QUARESIMALE (XXX)

QUARESIMALE (XXX)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA TRENTESIMA

Nella feria terza della Domenica di Passione

La mormorazione vizio detestabile, perché nello stesso tempo contamina chi mormora, di chi si mormora, e chi ode mormorare.


Et murmur multum erat in Turba.
San Gio: al cap. 7.

Sono ormai sei mila settecento e più anni, che a rovina del mondo tutto, ebbero principio i delitti della lingua, e fu allora che il serpente mormoratore d’inferno cacciò Eva dal Paradiso terrestre, e con le sue cadute ne derivano i nostri precipizi, quando susurrans serpens, scrisse un moderno, Evam de Paradiso excussit. Dalla lunghezza del tempo gran forza ha preso il vizio della lingua, che peggiore d’ogni altro si fa conoscere nella bocca del mormoratore perché, come dice San Bernardo, coll’arma pestifera della sua lingua ferisce nello stesso tempo in un sol colpo tre persone … tres lætaliter inficit et uno. Inficit colui, di cui mormora; inficit coloro con cui mormora; inficit finalmente quello, che mormora. Vediamo ad una ad una queste tre rovine per evitarle, e son da capo. – Non ha il diavolo ministro né più fedele, né più accurato nel servirlo del mormoratore, poiché non restringe le sue mormorazioni a sesso, mormorando con egual libertà e d’uomini, e di donne; non le limita ad età, poiché tanto si mette a lacerar la fama d’una piccola donzella, d’un innocente garzoncello, quanto d’una vecchia decrepita, e d’un uomo canuto. Non guarda a condizione, poiché la sua lingua è egualmente pronta ad imbrattarsi nella reputazione d’un grande, d’un Pastor sacro, come d’un vil plebeo. Arriva sino a lacerar la fama delle vergini, o legate con voto o consacrate ne’ chiostri, e de’ Ministri anche più accreditati degli Altari. Non ha, torno a dire, ministro il diavolo né più fedele, né più accurato, poiché anche in ogni luogo alza il suo trono. Andate alla campagna, agli orti, alle vigne, agli oliveti, e qui si fan largo le lingue mormoratrici. Entrate nei castelli, terri, città e qui nelle strade, nelle case, che più? Ne’ Templi, ed … o che ministri diabolici! A ministri sì fedeli, conviene che il diavolo assista con le sue astuzie, poiché non cessano di portargli guadagni d’inferno; ed il Santo David in più luoghi de’ suoi Salmi ne palesa il diabolico loro operare, … os tuum abundavit malitia. Vi sono alcuni, che se non s’empiono la bocca di mormorazioni non son quieti a guisa di quei parassiti che, non contenti di nutrirsi, voglion sempre piena la bocca. Né qui si ferma il santo David, poiché non solo asserisce che abbonda la malizia nella bocca del mormoratore, ma passa a mostrarne gl’inganni, onde dice: Lingua tua concinnabat dolos. Costoro furono appunto come lo scorpione, il quale finge d’accarezzare con le branche per ferire con la coda, mentre lodando talora uccidono il credito e scemano l’onore. Lingua tua concinnabat dolos … che vale a dire che mormorando adorna inganni, ed abbellisce infamie. Principiano questi dalle lodi, e nell’atto stesso di ambire, sanno cavar sangue. Lodano un giovine, ma con esprimerlo o libero nel parlare, o licenzioso nel guardo, sicché quel misero avrebbe avuto per meno male d’esser maledetto che lodato da quelle lingue che lodando vituperano, e celebrando infamano, simili appunto a quelle lodi di certe streghe sacrileghe, le quali assaturano le piccole creature col solo lodarle. Penderà dal petto d’un amante madre un caro figliolino, quando una di queste streghe messasi a lodarlo, gli dirà: o come è vago, o come è vezzoso il vostro figliolino; ed appena ciò detto, la creatura si ammala, principia a languire, ed a consumarsi come una candela di misture aromatiche, che si consuma senza sapersi come bruci. Lingua tua concinnabat dolos. Di tal sorta pure sono quelle lingue che principiano il discorso dalla compassione, e lo finiscono in crudeltà, mostrando dispiacere, ch’una persona, per altro di talenti, commetta poi certi errori; possono questi assomigliarsi ad un certo serpente, di cui dicono i naturalisti, che ha il capo candido, ma non ha denti in bocca, dalla quale però versa una spuma sì velenosa, che attossica quanti tocca; mostrano questa razza di mormoratori d’esser candidi, e sinceri di parlar per puro zelo, e di non aver denti in bocca da mordere; ma in verità sarebbe meglio che gl’avessero, giacché la spuma che gettano dalle labbra è più nociva, perché guidata con più artificio. Peggio, passa avanti il santo Profeta, e lo dichiara uomo di più lingue, Vir linguosus. Io per me non ho mai veduto persona che abbia più lingue in bocca, e se due ne avesse, so che non potrebbe parlare neppur con una; come dunque il santo David dice, un uomo di più lingue? Perché il mormoratore di tutto se stesso, forma lingue nefande. Voi vi troverete in una conversazione, ove per lode d’una donna, si dirà che ella è un vero ritratto della modestia, quando uno di coloro per ironia rivolto all’amico abbassa il capo, eccolo detrattore con la testa, la loda un altro, come specchio di cristiana pietà, ed un di quei serra l’occhio sinistro, e si fa mormoratore con gl’occhi. Si dichiara quello che la donna è un esemplare di ritiratezza, e che alla nobiltà della nascita accoppia l’onor della vita, quando s’osserva che uno del circolo o fa un cenno con la mano, o preme col suo il piede del vicino, sicché col piede senza strepito altamente si parla. Vir linguosus, uomo di più lingue è il mormoratore; ben ravvisato per tale da Salomone allorché scrisse: annuit oculis, terit pede, loquitur digito. E di lingue di serpente avvelenato d’un aspide, venenum aspidum sub labiis eorum, per additarci, che siccome il morso ed il veleno dell’aspide è insanabile, così la piaga che fa il mormoratore è irrimediabile. O quanto difficile è render la fama, è quasi impossibile. Vi aiuterete per restituirla, ma indarno. Mosè voleva far conoscere che egli era vero ministro del suo Signore, onde gettata la sua verga in terra, la fece subito trasformare in un orribile serpente, ma che? Appena la ritolse in mano, che subito la fece di serpe ritornare verga. Vollero gl’incantatori di Faraone far anch’essi una prova eguale, ma non gli riuscì; fecero, è vero cambiar le verghe in serpi, ma quelle serpi mai ritornarono all’esser di verghe. La virtù diabolica, miei UU., può arrivare a far del male, a cambiar le verghe in serpi, ma non può già rifare dal male, bene. Tanto succede ai mormoratori: vi riuscirà di far comparire quell’uomo da bene per un usurario, per un maledico, per un vendicativo; vi riuscirà di far credere che quella devozione sia una ipocrisia, che quella fanciulla sia macchiata, che quella maritata non sia fedele, ma non vi riuscirà di farli ritornare nel loro essere, e di reintegrarli di quel che gli avete levato. Calumniare, calumniare, diceva quell’infame politico, semper aliquid remanet. E se è irrimediabile, darà la morte, così è, così è, dice l’Angelico San Tommaso: Qui occidit fratrem suum, qui detrabit, pariter homicida esse monstratur. Che però la Sacra Scrittura alla lingua maledica dà il nome or di rasoio, or di saetta, or di spada per denotare le gravi piaghe che ella fa nel cuore del prossimo; e se la lingua de’ mormoratori non giunge per sé stessa a privare il prossimo di vita, giunge a privarlo per mezzo d’altri, mentre una gran parte delle più sanguinose fazioni sono causate dalle mormorazioni. Non ha il demonio, no, ministra più fedele della lingua, poiché se tante volte sono perite nobili casate, e belle prosapie, son caduti i regni più floridi, e le  regalità più gloriose, tutto è stato effetto, al dir di Plutarco, della lingua: Unius lingua dolo, proditione, urbes conciderunt, regna, res publica; così è, dice lo Spirito Santo: Os lubricum operatur ruinas. Voi vi crederete, che il mormoratore abbia finito d’adoperar l’arma terribile della sua lingua, mentre non solo con essa ha ferito, ma ucciso, come parla l’Angelico; appunto, appunto, sentite il Profeta, che segue: Lingua eorum transivit in terra, che è quanto dire che talora penetra la terra, fino alle ossa de’ poveri morti, di questi ancora mormora, anzi più, talora salgono in Cielo. Os suum posuerunt in Cœlum. Il leone, se trova una bestia uccisa, la mira e poi passa avanti, né la tocca. Non fanno già così questi indegni, mentre con la loro perfida lingua s’inoltrano fino all’ossa de’ trapassati, e sono sì temerari, che non considerano che, con dir male de’ morti, chiamano al lor sindacato come rei, quei che facilmente sono beati in Cielo. Né vi crediate, segue il santo Profeta, che queste loro mormorazioni siano rare, appunto, hoc opus eorum, questo è il mestiere che fanno dalla mattina alla sera, non già di passaggio, ma di proposito: Sedens adversus fratrem tuum loquebaris; sedens nell’anticamera di quel personaggio; sedens avanti l’uscio di quella bottega; sedens sopra le panche di quella Chiesa, mentre si aspettava la predica; sedens a quella mensa, a quella veglia, a quel fuoco; insomma hoc opus eorum qui detrabunt mihi; ecco l’occupazione degli uomini e delle donne dalla mattina alla sera: dir male degli altri. Gran cosa! Quelle persone ancora che non sanno dire tre parole in fila, sapranno durare tutto dì a mormorare simili a quelle rane che non hanno altra voce che per gracchiare. – Sinora ho detto del mal che fa il mormorare a quello, a quella, di cui mormora. Or vediamo adesso il mal che fa a quello, che sente mormorare: grandissimo, perché lo ponete in pericolo di dannarsi. Non me lo credete? Uditemi. Coloro alla presenza de’ quali mormorate, o son buoni o son cattivi: se son cattivi come voi, si compiaceranno d’aver compagni, e prenderanno un animo molto maggiore per seguitare con la loro maledica lingua a trinciare la riputazione di chi che sia. Voi ben sapete che il Profeta Reale, udita ch’ebbe la morte dello sventurato Saul pregò coloro che gliela significarono, a non palesar questo successo agli abitatori di Get, per non dargli occasione di parlare sulle calamità d’Israele, ne exultent filii incircumcisorum; ma voi mormoratori, che fate? Quando in quel circolo vi lavate la bocca di quel chierico, di quel religioso, di quella donna, di quella dama, fate che chi vi sente, prenda motivo di seguitarvi, di far lo stesso, anzi d’accrescere etc… Un empio solo che mormori, sveglia in chi sente, un insopprimibile talento di mormorare, a guisa di quell’importuna cicala che, col suo garrire, sveglia allo strepito quant’altre gli son vicine, etc. .. –  Quando poi questi che vi sentono mormorare non siano uomini empii, ma pii, ma da bene, o quanto è male, che voi fate all’anima loro; è facilissima cosa, che voi mormoriate di quelle cose, che essi non sapevano, come d’amori, d’onestà, etc… e così voi gl’insegnate le indegnità, e gli fate e pensar ed imparar quei mali a loro ignoti. Di più li ponete in pericolo di divenir mormoratori come voi, più, che dispregino quelle persone, delle quali mormorate, e se non altro, li ponete in stato di vanagloriarsi, e di dire col Fariseo, non sum, non sum sicut cæteri bominum. O quanti mali quanti mali! Voi poi, che talora vi trovate ne’ circoli ove si mormora, se non volete avere nelle orecchie quel diavolo, che ha nella lingua chi mormora, avete a seguire il consiglio del Boccadoro: habes, quod laudes, aures aperio, si vero malum velis dicere, obturo aures non enim stercus et cænum accipere sustine. Fratello, signore, signora, se volete parlar bene del prossimo, io v’ascolto, se male, chiudo le orecchie, perché non voglio sozzure di maldicenze. E quando la vostra condizione tanto non vi permetta, servitevi della proprietà del delfino, di cui narrano i naturali, che ode, ma par che non oda, giacché non appariscono le sue orecchie. Se voi non potete impedire che non si mormori, mostrate di non udire, non apparisca in voi né gradimento, né approvazione. Or che v’ho mostrato il danno che riceve quello di cui si mormora, e quello in presenza di cui si lacera, resta il terzo punto del male, che ne viene a quello che mormora. Primieramente dovete sapere, che siete in odio agli uomini: abominatio hominum detractor, i quali, benché vi ridano in faccia, v’abominano nel cuore, perché quel tradimento, che fate agli altri in presenza loro, lo farete di loro in presenza d’altri, e vi riconoscono per quei cani da macello, i quali godono d’imbrattarsi egualmente in ogni sangue le loro labbra; ma questo è un nulla; il peggio è, che siete odiati da Dio: detractores Deo odibiles, così parla l’istesso Dio. Siete odiati da Dio, dunque permetterà Iddio che vengano nella vostra casa quei vituperi, che ora scoprite in quella del vostro prossimo; impius, dice lo Spirito Santo, confundit, confundetur. Guai a questi mormoratori, guai a questi detrattori: Vir detractor, seguita a parlar Dio, non prosperabitur in terra. Siete odiati da Dio; dunque andranno sempre di male in peggio i vostri interessi, resteranno sterili i vostri campi, fulmini spietati inceneriranno i vostri armenti, orride tempeste termineranno le vostre campagne, orribili terremoti scuoteranno da’ fondamenti le vostre case. Siete nemici di Dio, dunque periranno le vostre consorti, i vostri mariti; si estinguerà la vostra casa con la morte immatura de’ figli, e voi, perché mormorate, vi ridurrete a tal miseria, che per sostentar la misera vita, vi converrà mendicare un tozzo di pane di porta in porta, Vir detractor non prosperabitur in terra, diluvieranno le disgrazie, le infermità, le morti sopra la vostra casa, la vostra famiglia, la vostra persona. Girate, girate pure le strade tutte di questa vostra città, voi che conoscete ogni famiglia, e troverete molti di questi detrattori, che prima vivevano con comodità nelle loro case, ed ora sono ridotti a stato tanto infelice così permettendolo Iddio per castigo della loro maldicenza. Ma che sarebbe, quasi dissi, poco il castigo narratovi; il peggio è, che qui non si ferma il giusto sdegno di Dio; non basta a Dio che i mormoratori siano miserabili nel corso della loro vita, li vuol tali anche nella morte, perché li vuole morti di morte improvvisa! O Dio! Cosa vuol dire essere odiati da Dio, o Dio! che disgrazie porta seco la mormorazione; ecco le parole delle sacre carte: Time Dominum fili mi, cum detractoribus ne commiscearis, quoniam repente consurget perditio eorum; mormoratori, la vostra morte sarà subitanea, repente, repente, può mentire Iddio, amplifica Dio, burla Dio? Se credete, che mentisca, burli, o amplifichi, non parlo con voi, perché butterei il tempo, predicando ad infedeli; ma se non mentisce, voi perirete di morte subitanea, o colpiti da una goccia, come il mormoratore Alcimo, che tanto sparlò di Giuda Macabeo, o inghiottiti dalla terra, come gl’empi detrattori di Mosè, repente consurget perditio eorum, vi troverete colti da quella morte che sola al mondo è bastevole a far tacere le vostre lingue sacrileghe. Riflettete dentro di voi a quanti fin’ora son morti di morte subitanea; e toccherete con mano, ch’erano per lo più detrattori. Temete dunque uomini e donne, temete, perché se mormorerete, morirete di morte improvvisa senza poter neppur proferire quel Santissimo Nome: Gesù! Gran castighi sono questi, non lo nego, morire di morte improvvisa, ma pure sarebbero comportabili se non ve ne fossero de’ maggiori. Chi è in odio a Dio, creda pure essergli dovuto ogni castigo. Ecco, che lo stesso Profeta passa a castighi molto maggiori, e più severi; Virum injustum idest detractorem,
spiega la Glossa, mala capient in interitu, al capezzale sì, alla candela benedetta, a quegli ultimi fiati, alla morte proverete ciò che voglia dire esser stato mormoratore, e come tale in odio a Dio. Vi sbatterete per quel letto agitati, come furie, vi lacererete con le vostre mani, come arrabbiati, le carni; morirete senza l’assistenza de’ Sacerdoti, passerete all’altra vita senza Sacramenti, tutto per divina permissione, perché foste mormoratori: Virum detractorem mala capient in interitu; O Dio saranno pur finiti i castighi contro i detrattori, mentre ora li vediamo morti; finiti? Mi risponde la glossa morale, spiegando le sopracitate parole, appunto, no, no! Quia mala gehenne eum capient, no, no, che non sono finiti i castighi divini, ve ne sono ancora, mala gehennæ, vi è la perdita irreparabile dell’anima, vi è l’eternità dell’inferno, vi è l’ardere ed il bruciare per sempre fin che Dio sarà Dio. Tu, o mormoratore in tutto il tempo di tua vita non la perdonaste mai ad alcuno, ma ti dilettasti sempre di detrarre, e di biasimare chiunque ti veniva in bocca, così Dio per tutta l’Eternità ti farà provare la sua eterna maledizione, se non fermerai quella lingua, che scocca saette nell’altrui fama, il tuo premio in fin di vita farà un’eterna morte: dilexisti, dice David, omnia verba præcipitationis lingua dolosa, ecco quello che ne seguirà … propterea Deus destruet te in finem, e vuol esprimere, secondo San Bernardo, idest irrevocabiliter per destructionem eternalem, quæ sine fine erit. Tanto appunto intervenne ad uno di questi mormoratori, il quale ridotto alla morte, sentendosi esortare ad avere fiducia nella Divina Misericordia, gridò con voce spaventevole: che misericordia? non vi è misericordia per me di Dio, già che io sì poca n’ebbi verso il mio prossimo; indi, orribil cosa, tratta fuori la lingua, accennò col dito, che la mirassero, e poi questa lingua … soggiunse, m’ha condannato, questa, con la quale m’avete sentito si spesso condannar altri; questa sa, che disperato io mi danni; così disse, e perché manifestamente apparisse, aver egli per giusto giudizio di Dio così parlato, se gli gonfiò tutta in un subito la lingua, sicché non potendola più ritirare a sé, cominciò a muggire come un toro, e così dopo penosissima agonia, morì nelle braccia del diavolo. Volete voi evitar simili castighi? ubbidite al Profeta Reale: Benedicite Dominum omni tempore, Iddio vi ha dato la lingua, non per mormorare, ma perché semper fit laus ejus in ore vestro, dirò io, risolvetevi dunque d’abbandonare vizio si mostruoso, benedicendo Dio nel vostro prossimo con la vostra lingua, acciocché Egli benedica voi in punto di morte.

LIMOSINA.
San Giacomo Apostolo chiama la lingua mormoratrice con questo vocabolo: universitas iniquitatis, quasi voglia dire, che chi è mormoratore, può dire d’aver in sé ogni vizio, merceché la mormorazione equivale a tutti. Cosa dovrà fare dunque il mormoratore per liberarsi da questa universalità di peccati? Una  buona limosina, giacché la limosina, dice Dio ne’ Proverbi, è quella, che operit universa delicta, universa delicta operit charitas! Anche tra gli uomini la liberalità ricopre i vizi, che però Filippo Re de’ Macedoni era solito di dire, che stava in sua mano cambiar le mormorazioni de’ sudditi verso di lui in lodi, perché bastava ch’aprisse la mano a donare.

SECONDA PARTE.

Siate pur benedetto, o Padre, Dio vi renda il merito di questa Predica. Tale appunto era necessaria in questa nostra patria, ve ne era un estremo bisogno, non si fa altro che mormorare ed udir mormorazioni; sicché godo dunque d’averla affrontata con speranza di frutto. Ma ditemi, chi siete voi, che così parlate? Io vi credo uomo da bene, donna d’ogni onore. Ma se voi poi foste nel numero di quelli e di quelle che tanto godono che si predichi contro chi mormora, perché vorrebbero vivere a lor modo secondo i loro capricci con ogni libertà, e che di loro non si parlasse, non si fiatasse, io contro di voi mi rivolterei, e con santo zelo v’imporrei un perpetuo silenzio. Come? Voi volete far tutto e far di tutto, e con ciò dar motivi continui che di voi si sparli, e poi volete che ognuno taccia? Tacete voi più indegni di loro. Vi sarà una donna, un Sacerdote che diranno: non siamo rispettati, si sparla di noi … ditemi, rispondo io, buona donna, reverendo Sacerdote, ne date occasione? Se ne date occasione, fanno male essi e peggio voi, e però prima a voi e poi a loro è dovuto il castigo. Voi vivete non da Sacerdote, ma da secolare, non avendo che la veste da religioso, la quale non basta per occultare le inimicizie, il trafficare, il mercantare, vi fate conoscere per puntiglioso, e si sa che la castità promessa non si osserva, e vi dolete poi che si mormori? Tacete e non ne date i motivi sì gagliardi. Già voi vedete, che una parte del mondo mormora dell’altra, né mai si cessa. Sentiamo le scuse che adducono molti per liberarsi dalla colpa. Padre, io non ho tanta malignità; se qualche volta parlo, parlo per zelo! … Non vorrei vedere ciò che non sta bene, lo zelo eh? Non siete già voi come le rane, le quali giacendo nel fango, gridano poi sempre, quasi rimproverando agli altri la loro sordidezza. Avvertite, che non vi senta il lupo di Plutarco che a voi farà il rimprovero che fece a certi guardiani d’armenti; udite: introduce Plutarco un lupo che, costretto dalla fame, passa alla mandria, addenta un agnello, quando destati i cani e svegliati i pastori, fu tale la fierezza di questi ed il latrar di quelli, che il povero lupo, per non perder la vita, lasciò la preda; tornato però la notte appresso la caccia, e giunto con la scorta dell’odore di carne cotta alla stessa capanna, quivi da una apertura dell’uscio, riconobbe che quegli stessi cani e quegli stessi pastori stavano banchettando chi con le ossa, e chi con le carni del più grasso vitello di tutto il gregge. Oh addio galantuomini, gridò meglio che poté con gli urli il lupo, così guardate gli armenti? Quantus tumultus si hoc ego fecissem, bel zelo abbaiare contro degli altri e far peggio degli altri, salvare un agnello, e rubare un giovenco. Se io rubai, lo feci per fame, ma voi per ingrassarvi tradite i padroni, sfiorate la greggia e scandalizzate etc… . Voi avete zelo di quella, etc. . dirò io, donna, e voi, che fate? Padre, non son nel numero di questi, ne dico salvo quel ch’è vero. Adagio, e da quando in qua si possono pubblicar i difetti, benché veri? Dunque, se un povero ecclesiastico, una povera donna cadono, potrà pubblicarsi? E da quando in qua, quello che succede in una camera si ha da dire per una Piazza? Quel che accade in una casa, si ha da pubblicare per la città? Quel che succede in un vicinato, si ha da scriver per tutto? Mi meraviglio di voi, chi ha peccato, tiene tuttavia della sua fama, giustamente il possesso … Io non trascorro tant’oltre, dice un altro, ma sol quello che so, lo confido a mio marito, all’amico; no, neppure ad uno dovete dirlo, audisti verbum adversus fratrem tuum, dice lo Spirito Santo, commoriatur in te; hai udito qualche fallo del prossimo, non lo dire a niuno; ma pensate voi se vogliono ubbidire? Appunto a guisa d’una donna di parto, par che si trovi in angosce, finché non trova a chi comunicare ciò ch’ha udito. Via, via, si muti linguaggio. Se così farete, sarà santificata la lingua di chi mormora, l’orecchio di chi ascolta, la vita di chi opera, ed in tal forma si giungerà da tutti a lodar Dio.

QUARESIMALE (XXXI)

QUARESIMALE (XXIX)

QUARESIMALE (XXIX)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMANONA
Nella feria seconda della Domenica di Passione.

Si mostra la stolta presunzione d’offendere Iddio sulla speranza della Divina Misericordia.

Si quis sitit veniat ad me, et bibat. San Gio: cap. 7.

