LUNEDI’ SANTO

LUNEDI’ SANTO

[Dom Guéranger: L’Anno Liturgico, Ed. Paoline, Alba, 1956]

Il fico maledetto.

Gesù si reca anche oggi a Gerusalemme, di buon mattino coi discepoli. Partì digiuno, e il Vangelo ci dice ch’ebbe fame durante il tragitto (Mt. XXI, 18), S’avvicinò ad un fico; ma questo albero non aveva che foglie. Allora Gesù, Volendoci dare un insegnamento, maledisse quel fico, che inaridì all’istante. Voleva significare con tale castigo la sorte di coloro che hanno solo dei buoni desideri, sui quali però non si coglie mai il frutto della conversione. Non era meno incisiva l’allusione a Gerusalemme; questa città tanto zelante per l’esteriorità del culto divino aveva il cuore cieco e duro, tanto che fra poco rigetterà e metterà in croce il Figlio del Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe. La giornata trascorse in gran parte nel Tempio, ove Gesù ebbe lunghe discussioni coi prìncipi dei sacerdoti e con gli anziani del popolo; e parlò con più forza che mai, sventando le insidie delle loro questioni. Si può vedere, specialmente nei capitoli 21, 22, 23 di S. Matteo, il dettaglio dei discorsi del Signore, che diventando sempre più veementi, con energia sempre crescente denunciano ai Giudei la loro infedeltà e la terribile vendetta da essa provocata.

Il castigo di Gerusalemme.

Infine, Gesù uscì dal Tempio e si diresse verso Betania. Giunto sul monte degli Olivi, dal quale si dominava la città, si sedette un po’. I suoi discepoli approfittarono di questo momento di riposo per domandargli in qual tempo si dovevano avverare i castighi da Lui ora predetti contro il Tempio. Allora Gesù, riunendo in uno stesso quadro profetico il disastro di Gerusalemme e la distruzione del mondo alla fine dei tempi, essendo la prima di queste calamità la figura della seconda, annunciò ciò che accadrà quando sarà colma la misura del peccato. Per quanto concerne la rovina di Gerusalemme in particolare, ne fissò la data con queste parole: « In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto ciò non avvenga » (Mt. XXIV, 34). Infatti, solo dopo appena quarant’anni l’esercito romano, accorso per sterminare il popolo deicida, minacciava dall’alto dello stesso monte degli Olivi, e dallo stesso posto dove oggi è seduto Gesù, l’ingrata e sdegnosa Gerusalemme. Gesù, dopo aver parlato ancora a lungo sul giudizio divino, che un giorno dovrà revisionare tutti i giudizi degli uomini, rientra in Betania per consolare con la sua presenza il cuore afflitto della sua santissima Madre. – Oggi la Stazione, a Roma, è nella chiesa di S. Prassede. Questa chiesa, nella quale, nel IX secolo, il Papa S. Pasquale I depose duemila e trecento corpi di Martiri estratti dalle Catacombe, possiede la colonna alla quale fu legato Nostro Signore durante il supplizio della flagellazione, un’insigne reliquia della Croce, tre spine della santa Corona date da S. Luigi e le reliquie di S. Carlo Borromeo.

Lettura (Is. 50, 5-10). – In quei giorni: Isaia disse: Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio, ed io non resisto, non mi ritiro indietro. Ho abbandonato il mio corpo ai percotitori, le mie guance a chi mi strappava la barba, non ho allontanata la faccia da chi mi oltraggiava e da chi mi sputacchiava. Il Signore Dio è mio aiuto, per questo non sono stato confuso, per questo ho ridotto la mia faccia come pietra durissima, e so di non rimanere confuso. Mi sta vicino colui che mi giustifica: chi mi contraddirà? Presentiamoci insieme! Chi è il mio avversario? Si accosti a me! Ecco, il Signore Dio è mio aiuto. Chi è che possa condannarmi? Ecco tutti saran consumati, come un vestigio, li mangerà la tignola. Chi è tra voi che tema il Signore e ascolti la voce del suo servo? Chi cammina nelle tenebre ed è senza luce speri nel Signore e a lui s’appoggi.

Le prove del Messia.

Oggi è Isaia, questo Profeta così preciso ed eloquente dei dolori del Messia, che ci rivela le sofferenze del Redentore e la pazienza che oppone agl’iniqui maltrattamenti dei suoi nemici. Accettata la missione di Vittima universale, Gesù non indietreggia davanti a nessun dolore, a nessuna umiliazione. « Non ritira la sua faccia da chi la schiaffeggia e la copre di sputi ». Quali riparazioni non dobbiamo fare alla sovrana Maestà che, per salvarci, s’è esposta a simili oltraggi? Guardate come sono vigliacchi e crudeli i Giudei, che non tremano più davanti alla loro vittima! Prima, nell’Orto degli Olivi, una sola parola della sua bocca li fa cadere tramortiti al suolo; ma poi si lascia legare e trascinare in casa del gran sacerdote. Lo si accusa, elevando schiamazzi; ed Egli, a mala pena, risponde qualche parola. Gesù di Nazaret, il dottore, il taumaturgo, ha perduto ogni prestigio; tutto è lecito osare contro di Lui. Alla stessa maniera si tranquillizza il peccatore, quando sente scoppiare la folgore che non lo fulmina. Ma i santi Angeli si sprofondano nel loro nulla, davanti all’augusto volto che quei miserabili hanno contuso ed imbrattato; pure noi prostriamoci con essi e propiziamolo, perché anche i nostri peccati hanno maltrattato la divina vittima. – Ma ascoltiamo le ultime parole del nostro Salvatore, e ringraziamolo. « Chi cammina nelle tenebre, Egli dice, ed è senza luce, speri nel Signore ». Questi è il pagano, che vive affogato nel vizio e nell’idolatria ed ignora ciò che succede in questo momento a Gerusalemme; egli non sa che la terra possiede un Uomo-Dio, e che questo Uomo-Dio è, in questa medesima ora, messo sotto i piedi da un popolo che aveva eletto e colmato di favori; ma presto la luce del Vangelo arriverà ad illuminare coi suoi raggi l’infedele, il quale crederà, si sottometterà, ed amerà il suo liberatore fino a rendergli vita per vita, sangue per sangue. Allora s’avvererà la profezia dell’indegno pontefice che, suo malgrado, annunciò la salvezza dei Gentili mediante la morte di Gesù; predisse, nei suoi ultimi giorni, che questa morte stava per unire in un’unica famiglia i figli di Dio dispersi sulla faccia della terra.

Vangelo (Gv. XII-1-9). – Sei giorni prima di Pasqua Gesù andò a Betania, dov’era Lazzaro, il morto che Gesù aveva risuscitato. Ed ivi gli fecero una cena: e Marta serviva a tavola: Lazzaro poi era uno dei commensali. Or Maria, presa una libbra d’unguento di nardo puro e di pregio, unse i piedi di Gesù e glieli asciugò coi suoi capelli, e la casa fu ripiena del profumo d’unguento. Disse allora uno dei suoi discepoli. Giuda Iscariote, il quale stava per tradirlo: E perché tale unguento non si è venduto per trecento denari e dato ai poveri? Ciò disse, non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro, e tenendo la borsa, portava via quel che ci mettevano dentro. Disse adunque Gesù: Lasciatela fare: e ciò le valga pel giorno della mia sepoltura. Ché i poveri li avete sempre con voi, me però non sempre mi avrete. Or molta gente dei Giudei venne a sapere come Gesù fosse in Betania, e vi andarono non per Gesù soltanto, ma anche per vedere Lazzaro, da lui risuscitato da morte.

L’unzione di Betania

Abbiamo già notato che il fatto evangelico ora letto si riferisce al Sabato, vigilia della Domenica delle Palme, e fu inserito nella Messa odierna, perché anticamente questo Sabato mancava della Stazione. La santa Chiesa ha voluto attirare la nostra attenzione su questo episodio degli ultimi giorni del Redentore, per farci cogliere l’insieme delle circostanze che si verificano in quel momento intorno a Lui. Maria Maddalena, la cui conversione era, qualche giorno fa, l’oggetto della nostra ammirazione, occupa un posto nelle scene della Passione e della Risurrezione del suo Maestro. Tipo dell’anima purificata, e quindi ammessa ai favori celesti, c’interessa seguirla nelle diverse fasi che la grazia divina le fa percorrere. L’abbiamo vista seguire i passi del Salvatore e soccorrerlo nei suoi bisogni; altrove il santo Vangelo ce la fa vedere preferita a Marta sua sorella, per aver scelto la parte migliore; nei giorni in cui siamo, ella soprattutto c’interessa per il suo tenero attaccamento a Gesù. Ella sa che lo cercano per farlo morire: e lo Spirito Santo, che la conduce interiormente attraverso stati sempre più perfetti che si susseguono in lei, vuole che oggi compia una funzione profetica in ciò ch’ella teme maggiormente. – Dei tre doni offerti dai Magi, uno significava la morte del Re divino, che questi uomini fedeli erano venuti a salutare dal lontano Oriente: era la mirra, un profumo funerario che fu adoperato con tanta profusione nella sepoltura del Signore. Abbiamo visto la Maddalena, nel giorno della sua conversione, testimoniare il suo mutamento di vita con l’effusione del suo più prezioso profumo sui piedi di Gesù. Oggi ella ricorre ancora una volta a questo segno del suo amore. Il suo divin Maestro è a tavola in casa di Simone il Lebbroso; Maria sta con Lui, come anche i discepoli; Marta attende a servirli; tutto è calmo nella casa; ma tristi presentimenti si nascondono nei loro cuori. All’improvviso compare la Maddalena, recando tra le mani un vaso ripieno d’unguento di nardo, del più pregevole. Si accosta a Gesù, s’attacca ai suoi piedi e li unge con quel profumo; ed anche questa volta li asciuga coi suoi capelli. Gesù stava adagiato sopra uno di quei divani che adoperano gli Orientali, quando pranzano nei festini; era dunque agevole, per la Maddalena, arrivare ai piedi del Maestro. Due degli Evangelisti, di cui S. Giovanni ha voluto completare la narrazione troppo succinta, ci dicono ch’ella sparse l’odoroso unguento anche sul capo del Salvatore. La Maddalena sentì, forse, in questo momento, tutta la grandezza dell’azione che lo Spirito divino le ispirava? Il Vangelo non lo dice; ma Gesù ne rivelò il mistero ai discepoli; e noi, che abbiamo raccolte le sue parole, apprendiamo da questo fatto che la Passione del Redentore è, per così dire, incominciata, poiché la Maddalena l’ha già imbalsamato per la tomba. – L’odore soave e penetrante del profumo aveva riempito tutta la sala. Allora uno dei discepoli, Giuda Iscariote, ardisce protestare contro ciò ch’egli chiama uno sperpero. La bassezza di quest’uomo e la sua avarizia l’hanno reso indelicato e senza pudore. Ma intanto anche la voce di altri discepoli s’unisce alla sua: tanto erano ancora volgari i loro sentimenti! Gesù permette tale indegna protesta per diversi motivi: prima di tutto per annunciare prossima la sua morte a coloro che lo circondavano, svelando loro il segreto manifestato con questa effusione di profumo sul suo corpo; poi anche per glorificare la Maddalena, che aveva un amore così tenero ed insieme così ardente. Difatti annunciò allora che la fama di questa illustre santa si sarebbe propagata per tutta la terra, lontano, ovunque fosse penetrato il Vangelo. Infine, Gesù intendeva consolare fin d’allora quelle anime pie che, mosse dal suo amore, avrebbero profuse larghezze intorno ai suoi altari, e rivendicare le meschine critiche cui spesso sarebbero andate incontro. Raccogliamo questi divini insegnamenti e procuriamo d’onorare amorosamente Gesù nella sua persona e nei suoi poveri. Onoriamo anche la Maddalena, e seguiamola, quando fra breve la vedremo così assidua al Calvario ed al Sepolcro. Infine, prepariamoci ad imbalsamare il nostro Salvatore, mettendo insieme per la sua sepoltura la mirra dei Magi, che figura la penitenza, ed il prezioso nardo della Maddalena, che rappresenta l’amore generoso e compassionevole.

