande, rimproverò acerbamente il figliuolo e gli proibì di distribuire ai poveri qualsiasi altra cosa senza il suo permesso. Il giovane però, che non ragionava più con la prudenza degli uomini, ma con la prudenza di Dio, continuò ancora a sfamare i poveri ed a colmare la loro indigenza coll’abbondanza della casa paterna. Ma una volta fu sorpreso dal padre con un grosso fardello sotto il braccio. « Voglio vedere che cosa tieni! » gridò il genitore accigliato, precludendogli la via. Il figliuolo impallidì, quasi tremando. Ma il padre non si piegò: « Voglio vedere!… ». Il piccolo Tommaso guardò il padre con occhi pieni di lagrime, poi aprì il mantello e … lasciò cadere. E apparve, sotto gli occhi attoniti del padre e del figlio, un gran fascio di freschissime rose. Tutto quello che noi diamo ai poveri non è perduto, ma è raccolto: « manus pauperis est gazophilacium Christi », ha detto S. Giovanni Crisostomo. Tutto quelle che noi diamo ai poveri per amor di Cristo, si tramuterà in fiori per la nostra immarcescibile corona del Paradiso. Invece quello che si consuma in esagerati divertimenti, in teatri, nei caffè, nei giuochi, nelle intemperanze, questo non è raccolto e perisce. Colligite fragmenta quæ superaverunt, ne pereant. Quello che si consuma nel seguire le mode pazze e costose, in vesti di seta, in pellicce finissime, in collane, gingilli, questo certo non è raccolto, ma perisce. E talvolta con queste mode sciocche e forse indecenti, si ha il coraggio di presentarsi al tempio di Dio, dove ci sono i poveri che cercano piangendo quello che Dio dà ai corvi e ai gigli: un pane quotidiano e una veste. – 3. IL BENE DELL’ONORE MONDANO. Avendo Gesù conosciuto che il popolo sarebbe accorso per farlo re — ut facerent eum regem — fuggì segretamente sui monti. Questo esempio si ripercosse nella vita di tutti i Santi: leggendo la vita di questi eroi, traspare da ogni loro azione quanto aborrissero da ogni onore, dopo che il loro Maestro aveva preferito fuggire sui monti, piuttosto che lasciarsi proclamare re da quella folla che aveva mangiato il suo pane. E deve essere stato commovente nel palazzo del marchese Gonzaga assistere ad una strana festa. Erano stati invitati tutti i parenti e l’aristocrazia delle corti amiche. Che cosa poteva arridere di più alla mente sognatrice di un giovane che la lusinga dello splendore, della potenza, della corona? Ed ecco: invece, in mezzo a quegli illustri personaggi, apparire il primogenito del marchese Ferrante Gonzaga, che, senza rimpiangere, solennemente respinse da sé lo splendore, la potenza e la corona marchionale. Getta via i suoi abiti preziosi per indossare una tunica nera, e nascondersi nel convento e confondersi coi poveri e coi sofferenti fino a curarne le piaghe infettive. E quando la peste contratta nell’assistere gli ammalati lo condurrà a morte, egli sorridendo chiuderà gli occhi per vedere quale splendore, quale potenza, quale splendida ed eterna corona gli portano gli Angeli, in compenso ai mondani onori che egli ha respinto per imitare Gesù Cristo. Ma perché Gesù è fuggito quando volevano farlo re? perché gli onori del mondo sono falsi e in sé e da parte di chi li offre. Bugiardi in sé. — 1) Perché c’ingannano: ci fanno credere che siamo più degli altri, e forse ne siamo peggiori, « dicis: quod dives sum locupletatus et nullius egeo: et nescis quia tu es miser et miserabilis et pauper et cœcus et nudus » 2) Perché sono fugaci: e lo dimostra il profeta Ezechiele con una similitudine: « Assur si è innalzato come un altissimo cedro. Il cielo l’ha dissetato con la sua rugiada, la terra l’ha nutrito con la sua sostanza. Ed egli si rizzò nella sua superbia: bello nella sua verdura e foltissimo di rondini. Gli uccelli volavano a porre il nido sotto le sue braccia, e i popoli sotto ai suoi rami cercavano ombra ». Ma la fortuna è troppo breve: il Signore lo colpisce dalla radice e cade a terra. Bugiardi da parte di chi ci onora. — Le turbe volevano proclamare Gesù re, non per un affetto puro; ma per egoismo, per il proprio pane. Gesù sapeva moltiplicare il pane, e quelli nella speranza che a’ suoi sudditi non l’avrebbe mai lasciato mancare, lo vogliono per loro re. Amen, amen dico vobis: quæritis me non quia vidistis signa, sed quia manducastis ex panibus. E quando spiegò che Egli portava al mondo il pane delle anime, l’Eucaristia, tutti lo abbandonarono e più nessuno lo gridò re. – La regina Isabella di Spagna aveva ricchezze, regni, onori, bellezza e tutto quanto nel mondo si può desiderare. Tre giorni dopo la sua morte fu vista da un suo ammiratore: senza ricchezze, senza regni, senza onori, schifosa. Ecco dove vanno a finire tutti i beni temporali e gli onori. Non illudiamoci. Operamini non panem qui perit; sed qui permanet in vitam æternam (Giov.,VI, 27). Procuratevi non già il pane per riempirvi; ma un cibo che nutrisce per la vita eterna.

IL CREDO

 Offertorium

Orémus Ps CXXXIV: 3, 6

Laudáte Dóminum, quia benígnus est: psállite nómini ejus, quóniam suávis est: ómnia, quæcúmque vóluit, fecit in coelo et in terra.

[Lodate il Signore perché è buono: inneggiate al suo nome perché è soave: Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto, in cielo e in terra.]

 Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quæsumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti.

[Ti preghiamo, o Signore, volgi placato il tuo sguardo alle presenti offerte, affinché giòvino alla nostra pietà e alla nostra salvezza.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]


Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.

V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXXI:3-4

Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas, cujus participátio ejus in idípsum: illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini, ad confiténdum nómini tuo. Dómine.

[Gerusalemme è edificata come città interamente compatta: qui sàlgono le tribú, le tribú del Signore, a lodare il tuo nome, o Signore.]

Postcommunio

Orémus. Da nobis, quæsumus, miséricors Deus: ut sancta tua, quibus incessánter explémur, sincéris tractémus obséquiis, et fidéli semper mente sumámus.

[Concédici, Te ne preghiamo, o Dio misericordioso, che i tuoi santi misteri, di cui siamo incessantemente nutriti, li trattiamo con profondo rispetto e li riceviamo sempre con cuore fedele.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (244)

LO SCUDO DELLA FEDE (244)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (13)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

CAPO III

IL SACRIFICIO DIVINO

ART. II

LA CHIESA.

La Chiesa è la congregazione di tutti i fedeli, i quali professano la medesima fede e legge di Gesù Cristo, partecipano dei medesimi Sacramenti, sotto la condotta dei legittimi pastori, e l’ubbidienza del sommo Pontefice Romano. È la società degli uomini con Dio riconciliati per Gesù Cristo. Questa società è destinata a compiere il numero degli eletti in Paradiso, essendo ella il mezzo scelto da Dio per far trionfare la sua gloria e la sua bontà. Avendo Iddio creato l’universo pel trionfo della sua gloria e per isfogo della sua bontà, ne consegue, come dice s. Epifanio con energica espressione, che principio di tutte le cose è la Chiesa cattolica; e fine è il numero degli eletti da lei condotti in Paradiso. Ordinata così da Gesù Cristo, è incaricata da Lui di propagare la verità, le grazie, le virtù. La verità, contenendo il deposito dei sacri dogmi ad essa confidati, e predicandoli continuamente, per sempre, in tutte le parti dell’universo: le grazie traendole da Dio coll’oblazione del Sacrificio, e comunicandole agli uomini coll’amministrare loro i Sacramenti: le virtù col condurre gli uomini a far tutto a gloria di Dio, secondo i precetti della dottrina divina. Per questo divino ministero è detta nella Tradizione « ancella del Signore, » (S. August. in Ps. 88, cont. 2.) incaricata che la è del servizio divino: e s. Agostino la chiama tabernacolo della Divinità: vero trono di Dio in sulla terra la dice s. Pietro Damiano (Op. 6, ad Henric. Ar.): tempio e sacrario della Divinità la saluta s. Ambrogio (Lib. 3 Hexam. cap. 1). Così ella, essendo unita con Dio, e Dio affidandole i tesori, che vuol partecipare agli uomini, tiene in mano tutti i sacri carismi, ossia è padrona e dispensiera di tutte le grazie, e forma sulla terra la vera corona di Dio (S. Hier. in Psal. 20.). Tutti questi doni poi derivano nella Chiesa da Gesù Cristo, che non solamente l’ha lavata, e rigenerata col suo Sangue, ma eziandio si è unito a lei come capo di questa società, di cui i fedeli sono le membra, ed ha promesso di star con essa indivisibile, come il capo non si può dividere più dalle altre membra del corpo (S. August. in Ps. 44, con. 2.). Questo gran Capo in cielo, Gesù, sta nella Chiesa, anche in terra sempre personalmente, e realmente frammischiato ai fedeli nel SS. Sacramento. Oggetto delle compiacenze divine in mezzo agli uomini, tira sopra essi tutto il cuor del Padre. Per il che il Padre divino, guardandolo qui, (se ci è permesso di dir cose divine in modo umano) par che dir debba: « Là è il Figliuol mio Unigenito, là fra le membra che si ha formate in terra Io l’amo e per Lui amo tutte le membra che ha seco incorporate.» La Chiesa poi a Gesù tenendosi abbracciata in sull’altare, può dire a Dio in certo qual modo come sposa Divina: « qui siete Voi, mio Dio: e siete Voi carne della mia carne, ossa delle mie ossa, e nessuno mi potrà mai più separare da Voi. » Così a lui unita trae dal suo Costato la virtù di generare dal suo Sangue figliuoli pel paradiso all’eterno Padre. Ecco adunque la Chiesa, vergine casta di corpo, madre feconda di figli, immagine della città eterna (S. August. De unitate Eccl. cap. 4.), vera meraviglia di Dio in sulla terra. Ora il Sacerdote, sollevato in sulla terra fra le braccia di questa sposa, come tutta la famiglia, di cui ella è madre in terra, e padre è Dio in cielo; egli sa che, come le compiacenze del Padre son riposte nel Figlio suo Gesù, così le compiacenze di Gesù sono riposte nei fedeli, che compongono il suo Corpo, anzi il suo più caro corpo (S. Bernard. Serm. 12, in Cant.), che è la Chiesa; e trovandosi così tra le braccia della Chiesa e quelle di Dio, sente il bisogno di raccomandargli cotesta Sposa di Lui e madre sua, e lo supplica, affinché per quei sacrifici accettevoli, che gli vien ad offrire, si degni purificare, custodire, adunare e reggere per tutto il mondo la Chiesa cattolica insieme col suo servo, Papa nostro, col Vescovo e con tutti i fedeli. Raccomanda il romano Pontefice; poiché la Chiesa, nello stato di quaggiù, è fondata sopra una Pietra, contro la quale non possono prevalere le forze d’inferno: cioè sopra il capo degli Apostoli, che è s. Pietro, e sopra i romani Pontefici, suoi successori, supremi vicari di Gesù Cristo in terra. E sapendo per divina rivelazione, che, per beneplacito del divino Fondatore, questa Chiesa del romano Pontefice fu scelta in modo da non venir meno giammai, essendo così diventata per l’elezione come il fondamento e la parte essenziale della Chiesa universale; perciò raccomandando il Pontefice, raccomanda il capo, che è la parte principale del corpo.

(Nell’istante in cui stampiamo queste pagine (prima edizione an. 1855), ci giunge l’infallibile decreto dogmatico del S. P. Pio IX, che dà il Dogma dell’Immacolata Concezione. Con la pienezza del giubilo pel trionfo di Maria SS. noi acclamiamo pure il trionfo del Sommo Pontefice. – Noi pigliavamo ed esporre le nostre idee, quando ci giunse il fascicolo del periodico della Civiltà Cattolica, anno sesto, n. CXVII  seconda serie, vol. 9, in cui troviamo nell’Articolo l’Assemblea Cattolica e le assemblee eterodosse esposto con molta dottrina e lucidezza il meditato nostro concetto. Rimandando a quello il lettore, esponiamo qui brevemente questi pensieri. Il Pontefice pronuncia il Decreto; e la infallibile parola colla rapidità del baleno diffonde la fede in tutte le parti dell’universo. Le luminarie sembrano sull’istante dal telegrafo elettrico trasportate in un attimo dalla cupola di san Pietro per tutte le città, fino nel più piccolo contado al tugurio del povero, che fa festa dinanzi l’immaginetta di Maria Santissima. Dovunque è gioia e tripudio e festa pur non comandata. Il Pontefice ha parlato, e la sua parola è un lampo che rischiara tutte le menti di un medesimo Vero. Ecco ogni ginocchio è piegato, ogni voce è concorde, ogni sospiro unanime, e nell’unità di quei concenti armonici maestosamente dominante l’oracolo del successore di s. Pietro, che quasi non sai se segua il dettato tradizionale della Chiesa, o imponga alla Chiesa il dettato di s. Pietro. Il Pontefice parla ripetendo il domma, che da diciotto secoli si serba per tutte le vie delle generazioni novelle, e la Chiesa è certa di quel domma, perché l’oracolo del Vaticano lo assicura. – È vero, Egli ha consultato le Chiese dell’universo ; e i Vescovi dell’orbe cattolico portaron seco al Pontefice le credenze delle loro Chiese: ma confessavano che a crederlo di fede, aspettavano la parola del Pontefice che lo dichiarasse. L’ha pronunciata la parola infallibile quel labbro, che ha l’impronta della divinità; ogni intelletto crede, come ogni cuore adora. L’universo proclama quella parola come voce di Dio. Noi crediamo evidente questa conseguenza, come è evidente l’assioma, che dal fatto provato deduce la potenza di chi l’ha prodotto; e il fatto ha dimostrato che il Sommo Pontefice col suo oracolo INFALLIBILE dichiara e salda la fede in tutta la Chiesa cattolica. Questa adunque confessa di credere INFALLIBILE questo oracolo. L’infallibilità poi del Papa fu definita come dogma nel Concilio Vaticano.).