Il premio e la pena sono le due basi che tengono il mondo in regola. Che meraviglia dunque se Cicerone, principe dell’eloquenza, colà nel terzo de Natura Deorum, apertamente dicesse, che non solo una repubblica, ma neppure una casa poter durare, mentre in quella non si tema il castigo per il vizio, non si speri il premio per la virtù; nec domus, nec respublica stare potestà, si in ea nec recte factis præmia extent ulla, nec supplicia peccatis. Del pari dunque camminano al reggimento del pubblico premi e pene; ma o quanto è male e quante turbolenze partorisce il non punire le colpe. Guai a noi se non si punissero i rei, si vedrebbero in breve tempo le città divenute selve di lupi depredatori. Stupisco però come gli uomini siano così stolti, che dalla clemenza d’un principe che perdona, ne ritraggano motivi di seguitare vita licenziosa; sarebbe tuttavia, quasi dissi, poco male, se così passassero le cose con i soli principi della terra. Anche con Cristo Re si pratica in tal modo, poiché gli uomini, quanto più lo considerano misericordioso, tanto più l’offendono, e perché Egli si dichiara, si quis sitis veniat ad me, per questo sperano aver aperte sempre le fonti delle Divine Misericordie, per affogarvi le loro colpe e seguono a peccare. Seguitate pure, dirò io, perché (e sarà l’assunto del mio discorso) se pretendete d’offendere Dio sulla speranza delle Divine Misericordie e sul fondamento delle vostre stravolte idee, vi troverete e castigati e perduti. – Perdonatemi o dotti: convien che io stamane me la prenda con i peccatori ignoranti, i quali discorrendo da pari loro, formano sciocchissimi sofismi, e su questi vogliono innalzare la fabbrica della loro salute. Dio è buono, dicono essi, ha sparso tutto il sangue per noi, è tutto misericordia, il Paradiso non è fatto per i Turchi, si salvò un ladrone, dunque, anche io porrò piede in Cielo. Poveri peccatori, che sì fattamente discorrendo continuate a menar vita licenziosa senza accorgervi che pretendete stringer l’ombra in pugno, la vostra speranza sulla bontà Divina, mentre continuiate a peccare, è giusto come l’arcobaleno, che altro non ha salvo l’apparenza. Voi dite, Dio è buono, e poi ne cavate per infallibile conseguenza: dunque si può peccare, questo è un discorrere da sciocchi; dunque, perché Dio è buono voi volete esser empi, poiché Dio riceve i penitenti voi volete continuare a peccare; perché Egli vi benefica come Padre, voi lo volete trattar da nemico. Dio immortale, ed è pur vero che neppur le vipere impastate di tossico, offendono se non sono offese, solo voi offendete Iddio non solo quando non vi offende, ma quando tutto bontà vi benefica. Voi temerari così dite: Dio è buono, quindi si passino i giorni negli amori, le notti nelle veglie scandalose! Dio è buono; dunque, irriverenze nelle Chiese, dunque si mormori in ogni circolo, si sparli in ogni piazza, si pecchi in ogni luogo. O che pazze conseguenze! Deducetene piuttosto un’altra, e dite: Dio è buono, dunque s’ami, s’onori, si adori, si osservino i suoi precetti. Fermatevi, che fate, e perché oltraggiate quel cavaliere sì buono con le parole, e perché percuoterlo con schiaffi vergognosi? È un peccato il solo pensare ad offenderlo, e non sapete la sua bontà perché dunque strapazzarlo? Per questo stesso sento rispondermi: perché è buono voglio strapazzarlo, maltrattarlo; questo è un parlar da pazzo, non è vero miei UU.? Orsù a noi. Dunque, un uomo vil fango della terra, perché è buono merita ossequi, e Iddio che è bontà infinita merita dispregi? Neppure un cane, quando sia buono deve strapazzarsi ed è pur vero che il privilegio d’un cane, d’un animale non l’ha Cristo, perché quantunque buono si vilipende, e si conculca con i peccati. Dio è buono! Ah che mi si spezza il cuore, dunque si bestemmi alla peggio il suo nome Santo, dunque s’inalberi uno stendardo, e vi si arruoli sotto un esercito di maritate sedotte, di vergini contaminate, e con una tal milizia si tenti di cacciarlo dal suo trono per costringerlo a nuovamente vivere in una stalla. O che conseguenza bestiale è mai quella… Dio è buono, dunque pecchiamo. Dite piuttosto, bonus es tu, in bonitate tua doce me justificationes tuas. – Non cavò già conseguenze sì storte Giuseppe il casto, casto ancorché giovane come abbiamo nella Genesi al cap. 36. Fu questi più volte tentato dalla padrona che era una di quelle maritate a cui pareva che il vincolo coniugale non servisse di freno, ma di stimolo alla incontinenza, fu dico tentato Giuseppe con quelle infame parole dormi mecum, al che gli rispose: ecce dominus meus omnibus mihi traditis, con quello  che segue. Il mio padrone, disse Giuseppe, è sì buono verso di me che mi ha quasi costituito padrone di tutto il suo, e come potrò io contaminare il suo letto: Quomodo potero peccare in Dominum meum, non sia mai vero no; così si discorre e così si opera. Deh mutate sin quaggiù o peccatori e dite: Iddio è buono, dunque non lo devo offendere, ma amare, perché il buono fu sempre amabile, e riflettete che se Egli è buono, come voi dite, tanto peggio sperate se non l’amate: Certe si talis est, qualem putas tanto iniquius agis, si non amas… non vi seguite a guisa di vipere di fiori per formar veleni. Ah Vergine amabilissima, mi si apre il petto per il dolore; dunque la bontà del vostro Figlio che dovrebbe essere stimolo acutissimo per amarlo, serve a’ peccatori di crudo carnefice per crocifiggerlo. O iniquità, o stoltezza insensata e crudele! – Da questa conseguenza così pestifera … Dio è buono, dunque si può peccare, si passa ad altra non meno indegna: Dio è misericordioso, dunque si può offendere. Confesso di vero, che io non so capire la sfacciataggine di questi peccatori, i quali fanno a Dio il maggior de’ mali, qual è l’offenderlo, e da Lui sperano il maggior de’ beni, qual è la sua misericordia per salvarsi. Tu dici: Dio è misericordioso, e per questo mi salverà, ed io ti rispondo che con tutta la Divina Misericordia, se seguirai a peccare probabilmente ti dannerà. È misericordioso Iddio, non è vero? … Padre sì, eppure lascia piombare nell’inferno tanti Turchi, tanti idolatri; ma questi Padre non hanno il Santo Battesimo, bene … è misericordioso, eppure ha lasciato cader nell’inferno tanti Cattolici … ma Padre perché vissero peggio di me; peggio di te non lo so, perché tu neppur stavi lontano da quei vizi che chiamano fuoco dal Cielo, e ne vuoi complice talora chi ti consegnò Iddio per indivisibile compagnia. Vissero peggio di te, hai tu fatto un sol peccato mortale? Appunto de’ soli pensieri ne conterai le centinaia; e pure Iddio con tutto che sia misericordioso lasciò pur piombare nell’inferno quell’infelice giovinetto della città d’Ingolstadio in Germania, il quale morto che fu per esserglisi rotta una vena del petto, ed averlo affogato mentre dormiva, comparve ad un suo maestro, che per lui voleva celebrare la Messa, e glielo vietò dicendogli che era dannato. Come dannato? Replicò il Padre, sapendo che era vissuto innocente. Ieri appunto, rispose lo scolaro, un cattivo compagno m’allettò alla colpa, commisi il peccato, me ne andai a letto con pensiero di confessarmi la mattina, ma rottamisi una vena del petto, restai soffocato e morto, e per un sol peccato mortale mi trovo dannato. Ditemi, la Misericordia di Dio è punto scemata con la condanna di questo miserabile per un sol peccato mortale? Certo che no, or vedi, se scemerà punto con lasciarvi piombar te, che de’ peccati mortali ne hai a centinaia, tu, che sei pieno d’usure, d’odio, d’amori indegni … noli contemnere misericordiam, dice San Bernardo, si non vis sentire justitiam. Pur sento chi temerariamente mi replica: E non volete che io speri di salvarmi ancorché continui a peccare, mentre Gesù per salvarmi ha sparso tutto il suo Sangue? Cristo ha sparso il suo sangue per noi, dunque pecchiamo! O che diabolico argomentare è mai questo, mentre dovreste piuttosto dedurre, Dio ha sparso il suo sangue per noi, dunque, noi spargiamolo per Lui; Dio ha sparso il suo sangue per liberarmi dalla morte, dunque, uccidiamolo! Che conseguenza!? sentite caso orribile, che si racconta nel Cristiano Istruito. – Si affronta a passare un soldato da un patibolo, di dove pendeva già impiccato un uomo, e veduto che si moveva, stimò, come di fatto era, che ancor non fosse morto, andò, lo staccò, lo ristorò, e levatoselo in groppa del suo cavallo seco lo conduceva per aiurarlo; quando colui, che aveva ricevuta la vita, immaginandosi che quel soldato portasse denari, gli tolse dal fianco lo stile, glie lo piantò più volte nella schiena, e l’uccise. Che dite? Così fate voi: Dio mi ha data la vita spargendo il suo sangue, ed io gli voglio dar la morte con i peccati. Se si è lasciato crocifiggere per voi, non dovete voi ribattergli i chiodi con nuove colpe, altrimenti sarebbe un pretendere che Cristo fosse a guisa di quelle piante che danno balsamo per ferire. Seguite pure a peccare sul fondamento d’aver sparso per voi il suo Santissimo Sangue, ed io v’assicuro, che questi chiodi saranno un giorno a voi fierissimi pugnali al cuore, queste spine serviranno di siepe alle porte del Paradiso perché non vi entriate; i flagelli e strumenti della sacra passione cacceranno voi all’inferno e si avvererà in voi quel di Salviano che: nullus difficilius evadit, quam qui se evasurum presumpserit, niuno più difficilmente scampa la dannazione, che chi troppo presuntuoso spera la Gloria. Padre, voi ci vorreste far disperare della Divina Misericordia, ma tanto vogliamo sperarci sul fondamento che questa è giunta a salvare un assassino di strada, quel buon ladrone. Orsù, già che siete ricorso al rifugio degli ostinati con dirmi, che uno scellerato ladrone nel Calvario con un memento Domine si salvò, e perché non potrete salvarvi ancora voi? Son dalla vostra; ma fo un passo più avanti, e vi dico, che nell’ultimo dì di vostra vita è troppo presto a far penitenza, a convertirvi a sperare nella Divina Misericordia. Piano, Padre. E che dite? Voi volete dir troppo tardi … No, no, troppo presto, perché io vi consiglio aspettare dopo morte; non vi meravigliate del mio discorso, perché io così argomento: Cristo risuscitò Lazzaro, chiamò a vita la figlia di Jajro, il figliuolo della vedova, dunque, morti che sarete resuscitati ancor voi, e vi userà questa misericordia che resuscitati facciate penitenza. Il mio argomento è più forte del vostro. Voi argomentate da uno ed io da tre. Ma via, già che mi avete nominato il buon ladrone discorriamola. Ditemi, sperereste voi, divenuto reo di qualche grave delitto, nella misericordia d’un principe che avesse perdonato ad un solo, e giustiziatene le migliaia? Certo che no; sì bene memini, dice San Bernardo, in toto cannone unum inveniri sic, salvatum, in tutta la Divina Scrittura si trova solamente questo ladro in tal forma salvato; sia pur vero, che fuori delle Divine Scritture se ne trovi qualche altro. Ma dall’altra parte si trovano milioni di dannati; come, dunque, potrete voi più sperare che temere, mentre de’ vissuti male taluno si salva, e tanti si dannano? Dice San Geronimo: Vix de centum millibus unus appena uno di centomila, che son vissuti male, se ne salva. Dio immortale io così la discorro, e dico, che quando anche de’ peccatori simili a voi avessero i più da salvarsi, tanto dovrebbe il timore farvi mutar vita. Sentite: Arnolfo Conte di Fiandra era travagliato da acutissimi dolori di pietra, determinarono i periti di venire al taglio, ma egli ne volle prima la prova in altri; fu eseguito il comando, e trovati venti che pativano del medesimo male, si venne con essi al taglio, e di venti uno solo ne morì. Se ne portò con allegrezza la nova ad Arnolfo, ma egli nel sentire che pur uno era morto, invece di rallegrarsi s’impallidì, sicché disse, può anche essere che io resti sul colpo, e perciò più timido per la morte d’uno, che speranzoso per la salute di diciannove, non volle sottoporsi al taglio. Or io dico, se così risolse essendone campati diciannove e morto uno, che avrebbe fatto se diciannove fossero stati i morti, ed uno il vivo? Via via medici, via chirurghi, a che m’esortate se la maggior parte muoiano? Ah Dio, ciò che nella cura del corpo, neppur si sognerebbe, nell’anima tutto dì si pratica, e si va dicendo: si è salvato il buon ladrone, mi salverò anche io. O che parlar da pazzo, si è salvato un ladrone, mi salverò anche io dopo una pessima vita. Qua voi sapete che a Giuseppe, la prigionia gli portò i primi onori dell’Egitto; andate a mettervi in ceppi, che così vi renderete illustri ed acquisterete il dominio de’ regni; Mardocheo fu calunniato e per mezzo della calunnia salì alle prime grandezze della Persia. Su presto, procacciatevi delle calunnie, e diverrete ricchi e potenti. Contentatevi che ad esempi sacri mescoli una relazione profana. Racconta Plinio d’un tal infermo, ch’aveva speso tutto il suo in medici e medicine per guarire da una ostinata cancrena; disperato si portò alla guerra, e messosi fra la mischia, da un colpo che gli volò su, la postema gli fu aperta e guarì. Se per disgrazia patite un simil male, su andate o alla guerra, o quando sentite qualche rissa nella vostra patria mettetevi tra quelle spade per esser feriti. Eh, che gli esempi rari non devono servire per regola. Se un empio si salva, è un miracolo, muta vita! Gridate pur quanto volete, che finalmente il Paradiso non è fatto per i Turchi, ma per noi; son con voi, per i Turchi che moriran da Turchi non è fatto il Paradiso; ma se non è fatto per i Turchi, molto meno sarà fatto per le bestie come sei tu, che sei un aspide, che vomiti veleno di pestiferi spergiuri; che sei una vipera, che con la tua lingua mormoratrice uccidi la fama del prossimo; che sei un rospo che non hai in bocca altro che tossico di bestemmie; che sei un drago velenosissimo, che getti spuma di laidi discorsi, di disoneste canzoni; che sei un basilisco, che con occhi avvelenati d’amori indegni uccidi l’anima di chi ti mira; che sei un cane mastino pieno di livore, e di brama di vendette; che sei un’animale immondo, perché stai nel fango delle disonestà fino alla gola: dunque se il Paradiso non è per i Turchi, molto meno per te, perché sei una bestia ne’ costumi; per tale appunto ti riconobbe San Girolamo, allorché commentò le parole d’Ezechiele, bæc dicit Dominus homo homo de domo Israel; sapete quello vuol dire con replicare la sacra Scrittura, homo homo, quasi che vi fossero uomini vuole che non fossero uomini? Asserire esservi uomini che non son uomini ma bestie, multi enim homines, ecco le parole del santo, habentes hominis faciem corporalem diversarum bestiarum assumunt imagines, e con prendere i peccatori immagini di bestie, ne prendono altresì i costumi, sicché vivono non più con la testa volta verso il Cielo, ma col capo chino alla terra. Voi ora non avete occhi per riconoscere ciò che in voi è di brutale, ma aspettate, non andrà molto, che al lume della candela benedetta accesa nella vostra agonia, aprirete gli occhi, e temo senza frutto. Quei che lavorano i tappeti, li tessono al rovescio, sicché, se esprimono un mostro non lo vedono sin tanto che, compita l’opera non si volti dall’altra banda, e non si esponga al suo lume. Con un’arte simile lavorate voi peccatori la vostra vita, mentre quantunque intrecciate orribilissimi mostri d’iniquità nella tela de’ vostri giorni, tuttavia lavorando alla rovescia non li vedete, e si può dire di voi come di quei miseri Giudei, nesciunt quid faciunt; sappiate, or vi dico, che voi, peccando, lavorate sulla tela della vostra vita ed alla cieca, mostri tali che hanno da essere distruggitori dell’anima vostra. Alla morte si rivolterà il tappeto, ed allora comparendo i bei lavori che faceste, vi ravviserete per quei che siete, e vostro malgrado confesserete che: se il Paradiso non è per i Turchi che vivono e muoiono da Turchi, molto meno è per chi potendo viver da uomo, ama piuttosto vivere da animale. Da questi sciocchi sofismi passano i peccatori a proposizioni indegne ed ardiscono di dire: se pecchiamo, non pecchiamo per fare ingiuria a Dio! Primieramente io vi dico, che questa vostra scusa prova tanto, che non prova niente, perché prova in sostanza che niuno de’ peccatori si dannerebbe, perché  niuno di loro, se non è divenuto un diavolo offende Dio per offenderlo; chiunque l’offende ha puro fine, comunemente, di scapricciarsi; in secondo luogo io vi rispondo che, siccome voi nel peccare non avete per scopo l’ingiuria che fate a Dio, ma le vostre soddisfazioni, così Iddio nel castigarvi severamente, o in questa vita o nell’altra, non pretenderà far danno a voi, ma pretenderà con la vostra pena far contrappeso alla deformità de’ vizi vostri. Padre, se voi chiamate debole scusa questa addottavi, certo non afferirete per tale la seguente: Or sentite è vero, si peccò, ma non ci disperiamo, perché fu necessità; e come si può di meno di non obbedire al padrone, se vuole gli assista di notte, se vuole che gli serva di guardia. Bisogna pure che io obbedisca, se voglio mantenermi la grazia di lui e vivere. Tacete, tacete bocche d’inferno, che asserite peccare per necessità, perché in così dire mostrate di stimar fallita la Divina Providenza, mentre non credete che ella possa fare le spese convenevoli a chi la serve. Deh aprite gli occhi, dice Agostino ed intendete, che chi v’à finora pasciuti ribelli a sé, con più ragione, vi pascerà riverenti e buoni, pascet te Deus contemnentem se, et deseret timentem? Non è possibile. Tacete adunque, e non adducete queste scuse, che appunto sono scuse per continuare nel vostro peccato che, se oggi vi alletta, domani vi tradirà. Ma se voi o Padre mi sbattete tutte le mie scuse non potrò dirvi altro se non che è vero, che pecco, né vedo modo di svilupparmi da’ peccati, e la causa di ciò bisogna riferirla a Dio. Che dici? Che bestemmi? A Dio? … Padre sì, a Dio: pecco, perché Dio m’ha fatto così, così m’ha impastato, e d’irascibile e di concupiscibile. A Dio, dunque, dai la colpa della tua mala vita? Dio dunque vuole le tue iniquità? Dio mi ha fatto così! dunque Dio per te non è quel sommo Bene che veramente Egli è, ma è per te un fiero tiranno, un fiero carnefice, perché avendoti fatto per peccare, t’ha fatto necessariamente per dannarti. O che bestemmie! Tali che dalla bocca di lucifero non possono uscir simili. Se così è, che Dio ti ha fatto così e, secondo il tuo dire sei necessitato a peccare, così discorro anch’io. Dio ha fatto così te, dunque non ti offendere quando sei ingiuriato, maltrattato, percosso, tradito, perché quelli che contro di te operano, son fatti così da Dio. Scancellate pure i vostri ordini o magistrati, o sovrani … non più leggi, non più statuti. Gli uomini al dire di questi empii son fatti da Dio in modo che bisogna che operino anche il male; dunque non servono i vostri ordini. Dio mi ha fatto così, questa è la natura che Dio m’ha data! Tacete temerari, non è questo modo di parlare, non è scusa che valga, è una difesa da stolto. Ditemi, se un orologio si ferma, se lentamente cammina, se talora non suona, o suona fuor di proposito, voi non dite già il maestro l’ha lavorato così, ma dite l’orologio è guasto. Ne mai vi potete dar a credere, che sia uscito guasto dalle mani di chi lo fece. Dunque, come ardite dire di voi stessi, che se siete cattivi, lo siete perché Dio v’ha fatti così e di tal natura, quasi che dalle mani di Dio siate usciti scellerati. Dite, e direte bene, l’orologio è guasto, io mi sono rovinato da me con darmi a’ vizi: convien pertanto che io mi ponga nelle mani di quell’Artefice stesso che mi fece, col mezzo d’una santa Confessione … Deus fecit hominem rectum: Iddio non mi ha fatto cattivo, da per me mi son fatto tutto il male. Questa vostra scusa dunque o peccatori, di dire Iddio m’ha fatto così, voi ben vedete, che non sussiste, e perciò non passerà al Divino Tribunale: sicché vi perderete. O che sarà mai, se ci perderemo, se ci danneremo, che volete dire? … vogliamo dire, che non saremo soli nell’inferno. Principi Cristiani per punire i delinquenti non ordinate che si fabbrichino carceri oscure, cittadelle penose, orride torri, due sole prigioni bastano nel mondo Cristiano, quella del Sant’Offizio, de’ pazzi l’altra, così disse un servo di Dio, e disse bene, perché o il peccatore crede che vi sia inferno, o non lo crede; se non lo crede, come eretico al Sant’Offizio, se lo crede e pecca, e dopo il peccato non si pente, egli è pazzo, vada alla prigione de’ stolti. Se andrò all’inferno non sarò solo … e che sciocco parlare… non sarai solo, dunque tanto peggio per te. In un chiostro sacrosanto di capuccini satresti solo? No, perché in tanti religiosi avreste tanti Angeli per compagni, e pur non ti dà l’animo d’andarviti a richiudere; come, dunque, ti figuri tollerabile l’inferno, perché non sarai solo? Tra di noi in questo mondo è qualche conforto aver compagni nelle miserie, perché, o ci soccorrono, o ci compatiscono; non così nell’inferno, dove ognuno coopera al mal dell’altro. Senti, dice Naum Profeta, nell’inferno stanno i dannati a guisa d’un gran fascio di spine, che così strette insieme l’una con l’altra si pungono, sicut spine se invicem complectuntur. La moltitudine nell’inferno non serve per sollievo, ma per tormento e perciò meglio sarebbe esser solo; ma non dubitare non sarai solo, perché con te vi sarà quel compagno complice nel tuo misfatto, quel sacerdote che ti assolve francamente, quel tuo padre che non ti castigò, certo non sarai solo, vi saranno quelle femmine con le quali ballaste, sparlaste, lo so, non sarai solo, perché avrai la compagnia di tanti diavoli, di tanti dannati. Pazzo che sei, dunque va’, e gettati da quella torre, perché altri vi si son gettati; va’ butta il tuo perché non sarai solo ad esser povero; va cacciati un pugnale in petto, perché non sarai solo ad aver commesso un simile sproposito; se vado all’inferno non sarò solo… hai ragione, affacciati a quella bocca d’inferno, e dà d’occhio a quelle anime disperate, rimirale tormentate da fiamme inestinguibili, e sappi che anche esse, mentre vissero fra noi seppero dire ad ogni aperta di bocca: Dio è buono, Dio è misericordioso, Dio ha sparso il suo Sangue per noi, il Paradiso non è per i Turchi, dunque ci salveremo; ma perché discorrevano senza lasciare il peccato, si sono dannati; anche essi dissero più volte io non ho intenzione d’offender Dio, ma di scapricciarmi, se pecco, pecco per necessità, ma queste scuse non gli furono ammesse, perché non buone anche molti si lasciarono uscir di bocca cose sacrileghe. Dio m’ha fatto così, non so che farmi, se andrò all’inferno, non sarò solo, ed or pagano le lor bestemmie con eternità di fuoco. Io non so più che dirmi, sol finisco con assicurarvi, che se sollecitamente non mutate vita, né più vi abusiate della Divina Misericordia con questi vostri sofismi, e sciocche conseguenze si verificherà in voi quel tremendo aforisma, in peccato vestro moriemini, morirete in peccato mortale, che vale a dire senza la grazia, e perciò rei di fiamme; dalle piume del letto passerete al fuoco dell’inferno, Dio non lo voglia!


LIMOSINA
Conduceva un gran limosiniero i mercanti al suo granaio, e… quanto mi darete, diceva loro, di questo monte di grano? Essi rispondevano, tanto danaro, conforme a ciò che pareva doversi ed egli replicava: sappiate, che io trovo chi me ne dà più assai. Se io vendo il grano a voi, voi mi date poco di più di quello mi costi; se io lo do a Cristo ne’ poveri, egli mi raddoppia sempre l’entrate, e mi dà per cumulo il Paradiso. E così li licenziava compunti, e distribuiva allegramente la sua raccolta tra mendici, come tra i più fruttuosi corrispondenti. Attendete ancor voi miei UU. ad un sì bel traffico, depositate nelle mani di Dio tutti i vostri averi. Il banco divino non è fallito, può mantenervi il centuplo già promessovi nel Vangelo; fate elemosina e ricordatevi che lo Spirito Santo dice: Elemosina non patitur animas ire ad tenebras, chi fa la limosina non va all’inferno.


SECONDA PARTE

Poveri noi, ci avete sbattuti tutti quei motivi che ci davano speranza di salute, sicché potremo disperare di salvarci. O questo no, perché il maggiore de’ peccati è disperare della Misericordia Divina. È ben vero che chi vuole questa Divina Misericordia convien che cessi da’ peccati, perché il voler far peccati sotto la coperta della Divina Misericordia è un volere che la Divina Misericordia serva quasi di fomento al peccato, e questo non sarà mai! Sapete chi può sperare nella Divina Misericordia con fondamento? Prima quelle persone che vivono senza peccato mortale e molto più se fanno ogni possibile per astenersi da’ veniali. Secondo quelle persone, che dopo aver corso la strada de’ vizi, pur pentiti una volta, più non peccano. Terzo: quelle persone che quantunque immerse ne’ peccati, desiderano ad ogni modo di emendarsi e sfangare da vizi. Queste tre sorti di persone sperano con fondamento; non così però quelli che vivono immersi nelle scelleraggini e sono anni che stanno allacciati con quella pratica, sicché i loro peccati sono senza numero, come le loro sfrenatezze senza ritegno. Pure così chi vive tra gli odii, tra le vendette, tra gli interessi etc…. Questi non accade, che sperino misericordia se non mutano vita. La Misericordia di Dio non si può sperare con far de’ peccati, ma con far del bene, spera in Domino, fac bonitatem, spera, dice il Santo David, ma fa del bene. Se ci è poi che desideri sapere perché la gente diviene ogni dì peggiore, eccolo: perché Dio non castiga subito. Se quando qualcheduno prorompe in qualche bestemmia gli si venisse subito ad inverminire la lingua, se quando uno commette un furto gli si seccassero le mani; se quando uno commette una frode gli si instupidisse la mente; se quando uno trascorre in qualche sorte di enorme disonestà, venisse subito ad esser ricoperto di schifosissima lebbra, vogliamo noi credere, che sarebbero tanti al mondo i bestemmiatori, i furbi, i fraudolenti, i lascivi? Ma perché Dio non ci castiga subito, perché talora par che taccia, perché talvolta prospera alcuni nelle enormità, per questo la gente prende animo ad oltraggiarlo, per questo imperversa, per questo insolentisce, per questo divien finalmente ogni dì peggiore, quasi che Iddio come esercita la pietà, così non sappia ancora a suo tempo esercitar la giustizia; no, no … senti ecclesiastico: dixeris peccavit, et quid mihi accidit triste? Altissimus enim patiens est reditor. Non dire è tanto tempo che io vivo a mio modo, e con tutto ciò le mie cose vanno molto prosperamente, godo un’ottima sanità, ho delle facoltà e mi crescono, ho de’ figli, e mi vivono, ho degli amici, e mi stimano, e se ho de’ nemici mi rispettano. No, ne dixeris…: è vero, che il Signore spesso tarda, ma sempre arriva. T’arriverà quando non te lo credi. Tu prendi animo dal vedere che Dio finora non ti ha mai castigato nelle tue colpe, ed io ti dico, che tu da ciò hai da prendere non animo, ma spavento. Vuoi che te lo dimostri? Il non averti Iddio castigato finora, come tu meritasti peccando, non può procedere se non da uno dei due capi, o dall’averti perdonato il castigo, ovvero dall’avertelo differito. Fingi però che Egli abbia perdonato; adunque ora hai da temer più, perché quanto più ti ha Egli perdonato per il passato, tanto meno è probabile che voglia perdonarti per l’avvenire, non si ritrovando mai principe sì melenso, che mai punisca, sempre perdoni. Che se Dio non ti ha perdonato il castigo, come è certissimo, ma te l’ha differito perché lo sconti dopo, o nella vita presente, o nella futura, tanto più hai da temere, perché: questo è segno che Dio ti vuol castigare tutto in una volta, e però tanto sarà più terribile il castigo tutto raccolto insieme sopra del tuo capo. Riflettete dunque che l’avervi Dio tollerato finora, non solo non ha da rendervi più arditi, ma più timidi!

QUARESIMALE (XXX)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO – S.S. LEONE XIII – “INSIGNES”

“Ho dedicato me stesso e il mio regno interamente alla Santa Romana Chiesa e alla vostra Beatitudine. Il Vicario di Dio in terra, anzi Dio stesso, non può comandare alcuna azione così difficile per me, o così pericolosa, che io non ritenga doveroso e salutare intraprendere, che io non tenti senza timore, soprattutto quando si tratta di rafforzare la fede cattolica e di schiacciare la perfidia degli empi …. Qualunque nemico della Religione sia necessario incontrare in battaglia, ecco che Mattia insieme all’Ungheria… rimangono devoti alla Sede Apostolica e alla vostra Beatitudine e lo rimarranno per sempre”. Stupenda testimonianza del Re d’Ungheria Mattia, resa al Romano Pontefice ed alla Chiesa Cattolica tutta ricordata in questa lettera Enciclica inviata da S.S. Leone XIII ai Vescovi della Nazione ungarica, tenacemente legata alla fede Cattolica ed al suo reggente, il Vicario in terra di N. S. Gesù Cristo. Questa fede rimane ancora unica oggi nel panorama della nazioni europee tutte vergognosamente apostate dalla fede dei loro padri, fede che ne ha reso possibili progressi civili, materiali e spirituali. Tra tutte le nazioni apostate dal Cattolicesimo ed immerse in un terrificante paganesimo di stampo liberal-massonico anticristiano, effettivamente ancor oggi l’Ungheria resta un baluardo piccolo, se vogliamo, ma resiliente allo strapotere demoniaco dei satrapi globalisti luciferini disseminati in tutti i governi mondiali e nelle istituzioni sovranazionali. Ma si sa, a Dio bastano dodici uomini rozzi per diffondere la sua dottrina evangelica in tutto il mondo, trecento uomini male armati per sbaragliare eserciti agguerriti di migliaia di uomini, per cui non c’è da temere per la barca di Pietro anche se combattuta e quasi affondata dalle tempeste suscitate dai nemici di Dio, della sua Chiesa unica e vera, e di tutti gli uomini… se stessi compresi.

INSIGNES

ENCICLICA DI PAPA LEO XIII SU

IL MILLENNIO UNGHERESE

Ai Vescovi dell’Ungheria.

Avete giustamente decretato che un ringraziamento speciale e gioioso sia offerto all’eterno Dio dell’Ungheria. Infatti, la vostra nazione, al di là di tutte le altre, è tenuta a ricordare la grande abbondanza di benefici che ha ricevuto da Dio, il più provvido costruttore e preservatore di regni, nel corso di molti secoli e di prove difficili. L’anniversario del vostro Paese, come felicemente ritorna, è un momento molto adatto per “ricordare e celebrare queste benedizioni”, poiché ricorre il millesimo anno da quando i vostri antenati stabilirono le loro case e residenze in quelle terre e iniziò la storia dell’Ungheria.

Celebrazione del millesimo anniversario dell’Ungheria

2. Non abbiamo dubbi che le celebrazioni previste avranno un esito degno dell’occasione e saranno produttive dei più nobili vantaggi. Infatti, non ci può essere cittadino con un amore puro che non sia colpito dalle glorie del Paese di cui fa parte e a cui le antiche glorie del passato ricordate pubblicamente suscitino un vivo desiderio di imitarle. A tutto questo si aggiungerà l’approvazione unanime di tante nazioni civili che, mentre si rallegrano in amicizia, si congratuleranno sicuramente con un regno fondato su leggi e istituzioni appropriate, preservato dalla sua prudenza civile e dal suo valore in guerra e portato da molte azioni di eccellenza alla sua attuale longevità e crescita.

3. La vostra prosperità ci colpisce nel modo più piacevole possibile e non desideriamo altro che essere presenti con voi tra il vostro popolo, Venerabili Fratelli, e dimorarvi con la mente e lo spirito. Questo Nostro desiderio è motivato principalmente dalla Nostra speciale attrazione e dalla Nostra amorevole cura per l’Ungheria cattolica e dai loro sentimenti devoti verso questa Sede Apostolica e verso Noi stessi. Tra le altre indicazioni di devozione, negli ultimi anni Roma ha visto un gran numero di ungheresi venire, sotto la vostra guida, a venerare le tombe dei Principi degli Apostoli. Hanno presentato belle testimonianze di fede, obbedienza e amore a nome di tutti i loro connazionali. Hanno ottenuto la nostra benevolenza e un discorso esortativo per rafforzare il loro spirito nei doveri della loro santa professione. In effetti, avevamo manifestato di proposito questa Nostra benevolenza a tutta la nazione nella prima e nella seconda lettera che vi abbiamo inviato. Ora, però, ricordando la modestia e il favore con cui il clero e tutti gli uomini di buona volontà hanno accolto le Nostre istruzioni, ancora una volta questa lettera trasmetta il Nostro amore e accresca la gioia della celebrazione secolare e ne raddoppi i frutti.

4. Nella preparazione delle vostre celebrazioni, risplende la forza della Religione cattolica come eccellente promotrice della sicurezza pubblica e come fonte o sostegno del bene tra i popoli. Certamente, come affermano i vostri storici più saggi, la nazione ungherese non avrebbe tenuto a lungo o con grande prosperità le zone occupate se il Vangelo non l’avesse portata, liberata dal giogo della superstizione, ad accettare questi noti principi: rispettare la legge naturale, non fare del male a nessuno, essere misericordiosi, perseguire la pace, essere soggetti ai Principi come a Dio e praticare la fratellanza in patria e all’estero.

Gli inizi del Cattolicesimo in Ungheria

5. In modo meraviglioso, gli inizi della fede cattolica nel vostro Paese sono stati consacrati nelle persone del principe Geza e dei condottieri della nazione, soprattutto grazie agli sforzi del santo vescovo Adalberto, un uomo famoso per le sue fatiche apostoliche ed infine per la sua corona di martire. Questi inizi, tuttavia, erano tanto più notevoli in quanto, considerando i tempi e la posizione dei loro territori, si trovavano pericolosamente esposti alla deplorevole separazione dalla Chiesa romana che stava scoppiando tra gli orientali. Stefano, Principe cristiano esemplare, continuò e portò a termine ciò che suo padre aveva iniziato. Egli è quindi giustamente celebrato come il principale pilastro e la luce della vostra nazione; non solo la istruì nel raggiungimento della salvezza eterna, ma ne aumentò anche l’estensione e la fama.

Importanza di Stefano

6. Sotto questo stesso Principe, che offrì e dedicò il suo scettro alla Madre di Dio e al beato Pietro, iniziò quello scambio di atti di zelo e di dovere tra i Pontefici romani e i Re ed il popolo d’Ungheria, che abbiamo già lodato. Simbolo permanente di questo legame fu la corona reale ornata con le immagini di Cristo Salvatore e degli Apostoli che il nostro predecessore Silvestro II inviò in dono a Stefano, quando gli conferì il titolo di Re perché “aveva molto diffuso la fede di Cristo”(Clemente XIII nel discorso Si qui militari, I ottobre 1758.) nel vostro Paese. Questo famoso episodio dimostra la costanza degli ungheresi nell’obbedienza a Pietro, perché questa corona ha sopportato indenne le burrasche mutevoli e pericolose dei tempi critici, risplendendo ancora dell’antico onore; di conseguenza è sempre stata considerata come la grande gloria e la difesa del regno, e quindi protetta religiosamente.

7. Così accadde che l’Ungheria, man mano che cresceva nelle sue risorse, imboccò le stesse strade che percorrevano i popoli della giovane Europa cristiana; grazie al carattere eccezionale della razza, raggiunse più rapidamente la virtù e l’umanità. Per questo motivo, nacquero molti uomini che portarono vera fama al loro Paese ed a loro stessi grazie alla santità di vita, all’insegnamento, alla letteratura, alle arti e all’adempimento dei loro doveri.

La Chiesa come custode della libertà

8. Abbiamo saputo che è stato intrapreso un progetto che approviamo pienamente per l’attuale celebrazione. Si prevede di pubblicare le antiche testimonianze dimenticate dei servizi conferiti dalla Religione. Inoltre, le lettere, sia quelle che provengono da voi sia quelle che si trovano nei nostri archivi apostolici, testimoniano concordemente che la Religione ha portato benefici all’umanità. È di grande importanza riflettere su questo, soprattutto nel momento attuale. Considerate quali funzioni ha svolto la Chiesa per i vostri antenati nell’istituire e amministrare il diritto pubblico; certamente la sua saggezza, l’ordine e l’equità hanno permeato ovunque, su richiesta di tutte le classi. Inoltre, i Pontefici romani si sono dimostrati custodi e difensori della libertà civile ogni volta che è stata messa in pericolo, sia su richiesta che di propria iniziativa. Anche il vostro popolo non ha mai smesso di lottare per questa libertà. Questo è accaduto molte volte in passato, soprattutto quando si sono dovuti respingere gli attacchi degli acerrimi nemici della santa fede. Quando i Turchi invasero, tutti, senza eccezione, concordano sul fatto che la terribile sconfitta che minacciava la maggior parte dei popoli occidentali fu evitata dal coraggio inespugnabile degli Ungheresi. Tuttavia, i Nostri predecessori contribuirono notevolmente al successo degli eventi fornendo denaro, inviando rinforzi, organizzando trattati di alleanza e pregando efficacemente per ottenere il sostegno del cielo.

Innocenzo XI

9. Innocenzo XI, in particolare, diede il suo aiuto in questa lotta. Il suo nome è famoso in relazione a due azioni straordinarie: la liberazione di Vienna dall’assedio nemico e la grande liberazione di Buda, il vostro capoluogo, dopo una lunga oppressione.

Gregorio XIII

10. Allo stesso modo Gregorio XIII rese un servizio imperituro alla vostra nazione quando la vostra Religione era pericolosamente afflitta dall’influenza dei movimenti rivoluzionari che si diffondevano dai popoli vicini. Egli intraprese per l’Ungheria la sana misura che aveva già portato a termine per altri Paesi. Ci riferiamo naturalmente al Collegio che istituì per voi a Roma e che poi unì al Collegio tedesco, nel quale gli studenti prescelti sarebbero stati istruiti a fondo nell’apprendimento e nelle virtù degne del sacerdozio. Poi, in seguito, avrebbero lavorato con maggiore efficacia nelle vostre chiese. E questo fu il risultato più fruttuoso, poiché molti di coloro che furono istruiti lì ricoprirono anche il grado episcopale e portarono uguale gloria alla Chiesa e allo Stato.

Giovanni Hunyadi

11. Questi e altri benefici derivanti dal continuo favore della Chiesa non sono tanto ricordati nei libri di storia quanto impressi profondamente nella mente dei vostri cittadini. Un testimone la cui credibilità è pari a tutti gli altri è il famoso Giovanni Hunyadi nel XV secolo, la cui strategia e il cui coraggio l’Ungheria ricorderà e loderà sempre. Egli dichiarò in modo gradito ed eloquente: “Questo Paese non sarebbe mai rimasto saldo sulle sue risorse, credo, se non fosse rimasto saldo nella sua fede”. E mentre lo stesso uomo era governatore del regno, tutte le classi in una lettera comune a Nicola V professarono: “Qualunque sia la nostra condizione, è soprattutto grazie al sostegno del vostro favore apostolico che ci reggiamo”. Lungi dal ridurre l’importanza di queste testimonianze, le epoche successive le hanno chiaramente aggiunte in modo sostanziale, man mano che i loro benefici aumentavano.

Re Mattias

12. Gli ungheresi si sono sempre sforzati di mantenere il loro regno legato il più possibile alla Sede Apostolica come “proprio e devoto possesso”. Il registro degli atti pubblici ne riporta molte prove, sia sotto forma di lettere scritte da Re e nobili ai Pontefici romani, sia sotto forma di esempi di virtù eroica ed energica che hanno aiutato la Chiesa a proteggere i suoi diritti o a vendicare la perdita dei diritti sui suoi nemici. Questo prima ancora che iniziasse la lotta contro le forze d’invasione dei musulmani. Il rapporto di reciproco servizio tra il re Luigi il Grande e Innocenzo VI e Urbano V lo dimostra. E quando Paolo II chiese con urgenza che la causa cattolica fosse fortemente aiutata contro l’attacco degli Hussiti in Boemia, il re Mattia rispose: “Ho dedicato me stesso e il mio regno interamente alla Santa Romana Chiesa e alla vostra Beatitudine. Il Vicario di Dio in terra, anzi Dio stesso, non può comandare alcuna azione così difficile per me, o così pericolosa, che io non ritenga doveroso e salutare intraprendere, che io non tenti senza timore, soprattutto quando si tratta di rafforzare la fede cattolica e di schiacciare la perfidia degli empi …. Qualunque nemico della Religione sia necessario incontrare in battaglia, ecco che Mattia insieme all’Ungheria… rimangono devoti alla Sede Apostolica e alla vostra Beatitudine e lo rimarranno per sempre”. L’evento non venne meno alle parole del re né alle aspettative del Papa e rimane una prova di grande importanza per i tempi successivi.

Maria Teresa

13. Inoltre, la collaborazione tra Nazione e Chiesa è dimostrata da quegli encomi, né pochi né deboli, con cui questa Sede Apostolica ha onorato il vostro popolo, e anche dagli straordinari titoli d’onore e privilegi che ha conferito ai vostri re. Desideriamo, tuttavia, ed è del tutto adatto alla presente celebrazione, produrre una pagina gloriosa del lungo documento ufficiale con cui Clemente XIII, in conformità al suo potere, ha confermato a Maria Teresa, regina d’Ungheria, e ai suoi successori nello stesso regno, il titolo di Re Apostolico. Tale titolo sostituiva i privilegi e le consuetudini precedenti. Così come hanno già fatto i loro padri e i loro nonni, anche i nipoti si rallegrano di questa proclamazione papale: “Il fiorente Regno d’Ungheria è stato accuratamente considerato il più adatto di tutti ad estendere i confini dell’autorità e della gloria cristiana, sia per il coraggio di una nazione intrepidissima che per la natura dei suoi territori. In effetti, tutti conoscono le numerose azioni eccezionali compiute dagli ungheresi per la protezione e l’espansione della nostra Religione. Hanno spesso ingaggiato battaglia con nemici terribili; bloccando come con il proprio corpo l’avanzata degli stessi nemici, che erano intenzionati a distruggere lo Stato cristiano, hanno strappato loro grandi vittorie. Questi famosi eventi sono stati pubblicati in note opere letterarie. Ma non possiamo assolutamente passare sotto silenzio Stefano, quel santissimo e coraggioso Re d’Ungheria, consacrato con onori celesti e posto tra il numero dei Santi. L’impronta della sua virtù, della sua santità e del suo coraggio sopravvive nel vostro Paese a lode eterna del nome ungherese. E tutti i suoi successori nella regalità hanno sempre imitato i suoi splendidi esempi di virtù. Non dovrebbe quindi sembrare strano che i Pontefici romani abbiano sempre onorato con grandi elogi e privilegi la nazione ungherese e i suoi capi e Re per i loro eccellenti servizi alla fede cattolica e alla Sede romana. Il principale segno di onore, naturalmente, è il diritto di far portare la Croce davanti ai Re in processione pubblica come il simbolo più splendente dell’Apostolato; questo per mostrare che la Nazione ungherese e i suoi Re si gloriano solo della Croce di Nostro Signore Gesù Cristo e che in questo segno sono abituati a combattere sempre per la fede cattolica e ad essere vittoriosi”(Epistola Quum multa alia, 19 agosto 1758).

Esortazioni all’Ungheria

14. Ci piace molto abbellire le vostre feste religiose con questi ricordi di uomini famosi e delle loro gesta. Ma questo evento stesso ci spinge a compiere qualche azione supplementare, che porterà un reale miglioramento per il bene comune. L’Ungheria dovrebbe riflettere su se stessa e, ispirata dalla coscienza della nobiltà dei suoi antenati più religiosi e dalla conoscenza del tempo presente, dedicare i suoi sforzi a fini degni. L’esortazione dell’Apostolo vi chiama certamente in causa, qualunque sia il vostro rango: “Rimanete saldi nella fede, agite virilmente e siate forti”(1 Cor XVI,13). A questo tutti dovrebbero rispondere con una sola mente e una sola voce: “Manteniamo salda la confessione della nostra speranza senza vacillare”(44. Eb X, 23.) “Non abbiamo motivo di mettere in dubbio il nostro onore”(1 Mc IX, 10.).

15. Se osserviamo la tendenza di quest’epoca nel suo complesso, è deplorevole che alcuni uomini cattolici non pratichino la Religione Cattolica come dovrebbero, né nel pensiero né nell’azione. È anche deplorevole che gli uomini rendano il Cattolicesimo quasi uguale alla forma di qualsiasi altra religione e, di fatto, nutrano persino sospetto e odio per la prima. Non serve a nulla dire che tipo di atto sia rifiutare con spirito degenerato questa eccezionale eredità dei loro antenati. Né serve a nulla notare quanto sia segno di una mente ingrata e inconcussa, sia il non voler riconoscere i benefici di lunga data della Religione Cattolica, sia il trascurare quelli previsti. Nella saggezza e nella dottrina cattolica sono insiti un potere e un’efficacia assolutamente meravigliosi, che operano in molti modi per il bene della società umana. Poiché non svanisce con il passare del tempo, è sempre la stessa e vigorosa; allo stesso modo, è probabile che sia benefica anche nei tempi moderni, purché non venga soffocata.