PREGHIAMO

Aiutaci, o Dio nostro Signore, e concedici di venire con gioia a celebrare i benefìci, coi quali ti sei degnato rinnovarci.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – “SPESSE VOLTE”

La lettera Enciclica “Spesse volte”, scritta in italiano e rivolta ai Vescovi italiani in occasione della promulgazione di inique leggi volte a sopprimere tante associazioni cattoliche, è una dolorosa testimonianza dell’insania morale anticlericale, ma in verità antidivina ed anticristica, ed in definitiva antisociale, delle correnti socialiste ed anarchiche che spinte dalle sette massoniche dominavano il parlamento italiano, allora come oggi. Ma oggi c’è una situazione diversa e molto più drammatica: al governo, in Italia come quasi in tutte le nazioni del mondo, ci sono esponenti delle varie logge, ma la conventicola-sinagoga del demonio, si è stabilmente radicata nei palazzi apostolici dell’Urbe cattolica, dando vita ad una falsa chiesa che conserva solo la conchiglia esterna di un organismo morto, putrefatto, rinsecchito, arido, sterile, mentre la vera Chiesa di Cristo, è nascosta nel deserto del mondo paganizzato e massonizzato, negli anfratti, nelle catacombe, nelle caverne, impedita nel suo agire, così come il Pontefice massimo, il Vicario di Cristo, sostituito da un usurpante burattino mosso dai fili dei burattinai “illuminati”…. Ma il Santo Padre Leone XIII ci consolava già all’epoca e ci invitava alla pazienza ed alla perseveranza con queste parole, di cui oggi abbiamo più bisogno che mai: « … che se incontraste sul cammino nuove contraddizioni e nuove ostilità, non vi sgomentate: la bontà della vostra causa apparirebbe sempre più luminosa, quando gli avversari, per combatterla, fossero costretti a ricorrere ad armi siffatte; e le prove che dovreste sostenere, aumenterebbero il vostro merito innanzi agli uomini onesti e, ciò che più monta, innanzi a Dio. »


Leone XIII
Spesse volte

Lettera Enciclica

5 agosto 1898
Agli Italiani, sulla soppressione di Associazioni cattoliche.