 Poi raccomanda i Vescovi, posti dal Signore a reggere le varie altre porzioni e membra, vere, e pastori delle anime, guardie del campo di Dio e duci del suo popolo santo, cui Costantino il Grande chiamava custodi dell’anima sua. Raccomanda, come s. Paolo esorta scrivendo agli Ebrei, ed al suo Timoteo, anche i re col loro nome particolare, dov’è concesso. Ben era edificante la carità dei primi Cristiani, che perseguitati a morte, celebrando nei sotterranei, pregavano, (come attestano Tertulliano, Origene e Dionisio) per la pace e prosperità, per le vittorie dei re tiranni. Ora con egual fervore la Chiesa raccomanda i re cattolici e i potenti della terra; affinché cerchino la felicità dei popoli, e la salute propria come buoni figliuoli in seno alla madre Chiesa; se pur non vogliano tradire i popoli a loro affidati col perdersi insieme con essi, e gettarsi a rovina fuori delle braccia di questa madre celeste. – Finalmente fin qui (dice il Cardinal Bellarmino) il Sacerdote ebbe pregato per tutti questi in modo particolare: convien pur ora che raccomandi tutti i fedeli nell’unità della Chiesa; e lo fa col pregare « per tutti gli ortodossi cultori della Cattolica Apostolica fede. » Poi finalmente passa a raccomandare le persone, verso cui ha particolari doveri, con quest’altra porzione di preghiera, che diamo qui, detta il Memento.

Art. II.

IL MEMENTO E LA COMMEMORAZIONE PEI VIVI.

Orazione.

« Ricordatevi, o Signore, dei vostri servi, e delle vostre serve (qui giunge le mani e prega per le persone che gli preme di raccomandare particolarmente; poi stendendo di nuovo le mani prosegue), e di tutti i circostanti, dei quali conoscete la fede, e vi è nota la divozione, pei quali noi vi offriamo questo sacrificio di lode per sé, per tutti i suoi, per la redenzione delle anime loro, per la speranza della salute e per la liberazione di tutti i mali, e rendono i loro voti a Voi, eterno, vivo, vero Iddio. »

L’ordine della preghiera.

In questa orazione si raccomandano le persone, per cui si ha particolare dovere di pregare. Questo vuol l’ordine della carità. La carità che è quella che spira la vita nell’ordine morale. non ha limiti, né esclude persona; ma tutti abbraccia per riunirli in seno a Dio. Mirando solo a questo fine, ella v’indirizza tutti i suoi atti. Ma essa è come l’ordine universale, con cui Dio tiene insieme tutte le creature, e mantiene l’armonia dell’universo. Quello non distrugge gli ordini particolari, anzi li compone in unità, gli armonizza e li dirige ad eseguire tutti insieme il provvidenziale disegno: ma in modo che ciascuna creatura, aggirandosi nel suo cerchio d’azione con quel movimento che la provvidenza le ha assegnato, ottenga il fine suo proprio, mentre pure concorre ad ottenere il fine universale. Così anche la carità ama tutti, e tutti vorrebbe con Dio: nutre tuttavia particolari affetti, e desidera più vivamente di operare il bene per quelli che ci appartengono più strettamente. Immagine della bontà di Dio, il quale mentre porta in seno e coltiva tutte le creature dell’universo da Lui sostenuto, usa nondimeno di consolare di speciale misericordia quelle anime che predilige per elezione: anche la carità della Chiesa abbraccia tutti i fedeli, e tutti li fa dal Sacerdote raccomandare; ma lascia poi anche alla sua divozione, che con Dio si rammenti in peculiare orazione di coloro, a cui è più strettamente legato, 1° per condizione del proprio stato ; 2° per attinenze, che nascono da particolari circostanze. Quindi dall’ordine della carità nasce l’ordine della preghiera.

L’ordine della preghiera riguardo alle persone da raccomandarsi.

Secondo quest’ordine dobbiamo in particolar modo pregare per coloro verso ai quali abbiamo doveri, prima per condizione di stato: in secondo luogo per casuali attinenze, che possiamo avere con essi. In primo luogo dunque dobbiamo in particolar modo pregare per quelli verso i quali abbiam doveri per condizione di stato. E per questo titolo numeriamo i tre ordini di persone seguenti, che dobbiamo raccomandare.

1° Coloro che sono affidati alle nostre cure; perché, se Dio ci affidò delle anime, il principal nostro dovere è di pregar per quelle; ché questo è il mezzo di tutti più efficace, per fare il loro bene davvero. Perciò appunto la Chiesa impone ai Vescovi ed ai parroci di offrire il santo Sacrificio della Messa, applicandone il frutto in ogni giorno festivo pel popolo alla loro cura commesso. E ciò è conforme all’esempio datoci da Gesù Cristo, il quale pur faceva questa bella orazione (Giov. XVII, 1): « Padre santo, salva nel Nome tuo quelli che hai dato a me; » poi diceva ancora: « non solo per essi prego; ma pure per quelli che sono per credere in me; acciocché tutti siano una cosa sola, siccome tu, o Padre, sei in me ed Io sono in Te; acciocchè essi siano in noi una cosa sola ».

2° Per condizione di stato si deve pregare altresì per coloro, coi quali sì hanno particolari relazioni spirituali . Il Sacerdote deve quindi pregar per coloro, che lo eleggono a fare l’offerta del Sacrificio, e deve applicare il frutto di cui può esso disporre, per loro: e che per tal fine gli offrono la loro elemosina in suo sostentamento, chiedendo che impieghi l’opera del suo ministero a loro vantaggio spirituale.

3° Poi ancora per condizione di stato si deve pregare per coloro, pei quali si hanno particolari e più strette relazioni naturali; cioè pei parenti, amici, benefattori: poi anche per i nemici. Anche Gesù sulla croce, fatto di sé sacrificio, pensò di provvedere alla Madre sua SS. Raccomandandola con tenerezza infinita al discepolo dell’amore: ed in quell’istante pregò in singolar modo per i suoi nemici, che lo crocifiggevano. Anzi ci avvisa il Signore, che se mai avessimo qualche po’ di ruggine nel cuore contro il prossimo, e ce ne ricordassimo sull’altare, piuttosto che far sacrificio coll’odio in cuore, sarebbe meglio lasciar l’offerta a mezz’azione (Matt. V), e correre a riconciliarsi prima col fratello, per venire poi ad offrire col cuore che abbraccia tutti in santo amore e vuole tutti salvi in seno a Dio. – In secondo luogo abbiamo detto, che oltre il dovere di pregare, che nasce dalla condizione dello stato, vi sono altri doveri, che sono prodotti da casuali relazioni, in che ci troviamo cogli altri.

1° E perciò prima si ha da pregare per coloro, che pregano attualmente con noi; giacché questa preghiera, fatta insieme con noi, forma come un legame spirituale ed intimo, per cui davanti a Dio siamo un cuor solo ed un’anima sola; e come una sola voce da un sol corpo da noi s’eleva al trono della divina Maestà. Mentre l’altrui pietà viene in nostro soccorso, le comuni miserie toccano più vivamente il cuor del Padre di tutti. Ne viene quindi essere molto utile la preghiera fatta in comune.

2° Si ha da pregare per quelli, che si raccomandano alle nostre preghiere, perché noi dobbiamo riconoscere nell’istanza, che ci fanno di pregar per loro, come un invito della Provvidenza ad esercitare verso del prossimo la carità delle preghiere. Questo pur ad esempio del Salvatore, che piange sulla tomba di Lazzaro e lo risuscita; compassiona la vedova di Naim, e le ridona a vita il morto figlio. Così l’uom pio stende, diremo la protezione della pietà ed irraggia la sua ordinata carità tutto d’intorno, più viva verso quelli che gli sono più vicini. – Veduto l’ordine delle persone, che si meritano le nostre preghiere, bisogna osservare l’ordine della preghiera riguardo alle grazie da chiedere.

Ordine della preghiera riguardo alle grazie da chiedersi.

Pregando per questi e per tutti, dobbiamo sempre chiedere tutto che torni a gloria di Dio e che giovi alla salute dell’anime, mettendo l’orazione nostra in mano del Padre nostro con grande semplicità e confidenza, affinché Egli esaudisca la nostra preghiera; ma indirizzi nello stesso tempo la nostra ignoranza e grossezza. Sicché, se domandiamo cose inutili, o dannose, ci esaudisca Egli nella sua bontà col « darci altrettanti veri beni; dandoci in tal modo anche più di quello che per noi si domanda; perché Egli è un Padre, il quale sa dare le cose buone ai suoi figliuoli. – Perciò supplichiamo Dio, che si consigli interamente colla sua bontà, e tutti i veri beni ci conceda, pei meriti di Gesù, facendo che la sua misericordia trionfi della divina giustizia, e dei demeriti nostri. Intanto è una consolazione pei cuori ben fatti sentire la Chiesa imporci un dovere di raccomandar le persone, che ci sono più care! Oh la buona Madre! Ella indovina tutti i bisogni del cuore umano e colla Religione santificando gli affetti, gli rende più saldi, più puri, più soavi. Facciam ora di spiegare il Memento, che ci porse occasione a queste osservazioni.

Esposizione dell’Orazione: Memento.

« Ricordatevi, o Signore, dei vostri servi e delle vostre serve ecc. ecc. » Dio non è come gli uomini, soggetto a dimenticarsi; ma questo modo di pregare accenna una gran confidenza, per cui par che si dica a Dio: « Voi li conoscete, o Signore, i vostri servi e le vostre ancelle, a Voi son note le necessità di tutti; pur lasciate che noi vi raccomandiamo il tale ed il tal altro ancora, e quei loro particolari bisogni; » e qui nomina quelle persone, che sente dovere raccomandare con distinzione: e giungendo le mani abbassa il capo in profondo raccoglimento, per far del cuore le sue confidenze intorno ad esse in seno a Dio, quasi dicendo: « esse hanno titoli peculiari verso alla nostra gratitudine: e noi non possiamo meglio mostrar la nostra riconoscenza, che col raccomandarle a Voi, che comandate di così amarle; date loro tutto ciò che è ‘bene per loro. » Anche s. Cipriano domandava nelle sue lettere, lontano che era dal suo gregge in esilio, che gli fossero scritti i nomi di coloro, che facevano del bene alla sua Chiesa ed ai poverelli: per ricordarli co’ loro nomi nel Memento ad uno ad uno. Anticamente usavasi nominare ad alta voce i benefattori, che si raccomandavano: onde san Gerolamo levò la voce, e garri coloro, che offrivano doni per avere il vanto di essere nominati nel tempo del Sacrificio (In cap. XVIII, Ezechiel). Il diacono. portava scritti

sui dittici o tavolette il nome dei benefattori e di coloro che si dovevano raccomandare, e li suggeriva al Sacerdote raccolto in orazione. Il Sacerdote adesso prega in silenzio, affinché i fedeli ricevano da Dio solo la ricompensa di lor carità. – « Dei quali Voi conoscete la fede, e vi è nota la divozione ecc. ecc. » Prega pei circostanti, ma quasi a condizione che sian presenti con viva fede, e con sentimento di devozione verace, come se dicesse: « Noi Vi supplichiamo, o Signore, di degnar d’uno sguardo benevolo questi, che vi adorano nella lor fede, e a voi anelano in carità; ma per quelli, che in quest’ora tremenda, in questo terribile luogo portano gli oltraggi sugli occhi vostri santissimi; ah! per costoro saremmo per dirvi di rivolgere da loro i vostri sguardi, e di non ascoltare preghiere che accompagnate da tante irriverenze, provocan sopra di essi, più che altro, i vostri castighi. »

Poi dice:

« Pei quali Vi offriamo, o che vi offrano questo Sacrificio di lode, ecc, ecc. »

Perchè, dice Innocenzo III (Lib. 3, De Mys. cap. 5, et Tertull. De exhort. cast.), non solamente sono i Sacerdoti coloro, che offeriscono; ma offeriscono pur tutti i fedeli, nel cui nome offerisce il Sacerdote. Finalmente poiché le parole, che seguono, significano che il Sacrificio della Messa è Sacrificio di lode, di adorazione e di ringraziamento, che espia i peccati, e che ottien tutte le grazie da Dio; ne cogliamo occasione di ricordare qui a maggiore chiarezza ciò che abbiamo già altrove toccato quando lo richiedeva l’esposizione nel corso dell’opera, cioè come la santa Messa sia sacrificio Latreutico, Eucaristico, Propiziatorio, Impetratorio; ed ora diremo del frutto (Bened. XIV, De Sacrif. Missae, lib. 2, cap. 13,).

Il Sacrificio.

È imminente l’istante in cui nella Messa si esegue il Sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo in memoria del sacrificio in sulla croce. Ma noi ci riserbiamo di esporre queste qualità del Sacrificio nell’istante più solenne e più terribile, in cui abbiamo bisogno di raccogliere i pensieri più santi; quando contempleremo Gesù, che compie il Sacrificio Divino. Là tendono come raggi al centro tutti gli Articoli della povera Opera nostra ora invece parleremo brevemente del frutto.

Art. IV.

Del frutto del Sacrificio.

Il frutto, che viene dal SS. Sacrificio, è di tre sorta. Il primo è il frutto, che ne vien direttamente dalla redenzione operata da Gesù Cristo; e questo si produce sicuramente dalla parte di Gesù Cristo; e si richiede solo che non si ponga impedimento da chi lo deve ricevere. – Il secondo è il frutto, che ne viene dalla divozione della Chiesa. Questa sposa del Signore, sempre in ogni luogo, pel ministero di tutti i Sacerdoti offrendo sacrifici, acquista continuamente meriti di grazie per la santità, con che esercita le sue funzioni. Siccome per questo si serve del ministero delle membra sue, che sono i Sacerdoti ed anche gli altri fedeli; così, a seconda della maggiore o minor innocenza, e santità, e divozione, può crescere o diminuire questo frutto. Qual tesoro adunque è la santa Messa, posta in nostra mano per fare acquisto di vita eterna; e come possiamo noi aggiungere accrescimento in merito della nostra divozione! – Il terzo frutto nasce dallo zelo e dalla divozione del particolar Sacerdote offerente, la cui pietà in quel momento così prezioso può ottener grazie particolari. Deh quanto è vero che un Sacerdote santo è un vero ministro di benedizioni per la Chiesa (Ben. XIV. De Sac. Miss. lib. 2, cap. 3, n. 20)! Sì però, che le sue miserie non diminuiscano il primo frutto, che vien tutto intero da Gesù Cristo.

QUARESIMALE (XXII)

QUARESIMALE (XXII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMASECONDA
Nella Domenica quarta di Quaresima.


Del Purgatorio. In cui si mostrano le pene gravissime per
l’intensione, lunghissime per la durata, accresciute dalla nostra ingratitudine.