16. Per quanto riguarda ciò che riguarda più da vicino il vostro popolo, in lettere precedenti e in pronunciamenti analoghi, abbiamo denunciato pericoli da cui la Religione dovrebbe essere protetta e abbiamo proposto aiuti che portassero più adeguatamente alla sua libertà e dignità. E poiché gli affari civili non possono essere separati da quelli religiosi, siamo stati estremamente desiderosi di prestare la nostra attenzione e il nostro aiuto anche ai primi, poiché ciò è chiaramente parte integrante del nostro dovere apostolico. Infatti, i frequenti consigli e comandi che vi abbiamo dato a seconda delle circostanze, hanno contribuito non poco, come giustamente ricordate, anche alla sicurezza e alla prosperità pubblica. Ma se, proprio in questo popolo, le azioni degli uomini buoni si conformano ogni giorno di più ai Nostri consigli e ai Nostri avvertimenti, perché non dovremmo accogliere la speranza che fiorisce più abbondantemente in occasione di questa commemorazione secolare e che prelude a un rapido adempimento delle preghiere di tutti gli uomini? Perché sicuramente tutti i buoni cittadini pregano affinché, eliminando le cause di disaccordo, non venga negato alla Chiesa il suo giusto onore. Allora anche il giusto onore dello Stato risplenderà più brillantemente in alleanza e sotto la guida della Religione ancestrale. Questo farà sì che l’autorità dei governi, i doveri reciproci delle classi, l’educazione della gioventù e molte altre questioni come queste si mantengano nella verità, nella giustizia e nell’amore: perché soprattutto da questi fondamenti e sostegni gli Stati dipendono e prosperano.

Risultati attesi

17. Non il mezzo meno efficace per farvi godere di questa combinazione di cose buone, come fecero i vostri famosi antenati, è permettere che il vostro sentimento di pietà verso la Chiesa romana sia ispirato dal loro esempio, come sotto nuovi auspici. La corona più onorevole di Stefano sarà portata in un giorno stabilito attraverso la capitale in una processione insolitamente solenne; ciò avverrà nel corso dei festeggiamenti pubblici per la dedicazione della Casa dell’Assemblea. In effetti, nulla è più strettamente legato alla gloria della vostra Nazione e dei vostri Re, nulla è così adatto alla giusta organizzazione degli affari civili, di questo sacro simbolo del potere reale. Ma prevediamo che da questa occasione scaturirà senza difficoltà un duplice risultato permanente: innanzitutto che tra la nobiltà e il popolo comune si rafforzerà l’obbediente e fedele fedeltà all’augusta Casa d’Asburgo. Questa Casa ha sempre portato questa stessa corona, che le è stata conferita dai vostri antenati di loro spontanea volontà. Il secondo risultato atteso è che il conseguente ricordo delle strettissime relazioni dei vostri antenati con la Cattedra di Pietro, chiaramente approvate e consacrate da questo dono papale, possa aggiungere fermezza e forza a questi stessi legami.

18. Sappiano però gli illustri ungheresi che possono e devono affidarsi completamente all’Autorità e al favore della Sede Apostolica. Questa Sede non dimenticherà mai le loro celebri gesta per la causa cattolica; conserva e continuerà a conservare la sua antica disposizione di lungimiranza e di materna benevolenza nei loro confronti.

19. Se finora vi abbiamo aiutato, Dio vi aiuti a prosperare ancora di più. In particolare, durante questa celebrazione, si preoccupi per il vostro Re Apostolico, per la nobiltà, per il clero e per tutto il popolo, e li faccia abbondare di quei beni che Egli stesso ha promesso alle Nazioni e ai Regni che conservano la giustizia e la pace. Anche la vostra grande signora Maria si preoccupi per tutti voi, insieme a Stefano e Adalberto, che sono apostoli e Patroni celesti del vostro Regno. Sotto la loro salutare protezione, che i vostri antenati hanno sperimentato, gioite di frutti sempre più abbondanti con il passare dei giorni. Aggiungiamo una preghiera speciale con il più grande amore: possano tutti i cittadini che un unico amore per questo Paese ispira, e che questa occasione di pubblico ringraziamento unisce in modo fraterno, essere un giorno legati da una stessa fede nell’abbraccio benedetto della Madre Chiesa.

20. Voi, invece, Venerabili Fratelli, continuate come state facendo in modo vigile e attento per meritare il bene del vostro popolo e dello Stato: ricevete, come auspicio di ricompense divine e come testimonianza della Nostra speciale benevolenza, la Benedizione apostolica che impartiamo con grande amore a ciascuno di voi e a tutta l’Ungheria nella sua gioia.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 1° maggio 1896, nell’anno diciannovesimo del Nostro Pontificato.

LEO XIII

DOMENICA DI PASSIONE (2023)

DOMENICA DI PASSIONE (2023)

Stazione a S. Pietro;

Semidoppio, Dom. privit. di I cl. • Paramenti violacei.

« Noi non ignoriamo, dice S. Leone, che il mistero pasquale occupa il primo posto fra tutte le solennità religiose. Durante tutto l’anno, col cercare di migliorarci sempre più, noi ci disponiamo a celebrare questa solennità in maniera degna e conveniente, ma questi ultimi e grandissimi giorni esigono ancor più la nostra devozione, poiché sappiamo che essi sono vicinissimi al giorno in cui celebriamo « il mistero cosi sublime della misericordia divina » (II Notturno). Questo mistero è quello della Passione del Salvatore di cui è ormai prossimo l’anniversario. Pontefice e mediatore del Nuovo Testamento, Gesù salirà ben presto sulla Croce e presenterà al Padre, il sangue, che Egli verserà entrando nel vero Sancta Sanctorum che è il Cielo (Ep.). « Ecco, canta la Chiesa, brilla il mistero della Croce, dove la Vita ha subito la morte e con la Sua morte ci ha reso la vita » (Inno dei Vespri). E l’Eucaristia è frutto dell’amore immenso di un Dio per gli uomini, poiché istituendola, Gesù ha detto: « Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi. Questo è il calice della nuova alleanza nel sangue mio. Fate questo in memoria di me » (Com.). Cosa fecero gli uomini in risposta a tutte queste bontà divine? « I suoi non lo ricevettero » dice S. Giovanni, parlando dell’accoglienza fatta a Gesù dai Giudei: » Gli fu reso il male per il bene » (4 Ant. della Laudi) e gli furono riservati solamente gli oltraggi « Voi mi disonorate » dirà loro Gesù. Il Vangelo ci mostra in fatti l’odio sempre crescente del Sinedrio, Abramo, [Dopo la festa dei Tabernacoli che ebbe luogo il terzo anno del suo ministero pubblico, Gesù pronunciò nel Tempio le parole del Vangelo d’oggi. Una parte dell’atrio era stata trasformata in deposito perché il Tempio non era ancora interamente ricostruito. I Giudei vi raccolsero delle pietre per lapidare Gesù che si nascose ai loro sguardi, la sua ora non essendo ancora, venuta.] il padre del popolo di Dio, aveva fermamente creduto alle promesse divine che gli annunciavano Cristo futuro e nel Limbo la sua anima che, avendo avuto fede in Gesù, non è stata colpita da morte eterna, si è rallegrata nel vedere il realizzarsi di queste promesse, con la venuta del Salvatore. I Giudei che avrebbero dovuto riconoscere in Gesù il Figlio di Dio, più grande di Abramo e dei profeti perché  eterno, misconobbero il senso delle sue parole e, dopo averlo insultato trattandolo da invaso dal demonio e bestemmiatore, lo vollero lapidare (Vang.). « Non temere davanti ad essi, gli dice Dio in persona di Geremia, poiché io farò che tu non tema i loro volti. Poiché oggi Io ti ho reso come una città fortificata, come una colonna di ferro, come un muro di bronzo contro i re di Giuda, i suoi principi, i suoi sacerdoti ed il suo popolo. Essi combatteranno contro te, ma non prevarranno: perché Io sono con te, dice il Signore, per liberarti (I Notturno). « Io non cerco la mia gloria, dice Gesù; vi è qualcuno che la cerca e giudica » (Vang.). E per bocca del salmista, Egli continua: « Giudicami, Signore, e discerni la mia causa da quella della gente empia: liberami dall’uomo iniquo ed ingannatore ». Questo popolo «bugiardo» (Vang.) afferma Gesù, è il popolo Giudeo. « Liberami dai miei nemici, continua il Salmista; mi strapperai dalle mani dell’uomo iniquo » (Grad.). « Il Signore è giusto. Egli decapiterà i peccatori » (Tratto). Dio infatti, non permise agli uomini di mettere la mano su Gesù prima che la sua ora fosse giunta (Vang.) e quando l’ora dell’immolazione fu suonata, Egli strappò il Suo Figlio dalle mani dei malvagi, risuscitandolo. Questa morte e questa resurrezione erano state annunciate dai Profeti ed Isacco ne era stato il simbolo, allorché, mentre per ordine di Dio, stava per essere immolato da Abramo, suo padre, fu salvato da Dio stesso e sostituito da un ariete, che rappresentava l’Agnello di Dio sacrificato per il genere umano. Gesù doveva dunque nel suo primo avvento essere umiliato e soffrire; soltanto dopo Egli apparirà in tutta la Sua potenza: ma i Giudei, accecati dalle passioni, non ammisero che una sola venuta: quella che deve prodursi nella gloria e, scandalizzati dalla Croce di Gesù, lo respinsero. Per questo motivo, Dio li respinse a sua volta, mentre accolse con benevolenza coloro che hanno poste le loro speranze nella redenzione di Gesù, ed uniscono le loro sofferenze alle Sue. « Giustamente e per ispirazione dello Spirito Santo, dice S. Leone, i SS. Apostoli hanno ordinato digiuni più austeri durante questi giorni; affinché, con una comune partecipazione alla Croce di Cristo, noi pure facciamo qualche cosa che ci unisca a quello che Egli ha fatto per noi. Come dice l’Apostolo S. Paolo: « Se soffriamo con Lui, saremo anche glorificati con Lui ». Certa e sicura è l’attesa della promessa beatitudine là dove vi è partecipazione alla passione del Signore (IV Lezione). — La Stazione si tiene nella Basilica di S. Pietro, innalzata sull’area dove prima sorgeva il Circo di Nerone, dove il Principe degli Apostoli morì, come il suo Maestro, sopra una Croce. – In ricordo della Passione di Gesù, di cui si avvicina l’anniversario, pensiamo che, per risentirne gli effetti benefici, bisogna, come il Divin Maestro, saper soffrire persecuzioni per la giustizia, e quando, membri della «famiglia di Dio », siamo perseguitati con e come Gesù Cristo, chiediamo a Dio che « custodisca i nostri corpi e le nostre anime » (Or.).

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

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Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XLII: 1-2.

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea.

[Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Ps XLII:3

Emítte lucem tuam et veritátem tuam: ipsa me de duxérunt et adduxérunt in montem sanctum tuum et in tabernácula tua.

[Manda la tua luce e la tua verità: esse mi guídino al tuo santo monte e ai tuoi tabernàcoli.]

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea.

[Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, familiam tuam propítius réspice: ut, te largiénte, regátur in córpore; et, te servánte, custodiátur in mente.

[Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, guarda propízio alla tua famiglia, affinché per bontà tua sia ben guidata quanto al corpo, e per grazia tua sia ben custodita quanto all’ànima.]

 Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebræos.

Hebr IX: 11-15

Fatres: Christus assístens Pontifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum, et cinis vítulæ aspérsus, inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti? Et ideo novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem eárum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro.

“Fratelli: Cristo, essendo venuto come pontefice dei beni futuri, attraverso un tabernacolo più grande e più perfetto, non fatto da mano d’uomo, cioè non appartenente a questo mondo creato, e mediante non il sangue di capri e di vitelli, ma mediante il proprio sangue, entrò una volta per sempre nel santuario, avendo procurato una redenzione eterna. Poiché se il sangue dei capri e dei tori e l’aspersione con cenere di giovenca santifica gli immondi rispetto alla mondezza della carne, quanto più il sangue di Cristo, il quale, mediante lo Spirito Santo, ha offerto se stesso immacolato a Dio, monderà la nostra coscienza dalle opere morte, perché serviamo al Dio vivente? E per questo Egli è il mediatore del nuovo testamento, affinché, essendo intervenuta la sua morte a redimere dalle trasgressioni commesse sotto il primo testamento, quelli che sono stati chiamati conseguono l’eterna eredità loro promessa, in Gesù Cristo Signor nostro”. (Ebr. IX, 11-15).

Ci avviciniamo ai grandi misteri della Settimana Santa. La Passione di N. S. Gesù Cristo e la nostra Redenzione — la Redenzione nostra per mezzo della Passione sua — mistero centrale della nostra fede. Il valore del sacrificio di N. S. per noi ce lo illumina S. Paolo nel passo dell’Epistola agli Ebrei che oggi la Chiesa ci fa leggere. Sono poche parole, misurate, contate, direbbe Dante, ciascuna delle quali ha il suo peso e merita la sua attenzione. Eccovele nel loro contesto. Se il sangue degli animali (nella vecchia Legge, nell’economia religiosa ch’essa rappresentava) santifica quelli che sono macchiati d’una purificazione carnale, quanto più non monderà la nostra coscienza il Sangue di Gesù Cristo, che per lo Spirito Santo offrì se stesso immacolato a Dio. Offrì Gesù se stesso. Il Suo fu un sacrificio volontario. Gesù ha voluto soffrire, ha voluto fare la volontà del Padre, fino alla morte; a costo della morte. Nessuno lo costrinse. Volle. Il profumo d’ogni nostro sacrificio, qualunque  esso sia, per qualunque causa (buona, s’intende) sia fatto, è nella sua spontaneità. La bellezza di questo fiore che si chiama il sacrificio è in questa sua freschezza di volontà. « Oblatus est quia ipse voluit: » le parole profetiche di Gesù meravigliosamente si adempiono. Il Vangelo sottolinea questa bella libertà in Gesù, nei momenti in cui le apparenze di una violenza usatagli sono più accentuate: quando gli sgherri credono di essere venuti nel Getzemani a prenderlo di viva forza, quando Pilato crede di avere lui nella sua mano onnipotente di funzionario dell’Impero, la vita di Gesù. Libertà intiera, completa, profonda. E offrì se stesso. Ah fratelli miei! che differenza dai redentori o salvatori umani! e che rilievo ne ridonda per questo Salvatore Divino! Quanto è facile e frequente immolare gli altri: pagare con moneta altrui, versare l’altrui sangue! – Gesù ha versato il suo ed ha ardentemente desiderato si spargesse questo solo. Lo ha versato tutto. Il Suo sacrificio è stato un olocausto, senza riserva. La generosità della spontaneità si compie colla generosità, starei per dire, quantitativa del dono. Dà sempre molto chi dà tutto. E offrì se stesso immacolato. Senza macchia. Le vittime, simboliche, del V. T. vittime materiali dovevano essere materialmente così: pure senza macchia, senza macchia l’agnello, senza difetto il bove. Gesù non ebbe peccati suoi da espiare; ed ecco perché ha potuto così largamente espiare i peccati altrui. Le sofferenze, anche del peccatore sono sante, sono, a lor modo, belle. Ma quel sacrifizio sa di espiazione personale. È una giustizia, non una generosità. Il martire delle cause più alte doveva essere purissimo, lo fu. Gesù è l’agnello immacolato. Ci ha tenuto in modo particolare. « Chi di voi potrà convincermi di colpa? » ha detto, ha gridato ai suoi avversari. E offrì, liberamente se stesso (generoso olocausto) immacolato a Dio per « Spiritum sanctum ». A Dio. La causa che Gesù è venuto a difendere, che ha difeso da buon soldato col valore e la morte, colla predicazione, la passione, col Vangelo, con la Croce, è la causa di Dio, la causa religiosa. Perché sulle rovine degli Dei falsi e bugiardi regnasse il Dio vero e vivo, perché sulle rovine della Sinagoga sorgesse la grande, universale Chiesa, per questo che significava la maggior gloria di Dio, la maggiore, la vera felicità del genere umano. Egli è caduto martire, Egli si è offerto vittima del più grande sacrificio del mondo.

 [G. Semeria: Le Epistole delle Domeniche O. N. M.- d’I. Roma-Milano, 1939 – nihil obs. P. De Ambrogi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Cur. Arch.]

Graduale

Ps CXLII: 9, 10

Eripe me, Dómine, de inimícis meis: doce me fácere voluntátem tuam

Ps XVII: 48-49

Liberátor meus, Dómine, de géntibus iracúndis: ab insurgéntibus in me exaltábis me: a viro iníquo erípies me.

Tractus

Ps CXXVIII: 1-4

Sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.

Dicat nunc Israël: sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.

Etenim non potuérunt mihi: supra dorsum meum fabricavérunt peccatóres.

V. Prolongavérunt iniquitátes suas: Dóminus justus cóncidit cervíces peccatórum.

[Mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.

Lo dica Israele: mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.

Ma non mi hanno vinto: i peccatori hanno fabbricato sopra le mie spalle.

Per lungo tempo mi hanno angariato: ma il Signore giusto schiaccerà i peccatori.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VIII: 46-59

“In illo témpore: Dicébat Jesus turbis Judæórum: Quis ex vobis árguet me de peccáto? Si veritátem dico vobis, quare non créditis mihi? Qui ex Deo est, verba Dei audit. Proptérea vos non audítis, quia ex Deo non estis. Respondérunt ergo Judæi et dixérunt ei: Nonne bene dícimus nos, quia Samaritánus es tu, et dæmónium habes? Respóndit Jesus: Ego dæmónium non hábeo, sed honorífico Patrem meum, et vos inhonorástis me. Ego autem non quæro glóriam meam: est, qui quærat et jdicet. Amen, amen, dico vobis: si quis sermónem meum serváverit, mortem non vidébit in ætérnum. Dixérunt ergo Judaei: Nunc cognóvimus, quia dæmónium habes. Abraham mórtuus est et Prophétæ; et tu dicis: Si quis sermónem meum serváverit, non gustábit mortem in ætérnum. Numquid tu major es patre nostro Abraham, qui mórtuus est? et Prophétæ mórtui sunt. Quem teípsum facis? Respóndit Jesus: Si ego glorífico meípsum, glória mea nihil est: est Pater meus, qui gloríficat me, quem vos dícitis, quia Deus vester est, et non cognovístis eum: ego autem novi eum: et si díxero, quia non scio eum, ero símilis vobis, mendax. Sed scio eum et sermónem ejus servo. Abraham pater vester exsultávit, ut vidéret diem meum: vidit, et gavísus est. Dixérunt ergo Judaei ad eum: Quinquagínta annos nondum habes, et Abraham vidísti? Dixit eis Jesus: Amen, amen, dico vobis, antequam Abraham fíeret, ego sum. Tulérunt ergo lápides, ut jácerent in eum: Jesus autem abscóndit se, et exívit de templo.” Laus tibi, Christe!

“In quel tempo disse Gesù alla turbe dei Giudei ed ai principi dei Sacerdoti: Chi di voi mi convincerà di peccato. Se vi dico la verità, per qual cagione non mi credete? Chi è da Dio, le parole di Dio ascolta. Voi per questo non le ascoltate, perché non siete da Dio. Gli risposero però i Giudei, e dissero: Non diciamo noi con ragione, che sei un Samaritano e un indemoniato? Rispose Gesù: Io non sono un indemoniato, ma onoro il Padre mio, e voi mi avete vituperato. Ma io non mi prendo pensiero della mia gloria; vi ha chi cura ne prende, e faranno vendetta. In verità, in verità vi dico: Chi custodirà i miei insegnamenti, non vedrà morte in eterno. Gli dissero pertanto i Giudei: Adesso riconosciamo che tu sei un indemoniato. Abramo morì, e i profeti; e tu dici: Chi custodirà i miei insegnamenti, non gusterà morte in eterno. Sei tu forse da più del padre nostro Abramo, il quale morì? e i profeti morirono. Chi pretendi tu di essere? Rispose Gesù: Se io glorifico me stesso, la mia gloria è un niente; è il Padre mio quello che mi glorifica, il quale voi dite che è vostro Dio. Ma non l’avete conosciuto: io sì, che lo conosco; e se dicessi che non lo conosco, sarei bugiardo come voi! Ma io conosco, o osservo le sue parole. Abramo, il padre vostro, sospirò di vedere questo mio giorno: lo vide, e ne tripudiò. Gli dissero però i Giudei: Tu non hai ancora cinquant’anni, e hai veduto Abramo? Disse loro Gesù: In verità, in verità vi dico: prima che fosse fatto Abramo, io sono. Diedero perciò di piglio a de’ sassi per tirarglieli: ma Gesù si nascose, e uscì dal tempio” (Jo. VIII, 46 59).

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

NON ASPETTATE A CONVERTIRVI

Era il giorno dopo la festa dei Tabernacoli, in Gerusalemme. Sotto il cielo arioso di ottobre, già ferveva la vendemmia che avrebbe dato il vino all’ultima cena e nelle anime maligne dei Giudei già ferveva l’odio che avrebbe versato tutto il sangue del Figlio di Dio. Gesù era nel cortile della tesoreria del tempio. In giro a Lui stavano le tredici porte con davanti le tredici casse che l’elemosina delle recenti feste aveva colmato di monete: qualcuno, passando, vi gettava un cupido sguardo. Egli allora si proclamò l’unico tesoro del mondo. Gli si fece subito attorno un cerchio di Farisei, che Gesù andava man mano smascherando, fino a chiamarli figli del diavolo, bugiardi come il diavolo. Cominciò allora un dibattito serrato dall’una e dall’altra parte. Le parole del Maestro, — come acqua gelida sul ferro rovente — cadevano sugli ascoltatori che rispondevano aspro e selvaggio. « Chi di voi mi convincerà di peccato? ». Più volte l’avevano accusato di violare il sabato, di mangiare coi peccatori, di sovvertire il popolo, di operare i miracoli per incantamento del demonio; ma queste accuse nessuno poi era riuscito a sostenerle. Ma Gesù li sfidava: « Chi di voi è capace di mostrare in me anche un peccato solo, venga fuori! ». La sfida divina passò tremenda davanti alla loro faccia e nessuno la raccolse: tutti digrignavano in silenzio. « Se adunque — esclamò vittorioso Gesù — voi stessi ammettete che sono impeccabile, se ammettete voi stessi che dico la verità, perché non mi credete? ». Scoppiò un ululo rabbioso come di cani che abbaiassero insieme: « Samaritano! Eretico sei! Hai indosso il demonio! ». Non potendolo vincere con le ragioni, s’illudevano di abbatterlo con gli oltraggi Il Maestro lasciò placare il tumulto, e poi proseguì con voce lenta e serena. « Ingiuriatemi pure. Non me ne importa; a difendermi l’onore ci pensa il Padre mio, che voi dite essere vostro Dio. Lo dite; in realtà però non lo conoscete perché non ascoltate la sua parola. Io sì, che lo conosco; e se vi dicessi di non conoscerlo, sarei un bugiardo come voi. Lo conosco, sì; e osservo la sua parola ». Alcuni sussurravano: « Cosa pretende di essere costui? Forse da più del nostro padre Abramo? ». « Sappiate che Abramo, padre vostro, sospirò di vedere i giorni della mia vita, li vide e tripudiò ». Fu uno scroscio di risa. « Non hai neppure cinquant’anni, e dici di aver veduto Abramo? Non sai che è morto da migliaia d’anni?… ». Gesù approfittò della loro beffa, per proclamarsi solennemente Dio eterno, che sempre era e sempre sarà. « In verità, in verità, uditemi! Prima che Abramo venisse al mondo, io sono ». Non gli risposero più, non l’ingiuriarono più. Egli aveva bestemmiato e, per la legge di Mosè, bisognava lapidarlo. Si buttarono sulle pietre, ammassate nel cortile della tesoreria per la fabbrica del tempio, e si sollevarono a scagliarle. Gesù era sparito. – Questo è il Vangelo del cuor duro. Cristiani, guardate se non somigli a quello dei Giudei anche il vostro cuore. In queste settimane di quaresima Gesù ha parlato in mezzo a voi con numerose prediche: avete sentito che al mondo non c’è tesoro fuori che Lui; vi siete persuasi che Egli solo ha parole di verità e di vita eterna, e allora perché non gli credete? Perché non decidete di cambiar vita e di convertirvi? – In questi giorni Gesù batte al vostro cuore: vuol entrare trionfalmente nella Santa Comunione pasquale. E forse c’è qualcuno che non ha ancor deciso di accostarsi ai Sacramenti; forse c’è qualcuno che, anche l’anno scorso, a sassate ha fatto fuggire il Signore dalla propria anima. Udite la maledizione di S. Agostino: « Væ illis quorum cordibus lapideis Deus fugit! ». Sventura a quelli che dal loro cuore, duro come il macigno, scacciano Dio. « Il predicatore della quaresima — pensano alcuni — ha mille ragioni. Ma non è questo il tempo d’ascoltarle: più tardi, quando la morte sarà vicina, farò una buona confessione e a tutto rimedierò. Adesso son giovane, sono sano, sono ricco… » — Sei un Giudeo dal cuor duro! — risponderò io a chi la pensa così. Adesso in questa Pasqua, è il momento giusto di convertirci. Per carità, non rimandiamo al letto di morte, perché allora la conversione sarà difficile e da parte nostra e da parte di Dio. – 1. DA PARTE NOSTRA. Un levita che abitava sul fianco della montagna di Efraim andò a Betlem in casa del padre di sua moglie. Fu accolto allegramente e vi rimase tre giorni, mangiando e bevendo, senza fastidi. Al quarto giorno il levita si leva, che era ancor notte, e vuol partire. Ma il suocero, tirandolo per un braccio, gli disse: « Prendi un po’ di pane per ristorarti lo stomaco; poi te ne andrai ». Sedettero insieme a far colazione. Mentre mangiavano e bevevano, il padre della donna gli disse: « Te ne prego resta qua tutto oggi! Staremo allegri ». L’altro voleva andarsene e già era sull’uscio, quando il suocero con grandi istanze lo fece restare, presso di sé. Il mattino seguente, balza dal letto il levita prima dell’aurora; e appena si fa chiaro egli s’accinge a partire. « Vuoi fare la strada digiuno? — gli diceva il suocero. — Che furia è mai la tua? Fa’ colazione e poi partirai ». Ed anche questa volta non gli seppe resistere e sedette ancora a mangiare e a chiacchierare. Quando fece per andarsene davvero col suo servo e con la sua moglie, il sole già declinava, « Guarda! — gli diceva il suocero. — Il giorno è ormai vicino al tramonto, e l’ombre si allungano di già. Resta con me anche stasera; un’ora di più d’allegria non ti farà male. Domani, a tuo bell’agio, tornerai a casa ». Questa volta il levita era deciso, e con la donna e con il servo partì. Ahimè! Era già sera. E la notte oscura lo costrinse a fermarsi nella città di Gaba; dove fu assaltato da una compagnia di ribaldi che gli uccisero la moglie (Giudici, XIX). Il levita di Efraim è una figura di quei Cristiani che rimandano sempre, a sera, a domani, a dopodomani il loro proposito, fintanto che non sono più in tempo. Venit nox quando nemo potest operari. Prolungare la vostra conversione fino alla vecchiaia o fino al letto di morte, vi dico che è una pazza imprudenza. a) Anzitutto, chi vi assicura che la vostra fine non sarà improvvisa? Un muro che crolla, un fulmine, un treno, un’automobile, una polmonite violenta, un nonnulla vi può strappare nel baratro eterno proprio dal bel mezzo dei vostri giorni. Vi hanno forse detto che la morte discenderà da voi lentamente e vi chiamerà da lontano prima che arrivi? O forse credete d’essere altrettanti Giosuè da comandare al sole della vostra vita e dirgli: « Fermati, che non ho ancora vinto la mia battaglia? ». Ricordatevi che già sono contati anche i vostri minuti secondi: non uno di meno vi sarà dato da campare. b) E poi, supposto che il tempo di chiamare un prete al vostro capezzale vi sia accordato, la violenza del male che starà per uccidervi sarà così indulgente da lasciarvi fare le vostre cose per bene? Mio Dio, e che cosa può fare un’anima peccatrice in quei momenti quando gli spasimi ed i rimorsi tutta la travagliano? La mente si annebbia; la lingua si fa grossa; la memoria va in confusione; il cuore si spegne; e voi pretendete di convertirvi allora? c) Ed infine, tenete a mente che quelle difficoltà che ora ostacolano la vostra conversione non diminuiranno in punto di morte. Dopo una vita intera sciupata nelle impurità, come pretendere che pochi giorni di malattia vi abbiano a rendere casti? I ricordi, i fantasmi, le persone stesse dei vostri peccati attornieranno il letto dell’agonia con più lusinghe; Il demonio non abbandonerà la sua preda al momento buono. La santa Scrittura lo dice: « L’ossa dell’impudico saranno riempite coi peccati della sua giovinezza, e nella fossa le sue disonestà scenderanno a dormire con lui » (Giobbe, XX, 11). Fate pure il caso di un avaro che ha faticosamente ammassato danaro e roba per vie ingiuste e odiose. Dove troverà la forza d’imporre agli eredi quelle restituzioni che egli non si è mai deciso a fare, quando lo poteva senza disonore alcuno? Anche questo è detto nella santa Scrittura: « L’avaro con la sua anima vomiterà le ricchezze inghiottite; il Signore gliele strapperà dal suo seno » (Giobbe, XX, 15). Cor durum male habebit in novissimo die. Non illudetevi: il cuore duro che non si lascia ammollire neppure dalla santa Pasqua, troverà sciagura nell’ultimo giorno (Eccl., III, 27). – 2. DA PARTE DI DIO. Antioco il Re, fuggiasco e vinto, cadde ammalato per male interno e per cupa malinconia. Le cose non erano andate come egli aveva previsto: allora, smontato dalla sua grande superbia, conobbe il castigo di Dio che lo faceva morire. Chiamò dunque tutti i suoi amici e disse loro: « Il sonno se n’è fuggito dagli occhi miei. Sono pieno d’acre amarezza. Oh in quale tribolazione sono venuto mai! Io che ero così lieto e riverito nella mia potenza! Adesso ripenso ai mali da me fatti a Gerusalemme, da dove ricchezze d’oro e d’argento e di bronzo asportai, e fin anche la gente ho disperso di là »; e cominciò a far propositi: dichiarò libere le città che voleva radere al suolo per farne sepolcro d’ammucchiati cadaveri; promise di dare la cittadinanza a tutti gli Ebrei mentre prima li voleva uccidere ed insepolti lasciarli ai pasti degli uccelli e delle fiere; pensò d’offrire arredi preziosi e molte rendite al tempio santo già da lui depredato.  Ma dopo d’aver narrato tutto questo, la Storia Sacra aggiunge una frase che mette addosso un brivido di paura: « Così dunque quello scellerato pregava il Signore, dal quale però non avrebbe ricevuto misericordia » (II Macc., 1X, 13). Disgraziato Antioco! era troppo tardi. Quel suo pentimento fatto solo davanti alla minaccia della morte non era sincero. Perciò io mi rivolgo a quei Cristiani di cuor duro, che le prediche quaresimali non valgono a disgelare, e dico: « Anche per voi il Signore ha lasciato scritto l’esempio di Antioco. Chi vi assicura che Dio sarà a vostra disposizione quando lo cercherete? ». So bene che la Bontà infinita ha così larghe braccia che accoglie chiunque a lei si rivolga per pentimento. Ma so pure che per pentirsi ci vuol la grazia del Signore, e chi vi ha detto che questa grazia vi sarà accordata in punto di morte? La misericordia di Dio ha un limite: questo limite può essere dopo dieci, dopo cento peccati e può essere dopo questa quaresima. Noi non lo sappiamo; sappiamo però che Gesù a quei Giudei dal cuor duro che lo misero in fuga a sassate, ha detto così: « Io me ne vado. Mi cercherete un giorno, ma invano: dovrete morire nel vostro peccato. (Giov., VIII, 21). – Questa è la domenica di Passione. Ormai, da oggi per quattordici giorni, tutta la liturgia non ha che una parola sola: la passione del Salvatore. Le prediche non parlano che di essa; i canti, le preghiere, la santa Messa non sono che un gemere lungo sui dolori del nostro Dio; nella chiesa ogni immagine, ancor che devota, è velata, sola campeggia la croce. Recolitur memoria passionis eius. Guai all’uomo peccatore che senza un fremito, senza un proposito fermo, senza un rimorso efficace guarderà alla morte di Gesù Cristo. Verrà anche per lui il momento di morire; fallito ogni rimedio, gli metteranno nelle mani già l’ultimo l’unico rimedio, il Crocifisso. Ma il Crocifisso lo guarderà con occhi minacciosi e gli dirà: « Tu non hai avuto pietà nessuna per la mia passione e per la mia morte e nei giorni melanconici della quaresima te ne ridevi di me e dei miei Sacramenti. Ora tocca a me ridere della tua morte ». Ego quoque in interitu vestro ridebo subsannabo (Prov., I, 26). — LA PAROLA DI DIO. Poche sono le pagine della storia che possono suscitare in noi tanta pietà, come quella che narra la fine di Luigi XVI. L’infelice re, sorpreso dalla rivoluzione mentre fuggiva, fu costretto a salire la ghigliottina. Dall’alto del palco ferale, pallido come se già lo coprisse l’ala della morte, guardò tutto il suo popolo e desiderò di porger il saluto estremo. « Popolo mio… ». Ma i tamburi rullarono disperatamente a seppellire la voce. Non lo volevano sentire. Una scena simile avvenne attorno a Gesù, nei giorni in cui viveva in Palestina. … Non fremiamo di sdegno contro i Giudei, perché di gente che non vuol ascoltare la parola di Dio ce n’è anche oggi, e non poca, e tra gli stessi Cristiani. E se non è col rullo dei tamburi, se non coi sassi, si sono trovati però più facili ripieghi per non essere disturbati dalla voce salutare del Sacerdote che annuncia la parola di Dio. Consideriamo noi invece l’importanza della parola di Dio e i motivi per cui la parola divina è resa infruttuosa. Lo spirito Santo diffonda il lume nella nostra mente e l’amore nel nostro cuore, poiché si tratta di valorizzare la sua parola.  – LA PAROLA DI DIO È ONNIPOTENTE. Il grande Salomone chiamò la parola di Dio «omnipotens sermo ». E disse egregiamente: a) La parola di Dio è onnipotente nell’ordine naturale. In principio, quando ancora e cielo e terra non erano che un ammasso informe e tenebroso come la bocca d’un abisso, echeggiò la parola di Dio. «Sia fatta la luce! » E fuori dal buio balzò magnifica la luce a rischiarare il giovane mondo. E così, dietro al grido di Dio che le chiamava fuori dal nulla, uscirono tutte le creature, e il velo azzurro del firmamento e le acque e la terra: e nel firmamento gli astri; e nelle acque i pesci; e sulla terra le piante con la virtù di produrre il seme, e gli uccelli, e l’uomo. È questa parola che un giorno placò la furia del mar di Genezaret e la raffica di vento che minacciava di travolgere una barca con dodici pescatori. È questa parola che snodò la lingua e riaprì l’udito ad un giovane sordo e muto. È per la virtù di questa parola che il paralitico, da trentotto anni languente sotto il portico della piscina, poté rizzarsi ancora, prendersi il pagliericcio e camminare verso casa sua. A questa parola, i poveri lebbrosi sentivano rifarsi i tessuti corrosi e piagati, sentivano una nuova onda di vita risalir per le vene. E quando questa parola echeggiò imperante sulla tomba d’un amico, perfin la morte inesorabile dovette ascoltarla: e il morto quatriduano balzò fuori alla vita. b) Onnipotente è questa parola nell’ordine soprannaturale. Gesù trova un uomo immerso negli affari e nelle esosità, che — forse — non aveva mai saputo sollevare d’un palmo il suo cuore sopra l’interesse materiale e gli disse: « Veni, sequere me! ». Quell’uomo è sconvolto: si sente un altro uomo e comincia ad amare ciò che prima aveva odiato, ad odiare ciò che prima aveva amato. C’era una donna, scandalo della città. Il suo cuore era in tumulto: la passione impura l’aveva bruciacchiato, l’aveva lordato come nelle brutture d’un trogolo, ed ora lo sbatteva come un vento di furiosa tempesta. Le dice Gesù: « Donna, va in pace e non peccare ancora ». E quel cuore si spense di ogni fuoco terreno e brutale e solo arse d’un amore purificante verso il Signore. E divenne santa e meritò di veder Gesù appena risorto. « Vox Domini confrigentis cedros » (Ps., XXVIII): è la voce di Dio come una scure che atterra ogni superbia degli uomini. « Vox Domini intercidentis flammam ignis »: è la voce di Dio come un’onda che sgorga da recondite scaturigini a spegnere nei cuori la fiamma delle passioni. « Vox Domini concutientis solitudinem » : è la voce di Dio che sa scuotere l’uomo intorpidito da lunghi anni nella colpa. «Vox Domini, in virtute! Vox Domini in magnificentia! ». c) Non crediate però che la parola di Dio diminuisca di virtù se a noi giunge attraverso la voce di un uomo. Appena uscì dalla bocca di Giosuè, il sole si arrestò nella sua corsa di fuoco. Appena uscì dal labbro di Mosè, le acque si divisero, ergendosi come una muraglia; e tutto il popolo traversò il Mar Rosso. Adoperata da Elia, il cielo si aperse o chiuse. Annunciata da pochi pescatori, si fece udire in tutto il mondo, fortificò i martiri nell’ora suprema, dissipò i falsi sillogismi dei filosofi, rovesciò la lussuria di Roma, e innalzò sul mondo rigenerato la purezza della croce. La parola di Dio non perde la sua efficacia anche se annunciata da indegni, indegnamente: ella è parola di Dio e prescinde dall’ingegno e dalla santità dei predicatori: opera per virtù propria come i Sacramenti, anzi — sotto questo aspetto – meglio dei Sacramenti, perché in questi si richiede alla validità l’intenzione del ministro, mentre la predicazione ne prescinde. Ecco la virtù della parola di Dio! Ma perché allora ai giorni nostri, in cui ella è annunciata così largamente, non produce quei mirabili effetti? Perché si ascolta male, o peggio, perché non si ascolta più. – 2. RESISTENZA UMANA ALLA PAROLA DIVINA. a) Gli uomini ascoltano male la parola di Dio. Al tempo delle eresie, Dio suscitò un magnifico annunciatore del Vangelo: S. Antonio da Padova. La gente accorreva da ogni parte al suo passaggio, così che le chiese erano troppo anguste, ed il Santo doveva predicare nelle piazze. Il demonio non poté darsi pace. E talvolta, per distrarre gli uditori, incendiava una casa vicina, tal altra faceva comparire un’invasione di lucertole che strisciavano sui piedi degli ascoltanti. Un giorno, mentre, tutti tacevano e ascoltavano con molto frutto, ecco sopraggiungere numerosi cavalieri a tutta corsa: e distribuivano lettere e plichi alle donne. E tutte incuriosite aprono e leggono e intanto perdono il frutto della divina parola. – Non crediate che il nemico delle anime oggi stia tranquillo: solo che non ha più bisogno di ricorrere a mezzi straordinari, perché i Cristiani troppo facilmente sono disposti ad abusare delle parole di Dio. Alcuni ascoltano la parola di Dio, come fosse parola dell’uomo. Ricercano i pensieri peregrini, e l’armoniosità dello stile che blandisca l’orecchio. Altri l’ascoltano come parola di Dio, ma quello che ricevono, tutto distribuiscono: « Questo accenno è proprio per la tal persona… questo difetto è caratteristico per quell’altra… oh, se ci fosse il tale a sentir queste parole! quadrano per lui… E per sé non tengono nulla: mentre tutta la predica era per loro. Altri ascoltano con spirito di malignità: e vanno a cercare in ogni frase delle maligne o personali allusioni. Altri l’ascoltano con spirito di mondanità: e mentre il ministro di Dio parla, essi volgono gli occhi in giro per vedere ed essere veduti. Altri ancora sembrano ascoltarla: ma il loro pensiero va e va… dietro, forse, dietro ad invisibili dispacci portati dagli invisibili cavalieri del demonio. Altri infine l’ascoltano, ma con mala voglia, con sbadigli e pisolini. b) Molti non ascoltano più la parola di Dio. « Non di solo pane vive l’uomo: ma di ogni parola che viene da Dio ». Dunque la parola di Dio è il nostro cibo sostanziale, e chi lo rifiuta si condanna a morire. Qualche pomeriggio di primavera, nella dolce stagione in cui pare che un palpito muovo di vita trascorra, fluttuando, nel mondo, vi accadde senza dubbio di vedere, seduto sulla soglia di casa, o per qualche viottolo solitario, qualche giovane malato di tisi. Vi cammina dolorosamente davanti: ha negli occhi dilatati l’ombra misteriosa della morte, ha le guance scarne, ha un tossire secco come colpetti all’uscio di uno che chiede d’entrare. Il medico scrolla la testa e dice: « Non vedrà le spighe mature. E il padre con un singhiozzo lacerante: «Ma perché, dottore?… ». « Non vedete? il cibo gli fa nausea: non mangia più ». E fa spavento pensare come ai nostri tempi, quest’etisia dell’anima fa stragi in mezzo agli uomini. Entrate in una chiesa, nei pomeriggi delle domeniche durante la spiegazione della dottrina: che solitudine! Pochi vecchi tremolanti e panche vuote. Ma perché? Se proprio volessimo indagare fino a fondo lo troveremmo il motivo: in alcuni un attacco vergognoso ai piaceri del senso, in altri l’insaziabile ingordigia dei beni terreni. Come possono costoro gustare una parola che è tutta austerità ed evangelica povertà? – Il re Artaserse si nutriva con cibi squisitissimi. Ma venuta la guerra, sconfitto, fuggiva ramingo ed affamato per le montagne. Vide una capanna: bussò ma per la sua fame trovò solo un ruvido pan d’orzo. Divorando però lo trovò gustosissimo e cominciò a lamentarsi con gli dei che fino a quel giorno gli avevano tenuto nascosto quel delizioso piacere. Così sarà di noi: quando avremo ascoltato con fede, con umiltà, con docilità la parola di Dio, vi sentiremo tanta dolcezza e tanto sapore spirituale, da esclamare con meraviglia: « Come mai non mi ero accorto prima? ».