Spesse volte, nel corso del Nostro Pontificato, mossi dalle sacre ragioni dell’Apostolico ministero, dovemmo levar lamento e protesta in occasione di atti compiuti, a detrimento della Chiesa e della Religione, da coloro che, per vicenda di ben noti rivolgimenti, reggono la cosa pubblica in Italia. Ci duole doverlo fare di nuovo sopra un argomento gravissimo e che Ci riempie l’animo di profonda tristezza. Noi intendiamo parlare della soppressione di tante istituzioni cattoliche, decretata, non ha guari, in varie parti della Penisola. Questa disposizione immeritata ed ingiusta ha sollevato la riprovazione di ogni anima onesta, ed in essa vediamo, con sommo Nostro rammarico, compendiarsi e rincrudire le offese sofferte negli anni trascorsi. Sebbene sia cosa a voi nota, Venerabili Fratelli, pur nondimeno stimiamo opportuno riandare le origini e la necessità di queste istituzioni, frutto delle Nostre sollecitudini e delle vostre amorevoli cure, affinché tutti comprendano il pensiero che le aveva ispirate e lo scopo religioso morale e caritativo a cui erano dirette. – Dopo aver rovesciato il Principato Civile dei Papi, si vennero in Italia togliendo gradatamente alla Chiesa cattolica i suoi elementi di vita e di azione, la sua naturale e secolare influenza nei pubblici e sociali ordinamenti. Con atti progressivi e coordinati a sistema, si chiusero monasteri e conventi; si dissipò, colla confisca dei beni ecclesiastici, la massima parte del patrimonio della Chiesa; s’impose ai chierici il servizio militare; s’inceppò la libertà dell’ecclesiastico ministero con disposizioni arbitrarie ed ingiuste; si mirò con sforzi perseveranti a cancellare da tutte le pubbliche istituzioni l’impronta religiosa e cristiana; si favorirono i culti dissidenti, e mentre si concedeva la più ampia libertà alle sètte massoniche, si riserbavano odiose intolleranze e vessazioni a quella unica religione, che fu sempre gloria, presidio a forza degli Italiani. Noi non mancammo di deplorare questi gravi e ripetuti attentati. Li rimpiangemmo per conto della nostra santa Religione esposta a supremi pericoli; li rimpiangemmo eziandio, e ciò diciamo con tutta sincerità del Nostro cuore, per conto della patria nostra; giacché la Religione è sorgente di prosperità e di grandezza per una nazione, e fondamento precipuo di ogni bene ordinata società. Ed infatti, indebolito il sentimento religioso, che eleva e nobilità l’animo, e v’imprime profondamente le nozioni del giusto e dell’onesto, l’uomo inclina e si abbandona ad istinti selvaggi e ad interessi materiali; e da ciò, come logica conseguenza, rancori, scissure, depravazioni, conflitti e turbamento dell’ordine, ai quali mali non sono rimedi sicuri e sufficienti né la severità delle leggi, né i rigori dei tribunali, né l’uso della stessa forza armata. Di questa connessione naturale ed intrinseca tra il decadimento religioso e lo sviluppo dello spirito di sovversione e di disordine, Noi più volte, in atti pubblici diretti agli Italiani, avvertimmo coloro ai quali incombe la formidabile responsabilità del potere, mostrando i progressi immancabili del socialismo e dell’anarchia, ed i mali senza fine a cui essi esponevano la nazione. Ma non fummo ascoltati. Il pregiudizio meschino e settario fe’ velo all’intelligenza, e la guerra contro la religione fu continuata colla stessa intensità. Non solo non fu preso alcun provvedimento; ma dai libri, dai giornali, dalle scuole, dalle cattedre, dai circoli, dai teatri, si proseguì a spargere largamente i germi dell’irreligione e dell’immoralità, a scalzare i principi a cui s’informano i forti ed onesti costumi di un popolo, a diffondere le massime, dalle quali segue inesorabilmente la perversione dell’intelletto e la corruzione del cuore. – Noi allora, Venerabili Fratelli, vedendo periglioso e fosco l’avvenire del nostro Paese, credemmo giunto il momento di alzare la voce, e dicemmo ai Cattolici italiani: la Religione e la società sono in pericolo; è tempo di spiegare tutta la vostra attività, opponendo al male invadente un argine colla parola, colle opere, colle associazioni, coi comitati, colla stampa, coi congressi, colle istituzioni di carità e di preghiera, con tutti i mezzi, infine, pacifici e legali, che siano acconci a mantenere nel popolo il sentimento religioso ed a sollevarne la miseria, cattiva consigliera, resa tanto profonda ed estesa per le depresse condizioni economiche d’Italia. – Tali cose Noi raccomandammo più volte, ed in modo particolare nelle due Lettere già da Noi indirizzate al popolo italiano: in quella del 15 ottobre 1890 e nell’altra dell’8 dicembre 1892 [encicliche “Dall’Alto” e “Custodi della fede“]. – Ci è qui grato dichiarare, che le Nostre esortazioni caddero, su terreno fecondo. Mediante i vostri generosi sforzi, Venerabili Fratelli, e quelli del clero e dei fedeli a voi affidati, si ottennero lieti e salutari effetti, dai quali era facile prevederne anche maggiori in un prossimo avvenire. Centinaia di associazioni e di comitati sorsero in varie parti d’Italia, e dal loro zelo indefesso ebbero origine casse rurali, cucine economiche, dormitori economici, ricreatori festivi, opere catechistiche, assistenza degli infermi, tutela della vedova e del pupillo e tante altre benefiche istituzioni, che furono salutate dalla riconoscenza e dalle benedizioni del popolo, ed ebbero sovente anche da uomini di altro partito ben meritato elogio. Ed i Cattolici, secondo il loro solito, nella esplicazione di questa lodevole operosità cristiana, non avendo nulla da celare, si mostrarono alla luce del giorno e si tennero costantemente nei confini della legalità. – Ma sopraggiunsero le luttuose vicende che, accompagnate da tumulti e spargimenti di sangue cittadino, funestarono alcune contrade d’Italia. Niuno più di Noi soffrì nell’animo e si commosse a quel triste spettacolo (1). Pensammo però, che nelle origini prime di quelle sedizioni e di quelle lotte fraterne, coloro che hanno la direzione della cosa pubblica riconoscerebbero il frutto funesto, ma naturale, del mal seme a larga mano e per sì lungo tempo sparso impunemente in tutta la Penisola; pensammo che risalendo dagli effetti alle cause e traendo profitto dal duro ammaestramento ricevuto, tornerebbero alle norme cristiane del riordinamento sociale, colle quali debbono rinnovarsi le nazioni, se non si vogliono lasciar perire, e perciò porrebbero in onore i principi di giustizia, di probità e di religione, dai quali deriva principalmente anche il benessere materiale di un popolo. Pensammo almeno che, volendo rinvenire autori e complici di quelle sommosse, si avviserebbero a cercarli fra coloro, che avversano la dottrina cattolica, e nel naturalismo e materialismo scientifico e politico infiammano gli animi ad ogni cupidigia disordinata; fra coloro, che nelle ombre di settarie congreghe nascondono i rei intendimenti ed affilano le armi contro l’ordine e la sicurezza della società. – Ed invero non mancò qualche spirito elevato ed imparziale, anche nel campo avverso, che comprese ed ebbe il lodevole coraggio di proclamare pubblicamente le vere cause dei lamentati disordini. Ma grande fu la Nostra sorpresa ed il Nostro dolore quando apprendemmo che, con assurdo pretesto, mal dissimulato dall’artificio, si osava, alfine di deviare l’opinione pubblica e porre ad esecuzione un premeditato disegno, riversare sui Cattolici la stolta accusa di perturbatori dell’ordine e far ricadere sopra di essi il biasimo ed il danno dei sediziosi sconvolgimenti, di cui alcune contrade d’Italia furono teatro. E maggiormente crebbe il Nostro dolore quando a tali calunnie succedendo fatti arbitrari e violenti, si videro sospesi e soppressi molti dei principali e più valorosi giornali cattolici, proscritti comitati per le parrocchie e per le diocesi, disperse adunanze per congressi, rese inerti alcune istituzioni ed altre minacciate fra quelle stesse che hanno per scopo il solo incremento della pietà tra i fedeli, o la pubblica e privata beneficenza; quando si videro disciolte innocue e benemerite società in grandissimo numero, e così distrutto, in poche ore procellose, il lavoro paziente, caritatevole, modesto di molti anni, di molti nobili intelletti, di molti cuori generosi. – Con tale enorme ed odiosa disposizione la pubblica autorità contraddiceva, anzi tutto, alle sue precedenti affermazioni. Per molto tempo, infatti, essa aveva rappresentato le popolazioni della Penisola conniventi e del tutto solidali con lei nell’opera rivoluzionaria ed avversa al Papato; ed ora invece, ad un tratto, veniva a smentire se stessa col ricorrere ad espedienti straordinari per comprimere innumerevoli associazioni sparse in tutta Italia, e ciò non per altro motivo se non perché esse si mostravano affezionate e devote alla Chiesa ed alla causa della Santa Sede. Ma questa disposizione ledeva, soprattutto, i principi di giustizia e le stesse norme delle leggi vigenti. In forza di questi principi e di queste norme è lecito ai Cattolici, come a tutti gli altri cittadini, fruire della libertà di unire in comune i loro sforzi per promuovere il bene morale e materiale del loro prossimo, o per esercitarsi in pratiche di pietà e di religione. Fu dunque arbitrio lo scioglimento di tante benefiche istituzioni cattoliche, che pure esistono tranquille e rispettate in altre nazioni, senza alcuna prova della loro colpabilità, senza alcuna investigazione precedente, senza alcun documento atto a dimostrare la loro partecipazione agli avvenuti disordini. – Fu anche una speciale offesa arrecata a Noi, che avevamo ordinato e benedetto quelle utili e pacifiche associazioni, ed a voi, Venerabili Fratelli, che ne avevate curato e promosso lo sviluppo e vigilato il regolare andamento: la Nostra protezione e la vostra vigilanza dovevano renderle anche maggiormente rispettabili, ed immuni da qualsiasi sospetto. – Né possiamo passare sotto silenzio quanto siffatta disposizione sia perniciosa agl’interessi delle moltitudini; quanto alla conservazione sociale, quanto al vero bene d’Italia. Colla soppressione di quelle società viene ad aumentare la miseria morale e materiale del popolo, ch’esse procuravano con ogni mezzo possibile di mitigare; viene privata la civil comunanza di una forza potentemente conservatrice; giacché la loro organizzazione stessa e la diffusione dei loro principi era un argine contro le teorie sovversive del socialismo e dell’anarchia; viene infine ad accendersi maggiormente il conflitto religioso, che tutti gli uomini scevri da passioni settarie comprendono esser supremamente funesto all’Italia, di cui spezza le forze, la compattezza, l’armonia. – Noi non ignoriamo, che le società cattoliche sono accusate di tendenze contrarie agli attuali ordinamenti politici d’Italia e considerate perciò come sovversive. Siffatta imputazione è fondata sopra un equivoco creato e mantenuto appositamente dai nemici della Chiesa e della Religione per coonestare dinanzi al pubblico il riprovevole ostracismo che essi intendono infliggere alle dette associazioni. Noi vogliamo che tale equivoco sia dissipato per sempre. I Cattolici italiani, in forza degli immutabili e noti principi della loro Religione, rifuggono da cospirazione e ribellione qualsiasi contro i pubblici poteri, ai quali rendono il tributo che ad essi si deve. La loro condotta passata, alla quale tutti gli uomini imparziali possono rendere onorata testimonianza, è garante di quella futura, e ciò dovrebbe bastare ad assicurar loro la giustizia e la libertà a cui hanno diritto tutti i pacifici cittadini. Diremo di più: essendo essi, per la dottrina che professano, i più solidi sostenitori dell’ordine, hanno diritto al rispetto; e se la virtù ed il merito fossero adeguatamente apprezzati, avrebbero anche diritto ai riguardi ed alla gratitudine di chi presiede alla cosa pubblica. Ma i Cattolici italiani, appunto perché Cattolici, non possono rescindere dal volere che al loro Capo supremo sia restituita la necessaria indipendenza e la pienezza della libertà vera ed effettiva, la quale è condizione indispensabile per la libertà e l’indipendenza della Chiesa cattolica. Su questo punto i loro sentimenti non cambieranno né per minacce, né per violenze; essi subiranno l’attuale ordine di cose, ma fino a che questo avrà per scopo la depressione del Papato e per causa la cospirazione di tutti gli elementi antireligiosi e settari, essi non potranno mai, senza violare i loro più sacri doveri, concorrere a sostenerlo colla loro adesione e col loro appoggio. Il richiedere dai Cattolici un positivo concorso al mantenimento dell’attuale ordine di cose, sarebbe pretesa irragionevole ed assurda; poiché ad essi non sarebbe più lecito ottemperare agli insegnamenti ed ai precetti di questa Apostolica Sede, anzi dovrebbero agire in opposizione ai medesimi e dipartirsi dalla condotta che tengono i Cattolici di tutte le altre nazioni. – Quindi è che l’azione dei Cattolici italiani, nelle presenti condizioni di cose, rimanendo estranea alla politica, si concentra nel campo sociale e religioso, e mira a moralizzare le popolazioni, renderle ossequenti alla Chiesa ed al suo Capo, allontanarle dai pericoli del socialismo e dell’anarchia, inculcar loro il rispetto al principio di autorità, sollevarne infine la indigenza colle opere molteplici della carità cristiana. Come, dunque, i Cattolici potrebbero esser chiamati nemici della patria ed esser confusi coi partiti che attentano all’ordine ed alla sicurezza dello Stato? Siffatte calunnie cadono dinanzi al solo buon senso. Esse si fondano su questo concetto, che le sorti, l’unità, la prosperità della nazione consistono nei fatti compiuti a danno della Santa Sede, fatti pur deplorati da uomini punto sospetti, i quali dichiarano apertamente essere immenso errore il provocare un conflitto con quella grande istituzione, che Dio pose in mezzo all’Italia e che fu e rimarrà perpetuamente il suo vanto precipuo ed incomparabile; istituzione prodigiosa che domina la storia, e per la quale l’Italia divenne l’educatrice feconda dei popoli, la testa ed il cuore della civiltà cristiana. Di qual colpa pertanto sono rei i Cattolici quando desiderano il termine del lungo dissidio, sorgente di grandissimi danni per l’Italia nell’ordine sociale, morale e politico; quando domandano che sia ascoltata la voce paterna del loro Capo supremo, che tante volte ha reclamato le dovute riparazioni, mostrando i beni incalcolabili che da esse deriverebbero all’Italia? I nemici veri d’Italia bisogna ricercarli altrove; bisogna ricercarli tra coloro che mossi da spirito irreligioso e settario, chiuso l’animo dinanzi ai mali ed ai pericoli che pesano sulla patria, respingono ogni vera e feconda soluzione del dissidio, e procurano, per i loro riprovevoli disegni, di renderlo sempre più lungo e più acerbo. A questi e non ad altri conviene attribuire la dura disposizione onde vennero colpite tante utili associazioni cattoliche; disposizione che Ci addolora profondamente anche per un altro titolo di ordine più elevato e che non riguarda solamente i Cattolici italiani, ma quelli del mondo intero. Essa mette sempre più in chiaro la condizione penosa, precaria ed intollerabile a cui siamo ridotti. Se alcuni fatti, nei quali i Cattolici non ebbero nulla a che fare, bastarono per decretare la soppressione di migliaia di opere benefiche ed immuni da qualsiasi colpa, nonostante la guarentigia che veniva loro dalle leggi fondamentali dello Stato, ogni uomo sensato ed imparziale comprenderà quale e quanta possa essere l’efficacia delle assicurazioni date dai pubblici poteri per la libertà ed indipendenza del Nostro Apostolico Ministero. Quale è invero la Nostra libertà, quando dopo essere stati spogliati della maggior parte degli antichi presidi morali e materiali, di cui i secoli cristiani avevano arricchito la Sede Apostolica e la Chiesa in Italia, veniamo ora privati anche di quei mezzi di azione religiosa e sociale, che le Nostre sollecitudini e lo zelo ammirabile dell’Episcopato, del clero e dei fedeli avevano riunito a tutela della Religione ed a beneficio del popolo italiano? Quale può essere la Nostra pretesa libertà, quando un’altra occasione, un altro incidente qualsiasi potrebbe servir di pretesto a procedere ancora più oltre nella via delle violenze e degli arbitri e ad infliggere nuove e più profonde ferite alla Chiesa ed alla Religione? Noi segnaliamo questo stato di cose ai Nostri figli d’Italia e a quelli delle altre nazioni. Agli uni e agli altri però diciamo, che, se il Nostro dolore è grande, non minore è il Nostro coraggio, non minore la Nostra fiducia in quella Provvidenza che governa il mondo e che veglia costantemente ed amorosamente sulla Chiesa, la quale s’identifica col Papato, secondo la bella espressione di Sant’Ambrogio: Ubi Petrus ibi Ecclesia. Ambedue sono istituzioni divine che sopravvissero a tutti gli oltraggi, a tutti gli attacchi, che videro immobili passare i secoli, che attinsero aumenti di forza, di energia e di costanza dalla stessa sventura. E quanto a Noi non cesseremo di amare questa bella e nobile nazione da cui sortimmo i natali, lieti di spendere gli ultimi avanzi delle Nostre forze per conservarle il tesoro prezioso della Religione, per mantenere i suoi figli nella sfera onorata della virtù e del dovere, per sollevare, quanto Ci è possibile, le loro miserie.