Accepit Jesus panes, et cum gratias egisset distribuit discumbentibus. San Giov. cap. 6


Perdonate alla mia lingua, miei UU. se quella mattina mi pubblica bramoso di cambiare questo sacro pergamo in un teatro, ove divenuto di predicatore recitante, possa più facilmente ottenere il mio fine; ed è pur, vero, che se tale io fossi, potrei da voi impetrare ciò che ottengono ogni dì tragici attori, a’ quali, quantunque sappiate che fingono, pagate ad ogni modo vero tributo di compassione, e senza risparmio
di lacrime, gli ponete i cuori in braccio, e gli versate le anime in seno. Rappresentisi in palco una Andromeda, e voi vedrete strepito nell’udienza, sollevati gl’affetti de’ circonstanti. Fingasi legata ad uno scoglio una beltà, per esser preda de’ mostri marini che, già vicini, slarghino le fauci per ingoiarla, non troverete allora in teatro spettatore così codardo, che non desideri sprigionare quella beltà ed uccidere il mostro. Dio immortale, e se io, da questo luogo facro, aprirò scena funesta per mostrarvi milioni d’anime nel Purgatorio, affogate tra’ tormenti, sepolte tra le carneficine, le quali urleranno con grida le più lacrimevoli che possa spremere un immenso dolore; e pure chissà se otterrò, non dico una buona somma di danaro per suffragarle, non dico frequenza de’ Sacramenti per liberarle, ma neppure una interna compassione. O quanto bramerei vedere innalzato in questa vostra patria il tribunale d’Atene in cui, con severità non ordinaria, fu accusato il ricco Gallio, sol perché non sovveniva la povertà d’Aristide suo parente, ma viva il Cielo, che le mancano questi rettissimi giudici a concordare chi più spende, o nelle vanità superflue, o nelle mense troppo laute, v’è Iddio, che siccome assisté a Giovanni allorché erat in Vinculis, così assisterà alle Anime Purganti, non voglio però, con rimettere la causa a Dio, tralasciare di rappresentarvi; e sarà l’assunto del mio discorso, delle pene atrocissime del Purgatorio, accresciute dalla nostra ingratitudine. – Sappiate dunque, UU. Miei, che le anime dei vostri amici, dei vostri parenti, di quelli che più teneramente amavate, vivono tra tormenti sì fieri, che maggiori non furono inventati dalle barbarie di Nerone in Roma, né dalla crudeltà di Dionisio in Siracusa. Figurarevi, dunque, per apprendere bene questa verità, sotto de’ vostri piedi una profonda carcere, la quale per la vicinanza che ha con l’inferno, senza parteciparne niente dell’empio, ne ritragga però il penare tormentoso. Quivi vedrete come la notte domina con nebbie oscure, l’aria lampeggia con baleni funesti, scuote il suolo con orrendi terremoti, e senza mai cessare risuonano quelle caverne per i gemiti inconsolabili di quelle anime, e per i fieri sibili di quei mostri. Quivi i tori
più celebri di Falaride, i cadaveri verminosi di Massenzio, le ruote più spietate di Diocleziano, servirebbero di refrigerio a quell’anime purganti. Miei UU., raccogliete pure in un sol pensiero, le pene più mostruose di questa vita, e poi leggete ciò che San Cirillo lasciò scritto, si omnes, quæ in mundo cogitari possunt pœnæ, pœnis, ac tormentis quæ illic habentur, comparentur, solatia sunt. Ah, che tormenti simili, neppur formano un’ombra di quei che tollerano le anime del Purgatorio. Ma ciò che disse Cirillo con le parole, lo confermò Cristina con i fatti. Attenti! – Appena morta, questa Santa Vergine fa condotta a vedere le pene acerbissime del Purgatorio, ed in esse vide impiegata in orrori, in confusioni, la Giustizia di Dio, indi presentata al Divin Tribunale si sentì interrogare di ciò che aveva veduto patirsi da quell’anime, al che (ah mio Dio) rispose: purtroppo ho veduto gl’orrendi tormenti;  or vedi Cristina, sentissi replicare, mira quella sedia, quel trono ricco d’oro, di perle, di gemme, quello appunto significa l’eterna Gloria che hai da godere nell’eternità beata; dimmi adesso liberamente, se vuoi prender possesso d’un sì gran Bene, pure ritornartene in vita per patire molto a beneficio di quelle anime. Udite ora la risposta di Cristina alla proposta di Cristo. Io ho veduto, dice la Santa Vergine al suo Redentore, le carneficine con le quali sono tormentate quelle misere anime, e son tali, che io volentieri mi eleggo di tornare a vivere per patire a pro loro orrende pene. Sì, sì, mio Dio, per liberar di colaggiù quelle anime, io mi eleggo un inferno di strazi, e rinunzio ad un Paradiso di contenti. Sarei una tigre se pur mi avessero a muover le mie consolazioni, che i loro tormenti. Quando ecco, che Cristina per effettuar quanto disse, s’alzò subito dal cataletto, alla presenza de’ Sacri Ministri, allorché gli celebravano le esequie. Inorridite pure, o miei UU.. Ecco che si pone Cristina dentro fetidi sepolcri per esser divorata da’ vermi, s’inzuppa nelle caldaie bollenti, perché l’acque la disfacciano, e per miracolo n’esce illesa, si tuffa ne’ stagni gelati, acciocché il freddo l’intirizzisca, or si pone alquanto lungi dal fuoco perché le fiamme divoratrici lentamente la distillino, or penetra nelle più orrende selve per essere sbranata dalle fiere, or si caccia nelle fornaci acciò le fiamme l’inceneriscano! No, la si lancia giù dalle rupi, perché le punte de’ sassi la scervellino, qui si mette sotto le macine de mulini perché minutamente la disfarinino. In somma, era Cristina un Purgatorio animato, mentre miracolosamente viveva tra tanti patimenti. Né vi crediate già, che questo suo penare sì fiero fosse di tre giorni, si stendesse a settimane, non passasse il mese, oppur finisse in un anno appunto, fu di più lustri, mentre fu di venticinque anni. Argomentate ora voi UU. qual abissi di pene, che spettacoli orribili dovesse ella vedere nel Purgatorio, mentre eccitarono nel suo cuore una compassione sì smisurata. Negate ora se potete quella d’Agostino, che le pene del Purgatorio sono maggiori di tutte quelle del mondo; ille Purgatorius ignis durior est quam quidquid possit in hoc sæculo poenarum videri possit, aut cogitari. Cristina per quelle anime che non appartenevano né in vigor di sangue, né d’amicizia, patisce tanto, e noi per l’anime de’ nostri congiunti non solo non faremo ciò che ella fece, ma neppure offriremo una limosina a lor suffragio, una corona. una Messa, cadit asinus, piange Agostino et omnes sublevare festinant, clamat in tormentis Fidelis, et non est qui accurat. Cade in un fosso un giumento, e l’aiutano tutti perché risorga; bruciano le anime, e non si trova chi le soccorra per liberarle. Staccate quel quadro di vostro padre, levate di là quello di vostra madre, toglietevi dagli occhi quelli de’ vostri parenti, de’ vostri amici, che meno sarete colpevoli col non vederli, anzi no, mi disdico, e quasi dissi ebbro della vostra ingratitudine, prendete quei quadri e bruciateli, e così sarete contenti in veder di qua bruciare la copia, come di là arde l’originale. Furono grandi i patimenti di Cristina; ma finalmente Cristina si pose a patire per quelle anime, non perché avesse provati i lor tormenti, ma per averli sol veduti; che avrebbe fatto, se gli avesse non sol veduti, ma provati? Udiamo un poco ciò che dice di quelle pene chi e le vide e le provò. San Cirillo Vescovo racconta come, essendo resuscitato per miracolo di San Girolamo un morto, andò egli stesso a vederlo, e trovò che amaramente piangeva e, perché piangi, gli disse, mentre più tosto, per la vita ricuperata dovreste stare allegramente; ah se sapeste o Santo Pastore, quel che ho patito nel Purgatorio anche tu piangeresti con esso me, quales credis pœnas existentibus in Purgatorio præparari, e rispondendogli di non saperlo, sono sì crudi, soggiunse, che qualunque uomo prudentemente operando, eleggerebbe più tosto soffrire tutte le pene che sono state nel mondo dal suo principio finora, che soffrire la minima di quelle pene per un dì, quam uno die minori, quæ illic babetur pœna torqueri. Chi dunque non inorridirà, sentendo che non solo le pene del Purgatorio sono maggiori di quante si possono soffrire nel mondo, ma di più in sentire da un testimonio di prova, che la minima d’esse è incomparabilmente più fiera. O pene, o pene, e chi può mai comprendervi! E pure non mancano cuori sì duri, i quali nulla s’inteneriscono alla rimembranza che quivi penano i loro congiunti più stretti. Non solo le pene del Purgatorio sono gravissime, ma quel che è peggio sono
lunghissime. O Dio! e che può darsi di peggio? Pene acerbissime nella intenzione, pene lunghissime nella durata. Inorridite. Pascasio Cardinale di Santa Chiesa fu veduto patire un’atrocissimo, e lunghissimo Purgatorio per un difetto sol d’ignoranza, leggermente colpevole; ditemi dunque, e quando mai, i nostri parenti finiranno di patire e pagare non un solo, ma tanti e tanti difetti ben leggeri, commessi ad occhi veggenti, o nella cura de’ servitori, o nella educazione e de figli o negl’affari de’ magistrati, o ne’ traffici del denaro? Ahi quanto dovranno penare; quanta fuerit peccandi materia, disse San Bernardo, tanta erit mora perseverandi. – Santa Vitaliana Vergine illustre, per un poco di vanità nei suoi capelli, fu veduta patire un lunghissimo Purgatorio. O Dio! Chi mi dirà quanto tempo dovranno patire laggiù i nostri cari morti per le tante e tante vanità, o per gl’abiti pomposi o per le fogge o per le usanze inventate, quanta fuerit peccandi et … – Se il Vescovo Durano di Tolosa per aver detto alcuni motti galanti, sofferse pena lunghissima, io non so dire quanto Purgatorio siano per avere i vostri morti, che con facezie, e detti pungenti ingiuriavano gl’inferiori, si burlavano degli uguali, mormoravano de’ maggiori, dileggiavano i Sacerdoti, motteggiavano i superbi, applaudivano a’ licenziosi. Ahimè quanto e poi quanto patiranno… quanta fuerit peccandi etc. … – Se un religioso di San Francesco patì tormenti lunghissimi per questo solo difetto di non chinare il capo alla Gloria Patri, che sarà de’ vostri poveri morti che singolarmente dentro le Chiese furono curiosi, distratti, immodesti, loquaci. Ahimè quanto e poi quanto peneranno … Quanta fuerit… O che montagne di colpe, e quando mai finiranno d’esser pagate in quelle pene tremende. Voi credete che esageri, ma v’ingannate, parlo fondatamente: Santi Pontefici, che dispensate il Sangue di Cristo in tante indulgenze, palesate il fine, manifestate i motivi; lo so che Sisto Quinto concesse indulgenza di undicimila anni effettivi a chi recitava certa Orazione a Nostra Signora, e Gregorio Decimoterzo ne pubblicò una di settantaquattromila anni a tutti gli ascritti nel Santissimo Rosario, e per qual cagione Santa Chiesa ammette Messe perpetue, fino alla fine del mondo, non per altro, miei UU., così opera Santa Chiesa ed hanno dispensato i suoi tesori i Sommi Pontefici, se non perché, ben sanno la lunghezza del Purgatorio, che per tante anime non suffragate, durerà fino alla fine del mondo. Eccovi miei UU., esposto un abbozzo delle pene acerbissime e lunghissime, che tollerano i vostri amici e parenti nel Purgatorio. Contentatevi ora, di dare orecchio alle querele per confondere la vostra ingratitudine, Miseremini mei, miseremini: udite parenti, amici udite, così da quelle pene tanto intense, tanto vive, esclamano quelle povere anime: Miseremini mei… abbiate di noi pietà. Alzate più le voci, anime sante, se volete essere intese tra gli strepiti dell’interesse, della ambizione, del fasto, dite il fatto vostro. Vorremo per carità una Messa; udite la risposta, ho da spendere cinquanta scudi per un abito, e cento per una giostra. Ah mio padre, mio fratello, mia consorte, mi struggo nel fuoco! Pazienza, ho bisogno di danaro per fare una nobile comparsa. E come è mai possibile, che siate così crudeli con noi, che tanto facevamo per voi. Deh almeno per noi dispensate pane ai poveri, udite la risposta. E là si governino quei cani, che non patiscano, si satollano. Se bene anime sante, non vi lamentate più perché non vi sovvengano, querelatevi sì, perché vi perseguitano, e dite loro quare persequimini carnibus meis saturamini. Figli, parenti, dissi male, fiere, furie, mostri di crudeltà
allevati da tigri, nutriti con carni d’aspidi e con sangue di pantere, perché mi
perseguitate? Quare me persequimini, o carnibus meis faturamini; e quel che è
peggio vi pascete delle nostre carni, carnibus meis saturamini. Chi vi lasciò quei palazzi, quei giardini, quelle gioie, quelle vesti, quelle ricchezze, se non io; sono mie quelle sostanze, che godete, e voi crudeli scordati di me, e de’ miei tormenti, così barbaramente vi saziate delle mie carni, e quel che più altamente mi