IL CREDO

 Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 17, 107

Confitébor tibi, Dómine, in toto corde meo: retríbue servo tuo: vivam, et custódiam sermónes tuos: vivífica me secúndum verbum tuum, Dómine.

[Ti glorífico, o Signore, con tutto il mio cuore: concedi al tuo servo: che io viva e metta in pràtica la tua parola: dònami la vita secondo la tua parola.]

Secreta

Hæc múnera, quaesumus Dómine, ei víncula nostræ pravitátis absólvant, et tuæ nobis misericórdiæ dona concílient.

[Ti preghiamo, o Signore, perché questi doni ci líberino dalle catene della nostra perversità e ci otténgano i frutti della tua misericórdia.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

 Communio

1 Cor XI: 24, 25

Hoc corpus, quod pro vobis tradétur: hic calix novi Testaménti est in meo sánguine, dicit Dóminus: hoc fácite, quotiescúmque súmitis, in meam commemoratiónem.

[Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi: questo càlice è il nuovo patto nel mio sangue, dice il Signore: tutte le volte che ne berrete, fàtelo in mia memoria.]

Postcommunio

Orémus.

Adésto nobis, Dómine, Deus noster: et, quos tuis mystériis recreásti, perpétuis defénde subsidiis.

[Assístici, o Signore Dio nostro: e difendi incessantemente col tuo aiuto coloro che hai ravvivato per mezzo dei tuoi misteri.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

QUARESIMALE (XXVIII)

QUARESIMALE (XXVIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMAOTTAVA
Nella Domenica di Passione.


Il Peccatore ha per nemici il Cielo, la Terra, l’inferno. È
nemico crudele di sé stesso, nemico di Gesù Cristo, ha per
nemico Iddio.

Quis ex vobis arguet me de peccato. San Gio: cap. 8.


È legge stabilita tra’ Persiani, che morto il loro re, si viva per cinque giorni senza legge; onde è, che cresciute le insolenze, ne seguono con mille inconvenienti, anche spietati omicidi. Ciò si permette per far conoscere al popolo la necessità d’un capo, e le gran calamità in cui si vive, mentre si vive senza legge. È legge stabilita nel cuore de’ peccatori vivere senza capo, privo di Dio, quantunque vedano che da ciò ne derivino rovine al corpo, precipizi all’anima. Anzi pare che vadano dicendo: Quis ex vobis arguet me? E che cosa è il peccato? Mio Redentore, e che cosa posso far io perché ne conoscano la gravezza? Altro non posso fare, che rivoltarmi verso di loro e con le parole d’Eliseo a quei facinorosi ladroni, dirvi: aperi Domine oculos istorum: Deh aprite gli occhi a chi vive cieco, e non conosce ciò che sia peccato mortale … Sapete ciò, che vuol dire commettere un peccato mortale? Vuol dire tirarsi addosso l’inimicizia più fiera che possa mai darsi. Sapete quello vuol dire vuol dire tirarsi addosso l’inimicizia del Cielo, della terra dell’inferno; più, vuol dire esser nemico spietato di sé stesso … peggio: esser nemico di Dio. V’è più male? certo, vuol dire avere per nemico Dio, e son da capo … Non v’ha dubbio, che chi commette un peccato mortale tira addosso la inimicizia di tutte le creature Celesti, poiché al pari del figliuol prodigo, dopo aver gettato via tutti i tesori della Grazia divina, ed essersi ridotto ad un’estrema mendicità, poté dire col medesimo peccavi in Cœlum, ho peccato contro del Cielo; e con aver peccato contro del Cielo vi siete nemicato quanti sono colassù Angeli e Beati. E che non potete temere, mentre tutti i Grandi del Paradiso vi son contrari? Né vi crediate, che il loro sdegno contro di voi sia ordinario: perché siccome in Cielo si fa straordinaria festa per la conversione di un peccatore: Gaudium erit in Cœlo super uno peccatore pœnitentiam agente… ogni ragion vuole, che tutta quella allegrezza che si fa in Cielo per un peccatore pentito, tutta si converta in odio contro di quell’indegno che oltraggia il Cielo con nuovi peccati. Ecco, dunque, che avete aperta nimicizia col Cielo, che vale a dire con gli Angeli e con i Santi. E tu, o peccatore, a questa verità non ti riscuoti? Come è possibile che tu voglia continuare ad aver nemici, quanti sono Beati in Paradiso, e perciò voglia continuare in quell’odio, in quell’interesse, in quella maledetta inimicizia? Ah misero peccatore! Hai inimicizia col Cielo: che farai? Chiama, se puoi, a tua difesa la terra; appunto non puoi, perché anche con la terra, con gli uomini hai aperta nimicizia per il peccato mortale, che covi in seno. Che il peccatore, miei UU., sia nemico di tutti gli uomini, che stanno sopra la terra, basta riflettere quanto di male faccia all’uomo il peccato. Tutte le disgrazie, tutte le miserie, tutte le infermità, tutti i dolori, tutte le agonie, tutti gli spasimi, tutte le carestie, tutti i fulmini, i terremoti, le pestilenze, le guerre, le morti, è di fede, miei UU., son vere figlie del peccato mortale. Dunque, il peccatore commettendo i peccati, arma tutte queste miserie contro degli uomini e così si rende loro nemico. Il seguente racconto vi faccia toccar con mano quanta nimicizia abbia il peccatore con gli uomini. Riferisce Sofronio d’una certa donna per nome Maria, la quale non contenta di essere iniquamente vissuta nella propria patria, se ne partì per portarsi in lontani paesi a far pubblico mercato di se stessa. Montò per tanto sopra di una nave presa alla vela, quand’ecco che il legno, quantunque avesse il vento in poppa, si ferma immobile a guisa di scoglio. Attoniti del successo, i naviganti ricorrono alle orazioni, ai voti, ed odono una voce del Cielo che grida: getta in mare Maria, gettala, gettala. Si cerca Maria, che più disobbediente di Giona mette in pericolo tutto il vascello, e ritrovatala si getta non in mare, ma si ripone sul battello per assicurarsi del volere divino; volete altro, appena la meschina fu posta su quel picciolo legno che girando tre volte intorno intorno, s’affondò, quasi non potesse reggere al peso delle colpe della sfortunata femmina. O quante volte si rinnovano queste prove benché tanto sensibili però male intese. Quella casa ha un capo molto assegnato e diligente, eppure le possessioni non rendono; i debiti s’aumentano, insorgono le liti, le malattie, le disgrazie tutte par che l’abbiano presa di mira. Sapete perché? Perché in quella famiglia v’è qualche peccatore: qualche figlio lascivo, qualche servo bestemmiatore, qualche donna impudica. O se si potesse sgravare quella casa di questo peso, voi vedreste cessare le liti, le nimicizie, le malattie. Finché tu continuerai in peccato, cresceranno le miserie, non saranno fertili i poderi, non corrisponderanno i censi: perché il peccato è nemico di tutte le creature, sempre le travagliata ed affligge. È indubitato che i peccati d’un solo talora mandano in rovina le famiglie e popoli interi. Di tanto ci assicura Origene. Uno peccante, ira super omnem populum venit. Che dissi Origene? Le Sacre Carte, Iddio. Portatevi in Giosuè al settimo, e sentitene il fatto. Avevano gl’Israeliti espugnata con rara felicità la città di Gerico, e però volendo seguire animosi il corso delle vittorie, s’incamminarono alla conquista di Hai, città senza paragone inferiore a Gerico e di grandezza e di forze: ma che? Giunti colà a fronte dell’inimico, furono sì vergognosamente respinti, che gli convenne voltar le spalle. A questa inaspettata fuga, immaginatevi che nel popolo si sollevò un bisbiglio non ordinario ed un pianto universale non sapendosi a che attribuir l’avergli Iddio sottratta la sua protezione; mentre dallo stesso Iddio erano colà stati chiamati per mieter palme e per raccogliere allori vittoriosi. Per indagarne dunque la cagione, ecco che Giosuè prostrato avanti all’Arca, prega, piange, si umilia ed intende che la cagione di tanta sciagura era stato un peccato commesso non già da tutti, ma da uno solo, e fu appunto quello che commise l’infelice soldato Acan, allorché vedendo andare a fuoco ed a fiamme Gerico, veduta una ricca sopravveste di porpora tra le spoglie, se ne invaghi’, la tolse contro gli ordini dati dal capitano, la preservò dall’incendio, e la nascose sotto il padiglione. Or per questo malfattore, benché occulto, Iddio tanto si adirò, che protestò di abbandonarli in eterno, se tutti non si univano a levarlo di vita: non ero ultra vobiscum, nisi conteretis eum: tanto è vero, soggiunge qui Salviano, che leditur scelere personali causa cunctorum. – Disgraziato peccatore, come nemico del Cielo e della terra, sei in odio agli Angeli, a’ Santi, ed a tutto il mondo, e sei sì infelice, che hai l’odio insino de’ diavoli: ma come può essere, che il peccatore sia nemico del diavolo, mentre il diavolo altro non brama se non che sia peccatore? È vero che il diavolo brama che il peccatore sia peccatore, e perciò lo tenta e gode che pecchi. Ma ne gode per quel male che l’uomo peccando fa a se stesso, dove che dall’altra parte gli dispiace il suo peccare, perché quel suo peccato, dovrà esser una volta allo stesso diavolo di maggior tormento, e sarà allora quando il peccatore sarà all’inferno. Volete la ragione, perché sarà di maggiore tormento al diavolo? Eccola: molti carboni insieme fanno più fuoco, e più si bruciano l’uno con l’altro. Così sarà nell’inferno: quanti più dannati vi saranno, tanto più tormenteranno i diavoli ed ecco il peccatore nemico anche de’ diavoli; perché tormentandoli diverranno loro nemici. E per non esser parziali di niuno, eccolo nemico anco de’ dannati stessi per la medesima ragione, perché l’uno con l’altro a guisa di tizzoni accenderanno maggiormente quelle fiamme nelle quali stanno sepolti: anzi i dannati saranno nemici più arrabbiati de’ diavoli, perché non avranno l’acerbo conforto tra loro tormenti d’esser carnefici, come l’hanno i demoni. Sebbene, come potrò credere, che il peccatore stimi questa inimicizia, mentre egli peccando diviene nemico ancora di sé medesimo? Si può sentir di peggio esser nemico di sé stesso con fare a se stesso ogni gran male. Sì, i peccatori sono nemici di sé stessi. Così li chiama Tobia: Hostes sunt animæ suæ. Sentite: un nemico, per quanto sia crudele, non vi spoglia mai d’altro che o delle ricchezze, o della libertà, o della vita: ed appunto di tutti tre questi beni spogliano i peccatori con i peccati l’anima loro. La spogliano di ricchezze, togliendole il bel tesoro della grazia, di cui un grado solo val tanto che se il mondo tutto fosse d’oro e di diamanti, non sarebbe sì ricco. La spogliano di tutti i meriti della buona vita passata. Sicché sentite ed inorridite. Quanto per l’addietro operaste di virtuoso, di cristiano, di pio, tutto perdete col peccato mortale; tanto denunciò Iddio per Ezechiele: Si avertit se justus a justitia sua, et fecerit iniquitatem secundum omnes abominationes, quas operari solet impius, numquid vivet? Signori no che non vivet. Ma che? omnes justitia ejus, quas fecerat non recordabuntur. Oh protesta da far raccapricciare anche un’anima di macigno! Tutte quelle opere buone, dice Iddio, le quali per l’addietro avete fatto, rimangono già sepolte in sì alta dimenticanza, che se una morte improvvisa vi togliesse dal mondo, mai mai per tutta l’eternità ne godreste alcun premio. Chi mai, Cristiani miei, potrebbe crederlo? Dunque, dirò io: se taluno di voi per l’addietro avesse, come un Domenico Loricato, afflitte sempre con stranissime guise di penitenze, le proprie carni, sicché le avesse ogni dì sminuite con digiuni, piagate con cilici, lacerate con flagelli, sbranate con catene ed ora morisse in quel peccato del quale a sorte è reo … cotante austerità non gli gioverebbero niente niente. Dunque, se taluno per l’addietro avesse qual altra Melania Romana distribuito in alimento de’ poveri tutte le sue sostanze, sicché avesse continuamente vestito i nudi, ricomprati schiavi, serviti infermi, sostentati i pupilli, ed ora morisse in quel peccato mortale: tante limosine non gli frutterebbero niente, niente, niente. E se voi tutti miei UU., aveste convertiti a Cristo più popoli con Francesco Xaverio; se aveste superato un’Alessio nel disprezzo del mondo; un Francesco d’Assisi nella povertà, umiltà, e poi moriste in peccato mortale: niente vi gioverebbero tante virtù, niente tanti meriti, niente tante penitenze, niente tanta santità? No, omnes justitiæ ejus, quas fecerat non recordabuntur. Ah peccatori, quanto siete nemici di voi stessi, mentre spogliate l’anima vostra di sì ricchi tesori; né contenti di quanto avete, le togliete la libertà; vendendola al diavolo, per un capriccio o d’odio o di senso o d’interesse: venundati sunt, ut facerent malum. E finalmente passano avanti con darle cruda morte. E che altro è alla fine il peccato mortale, che la morte dell’anima; mentre le toglie Iddio, che è la sua vita? Anima emissa, dice Agostino, mors corporis: Deus amissus, mors anima. Se si parte l’anima dal corpo … muore il corpo, se si parte Iddio dall’anima, ecco morta l’anima; che resta al corpo, quando è uscita l’anima? Il sepolcro! Che resta all’anima perduto Iddio? L’Inferno. Come dunque può negarsi che i peccatori non siano nemici di se stessi? Si, si, hostes sunt animæ fuæ, e nemici tali che tolgono tal ricchezza, tal libertà, tal vita. Qual fiera, qual tigre, qual pantera fu mai sì crudele contro se stessa, che giungesse a perdere volontariamente la libertà, dandosi nelle mani de’ cacciatori? E qual mai si trovò, che da se stessa, si svenasse, si uccidesse, si desse la morte? Solo il peccatore è quella fiera così spietata contro di sé. Miseri peccatori, nemici crudeli di voi stessi, mentre a voi stessi causate il maggior de’ mali che possa mai accadervi .. Sentite: Caligola il più fiero mostro che regnasse giammai fra gli uomini, desiderava che tutto il popolo Romano si riducesse ad avere una sola testa per poterla troncare in un sol colpo; io per me mi persuado però, che quando bene avesse potuto sortire effetto il desiderio bestiale d’un tal tiranno in alzare la mano a sì gran taglio, si sarebbe commosso, quel cuor di pietra, si farebbe ammollito; e riposta nel fodero la spada, benché assettata di sangue umano, non avrebbe saputo arrivare tant’oltre. Or miei uditori, tutte le volte, che acconsentite al peccato mortale fate di voi stessi scempio più atroce: privando di vita l’anima vostra, anima quæ peccaverit ipsa morietur. E tuttavia non tremate? E non solamente non vi cadde di mano il ferro per l’alto orrore; ma eseguite un colpo sì lagrimevole e si funesto! Passo avanti e dico che fate un scempio sì grande di voi stessi, che se tornasse di nuovo ad inondar il mondo nel diluvio, la strage di tutti gli uomini ora viventi sarebbe per se stessa infinitamente più leggera di quel che sia la morte che voi date all’anima vostra col peccato mortale, giacché la vita soprannaturale d’un’anima val più che non vale la vita naturale di tutti gli uomini possibili. Sentite se siete veramente nemici spietati di voi stessi. Se Dio desse licenza, ma senza limitazione, non ad un solo demonio, ma a tutti di rivoltarsi contro di voi ed essi a gara vi facessero quel più di male che potessero; sappiate che tutti insieme non potrebbero mai farvi tanto di male, quanto da voi stessi ve ne fate peccando. Dirò di più: se la Divina Giustizia con la spada sua onnipotente, volesse sopra di voi scaricare un colpo degno del suo braccio divino, certo con tutta la sua forza non potrebbe fare all’anima vostra quel male che voi stessi fate con acconsentire ad un peccato mortale; perché alla fine non potrebbe farvi altro male, che male di pena, là dove a voi stessi fate maggior male, perché è male di colpa. Oh Dio! quanto mai deve giubilare l’inferno, allorché voi peccate? Mentre vede che fate a voi stessi quel male che non può Egli con la sua onnipotenza. Chi può dunque negarvi il titolo che vi dà lo Spirito Santo di nemici delle anime vostre qui faciunt peccatum hostes sunt animæ suæ. Ti compatisco, o peccatore, perché ti ravviso nemico di te stesso, ma molto più, perché sei, oh Dio! Nemico di Dio … Ecco la figura, che di te mi rappresenta il santo Giobbe: mi ti fa vedere armato da capo a piedi col collo gonfio, e superbo, con la mano stesa in atto di voler combattere con l’onnipotenza: tetendit adversus Deum manum suam: contra Omnipotentem roboratus est. Non vi è pertanto perfezione in Dio, contro di cui non si armi con la sua iniquità il peccatore. Disprezza l’onnipotenza, vilipende la Sapienza, non teme la giustizia, conculca la Divina Misericordia. Ecco, ecco a quello che vi conduce quella passione di odio, d’amore d’interesse, ecco gli scogli ne’ quali date, mentre siete irriverenti nelle Chiese, disprezzatori de’ parenti, mormoratori, bestemmiatori; voi con oltraggiare le perfezioni Divine siete simili a quegli sciocchi popoli dichiarati nemici del sole, giacché contro di lui lanciavano nembi di saette. Certo non arrivavano a ferirlo; ciò però non procedeva dalla loro volontà, ma dalla sublimità del sole superiore a qualunque dardo; del resto, se il sole fosse stato loro vicino, e fosse stato capace di ferite mortali, chi non vede che, per quanto stava a quei perfidia, sarebbe stato ferito così fate voi, peccatori: per quanto è dal canto vostro, procurate di ferire Dio; e se non vi riesce, non è che resti dalla vostra malizia; resta perché Egli è quel Dio che è. Chi, dunque, negherà che veramente non siate nemici di Dio, sicché lo siete peccatori indegni, peccatrici scellerate; e giacché non volete confessarvi tali con la lingua, ecco che vi svergogno, e vi paleso per nemici di Dio con l’autentica irrefragabile de’ vostri fatti; e quel che è peggio non siete stati nemici di Dio con odio rimesso e moderato, ma con odio il più spietato, il più crudele, il più barbaro, che possa aversi. Ecco, ecco l’autentica della vostra inimicizia. Fissate gli occhi in questo Cristo, e negate se potete, che non siate nemici di Dio. Domandagli, o peccatore, un poco col Profeta: quid sunt plage iste? Che piaghe son queste, che avete nella vostra vita? E sentirai risponderti: queste son piaghe fattemi da’ peccatori miei nemici, queste piaghe de’ piedi me le facesti crudele quando ti portasti a quei balli, a quelle veglie, a quei corsi, a quei festini, a quelle conversazioni dalle quali sempre ne uscivi col peccato mortale. Queste piaghe delle mani me le hanno fatte quei memoriali indegni, che stendesti, quelle lettere cieche che mandasti a danno ora di questo, or di quello; quelle carte, che maneggiasti con tante frodi, con tant’inganni, con tanto pregiudizio della famiglia. Tu mi ponesti la corona di spine nelle tempie quando macchinasti la rovina del tuo prossimo; quando ordisti nella mente tua quelle insidie alla onestà di quella donzella, all’onore di quella maritata. Tu mi porgesti fiele per bevanda, allorché ti lasciasti uscir di bocca tanti giuramenti, tanti spergiuri, tante laidezze, tante bestemmie, tante mormorazioni; tu in somma, da vero nemico mi hai aperto questo costato, quando nel tuo cuore covasti gli odii, i rancori, le inimicizie; quando sì lungamente vi racchiudesti gli amori indegni? Tu insomma m’hai posto in questa croce con le tue scelleraggini; e con le tue indegnità mi ci hai fatto morire. Sarai contento; son morto per le tue mani; eppure ad ogni modo altro non bramo, che darti vita. Voi inorridite a questo mio parlare? Vi ho mostrato la nemicizia, che avete avuto con Dio, mentre gli avete ucciso il Figlio, e pur questo è nulla a paragone di quello che rimane. Voi siete nemici di Dio: gran parola! E pure è il lampo del tuono, è la folgore del fulmine, ecco il colpo. Atterritevi … ecco la saetta. Voi nemici di Dio; ecco la conseguenza, e Iddio è vostro nemico. Iddio è tuo nemico, va’ dove vuoi, che non hai sicurezza. Hai per nemico Iddio, o tu dorma, o tu vegli, o tu mangi. Avete Dio per nemico, e tanto ridete, non cadete a terra morti per lo spavento? Come è possibile? Un antico romano, di cui dovevasi trattar la causa in senato, sentendo che Tullio, oratore sì temuto, gli era contrario, s’accorò tanto che per disperazione s’uccise; ed a voi non par nulla aver un Dio per contrario! Poveri voi, che con aver nemico Dio, avete altresì nemiche tutte le creature; perché tutte insorgono alla difesa del suo Padrone; così seguì appunto allorché Semei ingiuriava di lontano il Re David; giacché subito i cortigiani s’offersero a gara di andar ciascuno di mano propria a staccargli la testa dal busto: Ego vadam, amputabo caput ejus. Ecco, dunque, che contro di voi, che avete Dio per nemico, grida la terra ego vadam, e lo subisserò nel mio fondo: ego vadam, grida l’acqua, e l’assorbirò ne’ miei gorghi: ego vadam, grida l’aria, e lo sconquasserò con i miei turbini: ego vadam, grida il fuoco, e lo consumerò con le mie fiamme: ego vadam, gridano i fiumi, inonderò le sue campagne. Che sarà dunque di te; se non levi di casa colei, se non perdoni, se non restituisci, se non ti penti di cuore? Ah! che mi pare, che i demoni gridino ad alta voce: questo è nostro… presto: Deus dereliquit eum; persequimini, et compræhendite eum, e sepellitelo nelle fiamme eterne d’inferno.

LIMOSINA.
Chi visse in peccato faccia limosina, per non tornarvi; chi lo covò lungamente la faccia maggiore; perché ha più bisogno di misericordia; chi non peccò slarghi la mano, per non tirarsi addosso la inimicizia di Dio.

SECONDA PARTE.

Voi, o peccatori siete nemici di Dio: bene avete inteso. Iddio è vostro nemico altresì e sappiate che questa inimicizia, che ha Dio contro di voi porta seco un odio tale di Dio verso di voi, che tale non l’hanno i demoni tutti dell’inferno verso un’anima dannata. Quando gli Ateniesi si ribellarono a Dario Re della Persia, lo toccarono talmente sul vivo con un tal disprezzo, che diede ordine ad un suo cameriere, che ogni mattina nel svegliarlo li dicesse così: Sire, ricordatevi degli Ateniesi; e ciò richiedeva a solo oggetto, che il tempo non gli diminuisse punto del suo sdegno, e della vendetta, che disegnava prendere contro de’ suoi ribelli. Iddio, o peccatori, non ha bisogno di sì fatta invenzione per ricordarsi che è vostro nemico; e perciò per mantenere sempre
accesa contro di voi l’ira sua giustissima, sappiate che il vostro peccato sta sempre presente al suo guardo; e non può cancellarsi, perché è scritto con filo di ferro, inciso nel diamante: Peccatum Juda scriptum est stylo ferreo, et ungue adamantino. Or io vorrei che i peccatori mi dicessero come mai fanno a vivere allegri, mentre sanno d’avere una inimicizia sì formidabile; ancor io son costretto ad entrare ne’ sentimenti dell’Angelico San Tommaso, il quale si protestava di non capire due cose: la prima come un Cristiano, che sa per fede che peccando diventa nemico di Dio, pure ardisca peccare. La seconda, come essendo già col suo peccato diventato nemico di Dio, possa poi passarsela allegramente, ed abbia passatempi per ricrearsi, abbia facezie per ridere, abbia sonni per riposare. Come farete dunque, o peccatori a vivere sì tranquilli nelle vostre iniquità? Scopritemi di grazia questo segreto ignoto anche alla mente dei maggiori savi che mai vedesse la terra. Tu donna infelice, infedele al tuo marito, come ti riesce a star quieta, mentre sei nemica di Dio? Tu giovine miserabile che tanto t’affliggi se quella amica ti guarda bieco, come fai a vivere sì allegramente, mentre sei tanto in odio a Dio? Tu, che se il tuo principe non ti volesse mai più vedere moriresti di cordoglio, e pure adesso con l’inimicizia formidabile del tuo Creatore non solo non muori di cordoglio, ma giungi fino a vantarti d’averlo offeso, giungi ad insuperbirtene, giungi per questo capo a reputarti più degli altri. Io per me, credo che non crediate, scusatemi … queste verità Cattoliche. Se non credete rinunziate al Battesimo e cancellate dal ruolo de’ fedeli il vostro nome. Credere d’aver nemico Dio e ridere e urlare e scherzare? Peccatore vien qua, dimmi un poco: con qual timore staresti, se sapessi d’aver per nemico un gran cavaliere, un principe, un re? quanto maggiore sarebbe il timore, se tu sapessi che egli assolutamente si vuol vendicare? Grandissimo; tu non me lo puoi negare. Or tu sai che sei nemico non d’un principe ma di Dio, in cujus manu funt omnium potestates: e non temi, e non tremi? Tanto più che sai, che assolutamente vuol vendicare con castigarti. Temilo, o peccatore; e tanto più temilo quanto, che non te lo sei reso nemico con avergli fatto una sola offesa: l’hai offeso tante volte, e sfacciatamente in più luoghi, per le strade, per le piazze, nelle case, nelle stesse Chiese; or se egli vorrà castigarti per una sola offesa, che gli abbia fatta, quanto più per tante! Temilo dunque, e molto più temilo, perché ti può raggiungere ovunque tu sia. Se hai un nemico in una città, puoi andar in un’altra; se in un regno, in un altro; ma Dio ti arriverà per tutto; quo ibo a Spiritu tuo, quo a facie tua fugiam? E dove andrò,
dice il Profeta, che tu non mi giunga? Si descendero in infernum ades; se mi nasconderò nel centro della terra, ivi tu sei: si ascendero in Cœlum, tu illic es; se mi porterò all’altezza de’ Cieli, quivi ti troverò: si sumpsero pennas meas diluculo, et habitavero in extremis maris; ancorché io mi porti di là da’ mari, tanto tu mi raggiungerai! Temilo dunque, o peccatore, perché hai un nemico che da per tutto può raggiungerti. E temilo molto più; perché già tu vedi che contro di te ha sfoderata la spada; e ti fa vedere i lampi del suo sdegno. Spada di Dio, che ti minaccia castighi maggiori, sono quella lite suscitata; lampo dell’ira di Dio è quella malattia, quella grandine, quella morte. Temilo insomma, perché è un Signore di sì alta potenza, che postquam occiderit corpus, babet potestatem mittere in gehennam; che dopo d’aver posto il corpo estinto in terra, ha potestà di seppellire l’anima nell’inferno. Temilo, o peccatore, e non voler più questa inimicizia col tuo Creatore. Ah no, no, no non è dovere; bisogna concludere questa pace ed ora a’ piedi di Cristo si ha da stabilire per sempre. Amor mio non più peccati, diceva la Beata Caterina da Genova; quanto dobbiamo dire ancor noi: non più peccati, non più bestemmie, non più ingiustizie, non più rancori, non più disonestà, purtroppo siamo stati ciechi per il passato a non temer questo Signore; ve ne chiediamo perdono. Eccoci pentiti, eccoci contriti. Evvi nessuno, UU., che ricusi domandare questo perdono? Se vi è si dichiari, e se vuol continuare la inimicizia con Dio; egli si protesta, che gli sarà nemico in vita, e gli pianterà la dannazione in cuore la morte. No no mio Dio; tutti con Voi vogliamo amicizia, e perciò tutti vi domandiamo misericordia, e pace; pace e misericordia. Se così è, miei UU., questo Cristo vi concede il perdono; vi dà la pace, con questa condizione però, che non torniate ad offenderlo.