In questo nobilissimo ufficio voi Ci apporterete, ne siamo sicuri, Venerabili Fratelli, il concorso efficace delle vostre cure e del vostro zelo illuminato e costante. – Continuate nell’opera santa di ravvivare la pietà tra i fedeli, di preservare le anime dagli errori e dalle seduzioni che le circondano da ogni lato, di consolare i poveri e gl’infelici con tutti i mezzi che la carità potrà suggerirvi. Le vostre fatiche non saranno mai sterili, qualunque siano le vicende e gli apprezzamenti umani, perché dirette a più alto fine che non sono le cose di quaggiù; e ad ogni modo esse varranno, qualora fossero osteggiate o distrutte, a liberarvi dal dover rispondere dei danni, che dagl’impedimenti frapposti al vostro pastorale ministero potrebbe risentire l’Italia. Ed a voi, Cattolici italiani, oggetto precipuo delle Nostre sollecitudini e della Nostra affezione, a voi fatti segno a più aspre vessazioni, perché più vicini a Noi e più stretti a questa Sede Apostolica, a voi serva di conforto e di incoraggiamento la Nostra parola e la Nostra ferma assicurazione, che il Papato, come nei secoli trascorsi, in gravi e procellosi avvenimenti, fu guida, difesa e salvezza del popolo cattolico, specialmente d’Italia, così per l’avvenire non verrà meno alla sua grande e salutare missione, col difendere e rivendicare i vostri diritti, coll’assistervi nelle vostre difficoltà, coll’amarvi quanto più bersagliati ed oppressi. Voi avete dato, specialmente in questi ultimi tempi, numerose testimonianze di abnegazione e di operosità nel fare il bene. Non vi perdete di animo; ma tenendovi rigorosamente, come nel passato, entro i limiti della legge e pienamente sottomessi alla direzione dei vostri Pastori, continuate con coraggio cristiano negli stessi propositi. Che se incontraste sul cammino nuove contraddizioni e nuove ostilità, non vi sgomentate: la bontà della vostra causa apparirebbe sempre più luminosa, quando gli avversari, per combatterla, fossero costretti a ricorrere ad armi siffatte; e le prove che dovreste sostenere, aumenterebbero il vostro merito innanzi agli uomini onesti e, ciò che più monta, innanzi a Dio.

Auspice intanto dei Celesti favori e pegno del Nostro specialissimo affetto, sia la Apostolica Benedizione, che dall’intimo del cuore impartiamo a voi, Venerabili Fratelli, al clero ed al popolo italiano.

Dato a Roma presso San Pietro, il 5 agosto 1898, anno XXI del Nostro Pontificato.

Leone PP. XIII.

NOTE

DOMENICA DELLE PALME (2023)

DOMENICA DELLE PALME (2023)

Semidoppio Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

La liturgia di oggi esprime con due cerimonie, l’una tutta piena di gioia, l’altra di tristezza, i due aspetti secondo i quali la Chiesa considera la Croce. Anzi tutto vengono la Benedizione e la Processione delle Palme. Esse traboccano di una santa allegrezza che ci permette, dopo venti secoli, di rivivere la scena grandiosa dell’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme. Poi c’è la Messa di cui i canti e le letture si riferiscono esclusivamente al doloroso ricordo della Passione del Salvatore.

I . — Benedizione delle Palme e Processione.

A Gerusalemme, nel IV secolo, si leggeva in questa Domenica nel luogo medesimo dove i fatti s’erano svolti, il racconto evangelico che ci descrive Cristo, acclamato come Re d’Israele, che prende possesso della sua capitale. In realtà, Gerusalemme non è che l’immagine del regno della Gerusalemme celeste. Poi un Vescovo, montato su un asino, andava dal sommo del Monte Oliveto alla chiesa della Risurrezione, circondato dalla folla che portava delle palme, cantando inni ed antifone. Questa cerimonia era preceduta dalla lettura del passo dell’Esodo riguardante l’uscita dall’Egitto. Il popolo di Dio, accampato all’ombra dei palmizi, vicino alle dodici fonti dove Mosè gli promette la manna, è il popolo cristiano che servendosi di rami dei palmizi attesta che il suo Re, Gesù,viene a liberare le anime dal peccato, conducendole al fonte battesimale e nutrendole con la manna eucaristica.La Chiesa di Roma, adottando questo uso, pare verso il IX secolo, ha aggiunto i riti della Benedizione delle Palme, da cui deriva il nome di Pasqua fiorita dato a questa Domenica. Questa cerimonia è una specie di messa con Orazione propria, Epistola, Vangelo e Prefazio proprio. La consacrazione è sostituita dalla benedizione delle palme e la comunione dalla distribuzione di queste palme. Queste cerimonie hanno un significato simbolico. « Dio, — dice la Chiesa — per un ordine meraviglioso della sua Provvidenza, ha voluto servirsi anche di queste cose sensibili per esprimere l’ammirabile economia della nostra salvezza » poiché « questi rami di palme segnavano la vittoria che stava per esser riportata sul principe della morte e i rami d’ulivo annunciavano l’abbondante effusione della misericordia divina ». « Infatti la colomba annunciò la pace alla terra per mezzo d’un ramoscello d’ulivo », « e le grazie che Dio. moltiplicò su Noè all’uscita dall’arca, e su Mosè che abbandonava. l’Egitto con i figli d’Israele, sono una figura della Chiesa » « che muove incontro a Cristo con opere buone » « con le opere che germogliano dai rami di giustizia » (Orazioni della Benedizione delle Palme). Questo corteo di Cristiani che, con le palme in mano e con il canto dell’osanna sulle labbra, acclamano ogni anno, in tutto il. mondo, attraverso tutte le generazioni, la regalità di Cristo, è composta di tutti i catecumeni, dei penitenti pubblici, e dei fedeli che i sacramenti del Battesimo, della Eucaristia e della Penitenza associeranno, nelle feste di Pasqua, a questo trionfatore glorioso. « È noi, che con integra fede rammentiamo il fatto e il suo significato « …ti preghiamo, Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio, per lo stesso Signor Nostro Gesù Cristo affinché, ciò che il tuo popolo fa oggi esternamente, lo compia spiritualmente, riportando vittoria sul nemico ». Questo rappresenta la processione che si arresta alla porta della Chiesa. Alcuni coristi sono nell’interno, i loro canti s’alternano con quelli dei sacerdoti (Gloria, laus et honor). Processione delle Palme: da una parte sono i « cori angelici », dall’altra i soldati di Cristo, ancora impegnati nel. combattimento, che acclamano per turno il Re della gloria. Ben presto la porta si apre allorché il suddiacono vi avrà bussato per tre volte con l’asta della croce; così la croce di Gesù ci apre il cielo e la processione entra in Chiesa, come gli eletti entreranno un giorno con Cristo nella gloria eterna. — Conserviamo religiosamente nella nostra casa un ramoscello di olivo benedetto. Questo sacramentale, in virtù della preghiera della Chiesa, ci farà ottenere i favori del cielo e renderà più ferma la nostra fede in Gesù che, pieno di misericordia (simboleggiata dall’olivo, di cui l’olio mitiga le piaghe), ha vinto (vittoria simboleggiata dalle palme) il demonio, il peccato e la morte.

2. — Messa della Domenica delle Palme.

La benedizione delle palme si faceva a Santa Maria Maggiore, che a Roma rappresenta Betlemme, dove nacque Colui che i Magi proclamarono « Re dei Giudei ». La processione andava da questa Basilica a quella di S. Giovanni Laterano nella quale si teneva altre volte la Stazione, poiché, essendo dedicata al Santo Salvatore, essa rievoca il ricordo della Passione di cui tratta la Messa  — Il trionfo del Salvatore deve essere preceduto dalla « sua umiliazione fino alla morte e fino alla morte di croce » (Ep.) umiliazione che ci servirà di modello « affinché mettendo a profitto gli insegnamenti della sua pazienza possiamo renderci partecipi anche della sua risurrezione » (Or.).

Benedictio Palmorum

Ant. Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini. O Rex Israël: Hosánna in excélsis.

[Osanna al Figlio di David, benedetto Colui che viene nel nome del Signore. O Re di Israele: Osanna nel più alto dei cieli!]

Orémus.
Bene dic, quǽsumus, Dómine, hos palmárum ramos: et præsta; ut, quod pópulus tuus in tui veneratiónem hodiérna die corporáliter agit, hoc spirituáliter summa devotióne perfíciat, de hoste victóriam reportándo et opus misericórdiæ summópere diligéndo. Per Christum Dominum nostrum.

[Bene ☩ dici Signore, te ne preghiamo, questi rami di palma e concedi che quanto il tuo popolo ha celebrato materialmente in tuo onore, lo compia spiritualmente con somma devozione, vincendo il nemico e corrispondendo con profondo amore all’opera della tua misericordia. Per Cristo nostro Signore.]