crucia, e mi rende più tormentoso il Purgatorio, e che voi godete delle mie miserie; né mi state a dire, che non ne godete, perché vi si può rispondere col Morale: … qui non vetat vetare cum possit jubet, mentre che voi con poco, potete sollevarmi, e non lo fate, è segno che godete del nostro penare. Voi parenti, voi figli, voi figlie, tenete acceso nel fuoco che tormenta i vostri congiunti, mentre non recate acqua per estinguerlo, voi tenete stretti quei ferri, mentre non stendete la mano per disciorli. Voi siete, che impedite a quei buoni morti la grazia che otterrebbero d’uscire dalla loro cruda schiavitudine, mentre non volete prestarli nemmeno un soldo. Miseremini mei saltem vos amici mei. Che voci sono queste, non si parla più con parenti, ma con amici, e con ragione, perché i parenti non odono. Voi dunque amici sovveniteci, giacché nel cuor di mio padre, di mio figlio, non v’è più amore. Voi amici, giacché mia madre, mia figlia, non ha cuore che per odiarmi, mentre mi lasciano penar qua giù. – Voi amici, voi soccorretemi, giacché quanti ho fratelli e parenti tutti si sono scordati di me, che ardo in queste fiamme; ah, che se ci soccorrete con una Indulgenza presa con una Messa celebrata, con un poco di limosina distribuita a’ poveri, noi trionferemo rivestite d’oro, risplenderemo coronate di raggi, e c’ingolferemo nel godimento di un bene immenso non limitato da tempo, non amareggiato da tribolazioni, che più scientemente ne andremo a godere Dio. Ma che se non udirono i parenti, meno sentono gl’amici. Orsù parenti, amici, se non avete più cuore per sovvenire i vostri congiunti, o per sangue, o per fedeltà, e non volete aiutarli. Almeno per rimprovero della vostra ingratitudine, quando entrate in Chiesa, date mente a quelle voci, che da quelle tombe vi risuonano alle orecchie, e sentirete dirvi così: sai chi giace sotto questo sasso? Qui vi giace quel povero tuo padre, che ti lasciò tant’oro in cassa, che visse da povero per arricchirti. Egli è quello, o figlio, che stentò il vivere per farti lautamente vivere, parcamente bevve per estinguer la tua sete. Odi, sai chi giace sotto questo sasso? Qui vi giace quella infelice tua madre a cui tu stesso, avanti di nascere desti penosissima infermità nella nascita tua, gli faceste provar la morte, quella saziò la tua fame col proprio sangue, con le sue lagrime asciugotti le guance bagnate dal pianto, e finalmente morendo ti fissò in fronte lo guardo, quasi pietosa volesse dire: porgimi la mano, o figlio; buttata, che io sarò nella tomba per divenir cibo de’ vermi, ricordati di sovvenir colei che in questa vita per la tua vita avrebbe provata la morte. Alza quel sasso, o mio Uditore, e vedrai, che sotto d’esso coperto da putredine vi giace quel tuo caro amico, che sempre fu fido compagno delle tue azioni, che non dubitò espor la vita ad evidente morte per salvarla a te. Or che fai? Chi giace sepolto in queste tombe? Attendi alle altre voci, che da quelle fredde ceneri rimbombano. Pietà figlio pietà; madre, consorte, fratelli pietà, non ti domando il valsente d’un patrimonio, non le gioie di tua moglie, non gl’avanzi di tua casa, ma un sol calice per estinguere una sì eccessiva arsura; negherai dunque un sacrificio per quello che si sarebbe lasciato svenar vittima per te? Odi, e non mentisco, l’amor troppo tenero che ti portai mi tiene tra queste fiamme, e tu ingrato non mi accorri? Ah crudo, ah finto amico, ah figlio traditore! Che serve a me che tu ostenti il mio ritratto, mentre lasci arder me nel Purgatorio, tu per ornamento della casa, e per splendore della famiglia vuoi la mia immagine appesa ad un chiodo, e non ti curi di schiodare il mio spirito da quelle pene? Come è possibile che a queste verità, a queste querele, o miei UU., non vi risolviate suffragar quelle anime per non tenerle più lungamente tra quelle angosce di morte. – Dio Immortale, e chi è tra voi, che non giubili d’allegrezza, quando intende di poter con poco danaro ricuperare dalle mani de barbari un figlio, un fratello, e talora un amico, tenuto da loro in vergognose catene, certo, che se non avesse in pronto la moneta richiesta’ per la liberazione, se n’andrebbe subito ad importunare i parenti, a negoziare co’ mercanti, a costringere i debitori, ad impegnar le gioie, a vendere i beni e se oggi potesse mandarli il riscatto, certo non indugerebbe a domani, se non per altro, che per aggiungerli un giorno di libertà. Ah fede, fede, ben si conosce che le vostre menti altro non hanno di sé che le tenebre; ditemi un poco UU. con quel denaro di cui vi vorreste servire per liberare l’amico, il parente dalla barbara servitù, non potreste voi, per così dire, spopolar mezzo il Purgatorio? E pure, o Dio, quanto stentate a dare talora per i vostri morti un poco di moneta, a far cantar un Offizio, a far celebrare una Messa, quanto stentate, anzi dico di più, piacesse pure al Cielo, che non vi mostraste di viscere più inumane, quando anche salva del tutto la vostra borsa, voi li potreste sovvenire, e non lo fate? E quante volte con visitare una Chiesa, con acquistare un’Indulgenza, con fare una Comunione voi mettereste insieme il prezzo bastante al riscatto d’un’anima imprigionata nel Purgatorio, e voi per non abbandonar quel giuoco, per non differir quel negozio, lasciate che ella incallisca sotto quei ceppi, mentre, con sì leggera fatica li si potreste o spezzare perché subito volassero in libertà, o almeno alleggerire, perché non sentissero tanto quella dura prigionia, e non è questo un eccesso di crudeltà? Di tirannia, di barbarie? Tacete, istorie, tacete, voi narrate per singolare una tal peste, di cui chi fosse tocco perdeva tutta la memoria, fino a non ricordarsi più, guarito che fosse, né di padre, né di madre, or sappiate, che d’una simil peste sono infettati molti de’ miei UU. mentre non
si ricordano più né di padre, né di madre, lasciandoli star nel fuoco senza soccorso, e di loro ben si avvereranno le parole del Profeta Reale: Dum superbit impius, incenditur pauper. Voi alle feste, e vostro padre nella carcere, dunque voi alle crapole, e vostro padre e vostra madre a’ digiuni, dunque voi agl’amori tra le delizie e vostro padre tra’ tormenti: egli brucia e voi ridete, e voi solazzate; Dum superbit impius, cenditur pauper. – Voglio esprimere la vostra crudeltà con quel fatto che si narra da San Giovanni nel cap. 5, in persona di quel povero paralitico. Erano già trent’otto anni che egli giaceva addolorato, ed assiso là sulle sponde della Probatica, che però
non poteva non esser notissimo a quanti vi venivano, o per rimedio o per curiosità. Se voi aveste veduto quel miserabile, l’avreste altresì osservato macilento e scaduto di forze, senza colore in volto, ed in tale stato che avrebbe mosso ogni cuore ancorché duro a compassione, ed è pur vero, che un uomo in stato sì miserabile mai ebbe neppur uno che stendesse una mano per tuffarlo in quelle acque, giacché nulla di più vi voleva … Hominem non habeo. Dio immortale, se a sollevar quel meschino da quella lunga infermità vi fossero volute centinaia di scudi, o per i medicamenti più eletti, o per i medici di primo grido, io l’intendo, ma mentre non vi voleva più, che una stesa di mano, io inorridisco alla crudeltà; se si fossero dovute cercare dalle montagne più remote erbe incognite, e del tutto salubri, mi rimetterei; ma quando so che bastava trovarsi al tempo prefisso della volata dell’Angelo, e che non vi voleva altro che tuffarlo, non posso non infierirmi con quanti comparvero, e dichiararli con cuor di tigre in petto. Così dico, che compatirei chiunque avesse veduto lo stato infelicissimo
del paralitico, e non l’avesse sovvenuto quando a lui fossero bisognate le perle
più pellegrine per macinarle in polvere e porgerle al miserabile in rimedio di sua salute, ma mentre non vi voleva di più che correre a suo tempo e dargli soccorso con cui sbalzarlo nelle acque, non l’intendo, non la capisco, e dichiaro per crudeli quanti lo videro, e non l’aiutarono, e voi miei UU. con me vi unireste a deplorarne le barbarie; ma non dubitate, che voi per verità non avete in petto, cuor meno crudele, mentre sapete d’aver l’anime de’ vostri amici, de vostri parenti, de vostri padri e madri colaggiù nelle fiamme del Purgatorio, che sono anni ed anni che patiscono, e pure quantunque per liberarle nulla più si richieda d’una stesa di mano in poca limosina, d’un Sacrificio celebrato, d’un Offizio recitato, quantunque nulla di più vi voglia, salvo che d’un poco diי scomodo in una Comunione, ed una Indulgenza presa, non fate nulla, anzi fate che dolenti abbian da dire: Hominem non habeo, non vi son per me nel mondo più amici, più parenti, più figli, Hominem non habeo, o che crudeltà, o che barbarie! Venga in questo pulpito a ricoprirvi di rossore un Dandamide privo di fede, che per liberar l’amico dalle catene nemiche, si sottopose alla perdita degli occhi. Fu fatto prigione di guerra alle foci del Boristene un cavaliere per nome Amizzoca; questi impaziente, e della cattura e de’ ferri, gridò ad alta voce verso gl’amici che non l’abbandonassero in sì disperata disavventura, l’udì Dandamide suo amicissimo, ed a lui totalmente eguale in chiarezza di sangue, subito per ciò si mise a nuoto del fiume per raggiungere le squadre nemiche, e ricuperare l’amico; accortasi la retroguardia del tragitto, voltò gl’archi per ferirlo prima che approdasse; allor Dandamide chiese quartiere, e si protestò, non per altro avvicinarsi, che per professione d’amicizia; a queste voci, mitigati i barbari trattenero le saette, finché, giunto Dandamide alla riva, sentironsi interrogare del dove, e sotto qual tenda dimorasse un certo cavaliere Amizzoca; quando condotto dall’amico, e vedutolo tra’ ceppi rivolto al Generale delle Armi, supplicollo che si compiacesse restituirgli il caro compagno. Non mostrò questi alieno della grazia, purché fosse pronto il riscatto. Dandamide allora, perché volonteroso, ma impotente al riscatto: sappi disse, o Sire, che Amizzoca è assai a me più caro degli occhi, onde di buona voglia vi consegnerei la metà del patrimonio, per liberarlo quando voi di tutto non m’aveste svestito.  Allora il Generale l’assicurò, che quando volesse perdere gl’occhi per ricuperar l’amico, lo scioglierebbe dalle catene, lo porrebbe in libertà; accettò Dandamide prontamente la condizione, e lasciato accecare da pugnali de’ Sarmazi, ebbe il sospirato Amizzoca. Or che dite Uditori? Con quanto meno potreste voi liberare non gl’amici, ma i parenti più stretti, non da catene di ferro, ma di fuoco ardentissimo, e pur neppure vi movete a compassione, ah che purtroppo è vero il detto del Savio, Amicus est socius mense, et non permanebit in die ne cessitatis. Così appunto segue di voi anime Sante, giacché i vostri congiunti si sono totalmente scordati di voi; furono vostri amici finché viveste, e con voi banchettarono; ma ora che voi siete bisognosi non pensano punto a voi; la lor amicizia è stata a guisa di quella che passa tra l’oro, e l’argento vivo, detto con ragione, Mercurio, perché ladro, ruba il danaro alla borsa, ed il cervello alle teste; or di questo sentirete la proprietà, egli è sì amico giurato dell’oro, che tirato da un assetto simpatico, sempre lo segue, e trovandosi sparso, quando lo giunge, raccoglie tutto sé  stesso sull’amata moneta; ma che? Venga l’oro posto in mezzo alle braci per esser purgato, appena l’amico bugiardo sente gl’ardori che se ne fugge per l’aria, e lascia il compagno nel fuoco: eccoci al punto, socius mense, furono vostri amici allorché poterono sollazzarsi con voi, ma ora che voi bruciate tra le fiamme vi lasciano ardere, né più si curano di voi con una ingratitudine sì alta, che maggiore non so immaginarmi, e finisco di spiegarvela con il seguente racconto. – Narra Diodoro, che tre figli d’un re de Gimeri, morto il loro padre, contesero del regno, mercecché ben spesso la ragione di stato, cangia l’amor di fratello, in rabbia di nemico, vero però è, che quantunque agitati da interessata passione, ebbero nondimeno quei tre signori di tanto di lume, che per decidere senz’armi la contesa, scelsero per giudice del loro litigio, il re della Francia Ariofarne. Io per me non so, se giammai s’udisse in tal contingenza, altra più trana decisione, Comandò il re, che si cavasse il morto principe della sepoltura, alzato in alto a bersaglio, i tre figliuoli lo saettassero, e quello di loro,
che l’avesse colpito nel cuore  quello regnasse; lasciò dunque la saetta il primogenito, e colpì nel capo, scaricò il secondo, e colse nel petto sì, ma senza toccarne il cuore. Quando ecco, che tutto acceso di sdegno afferra con ambe le mani, il terzogenito, arco e saette, e mentre tutti aspettavano che egli prendesse di mira il cuor paterno, egli invece, ruppe l’arco, infranse i strali; eh non sia mai vero, dispettoso, gridò,
che io più fiero delle fiere incrudelisca contro il morto mio Padre: abbia sì de’
miei fratelli il regno, chiunque lo vuole, purché il mio capo sia coronato di
pietà punto non m’importa, che le corone d’oro lo circondino: Supererat, ecco l’autore, supererat minimo spes regni vicit pietas, ed oh giustissima sentenza d’Ariofarne, udite: io consegno, le ragioni della reale primogenitura al terzogenito; abbia lo scettro paterno quella mano che ricusò saettare il cuor del padre; viva, viva re, chi al morto re e padre, come degno figlio portò onore, e riverenza; mio Dio, quando giungo a questo termine, m’accendo d’uno zelo straordinario. Quanti figli ingrati incrudeliscono non contro i corpi, ma contro l’anime de’ loro parenti, e trafiggono con barbare saette i loro cuori; ben si adatta a costoro il detto d’Ambrogio: Si non pavisti, occidisti; Hai tu figlio compita l’ultima volontà di tuo padre? No, occidisti, hai fatto celebrare quelle Messe? No, occidisti, hai soddisfatto a quei Legati pii? No … occidisti; quei testamenti sono nella tua cassa degl’avi e bisavi coperti nella polvere, morti nella memoria, e non punto eseguiti, occidisti; Tu sei più crudele di Caino; poiché questo, dopo d’aver tolta la vita al fratello non incrudelì punto, che io sappia, contro il morto Abele, ma tu sei più spietato, mentre incrudelisci contra de’ Morti, non pavisti, occidisti, non gli sovvenga, dunque, l’uccidi. Se cosi è, ascolta, io ti fo con le parole di Cristo un funesto ma non fallace pronostico: qua mensura mensi fueritis remetietur, et vobis. Sappi che, balzato che sarai nel Purgatorio, quando pur non ti tocchi l’Inferno, permetterà Iddio, che ognuno si scordi di te, e che tu arda fino al dì del Giudizio in quelle pene, mercecché tu non avesti pietà verso de’ tuoi morti.