QUARESIMALE (XXIX)

LO SCUDO DELLA FEDE (245)

LO SCUDO DELLA FEDE (245)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (14)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

CAPO III

IL SACRIFICIO DIVINO

SECONDA PARTE DEL CANONE.

Orazione: Communicantes.

« Noi comunicando, e prima di tutto venerando la memoria di Maria sempre vergine, gloriosa Madre di Dio e nostro Signor Gesù Cristo, come pure dei beati vostri Apostoli e martiri Pietro e Paolo, Andrea, Giacomo, Giovanni, Tommaso, Giacomo, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Simone, Taddeo, Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio, Cipriano, Lorenzo, Grisogono, Giovanni e Paolo, Cosma e Damiano, e di tutti i vostri santi: Deh! pei meriti e le preghiere loro concedete, che noi in tutte le cose veniamo muniti dell’aiuto di vostra protezione (qui giunge le mani e continua): Pel medesimo Gesù Cristo, Signor nostro. Così sia. »

Spiegazione dell’orazione: Communicantes.

La Chiesa in terra e in cielo è una sola famiglia. L’altare toglie via l’abisso che separa il cielo dalla terra, ed è come un ponte, per cui i fedeli dal tempo salgono all’eternità, e si mettono in società coi Beati comprensori del paradiso. Di qui, contemplando i loro fratelli in eterna beatitudine, questi figliuoli della Chiesa in battaglia pigliano conforto nel veder tale porzione del loro corpo già coronato in quella gloria infinita: e come membra della stessa famiglia, partecipano col cuore della beatitudine loro. Dall’altare ricordando poi le vicende della vita, in cui si trovarono anch’essi quei felicissimi, dal loro esempio pigliando conforto, insieme con loro rendono grazie a Gesù, comune Salvatore. Così mentre i fedeli in terra ricordano appié della croce coi meriti di Gesù i meriti dei Santi; i Santi sicuri della propria beatitudine, solleciti della nostra sorte come dice s. Cipriano s’affrettano di chiedere in cielo a Dio, che la virtù del suo Sangue quegli stessi prodigi di grazia, che ha già operato per la loro felicità, rinnovi pei fratelli in via; e questi dal canto loro presentano in questa azione, pei doni, che a quelli ha dato, ringraziamento degno di Dio. – Grande consolazione è questa comunione dei Santi! Per essa i fedeli, quando si sollevano coll’anima in cielo, si trovano in quella così lontana regione in mezzo a protettori ed amici, che si fanno premura di presentarsi con loro al trono di Dio per intercedere insieme: solleciti della nostra sorte, come diciamo con s. Cipriano. Il Sacerdote fra quell’immensa schiera di Beati in tanta gloria, non potendo nominarli tutti, (come si suol fare, quando uom si trova fra moltissimi cari in terra) chiama per nome coloro, che hanno titoli particolari per meritare la nostra confidenza. Deh! fra quei Beati, chi prima d’ogni altro dovrà rimemorare? …… In paradiso più dei Cherubini e dei Serafini, e senza paragone più di tutti i Beati, contempla gloriosa Maria in seno alla Santissima Trinità, e subito le corre innanzi con cuor di figlio, perché Maria è Madre.

Maria è Madre. Oh! qui non sono a dir molte parole, per spiegareperché il Sacerdote in cielo elevato cerca subito la Regina del cielo. Col cuore che batte sìvivo in quella pienezza d’inesprimibili affetti, abbiamobisogno di un cuore che c’intenda, di uncuore che ci voglia il maggior bene ed ami connoi Iddio, come sentiamo di doverlo amare, divinamente.Perciò il nostro cuore si slancia al Cuordi Maria: anche i bambini si gettano in seno allamadre per stringersi al cuore di lei. No, non citroviam meglio che quando noi siam tra le bracciadi Maria a parlare con Dio: perché Maria èMadre. Quando pendeva in croce Gesù, il Sanguepioveva giù dalla testa, grondava giù dalle mani,scorreva giù dai piedi santissimi; e Maria stavasotto la croce, e il caldo Sangue di Gesù cadevasul volto, sulle vesti, sulle mani benedette di MariaSantissima: e Gesù, quando si vide lì sotto allacroce tutta bagnata di Sangue la sua Madre, ce ladiede per Madre nostra (S. Ephrem, Or. de Laur. vir.). Ora Maria dal cielo guarda noi all’altare intorno a Gesù: e da Gesù in Sacramento viene in noi il Sangue, che vorremmo dir Sangue di Lei: perché Gesù è Figlio del suo Sangue…… Ah si, sì senz’altra ragione lo comprendiamo nel cuore, che Maria ci guarda, come figliuoli del suo Sangue! Madre divina! Ella contempla in paradiso nello splendore della Divinità il Figlio suo in seno al Padre, e guarda noi in terra in tante miserie, poverini di figli! lì lì per perderci ad ora ad ora. « Oh! Figliuol mio, gli dice, è Sangue nostro in quei meschinelli. » Contempla poi nel Figlio le Piaghe gloriose, e « Figliuol mio, gli dirà, queste Piaghe vostre io ho sofferte nel mio cuore! » e guarda le piaghe nostre, e gli deve dire: « mi par di sentirle nella mia persona: son Madre vostra, Madre anche di loro », e mirando nel Costato ancora aperto: « mio Gesù, esclama, questa ferita poi l’ho sentita tutta io sola nel cuore mio: salvatemi i figli di tanto dolore! » Pensiamo se in terra una madre fosse così fortunata, che avesse il figlio suo primogenito per ventura diventato re sul più gran trono del mondo; e poi avesse gli altri suoi figliolini, dispersi per la terra, in abbietta miseria; chi, chi vorrà al figlio suo in tanta gloria raccomandare, se non i figliuoli suoi poverini? Ah! consoliamoci, ché abbiamo in cielo la Madre, che è la Madre di Dio (Di Napoleone si racconta (come il buon capitano di Tebe Epaminonda godeva d’ogni vittoria per la consolazione che ne avrebbe avuto la madre) che d’ogni nuova conquista voleva portare egli la novella alla madre sua Letizia; per godere della materna consolazione, e che la madre gli rispondeva sempre con un sospiro: « Ne godo, ma i vostri fratelli ?…..; » e che pur finalmente le dicesse Napoleone: « Mamma, per compiacervi, uno lo farò re di Spagna, poi l’altro re di Portogallo, poi l’altro re di Wesfalia, e regina d’Etruria la sorella » e che allora la madre con un largo sospiro gli rispondesse: La madre vostra è felice! »). Le madri sono sempre madri, anche coi figliuoli che siano stati cattivi: e se mai un figliuolo ravveduto non ardisse di presentarsi al padre, buono sì, ma tanto sdegnato; tra un padre e un figliuolo cattivo, che vuol farsi buono, in sulla soglia, chi si intromette a far pace?… Lasciate fare alla madre. Ella dirà al padre: « avete ragione, fu cattivo quel meschinello…. » Ma intanto va dietro al padre, e mette mano nel forziere, e piglia una manata d’oro (il padre finge di non vederla!) e va sulla porta al figlio e, « to’, gli dice, paga i debiti tuoi, perché ti salvi in onore; » e per giunta lo bacia e gli piange sul volto! Si, veramente l’amor di madre rende immagine dell’amor di Dio! Amor generoso, cresce più quanto è maggiore il dolore che le costa il figlio. Adunque per tutte le ragioni il Cuor di Maria è, dopo il Cuor di Gesù, il rifugio dei peccatori. Ella è Madre! – Il Sacerdote contempla questa Madre in paradiso, l’ama, la benedice; e le si getta in cuore per dirle: « o Maria SS., Madre di Dio, e Madre nostra, da tanta altezza ben conoscerete in questa povera terra i vostri figli! Vedeteci chiamati qui a rinnovare il prodigio, che si operò in voi, Vergine SS., benedetta Madre di Dio. In mezzo a noi deve scendere il vostro Figliuolo divino; ed io Sacerdote devo prestargli in persona quei servigi e ministeri, che voi prestavate a lui Bambino in confidenza di madre; poi tutti noi dobbiamo, come voi, riceverlo in seno ora, che vuole per noi sacrificarsi, come là sulla croce. Santissima Madre, vi avete ben dunque voi il vostro interesse a farci santi, e a darci in prestanza le vostre virtù, per prepararci. » La Regina del paradiso dal trono di Dio, in cui siede coronata di stelle immortali, abbasserà lo sguardo rivolta a noi; e scorgendoci, come siamo, intorno all’altare, rigenerati dal Sangue di Gesù Cristo, penserà quanti le costammo dolori, quando appiè della croce ci ricevette per figliuoli dal Figliuol suo morente. E pare a noi, che dovrà esclamare: « son proprio dessi i miei figliuoli costoro, perché in essi è il Sangue di Voi, o mio Gesù: sì sono essi figliuoli dei miei dolori! » – La Religione cattolica non è una idea astratta, ma è la verità divina, che s’incarna in noi e con noi si umanizza: non distrugge le relazioni che abbiamo tra noi in terra come fratelli della gran famiglia, ma di più santo amor fraterno ci unisce coi fratelli in paradiso. Ah! I  protestanti, quando negano la divozione ai Santi, col voler vantarsi razionalisti cessano di essere umani! Eh! Ci vuol tanto a capire che i Beati in paradiso, così vicini a Dio, hanno da pregare per noi e rispondere alle nostre preghiere con le grazie ottenute! Ecco come la Chiesa prega i Santi. Nell’invocarli ricorda le relazioni particolari ch’ebbero in terra, e mantengono vive in cielo. Questa è la ragione dello sceglierci, che facciamo, i Prottettori particolari dei paesi, delle comunità, delle famiglie, e di ciascuno di noi. Quindi, dopo Maria, invoca il Sacerdote ad uno ad uno i santi Apostoli: Pietro, che della Chiesa è pietra fondamentale; Paolo, il suo gran maestro; gli altri Apostoli, che ne sono colonne. Essi tramandarono a noi questo gran Sacrificio, essi versarono il sangue per innalzare gli altari, su cui offrirlo: essi ce ne fecero precetto (1 Cor. XI, 23) e qui siamo appunto per eseguirlo. Invoca tanti Pontefici e Martiri; i Pontefici, che sostennero colla loro immancabile fede la Chiesa; i Martiri, che la difesero col sangue, lasciando le lor vite appiè della croce, come tanti trofei della Religione divina. Invoca tutti i Santi. E noi così poveri in quella società, preghiamoli, che ci compartano dei loro meriti: e colle preghiere loro all’uopo nostro ci impetrino forza da poter giungere a compiere il numero degli eletti, che faranno corona eterna a Dio in Paradiso. Chiedesi adunque qui, che il sacrificio, già per se stesso accettevole, sia gradito anche per i meriti loro (Bossuet, Expl. de quelq. diffic. sur les priéres de la Messe.). Il Sacerdote invocati i Santi, congiunge le mani, come per attaccarsi alla croce, e dire: « O Santi! da questo divin Redentore viene tutta la vostra giustizia e santità; ai patimenti e meriti suoi uniamo qui i patimenti e meriti vostri; e dallo stesso ancora offerto per noi, speriamo la grazia della vittoria nel tempo, e la corona nell’eternità gloriosa. » Che gaudio pei Beati vedere presentati i meriti loro insieme col Sacrificio divino! Così appiè di Gesù crocifisso si abbracciano coi Beati i fedeli, si bacian dell’animo; e col gaudio di quelli comunican questi le loro speranze, e già all’altare si preparano alle nozze, che celebreranno eterne coll’Agnello immacolato in Paradiso. Il Sacerdote poi stende le mani coi pollici in croce sopra l’offerta, e dice: Hanc igitur oblationem, etc.

Art. II.

Orazione seconda:

Hanc igitur oblationem.

« Quest’oblazione adunque della nostra servitù, e di tutta la famiglia vostra, Vi preghiamo, Signore, di ricevere placato, e di disporre nella vostra pace i nostri giorni, e di scamparci dalla dannazione eterna, e di concedere che veniamo annoverati cogli eletti vostri, (qui giunge le mani) per Cristo Signor nostro: Così sia. »

Esposizione.

Egli è questo forse della Messa il più terribile momento. Ecco il sacerdote, che stende le mani legate coi pollici in croce sopra l’offerta. Per intendere il qual rito, è da ricordare ciò, che si faceva per ordine di Dio nella legge antica in figura. Quando si offriva un sacrificio per i peccati, si conduceva la vittima innanzi al Tabernacolo (Levit, 4, 8.1); ed il sacerdote vi stendeva sopra le mani. Con questo stender le mani, dice Bossuet (De orat. Miss.), S’indicava che il sacerdote s’univa alla vittima per offrirsi con essa a Dio. Il Sacerdote adunque, ad imitazione di tal rito, collo stender le mani sull’offerta, che sta per divenire Corpo e Sangue del Redentore, se stesso col popolo offre, e si mette colle mani legate insieme a Gesù sulla mistica croce, chiedendo per Esso la rimessione dei peccati, la pace per la vita presente e la gloria della futura (Ant. De opt. aud. Miss. orat. pres. — Ben. XIV, lib. 2, cap. 13). Seppure non si vuol accennare ad un rito di più terribile significazione. Giova esporlo qui: fa gran senso! Nel gran tempio del Signore, in Gerusalemme, si menava innanzi all’altare un capro: e sopra quel capro il pontefice degli Ebrei stendeva ambe le mani, e confessando tutte le iniquità dei figliuoli d’Israele, sopra la testa di quello le scaricava tutte, imprecando sopra di esso tutti i castighi e le maledizioni, che si meritavano quei peccatori. Poi si ributtava con ribrezzo dall’altare quel capro, e battendolo si spingeva fuori a morir nel deserto (Lev. XVI, 21). E che poteva mai significare quel capro emissario?… Per poco non ci basta l’animo, e ci trema il cuore nel ricordar la spiegazione, che ne danno alcuni Padri (Teod. h. Hieron. Auct. ep. con Paul. Samos : vedi Dei Sacr. ecc. del Card. Tadini, benché egli creda il capro emissario significhi il genere umano. Noi non concordiamo con lui). Quel capro così maledetto voleva figurare… Gesù Cristo!… Né ardiremmo pronunziarlo, se non avesse detto il profeta Isaia (LIII, 6), che pose in Lui Iddio l’iniquità di tutti noi, e che Egli dovette portare le nostre ingiustizie (LIII, 11): aggiungendo s. Paolo, che Egli diede se stesso a redenzione per tutti (1 ad Tim. II, 6), e s’offrì per togliere i peccati di molti (Hebr. IX, 28) fattosi maledetto Egli stesso (Gal. III, 13), e come tale buttato fuori dalle mura della città a morir per i nostri peccati (Hebr. XIII, 12). Noi qui c’immagineremo di vedere Gesù là nell’ orto di Getsemani per cominciare la sua passione in quella notte, in cui tradide in mortem animam suam et cui sceleratis reputatus est: quando cioè si venne ad offrire alla morte come uomo, che portassei delitti di tutti. Egli si prostrò davanti al Padresuo, e par dicesse: « Con questi meschinelli di uominieccomi uomo anch’io; eglino sono i miei fratellidi sangue…… io sono di loro…… e faccio causacomune con loro… pago io per la mia famiglia…Voi mi avete dato un corpo; ecco che vengo adoffrirvelo per i peccati di tutti….. ricadano sopradi me tutti i peccati… scaricate sopra di mei castighiper lor preparati… Via dall’altare del Diovivente le carni di bestie morte in sacrifizio……..Questi sciagurati in carne e sangue da uomo hannooffeso Voi, Grand’Iddio; ecco Io soddisferò per loroin Carne e Sangue da Dio. » Colla sua mente divinavedendo in ogni tempo di ciascuno ogni peccato,se li raccoglie tutti sul cuore, come se reo nefosse Egli solo: e, misurandone la tremenda enormitàdalla Maestà di Dio offesa, così come se nesentiva gravato Egli stesso, inorridì, fremette; unbrivido gli corse per le vene, e spinse il Sangue alCuore; e il Cuore, stretto in quella pressura ditremendo orrore, respinse il Sangue ancor per levene (Vence Bibl. Sac. Dissert. sul sudor di Sangue di G. C. di Aliot.): e Gesù in quell’angoscia cadeva per terra agonizzante. Fu allora, che in quell’abbandono della vita, cedendo l’eretismo della cute, il Sangue dal Cuore nelle vene respinto, tra i pori di essa s’apri la via, ed esciì di Sangue così profuso sudore, che ne grondava il volto, e la persona, e giù per le vesti scorreva per terra. Deh! Contempliamo Gesù Cristo cogli occhi allargati tutto bagnato di Sangue, boccheggiante in agonia, quasi fissi lo sguardo in volto a noi in quello spasimo e dica: « Intendete che cosa sia il peccato! mi fa sudar Sangue in agonia, e mi spinge a morte. Pregate sempre per non peccar più. » Levossi in piedi e si diede in mano ai Giudei, che lo batterono, e tutto lacero lo spinsero a morir fuori delle mura di Gerusalemme sul Calvario. Noi, picchiandoci il petto col più gran dolore, affrettiamoci di porci tremando coi nostri peccati a piè dell’altare, dove Gesù Cristo se li vuol addossare, affinché Dio si plachi rammentando i colpi, che già per la nostra redenzione e per la punizione e remissione del peccato si scaricarono sul Figlio, o meglio, affinché veda ancora il Figlio suo sacrificato dinanzi; e dal suo sdegno per Esso ci scampi. – Ora conosciuta la mistica significazione del rito, passiamo a considerare il modo eseguito dal Sacerdote protendente le mani in quell’atto, che noi con lui congiunge. Ecco poi perché si congiungono le mani. Siccome le vittime si strascinavano legate ai piedi delle are, dove si dovevano immolare; così il Sacerdote sta col popolo prostrato innanzi all’altare colle mani legate dai due pollici in forma di croce; quale reo dai vincoli stretto si confessa in peccato, e si dà nelle mani di Dio, come vittima sacra alla sua giustizia. In questo atto, di qui d’appié della croce getta uno sguardo nell’abisso d’inferno, che si vede spalancato sotto dei piedi: si slancia ad abbracciarsi alla croce; e mette tal grido di speranza e terrore: « Oh tremendo Iddio! ecco la povera vostra famiglia! Per noi Gesù vi placa coll’offrire se stesso! Vorrete perdere i figli comperati col Sangue del vostro Figlio divino? Deh per Gesù (qui giunge le mani per attaccarsi strettamente a Lui crocifisso) salvateci dalla dannazione meritata dai nostri peccati, e consolateci colla vostra pace; strappateci di bocca all’inferno, e portateci in union con Esso, a farvi, cogli eletti corona in cielo. » Noi passiamo a dare tradotta la terza orazione, prima di commentarla., perché si legga bene: affinché si possano gustare nell’intimo del cuore colla tenerezza della propria pietà, ben più che non possiam noi fare comprendere colle povere nostre parole, i sentimenti al tutto divini ch’essa inspira.

FESTA DELL’ANNUNCIAZIONE (2023)

FESTA DELL’ANNUNCIAZIONE (2023)

MESSA

Doppio di 1° classe – Paramenti bianchi.

Oggi commentiamo il più grande avvenimento della storia: l’Incarnazione di nostro Signore (Vang.) nel seno di una Vergine (Ep.). In questo giorno il Verbo si è fatto carne. Il mistero dell’Incarnazione fa sì che a Maria competa il titolo più bello: quello di « Madre di Dio » (Or.) in greco « Theotocos »; nome, che la Chiesa d’Oriente scriveva sempre in lettere d’oro, come un diadema sulle immagini e sulle statue. « Avendo toccato i confini della Divinità » (Card. Cajetani in 2° – 2æ q. 103, art. 4) col fornire al Verbo di Dio la carne, alla quale si unì ipostaticamente, la Vergine fu sempre onorata di un culto di sopravenerazione e di iperdulia: « Il Figlio del Padre ed il Figlio della Vergine sono un solo ed unico Figlio », dice San Anselmo. Maria è da quel momento la Regina del genere umano e tutti la devono venerare (Intr.). Al 25 marzo corrisponderà, nove mesi più tardi, il 25 dicembre, giorno nel quale si manifesterà al mondo il miracolo che non è conosciuto oggi che dal cielo e dall’umile Vergine. La data del 25 marzo, secondo gli antichi martirologi, sarebbe anche quella della morte del Salvatore.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XLIV: 13, 15 et 16
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducéntur tibi in lætítia et exsultatióne.

[Ti rendono omaggio tutti i ricchi del popolo: dietro di lei, le vergini sono condotte a te, o Re: sono condotte le sue compagne in letizia ed esultanza.]

Ps XLIV: 2
Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea Regi.

[Dal mio cuore erompe una fausta parola: canto le mie opere al Re].

Ps 44:2.
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducéntur tibi in lætítia et exsultatióne.

[Ti rendono omaggio tutti i ricchi del popolo: dietro di lei, le vergini sono condotte a te, o Re: sono condotte le sue compagne in letizia ed esultanza.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, qui de beátæ Maríæ Vírginis útero Verbum tuum, Angelo nuntiánte, carnem suscípere voluísti: præsta supplícibus tuis; ut, qui vere eam Genetrícem Dei crédimus, ejus apud te intercessiónibus adjuvémur.

[O Dio, che hai voluto che, all’annuncio dell’Angelo, il tuo Verbo prendesse carne nel seno della beata Vergine Maria: concedi a noi tuoi sùpplici che, come crediamo lei vera Madre di Dio, così siamo aiutati presso di Te dalla sua intercessione.]

Lectio

Léctio Isaíæ Prophétæ
Is VII: 10-15
In diébus illis: Locútus est Dóminus ad Achaz, dicens: Pete tibi signum a Dómino, Deo tuo, in profúndum inférni, sive in excélsum supra. Et dixit Achaz: Non petam ei non tentábo Dóminum. Et dixit: Audíte ergo, domus David: Numquid parum vobis est, moléstos esse homínibus, quia molésti estis et Deo meo? Propter hoc dabit Dóminus ipse vobis signum. Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium, et vocábitur nomen ejus Emmánuel. Butýrum ei mel cómedet, ut sciat reprobáre malum et elígere bonum.

[In quei giorni: Così parlò il Signore ad Achaz: Domanda per te un segno al Signore Dio tuo, o negli abissi degli inferi, o nelle altezze del cielo. E Achaz rispose: Non lo chiederò e non tenterò il Signore, E disse: Udite dunque, o discendenti di Davide. È forse poco per voi far torto agli uomini, che fate torto anche al mio Dio ? Per questo il Signore vi darà Egli stesso un segno. Ecco che la vergine concepirà e partorirà un figlio, il cui nome sarà Emmanuel. Egli mangerà burro e miele, affinché sappia rigettare il male ed eleggere il bene].

Graduale

Ps 44:3 et 5
Diffúsa est grátia in lábiis tuis: proptérea benedíxit te Deus in ætérnum.
V. Propter veritátem et mansuetúdinem et justítiam: et dedúcet te mirabíliter déxtera tua.


[La grazia è riversata sopra le tue labbra, perciò il Signore ti ha benedetta per sempre,
V. per la tua fedeltà e mitezza e giustizia: e la tua destra compirà prodigi].

Tractus

Ps XLIV: 11 et 12
Audi, fília, et vide, et inclína aurem tuam: quia concupívit Rex speciem tuam.

[Ascolta e guarda, tendi l’orecchio, o figlia: il Re si è invaghito della tua bellezza.]


Ps XLIV: 13 et 10
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: fíliæ regum in honóre tuo.

[Tutti i ricchi del popolo imploreranno il tuo volto, stanno al tuo seguito figlie di re.]
Ps XLIV: 15-16


Adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus afferéntur tibi.
V. Adducéntur in lætítia et exsultatióne: adducéntur in templum Regis.

[Le vergini dietro a Lei sono condotte al Re, le sue compagne sono condotte a Te.
V. Sono condotte con gioia ed esultanza, sono introdotte nel palazzo del Re].

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam
Luc 1:26-38
In illo témpore: Missus est Angelus Gábriel a Deo in civitátem Galilææ, cui nomen Názareth, ad Vírginem desponsátam viro, cui nomen erat Joseph, de domo David, et nomen Vírginis María. Et ingréssus Angelus ad eam, dixit: Ave, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus. Quæ cum audísset, turbáta est in sermóne ejus: et cogitábat, qualis esset ista salutátio. Et ait Angelus ei: Ne tímeas, María, invenísti enim grátiam apud Deum: ecce, concípies in útero et páries fílium, et vocábis nomen ejus Jesum. Hic erit magnus, et Fílius Altíssimi vocábitur, et dabit illi Dóminus Deus sedem David, patris ejus: et regnábit in domo Jacob in ætérnum, et regni ejus non erit finis. Dixit autem María ad Angelum: Quómodo fiet istud, quóniam virum non cognósco? Et respóndens Angelus, dixit ei: Spíritus Sanctus supervéniet in te, et virtus Altíssimi obumbrábit tibi. Ideóque et quod nascétur ex te Sanctum, vocábitur Fílius Dei. Et ecce, Elísabeth, cognáta tua, et ipsa concépit fílium in senectúte sua: et hic mensis sextus est illi, quæ vocátur stérilis: quia non erit impossíbile apud Deum omne verbum. Dixit autem María: Ecce ancílla Dómini, fiat mihi secúndum verbum tuum.

[In quel tempo: L’Angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, ad una Vergine sposata con un uomo della stirpe di Davide che si chiamava Giuseppe, e il nome della Vergine era Maria. Ed entrato da lei, l’Angelo disse: Ave, piena di grazia: il Signore è con te: benedetta tu tra le donne. Udendo ciò ella si turbò e pensava che specie di saluto fosse quello. E l’Angelo soggiunse: Non temere, Maria, perché hai trovato grazia davanti a Dio, ecco che concepirai e partorirai un figlio, cui porrai nome Gesù. Esso sarà grande e chiamato figlio dell’Altissimo; e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide, suo padre, e regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà fine. Disse allora Maria all’Angelo: Come avverrà questo, che non conosco uomo ? E l’Angelo le rispose. Lo Spirito Santo scenderà in te e ti adombrerà la potenza dell’Altissimo. Perciò quel santo che nascerà da te sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco che Elisabetta, tua parente, ha concepito anch’essa un figlio, in vecchiaia: ed è già al sesto mese, lei che era chiamata sterile: poiché niente è impossibile a Dio. E Maria disse: si faccia di me secondo la tua parola.]


OMELIA

[B. BOSSUET: LA MADONNA NELLE SUE FESTE – Vittorio Gatti ed. Brescia, 1934]

ANNUNCIAZIONE DELLA VERGINE

Discorso I.

Iddio fece nel mondo una cosa nuova: una donna da sola concepirà un uomo.

(Geremia, XXXI, 22).

Nella spaventosa catastrofe, in cui la ragione umana fece naufragio, perdendo in un istante tutte le sue ricchezze, ed in modo speciale la conoscenza del perché Dio l’avesse creata, nella povera mente umana rimase un segreto e vago desiderio di cercarne conoscerne qualche traccia. Da qui l’amore incredibile che ogni uomo prova per tutto ciò che è novità. Amore che si manifesta in molti modi ed agita gli animi in forme tanto diverse. Per tanti non farà che preoccuparli di raccogliere in gabinetti o musei mille e mille rarità forestiere: animali e cose; mentre altri sono assillati, perché più inventivi, della brama di nuove forme nell’arte; sistemi sconosciuti nella gestione dei grandi affari, o nello strappar segreti alla natura! Per non andar all’infinito, vi dirò che nel mondo non v’è attrattiva più lusinghiera ed universale, curiosità meno limitata che quella della novità. Dio che vuol guarire questa febbre, che sì stranamente divora l’umanità, presenta alla brama degli nomini, nella Sacra Scrittura, novità sante la cui curiosità diventa feconda di bene: il mistero d’oggi ce ne dà una prova luminosa. Il profeta Geremia la presenta con parole che indicano la sua attonita meraviglia, e per eccitare la nostra attenzione a qualcosa di prodigioso, più che mai ci obbliga a chiedere alla Madre l’aiuto del suo Figliuolo, con l’Ave Maria, che in nessun giorno più che in questo è la preghiera adatta a salutare la Vergine. Ave Maria. Nella brama frenetica di grandezza e gloria che agita gente di ogni età e di ogni condizione, dobbiamo confessare, o Cristiani, che la moderazione rappresenterebbe tale novità da farne meravigliare il mondo e farla collocare tra le rarità, che se ne vedon casi così rari che quasi si dimenticano!… Spettacolo d’una rarità meravigliosa il vedere l’uomo contener se stesso nella sua piccolezza… e non sarebbe strabiliante addirittura se vedessimo un Dio spogliarsi della sua grandezza infinita scendere dall’alto del suo trono per nascondersi volontariamente… più ancora per annientarsi? È il mistero del — Verbum caro factum est — il verbo si è fatto carne, che la Chiesa presenta oggi, sublime novità che fa esclamare al profeta: « Dominus creavit novum super terram ». Iddio creò sulla terra cose nuove, quando mandò il suo Figlio umiliato annientato nel mondo. In questo abbassamento di Dio che si fa Uomo Dio, io contemplo due fatti straordinari: Dio, Dominus dominantium, il Signore dei Signori al di sopra del quale nessuno s’innalza… e la cui grandezza infinita si stende immensa senza che grandezza alcuna l’arresti, la limiti e nemmeno l’uguagli! Ecco la novità strabiliante: Colui che non ha né sopra di sé né attorno a sé chi l’eguagli, dà a se stesso chi lo domini, e si fa simile all’uomo ch’Egli stesso ha creato. – Il Verbo uguale al Padre nella eternità si fa suo suddito nel tempo: Egli elevato infinitamente al di sopra degli uomini e degli Angeli stessi si fa uguale all’uomo. Quale strepitosa novità! Ha ragione il profeta di gridare al prodigio! Oh Padre celeste, o uomini della terra, oggi vi si fa onore così grande che io non so parlarne senza esserne sbigottito: il Padre non ebbe mai tal suddito, gli uomini mai simile fratello. Su dunque, e tutti, o fratelli, venite e contemplate il fatto inaudito di questo giorno: ma non dimentichiamo, mentre contempliamo il sublime mistero, l’altra parola che soggiunge il profeta: — Fœmina circumdabit virum — una donna concepirà un uomo — imparando da queste mistiche e misteriose parole una grande e consolante verità: Maria fu chiamata a compagna di Dio in quest’opera meravigliosa! Contempliamola per ben capirla in questa festa in cui ha tanta parte. Il Verbo che si fa suddito, la sceglie perché sia il primo tempio nel quale renderà al suo Padre celeste il primo suo omaggio, e lo stesso Verbo, Dio uguale al Padre, che si fa simile agli uomini la sceglie e destina ad essere il canale per cui si comunicherà ad essi! – Per esser più chiaro: consideriamo attentamente come e quanto il Signore onora questa Vergine quando in Lei si annienta: e questo sarà il primo punto; quando per Lei si comunica a noi e sarà la seconda parte. Eccovi quanto vi dirò pregandovi della vostra attenzione.