De distributione ramorum

Ant. Púeri Hebræórum, portántes ramos olivárum, obviavérunt Dómino, clamántes et dicéntes: Hosánna in excélsisI

[I fanciulli ebrei, portando rami di olivo, andarono incontro al Signore, acclamando e dicendo: Osanna nel più alto dei cieli.].


D
ómini est terra et plenitúdo eius, orbis terrárum et univérsi qui hábitant in eo. Quia ipse super mária fundávit eum et super flúmina præparávit eum.

Ant. Púeri Hebræórum, portántes …

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ.
Quis est iste rex glóriæ? Dóminus fortis et potens: Dóminus potens in prǽlio.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes…

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ. Quis est iste rex glóriæ? Dóminus virtútum ipse est rex glóriæ.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini. .

[I fanciulli Ebrei stendevano le loro vesti sulla via e acclamavano dicendo: Osanna al Piglio di David! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore!]


Omnes gentes pláudite mánibus: iubiláte Deo in voce exultatiónis.
Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis, rex magnus super omnem terram.

Ant. Púeri Hebræórum  …

Subiécit pópulos nobis: et gentes sub pédibus nóstris.
Elegit nobis hereditátem suam: spéciem Iacob quam diléxit.
Ant. Púeri Hebræórum

Ascéndit Deus in iúbilo: et Dóminus in voce tubæ.

Psállite Deo nostro, psállite: psállite regi nostro, psállite.

Ant. Púeri Hebræórum …

Quóniam rex omnis terræ Deus: psállite sapiénter.


Regnávit Deus super gentes: Deus sedit super sedem sanctam suam.
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Príncipes populórum congregáti sunt cum Deo Abraham: quóniam Dei fortes terræ veheménter elevati sunt.

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum.

[Matth. XXI, 1-9]

“In illo témpore: Cum appropinquásset Jesus Jerosólymis, et venísset Béthphage ad montem Olivéti: tunc misit duos discípulos suos, dicens eis: Ite in castéllum, quod contra vos est, et statim inveniétis ásinam alligátam et pullum cum ea: sólvite et addúcite mihi: et si quis vobis áliquid dixerit, dícite, quia Dóminus his opus habet, et conféstim dimíttet eos. Hoc autem totum factum est, ut adimplerétur, quod dictum est per Prophétam, dicéntem: Dícite fíliae Sion: Ecce, Rex tuus venit tibi mansuétus, sedens super ásinam et pullum, fílium subjugális. Eúntes autem discípuli, fecérunt, sicut præcépit illis Jesus. Et adduxérunt ásinam et pullum: et imposuérunt super eos vestiménta sua, et eum désuper sedére tecérunt. Plúrima autem turba stravérunt vestiménta sua in via: álii autem cædébant ramos de arbóribus, et sternébant in via: turbæ autem, quæ præcedébant et quæ sequebántur, clamábant, dicéntes: Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini”.

[In quel tempo: avvicinandosi a Gerusalemme, arrivato a Bètfage, vicino al monte degli ulivi, Gesù mandò due suoi discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio dirimpetto a voi, e subito vi troverete un’asina legata con il suo puledro: scioglietela e conducetemela. E, se qualcuno vi dirà qualche cosa, dite: il Signore ne ha bisogno; e subito ve li rilascerà». Ora tutto questo avvenne perché si adempisse quanto detto dal Profeta: «Dite alla figlia di Sion : Ecco il tuo Re viene a Te, mansueto, seduto sopra di un’asina ed asinello puledro di una giumenta». I Discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro detto. Menarono l’asina ed il puledro, vi misero sopra i mantelli e Gesù sopra a sedere. E molta gente stese i mantelli lungo la strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li spargevano sulla via, mentre le turbe che precedevano e seguivano gridavano: «Osanna al Figlio di Davide; benedetto Colui che viene nel nome del Signore».]

De processione cum ramis benedictis

Procedámus in pace.

Occúrrunt turbæ cum flóribus et palmis Redemptóri óbviam: et victóri triumphánti digna dant obséquia: Fílium Dei ore gentes prædicant: et in laudem Christi voces tonant per núbila: «Hosánna in excélsis».

[Con fiori e palme le folle vanno ad incontrare il Redentore e rendono degno ossequio al Vincitore trionfante. Le nazioni lo proclamano Figlio di Dio e nell’etere risuona a lode di Cristo un canto: Osanna nel più alto dei cieli!]

Cum Angelis et púeris fidéles inveniántur, triumphatóri mortis damántes: «Hosánna in excélsis».

[Facciamo di essere anche noi fedeli come gli Angeli ed i fanciulli, acclamando al vincitore della morte: Osanna nel più alto dei cieli!]


Turba multa, quæ convénerat ad diem festum, clamábat Dómino: Benedíctus, qui venit in nómine Dómini: «Hosánna in excélsis».

[Immensa folla, convenuta per la Pasqua, acclamava ai Signore: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!]

Cœpérunt omnes turbæ descendéntium gaudéntes laudáre Deum voce magna, super ómnibus quas víderant virtútibus, dicéntes: «Benedíctus qui venit Rex in nómine Dómini; pax in terra, et glória in excélsis».

[Tutta la turba dei discepoli discendenti dal monte Oliveto cominciò con letizia a lodar Dio ad alta voce per tutti i prodigi che aveva veduti dicendo: Benedetto il Re che viene nel nome del Signore; pace in terra e gloria nell’alto dei cieli.]

Hymnus ad Christum Regem

Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.

Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.

Israël es tu Rex, Davidis et ínclita proles: Nómine qui in Dómini, Rex benedícte, venis.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.

Coetus in excélsis te laudat caelicus omnis, Et mortális homo, et cuncta creáta simul.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium. Plebs Hebraea tibi cum palmis óbvia venit: Cum prece, voto, hymnis, ádsumus ecce tibi.

Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.

Hi tibi passúro solvébant múnia laudis: Nos tibi regnánti pángimus ecce melos.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.

Hi placuére tibi, pláceat devótio nostra: Rex bone, Rex clemens, cui bona cuncta placent.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium

[Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.

Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.

Tu sei il Re di Israele, il nobile figlio di David, o Re benedetto che vieni nel nome del Signore.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
L‘intera corte angelica nel più alto dei cieli, l’uomo mortale e tutte le creature celebrano insieme le tue lodi.

Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Il popolo Ebreo ti veniva dinanzi con le palme, ed eccoci dinanzi a te, con preghiere, con voti e cantici.

Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.

Essi ti offrivano il tributo del loro omaggio, quando tu andavi a soffrire; noi eleviamo questi canti a te che ora regni.

Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.

Ti piacquero essi: ti piaccia anche la nostra devozione, o Re di bontà, Re clemente, a cui ogni cosa buona piace.

Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.]

Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Psalmus CXLVII

Lauda, Jerúsalem, Dóminum: * lauda Deum tuum, Sion.

Quóniam confortávit seras portárum tuárum: * benedíxit fíliis tuis in te.

Qui pósuit fines tuos pacem: * et ádipe fruménti sátiat te.

Qui emíttit elóquium suum terræ: * velóciter currit sermo ejus.

Qui dat nivem sicut lanam: * nébulam sicut cínerem spargit.

Mittit crystállum suam sicut buccéllas: * ante fáciem frígoris ejus quis sustinébit?
Emíttet verbum suum, et liquefáciet ea: * flabit spíritus ejus, et fluent aquæ.

Qui annúntiat verbum suum Jacob: * justítias, et judícia sua Israël.
Non fecit táliter omni natióni: * et judícia sua non manifestávit eis. Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Fulgéntibus palmis prostérnimur adveniénti Dómino: huic omnes occurrámus cum hymnis et cánticis, glorificántes et dicéntes: «Benedíctus Dóminus».

[Di festosi rami ornati, ci prostriamo al Signor che viene: a Lui incontro corriamo tra inni e canti, Lui glorifichiamo dicendo: Benedetto il Signore!]

Ave, Rex noster, Fili David, Redémptor mundi, quem prophétæ praedixérunt Salvatórem dómui Israël esse ventúrum. Te enim ad salutárem víctimam Pater misit in mundum, quem exspectábant omnes sancti ab orígine mundi, et nunc: «Hosánna Fílio David. Benedíctus qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis».

[Ave, o nostro Re, Figlio di David, Redentore del mondo, preannunciato dai Profeti come Salvatore venuto per la casa d’Israele. Il Padre mandò Te come vittima di redenzione per il mondo; T’aspettavano tutti i santi sin dall’origine del mondo, ed ora: Osanna, Figlio di David. Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei Cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.

Ingrediénte Dómino in sanctam civitátem, Hebræórum púeri resurrectiónem vitæ pronuntiántes,
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis».

Cum audísset pópulus, quod Jesus veníret Jerosólymam, exiérunt óbviam ei.
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis».

[Mentre il Signore entrava nella città santa, i fanciulli ebrei proclamavano la risurrezione alla vita,

Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!
Avendo il popolo sentito che Gesù si avvicinava a Gerusalemme, gli mosse incontro
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.

[Signor Gesù Cristo, Re e Redentore nostro, in onore del quale abbiamo cantato lodi solenni, portando questi rami, concedi propizio che la grazia della tua benedizione discenda dovunque questi rami saranno portati e che la tua destra protegga i redenti togliendo di mezzo a loro ogni iniquità ed illusione diabolica. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.]

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XXI: 20 et 22.

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

[Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Ps XXI:2 Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti? longe a salúte mea verba delictórum meórum.

[Dio mio, Dio mio, guardami: perché mi hai abbandonato? La salvezza si allontana da me alla voce dei miei delitti].

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

[Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Omnípotens sempitérne Deus, qui humáno generi, ad imitandum humilitátis exémplum, Salvatórem nostrum carnem súmere et crucem subíre fecísti: concéde propítius; ut et patiéntiæ ipsíus habére documénta et resurrectiónis consórtia mereámur.

[Onnipotente eterno Dio, che per dare al genere umano un esempio d’umiltà da imitare, volesti che il Salvatore nostro s’incarnasse e subisse la morte di Croce: propizio concedi a noi il merito di accogliere gli insegnamenti della sua pazienza, e di partecipare alla sua risurrezione.]