LIMOSINA
Ignem ardentem extinguit aqua, et eleemosyna resistit peccatis. La limosina
fatta per l’anime del Purgatorio è un’acqua, che lava le loro fiamme. Immaginatevi questa mattina d’aver qui presente una di quelle anime a voi più care in mezzo al fuoco, e che ciascun di voi abbia alle mani un gran secchio d’acqua ed in tal caso, io son certo, che la vostra pietà verserebbe sopra di quel fuoco tutta l’acqua, e non bastando, si porterebbe a prenderne altra. Io non voglio tanto, basta a me, che per le anime sante, diate quello che vi troviate, non tutto …

SECONDA PARTE

Già vi ho rappresentati UU. miei, la terribilità di quelle pene del Purgatorio, le querele di quelle anime, e l’ingratitudine di chi non le sovviene; la qual è, quasi dissi, cosa comune; che si ha dunque da fare per non essere nel numero di quelle povere anime, scordate da’ loro parenti Sapete, che non avete d’aspettare, che vi si faccia il bene, ma fatevelo da voi, e se l’aspetterete da loro, potrò con fondamento temere, che starete lungamente tra quelle fiamme. Alessandro Magno morendo lasciò a’ suoi capitani in eredità la sua monarchia da dividersi in tante parti, e pure è vero, morto che fu, ebbe da stare trenta dì insepolto a causa contrastarsi la divisione; ed ognuno procurava di tirare a sé un squarcio più bello della porpora del defunto, ma niuno si curava di vedere quel cadavere insepolto: Dum ejus presecti, ecco le parole d’Eliano, de regno per seditiones contenderent, ille triginta diebus inumatus, et carens sepulcro relictus est. Così appunto faranno i vostri eredi, appena sarete morti, che subito daranno di mano alle gioie più preziose, ai mobili più ricchi, subito si susciteranno le liti tra fratelli, tra madri e figli, tra mariti e mogli, e a pagar que’ legati, a far celebrar quelle Messe, a dispensar quelle limousine, a far del bene per voi, non vi si penserà. Sicché miei UU. convien dire le parole di Dio, Maledictus homo, qui confidit in homine. Maledetto quell’uomo che confida nell’uomo. Ricordatevi miei UU. del trito proverbio che fa più lume un candeliere avanti, che una torcia alle spalle; voglio dire che bisogna vi provvediate mentre vivete. Un gran mercante, detto Onofrio, nella Riviera di Genova, s’era arricchito per via di mare, venuto a morte, benché pregato da’ figli, non lasciò nel testamento obbligo alcuno per suffragio dell’anima sua; morto che fu, tra le sue scritture si trovarono registrate più partite di questo tenore: per maritar zitelle, mille scudi, per Messe, duecento, per cera in onore del tal Santo, cento, ed in fondo della scrittura erano queste parole: chi vuol bene se lo faccia in vita, e non si fidi di chi resta. Non vi fidate dunque, ma fatevi del bene. Oh io costringerò, voi dite, legherò in modo i miei eredi che certo faranno. V’ingannate. Sentite: aveva un certo padre tre figli, e già vicino a morte, domandò ad uno di loro: dimmi un poco figlio mio che cosa pensi di farmi per liberarmi dal Purgatorio? Io, signor padre vi voglio erigere una cappella
ed ivi far celebrare per voi. E voi, rivolto all’altro figlio, disse, che farete? Io pure, rispose, farò una cappella, ma con più sacrifici; così pure richiese il terzo, il quale pronto rispose: io signor padre farò quanto faranno questi due. Loro niente faranno di quello che v’hanno promesso ed io pur niente, provvedetevi finché vivete e ricordatevi della rivelazione fatta da Dio a Sant’Alberto Carmelitano, allorché gli disse: valer più un quattrino dato in vita che migliaia dopo morte. Voi vi volete quietare con dire, lascerò de’ legati, e non considerate che quanti sono i legati, tanti sono i legami perché non soddisfatti, come spesso avviene: legano al Purgatorio il testatore ed all’inferno gli eredi, e come è vero quel primo, altrettanto è vero questo secondo, come ora v’esprimo con una storia. Un contadino venuto a morte volle fare il suo ultimo testamento, e non avendo altro di proprio, che un agnelletto ed un cavallo, lasciò questo al figlio, con obbligo stretto che lo vendesse, e del prezzo gli facesse dire tante Messe, e l’agnelletto poi restasse a lui. Il villanello che aveva callose le mani ma non l’ingegno, fece così: andò una mattina al mercato con tutte e due le bestie, e cominciò a gridar forte, chi vuol l’agnello ed il cavallo? Un massaro gli disse: io comprerò il cavallo se saremo d’accordo, ed il villanello rispose, io non voglio venderlo senza l’agnello; bene, rispose l’altro, comprerò anche questo, e che vi ho da dare? Non posso darvelo a meno di trenta scudi, e del cavallo, che ne volete? Mezzo scudo; stabilitasi la vendita, si ricevette il danaro, il mezzo scudo, prezzo del cavallo, impiegò in Messe, ed i trenta scudi dell’agnello, ritenne per sé. Che voglio dire con questa storia? voglio significarvi che non commettiate ad altri quel che potete e dovete far voi stessi, perché nel mondo non v’è di chi fidarsi; ma quando pure vogliate lasciar legati per l’anima vostra, lasciateli, ma con obbligo strettissimo a’ vostri eredi, che se non soddisferanno puntualmente, la roba vada al principe al sovrano etc…

QUARESIMALE (XXIII)

QUARESIMALE (XXI)

QUARESIMALE (XXI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)


PREDICA VENTESIMAPRIMA

Nella Feria sesta della Domenica terza.

Del Giudizio particolare
che si farà d’un’anima considerato
nel processo, nelle difese, nella sentenza.


Cum venerit ille, nobis annunciabit omnia.

San Gio.: cap. 4.

Non vi predico miei R. A. cose lungi dalla nostra età, da’ nostri secoli, ben sapendo non avere i sacri oratori, più difficile impresa per eccitare nelle udienze cristiane il timor de mali futuri. So che Aristotele al secondo de suoi libri, m’insegna, che l’apprensione delle calamità future, ma lontane, non è potente ad indur la paura in cuor degli uomini: Remota namque nimium, non timent. I dolori, i crepacuori, gli spasimi vicini del Giudizio particolare, e non dell’universale v’annuncio; e con questo v’affogo le vostre parole in gola, e vi schiaccio in bocca quel baldanzoso parlare… Eh, che prima d’arrivare a quel dì tanto terribile, si ha da passare un mare lungo e largo di più secoli. V’affogo, dico, le parole in bocca per additarvi, come il dì del Giudizio per ciascheduno di noi, non è più lontano del dì fatale della nostra morte. A questo giudizio, dunque, particolare che segue subito dopo la morte, presento questa mattina il peccatore, perché ne senta il processo, ne faccia le difese, e ne oda la sentenza, giacché queste tre cose devono concorrere in ogni giudizio ben formato. Figuratevi miei UU. il processo formato, steso già per mano de’ diavoli, e sappiate che per molti di voi si considera cominciato fino dalla puerizia, perché sin d’allora principiaste a peccare, e pare che facessero a gara per introdursi dentro di voi malizia e uso di ragione, sicché si  può dire che molti di voi furono simili a quei serpi, i quali hanno tossico prima d’aver denti per diffonderlo. Orsù state attenti al contenuto del vostro processo, poiché uditene le accuse, possiate prepararvi alle difese, per evitare quella sentenza d’eterna dannazione, che vi sovrasta. Nello spaventoso processo si contiene come voi peccaste in pensieri, parole ed opere. I delitti dell’adolescenza fono stati discorsi lascivi, parole sporche, giuramenti falsi, roba tolta di casa o per crapule o per giuochi, o per offendere Dio con detrimento della famiglia, con perdita della reputazione nella servitù; peggio: sono stati omicidi d’uomini, se non nati che potevano nascere, vizi che non si possono nominare, e sol s’esprimono con i carboni delle incenerite Pentapoli, e poi tanti pensieri laidi che non hanno numero, finiscono di colmare l’enormità della vostra adolescenza alla quale non volle cedere punto la vostra gioventù, mentre non contento di seguitare ancor da giovane le medesime laidezze, che commetteste nella adolescenza, v’aggiungeste le brame incessanti delle donne altrui; di queste andaste in cerca nelle strade, per le case, nelle Chiese, i vostri occhi, non guardavano che per incenerire l’altrui anima; non la perdonaste né a condizione, né a stato, né alle spirituali parentele, né tampoco al proprio sangue. – La virilità non fu inferiore alla gioventù. E che non faceste cresciuti all’esser d’uomo? Non cessaste punto dalle iniquità già dette ed a queste accompagnaste gl’odi, i rancori, gli sdegni, ma chinaste la ruina di quella famiglia, tramaste, alla vita altrui, sfregiaste con indegne mormorazioni l’onestà delle fanciulle, l’onor delle maritate, foste spergiuri ne’ giuochi, bestemmiatori nelle bettole, sacrileghi nelle Chiese. La vostra vecchiaia poi portò seco quanti vizi ho narrato, e v’aggiungeste la sordida avarizia, l’indegno interesse che vi fece perdere talmente di vista il Cielo, onde più neppur per ombra, pensaste né a limosine dovute, né a soddisfazione de legati pii. Ecco formato il processo ed i peccatori. Queste fono le accuse ancora, contro di voi o donne, con l’aggiunta della vostra superbia, della vostra dissoluta vanità, della vostra sfacciataggine nel farsi vedere scoperte nel seno, scoperte nelle braccia. Negate, se potete queste accuse, e ributtate come falso questo processo; bisogna a vostro marcio dispetto, che confessiate esser vero quanto s’è narrato. Padre di famiglia, madre di famiglia, v’è di peggio per voi. Sapevi che i vostri figliuoli versavano marcia di disonestà, e non vi rimediavi; sapevate che le vostre figlie si disfacevano contemplate alle finestre, sulle porte, nelle Chiese, non solo non le gridavate, anzi facevate loro animo. Che confusione sarà la vostra alla veduta d’un sì formidabile processo. Ma respirate, poiché qui termina. Qui termina, finito il processo! Mi meraviglio di voi, vi sono altri delitti. Vi sono quei peccati commessi dal vostro prossimo, ma con la vostra cooperazione. Sentitemi: in tre modi si coopera agli altrui peccati. Prima che si commettono, quando si commettono, e dopo commessi. Prima che si commettano, vi si concorre con l’esempio: padre di famiglia, madre di famiglia contro di voi contiene il processo, quei cattivi esempi che date a’ figli bestemmiando, mormorando, giuocando, spergiurando, perché tanto v’adornavi, vi specchiavi, perché discorrevi con tanta libertà con gl’uomini altrui. Padrone, quante volte siete concorso al peccato degl’altri, con istigare or questo ed or quello al male, quante volte avete mandate quelle imbasciate, quei biglietti, quei regali, avete fatto lavorare le feste, e vi siete fatto assistere per difesa nelle vostre iniquità. Sacerdote, Curato, confessore, quante volte col male esempio, siete concorsi ne’ peccati altrui, mentre vi siete fatti vedere maneggiare meglio le carte da giuocare che quelle del Divino Officio, vi siete fatti vedere ridere per le Chiese, immodesti nel coro, discorrere con libertà secolaresca con le donne, anche voi ne festini, anche voi, perdonatemi se lo dico, negli amori. Oh che processo formidabile è mai questo! E questo vuol dire concorrere al peccato prima che si commetta. Or vediamo ciò che dica il processo di quei peccati, ai quali siete concorso quando si commettono. E non è forse vero che volete complici nelle vostre iniquità? Voi chiamaste quel giovinetto, e con chiamarlo, chiamaste fuoco dal Cielo per incenerirvi; Voi seduceste quella donzella, per altro sì buona. Voi faceste mancar di fede a quella maritata. Voi poneste il ferro in mano di quel tale, perché foste complice nelle vostre vendette. Voi lo chiamaste per compagno ne vostri furti. Oh che processo formidabile è mai quello! E non vi spaventa? Spaventatevi dal riflettere, che vi sono notati anche quei peccati a’ quali siete concorso dopo che si sono commessi con approvarli, con lodarli, con esaltare le scelleraggini de’ perversi. Voi v’inorridite ad un processo sì formidabile! Ed è pur vero che non è ancor terminato, perché vi sta registrato tutto il Bene che non si fece; bene s’udì Messa, ma standovi con irriverenza, mescolandovi discorsi non solo impropri, ma talora indegni; si dissero le devozioni, si recitò la Corona, ma piene di distrazioni, ma col cuore sugli amori, negl’interessi, alle vendette; vi confessaste, ma senza dolore, ma senza proposito; vi comunicaste, ma senza preparazione, senza rendimento di grazie. O poveri peccatori, e non inorridite ad un processo sì formidabile fabbricato contro di voi? Spaventatevi; perché non è ancor finito; non solo vi sta registrato il bene che non si fece, ma il bene che si poteva fare e non si fece. Si poteva slargar la mano alle limosine, ma per far quelle commedie, quei teatri, quei festini, per trattenersi in quei giuochi, per comparir con più fasto, per non dir con più scandalo, nelle vanità del vestire, non se ne fece altro. Si poteva visitare quell’infermo, far quell’opera pia, ma per trattenersi a quel ballo, a quella veglia, a quel ridotto di mormorazioni, non si fece. V’ingannate, o peccatori, se credete chiuso il processo, dopo tante accuse, poiché vi resta il male che potevi evitare e non evitaste; potevi con l’autorità che avevi in reprimere la sfrenatezza de’ dissoluti, e non lo faceste; potevi con una riprensione far tacere quella lingua mormoratrice, con un castigo frenar quella bestemmiatrice, una limosina mandata a tempo teneva in piedi quell’onestà, un sussidio caritativo impediva quell’offesa di Dio; ma voi nulla faceste. Io per me confesso di restar sbalordito ad un processo di tal sorte, e voi peccatore, e voi peccatrice, che dite? Voi tacete; così è, perché … iniquitas oppilabit os suum: voi tacete? Voi, voi che avanti il confessore stesso gettavate in altri la colpa con dire d’essere stati violentati; voi che la gettavate fino in Dio con dire che eravate stati fatti in quel modo, che eravate nati sotto quel pianeta, che non sapevate che farvi, voi tacete? Voi che travestivate il peccato per una leggerezza, per una facezia, per un bel garbo. Voi che non solo scusavate i vostri eccessi, ma li giustificavate; voi, dici, tacete? Così è, perché …iniquitas oppilabit os suum. Sovvengavi, che quel convitato infelice, che non portò alla Mensa Reale un vestimento da nozze, allorché fu interrogato dal Re medesimo: Quomodo huc intrasti, non habens Vestem nuptialem? Come ardiste d’entrare qua, sì mal vestito? Avrebbe questi potuto dire per sua discolpa: io come povero non potevo far queste spese, e rivestirmi alla grande, poteva afferire che, indebitato, non aveva danaro con cui riscuotere gl’abiti da festa, che aveva un impegno. Io, poteva soggiungere, sono stato colto all’improvviso da’ vostri messaggeri, e la fretta, non m’ha dato tempo di procurarmi miglior arredo; poteva insomma dire: Sire, la mira che ebbi ben grande d’ubbidire prontamente agl’ordini di Vostra Maestà, la tema di non mostrar poca stima de’ vostri favori con farvi aspettare, sono stati la cagione di comparire al vostro cospetto sì male all’ordine. Tutto questo, e molto più, poteva dire l’infelice convitato, e pure non disse nulla, e perdette di subito la parola At ille obmutuit. Or se costui nulla rispose restando attonito, pure poteva addurre molte scuse … che risponderete voi peccatori, allorché subito morti sarete condotti al Tribunale Divino? Converrà con silenzio approvare il processo. Non avrete scuse che valgano. Sebbene, non essendo dovere, che in questo giudizio manchi ciò che non deve mancare mai ad ogni altro, che vale a dire, dare ai rei un avvocato, convien darglielo. Ed io appunto voglio assumermi questo ufficio. Il fatto non può negarsi, i peccati si commisero, al processo nulla può opporsi. Ecco dunque che m’accingo a difendervi o peccatori. Grande Iddio nelle di cui mani sta posta la vita, e la morte, non si nega che questi poveri peccatori non abbiano rotta la vostra santa Legge: ma se a tanto eccesso si condussero, fu o per ignoranza o per necessità, non capirono mai quanto gran male fosse contravvenire a’ vostri ordini, mai capirono che l’odio del vostro cuore, fosse così grande verso il peccato, non poterono mai comprendere, che la pena stabilita contro di loro nel vostro tribunale fosse tanto eccessiva. Ma che dico! Mentre invece di sminuire i vostri delitti, così difendendovi li accresco, invece d’allegerirveli, li aggravo, mercé che sento rispondermi: se non capirono queste verità fu tutta loro colpa; fu perché immersi nell’affetto delle crapule, delle lascivie, de’ beni caduchi di questo mondo, a guisa di brutti insensati tenevano sempre gl’occhi in terra senza mai volerli alzare alla considerazione attenta de’ beni, e de’ mali che ne scopriva loro la fede. Oculos suos statuerunt declinare in terram. Dicano, se possono, che loro non parlasse il cuore, la coscienza, l’Angelo Custode, non ce lo dicevano in privato i confessori, i predicatori in pubblico; se ciò volessero negare, le mura stesse di questa Chiesa, i confessionari, nonché i Sacerdoti, li smentirebbero, e seppur non l’udiste fu vostra colpa, perché a bella posta voleste star lontani da quella scienza di vita che sola poteva darvi salute, e perciò invece, nei giorni festivi, di frequentare le devozioni, i Sacramenti, le prediche, attendevi a spendere il tempo in bestemmie, in amori, in passatempi, in ubriachezze e disonestà. La scusa adunque dell’ignoranza, non la posso più addurre. Deplorerò per tanto la vostra disgrazia con lo Spirito Santo, dicendo: Ignorans ignorabitur. Ma perché non voglio abbandonarvi, finché posso per difendervi, dirò al vostro e mio Giudice Iddio: le colpe descritte nel processo sono vere, le confessiamo, non le neghiamo; sol diciamo che se peccammo non si poté di meno, non fu malizia di volontà, fu colpa di necessità; più volte l’oltraggiammo il vostro Santissimo Nome con replicate bestemmie, è vero: ma à ciò ci costrinse l’insolenza de’ nostri figliuoli, la consorte sì impaziente, fu l’impeto della collera, che ci suggerì ad un tratto quelle orrende parole alla lingua. Ma Signore! Come era mai possibile mantenere la famiglia senza quelle frodi nel vendere, senza quelle bugie, senza quegli spergiuri? Come si poteva praticare con gl’altri compagni senza apprendere i loro costumi, e senza lasciarsi persuadere da’ loro perversi esempi e più perversi consigli? Ah miei Uditori, ho fatto quanto ho potuto per difendervi, ma le scuse son frivole, e le difese non bastano a ricoprirvi, neppur quanto bastarono a ricoprir la Confessione de’ nostri primi Padri nella loro disubbidienza, che necessità, sento rispondermi … che violenza? che non potere? Peccarono, perché vollero peccare e peccarono mentre altri simili a loro non peccarono; peccarono, mentre io, dice Iddio, gl’offrivo il mio braccio per sostenersi; non v’è dunque scusa che vi discolpi; vi dirò con l’Apostolo: Inescusabilis es o homo, inescusabilis es.. – Peccatori, voi sentite; le vostre difese sono dalla verità buttate per terra, onde a mio credere, non vi è altro scampo per evitare la sentenza terribile, che buttarsi al patrocinio di qualche grande in Cielo. Su, ricorrere a quel servo di Dio, Giovanni di Dio. Egli può molto, perché con l’eccessiva carità verso de’ poveri si guadagnò gran posto in Paradiso; ahimè, che egli non vuole aiutarvi, perché sempre disprezzaste i poverelli, e foste verso di loro un tiranno; Francesco Saverio apostolo dell’Indie asserì di sua bocca di poter qualche cosa in Cielo: egli è amato da Dio, perché con zelo indefesso procurò la salute delle anime; ma no: non vuole patrocinarvi, perché voi del tutto dissimili a lui, andate sempre in cerca di farle perdere. O Dio! E che farete? Non vi perdete di speranza; Giovanni Gualberto è Principe del Soglio Celeste per quel perdono sì generoso dato all’inimico, allorché poteva saziare la sua spada sitibonda del di lui sangue; ma no, neppure egli vuole aiutarvi, perché voi sempre fomentaste nel vostro cuore odii, sdegni, vendette; mai voleste perdonare. Stanislao Koska giovane tutto pietoso della minima Compagnia, fu sì caro a Dio per la sua purità, che per saziare la sua fame del Pane di Vita, glielo fece porgere per mani Angeliche: ah che neppur egli vuole assistere a vostri bisogni, perché viveste sempre impuri; v’aiuterà Francesco d’Assisi, che per avere lasciato tutto il suo nel mondo, gode sì gran posto in Cielo… non già, sento rispondermi; perché per succhiare il sangue de’ poveri foste sanguisughe spietate. Non so più che suggerirvi, miei Uditori, se non vi aiuta il vostro Custode destinato alle vostre difese; appunto non è dovere, mentre sempre sprezzaste e le sue difese, ed i suoi consigli. Ecco l’ultimo rifugio: ricorrete a Maria, rifugio vostro, perché de’ peccatori. Ah che non è più tempo. Luna non dabit lumen suum; non ne vuole saper niente, troppo spesso con i peccati gli trafiggeste in seno il suo Figliuolo Gesù. Che sarà dunque di voi o peccatori? Le accuse del processo son vere, le difese non valgono, la protezione de’ Santi, né della Vergine non si possono avere. Dunque? Dunque alla sentenza, Dio ci aiuti! Ecco che sopra quel medesimo letto, che forse più volte servì all’infelice morto per trono d’incontinenza, s’alza il Tribunale Divino, e quivi a Cristo in Maestà terribile si conduce l’anima miserabile, cinta non di catene, ma di peccati, e quivi ferma ed attonita mira quella Faccia del Redentore adirata, che porta seco tale spavento, che considerata, fece dire al Crisostomo: Satius est mille fulmina sustinere, quam adverso Deo stare. Vorrei più tosto mille fulmini piombati sopra di me dal Cielo, che vedere il volto di Dio irato. Ed è pur vero, che questo è un principio de’ terrori. Assiso poi Cristo nel Trono ordina agli Angeli suoi, che si ponga sopra la testa di quell’anima infelice la corona, che si poteva competere per la ragione che aveva alla gloria; ma che? Subito gli vien tolta da’ demoni, che gli dico no: il Paradiso non è per te, giacché lo vendesti per odii, per crapule, per interessi, per vanità, per lascivie. O che terrori, o che spaventi! Ed a questi succede la sentenza, che a guisa di fulmine esce dalla bocca di Cristo, allorché rivolto all’anima gli dice: Recede a me maledicte in ignem æternum; va’ maledetto nel fuoco eterno: ed in così dire, rivolto a’ diavoli, dirà loro: ecco che Io vi consegno quest’anima, tormentatela, laceratela, sbranatela, giacché Io gl’ho scagliato in faccia col mio Sangue l’eterna dannazione. S’apre allora nella stanza del morto un invisibile foro per cui quell’anima non scende, ma precipita all’inferno tre mila miglia sotto del suo letto. Così termina l’anima infelice in quell’istesso luogo, ove lasciò il corpo estinto, condannata, dannata. Sacerdoti Ministri di Dio qual sarà la vostra sentenza in quel Tribunale Divino? Voi che parlate di laidezze, che mangiate il Pane d’Angeli peggio che non fareste quello de’ cani. Sacerdoti che assolvete chi non lo merita, dando veleno, invece d’antidoto. Donne, dame, anche voi comparirete al Tribunale di Cristo, che per trattarvi come meritate vi darà vesti di fiamme con le quali coprite la vostra immodestia, vezzi di serpi che v’adornino il collo, conciature di rospi, che v’abbiglino la testa. Cavalieri uomini, finiranno i vostri odii, le vostre superbie, a fronte di Cristo adirato. Mercadanti i guadagni di tanti traffici illeciti, di tante sacrileghe usure non valgono per placarlo; anche a voi dirà: all’inferno, all’inferno, e con voi stia in eterno chi visse e morì peccatore. Che rispondete ad una sì formidabile sentenza di vostra eterna morte? Niente! Così è; ma tutti come avverte Sant’Agostino: Ecce nihil respondere potero, sed demisso capite præ confusione coram te stabo confufus. Non risponderete con parole, ma con silenzio piomberete tra’ diavoli.