I. punto.

È mistero ed è verità indiscutibile questa o fratelli: Dio quantunque nella sua onnipotenza abbia tutti i mezzi per stabilire la sua gloria, è incapace, diciamo così, di aumentarla, se non nell’unirla all’umiltà; cosicché troviamo la sua gloria misteriosamente, ma necessariamente unita coll’umiliazione: verità misteriosa che riceve però grande luce dal mistero che oggi onoriamo. Autore della natura e delle sue leggi, Egli la può sconvolgere a suo piacimento, e spezzando le sue leggi con mille miracoli può manifestare agli uomini la sua potenza: ma non potrà mai spinger più alto la sua grandezza di quando s’abbassa, si umilia, si annienta. – Ecco una novità strepitosa: non so se tutti comprenderanno il mio pensiero, ma le prove che io porto sono molto evidenti e chiare nello stesso mistero che abbiamo davanti. S. Tommaso nella terza parte della sua Somma, provò luminosamente che Dio non può far opera più grande di quando personalmente si unisce alla creatura umana nella Incarnazione. Senza addurre tutte le prove che, più adatte alla scuola, qui assorbirebbero troppo tempo, ognuno però comprende come Dio potenza, anzi potenza infinita, non poteva far opera più sublime del gesto con cui diede al mondo il Verbo incarnato, l’Uomo-Dio! ll profeta Àbacuc la dice: opera di Dio — opus tuum Domine! — e dice: tu o Signore nulla puoi fare di più meraviglioso. È la più grande quest’opera, ne consegue che da essa sgorga la gloria più grande del Signore: poiché il Signore solo gloria se stesso nelle sue opere: « Gloriabitur Deus, canta il Salmista, in operibus suis ». Questo strepitoso miracolo Dio non lo poteva fare che facendo quanto S. Paolo dice con frase scultoria: Exinanivit semétipsum… si annichilì prendendo la figura di schiavo. Nell’umiliazione soltanto, dunque, Dio poteva fare la sua opera più grande… il suo capolavoro. – Il profeta grida, e noi diciamolo con lui: Deus creavit novum!… ma quale novità? Volle portare all’apice la sua grandezza per questo exinanivit  semetipsum! rivelandoci così lo sfolgorìo più abbagliante della sua gloria e maestà! Vestito delle nostre debolezze abitò tra noi, per questo vedemmo la sua gloria di Unigenito del Padre. Mai si conobbe gloria più fulgida perché mai neppure si immaginò umiliazione più profonda. – Non vorrei, fratelli miei, pensaste che io voglia colle mie parole dar pascolo alla vostra mente in una semplice contemplazione, quasi curiosa: per carità scacciate tale idea! Con le mie parole ad altro non miro che a farvi amare l’umiltà, virtù base della vita cristiana, mostrandovi quanto l’ami Iddio stesso: tanto che non potendola Egli, sommo amore e perfezione, trovare in se stesso, la viene a cercare in una natura creata. Sovrana grandezza non può aver in sé l’umiltà: non potendo rinnegare la sua natura deve sempre operare da Dio… sempre infinitamente grande quindi! Ma ecco che la sua natura infinitamente feconda non gli impedisce di ricorrere al prestito: viene a prestito dalla natura umana per arricchirsi delle grandezze dell’umiltà! Queste cerca il Figlio di Dio, per questo si fa uomo, perché in Lui il suo Padre celeste contempli un Dio sottomesso ed obbediente. E che questo sia il suo programma, ce lo dice, fratelli, il sommo suo atto: quello che compie venendo nel mondo colla Incarnazione. – Vorreste, oggi, conoscere quale sia stato questo primo atto, del Verbo, quale il suo primo pensiero il primo movimento della sua volontà? Io rispondo sicuro di non sbagliare: fu un atto di obbedienza. Da chi, dove trovai svelato il segreto il grande mistero?… Oh ve lo dico subito: me lo svela S. Paolo nella sua lettera agli Ebrei al capo X, dove così parla del figlio di Dio che, entrando nel mondo, in quello che disse, svelavaci il suo pensiero. – Disse dunque al suo Padre celeste: « Non volesti, Padre, ostie ed oblazioni, nè ti piacquero (soddisfacevano) gli olocausti per il peccato; quindi a me formasti un corpo; ed allora dissi: andrò io stesso… perché?… per fare o Padre la tua volontà ». – E non ci dicono chiaramente queste parole, che il primo atto del Verbo che scende dal Cielo è un atto di umile obbedienza: « ut faciam, Deus, voluntatem tuam », per obbedirti, o Padre?… Ma noi possiamo andar più avanti nel vedere come Dio ami l’umiltà: Oh sublime atto, atto veramente divino d’obbedienza con cui il Cristo inizia la sua vita!… Sacrificio nuovo di un Dio sottomesso, in quale tempio, su quale altare sarai offerto all’Eterno Padre? Dove vedremo questo strepitoso miracolo d’un Dio umiliato ed obbediente? Saranno, fratelli, le viscere immacolate di Maria, il tempio augusto, sarà il suo seno verginale il fortunato altare su cui il Figlio di Dio, fatto carne, consacrerà al Padre i primi voti di obbedienza. – Ma perché il Verbo incarnato sceglie la Vergine a tempio ed altare del suo sacrificio di umiliazione? È l’umiltà che ve lo induce, perché quel Tempio misterioso è costruito sull’umiltà e dalla umiltà venne consacrato! Ecco che ce lo mostra la Scrittura. Raccogliete nella lettura di questa pagina la vostra attenzione per veder come fu proprio l’umiltà di Maria che diede l’ultimo tocco, atteso dalla divinità, perché il Verbo iniziasse la sua dimora nel mondo. Nel colloquio misterioso, tra la Vergine e l’Arcangelo, che il brano evangelico di questo giorno ci ritrae, osservo che due sole volte Maria parla all’Angelo, ma con quali meravigliose parole, o fratelli! Volle il Signore che in queste frasi, vedessimo brillare due virtù, due virtù capaci di innamorare della loro bellezza lo stesso cuore di Dio: una purezza senz’ombra… una umiltà profondissima. L’Arcangelo dice alla Vergine che concepirà il Figlio dell’Altissimo, il quale sarà Re e Liberatore di Israele! Siamo sinceri: sapremmo immaginare una fanciulla che a tale annunzio si turbi? Un annunzio beato che doveva riempire di speranza di gloria!… una promessa, la più nobile… garantita dalla parola d’un Angelo che parla in nome di Dio: che si poteva non domandare ma neppure immaginare di più grande ed attraente? Eppure, vedetela. Maria si turba… trema esita, e quasi risponde che la cosa non è possibile: « Come avverrà quanto dici? Poiché io non conosco uomo ». È l’amore alla sua purezza verginale che fa tremare Maria, la turba, la rende incerta e quasi le fa rifiutare l’invito divino! Par quasi leggere nella sua mente la discussione: è vero sarà grande gloria il diventare Madre al Figlio di Dio, ma … e della mia verginità che avverrebbe… io non la voglio perdere!… Oh ammirabile purezza, sottoposta alla prova di promesse non d’uomini, ma di promesse e grandi promesse di Dio!… O Verbo del Padre, casto amante delle anime pure, a che tardate? se non v’attira nel mondo questo candore di purezza chi mai potrà attrarvi!? Bisogna attendere ancora: il gran tempio che sarà la sua dimora non ha ancor ricevuto l’ultimo tocco! Infatti l’Angelo risponde a Maria: « Verrà su di te lo Spirito del Signore »: non è dunque ancor sceso. – La prima parola di Maria all’Angelo fu detta dalla sua purità per la sua verginità! Udiamo la seconda: l’Angelo ha parlato ancora e Maria risponde: « Ecce ancilla Domini ». « Sono serva del Signore, si faccia di me secondo quanto mi dici ». La vedete da soli nevvero, senza che ve lo faccia notare io, che è l’umiltà che parla qui, e svela il linguaggio dell’obbedienza? Maria nemmeno si lascia trasportare dalla gioia che pur era tanto santa!… nella sua grandezza trova una sola parola… quella dell’umiltà! – Si spalancano i cieli, torrenti di grazia scendono su Maria, l’onda piena dello Spirito Santificatore l’investe, la penetra tutta…: « Verbum caro factum est — il Verbo si è fatto carne del suo sangue purissimo » l’Altissimo la copre della sua potenza e il Figlio ch’Egli nell’eternità continuamente genera nel suo seno, il solo capace di contenerlo perché immenso… è ora racchiuso nel seno della Vergine Santa. – Come poté avvenire tanto prodigio? Chi poté dilatar le viscere caste della Vergine da farvi trovar dimora all’Immenso? L’umiltà fratelli, fu l’umiltà; essa sola è capace di racchiuder l’immenso! Fu questa virtù, o Maria, che vi fece possedere per prima Colui che si dava al mondo intero, a tutti gli uomini. – Ecco, esclama S. Eusebio, ecco che il Promesso del Signore nei secoli passati, tu prima meriti averlo in te, appena venuto in terra. Eccola, per nove mesi, Tempio del Dio incarnato. È il seno di questa Vergine, che l’umiltà fa dolce e cara dimora al Dio fatto Uomo. Per nove mesi la Vergine possederà e sola il Re e Signore dei secoli, il tesoro immenso speranza dell’umanità tutta. Oh mistero! oh privilegio! — Spes terrarum, Deum sæculorum, comune omnium gaudium peculiari munere sola possides. Tanto è vero che l’umiltà è la sorgente di tutte le grazie ed essa sola è capace di far abitare Dio Gesù tra noi. (S. Eusebio – La Vergine). E allora, o cari, voi con me non potrete meravigliare se Dio ci appare così lontano dagli uomini e se tanto restringe su di essi la sua mano piena di misericordia… l’umiltà è proprio bandita dal mondo! Un uomo veramente umile, lo dissi altre volte e lo ripeto perché fa bene il ripeterlo, un uomo umile modesto è oggi una rarità quasi sconosciuta. Se davvero fossimo noi tutti veramente umili ameremmo tanto follemente gli onori del mondo di cui Gesù non si curò neppure, anzi li disprezzò mentre sono il sogno delle nostre brame!? Non avremmo maggior pazienza in sopportare e non curare le ingiurie dei nostri fratelli? Invece siamo tanto permalosi! Se noi avessimo almeno un poco d’umiltà vera oh non tenteremmo né vorremmo abbassar gli altri per fabbricar sulle loro rovine il trono al nostro Io! Temeremmo fratelli, temeremmo e molto di noi e, né quel luogo, né quella compagnia né quell’incontro in cui la dura nostra esperienza, ci ricorda le nostre cadute, ci potrebbero, non solo portare ma neppure attrarre; invece spavaldi ci buttiamo nell’occasione e nel pericolo come fossimo invulnerabili… impeccabili!… Oh folle cecità… superbia sciagurata!… neppur la visione di un Dio umiliato ti potrà dunque guarire? Oh superbo nulla umano, chi ti abbasserà se non lo può un Dio annientato? Non ha alcuno sopra di sé e si crea un superiore facendosi uomo! – Tu, tu stretto da ogni parte, di sopra e ai piedi serrato dalle catene della schiavitù, tu non sai esser un poco sottomesso! Mi vorrete dire: ma io sono sottomesso, io cedo facilmente, mi adatto di buon animo, e, se occorre, so anche umiliarmi!… No no, fratelli, non è umiltà, è apparenza questa modestia che voi mi esaltate!… Ah io lo vedo bene chiaro… ci sottomettiamo, ma quanto spesso non è l’orgoglio, ed un orgoglio prepotente che ci abbassa!… Ci abbassiamo è vero… ma sotto quelli che sono detti potenti (poveri ciechi) ma perché da loro attendiamo aiuto per dominare gli altri! – Ah bisogna che l’orgoglio abbia sempre profonde radici in queste anime, se non giungono ad umiliarsi che per brama arrogante di potersi subito innalzare!… Superbia nascosta che si svelerà però subito… appena che una piccola onda di favore accarezza questi cuori… e si svelerà in tutta la paurosa sua prepotenza! O cuore umano, più leggero della paglia, che una piccola prosperità inattesa basta a stordire tanto che non riesci neppur più a riconoscerti! Tu non ricordi dunque che vieni dal fango: il fango ti circonda ed un cumulo d’umilianti debolezze vere, torna ed impara dalla Vergine a non lasciarti ubbriacare dal luccichio e dal gaudio d’un piccolo trionfo o d’un inatteso onore. Nella grande, sublime offerta dell’onore di Madre di Dio, Maria non trova via più comoda che d’abbassarsi… Dio innamorato da una profonda umiltà, si umilia Egli stesso e si fa carne nel suo seno. Ma non brilla ancora tutta la sua grandezza! Dio che volle annichilirsi e lo volle in Maria… vuole anche darsi agli uomini… e questo dono di sé all’umanità, lo farà per mezzo di Maria. Ve lo mostrerò nella seconda parte del mio discorso e sarò molto breve.

II° punto.

Signori miei, eccovi una novità non meno sorprendente della prima! Siete rimasti sorpresi nel vedere un Re fatto suddito, ma credo rimarrete attoniti quando lo vedrete, anche Sovrano, unico, incomparabile, far alleanza e abitare tra gli uomini. « Il Verbo si è fatto carne ed abitò fra di noi ». A ben comprendere il nuovo mistero, tentiamo formare nella nostra mente un’idea quanto più esatta di un Dio Uno d’una perfetta unità! Unità perfetta che necessariamente lo fa infinito incomunicabile… unico in ogni sua opera. Egli solo: il Sapiente, il Felice? Egli solo il Re dei re, Signore dei dominatori, unico nella sua maestà da un trono inaccessibile domina colla sua infinita potenza. Noi non abbiamo neppur parole capaci non di parlarne ma neppure di esprimerla degnamente, questa misteriosa unità. Ecco però che Tertulliano ha parole, che mi pare, ci diano una idea, grande quanto può capirla la mente umana: Tertulliano chiama Dio — il grande Sovrano: — Summum magnum — il Sommo grande, più esattamente, Sovrano sommo, dice, in quanto sovra sta a tutti ed a tutto — Summum Victoria sua constat — Non potendo quindi sopportare alcuna eguaglianza, quanto potrebbe tentarlo rimane tanto sotto di lui, e tanto basso che attorno a lui rimane una solitudine in cui sola è la sua Eccellenza. Sono parole dure, quasi strane: ma questo genio avvezzo alle espressioni scultorie, pare vada cercando parole nuove per parlare di una grandezza senza esempio. Nulla di più maestosamente augusto di questa solitudine. – Per me, quando ci penso, mi immagino questa maestà infinita concentrata in se stessa nascosta nei suoi stessi splendori, separata da tutte le cose, perché al di là di tutte si estende: in nulla simile alla grandezza umana in cui c’è sempre debolezza, e che se da un lato s’innalza, dall’altro si sprofonda; maestà che dovunque la si contempli dovunque la si trova egualmente forte, egualmente inaccessibile! Chi allora non spalancherà strabiliati gli occhi vedendo questo Unico incomparabile lasciar la sua maestosa solitudine per aver dei compagni?… e, sta qui la strabiliante novità, quali compagni? Gli uomini, gli uomini peccatori! Non angelos apprehendit… non agli Angeli volse il suo sguardo, che pur erano più vicini alla sua solitudine. Venne, dice la Scrittura, a passi di gigante valicando i monti cioè passando sopra i cori celesti degli spiriti, e cercò la povera natura umana, che per la sua mortalità era relegata molto in basso, anzi all’ultimo grado degli esseri intelligenti dell’universo e che alla ineguaglianza di natura aveva aggiunto, insormontabile ostacolo, la colpa! La cercò e l’unì a sé anima e corpo, prendendo carne umana, una carne simile alla nostra povera carne condannata a morte. Oh misericordia infinita, o bontà di un Dio che si fa uomo per farci stringere alleanza con Lui, e trattò noi da eguali, perché da eguali trattassimo con Lui! esclama Tertulliano contro l’eretico Marcione : Ex æquo agebat Deus cum hominibus, ut homo agere ex æquo cum Deo posset ».Chi mai intese tale prodigio?… qual popolo o nazione della terra ebbe dei che tanto fossero vicini come a noi s’avvicina il nostro Iddio?Questo gesto di infinita misericordia, dovrebbe più a lungo essere oggetto della nostra meditazione: ma il mistero di questo giorno mi fa volgere la mente alla Vergine beata. Un Dio si è dato a noi: felicità grande per la povera natura nostra! Ma qual gloria per la Vergine santa perché per mezzo suo Egli si dona all’umanità! Per Maria Egli entra nel mondo e per Maria stringe con noi questa fortunata alleanza: non gli basta l’averla scelta al grande ministero, ma le manda, apportatore della sua parola, un Angelo tra i più belli, quasi per chiedere il suo consenso.Quale mistero è mai questo o Cristiani? Tentiamo penetrarne il segreto leggendo nel piano dei disegni di Dio, come Dio a noi lo svela. Dalla Scrittura e dall’intero consenso della cristianità di tutti i tempi, io imparo che nel mistero adorabile della redenzione della nostra natura caduta, Dio aveva fissato che alla nostra salvezza dovesse servire tutto ciò che aveva servito alla nostra rovina. Non cercatemene le ragioni, che dovrei dilungarmi troppo spiegandovele; accontentiamoci di ascoltarle tutte in una sola parola: In una misericordiosa emulazione Dio venne a lotta e volle distruggere il nostro nemico, volgendo verso di lui i suoi piani di guerra, sconfiggendolo, a così dire, con le stesse sue armi. Ecco che la fede ci insegna che un uomo ci perde ed un uomo ci salva! La morte regna nella discendenza d’Adamo, ma da questa stessa discendenza sgorga la vita, e la morte, castigo della colpa, ne sarà la riparazione: un albero ci uccide ed un albero ci risuscita. L’Eucaristia sarà cibo di vita, come un cibo avvelenato lo fu di morte. Davanti a questo piano meraviglioso della Provvidenza divina per la nostra salvezza conchiuderemo che i due sessi della creatura umana come operarono la morte devono anche concorrere alla sua salvezza. – Nel suo libro « Della Carne di Cristo » Tertulliano già insegnava ciò fin dai primi secoli della Chiesa, e parlando della Vergine diceva che lo stesso sesso che aveva portato la rovina, era giusto che portasse agli uomini la salute: « ut quod per eius modi sexum abierat in perditionem per eundem sexum redigeretur ad salutem ». Prima di lui lo disse S. Ireneo martire, e dopo lo ripete S. Agostino, e tutti i Padri insegnarono nei secoli che vennero, questa dottrina dalla quale io tiro questa conseguenza: Dio doveva predestinare un’Eva novella come un Adamo nuovo per dare alla terra, al posto dell’antica stirpe condannata, una nuova discendenza santificata dalla grazia. – Se meditiamo i segreti consigli della divina Provvidenza nel mistero della redenzione umana vediamo nella festa d’oggi un esatto parallelo: Eva e Maria, parallelo che ci persuade della forza di questa dottrina dei Padri tanto santa quanto antica. L’opera di morte è cominciata per Eva, quella della risurrezione per Maria: Eva disse la parola di morte, Maria il fiat che ci ridà la vita: Eva vergine ha il suo sposo, e lo ha pure Maria la Vergine delle Vergini: per Eva vi fu la maledizione. Maria fu benedetta: « Benedicta tu inter mulieres ». L’angelo delle tenebre parla ad Eva, ed un Angelo della luce parla a Maria: quello inganna Eva mostrandole la via di una falsa grandezza – « sarete come dei — eritis sicut Dii » le diceva; mentre Gabriele conferma a Maria la sua sublime grandezza e le dice: « Dominus tecum — Dio è con te » L’angelo tentatore eccita Eva alla ribellione « ma perché Dio ti proibì il mangiare un frutto così bello? » . L’Angelo della luce quasi induce Maria all’obbedienza: « Non temere, Maria, a Dio nulla è impossibile! » – Eva crede al serpente, Maria all’Angelo, cosicché, dice Tertulliano, una pia fede cancella il delitto, una temeraria credulità: Maria, credendo, ripara il delitto che Eva aveva compiuto credendo: « quod illa credendo deliquit, hæc credendo delevit ». – Infine per completare il quadro: Eva sedotta dal demonio fugge dalla faccia del Signore, Maria istruita dall’Angelo è fatta degna di portare il Cristo: Eva all’uomo presentò il frutto di morte, Maria offre il frutto delle sue viscere, frutto di vita… Perché, dice qui il Martire Ireneo, Maria Vergine fosse l’avvocata di Eva vergine peccatrice. Questo parallelo, o fratelli, non è frutto di mente umana, e non ci è lecito dubitare che Maria non sia l’Eva fortunata del nuovo patto, la Madre del popolo nuovo avendo essa lavorato alla nostra salute come alla nostra rovina lavorò la prima madre Eva. Essendo Madre del Salvatore, come Eva era stata la madre di tutti i condannati: Maria divenne la madre dei viventi, perché Madre del primogenito dei viventi; Eva lo fu di tutti i morituri! Iddio stesso vuol persuaderci questa verità nell’ordine meraviglioso dei suoi consigli, e nell’economia meravigliosa dei suoi disegni, nell’evidente convenienza di quanto abbiamo esposto, e nel collegamento necessario che esiste nei misteri della riparazione umana. – I poveri nostri fratelli, che si sono staccati dalla madre comune la Chiesa, non possono sopportare la nostra devozione alla Vergine: non vorrebbero che la credessimo, dopo il Cristo, la cooperatrice principale della nostra salute. Ma tentino, se ci riescono, di distruggere gli innegabili rapporti che collegano tra loro i misteri divini: ci dicano per qual ragione Dio manda un Angelo alla Vergine! Non poteva Iddio compiere la sua opera anche senza il suo consenso?… Non appare più chiaro del giorno che il Padre Eterno, abbia voluto espressamente ch’Ella cooperasse alla Incarnazione del suo Verbo, con la sua obbedienza e carità? E allora: se questo affetto materno tanto fece per la nostra felicità nella Incarnazione, sarà diventato sterile ed inerte dopo, e non vorrà più nulla fare a nostro bene? Ah fratelli, io penso che non lo si possa non solo non affermare ma neppure immaginare! Ora se noi aspettiamo l’aiuto suo, che venga in nostra difesa e soccorso, quale delitto commettiamo domandandolo?… Ah è questa dunque la causa per cui, voi fratelli, tanto cari, spezzaste l’unità della fede, rifiutaste quella comunione nella quale e per la quale i padri nostri morirono beati nel bacio del Signor Nostro Gesù Cristo? Ma forse nessuno di loro c’è ad ascoltarmi… – Ed io non posso più dominarmi… i palpiti del mio cuore sono violenti… il mio cuore diventa padrone della mia lingua e vuol gridare con l’intera Chiesa Cattolica apostolica romana: O santa Vergine, o cara Maria, o Madre, noi miseri figli d’Eva, poveri reietti gridiamo gementi a te: « Ad te clamamus exules filii Evæ gementes ». Ma a chi potremmo ricorrere, noi figli schiavi di Eva l’esiliata se non alla Madre dei liberi? E se è questa la dottrina dei Padri tutti, se tale è la fede dei Martiri… che voi siete l’avvocata di Eva… rifiutereste la difesa, la tutela dei suoi figli che nascon nei secoli?… Ah, se qualche altra Eva, ci presenta il frutto avvelenato che ci ammazza… accorrete o Maria… dateci colle vostre mani benedette il frutto del vostro seno… che ci doni la vita eterna! « Et Jesum benedictum fructum ventris tui nobis ostende! » Oh meraviglia, oh prodigio dei segreti divini… oh mirabile armonia della nostra fede… il mistero si spezza: Cristo a noi è dato dalle mani e nelle mani di Maria… lo dà a noi perché noi siamo a Lui fratelli, a lei figli… Oh che la nostra vita sia la vita dei fratelli di Gesù, dei figli della Vergine sua Madre: perché il Cristo venne: « Ut homo divine agere doceretur » perché l’uomo imparasse a vivere ed operare l’opere di Dio.

IL CREDO

Offertorium

Luc 1:28 et 42
Ave, Maria, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

[Ave, María, piena di grazia: il Signore è con te: benedícta tu tra le donne, e benedetto il frutto del tuo ventre].

Secreta

In méntibus nostris, quǽsumus, Dómine, veræ fídei sacraménta confírma: ut, qui concéptum de Vírgine Deum verum et hóminem confitémur; per ejus salutíferæ resurrectiónis poténtiam, ad ætérnam mereámur perveníre lætítiam.

[Conferma nelle nostre menti, o Signore, Te ne preghiamo, i misteri della vera fede: affinché noi, che professiamo vero Dio e uomo quegli che fu concepito dalla Vergine, mediante la sua salvifica resurrezione, possiamo pervenire all’eterna felicità.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Beata Maria Virgine
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admitti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festività della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Is 7:14
Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium: et vocábitur nomen ejus Emmánuel.

[Ecco, una vergine concepirà e partorirà un figlio: al quale si darà il nome di Emmanuel]

Postcommunio

Orémus.
Grátiam tuam, quǽsumus, Dómine, méntibus nostris infúnde: ut, qui. Angelo nuntiánte, Christi Fílii tui incarnatiónem cognóvimus; per passiónem ejus et crucem, ad resurrectiónis glóriam perducámur.

[La tua grazia, Te ne preghiamo, o Signore, infondi nelle nostre anime: affinché, conoscendo per l’annuncio dell’Angelo, l’incarnazione del Cristo Tuo Figlio, per mezzo della sua passione e Croce giungiamo alla gloria della resurrezione.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA



QUARESIMALE (XXVII)

QUARESIMALE (XXVII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)


PREDICA VENTESIMASETTIMA
Nella feria sesta della Domenica quarta.


Le tribolazioni sono segni dell’Amore Divino; ci riducono a
Lui e ci danno l’eterna salute.


Domine ecce quem amas infirmatur. San Gio: cap. 11.

Chi professa d’esser seguace del Vangelo, non solo riverentemente deve baciare la mano liberale di Dio, quando piena di benedizioni tutte le sparge a nostro pro; ma ancora, quando armata di flagelli, si fà vedere fulminatrice a’ nostri danni. E chi v’è tra voi uditori che non sappia tutto operarsi da Dio a nostro benefizio, e che le tribolazioni che Egli ci manda, sono finissime dimostrazioni del suo amore.  Stolto, dunque, dicasi colui che detesta i colpi della mano divina, che con mostrarli in apparenza crudele, è in fatti ministra d’ogni nostro bene. Facciano coloro che senza considerare l’utilità grandi, che alla giornata ci apportano le tribolazioni, usano talvolta, anche con bocca sacrilega, lamentarsi di Dio invece di rendergli umilissime grazie, certi che quella destra che li percuote, sol li tormenta per renderli più degni del Paradiso. Ben l’intese questa verità nelle Spagne Teresa Vergine sposa di Cristo, mentre di continuo esclamava … aut mori, aut pati. Signore, diceva ella, o moltiplicate le pene, o troncate la vita, così parlava Santa Teresa. Con questo suo parlare pretendo far capire a’ miei uditori questa verità. Le tribolazioni esser segni dell’Amore divino, queste ridurci a Lui, e darci l’eterna salute. – Prima di dar principio, stabiliamo punti di Fede: sia il primo non v’esser caso, non v’esser fortuna in questo mondo, e questo caso, e questa fortuna, che va per bocca degl’uomini non avere altro essere, che nell’opinione de’ stolti. Iddio solo esser quello che manda, opera, e permette il tutto. Secondo: che Dio nel travagliarci ha comunemente la mira a purgarci da’ vizi, e promuoverci alla virtù, a guisa di un orefice, che nel porre l’oro nel fuoco nulla più pretende, che purgarlo dalla terra, e farlo crescere di splendore, e di stima. Poste queste verità infallibili, dico assolutamente non essere paradosso, no, che le tribolazioni siano segni dell’Amore Divino. Date d’orecchio a David, che parla e con voi discorre, o tribulati, egli si protesta, che sino dalla gioventù imparò sì bella lezione; le tribolazioni esser segni dell’Amore di Dio, mentre lo cavarono dalle miserie del peccato: Deus docuisti me a juventute mea, quantas ostendisti mihi tribulationes multas malas; quasi dir volesse, ecco che appena nato mi convenne strozzar orsi, e sbranar leoni, fatto giovine mi portai a cimento con i giganti; passato che io fui dalla capanna al soglio reale, ebbi trentasette anni di guerra con i Filistei, tollerai le congiure d’un figlio e le maldicenze e le percosse d’un Semei; quantas tribulationes multas, malas; ma il termine di questi travagli mostrò l’Amor di Dio verso di lui mentre egli stesso stesso esclama: Et conversus vivicaste me, o de abyssis terræ, iterum reduxisti me. Sì, sì, le tribolazioni furono a David veri pegni dell’Amor divino. Le tribolazioni lo saranno a voi. Taci, dunque, o tribulato, prendi dalla mano amorosa di Dio le afflizioni, se ti manca roba, se perdi la sanità, quantunque fossi oppresso da turbini di disgrazie,  la tua bocca non esali sospiri di risentimento; ma impara tutto operarsi da Dio per l’amor che ci porta. Confermi le parole di David il Santo Giob, e voi frattanto uditori riflettete che sull’altezza del trono, siedono talora col monarca i precipizi reali. Nacque egli tra le grandezze, fu allevato tra le adorazioni, ebbe tributo da tutte le felicità, ed ora eccolo non più principe nel soglio, ma, mendico nel mondezzaro, si vede ridotto ad estreme miserie; i palazzi son diroccati da’ fulmini, i figli sepolti tra le rovine, i sudditi fono diventati nemici ed egli da capo a piedi si rimira coperto da piaghe verminose, e pure se darete orecchio alle sue voci proferite tra tante calamità, le sentirete espresse su queste parole: Hæc mihi consolatio, ut affligens me, dolori non parcas. Vermi, diceva egli, figli delle mie postemme, rodete pure le mie carni, succhiate il mio sangue tanto io bramo da voi, hæc mihi consolatio: tanto diceva un innocente, un santo, benché si vedesse così piagato, così travagliato perché tutto riconosceva per finezza dell’Amor divino. E voi peccatori macchiati d’ogni vizio non volete riconoscere le tribolazioni per segno dell’amor di Dio! Ben l’intese Maurizio, il quale tolto dal trono, e portato, sul palco, mostrò di ricevere le tribolazioni per pegni dell’Amor divino, rifletté egli, esser asceso da bassa condizione all’altezza del soglio imperiale, e dubitando, per i suoi peccati, che una felicità temporale, gli poteva togliere l’eterna, presa la penna in mano, scrisse un’umilissima fupplica a quanti vivevano religiosi nella Grecia, nella Palestina, nell’Egitto, pregandoli che da Dio gli ottenessero, qualche certo contrassegno di salute. Piacque alla Maestà Divina la preghiera, e per mezzo de’ suoi servi gli fece rispondere: Te, totamque familiam tuam Deus collocat inter electos. Che egli, con tutti di sua casa si sarebbero falvati. Or sentitene di grazia segni di salute, e poi dubitate, se potete, non amarvi Iddio quando vi tribola. Ecco, che per accertar Maurizio d’eterna felicità, si turba a’ suoi danni il Cielo, ode da chiunque ha dono di profezia, minacce orribili; vede uno de’ monaci più modesti portarsi con ferro nudo alla mano in ogni contrada della città, annunziando stragi all’Imperial casa, si sente Maurizio ne’ sogni stessi citato per reo, indi a non molto si vede dal popolo tumultuante tolta di testa l’imperial corona, di dosso l’ammanto reale, e di mano lo scettro regio, ed innalzarsi su’ propri occhi, Foca all’imperio; per ordine di cui, carico Maurizio di catene vien condotto al palco, per assistere, testimonio infelice, alla barbara uccisione di cinque suoi cari figli; assiste ma senza turbarsi; giacché nell’odio di Foca riconosceva mascherato il Divino Amore, e con cuore magnanimo, finché la spada non gli tolse la testa, altro non diceva, che quel di David Justus es Domine, et rectum judicium tuum. Non vorrei già, che tra miei uditori si trovasse chi pietoso compatisse la calamità di questo principe, quasi che troppo travagliato da Dio; poiché mostrerebbe di non conoscere i certi pegni dell’Amor divino. Poveri noi, se rei di gravi peccati, saremo privi di tribolazioni. Noi felici, se a guisa di Maurizio interpreteremo per il meglio le sventure di questo mondo. Intellige, dirò io con Sant’Agostino a chi m’ascolta, medicum esse Deum et tribulationem medicamentum esse ad salutem, non pœnam ad damnationem. Intendetelao Cristiani! Cristo è medico amoroso, e l’amare medicine che ci porge per mezzo delle tribolazioni, son segni certi del suo amore. Contentatevi a questo proposito d’udire un bel fatto accaduto a Crisippo gran filosofo. Vide egli un giorno Ciro re di Persia, il quale de’ due figli che aveva, sol si mostrava crudele verso quello che viveva con tutta bontà ed obbedienza, e pur questo gridava, questo batteva, dove l’altro disobbediente e ritroso, mai era punito. Quando un giorno nuovamente vedutolo sotto la sferza paterna, gli si fece avanti con libertà filosofica, gli tolse la sferza di mano, gli disse: io non l’intendo, voi percuotete il buono, e non castigate il cattivo. Allora Ciro rivolto al filosofo gli disse: or l’intenderai! Sappi che, quem impunitum relinquo nihil est possessurus, quem vero percutio Regni futurus est hæres.  Questo figlio che punisco, questo è l’erede del regno, lo batto per farlo più degno dell’imperial corona. Cari uditori, se saremo tribolati, saremo figli eletti per il Paradiso. Gaude sub flagellis, dice Sant’Agostino, flagellat enim, ut ad bæreditatem erudiat. – Ricordatevi finalmente delle belle parole di Tobia all’Angelo, quia acceptus. eras Deo, necesse fuit ut tentatio probaret te: Non si può, no, esser caro a Dio senza travagli e croci, questi sono i certi segni del suo amore. Né solo son segni dell’Amore divino, ma ci conducono a Lui. Ricordatevi un poco di quei discepoli montati insieme con Cristo nella nave, e sovvengavi che fintanto che l’acque furono tranquille, placido il mare, quieti i venti, mostravano i discepoli di curarsi poco del Maestro che lo lasciarono solitario dormire sopra una sponda; ma quando poi il mare cominciò a turbarsi, motus magnus factus est in mari, quando in un subito gonfiare l’onde s’offuscò il cielo, si scatenarono i venti, e scaricarono le nubi con pioggia talmente dirotta che già temevano di sommergersi, tutti allora ricorsero a Cristo, gli si affollarono d’intorno, e gridavano piangenti: Domine salva nos perimus. Così segue di noi, dice Sant’Agostino, si cessaret Deus et non misceret amaritudines oblivisceremur eum. Se fossimo sempre in calma ed Iddio non ci travagliasse, non si ricorderemmo di Lui. Ah che certamente mai, mai, il figliuol prodigo darebbe ritornato dal padre se egli non si fosse veduto vicino a morir di fame. Allora disse: ibo ad patrem. Così fate voi, andate da Dio, ricorrete alle orazioni, fate limosine, digiuni, pellegrinaggi. Quando? quando dalla sua santa mano siete percossi. Sant’Antonino Arcivescovo di Firenze narra un caso degno, successo a lui medesimo. Racconta dunque, come passando un dì per una strada, gli vennero alzati gli occhi, e vide sopra il tetto d’una povera casa, un coro d’Angeli, che vi stavano con segni di gran giubilo; stupito il Santo volle indagarne la causa: batte all’uscio, gli fu aperto, entrò, salì la misera scala, e giunto ad una piccola stanza, vide una povera madre con due figlie nubili, le quali attente al lavoro procuravano di sollevare la propria miseria con il ristoro di poco pane e di poca acqua. Vi trovò una somma pace, e contentezza, onde mosso a compassione il Santo, gli lasciò una larga limosina, assicurandole che per l’innanzi non sarebbero vissute in tanta miseria ed a tal effetto gli assegnò una certa risposta delle rendite ecclesiastiche: A mala pena entrò questa piccola fortuna in quella casuccia che subito non solo le figlie ma la madre ritirata dal lavoro, principiarono ad ornarsi, a trattenersi alle finestre, ad amoreggiare. Quando ritornato il Santo Arcivescovo per quella strada, vide non più il coro d’Angeli, ma di demoni; attonito a tal aspetto entrò in casa e non vi trovò più né quel ritiro, né quella modestia di prima; sì eh, disse non sia il vero mai, che le entrate ecclesiastiche debbano servire a sollievo de’ demoni; gli levò tutto, tornarono alla povertà di prima, e tornate alla primiera povertà, tornò la stessa devozione a Dio. Non accade altro, le tribolazioni ci riducono a Dio. Così è, così è, bonum mihi, dite pure col santo David, quia humiliasti me. Fortunati noi se saremo tribolati, avremo l’amore di Dio, le tribolazioni ci condurranno a Lui, e ci daranno eterna salute. Ditemi. Per qual causa son a voi sì cari i signori medici? Non per altro, se non perché ne’ nostri mali sono il mezzo di nostra salute. Ma avvertite vi amareggeranno il palato con l’Aloe, v’altereranno lo stomaco con amarissime pillole, vi metteranno in rivolta tutti gli umori con antimonio. Non m’importa, tutto deve conferir salute, e perciò, tutto si abbracci. Perché sono a voi sì cari i cerusici? Perché all’occorrenze o di febbri o di cancrene o di posteme ci guariscano. Ma piano… Voi non considerate quei tanti ferri, che portano seco; con essi vi segheranno le vene, vi staccheranno la carne viva dall’osso, gli ossi stessi ve li segheranno per levarvegli dalla vita. Non importa, voi mi rispondete, e voi ancora alla occorrenza direste loro ciò che Teodorico al suo Medico, se voi, al par di lui stringeste scettro. Udite di grazia con quali belle parole dichiarò questo monarca, suo primo medico un uomo intelligentissimo nella professione. Tu solo, dissegli, fra tanti vassalli che mi obbediscono potrai con lodi, e con mercedi opporti alle mie brame, tormentar le mie voglie, e mortificarmi in ogni parte del mio corpo. S’abbraccino dunque le tribolazioni, non si ributtino, ma si stringano al seno, merceché son segni dell’Amor divino, che ci riducono a Lui e che ci danno vita eterna. Delicati mei ambulaverunt vias asperas. È vero son grandi i travagli, ma questi ci conducono al Cielo. Se vi volle giungere una Liduina, bisogno’ che si contentasse di giacere pazientemente per trent’otto anni in un povero letticciuolo afflitta da paralisi, da convulsioni, da cancrene, a tal segno che era venuta una viva immagine della morte. Ambulavit vias asperas. Se vi volle giungere un Britio convennegli tollerare pazientemente di essere a guisa d’un infame deposto dalla dignità episcopale, per una falsa calunnia … ambulavit vias asperas. Se vi volle giungere una Godolena, le convenne pure tollerare pazientemente di esser come schiava strapazzata con modi orribili dal bestial suo marito. Eh via … delicati mei ambulaverunt vias asperas. Bell’impresa di nobil ingegno fu quella che mostrava un animaluccio, detto Pirale, entro le fiamme d’una fornace, ove esso viveva, prodotto col motto Moriar si evasero; non ha questo insetto altra vita, che quella che gli viene somministrata dalle fiamme del fuoco, da cui, se esce, è certo di morire, come pesce fuori dell’acqua. Somiglianti a questo animale sono gli uomini, i quali se non si trattengono nelle fiamme della tribolazione non vivono vita di grazia, e non conseguono Gloria di Paradiso ma stanno in pericolo di morire, perché privi di quel pane di vita della tribolazione, che li conserva; Moriar, dunque, dica ognuno a se stesso … moriar si evasero. Se io non sarò travagliato, se non avrò persecuzioni, se vivrò vita troppo felice in questo mondo. Ah, che dubito di non morire eternamente. Dica altresì ciascuno: Vivam si sustinuero, se tollererò le fiamme di questo fuoco delle tribolazioni, certo il Paradiso sarà mio, Vivam si sustinuero. Questa è la strada regia e battuta, la quale addirittura conduce alla gloria. Per multas tribulationes oportet intrare in Regnum Dei. Se si compra il Regno de’ Cieli, i patimenti sono il prezzo; se s’ottiene per amicizia, non sono amici se non quelli che patiscono; tutti i predestinati, dice Ezechiele, portano la Croce segnata in fronte; tutti gli eletti del popolo di Dio, dice Mosè, passano per il Mar Rosso delle tribolazioni; tutti gli innocenti, dice Paolo Apostolo, sono soggetti alla continua persecuzione. Quoniam ad requiem, è ragione di Sant’Ambrogio, non ni si per laborem et ad gaudia, non ni si per tristitiam pervenitur. Non troverete, no, che s’arrivi al Cielo, senza fatiche. Non vi sia per tanto tra’ miei uditori, chi di buona voglia non abbracci le tribolazioni; servaci dunque, dirò io con Pier Damiano, per modello del nostro vivere la bella natura dell’incenso; questo voi sapete bene, che non tramanda odore, quando, grondi dal suo ceppo felice, colà nell’Arabia, o pure si conservi in vasi d’oro. Allora solo riempie di non ordinaria fragranza, e Chiese, e case, salendo fino all’Empireo, come in trionfo, quando tormentato dal fuoco, e da esso totalmente disfatto; questa è l’idea che la Maestà divina ha formata per chi vuole l’eternità: non solo non dobbiamo sfuggire ciò, che ci attrista, ma dobbiamo andarci incontro. Ecco le parole del Santo: Sicuti aromata fragrantiam suam non ni si cum incenduntur expandunt, ita et sancti viri. Ogni qualunque volta c’imbatteremo in spine di triboli, benché acutissime, la nostra mano prontamente le colga, se le rivolti al petto, se le conficchi in cuore, benedicendo Dio, che con segni di tanto amore ci tiri a sé, e ci dia caparra del Paradiso, ho finito. Miei Uditori, tra le tribolazioni vi vorrei simili alla conchiglia: questa al riferire di Plinio, nulla patisce ancorché il mare sia agitatissimo dalle tempeste: Possono bene le balene ed ogn’altro pesce versar sopra d’esse fiumi di spume, ma non per questo la conchiglia si turba. Fate, che l’Oceano fino dal profondo si sconvolga, ella però niente si agita; ma se l’aria si rannuvola, e se anche leggermente lampeggia e tuona il cielo, la conchiglia si sconcia, e la perla s’impallidisce. Voi siete in questo mondo e, con essere in questo mondo, siete in un mare, agitati da mille travagli, non vi turbate punto quantunque questi crescano a dismisura, riceveteli con cuore allegro, e volto sereno, già che sono segni dell’Amore divino, ci tirano a Lui, e ci servono di caparra al Paradiso. Allora solo turbatevi, quando sapete d’aver la coscienza macchiata da peccato mortale, perché allora con fondamento potrete temere, che se non vi emenderete con sollecita Confessione, i travagli presenti di questo mondo siano per essere principio de’ futuri nell’altro … che Dio non voglia.