Epistola

Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses. Phil II: 5-11

“Fratres: Hoc enim sentíte in vobis, quod et in Christo Jesu: qui, cum in forma Dei esset, non rapínam arbitrátus est esse se æqualem Deo: sed semetípsum exinanívit, formam servi accípiens, in similitúdinem hóminum factus, et hábitu invéntus ut homo. Humiliávit semetípsum, factus oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltávit illum: ei donávit illi nomen, quod est super omne nomen: hic genuflectitur ut in nómine Jesu omne genuflectátur cœléstium, terréstrium et inférnorum: et omnis lingua confiteátur, quia Dóminus Jesus Christus in glória est Dei Patris.”

[“Fratelli: Siano in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo, il quale, essendo della natura di Dio, non ritenne come una preda la sua parità con Dio, ma spogliò se stesso, prendendo la natura dì servo, divenuto simile agli uomini, e all’aspetto riconosciuto quale uomo. Abbassò, se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sublimato, e gli ha dato un nome superiore a ogni altro nome; perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, sulla terra e nell’inferno, e ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre”.]

LA GRANDE UMILIAZIONE.

Entriamo oggi nella Settimana Santa, durante la quale la Chiesa ci fa rivivere giorno per giorno; starei per dire ora per ora il mistero della passione e della morte di Gesù, segreto della nostra Redenzione. San Paolo nel brano della sua Epistola a quei di Filippi che forma la lettura di questa domenica ci dà la chiave, il segreto, la filosofia di questo mistero. Come ci redime N. Signore Gesù? Disfacendo pezzo per pezzo l’opera del peccato. Egli è il novello Adamo, antitesi dell’antico. La Passione è la negazione delle colpe antiche. Il riscontro ha persino dei lati materiali: da un giardino all’altro, dal giardino delle colpe all’orto dell’espiazione. Là e qua un albero; là l’albero della morte, qua l’albero della vita, la Croce. È la colpa d’Adamo la colpa classica e tipica, che cosa è essa mai? Due parole la descrivono, la definiscono, due brevi tremende parole: orgoglio e piacere, piacere ed orgoglio. L’orgoglio primeggia per chi approfondisce le cose. E la grande, la classica espiazione sarà il rovescio: umiltà e dolore. Un capolavoro di umiltà, come la colpa classica fu un capolavoro di orgoglio. Ci sono anche i capolavori del male. Paolo canta questa eroica umiltà del Verbo Incarnato, Gesù Cristo; l’accento del suo discorso è lirico, la sostanza è d’una logica stringente. L’umiltà è nei due poli: Verbo — Incarnato, Dio — uomo. Era nella forma di Dio, dice San Paolo, poteva senza scrupolo, senza timor di usurpazione dirsi uguale a Dio, senza timore d’ingiustizia e di usurpazione, non come Adamo che usurpò, volle usurpare quella uguaglianza. Era nella forma di Dio e volle prendere forma di schiavo. « Humiliavit semetìpsum formam servi accipìens ». Padrone, volle diventare servo. È la forma specifica e logicamente efficace della umiliazione espiatrice. Perché l’orgoglio del colpevole Adamo era stato un orgoglio ribelle, un orgoglio affermatosi proprio lì, non voler obbedire alla legge, accettare la servitù, sottostare alla padronanza e signoria divina: ribellione alla legge. La soggezione volontaria distrugge, disfà la volontaria ribellione. Tanto più e tanto meglio perché dalle due parti le cose si spingono all’eroismo, l’eroismo della morte. Adamo affronta la morte con la sua ribellione. C’è la taglia della morte come sanzione del precetto di Dio, ed Adamo malgrado questa sanzione calpesta questo divieto. Eroico, malamente, ma eroico, eroico di un eroismo protervo, ma eroismo. Splendidamente, nobilmente eroica sarà l’espiazione di Gesù obbediente, nota San Paolo, fino alla morte, e che morte! La più ignominiosa e la più crudele. La più ignominiosa perché l’umiltà eroica del sacrificio ubbidiente sia autentica e perché all’umiltà il sacrificio del Martire del Golgota accoppi il dolore, lo strazio — antitesi e antidoto del piacere. Non si potrebbe essere più brevi, succosi e profondi di quello che è San Paolo in queste poche linee, le quali ci rivelano non solo il mistero intimo di quella colpa e di questa espiazione, ma di ogni colpa e di ogni espiazione, di ogni colpa per farla detestare, di ogni espiazione per farla amare. Ma l’antitesi continua anche nella catastrofe dei due drammi. Perché l’epilogo del dramma della colpa è un disastro: il ribelle è battuto, l’orgoglioso è, giustamente, umiliato. Nello sforzo di erigersi oltre misura, si esaurisce e si accascia il gigante, il Capaneo, Adamo. Nello sforzo nobile della sua umiliazione si aderge Gesù o, per usare la propria frase di San Paolo, quel Dio davanti a cui Gesù (nella sua e colla sua umanità) si è umiliato « lo esaltò e gli diede un Nome superiore ad ogni altro, affinché in quel Nome e davanti ad esso tutti genuflettano in cielo, in terra e negli abissi ». L’epilogo dell’apoteosi per l’umiltà. Cerchiamo di essere primi in questa genuflessione; cerchiamo di farla più che nessun altro, alla scuola di Paolo, conscia e profonda.

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Graduale

Ps LXXII:24 et 1-3 Tenuísti manum déxteram meam: et in voluntáte tua deduxísti me: et cum glória assumpsísti me.

[Tu mi hai preso per la destra, mi hai guidato col tuo consiglio, e mi ‘hai accolto in trionfo.]

Quam bonus Israël Deus rectis corde! mei autem pæne moti sunt pedes: pæne effúsi sunt gressus mei: quia zelávi in peccatóribus, pacem peccatórum videns.

[Com’è buono, o Israele, Iddio con chi è retto di cuore. Per poco i miei piedi non vacillarono; per poco i miei passi non sdrucciolarono; perché io ho invidiato i peccatori, vedendo la prosperità degli empi.]

Tractus

Ps. XXI: 2-9, 18, 19, 22, 24, 32

Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti?

Longe a salúte mea verba delictórum meórum.

Deus meus, clamábo per diem, nec exáudies: in nocte, et non ad insipiéntiam mihi.

Tu autem in sancto hábitas, laus Israël.

In te speravérunt patres nostri: speravérunt, et liberásti eos.

Ad te clamavérunt, et salvi facti sunt: in te speravérunt, et non sunt confusi.

Ego autem sum vermis, et non homo: oppróbrium hóminum et abjéctio plebis.

Omnes, qui vidébant me, aspernabántur me: locúti sunt lábiis et movérunt caput.

Sperávit in Dómino, erípiat eum: salvum fáciat eum, quóniam vult eum.

Ipsi vero consideravérunt et conspexérunt me: divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt mortem.

Líbera me de ore leónis: et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

Qui timétis Dóminum, laudáte eum: univérsum semen Jacob, magnificáte eum.

Annuntiábitur Dómino generátio ventúra: et annuntiábunt coeli justítiam ejus.

Pópulo, qui nascétur, quem fecit Dóminus.

[Dio, Dio mio, volgiti a me: perché mi hai abbandonato?
V. La voce dei miei delitti allontana da me la mia salvezza.
V. Dio mio, grido il giorno, e non rispondi: la notte, e non c’è requie per me.
V. Eppure tu abiti nel santuario, o gloria d’Israele.
V. In te confidavano i nostri padri: confidavano, e tu li liberavi.
V. A te gridavano, ed erano salvati: in te confidavano, e non avevano da arrossire.
V. Ma io sono un verme, e non un uomo: lo zimbello della gente, e il rifiuto della plebe.
V. Tutti quelli che mi vedevano, si facevano beffe di me: storcevano la bocca e scrollavano il capo.
V. Ha confidato nel Signore, lo salvi, giacché gli vuol bene.
V. Essi mi osservarono e tennero gli occhi su di me: si spartirono le mie vesti, e tirarono a sorte la mia tunica.
V. Salvami dalle zanne del leone: dalle corna degli unicorni salva la mia pochezza.
V. Voi che temete il Signore, lodatelo: voi tutti, o prole di Giacobbe. glorificatelo.
V. Sarà chiamata col nome del Signore la generazione che verrà; e i cieli annunzieranno la giustizia di lui.
V. Al popolo che sorgerà, e che sarà opera del Signore.]

Evangelium

Pássio Dómini nostri Jesu Christi secúndum Matthǽum.

[Matt XXVI:1-75; XXVII:1-66].