LIMOSINA
Vorrei che i miei Uditori riflettessero per ridurli a far limosina, a ciò che l’Angelo disse a Tobia: Bonum est eleemosynas magis, quam thesauros auri recondere; è meglio assai dispensare il danaro a poveri, che accumularlo; la ragione sembra un paradosso , e pure è verità infallibile. Sentite! Voi di tutto il vostro, altro non ritenete per voi, se non quello che date a’ poveri; quel che avete e non lo date non è vostro; solamente è vostro quello che date; E la ragione si è, perché tutto ciò che possedete e non lo date, un altro l’acquisterà dopo la vostra morte; ma quello che date a’ poveri, voi stessi ne sarete in terra i testatori, per efferne in Cielo gl’eredi: Quod Pauperi non dederis, dice San Pier Crisologo, habe bit alter, tu solum quod Pauperi dederis, hoc habebis.

SECONDA PARTE.

Orsù ditemi (contentatevi che lo gran predicatore moderno, a gran parte di voi noto, per le sue stampe) orsù ditemi, che vi pare di questa bella favola, che io v’ho raccontata questa mattina del futuro Giudizio? Oh Padre, voi mi rispondete, e che dite favola? Voi burlate… no; dico da senno, come favola? Ricordatevi che parlate con chi ha fronte bagnata d’acque sacrosante Noi crediamo il Divino Giudizio, è istoria Evangelica, è verità eterna. Se così è, dunque mi consolo; confesso il vero, che mi credeva che, non dico tutti, ma buona parte teneste per favola il mio racconto; come per favola lo tiene una gran parte del mondo cristiano; sì cristiano; cattolico? Si Cattolico: perché dunque voi mi replicate non si riempiono le carceri della Sacrosanta Inquisizione? Perché l’Inquisizione terrena non condanna se non quei che appaiono increduli. V’è però l’Inquisizione Celeste, che condanna ancor quelli che non appaiono increduli, ma lo sono. Se bene che sto io a slongarmi, veniamo al punto per vedere se si, o no, tenete per favola il Divino Giudizio. Non voglio parlare io in adunanza sì degna. Parli a voi il sapientissimo Vescovo Salviano: Che dite o savissimo prelato, tra miei Uditori v’è chi stimi per favola il Divino Giudizio? Ecco, che egli risponde, e per non offendervi così parla: Niuno crede di dover esser giudicato, se non procura evitar la sentenza di dannazione. Nemo est qui se judicandum a Deo certus fit, qui non præstet, ut pro bonis operibus præmia capiat. Bene bene, credete favola il Divino Giudizio? No, dunque, che fate per rendervi benevole il Giudice? Io vedo che quando pende una vostra causa in un tribunale, voi cercate avvocati, pagate procuratori, stentate, spendete lettere commendatizie, che non fate? E per avere favorevole Cristo? Nulla! Se vi chiede frequenza de Sacramenti? Nulla. Una piccola devozione? Nulla. Una limosina? Nulla. Una mortificazione? Nulla. Si lasci quell’amicizia? Nulla. Si perdoni? Nulla. Mi meraviglio di voi che così operate ed a voi dico che tenete per mera favola il Divino Giudizio. Non creditis, no, et licet velitis asseverare verbis crudelitatem vestram; torno a dirvi, non creditis; altrimenti converrà che vi dica che voi teniate il Tribunal di Cristo per tribunal di ciarle, e Cristo per un Dio di stucco, non creditis : Non me lo credete? Vel fo toccar con mano: ecco, perché non solo non procurate l’amicizia di questo Giudice, ma la nemicizia, strapazzandolo. Voi lo credete Giudice, e Giudice vostro, e lo maledite in ogni giuoco? Voi lo credete vostro Giudice, e lo bestemmiate? Voi lo credete vostro Giadice, e francamente contravvenite a ‘ suoi Comandamenti? Non creditis. Ma a vostro marcio dispetto quello non credete, toccherete con mano. Il Santo Vescovo Corrado allorché nella sua camera stava preparandosi alla predica, che nella mattina seguente doveva fare al popolo, si vide aprire su gl’occhi scena funesta: vide venire un signore d’alta maestà, che assiso in gran trono, era assistito da gran numero di personaggi, i quali tutti stavano in atto d’assistere ad un gran giudizio. Quand’ecco che per mano de’ diavoli fu condotto uno ben vestito ma con benda sul volto, e fu presentato avanti quel tribunale, con esporre che quello era uno vissuto tra l’ambizione e la crapula, onde si doveva all’inferno; ciò sentitosi dal Giudice, disse a quel misero, che si difendesse; ma egli disperato, rispose, è vero, è vero … merito l’inferno. Se così è, dunque, portatelo, disse Cristo, alle fiamme eterne; tanto bastò, perché quei diavoli seppellissero subito nel fuoco quell’anima infelice. Stava, come potete credere tutto attonito, e fuori di se il santo Vescovo, a questa orribile visione, quando alzatosi Cristo Giudice in piedi, se ne partì, e dietro ad esso seguirono tutti quei Santi Assessori, i quali nel passare avanti a Corrado, gli dicevano: Reliquum est, dum tempus habemus, operemur bonum; Non resta altro o Corrado, dicevano quei Santi, se non che mentre v’è tempo, far del bene. Non vi è altro miei Uditori. A questo Tribunale s’ha da venire, non v’è altro, salvo che vivere bene, purgar l’anima dalle colpe ed inserirvi delle opere buone.

NOVENA DELL’ANNUNCIAZIONE

NOVENA PER L’ANNUNCIAZIONE

(inizia il 16 marzo, festa 25 marzo )

(G. Riva: Manuale di Filotea – XXX ed. Milano, 1988)

Questa festa in cui si commemora la incarnazione del Verbo nel seno verginal di Maria, fu celebrata fino dai tempi apostolici, ond’è che si hanno su di essa due Omelie di San Gregorio il Taumaturgo, il quale nell’anno 246 fu fatto Vescovo di Neocesarea.

1. Immacolata Maria, che specialmente per la vostra umiltà e verginità meritaste di essere, a preferenza di tutte le donne più famose, eletta a Madre del vostro Creatore, ottenete a noi tutti la grazia di sempre amare, e di sempre praticare come Voi queste due sì belle virtù, onde meritarci a Vostra somiglianza, l’aggradimento del nostro Signore. Ave.