LIMOSINA
La maggiore delle miserie che tema un uomo, il maggiore de’ travagli, è la paura d’impoverire, e questa è la cagione, perché molti si ritirano dal far limosine. Non abbiate paura d’impoverire per sovvenire ai poveri. Non abbiate paura, che per questo capo vi venga danno, anzi starete male se non farete limosine; l’aver molto è causa ben spesso del nostro male. Prosperitas multorum perdet illos, dice lo Spirito Santo a guisa di quelle madri che dando a balia i loro figliolini infettano talora se medesime con quella copia di latte che sì utilmente potevano deviare in sostentamento de’ propri parti. Fate dunque limosina abbondante.

SECONDA PARTE.

Quando a voi per motivo di sollievo a’ vostri travagli, e per tollerare pazientemente non bastasse il sapere che sono segni dell’Amor di Dio, che ei tirano a Lui, e ci dà caparra di salute; v’addurrei un altro motivo, il quale, benché basso e vile, ad ogni modo per taluno, sarà efficace. Voi che vi protestate d’esser tanto travagliati, non guardate a chi gode maggiori facoltà, a chi vive con maggior splendore, a chi sta bene di salute, ma voltate gl’occhi indietro, che troverete che tanti e tanti da più di voi per la nascita, da più di voi per la grazia di Dio, che conservano nel loro cuore, stanno peggio di voi. E voi, che state ne’ peccati e che vi continuate, vi lamentate; mi meraviglio di voi! Entrate un poco nelle carceri, e vedrete di quei che vi marciscono anche innocenti, che non vedono mai raggio di luce, privi d’ogni conversazione, e ciò che più li fa inorridire, è che dopo questi tuoni, temono che loro cada in capo il fulmine di sentenza a morte. Entrate un poco negli ospedali, e mirate tanti languenti, quali abbruciati nelle viscere da rabbiose febbri, quali spasimanti per dolori acutissimi; quante bocche vedrete aperte da ferite mortali, che domandano pietà, e quanto volentieri cambierebbero il loro male con voi, che vi dichiarate i più infelici del mondo. Tacete, tacete; Padre? E che volete? Voi siete nobile, comodo, non avete di che lamentarvi. Non voglio sentire le vostre querele. O Padre v’ingannate, sono disgraziatissima, tribolatissima. E perché? Perché non ho la gioia, non ho la veste così sfoggiata, non posso mantenere tanta servitù … Eh tacete, son querele sciocche, e se tutto aveste, tutto servirebbe per ribellarvi a Dio. Alle tribolazioni, uditori miei, vogliamo o no, bisogna starci soggetti. Per tanto io devo avvertirvi, che uno de’ maggiori errori che si commetta da’ tribolati è, che nel tempo delle tribolazioni si lascia Dio, quando più che mai converrebbe cercarlo. O quanto sono mai pusillanimi alcuni, i quali appena tocchi da leggier colpo di fortuna lasciano di frequentare i Sacramenti, trascurano le Orazioni, né più esercitano opera alcuna di pietà cristiana. Se la tempesta deserta il podere, se la vigna un anno non frutta, se il campo non rende, se il negozio va male, subito si sospende la celebrazione di quella Messa, quella limosina, quell’opera buona, che soleva farsi. Ah sciocchi, ah stolti, voi lasciate di ricorrere a Dio, allorché siete più bisognosi del suo aiuto? Questo è l’inganno del diavolo, anzi quanto maggiori sono i travagli, tanto più frequenti devono essere l’opere pie, se volete che cessino i travagli; e poi perché quando i ricolti, o qualche altro accidente rende più scarsa di danaro la vostra casa, subito si mette l’occhio a risecar l’opera pia. E perché più tosto non si dice così: le entrate questo anno non ocorrispondono, dunque meno spesa ne’ teatri, nelle vanità, ne’ giuochi, negli ornamenti; o donne meno spesa in tante cose superflue, nelle quali trovate da buttar tanti danari quanti mai volete. Di più; quando l’entrate sono scarse, volete risecar l’opere pie, e quando sono abbondanti, volete raddoppiare i lussi, ma non il bene. Aprite gl’occhi o miei uditori, all’inganno del diavolo, non cessate dal far bene per qualsisia tribolazione che avvenga alle vostre case, anzi accrescetelo… Che sarebbe però, se quivi fosse taluno, il quale invece di ringraziare il Signore delle tribolazioni che gli manda per sua salute, bestemmiasse sacrilego la sua sorte, e mordesse per così dire quelle mammelle che gli danno nutrimento. Sarebbe costui vero fratello dell’empio Re Acaz, il quale, come un rospo velenoso accrebbe veleno sotto le sassate. Che farà Iddio di quest’anime indegne, che lo maltrattano perché sono tribolate: le getterà da sé come inutili al disegno che aveva d’inserirle in Cielo … Argentum reprobum, dice Geremia, vocate eos quia Dominus projecit illos· Tremiamo, miei uditori, a minaccia sì spaventosa: guai a chi diventa peggiore per le tribolazioni, che Dio gl’invia, io per me credo, che questi tali picchino alle porte dell’inferno per esser ammessi in compagnia di coloro, i quali flagellati da Dio, come dice San Giovanni, si rivoltarono alle bestemmie, e non alla penitenza, Blasphemaverunt Deum Cœli præ doloribus, non egerunt pœnitentiam. Deh per l’amore che portate all’anime vostre imparate a conoscere nelle avversità non solo l’Amor divino, ma le vostre scelleratezze, e ricordatevi, che quando peccaste faceste un debito con Dio. E se lo faceste, perché dunque dolervi, che Dio voglia esser pagato. Prendete per tanto tutto dalla mano divina, e dite con cuor contrito: … iram Domini portabo quoniam peccavi ei. Sentite, è aforismo de’ signori medici, che quæ solent prodesse et non profunt malum, un pessimo segno è, che quei medicamenti che sogliono giovare non giovino: voi siete infermi, siete alterati da tanta malignità, quanti ne racchiudono in se tanti peccati mortali, che avete commessi e con ragione potete dire, sana me Domine, quoniam infirmus sum. Orsù ecco, che Dio, Celeste Medico adopra le tribolazioni, che sono i rimedi delle vostre infermità; ma avvertite, che se queste non vi giovano per farvi tornar a Dio. Malum, malum; pessimo segno, e posso dubitare, che per voi non vi sia più speranza di salute. Date mente voi, che non prendete le tribolazioni con pace per sconto de’ vostri peccati, date mente, è Dio che parla per Geremia, percussi te, castigavi te, t’ho battuto, t’ho flagellato con le tribolazioni ma tu, invece di ravvederti ti sei indurato nel peccato, dura facta sunt peccata tua. Orsù senti, sai che ne seguirà? O Dio, tremate ed inorridite, non vi è salute per te, sarai dannato, insanabilis dolor tuus , etc

QUARESIMALE (XXVIII)

QUARESIMALE (XXVI)

QUARESIMALE (XXVI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMASESTA
Nella feria quinta della Domenica quarta
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Il vero consiglio per bene operare si prenda dalla morte.


Ecce defunctus efferebatur filius unicus matris suæ.
San Luc. cap. 9.


È legge universale convien morire: Statutum est hominibus semel mori. Le porpore delle grandezze non hanno esenzione da questa tignola, gl’allori della sapienza non hanno difesa da questo fulmine; i cedri della santità non sono imbalsamati da questa incorruzione; muore la somma ognun che nasce. Se così è, che faremo per far ben questo passo, da cui dipende l’eternità? Il mio parere sarebbe, giacché l’odierno Vangelo nel figlio estinto della vedova madre ci ricorda la morte, che nulla operassimo per bene operare senza il consiglio della morte. Tal sarà l’argomento mio, e comincio. Quel gran Padre de’ monaci San Basilio, altro ricordo non dava a’ suoi discepoli perché resistessero alle tentazioni, salvo che pensassero e si consigliassero con la morte. Diceva dunque il Santo Padre Cum diluculo surrexeris, ad Vesperam te ambigas pervenire; cum ad quiescendum membra posueris, de lucis adventù noli cogitare. Quando andrete al riposo della notte, pensate che forse non sarete vivi la mattina, e quando vi leverete la mattina, pensate che forse non sarete vivi la sera ed in tal forma sarete lontani da’ vizi: Ut facilius te possis refrenare ab omnibus vitiis. Quanto disse S. Basilio a’ suoi discepoli, tanto dico io a’ miei uditori; quando vi portate al riposo della notte, pensate che forse non sarete vivi la mattina; e quando vi levate la mattina, pensate che forse non sarete vivi la sera. Quanti, quanti, ditemi, da voi conosciuti, li avete veduti la mattina vivi, e morti la sera; vivi la sera, e morti la mattina o affogati da un catarro, o percossi da una goccia, o feriti da un rivale, o caduti da un albero, o sommersi in un fiume. Nella città d’Ancona, allorché nel mille e seicento novanta tre vi si facevano le Sante Missioni venne il sabato sera s sentir la predica un uomo in sanità: vi stette a tutta, e la mattina era in Chiesa morto. Pensate dunque, che il medesimo può intervenire a voi; e però consigliatevi in tutte le vostre operazioni con la morte; perché non vi è freno maggiore per astenersi da’ vizi. Volete vedere quanto sia potente il pensiero della morte per ottener vittoria da’ nemici? Sentite come parla lo Spirito Santo nelle Sacre Carte! Egli ci pone avanti gli occhi un uomo il più scellerato, il più iniquo che possa trovarsi, una donna la più indegna che possa immaginarsi; e poi ci dice: e come mai si potrà ridurre nella buona strada un uomo sì scellerato, una donna sì reproba? Che partito dovrà tenersi? Eccolo: Ad sepulchrum ducetur, et in congerie mortuorum evigilabit. Se volete che quest’uomo, che questa donna sì iniqui si ravvedano, non dovete far altro che condurli sopra d’un sepolcro; alzargli sugli occhi la lapide, fargli vedere quei cadaveri, quei fracidumi, quelle sozzure … in congerie et mortuorum evigilabit; e voi vedrete che allora apriranno gli occhi, conosceranno l’infelice stato dell’anima loro, si convertiranno. Confermi quanto vi dico la seguente storia: una dama di gran nascita e di ricca dote fu maritata in un cavaliere quanto a lei eguale ne’ natali, tanto dissimile ne’ costumi. Era la dama tutta dedita all’opere pie, tutta intenta alle devozioni; il marito per l’opposto dedico alle crapule, a’ giuochi, a’ vizi; e non contento della compagna datale da Dio, ne andava in cerca d’altre. L’afflitta Consorte altamente amareggiata non tanto per il torto che riceveva, quanto per l’offesa di Dio, si buttò un giorno a’ piedi d’un Cristo, e con calde lagrime, e con replicati sospiri lo richiese che con qualche grave malattia percuotesse lo scellerato consorte, con speranza che così travagliato si ravvedesse. Esaudì il Signore le suppliche della devota donna: ecco in letto e con pericolo di morte il marito; si porta al letto la consorte, l’assicura del pericolo, lo esorta ad aggiustare le partite dell’anima, ma fa del sordo il marito; replica le istanze la moglie, e gli pone avanti gli occhi l’infamia della casa, se egli non ammette qualche religioso per assistere alla sua morte; allora lo scellerato marito disse alla consorte che era contento che si chiamasse un religioso, che per pura apparenza venisse al suo letto, ma con patto e condizione, che nulla gli parlasse né di Confessione, né d’anima, né d’altra vita. Considerate voi con quanta afflizione ne ricevesse questa indegna condizione l’addolorata consorte. Ad ogni modo fattasi cuore, raccomandossi al Signore, e trovato uno de’ più accreditati religiosi della città, gli raccontò lo stato infelice del marito, gli espose la brama che aveva, ch’egli v’andasse, ma insieme la diabolica condizione con cui il marito lo voleva ammettere; che però egli si raccomandasse al Signore. Accettò di venire il religioso, e prima d’andare, pregò la Maestà Divina che gli suggerisse qualche stratagemma per mezzo di cui quello scellerato dovesse ravvedersi. Andò dunque il religioso al letto, e quivi cominciò a discorrere delle guerre che allora bollivano per l’Europa. Indi degli interessi di sua casa. Quando, nel più serio del discorso si turbò il religioso, s’impallidì, principiò a lacrimare, a sospirare. L’ammalato, veduta una sì strana mutazione, l’interrogò, perché gliene manifestasse la causa. Mi lasci stare, replicò il religioso; ma perché l’ammalato il vedeva sempre più turbato, e si vedeva rimirato con occhio d’ammirazione compassionevole, costrinse il religioso, se non lo voleva morto prima del tempo, a manifestargli l’origine vera della turbazione. Allora il religioso gli disse: signore, già che volete saperlo, ecco ve lo dico: Dovete sapere, che io nel vedervi su morbide piume, circondato da un padiglione così ricco di seta e prezioso d’oro, e di ricamo, riflettevo alle parole d’Isaia: Super te fernetur tinea et operimentum tuum erunt vermes; e dicevo fra me compassionandovi: fra poco sarà in un sepolcro per averla putredine per suo strato, e per coperta i vermi. Allora l’ammalato pieno di sdegno si lamentò per la mancanza della promessa: perché non aveva osservata la condizione di non parlargli nulla dell’anima. Ma signore, riprese il religioso, io ve ne ho parlato, perché voi avete voluto. Levatevi davanti, replicò l’ammalato ed il religioso partì; ma credete voi, che il pensiero della morte messogli in testa nulla operasse? Non passò un’ora, che l’ammalato rientrato in sé per quel pensiero di morte, mandò a chiamare il religioso, e fece una Confessione delle sue colpe con tal dolore e pentimento che lasciò certa la speranza della sua salute. Or che dite del pensiero della morte? non è egli efficacissimo? Non è ella savia consigliera la morte? Ricorrete dunque al di lei parere, con sicurezza di profitto all’anima. Consigliatevi tutti con la morte, ed in particolare voi, che avete commesso de’ peccati e, per anche colti dalla vergogna, non li avete confessati. La morte vi dice: confessali prima che io venga a toglierti l’anima; e pure ad ogni modo tanti e tanti non li vogliono dire; e temono non solo che il confessore li riprenda, ma che egli sappia i loro errori. O pazzi, che siete! Voi temete d’un uomo che non può che giovarvi; che non può manifestare ad anima vivente il vostro fallo, sotto pena di rendersi degno del fuoco. Come è possibile che temiate di manifestare le vostre colpe ad un uomo che ne ha udite delle peggiori delle vostre, e che può averle commesse anch’esso; e poi non temiate quel Dio Onnipotente che se alla morte vi troverà con quel peccato sull’anima, vi getterà irreparabilmente nel seno de’ diavoli. Ecco il consiglio della morte: dico vobis, hunc timete, temete Iddio, e perciò dite tutti i peccati che finora avete celato; altrimenti vi sovrastano i precipizi dell’anima. Il Collettore racconta come una signora invaghitasi d’un servitore di casa, giunse tanto oltre, che concepì, e quel ch’è peggio, per occultar un peccato, ne commise uno tanto maggiore, quanto fu mandar a male la creatura senza Battesimo. Né vi crediate che questa infelice donna si ravvedesse: appunto. Divenne madre di più creature, ed all’istesso modo privolle tutte del Paradiso, uccidendole con la medesima crudeltà senza battezzarle. Quello poi, che deve rendere meraviglia maggiore, è come una donna tanto sfacciata, che aveva avuto animo per commettere tante scelleratezze, non avesse mai avuto animo di confessarle. È vero, che per acquietare gli stimoli della coscienza, faceva limosine grandi a’ poveri, ma senza frutto, poiché morì e si dannò; e morta comparve tutta cinta di fiamme, manifestando la sua dannazione esser seguita per aver taciuto il suo peccato, con aggiungere, che quelli, i quali non confessano i peccati, ancor che distribuiscano tesori a’ poveri, mai si salveranno. O se costei, miei uditori, potesse tornare al Mondo, ed aver il comodo di confessarsi! che non farebbe? Salirebbe su questo pulpito e manifesterebbe le sue scelleraggini, per ottenerne il perdono. Gli confesserebbe, non solo ad un Confessore, ma quando tanto bisognasse, a tutto il mondo. Imparate voi a spese d’altri; prendete il consiglio dalla morte; portatevi a’ piedi del confessore; dite quel peccataccio, altrimenti vi dirò con Agostino: tacitus damnaberis, qui poteras confessus absolvi. Né minor bisogno di consigliarsi con la morte hanno coloro i quali si caricano di roba d’altri; non pagano mercedi; ritengono le possessioni estorte, non di ragione, ma di potenza, non soddisfano legati pii; vendono e comprano con inganni; aggravano i poveri, gli promettono per i lavori il denaro e poi gli vogliono dar la roba della peggiore ed a sommo prezzo; e poi non trovano mai la via di restituire; promettono sempre, e mai attendono. Se tra’ miei uditori v’è taluno di simil fatta, vada subito a consigliarsi con la morte, e sentirà dirsi: stulte hac nocte, … O pazzo tu, pensi ad accumulare con danno dell’anima, con pregiudizio del prossimo; tu fabbrichi una casa, che tra poco ti rovinerà in capo; tutto dì stai col pensiero in accumulare e nulla pensi a restituire; e poi dici che ti confessi: ma che ti vale la Confessione, se non restituisci? Odi Sant’Agostino: Si res que reddi potest non reddatur, pænitentia non agitur, sed simulatur: la tua Confessione, se non restituisci mentre puoi, non è Confessione, ma un inganno l’assoluzione che ricevi, non scioglie le catene, ma le raddoppia: pœnitentia non agitur, sed simulatur; stulte, stulte, pazzo che sei, tutta quella roba, che ingiustamente ritieni non ti caverà da quelle fiamme nelle quali stai per cadere; e quelli eredi a’ quali la lascerai, appena morto non penseranno più a te. Orsù, non si prometta più la restituzione, ma si faccia perché non v’è altra strada per salvarsi, che a restituire. Si res, que reddi potest non reddatur pœnitentia non agitur, sed simulatur. Sebbene pochi saranno tra miei uditori quelli che debbano o possano restituire; molto maggiore farà il numero de’ disonesti: O questi sì che hanno bisogno e necessità di consigliarsi con la morte. Quanti sono qui tra quelli che m’ascoltano, i quali non hanno maggior negozio sopra la terra che amoreggiare, trovarsi a veglie, trovarsi a balli, e di passarsela allegramente. Eh Dio! Perché non date mente all’Apostolo che dice: tempus flendi et tempus ridendi, in questa vita bisogna piangere, se volete ridere nell’altra; né mi state a dire è vero, si ride, che vale a dire: si va a veglie, a balli, ci tratteniamo negli amori, ma non per questo pecchiamo. Oh quanto è difficile ad avverarsi questo vostro parlare! Cum aliena mulieres ne sedeas omnino, dice lo Spirito Santo nell’Ecclesiastico al nono, con quella donna che non è tua, non ti porre mai accanto, anzi neppur guardarla, ne concupiscas speciem alienam; e perché? Perché se la guarderai, s’accenderà l’amor indegno a guisa di fuoco, a cui sono somministrate molte legna: ex hoc concupiscentia quasi ignis exardescit; e se uno si espone a pericolo sì grande, con solo porsi accanto ad una donna, col solo guardarla: quali rovine, quai precipizi non devono aspettarsi quei giovani, quelle donzelle , che non solo siedono insieme, non sol si guarda ma si prendono per la mano, ma se la discorrono per ore a solo a solo, anche di notte? E questo mestiere sono anni che lo praticano; e talora discorrono di cose sì laide, che non ardirebbe il marito discorrerne con la consorte; di cose sì vergognose che se qui si potessero dire, ne resterebbe appestata tutta d’intorno l’aria… –  Ah giovani infelici che praticate come lecite cose tanto pericolose. Ah, fanciulle sconsigliate che dite questa esser l’usanza, questo il modo d’accasarsi… Ah padri disgraziati! Ah madri svergognate che non solo permettete, anzi talora difendete gli amori delle figlie; anzi di peggio, talora ve le istigate, con la speranza di maritarle con minor dote. Dio immortale! Se foste nemici crudeli de’ vostri figli, voi non potreste trattarli con maggior tirannia; ben si conosce che non vi consigliate con la morte. Ah, che se voi di proposito pensaste che presto la morte verrà per voi per portarvi al Tribunale Divino, voi fanciulle lascereste balli, veglie, feste, amori; e voi madri con ogni premura vigilereste, perché le figlie stessero lontane dalle amorose corrispondenze. Così appunto procurava di fare una savia madre, la quale si ritrovava con una figlia sì disgraziata, che pareva nata alle pompe, alla vanità; non voleva altro che portarsi a feste, che trattenersi tra gli amori, e siccome per sua disgrazia era non meno vaga, che vana, aveva questo indegno costume di specchiarsi, di vagheggiarsi continuamente, appena levata andava allo specchio; allo specchio prima di porsi al lavoro, prima di pranzare, dopo pranzo, in ogni tempo allo specchio. Alla povera madre non era mai bastato l’animo né con le minacce, né con le percosse, di distogliere né dagli amori, né dallo specchio, questa figliuola. Vedendo dunque infruttuosa ogni sua opera, ricorse a Dio, perché l’ispirasse quel modo con cui potesse a ciò rimediare. Ecco, che un dì chiamata per uscir fuori di casa la figlia da certe parenti, la buona Madre chiamò a sé frettolosamente un pittore e così gli disse: Sentite, io voglio un servizio da voi; vedete questo specchio? Si, signora. Voglio, che mi dipingiate quivi una testa di morto; ma avvertite di porvi tutta la perfezione del vostro pennello; fatela dunque orrenda, terribile, spaventosa; terminata l’opera, tirò la madre il drappo, che giusta il solito copriva lo specchio. Ecco, che indi a poco torna a casa la figlia tutta allegra, perché trattenutasi il giorno al ballo; tutta briosa, perché vagamente vestita; sale le scale, giunge alla sala, entra in camera, e subito se ne va allo specchio, tira la tenda e vede non il suo vago sembiante, ma il teschio, ma la testa spaventosa di morto. Considerate qual fosse il suo timore, quale l’orrore? S’impallidì; principiò a tremare, a piangere; restò attonita; restò come fuori di sé. Quando ecco, che la madre, che se ne stava in agguato sotto d’una portiera, si fece vedere, si fece sentire e le disse: figlia, cara figlia, io sempre ti ho gridato, ti ho minacciato, t’ho percossa perché altro non facevi che specchiarti; adesso ti prego, ti supplico, ti scongiuro, specchiati figlia, specchiati: quello è il vero tuo ritratto! Quella l’effigie tua: mirati, vagheggiati. Volete altro? La figlia attonita, per la morte nello specchio, impaurita per le parole della madre, considerando quel che di lei doveva esser tra poco, si pose le mani sulla testa, si guastò le trecce, disfece i ricci, buttò via ogni vanità; dal collo il vezzo, dal petto le gioie, le maniglie da’ polsi; Indi genuflessa avanti la madre, la pregò che volesse vestirla d’abito grossolano da penitente; e così vestita, visse e morì non solo lontana dagli amori, ma con vita esemplare. Ah! che se tu pure, gioventù sconsigliata, ti consigliassi con la morte, non ti cureresti di favorite, detesteresti gli amanti. Ah! Che se quelli che vissero tra gli amori ed ora sono morti, tornassero nuovamente a vivere, io vi assicuro, che avrebbero più paura dell’amore, che voi non avreste ora di cento vipere, se per disgrazia tutte unitamente v’assalissero per infondervi rabbiosamente il loro mortal veleno nelle vene. Specchiatevi tutti con la morte, per che questa vi dirà il vero; a questa solo si può credere. Sentite un pensiero, che forse non vi dispiacerà: Voi ben sapete che una donna, la quale brami veramente di comparire ed essere vagheggiata, tra tutti i suoi corredi di vanità, non ha cosa che più le prema dello specchio; e con ragione, perché quantunque ella sia leggiadra, bella e linda, non è però contenta, se il suo favorito cristallo non glielo dice. Possono ben dire le damigelle, possono affermare esser ella del tutto concia decorosamente che ad ogni modo, fin tanto che ella non si è ben specchiata, sempre sospetta, se ben svolazzino su de’ capelli i nastri; se le trecce siano del tutto composte; se la fronte sia lustra; se il collo ben lavato; se facciano la sua comparsa il vezzo, i pendenti; insomma vuol lo specchio, vuol lo specchio, a questo si crede, e non ad altri. A questo specchio solamente della morte dovete credere, e non ad altri. Non credete alle lusinghe di colui, agli affetti di colei, ma allo specchio. Miratevi, contemplatevi con la morte. Ma se tanto hanno di bisogno del consiglio della morte i giovani, e le fanciulle, che passano le giornate tra gli amori; qual necessità n’avranno del consiglio della morte quei che non solamente vogliono gli amori pericolosi, ma altresì peccaminosi? O Mors, quam bonum est juditium tuum! E non sentite la morte, che vi dice: lascia quei compagni con i quali discorri e pratichi azioni degne di fuoco che incenerì Pentapoli; lascia l’amicizia, abbandona la pratica, scaccia quella serva di casa perché ti dannerai, e senza rimedio dirai ancor tu con Gionata: Gustans gustavi paululum mellis et ecce morior. Per una goccia di miele, diceva Gionata, mi son tirata adosso la morte; per un piacere da nulla, ancor tu dirai: mi son tirato addosso la morte, con questa differenza, che la morte di Gionata fu di corpo, la tua sarà d’anima: quella fu temporale, la tua sarà eterna. Tu vuoi tenere in casa quella donna; vuoi andar da quell’altra sotto mille finti pretesti; tu vuoi cedere alle voglie di colui, bene, vuoi gustare questo poco di miele? Seguita pure, ma sappi che la pagherai con tanto fuoco. Il consiglio, che ti dà la morte non è questo; ma bensì, che tu lasci, e lasci ora l’amicizia, le pratiche, le laidezze, altrimenti sarai di coloro che ducunt in bonis dies suos, et in puncto ad inferna descendunt … sarai di coloro, che doppo una vita condotta tra le amicizie disoneste balzano nel fuoco eterno. Evvi qui per ultimo tra miei uditori, alcuno che racchiuda in cuore brama di vendicarsi per gli oltraggi ricevuti? Se vi è, prima d’effettuare i suoi desideri, prenda il parere dalla morte, la quale gli dirà con lo Spirito Santo: memento novissimorum, et define inimicari; pensa a me, e lascerai gli odi. Tu dici: è vero, non gli parlo, non lo saluto, non gli rispondo, gli volto le spalle, ma non per questo gli voglio male; o questo no; e la morte ti dice che tutto è odio e che quanto prima ti condurrà al Tribunale Divino, ove Judicium tibi fiet fine misericordia, perché non fecisti misericordiam dove non potrai aspettar misericordia da Dio, mentre tu hai avuto un cuore senza misericordia verso del prossimo. Bene, tu dici di non esser obbligato, e neppur Iddio ti risponde che non è neppur Lui obbligato a darla a te. Tu non lo vuoi in paese, e Dio non ti vuole in Paradiso. Or vedi, se ti torna conto così. Un certo villano più di costumi, che di nascita, aveva ricevuta una ingiuria, della quale conservò sempre sì altamente la memoria, che non fu mai possibile ottenere la remissione per mezzo d’una vera pace. Visse l’infelice villano per più anni in questo stato, e così pure se ne morì, e seco portò la sua ostinazione, per la quale venne in tant’odio a Dio che, essendo il corpo di questo infelice esposto in Chiesa, prima di seppellirlo, mentre il Sacerdote, secondo il costume de’ fedeli, pregava nelle solenni esequie, che gli si perdonassero i peccati commessi, con quelle parole: parce ei Domine, un gran Crocifisso nella medesima Chiesa schiodò ambedue le mani, e con esse turatesi le orecchie, proferì queste parole formidabili: non pepercit, non parcam. Considerate qual fosse lo spavento degli astanti che, attoniti e palpitanti non seppero trovare altro partito che strascinare quel cadavere alla campagna, e seppellirlo, secondo il merito, come un giumento. Ecco il termine, ecco il fine di quegli indegni che, dopo aver ricevuto qualche torto, qualche ingiuria, non vogliono perdonare e vogliono vendicarsi. O stolti che siete! voi non sapete conoscere la vostra sorte. Chiunque ha ricevuto qualche ingiuria, si può dire, che abbia in mano la Misericordia Divina per partecipare quella misura o maggiore o minore che gli aggrada; basta, che perdoni di buon cuore, che si scordi dell’ingiuria, che faccia la pace, ed ecco rimesso a lui ogni debito. Così parla, così protesta l’istesso Cristo: dimittite, dimittetur; perdonate, e vi sarà perdonato; ma avvertite che per il contrario, chi non vuole rappacificarsi; chi non vuol salutare, né rendere il saluto; chi indebitamente nega i segni d’una giusta riconciliazione con gli offensori, tenga per certo, che Dio lo pagherà con la stessa moneta: qua mensura mensi sueritis remetietur vobis. Chi sarà dunque sì stolto, che per sfogare quella passione d’odio, per far quella vendetta, voglia tirarsi addosso l’ira di Dio, non voglia la Misericordia di Dio? Cari miei uditori, se non avete bisogno che Iddio vi perdoni, perché non abbiate mai peccato; io mi contento, che ancor voi neghiate la pace, vi vendichiate ma se avete un’estrema necessità, che Dio vi perdoni; perché non perdonate, mentre siete sicuri di non aver il perdono, se non perdonate? Qual fu la sua strada, che tenne la prudentissima Abigaille per raffrenare lo sdegno di David concepito contro del di lei caro marito, sì che lo voleva morto? Molte furono le scuse, molte le ragioni; la più potente però ad abbattere quel cuore, qual fu? Eccola, il dirgli così: e quando vi sarete vendicato, non ve ne avrete voi da pentire per aver disgustato Iddio? Non erit tibi hoc in singultum? Uditori miei cari, ecco quale deve essere il vostro freno da’ peccati: il pensare, che ha da venire un tempo, che ve ne dovrete pentire. Si si erit tibi in singultum, d’aver procurata la rovina di quella donzella; erit tibi in singultum, d’aver tentato l’onore di quella maritata: erit tibi in singultum, d’aver presa la roba al tuo prossimo; e qual sarà? quello della morte, e respiro.


LIMOSINA.
Qui in Nomine Christi, dice il Damasceno, pauperibus subvenit centuplum accipiet.
Chi dà ai poveri per amor di Dio, riceverà il centuplo. Volete vedere se Iddio rende il centuplo? Udite quel che accadde nella città di Livorno in Toscana. Un negoziante di prima riga, intervenuto alla predica, sentendo questo centuplo che Dio promette, diede una Dobla. Torna a casa, vien richiesto di certa cannella ordinaria, la mostra, e la trova cambiata in cannella finissima ed in quel giorno ebbe appunto cento doble di guadagno.

SECONDA PARTE.