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: J. Scitis, quid post bíduum Pascha fiet, et Fílius hóminis tradétur, ut crucifigátur. C. Tunc congregáti sunt príncipes sacerdótum et senióres pópuli in átrium príncipis sacerdótum, qui dicebátur Cáiphas: et consílium fecérunt, ut Jesum dolo tenérent et occíderent. Dicébant autem: S. Non in die festo, ne forte tumúltus fíeret in pópulo. C. Cum autem Jesus esset in Bethánia in domo Simónis leprósi, accéssit ad eum múlier habens alabástrum unguénti pretiósi, et effúdit super caput ipsíus recumbéntis. Vidéntes autem discípuli, indignáti sunt, dicéntes: S. Ut quid perdítio hæc? pótuit enim istud venúmdari multo, et dari paupéribus. C. Sciens autem Jesus, ait illis: J. Quid molésti estis huic mulíeri? opus enim bonum operáta est in me. Nam semper páuperes habétis vobíscum: me autem non semper habétis. Mittens enim hæc unguéntum hoc in corpus meum, ad sepeliéndum me fecit. Amen, dico vobis, ubicúmque prædicátum fúerit hoc Evangélium in toto mundo, dicétur et, quod hæc fecit, in memóriam ejus. C. Tunc ábiit unus de duódecim, qui dicebátur Judas Iscariótes, ad príncipes sacerdótum, et ait illis: S. Quid vultis mihi dare, et ego vobis eum tradam? C. At illi constituérunt ei trigínta argénteos. Et exínde quærébat opportunitátem, ut eum tráderet. Prima autem die azymórum accessérunt discípuli ad Jesum, dicéntes: S. Ubi vis parémus tibi comédere pascha? C. At Jesus dixit: J. Ite in civitátem ad quendam, et dícite ei: Magíster dicit: Tempus meum prope est, apud te fácio pascha cum discípulis meis. C. Et fecérunt discípuli, sicut constítuit illis Jesus, et paravérunt pascha. Véspere autem facto, discumbébat cum duódecim discípulis suis. Et edéntibus illis, dixit: J. Amen, dico vobis, quia unus vestrum me traditúrus est. C. Et contristáti valde, coepérunt sínguli dícere: S. Numquid ego sum, Dómine? C. At ipse respóndens, ait: J. Qui intíngit mecum manum in parópside, hic me tradet. Fílius quidem hóminis vadit, sicut scriptum est de illo: væ autem hómini illi, per quem Fílius hóminis tradétur: bonum erat ei, si natus non fuísset homo ille. C. Respóndens autem Judas, qui trádidit eum, dixit: S. Numquid ego sum, Rabbi? C. Ait illi: J. Tu dixísti. C. Cenántibus autem eis, accépit Jesus panem, et benedíxit, ac fregit, dedítque discípulis suis, et ait: J. Accípite et comédite: hoc est corpus meum. C. Et accípiens cálicem, grátias egit: et dedit illis, dicens: J. Bíbite ex hoc omnes. Hic est enim sanguis meus novi Testaménti, qui pro multis effundétur in remissiónem peccatórum. Dico autem vobis: non bibam ámodo de hoc genímine vitis usque in diem illum, cum illud bibam vobíscum novum in regno Patris mei. C. Et hymno dicto, exiérunt in montem Olivéti. Tunc dicit illis Jesus: J. Omnes vos scándalum patiémini in me in ista nocte. Scriptum est enim: Percútiam pastórem, et dispergéntur oves gregis. Postquam autem resurréxero, præcédam vos in Galilaeam. C. Respóndens autem Petrus, ait illi: S. Et si omnes scandalizáti fúerint in te, ego numquam scandalizábor. C. Ait illi Jesus: J. Amen, dico tibi, quia in hac nocte, antequam gallus cantet, ter me negábis. C. Ait illi Petrus: S. Etiam si oportúerit me mori tecum, non te negábo. C. Simíliter et omnes discípuli dixérunt. Tunc venit Jesus cum illis in villam, quæ dícitur Gethsémani, et dixit discípulis suis: J. Sedéte hic, donec vadam illuc et orem. C. Et assúmpto Petro et duóbus fíliis Zebedaei, coepit contristári et mæstus esse. Tunc ait illis: J. Tristis est ánima mea usque ad mortem: sustinéte hic, et vigilate mecum. C. Et progréssus pusíllum, prócidit in fáciem suam, orans et dicens: J. Pater mi, si possíbile est, tránseat a me calix iste: Verúmtamen non sicut ego volo, sed sicut tu. C. Et venit ad discípulos suos, et invénit eos dormiéntes: et dicit Petro: J. Sic non potuístis una hora vigiláre mecum? Vigiláte et oráte, ut non intrétis in tentatiónem. Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma. C. Iterum secúndo ábiit et orávit, dicens: J. Pater mi, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum, fiat volúntas tua. C. Et venit íterum, et invenit eos dormiéntes: erant enim óculi eórum graváti. Et relíctis illis, íterum ábiit et orávit tértio, eúndem sermónem dicens. Tunc venit ad discípulos suos, et dicit illis: J. Dormíte jam et requiéscite: ecce, appropinquávit hora, et Fílius hóminis tradétur in manus peccatórum. Súrgite, eámus: ecce, appropinquávit, qui me tradet. C. Adhuc eo loquénte, ecce, Judas, unus de duódecim, venit, et cum eo turba multa cum gládiis et fústibus, missi a princípibus sacerdótum et senióribus pópuli. Qui autem trádidit eum, dedit illis signum, dicens: S. Quemcúmque osculátus fúero, ipse est, tenéte eum. C. Et conféstim accédens ad Jesum, dixit: S. Ave, Rabbi. C. Et osculátus est eum. Dixítque illi Jesus: J. Amíce, ad quid venísti? C. Tunc accessérunt, et manus injecérunt in Jesum et tenuérunt eum. Et ecce, unus ex his, qui erant cum Jesu, exténdens manum, exémit gládium suum, et percútiens servum príncipis sacerdótum, amputávit aurículam ejus. Tunc ait illi Jesus: J. Convérte gládium tuum in locum suum. Omnes enim, qui accéperint gládium, gládio períbunt. An putas, quia non possum rogáre Patrem meum, et exhibébit mihi modo plus quam duódecim legiónes Angelórum? Quómodo ergo implebúntur Scripturae, quia sic oportet fíeri? C. In illa hora dixit Jesus turbis: J. Tamquam ad latrónem exístis cum gládiis et fústibus comprehéndere me: cotídie apud vos sedébam docens in templo, et non me tenuístis. C. Hoc autem totum factum est, ut adimpleréntur Scripturæ Prophetárum. Tunc discípuli omnes, relícto eo, fugérunt. At illi tenéntes Jesum, duxérunt ad Cáipham, príncipem sacerdótum, ubi scribæ et senióres convénerant. Petrus autem sequebátur eum a longe, usque in átrium príncipis sacerdótum. Et ingréssus intro, sedébat cum minístris, ut vidéret finem. Príncipes autem sacerdótum et omne concílium quærébant falsum testimónium contra Jesum, ut eum morti tráderent: et non invenérunt, cum multi falsi testes accessíssent. Novíssime autem venérunt duo falsi testes et dixérunt: S. Hic dixit: Possum destrúere templum Dei, et post tríduum reædificáre illud. C. Et surgens princeps sacerdótum, ait illi: S. Nihil respóndes ad ea, quæ isti advérsum te testificántur? C. Jesus autem tacébat. Et princeps sacerdótum ait illi: S. Adjúro te per Deum vivum, ut dicas nobis, si tu es Christus, Fílius Dei. C. Dicit illi Jesus: J. Tu dixísti. Verúmtamen dico vobis, ámodo vidébitis Fílium hóminis sedéntem a dextris virtútis Dei, et veniéntem in núbibus coeli. C. Tunc princeps sacerdótum scidit vestiménta sua, dicens: S. Blasphemávit: quid adhuc egémus téstibus? Ecce, nunc audístis blasphémiam: quid vobis vidétur? C. At illi respondéntes dixérunt: S. Reus est mortis. C. Tunc exspuérunt in fáciem ejus, et cólaphis eum cecidérunt, álii autem palmas in fáciem ejus dedérunt, dicéntes: S. Prophetíza nobis, Christe, quis est, qui te percússit? C. Petrus vero sedébat foris in átrio: et accéssit ad eum una ancílla, dicens: S. Et tu cum Jesu Galilaeo eras. C. At ille negávit coram ómnibus, dicens: S. Néscio, quid dicis. C. Exeúnte autem illo jánuam, vidit eum ália ancílla, et ait his, qui erant ibi: S. Et hic erat cum Jesu Nazaréno. C. Et íterum negávit cum juraménto: Quia non novi hóminem. Et post pusíllum accessérunt, qui stabant, et dixérunt Petro: S. Vere et tu ex illis es: nam et loquéla tua maniféstum te facit. C. Tunc cœpit detestári et juráre, quia non novísset hóminem. Et contínuo gallus cantávit. Et recordátus est Petrus verbi Jesu, quod díxerat: Priúsquam gallus cantet, ter me negábis. Et egréssus foras, flevit amáre. Mane autem facto, consílium iniérunt omnes príncipes sacerdótum et senióres pópuli advérsus Jesum, ut eum morti tráderent. Et vinctum adduxérunt eum, et tradidérunt Póntio Piláto praesidi. Tunc videns Judas, qui eum trádidit, quod damnátus esset, pæniténtia ductus, réttulit trigínta argénteos princípibus sacerdótum et senióribus, dicens: S. Peccávi, tradens sánguinem justum. C. At illi dixérunt: S. Quid ad nos? Tu vidéris. C. Et projéctis argénteis in templo, recéssit: et ábiens, láqueo se suspéndit. Príncipes autem sacerdótum, accéptis argénteis, dixérunt: S. Non licet eos míttere in córbonam: quia prétium sánguinis est. C. Consílio autem ínito, emérunt ex illis agrum fíguli, in sepultúram peregrinórum. Propter hoc vocátus est ager ille, Hacéldama, hoc est, ager sánguinis, usque in hodiérnum diem. Tunc implétum est, quod dictum est per Jeremíam Prophétam, dicéntem: Et accepérunt trigínta argénteos prétium appretiáti, quem appretiavérunt a fíliis Israël: et dedérunt eos in agrum fíguli, sicut constítuit mihi Dóminus. Jesus autem stetit ante praesidem, et interrogávit eum præses, dicens: S. Tu es Rex Judæórum? C. Dicit illi Jesus: J. Tu dicis. C. Et cum accusarétur a princípibus sacerdótum et senióribus, nihil respóndit. Tunc dicit illi Pilátus: S. Non audis, quanta advérsum te dicunt testimónia? C. Et non respóndit ei ad ullum verbum, ita ut mirarétur præses veheménter. Per diem autem sollémnem consuéverat præses pópulo dimíttere unum vinctum, quem voluíssent. Habébat autem tunc vinctum insígnem, qui dicebátur Barábbas. Congregátis ergo illis, dixit Pilátus: S. Quem vultis dimíttam vobis: Barábbam, an Jesum, qui dícitur Christus? C. Sciébat enim, quod per invídiam tradidíssent eum. Sedénte autem illo pro tribunáli, misit ad eum uxor ejus, dicens: S. Nihil tibi et justo illi: multa enim passa sum hódie per visum propter eum. C. Príncipes autem sacerdótum et senióres persuasérunt populis, ut péterent Barábbam, Jesum vero pérderent. Respóndens autem præses, ait illis: S. Quem vultis vobis de duóbus dimítti? C. At illi dixérunt: S. Barábbam. C. Dicit illis Pilátus: S. Quid ígitur fáciam de Jesu, qui dícitur Christus? C. Dicunt omnes: S. Crucifigátur. C. Ait illis præses: S. Quid enim mali fecit? C. At illi magis clamábant,dicéntes: S. Crucifigátur. C. Videns autem Pilátus, quia nihil profíceret, sed magis tumúltus fíeret: accépta aqua, lavit manus coram pópulo, dicens: S. Innocens ego sum a sánguine justi hujus: vos vidéritis. C. Et respóndens univérsus pópulus, dixit: S. Sanguis ejus super nos et super fílios nostros. C. Tunc dimísit illis Barábbam: Jesum autem flagellátum trádidit eis, ut crucifigerétur. Tunc mílites praesidis suscipiéntes Jesum in prætórium, congregavérunt ad eum univérsam cohórtem: et exuéntes eum, chlámydem coccíneam circumdedérunt ei: et plecténtes corónam de spinis, posuérunt super caput ejus, et arúndinem in déxtera ejus. Et genu flexo ante eum, illudébant ei, dicéntes: S. Ave, Rex Judæórum. C. Et exspuéntes in eum, accepérunt arúndinem, et percutiébant caput ejus. Et postquam illusérunt ei, exuérunt eum chlámyde et induérunt eum vestiméntis ejus, et duxérunt eum, ut crucifígerent. Exeúntes autem, invenérunt hóminem Cyrenaeum, nómine Simónem: hunc angariavérunt, ut tólleret crucem ejus. Et venérunt in locum, qui dícitur Gólgotha, quod est Calváriæ locus. Et dedérunt ei vinum bíbere cum felle mixtum. Et cum gustásset, nóluit bibere. Postquam autem crucifixérunt eum, divisérunt vestiménta ejus, sortem mitténtes: ut implerétur, quod dictum est per Prophétam dicentem: Divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt sortem. Et sedéntes, servábant eum. Et imposuérunt super caput ejus causam ipsíus scriptam: Hic est Jesus, Rex Judæórum. Tunc crucifíxi sunt cum eo duo latrónes: unus a dextris et unus a sinístris. Prætereúntes autem blasphemábant eum, movéntes cápita sua et dicéntes: S. Vah, qui déstruis templum Dei et in tríduo illud reædíficas: salva temetípsum. Si Fílius Dei es, descénde de cruce. C. Simíliter et príncipes sacerdótum illudéntes cum scribis et senióribus, dicébant: S. Alios salvos fecit, seípsum non potest salvum fácere: si Rex Israël est, descéndat nunc de cruce, et crédimus ei: confídit in Deo: líberet nunc, si vult eum: dixit enim: Quia Fílius Dei sum. C. Idípsum autem et latrónes, qui crucifíxi erant cum eo, improperábant ei. A sexta autem hora ténebræ factæ sunt super univérsam terram usque ad horam nonam. Et circa horam nonam clamávit Jesus voce magna, dicens: J. Eli, Eli, lamma sabactháni? C. Hoc est: J. Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquísti me? C. Quidam autem illic stantes et audiéntes dicébant: S. Elíam vocat iste. C. Et contínuo currens unus ex eis, accéptam spóngiam implévit acéto et impósuit arúndini, et dabat ei bíbere. Céteri vero dicébant:S. Sine, videámus, an véniat Elías líberans eum. C. Jesus autem íterum clamans voce magna, emísit spíritum.