II. Immacolata Maria, che vi turbaste nel sentire celebrate da un Angelo le vostre lodi, ottenete a noi tutti la grazia di avere anche noi, a somiglianza di Voi, un sentimento così basso di noi medesimi, che, disprezzando le lodi della terra, attendiamo solo a meritarci l’approvazione del Cielo. Ave.

III. Immacolata Maria, che preferiste il pregio di Vergine alla gloria di Madre di Dio, quando questa non si fosse potuto conciliare coi vostri angelici proponimenti, ottenete a noi tutti la grazia di essere, a costo di qualunque sacrifizio, sempre fedeli nell’osservanza della Legge santa di Dio e delle nostre buone risoluzioni. Ave.

IV. Immacolata Maria, che con umiltà non più udita, Vi chiamaste ancella di Dio quando l’Arcangelo Gabriele vi preconizzava per di Lui Madre, ottenete a noi tutti la grazia che non c’insuperbiamo giammai per qualunque dono più singolare ci venga fatto da Dio, ma che anzi ci serviamo di tutto per più avanzarci nella via della virtù, ed unirci più strettamente al vero Fonte di felicità. Ave.

V. Immacolata Maria, che per la salute degli uomini non ricusaste l’incarico di divenir Madre del Redentore, quantunque conosceste con chiarezza il dolorosissimo sacrifizio che ne avreste dovuto fare un giorno sopra la croce, quindi la passione amarissima che avreste dovuto Voi medesima sostenere con Lui,  ottenete a noi tutti la grazia che non ci rifiutiamo giammai a qualunque sacrificio che da noi richieda il Signore per la gloria del suo Nome, e la salute dei nostri fratelli. Ave.

VI. Immacolata Maria, che col fiat da Voi proferito nell’accettare l’incarico di divenir Madre del Verbo, rallegraste il cielo, consolaste la terra, e spaventaste l’inferno, ottenete a noi tutti la grazia d’aver sempre una gran confidenza nel vostro santo patrocinio, affinché per Voi veniamo noi pure a godere il frutto di quella Redenzione così copiosa di cui foste, o gran Vergine, la sospirata cooperatrice. Ave.

VII. Immacolata Maria, che con un miracolo tutto nuovo diveniste Madre del Verbo, senza macchiare menomamente la Vostra illibatissima purità, ottenete a noi tutti la grazia di essere sempre così riservati e modesti negli sguardi, nelle parole e nel tratto, che non veniamo mai a macchiare la  castità conveniente al nostro stato. Ave.

VIII. Immacolata Maria, che contraeste una relazione così intima con tutta la SS. Trinità da diventar nel tempo stesso Figlia del Divin Padre, Madre del Divin Figlio, e Sposa dello Spirito Santo, ottenete a noi tutti la grazia di tener sempre l’anima nostra così monda, che meritiamo di essere con verità il tempio vivo del Padre che ci ha creati, del Figliuolo che ci ha redenti, e dello Spirito Santo che ci ha santificati. Ave.

IX. Immacolata Maria, che aveste la gloria singolarissima di portare nel Vostro verginal seno Colui che i cieli e la terra non sono capaci di contenere, ottenete a noi tutti la grazia di esercitarci continuamente, a somiglianza di Voi, nell’umiltà, nella penitenza, nella carità e nell’orazione, onde ricevere degnamente e con frutto lo stesso vostro divin Figliuolo, quando sotto le specie sacramentali si degna di venire dentro di noi; e fate ancora che siamo graziati di questa visita al punto della nostra morte, onde potere svelatamente contemplarlo, amarlo e possederlo con Voi in compagnia degli Angeli e dei Santi in Paradiso. Ave, Gloria.

QUARESIMALE (XX)

QUARESIMALE (XX)

DI FULVIO FONTANA
Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA
DI GESÙ

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMA
Nella Feria quinta della Domenica terza.


Il peccato mortale, traditore in Cielo, traditore in terra,
traditore sotterra.

Socrus autem Simonis tenebatur magnis febribus.
San Luca cap. 25


Ecco che questa mattina voglio scoprirvi a vostro gran vantaggio chi sia quello che vi tenga oppressi da febbri maligne, da febbri pestilenziali. Guardate gli tolgo la maschera d’in sul volto, eccolo: egli è il peccato mortale. Olà, uditemi; poche parole: Non è il peccato mortale qual molti se lo figurano un fiore con cui deliziarsi, ma una febbre pestifera che uccide. Apprendetelo, per sempre evitarlo, per quello che è ed è appunto qual io ve lo farò vedere traditore in Cielo, traditore in terra, traditore sotterra .. – O vive senza fede, o campa senza cervello chi non riconosce il peccato mortale per il maggior traditore del mondo. Al Cielo, al Cielo, per vederne i primi tradimenti. E voi portinai celesti contentatevi d’aprirci un sol piccolo cancello, per cui miriamo non la Gloria che vi fa beati; non siamo degni, che neppur uno de’ vostri splendori scintilli sulle nostre fronti; non pretendiamo con una tal veduta restar colmi di gloria, ma di spavento. Su, dunque, affacciatevi, il cancello celeste è spalancato; vedete voi colà quelle immense sedie d’oro tempestate tutte di zaffiri e diamanti? Queste furono preparate per gli Angeli, ed in quella sì risplendente a mano dritta doveva star lucifero, ed in quella a questi più prossima, Belzebud; ed ora quegli Spiriti celesti, che cavati dal seno del niente, furono collocati nel Cielo Empireo, dotati di sommo ingegno, di somma bellezza, immortali, capaci di vedere Dio, ora dico, stanno sopra sedie di fuoco giù nell’inferno. E d’onde mai, voi mi direte, mutazione sì strana? Non per altro, io vi rispondo, gemono, e gemeranno nell’inferno creature sì nobili, se non perché si collegarono col peccato mortale, s’opposero superbi al mistero loro proposto dell’Incarnazione, e ricusarono d’adorare il Figlio d’una Vergine. Voi ben sapete esser proprio di quei traditori che vogliono fare strani tradimenti, insinuarsi per via d’amicizia. Così appunto fece la scaltrita Semiramide, la quale domandò in grazia e con finta di scherzo amoroso a Nino suo marito, di concederle che lei un giorno solo sedesse nel trono come regina, e padrona assoluta. Si contentò l’incauto re. Si diede l’ordine d’obbedienza alle guardie. Ed ecco che la regina con apparenza d’affettuoso giuoco fece toglier di capo al marito il diadema, di poi la spada dal fianco, poscia il manto reale d’indosso, e finalmente ordinò che spietatamente gli si troncasse la testa. Cosi fa con voi il peccato mortale, s’insinua come se voglia scherzare, ma vuole uccidere. Così appunto fece con gli Angeli, se gli mostrò l’amico più caro che potessero avere, mentre gli disse che ribellandosi a Dio, sarebbero stati simili a Lui, similis ero Altissimo, e poi tradendoli, gli fece tutti piombar negli abissi. Ora io dico, se il peccato mortale, accolto una sola volta in un solo pensiero nel seno di quegli Spiriti che stavano per stabilirsi Principi del Soglio eterno, sì enormemente li tradì; come non tradirà voi, che l’ammettete nel cuore con pensieri, con parole, e con opere? Ah peccato, maledetto peccato ed è pur vero, quantunque ognuno ti conosca per traditore, non tutti però come tale ti sfuggono. E se fu traditore nel Paradiso Celeste, non lasciò d’esserlo ancor nel terrestre. Date d’occhio a quel bel recinto di mura sì ben disposto; quelle colonne di marmo finissimo che sostengono la gran machina, quei simulacri d’alabastro formati così al vivo, son lavoro di Dio. Questo è il Paradiso terrestre, miratelo pure al di fuori, perché l’entrarvi non è possibile. Sta sull’atrio un Cherubino del Cielo, il quale con una fiamma di fuoco nella destra, minaccia incendio a chi ardisce sol d’accostarsi. Non ha però questo Cherubino Celeste potuto tener lontano il peccato mortale; egli v’è entrato da traditore, poiché sotto specie d’amicizia si è insinuato con Adamo, ed Eva con le finte parole: Eritis sicut Dii … Voi sarete come Dei, se trascurando il precetto divino, gusterete del pomo vietato. Volete altro? Li ha traditi, ed oltre ad averli scacciati da un delizioso possesso, ha partorito a noi posteri quel gran fascio di mali che assedia la nostra vita: povertà, malattie, ignoranze, nemicizie, carestie, pestilenze, tempeste, liti, guerre e stragi. – Ora io replico, se il peccato mortale tradì Adamo, che pur era sì savio, per la trasgressione d’un sol precetto, come non tradirà voi tanto trascurati e che trasgredite e conculcate, quasi dissi, ogni precetto, senza rispetto né alla Chiesa né a Dio? Ah peccato, maledetto peccato, conviene esclamare, quantunque conosciuto per traditore, ad ogni modo vi è chi t’ama, t’accarezza. Sovvengavi che il mondo fece già lega ed amicizia col peccato, e fu allorquando … omnis caro corruperat viam suam, onde non fu meraviglia che soggiacesse a tradimenti. Fabbrica pure, poteva dire a Noè, l’arca; devi però sapere che le tue fatiche serviranno più per animali che per uomini, giacché il peccato della disonestà ha chiamate al tradimento le acque. Ecco che si aprirono le cataratte del Cielo, si ruppe ogni argine a’ fiumi, ogni lido al mare, il mondo si sommerse, e naufragarono alla rinfusa uomini e donne, nobili e plebei, poveri e ricchi, e tutti vi restarono miseramente sepolti. Salite pure, poteva dire, nella parte più alta delle case, portatevi sulla cima dell’Alpi; più fabbricate, se avete tempo, torri che superino d’altezza i monti più sublimi dell’Armenia, tanto le acque vi giungeranno; avete fatto lega col peccato, il peccato v’ha tradito, tanto basta, perché restiate sommersi. Immaginatevi pure tutto il mondo sepolto sotto le acque del diluvio e poi col vostro pensiero formate un monte di tutte le ossa di questo mondo sepolto sotto le acque del diluvio alzando gli occhi, attoniti sopra le alte rovine, esclamate, l’iniquo traditore che ha fatto macello di tanti uomini è stato il peccato mortale, e pur vi è al mondo chi l’accarezza. – Così è, l’accarezza quel giovane che non fa altro che sfogare gli appetiti, e contentare il senso; l’accarezza quel coniugato che, scordato della fede giurata alla consorte, alla Chiesa, a Dio, contamina l’altrui letto; l’accarezza quella femmina vana che sbracciata, scollata e spettorata si fa vedere per le strade, per le piazze, e nelle Chiese  con tal portamento di vita, che par cerchi far copia di sé; l’accarezza quell’ecclesiastico che non si vergogna lordare un abito sì sacrosanto con le sozzure, di strapazzare la M D. ne’ pubblici ridotti, tra giuochi, tra balli, tra le crapule; non è così? Così non fosse! Dunque, rientrate in voi stessi, e perché più sollecitamente dobbiate farlo, ve lo pongo sotto gli occhi in altri tradimenti. – Vedete colà quella statua di sale; sappiate che qui furono cinque Città nobili, popolate ed amene, ed è pur vero che ora neppur v’apparisce vestigio, anzi il fetore che esala quel terreno ricoperto da un lago bituminoso, non può tollerarsi. Anche queste città, ed è pur vero, si lasciarono tradire dal peccato mortale, il quale sorto specie d’amicizia gli promise ogni piacer di senso, e poi gli diede un diluvio di fuoco. Avreste veduto scendere dalla sua sfera quell’elemento ed a guisa di spaventosa pioggia, piombar sopra delle case, non accadeva, che i miseri fuggissero all’aperto, perché ivi giungeva il fuoco, se si ritiravano ne’ gabinetti, vi penetrava; se rintanavansi nelle cantine, anche colaggiù correva il fuoco portatovi per mano del peccato. Quel che a me spiace, è che a queste fiamme delle città incenerite per tradimento del peccato, molti e molti si riscaldano senza temer d’essere bruciati, come se fosse fuoco di paglia. E quali strumenti non ha mai adoprato il peccato per tradire il peccatore? Non fu contento di prender l’acque dalle nuvole nel diluvio, il fuoco dal cielo, che anche il mare volle ministro de’ suoi tradimenti. Giungete meco col pensiero fino al Mar Rosso, e quivi vedrete un orribile tradimento in persona di Faraone, perché fece lega col peccato, perseguitando il Popolo eletto: vide Faraone una strada in mezzo all’acque, per cui passava il popolo di Dio, si crede anch’egli poter passare con egual felicità, ma il peccato traditore … Equum , et Ascensorem dejecit in Mare, sommerse Faraone con tutto l’esercito, giacché quella strada sicura agl’Israeliti tornò a rimaner coperta dall’onde, sicché vedeanli divorare dall’acque soldati, armi e cavalli, e galleggiar piume, e bandiere di quella barbara gente. Peccato, intendetela, tradì Faraone ostinato; tradirà voi peccatori ostinati, voi, che volete morto l’inimico, non vi succederà, il peccato tradirà voi, e resterete sommersi nel Mar Rosso del vostro sangue. Voi siete ostinati come Faraone, non volete palesar quel peccato, potreste risanare passando per il Mar Rosso del Sangue di Gesù nella Confessione. Bene, non volete, resterete sommersi in un mare di fuoco. Quando voi non foste abbastanza persuasi da questi sì enormi tradimenti per fuggire il peccato, voglio mostrarvene de’ maggiori. Uscite dal nostro mondo, e dopo averlo conosciuto traditore in Cielo ed in terra, osservatelo traditore spietato sotterra. Quivi in quei cupi abissi lo conoscerete per tale in quelle profonde caverne che furono stanze d’esilio doloroso ai Santi Patriarchi ed a tanti giusti che non ebbero ingresso al Cielo, finché Cristo non l’apri loro col suo Sangue preziosissimo. Che sono abitazione di tanti morti senza Battesimo e d’innumerabili anime purganti. Sebbene, a che trattenermi in queste carceri, per conoscere come spietato carnefice il Peccato mortale? Basta che diate d’occhio a quella carcere la più orribile, la più spaventosa, la più spietata, che possa mai immaginarsi: Aprite, dunque, quella voragine profondissima, mirate che caligini, che fuoco, che fetore di cloaca pestifera, udite che strida di disperati. Vedete là tante anime immerse in stagni di fuoco e zolfo, che si dibattono rabbiosamente, che disperatamente bestemmiano; immaginatevi che sono di quelli, i quali simili a qualcheduno di voi, fecero lega ed amicizia col peccato mortale, ed il peccato li tradì da carnefice spietato, contentarono anch’essi, come voi, gli appetiti della carne con piaceri infami, sfogarono i rancori del cuore con crudi risentimenti, Fornicatoribus et Omicidis pars eorum in stagno ardentis ignis, sulfuris. Osservate quelle che stanno con la bocca arsa, con la lingua nera, con gli occhi spaventati e che fan forza per rompere quelle catene di fuoco, con le quali sono strettamente legate. Sapete chi furono? furono certe anime timide, che non si vergognarono di commettere il peccato, ma bensì di confessarlo, e furono sì sfacciate, che ardirono di comunicarsi in peccato mortale ed ora il peccato che le tradì si porta con esso loro da vero carnefice. Volgete lo sguardo a quelle truppe d’anime, che sono colà legate insieme e che sono circondate da tanti neri demoni, i quali soffiano in quei carboni, perché più penetranti facciano sentire i loro ardori … colligata est iniquitas in fascicules ad comburendum. Quei sono tutti Cristiani che di quando in quando ancor’essi andavano alla predica e tornando a casa, qualche volta dicevano: veramente il predicatore ha ragione, ma frattanto seguivano a tenersela con il peccato mortale che ora da lui sono stati traditi. – O Dio! E perché mi stanco nel narrarvi i passati tradimenti, o nel riflettere a’ futuri, mentre ogni peccatore lo può riconoscere traditore di se medesimo? E non è forse stato il peccato, che vi ha tradito nella reputazione, nella roba, nella sanità, nella vita? Certo che sì, crediatelo Tertulliano, il quale asserisce, che il peccare è appunto fondare un censo, nel quale, oltre al capitale della pena eterna, a cui soggiace il peccatore rimane anche sottoposto agl’annuali frutti, a’ quali và soddisfacendo con le calamità e perdite temporali; sopra di che scrisse a meraviglia. Idelberto attende miserias hominum intuere cineres, vectigalia peccati sunt; e che altro sono le perdite della riputazione, della fama, se non che peccati census, et vectigalia, interessi e frutti che da noi esige il peccato traditore. Non voglio che crediate a Tertulliano, ma a voi o peccatori. Se io domandassi a quella fanciulla: perché tanto amaramente piangete? … o Padre che volete dire? Ben v’intendo voi siete pianta giovine, ed il frutto è già maturo; Padre sì, non ho faccia da comparire; ma sorella, vi risponderò: quando vi fu detto, non trattate così alla domestica con quel vostro padrone, non andate in quella casa, non scherzate con quel servitore, non amoreggiate con chi non è vostro pari … se voi aveste obbedito, non sareste in questi cimenti; avete voluto accarezzare il peccato, ed egli v’ha tradito. – Il Peccato tradisce anche nella riputazione e non vuole intendere, così l’avesse inteso quella donna, la quale, perché volle anticipar le nozze, scoperta prima da’ domestici e svergognata nel pubblico, fu costretta a pianger prima vedova, che maritata. Così l’avesse inteso quella maritata, che mancando di fede al marito, a Dio, mancò di credito nella Patria. Così l’avesse inteso quell’avaro, che credendo di poter sempre celare i suoi traffici illeciti, le sue usure, finalmente scoperto, ne riportò l’infamia dovuta. Quell’uomo peraltro savio ed accreditato, ha perduta da reputazione, perché non sa staccarsi da quella rea femmina. Così pure quel Sacerdote, quel religioso, perché non si ritirano da quella casa, in cui si manca di fede a Dio, contaminando la castità promessa. Né solo è traditore, perché toglie la riputazione, ma perché invola anche la roba, quando pertanto le liti vi tolgono le ricchezze, i tribunali vi levano i danari, quando la vostra casa vi par divenuta casa di miserie, non date la colpa a’ vicini perché v’odiano, ai parenti perché v’invidiano, non mi state a dar la colpa alla fortuna che questa mai non fu né mai farà che nel cervello de’ pazzi: dite pure, ed allora direte la verità: la vera cagione della sterilità ne’ miei campi, della mortalità ne’ miei armenti, dello scapito ne’ miei traffici, della perdita delle liti, di tutte le mie disavventure, non è altro che quel traditore del peccato mortale, miseros facit populos peccatum; dite pure, le mie ingiustizie, le mie usure, quelle bestemmie, tante mormorazioni, tanti odii che ho covato in cuore, questi sì, questi sono i traditori della mia casa, della mia famiglia, della mia persona. Ed è pur vero che, quantunque questo maledetto peccato sia a suon di tromba dal lume della ragione dichiarato per un acquedotto avvelenato, e per una sorgente di tutti i mali, tuttavia sempre si trova chi va alle sue sponde, chi assedia le sue rive e beve come nettare il velenoso fondaccio de’ suoi stomachevoli umori. –  Racconta Niceforo, che Foca imperatore vedendosi altamente odiato da’ suoi, e dubitando di tradimenti, per assicurarsi la vita, fece ridurre il suo palazzo a modo di Cittadella inespugnabile ad ogni assalto, ma mentre s’alzavano le mura, nel più buio della notte dalla parte del mare s’udì una voce spaventosa che gridò: ferma, ferma imperatore! Che pretendi? Alza pur le mura fino al cielo che tanto saranno basse se non ne scacci il peccato. Si vel ad cœlum muros educas, intus cum sit malum, urbs captu facilis est. Così per appunto seguì, già che nello stesso giorno che fu compita la fabbrica, l’imperatore fu tradito … urbs captu facilis est ed io dirò: Domus vestra captu facilis est. Vi sono nemicizie nella vostra casa, vi sono trame di vendette, dunque io la vedo in rovina … Domus vestra captu facilis est. Se nella vostra famiglia vi sono disonestà, mormorazioni, bestemmie, la vostra casa sta per cadere; se siete profanatori delle Chiese, disturbatori della pace, la vostra casa non può durare, vi è dentro chi presto la tradirà. – Vedete là 8nel vostro paese quell’uomo? egli era comodo, ora è miserabile, perché? Perché il peccato l’ha tradito; prese una nemicizia, e v’ha logorato tutto il suo; ebbe poi una amicizia, e gli ha succhiato quanto avea; si diede al giuoco, alle crapule, e si rovinò; e pure voi altri stolti, benché abbiate sugli occhi questi esempi, tanto volete l’amicizia di questo traditore. Ah, peccato maledetto, com’è possibile che ognun non ti fugga, mentre sì bruttamente tradisci ancor nella sanità? Volete vedere se sia vero che tradisca anche nella sanità? Mirate quei giovani senza colore in viso, senza fiato sulle labbra, senza forze nella vita, pieni di quel male, che dicono venir di là da’ monti, il peccato li ha traditi. Venite col vostro pensiero agli ospedali per vedere i tradimenti del peccato. Osservate quel ferito, or sappiate ch’egli andò per dare, e ricevette: il peccato dell’odio l’ha posto in letto; mirate là quell’altro con la testa spaccata, ne fu causa il peccato dell’amore indegno, un suo rivale lo percosse; su, passate ora alle carceri, e dite: chi vi tiene miseri quelle catene al piede, chi quei ceppi? Il peccato del furto! Chi vi stende sugli eculei? Le false testimonianze, le accuse a torto. Dove va colui, condotto con tanta comitiva? Al patibolo, alla forca, chi ve lo conduce? La Giustizia, ma il tradimento l’ha avuto dal peccato; dite pure: Ah peccato, maledetto peccato, vero traditore, mentre non sazio di tradire nella reputazione, nella roba, nella sanità, tradisci ancor nella vita, e dopo aver lasciato il corpo estinto sopra la terra, seppellisci l’anima nell’inferno. Volete vedere che sia vero? Udite: s’amavano con indegno amore in una città della Sicilia un indegno giovane ed una sfacciata donzella; quando un dì si abbatté a passare dalla casa dell’amica il giovane, e fu appunto quello in cui a causa di purga s’era cavato sangue, invitato dunque dalla rea compagna a salire le scale, le salì l’infelice, ma per traboccare da più alto nell’inferno. Si cenò allegramente, ed allegramente pieni di vino e di disonestà, si diedero in preda al sonno, che questa volta non fu immagine di morte, ma vera morte: dormiva il giovine quando, scioltasi la fascia del salasso, s’allargò di nuovo la ferita, ed apertasi la vena, il sangue agitato e commosso da’ passati disordini, uscì in sì gran copia, che l’infelice morì prima di risvegliarsi; destatasi frattanto la rea femmina, trovando il letto allagato di sangue, tenta destar l’amante, che già vegliava tra’ tormenti d’inferno; indi, acceso il lume, mirò e vide con orrore il funesto tradimento del suo peccato; pianse, e con egual dolore deplorava la morte dell’amante ed il pericolo della propria vita, se dalla Corte se gli si fosse trovato in casa il cadavere; onde consigliatasi con la madre, anch’ella vituperosamente intrigata in questa tresca diabolica, deliberarono di strascinarlo ambedue avanti della porta d’una vicina Chiesa; seguì tutto prosperamente, ed apertasi sul far del dì la Chiesa, fu collocato quel morto nella bara a vista d’ogn’uno. Era riuscito alla madre ed alla figlia celar con felicità la loro ignominia, cavandosi di casa il cadavere, ma non era soddisfatta la Divina Giustizia, che voleva vittima della propria disonestà anche la femmina. Impazzita dunque questa e d’amore e di dolore, non sapea trovar luogo, non poteva raffrenare né pianti né sospiri; sicché la madre pensando di poterla alquanto quietare, con condurla, come una del vicinato alla Chiesa, per vedere lo spettacolo, la condusse, ma con esito assai più funesto, poiché la giovane a vista dell’amante steso su quella bara, diede in sì alta disperazione, che tratto prestamente un coltello di tasca, e gridando in pubblica Chiesa: io son quella che ho dato morte a costui; son io, son io, io merito di morire; ed accompagnando a queste voci il colpo che si vibrò nel cuore, si diede la morte, volando ad abitar nell’inferno con chi visse nel mondo lasciva. Intendetela, così tradì quest’indegni il peccato; così tradirà voi, se non mutate vita, lasciando il vostro corpo ai vituperi del mondo, e l’anima al fuoco eterno.