Non vi è passo più terribile in tutto l’Oceano dello stretto di Magalianes posto tra l’Affrica, e la Terra di fuoco, perché quivi le acque sono urtate insieme, e respinte da due mari contrari, i quali con il loro flusso e riflusso vi mantengono le tempeste come paesane. Hanno i nocchieri trovato modo di scansare quel passo così terribile e mortale, tenendosi più basso, e passando per un altro stretto meno burrascoso. Non v’è passo più spaventoso della morte; ella è uno stretto combattuto dall’impeto di due mari totalmente diversi: tempo ed eternità; e quel che è peggio, il passo è unico; e non vi pensate e non dite … che farà di me, se v’affondo? Sapete perché non ci fissiamo in questa morte? Perché la miriamo da lontano, e ci pare che abbiano da passare mari di secoli prima che giunga. Così appunto da lontano la rimirò la madre di Nerone Agrippina. Uditene il fatto. Desiderava Agrippina di vedere lo scettro di Roma in mano al figlio, e per ciò che non fece? Fece quanto le permise l’astuzia d’una donna appassionata. Gl’indovini Caldei chiamati da essa a consulta sopra questo affare, gli dissero unitamente che desistesse dall’innalzamento al trono del figlio, poiché il figlio, divenuto Imperatore, gli avrebbe data la morte. Qual pensate che fosse la risposta della donna ambiziosa? Occidat dum imperet; a me non importa, muoia Agrippina, purché Nerone comandi. Ma quando poi si venne all’effetto, e principiò a vedere i preludi della sua morte; oh come subito si dié a’ pentimenti di quello che aveva tanto sospirato! Eccola rinchiusa, eccola in carcere come leonessa in serraglio e tigre in catena. Interrogatela, e ditegli … serenissima, non siete voi quella che apertamente dicevate: muoia Agrippina purché Nerone comandi? Eccovi contenta! Nerone è nel trono, già riscuote i tributi delle provincie straniere, gli ossequi delle milizie obbedienti, morite contenta? Quanto bramavate, avete ottenuto; appunto, appunto, tutto l’amore si voltò in odio, e disperata, al centurione, che gli venne incontro col ferro ignudo, o per segarle la gola o per trafiggerle il seno, ella gli si portò d’avanti, e gli disse: qui, qui ferisci questo ventre che diede ricetto ad un mostro di crudeltà: ventrem ferire exclamavit. Che sarà di voi peccatori, che ora andate dicendo a chi vi riprende de’ vostri vizi, e vi dice: avvertite, vi verrà la morte, e voi rispondete: occidat dum imperet. Muoia l’anima, purché si giunga a quella vendetta: … occidat, vada l’anima, purché si ottenga quella roba; si perda l’anima, purché si sfoghi quella passione. Non direte così no, quando vi troverete al capezzale. Ora ve la figurate lontana, e perciò gli fate testa.

QUARESIMALE (XXVII)

QUARESIMALE (XXV)

QUARESIMALE (XXV)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDIC A VENTESIMAQUINTA
Nella feria quarta della Domenica quarta.

La conversione procrastinata si rende difficile, e quasi moralmente impossibile; sì per la parte del demonio, sì per la nostra, come per quella di Dio.

Vade lava in natatoria Siloe. San Giov.: cap. 9

Vedonsi ben spesso non senza stupore, dentro i Sacri Templi, o ne’ superbi cortili, rozzi marmi, così al vivo da industrioso scalpello animati, che per compire le illustri azioni, o l’eroiche imprese che rappresentano, altro non sembra mancargli che il moto. Quivi si fa vedere il pastorello David, che afferrate con ambe le mani ad un feroce leone le zanne par che or ora lo sbrani. La si mira l’ubbidiente Abramo che con generoso braccio, alzato il coltello, sta per tagliare all’innocente Isacco la vita. Da una parte la vedova di Bettulla scarica sul collo ad Oloferne la spada; dall’altra il legislatore Mosè, acceso il di lui giusto zelo, sta per spezzare le tavole della legge: ne toglie già, dall’arte il pregio, dallo spettatore il contento il sapersi che, anche dopo il corso di più secoli, resteranno intatte le tavole della Legge. Giuditta non avrà reciso il capo ad Oloferne, non sarà sacrificato Isacco, non sbranato il leone. Tutto ciò, che da periti nell’arte de’ marmi non solo non si riprende, anzi si ammira: non può già tollerare ne’ suoi allievi la grazia, ne’ quali il non risolversi di mutar vita non è difetto di potenza, ma colpa di volontà. Voglio dire, che pessimo è lo stato di quei Cristiani, i quali non dando orecchie alle divine chiamate, procrastinano il pentirsi, stanno sempre sul fare, e mai si risolvono; sicché giungono alla morte, con una vita condotta tra peccati. Guai all’odierno cieco dell’Evangelio, se avesse tardato ad eseguire i divini comandi: guai a voi, se non ubbidirete prontamente alle voci divine; poiché quella conversione, che ora v’è più facile ad ottenersi, se procrastinerete, vi si renderà più difficile e quasi moralmente impossibile. Io per me non ho mai trovato uomo sì stolto, il quale aggravato da qualche male non ne abbia cercati gli opportuni rimedi: mai ho letto, che niuno chiuso fra quattro mura in orrida prigione per la vita, mentre possa facilmente trovarsi l’adito alla fuga, volontariamente si trattenga fra quelle miserie. Ah, che certo un simile stolto non s’è mai trovato. Solo il peccatore è sì pazzo, che essendo in miserie le maggiori, che si possano mai dire, cioè a dire in peccato mortale, aggravato da un male immenso, stretto da’ lacci del diavolo; ad ogni modo, quantunque facilmente possa liberarsi, non ne fa nulla, e mostra di godere felicità in mezzo alle somme infelicità. Datemi mente per cortesia, acciò mi diciate il vostro parere circa l’operato di Faraone; né dubito punto, che non siate per decidere, che operò da mentecatto. Questo re s’imperversò, come sapete, fra le spaventose piaghe d’Egitto. Guardati, gli dice Mosè, o Faraone, guardati, perché, se non lasci libere le mie genti, la pagherai. Non ti credere già che a tua rovina sia per armare poderosi eserciti, non t’immaginare che per incenerirti sia per chiamare fulmini dal Cielo, no: ma per tua maggior vergogna farà che dalle paludi scappino fuori eserciti di rane, e queste bestiole così piccole prenderanno contro di te le mie difese. Queste assedieranno le tue case, occuperanno le tue sale, ti discacceranno dagli appartamenti delle tue camere. Sorrise l’empio Faraone alla minaccia; ma non andò molto, che il riso tramutossi in amarissimo pianto. Ecco, ad un cenno imperioso di Mosè scappano fuori di subito da pantani, da fiumi, da fonti, eserciti innumerabili di strepitose ranocchie: si spargono per la città, ed guisa di furibondi nemici corrono a darne il sacco. S’impadroniscono de’ posti, chiudono le strade, penetrano le case, e già trionfanti avanzandosi nella reggia, assaliscono Faraone nel proprio trono. Or qual pensate, miei UU. che fosse il cuore di quell’empio, quando si vide posto un assedio sì pertinace alla vita? Chiama frettoloso Mosè, e quasi tutto dolente del suo fallire, compunto del suo errore: ecco, disse, o Mosè, che mi arrendo; mi dichiaro per reo; prega, ti supplico, il tuo Dio, che da me tolga questo flagello, ed io ti compiacerò: orate Dominum, ut auferat ranas a me, a populo meo, dimittam populum ut facrificet Domino. Mosè, come quello, che voleva l’emendazione, e non la perdizione dell’empio: orsù, disse, son contento: dì, quando vuoi, che si preghi per la tua liberazione: Constitue mihi tempus, quando deprecer pro te. Stette allora Faraone alquanto sospeso a deliberare; e poi: domani, rispose, voglio che preghi per me qui respondit cras. Pazzo Faraone! Ti trovi stretto da nemici tanto più fieri quanto più inevitabili, e con tutto ciò frapponi indugi, tessi dimore, e rispondi cras? Domani, domani; e perché non oggi? Grida Ambrogio: insensato risponde cras, cum deberet in tanta positus necessitate rogare ut jam oraret. Certo, che niuno v’è tra voi, che non deplori una sì fatta stolidità d’uno che, potendo uscire da gravi miserie oggi, indugi a domani; orsù, se tanto sciocco, a parer vostro, deve riputarsi chi si mostri sì poco sollecito di salvare la vita del corpo, che dovrà dirsi di quei miseri peccatori che stando continuamente assediati, non da rane, ma da demoni ansiosi di strapparli a gara dal petto lo spirito scellerato; con tutto ciò non sanno ancora risolversi a svilupparsi da sì imminenti pericoli: Constitue mibi tempus; quando o lascivo, si ha da lasciare quella pratica, che ti toglie la sanità, ti ruba le sostanze, t’invola la reputazione, ti priva della grazia di Dio? Quando? Ah, che sento rispondermi: inoltrato che io già un poco più negli anni, allora muterò vita. Constitue mihi tempus; quando verrà quel tempo di lasciar quelle corrispondenze; quando vi risolverete d’allevare le figlie più per Dio, che per il Mondo? Voi le tollerate libere nello sguardo senza riflettere, che tra gli occhi ed il cuore vi sta quella segreta corrispondenza che dicono passare tra quei monti che gettano fuoco; quando, ditemi volete mutar vita e, deposto da voi e dalle figlie ogni ornamento superfluo volete comparire nelle Chiese, alle feste, ne’ corsi con la dovuta modestia, chiuse nel seno, coperte nelle braccia? Quando, quando volete desistere di dare tutto il tempo al mondo, al diavolo senza farne punto di parte a Dio? Allora, sento rispondermi, allora, che sarò più avanzata nella età lascerò quegli ornamenti di vanità scandalose, quelle mode che conosco nocive a me, dannose agli altri. Constitue mihi tempus. Signori, quando volete invigilare sopra l’educazione de’ figli? Mercanti, quando si lasceranno i traffici illeciti? Nobili, quando si soddisferanno le mercedi, i legati pii? Quando, o mormoratori, cesseranno le vostre lingue malediche d’intaccare l’onestà delle fanciulle, il decoro delle vedove, l’onore delle migliori aritate? Quando, o bestemmiatori, lascerete d’oltraggiare col nome de’ Santi, quello della Vergine e di Dio? Quando, quando? Domani, domani. Domani dovete liberarvi dalla pestifera febbre del peccato, mentre potete oggi? O che pazzia! Potere uscire da una miseria sì grande oggi e volere indugiare a domani; hodie, hodie si vocem ejus audieritis, nolite obdurare corda vestra; oggi si ha da fare questa conversione, fin d’adesso si ha da lasciare il peccato? Sì, perché ora è più facile; sì, perché con la tardanza si renderà più difficile, e quasi moralmente impossibile. Adesso, miei UU. La vostra conversione è più facile, che sortisca sì per la parte vostra, sì per quella risguarda il demonio, sì per la parte di Dio; dove che se indugerete si renderà più difficile, e materialmente impossibile;
sì per la parte vostra, quanto per quella e del demonio, e di Dio. Vi dissi che è più facile che se darete orecchio alle voci di Dio, adesso vi convertiate per quel che risguarda la parte vostra, perché certo è che in tanta commozione, alla vista di tanto popolo penitente è molto probabile che concepiate un vero dolore de’ vostri peccati, un vero proposito di non volerli più commettere, e così per mezzo d’una vera, d’una sincera, d’una real confessione ritorniate nel seno del vostro Dio; più facile altresì farà adesso la vostra conversione, perché in questo tempo sentendo la gravezza del peccato, udendo i gran mali, che seco porta, meglio ne concepirete la di lui malizia, e perciò più facilmente la detesterete. E più facile finalmente adesso la vostra conversione, perché il male non è tanto invecchiato, la piaga non è del tutto incancherita, onde può sperarsi che la parola divina possa avere la sua efficacia, per portarvi salute. Su dunque: ne tardes converti ad Dominum, non tardate no, ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis; questo è il tempo da convertirsi; questo è il giorno di salute. Il demonio non v’ha ancora ben fermato; non v’ha legati sì fortemente in quegli amori, in quegli odii ed interessi che non possiate scappargli; non vi ha per anche messi a piedi ceppi sì fieri che non possiate spezzarli; converrà che egli ceda, mentre tanti si uniranno a torvegli dalle branche per mezzo di frequenti orazioni. Su, dunque, fatevi animo e sappiate che il demonio combattuto dalle orazioni, dalle penitenze, dalle lacrime, da sospiri resterà talmente abbattuto nelle sue forze, che la vostra fuga dai suoi artigli è quasi che certa. E che forse ne potete dubitare per la parte di Dio? E non è questo Cristo quello che v’invita a ritornare a Lui? E se Egli è quello, che per mezzo mio v’invita, potrete dubitare, che Egli non sia per darvi tutto l’aiuto necessario per una buona e santa conversione? Che Egli non sia per assistervi con quella grazia, che vince ogni protervia, che abbatte ogni ostinazione con la grazia efficace? Certo che sì! Egli sta con le braccia aperte per accogliervi nel suo seno, correte dunque, e non tardate: Ne tardas converti; perché so dirvi che quanto ora è più facile, tanto poi si renderà più difficile, se tarderete. Sarà più difficile per la parte del demonio, per la parte vostra, per la parte di Dio. Per la parte del demonio, perché quanto più egli tiene il possesso dell’anima vostra, tanto più se ne fa padrone, e tanto più difficilmente gli scapperete di mano. Quanto più l’anima sta in peccato, tanto più s’indebolisce, e le sue debolezze sono accrescimento di forza al demonio. Quante sono le vostre perdite, tante sono le sue vittorie; e quante più sono le vittorie tanto maggiore è l’accrescimento delle di lui forze; sicché assai più difficilmente gli scapperete dalle mani, se non vi convertite adesso. Hodie si vocem, etc.. Che sia poi più difficile anche per la parte vostra, e chi ne dubita? Le spinose quanto più indugiano a dare alla luce i loro parti tanto più penano; mercè che quanto più crescono quelle spine, tanto più poi danno di tormento alle viscere materne. Quanto più indugerete a convertirvi, tanto più stenterete a farlo; mercè che crescendo sempre più l’abito, sempre più radicherà e si renderà difficilissimo lo sradicarlo. Portatevi nelle vostre campagne, e quivi dopo aver piantato un albero indi a due dì tentate sradicarlo, voi vedrete che vi sarà facilissimo lo sbarbarlo; non così, se indugerete un mese, molto più indi a sei: arriverà quell’albero, se tarderete a sradicarlo, a porre radici sì forti, sì ferme e si profonde, che non basterà né la mano, né il ferro: vi vorrà il fuoco per incenerirlo. Se voi indugerete a sradicare quella amicizia, quella invidia, quella avarizia, quelle bestemmie, metteranno radici sì alte, che sarà quasi impossibile svellerle. Geremia ci rappresenta una sorte di peccato, la di cui effigie non è forma dal peccatore col pennello sulla tela, ma con lo scalpello nel sasso: peccatum Juda scriptum est stylo ferreo; voi ben sapete, che tra la pittura e scultura vi passano molte differenze; benché ambedue contrastino per imitare al vivo la natura, la scultura fabbrica statue, rompendo selci; la pittura forma figure spargendo colori; ciò che fa a mio proposito è, che un errore di pittura si scancella con acqua pura; ma se lo scultore vuol riformare ad una statua un membro, è necessario, che rotto il primo, ne formi un altro. Che voglio dire? Voglio esprimere, che il peccato ancor fresco è una pittura; bastano lacrime penitenti a scancellarlo; ma se egli è invecchiato, non è dipinto ma scolpito, scriptum est stylo ferreo, id est per sculpturam, glosa il Lirano, et in boc peccati indebilitas designatur, presto, presto non tardate; perché vi si renderà difficilissima la vostra conversione. Non v’è chi non sappia, che ogni peccatore è simile ad un morto: Omnis qui peccat, son parole di Sant’Agostino, moritur. Or sentite, io osservo, che di tre morti resuscitati da Cristo, in due poco vi faticò; per resuscitare la figlia di Jajro, bastò che dicesse, non est mortua, sed dormit; merceché appena era morta; per ravvivare il secondo, che di poche ore era morto, nulla più fece, che toccare il Cataletto. Non così per il terzo, che fu Lazzaro, che era morto più giorni avanti; poiché per rendere la vita a questo, si turbò, pianse, gridó ad alta voce e con assoluto impero: Lazare veni foras. Non vi meravigliate, dice Sant’Agostino, che dimostrasse di faticar tanto per resuscitar Lazzaro, lo fece per mostrarci quanto è difficile che risorga chi indugia la sua conversione: Difficile surgit quem moles consuetudinis premit. Io resto stordito alla pazzia di costoro, che vogliono indugiare a convertirsi, mentre si tratta d’anima. Dio immortale! Se nella casa un trave minaccia, non aspettate un mese a mettergli un puntello; se l’acqua del fiume entra nella vigna non indugiate a far l’argine; se oggi vi viene la febbre non aspettate un mese a chiamare il medico; se vi svoltate un braccio, un piede, non differite a chiamare il cerusico; se per disgrazia prendete veleno, non aspettate un mese a prender la triaca; se oggi si attacca fuoco alla casa non aspettate a domani portar l’acqua per estinguerlo. Sentite Avicenna medico arabo: Qui bibit venenum in dormire non debet, chi ha preso il veleno presto se ne liberi. Cristo Medico Celeste dice: chi ha il peccato presto se ne scappi, se no morte eterna; perché quando vorrà non potrà. Ah, che se voi indugerete a convertirvi s’indurerà talmente il vostro cuore, che vi vorrà fuoco per incenerirlo: non basterà la parola divina; sarà quasi impossibile che vi convertiate. Sentite caso orribile, registrato nel Cristiano Instruito ed inorridite. Un cavaliere chiaro di nascita, ma sordido di costumi, invaghitosi d’una certa fanciulla, benché moresca, se la teneva già da molti anni senza prezzario né  le riprensioni degl’amici né le ammonizioni de’ Sacerdoti; e a chiunque l’esortava a lasciarla rispondeva con modi austeri e sdegnosi, non posso, quasi che pretendesse persuadere, essere necessità di natura ciò che era elezione di libidine: non volendo egli dunque staccarsi dalla perfida compagnia, venne, come accade, la morte per distaccarlo. S’ammala dunque lo sfortunato nel fiore degli anni, s’abbandona e pone in letto, e ben presto si dà da’ medici per disperata la sua salute. Fu pertanto chiamato un religioso per disporre il giovane in quell’estremo; giunto il religioso al letto saluta cortesemente l’infermo, e con modi assai dolci e prudenti principia ad insinuarsi dicendogli: signore, non può negarsi, che il male non sia grave: ad ogni modo voglio credere che vi sia più da sperare che da temere. Ella è fresca di età, vigoroso di forze, sincero di complessione, molti d’un male simile al suo sono campati, molti però ne son morti; e benché speri che ella sia per camparla, ad ogni modo, che nuoce l’apparecchiarsi come se dovesse morire? Allora l’infermo rivolto al religioso dissegli: insinuatemi Padre ciò che devo fare, che son pronto ad ubbidire. Ancor io conosco il pessimo stato, in cui mi trovo e quantunque io abbia menata cattiva vita, desidero però al pari d’ogn’altro una buona morte. Non potete credere quanto di giubilo arrecassero al cuore del religioso queste parole; bramava egli di venir subito al taglio di quella pratica scellerata che con tanta sua pena vedeva nella camera stessa del moribondo; il quale or sotto il pretesto d’un servizio, or d’un altro, la voleva sempre efficacemente vicina. Nondimeno la prudenza gli persuase di disporlo prima con richieste più facili ad una più difficile; orsù dissegli, giacché vi scorgo per grazia di Dio sì bene animato, voglio parlarvi con quella libertà che richiedono sì la santità dell’abito che porto, come lo zelo della vostra salute. La vostra vita è disperata: bisogna morire; e perché poche sono le ore che vi restano, conviene aggiustar le partite con Dio. Eccomi pronto, ripigliò il moribondo: che devo fare? Avreste, riprese il Padre, roba d’altri? L’avevo, ma ho soddisfatto. Racchiudete in cuore livore verso del prossimo? Ho perdonato a tutti. Volete per ultimo ricevere li Santissimi Sacramenti per armarvi al gran passaggio? Certo, Padre, se voi avrete la bontà d’amministrarmeli. Io son pronto, ripigliò il Padre, ma voi sapete che questo non si può fare se prima non licenziate la rea femmina! O questo non posso Padre, non posso. Ahimè! che dite? E perché non potete? E potete e dovete, se volete salvarvi. Ed io vi dico che non posso; ma sentite, tanto di qui a poche ore bisognerà lasciarla; e perché non vi risolvete a far per elezione ciò, che vi converrà fare per necessità? Non posso, Padre non posso; guardate questo Cristo per voi in croce; Egli vi dice, che la licenziate; non posso, torno a dirvi, non posso. Ma uditemi, perderete il Cielo; non posso; andrete all’inferno: non posso; e come è possibile, che non vi debba cavare altra parola di bocca, che questo ostinato non posso? Ma non è meglio perdere la donna, che perdere la donna, la reputazione, il corpo, l’anima, l’eternità, i Santi, la Vergine, Cristo, il Paradiso, e dopo morte esser sepolto da scomunicato e da bestia in mezzo alla compagna? Che pensate, che facesse allora questo sfortunato? Gettò un crudo sospiro dal petto, e tornando a replicare quelle orrende parole: non posso, non posso; raccolte quelle deboli forze, che gli restavano, afferra all’improvviso quella perfida femmina, e con volto acceso e con voce alta in queste voci proruppe: questa è stata la gloria mia in vita; questa la sarà in morte. Indi per forza stringendola ed abbracciandola, sì per la veemenza del male, come per la violenza del moto e l’agitazione dell’affetto le esalò sulle sozze braccia lo spirito scellerato. – Cristiani miei non indugiate più a convertirvi, a lasciare quella pratica, quell’odio, quella roba altrui, non indugiate a fare una buona Confessione, perché è molto probabile, che anche dalla parte vostra vi si renda quasi impossibile convertirvi, e dire ancor voi con costui: non posso, non posso. Non perché non siate per potere in ogni tempo, se vorrete; perché la grazia sufficiente non è mai negata a veruno il quale almeno la chieda ma perché ad uno sì male abituato vi vuole altro, che grazia sufficiente, ci vuole quella grazia che da Sant’Agostino vien chiamata trionfatrice; quella che abbatte ogni perfidia; quella che atterra ogni protervia, quella, che doma ogni ostinazione; la grazia efficace voi dovete sapere che Iddio non è tenuto a darla a niuno, né per legge di provvidenza, né per legge di Redenzione, e non vi par giusto, che la neghi  a coloro i quali tante volte che la poterono conseguire, non la curarono? Dixerunt Deo recede a nobis scientiam tuarum viarum nolumus: certo che sì! Son pur stolti quei peccatori che con tanta franchezza dicono, se non mi pento adesso, in questa Quaresima, in questa Missione, mi pentirò un’altra volta, verrà un Giubileo, una Solennità; quasi che il pentirsi, il ravvedersi, il convertirsi stesse totalmente nelle loro mani, in loro potere. Sappiate, miei UU, che siccome è vero, che niun peccatore, che di cuore si penta, vien mai rigettato dalla Divina Misericordia, così niun peccatore può mai convertirsi di cuore, se Dio con la sua misericordia non l’aiuta; che cosa è quello che dà il colore al mare? voi mi dite: il fondo del medesimo: è vero; ma è altresì vero, che glielo da anche il Cielo; anzi dovete sapere, che a dar quel colore vi concorre più il Cielo, che il fondo medesimo di tante acque. Così appunto cammina nel caso nostro:
quello che fa volere il nostro pentimento, la nostra conversione, non è solamente la nostra volontà, ma anche la volontà di Dio; anzi più quella di Dio, che la nostra. Come dunque avere ardire di dire: mi pentirò un’altra volta; se ciò non sta solamente nelle mani nostre; ed ora che Iddio ve ne dà l’impulso, rifiutate di farlo? Sentitemi bene: con le nostre sole forze naturali possiamo si bene cadere in peccati gravissimi; ma caduti che siamo, con le nostre sole forze non possiamo uscire e risorgere; può bensì un orologio da per sé scomporsi, e guastarsi; ma guastato che sia, da sé non si può raggiustare; vi vuole la mano maestra dell’artefice. Come dunque vi compromettete della conversione a vostro capriccio? Non indugiate a tornare a Dio, mentre ora Egli vi chiama, vi assisterà con i suoi aiuti; che se non risponderete, è probabile vi abbandoni. Intendetela una volta: senza Dio non possiamo niente; sentite San Paolo: Non sumus sufficientes cogitare aliquid a nobis quasi ex nobis, sed sufficientia nostra ex Deo est; e chi dicesse il contrario direbbe un’eresia; Archita ingegnere celeberrimo fabbricava alcune sue colombe mirabili, e con tale arte, che volavano per l’aria, avendo compaginato dentro di esse alcune soste e ruote segnate, le quali dessero impulso al volo, ma quando l’impulso mancava, le colombe cadevano a terra; e la ragione si è perché per sollevarsi al volo avevano bisogno d’aiuto estrinseco di strumenti, e di soste; ma per cadere bastava il loro proprio peso: così siamo noi; per precipitarci ne’ peccati basta il peso d’una nostra natura; ma per fare una buona Conversione abbiamo necessità di Dio; e come volete, che Egli ci dia mano, mentre noi non gli diamo orecchie or che ci chiama? Ah che Egli per verità adirato con noi, è molto probabile, che non voglia più sentirci. Voi ben sapete, che ogni ribellione di città è il maggior delitto di violata fede: con tutto ciò il principe non vien subito al castigo: la chiama ad arrendersi, con ricordarle i benefici e favori compartiti. Quando ella persista nella disobbedienza viene alle minacce: e quando queste non bastino, vien a dar segno de suoi gravissimi sdegni; ma quando poi la trovi ostinata, e pertinace nella ribellione, allora il principe sdegnato non la chiama più alla resa, a ritornare all’obbedienza giurata, come la prima e seconda volta; ma con poderoso esercito, si porta fotto le mura, la costringe ad arrendersi, e poi severamente la castiga. Tanto seguirà col soprano Principe Iddio: voi vi ribellaste perché ammetteste il demonio nel cuor vostro col peccato, vi chiamò a tornare a Lui, ricordandovi i benefici compartiti di roba, di nascita, di talenti e voi ostinati, vi chiamò per mezzo delle minacce de’ sacri oratori, e voi pertinaci, vi ha chiamato a voce di castighi, con carestie, con terremoti con mortalità d’armenti, con inondazioni di fiumi, con morte di figli, di consorti, di padre, e voi persistete? Ah! se ormai non vi arrendete, io posso temere, che sia l’ultima chiamata: e però non vi fidate di star ostinati a queste voci, con la speranza di poterlo avere a voi propizio quando vi piaccia; questo è un inganno grandissimo, che vi mette in cuore il demonio, per potervi con più sicurezza rovinare. Il dipingere le navi, l’indorar la poppa, l’intagliar la prora, il fregiare di bizzarri arabeschi tutte le sponde è stata un’arte finissima per ricoprire i pericoli a chi naviga, e per torli dal pensiero d’osservarli: Pericula expingimus juvatque ad mortem speciose vehi, disse colui. Tanto fa il demonio con noi, procura di nascondere i pericoli della dannazione, con inserire ne’ nostri cuori una certa speranza di salute con un futuro pentimento; con questa speranza ci fa navigare in alto mare: ci fa immergere fino a gli occhi nelle disonestà, nelle crapule, negli odii, nelle bestemmie e negli interessi peccaminosi, e quando siamo in alto mare, e bene ingolfati nelle scelleraggini, ci suscita una tempesta, viene una malattia inaspettata, un accidente non previsto, e si resta estinti nel corpo, affogati nel fuoco con l’anima. Peccatori miei amatissimi, aprite ora per tempo gli occhi per conoscere le astuzie del demonio, il quale vi va lusingando con la speranza che vi convertirete per avervi con più sicurezza nell’inferno. Si, si miei UU. quelle speranze di pentimento fondate sull’avvenire, altro non producono che aborti di dannazione. Sentite, o mal consigliati Cristiani, con voi parla Salviano: Usurpata absolutio damnationem parit; il troppo presumerci di poter aver con pentimento la conversione quando pare e piace, fa che ci precipiti l’anima, e per renderci certi di questa verità, egli ci chiama, e ad alta voce ci dice, venite: ecco, che io vi schiudo con la chiave dell’eternità la porta dell’inferno. Orsù vedete, mirate, osservate. O che orrore! oh che spettacolo! che disperazioni! Non vi paventate, non vi ritirate: vedete voi, dice Salviano, colaggiù quei sensuali, che tra quelle fiamme ardono di continuo, ed arderanno per tutta un’eternità? Saprete, che finché vissero mai disperarono di salvarsi; anzi più volte con sperare un vero pentimento, ne concepirono una ferma speranza, e si figurarono di vedersi un giorno preparato un trono di gloria, come fu già veduto da’ discepoli del grande Antonio per Taide la peccatrice. Vedete là in quel cantone quei vendicativi, che l’un l’altro in quello stagno di zolfo ardono, ed a vicenda rabbiosamente si lacerano? siate pur certi che anche essi finché vissero ebbero pensiero di pentirsi, e si crederono a guisa di Giov. Gualberto stampare in fronte all’inimico un bacio di pace, e nell’anime loro un certo contrassegno di salute: ma perché troppo lo sperarono, e perciò si dilungarono la conversione, ed or si trovano dannati. Non vi lusingate o peccatori, con dire: mi pentirò, mi convertirò. Iddio vi chiama ora, se non vi arrendete è probabile che stanco vi volti le spalle, e con la briglia sul collo vi lasci correre tanto, finché giungete all’inferno. Non si dica più farò, farò; ma si metta la mano all’opera, perché procrastinando di giorno in giorno la conversione, v’assicurerete nel pericolo, dormirete sul precipizio e vi sveglierete dannati.

LIMOSINA.
Quelle fontane, che la natura fa sorgere in cima de’ monti non son fatte, perché ne godano i soli monti, ma perché tosto che i monti sono inzuppati, passino in pro delle valli. Così pure è delle facoltà date da Dio ai ricchi, ai comodi: non le ha date loro perché si stagnino, e si putrefacciano in loro, ma perché dopo il loro bisogno, passino a benefizio de’ poveri. Fate dunque parte di ciò ch’avanza ai miserabili, che si raccomandano per aiuto alle loro necessità, e questo atto di compassione, vi disporrà il cuore ad un salutare pentimento.

SECONDA PARTE

Non indugiate più à convertirvi, perché  Iddio adirato vi volterà le spalle, giacché tante volte finora v’ha chiamato, e voi non avete corrisposto. Il Tamberlano, quel soldato sì generoso che ha fatto più volte patire, e dissi anche doloroso, alla luna ottomana; quando andava all’assedio d’una piazza, subito spiegava bandiera bianca, con cui faceva intendere alle milizie nemiche, che voleva la resa, trovandole restie, inalberava nel secondo giorno la bandiera, rossa; e quando non si arrendessero, faceva, che si esponesse una bandiera nera, acciò intendessero, che non avendo voluto cedere agl’inviti, sarebbero stati tutti preda di morte. Così appunto farà Iddio con voi: ha spiegato bandiera bianca, chiamandovi ad una vera conversione con ispirazioni per mezzo di Sacerdoti e Predicatori; ha spiegata la rossa, mandandovi delle tribolazioni: ecco che spiegherà la terza nera, che altro non vuol dire che morte, e morte eterna. Cari UU. qua si tratta del maggior negozio di tutti. Voi sapete che Eliezer, come si narra nella Genesi, famoso servo d’Abramo, dopo un disastroso viaggio arrivò a Nacor città di Mesopotamia, per cercar sposa di conto al giovane Isacco. Subito giunto, fu cortesemente ricevuto, ed ognuno diedegli segni di non ordinario affetto, compatendolo del lungo viaggio ed offrendogli ristoro: Et appositus est panis in conspectu ejus: Eliezer però rivolto verso di coloro che gli ammannirono la tavola, gli disse: non vi affrettate no, perché vi giuro che non prenderò boccone, se prima non vi avrò esposte le mie ambasciate: non comedam donec loquar sermones meos: e così in piedi prima di deporre gli abiti di campagna, non solo espose i desideri di Abramo, le preminenze d’Isacco, le ricchezze, e che so io, ma volle interamente concludere il parentado e fermar le nozze, e così ne ritrasse risposta concludente: eh Rebecca, En tolle eam, fit uxor domini tui; gran fretta, direte voi, di questo servo, gran furia? Poteva riposare, poteva cibarsi, e poi parlare, e poi concludere; e non è così; chi ha negozi grandi di premura, non ammette dimore, non comedam, non comedam donec loquar sermones. In hoc ostendit, dice il Lirano, babere negotium sibi impositum cordi; così appunto avete da far voi dove si tratta di anima. Siete caduti in peccato? Dite ancor voi non comedam, finché non abbia vomitato a’ piedi del Sacerdote il mio misfatto; avete fraudata la mercede al povero? Non comedam, finché io non gli abbia appieno soddisfatto; avete infamata quella fanciulla, quella maritata, quella vedova, quel Sacerdote? Non comedam, finché non li ho riposti nel suo onore, perché so, che se tarderò, questa mia conversione mi si renderà difficile dalla parte mia, dalla parte del diavolo, dalla parte di Dio. Queste tre difficoltà esperimentò quella rea femmina nella città di Viterbo, alla di cui morte si trovò uno de’ nostri Padri che a me ha narrata la funesta tragedia. Si ridusse alla morte questa empia; da’ parenti fu chiamato un nostro Padre per assisterla; andò, e vedutala le disse: vi conosco moribonda; eccomi in aiuto dell’anima vostra, per assolvervi da’ vostri peccati. Non voglio assoluzione, arrabbiata rispose la donna. Come, e non volete riconciliarvi con Dio? No, che Egli non mi vuol più! Non è così; sperate… appunto e non vedete, che la mia camera è piena di diavoli che mi vogliono strozzare? Dite almeno queste parole: credo; non posso … perché? Non credo; dite: spero … non posso, perché? Son disperata; dite amo: questo no, no, che non l’amo. E voi siete fuori di voi… non è così, sono in me, non deliro; voi siete il Padre tale, e quella è la mia comare; conosco tutti, non v’è più rimedio per me; è impossibile la mia salute per la parte mia, che ho il cuore indurato; per la parte de’ diavoli, che mi circondano come sua, per la parte di Dio, che mi ha voltato le spalle, ed in così dire apparve come strozzata da’ diavoli, e divenne nera come un carbone,
pestilente come una sozza cloaca. Peccatori non tardate a convertirvi per non trovarvi in questi frangenti. Ricordatevi, che gli Apostoli agitati dalla tempesta del mare non conobbero Cristo, ma lo stimarono fantasma; e la ragione si è perché: erat quarta vigilia noctis. Questo interverrà a voi, se indugerete a convertirvi; non conoscerete il Redentore… putabitis phantasma. Vi porrà il confessore avanti gl’occhi il Crocifisso, e voi inorridito, striderete, fantasme … mirate vi dirà, quei chiodi, son chiavi per aprirvi il Paradiso: fantasme … Queste Piaghe son porte per le quali si entra in Cielo: fantasme … Questo Sangue è il prezzo che riscatta dall’inferno: fantasme. In somma perché indugiaste a convertirvi, abbandonato da voi, da Gesù, darete nelle mani de’ demoni vostri nemici, che Iddio ve ne scampi.

QUARESIMALE (XXVI)