LIMOSINA
I campi innaffiati dall’Indo sono sì fertili, che in un anno medesimo danno due raccolte ed i pascoli de’ prati vicini al Nilo sono sì ubertosi, che gl’armenti ivi partoriscono due volte. Per noi, RR. AA., fecondissime terre sono le mani de’ poveri, nelle quali ci consiglia sì spesso la Divina Scrittura a seminare le nostre sostanze, assicurandoci del centuplo in questa vita, e della salute eterna: Promissionem vitæ, quæ nunc est, futuræ.


SECONDA PARTE

Il Profeta Reale, voglio per ultimo vi confermi di propria bocca se veramente sia traditore il peccato; voi ben sapete, che quando si sollevò nel popolo quell’orribile pestilenza, che in poche ore fece uno scempio di sessanta mila persone, se se ne fosse domandata la cagione agli astrologi, avrebbero subito ritrovato nel cielo qualche capo di medusa ed addottolo per autore di tante stragi; ed i naturali avrebbero risposto, che un alito contagioso, uscito all’improvviso da qualche apertura insolita della terra, avesse con tanto danno infettato quel popolo; e tra’ politici non farebbe mancato chi avesse dubitato di peste fatta a mano con polveri e porcheria, sparse a bello studio da’ popoli confinanti, loro nemici, per rovinar quel Reame allora si florido d’Israele. David però senza tanti discorsi ed interpretazioni ne assegna la vera cagione, attribuendo scempio sì grande al suo peccato. Questo riconobbe per stella maligna, per alito pestilente, per nemico persecutore: Ego, ego sum qui peccavi, ego qui malum feci. Egli è purtroppo vero, il peccato è la vera cagione di tutti i mali; il peccato si è quel ribaldo in Cielo, quel traditore in terra, nel mondo, quel Carnefice spietato sotto terra. Egli è quello che toglie reputazione, roba, sanità e vita. Voi, lo so, v’opponete al mio discorso, e dite: Padre, io non so tante cose, io ho il peccato in me, lo sopporto nei figli e talor lo voglio nella moglie, o almeno chiudo gli occhi, e non vedo che questo peccato mi tradisca, anzi la mia casa è in buona stima, sto bene di facoltà, di sanità e se ho da dire il vero, il peccato me le accresce, perché tengo corte le misure, e scarsi i pesi; ho fatto instrumenti falsi, ho gabbato vedove, ho ingannato pupilli, e pur le cose vanno di bene in meglio; ho anche qualche omicidio sulle spalle, non mantengo la fede alla consorte e non vedo questi tradimenti. Non v’ha dunque tradito il peccato mortale? No? Dunque non vi tradirà? O questo non lo potete dire. È ben vero che sommamente mi condolgo con voi, giacché non siete stati traditi dal peccato finora, con cui avete fatto lega, perché vuol dire, che per voi macchina un tradimento molto maggiore, vi vuol tradir di là con pena eterna. Datemi mente. È vero che la pena è l’ombra della colpa, in questo però non imita la natura dell’ombra, perché d’ordinario ella va distante dal corpo che la produce. Che voglio dire, per parlar più chiaro, che Dio non paga né in contanti, né ogni sabato, ma scrive al libro i peccati l’un sopra l’altro e quando sono arrivati ad un certo segno, allora vibra fulmini per incenerire e roba e case e persone. Voi che avete fatto lega col peccato mortale, perché non vi vedete castigati subito, vi date ad intendere che Dio dorma, e perché lo vedete tardare, stimate che non sia più per venire; v’ingannate, verrà, e verrà di certo, e se tarda, sarà più risentita la sua venuta.  L’arciere, quanto più tien teso l’arco, tanto più scocca risoluta la sua saetta: Dio vi liberi, che Dio non vi castighi, che il peccato non vi tradisca in questo mondo, perché potreste stimar certa la dannazione. O di qua, o di là bisogna infallibilmente pagarla. Orsù dunque, si lasci l’amicizia di questo peccato mortale che, se alletta, domani vi tradisce. Sentite questo caso. Dormiva una smisurata serpe in una selva, stesa per lungo in terra quando abbattutosi un infelice viandante a passarvi vicino, la crede un albero di quel bosco buttato a terra, e vi sipose su a sedere per riposarsi: ma ché, la serpe premuta, si risentì, ed accesa di sdegno, cinse con la lunga sua corporatura l’infelice passeggero, e tiratolo nella sua tana, a membro a membro, lo divorò. Voi tutto dì volete porre i vostri riposi, le vostre consolazioni, i vostri sollievi nel peccato mortale. Volete amicizia con lui, orsù non dubitate, sarete traditi, praticherà con voi le sue benevolenze, i suoi amori ed i suoi abbracciamenti saranno indirizzati a condurvi in una caverna, dove in eterno abbiate da penare tra gl’incendi. Pensate, e risolvete se vi torna conto d’avere quest’amicizia col peccato mortale, che fu ribaldo in Cielo, traditore nel mondo e carnefice spietato sotto terra.

QUARESIMALE (XXI)