Hic genuflectitur, et pausatur aliquantulum. …

Et ecce, velum templi scissum est in duas partes a summo usque deórsum: et terra mota est, et petræ scissæ sunt, et monuménta apérta sunt: et multa córpora sanctórum, qui dormíerant, surrexérunt. Et exeúntes de monuméntis post resurrectiónem ejus, venérunt in sanctam civitátem, et apparuérunt multis. Centúrio autem et qui cum eo erant, custodiéntes Jesum, viso terræmótu et his, quæ fiébant, timuérunt valde, dicéntes: S. Vere Fílius Dei erat iste. C. Erant autem ibi mulíeres multæ a longe, quæ secútæ erant Jesum a Galilaea, ministrántes ei: inter quas erat María Magdaléne, et María Jacóbi, et Joseph mater, et mater filiórum Zebedaei. Cum autem sero factum esset, venit quidam homo dives ab Arimathaea, nómine Joseph, qui et ipse discípulus erat Jesu. Hic accéssit ad Pilátum, et pétiit corpus Jesu. Tunc Pilátus jussit reddi corpus. Et accépto córpore, Joseph invólvit illud in síndone munda. Et pósuit illud in monuménto suo novo, quod excíderat in petra. Et advólvit saxum magnum ad óstium monuménti, et ábiit. Erat autem ibi María Magdaléne et áltera María, sedéntes contra sepúlcrum.

 [In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: J. Sapete bene che tra due giorni sarà Pasqua, e il Figlio dell’uomo verrà catturato per essere crocifisso. C. Si radunarono allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo nell’atrio del principe dei sacerdoti denominato Caifa, e tennero consiglio sul modo di catturar Gesù con inganno, e così poterlo uccidere. Ma dicevano: S. Non però nel giorno di festa perché non sorga un qualche tumulto nel popolo. C. Mentre Gesù si trovava in Betania nella casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che portava un vaso d’alabastro, pieno d’unguento prezioso, e lo versò sopra il capo di lui che era adagiato alla mensa. Ma nel veder ciò, i discepoli se ne indignarono e dissero: S. Perché tale sperpero? Poteva esser venduto quell’unguento a buon prezzo, e distribuito [il denaro] ai poveri. C. Ma, sentito questo, Gesù disse loro: J. Perché criticate voi questa donna? Ella invero ha fatto un’opera buona con me. I poveri infatti li avete sempre con voi, mentre non sempre potrete avere me. Spargendo poi questo unguento sopra il mio corpo, l’ha sparso come per alludere alla mia sepoltura. In verità io vi dico che in qualunque luogo sarà predicato questo vangelo, si narrerà altresì, in memoria di lei, quello che ha fatto. C. Allora uno dei dodici, detto Giuda Iscariote, se ne andò dai capi dei sacerdoti, e disse loro: S. Che mi volete dare, ed io ve lo darò nelle mani? C. Ed essi gli promisero trenta monete di argento. E da quel momento egli cercava l’occasione opportuna per darlo nelle loro mani. Or il primo giorno degli azzimi si accostarono a Gesù i discepoli e gli dissero: S. Dove vuoi tu che ti prepariamo per mangiare la Pasqua? C. E Gesù rispose loro: J. «Andate in città dal tale e ditegli: Il Maestro ti fa sapere: Il mio tempo oramai si è approssimato; io coi miei discepoli faccio la Pasqua da te». C. E i discepoli eseguirono quello che aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Venuta poi la sera [Gesù], si era messo a tavola coi suoi dodici discepoli; e mentre mangiavano, egli disse: J. In verità vi dico che uno di voi mi tradirà. C. Sommamente rattristati, essi cominciarono a uno a uno a dirgli: S. Forse sono io, o Signore? C. Ma egli in risposta disse: J. Chi con me stende [per intingere] la mano nel piatto, è proprio quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo, è vero, se ne andrà, come sta scritto di lui; ma guai a quell’individuo, per opera del quale il Figliuolo dell’uomo sarà tradito! Era bene per lui il non esser mai nato! C. Pigliando la parola, Giuda, che poi lo tradì, gli disse: S. Sono forse io, o Maestro? C. Gli rispose [Gesù]: J. Tu l’hai detto. C. Stando dunque essi a cena, Gesù prese un pane, lo benedisse, lo spezzò e lo porse ai suoi discepoli, dicendo: J. Prendete e mangiate; questo è il mio Corpo. C. E preso un calice, rese le grazie, e lo dette loro, dicendo: J. Bevetene tutti. Questo è il mio Sangue del nuovo testamento, che sarà sparso per molti in remissione dei peccati. E vi dico ancora, che non berrò più di questo frutto della vite fino a quel giorno, in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio. C. Recitato quindi l’inno, uscirono, diretti al Monte oliveto. Disse allora Gesù: J. Tutti voi in questa notte proverete scandalo per causa mia. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge. Ma dopo che sarò resuscitato, vi precederò in Galilea. C. In risposta, Pietro allora gli disse: S. Anche se tutti fossero scandalizzati per te, io non mi scandalizzerò mai. C. E Gesù a lui: J. In verità ti dico che in questa medesima notte, prima che il gallo canti, tu mi avrai già rinnegato tre volte. C. E Pietro gli replico: S. Ancorché fosse necessario morire con te, io non ti rinnegherò. C. E dissero lo stesso gli altri discepoli. Arrivò alfine ad un luogo, nominato Getsemani, e Gesù disse ai suoi discepoli: J. Fermatevi qui, mentre io vado più in là a fare orazione. C. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a farsi triste e ad essere mesto. E disse loro: J. È afflitta l’anima mia fino a morirne. Rimanete qui e vegliate con me. C. E fattosi un poco più in avanti, si prostrò a terra colla faccia e disse: J. Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. In ogni modo non come voglio io [si faccia], ma come vuoi tu. C. E tornò dai suoi discepoli e li trovò che dormivano. Disse quindi a Pietro: J. E cosi, non poteste vegliare un’ora con me? Vegliate e pregate, perché non siate sospinti in tentazione. Lo spirito, in realtà, è pronto, ma è fiacca la carne. C. Di nuovo se ne andò per la seconda volta, e pregò, dicendo: J. Padre mio, se non può passar questo calice senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà. C. E ritornò di nuovo a loro, e li ritrovò addormentati. I loro occhi erano proprio oppressi dal sonno. E, lasciatili stare, andò nuovamente a pregare per la terza volta, dicendo le stesse parole. Fu allora che si riavvicinò ai suoi discepoli e disse loro: J. Dormite pure e riposatevi. Oramai l’ora è vicina, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo; ecco che è vicino colui che mi tradirà. C. Diceva appunto così, quando arrivò Giuda, uno dei dodici e con lui una gran turba di gente con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore, aveva dato loro questo segnale, dicendo: S. Quello che io bacerò, è proprio lui; pigliatelo. C. E, senza indugiare, accostatosi a Gesù, disse: S. Salve, o Maestro! C. E gli dette un bacio. Gesù gli disse: J. Amico, a che fine sei tu venuto? C. E allora si fecero avanti gli misero le mani addosso e lo catturarono. Ma ecco che uno di quelli che erano con Gesù, stesa la mano, sfoderò una spada e, ferito un servo del principe dei sacerdoti, gli staccò un orecchio. Allora gli disse Gesù: J. Rimetti al suo posto la spada, perché chi darà di mano alla spada, di spada perirà. Credi tu forse che io non possa pregare il Padre mio, e che egli non possa fornirmi all’istante più di dodici legioni di Angeli? Come dunque potranno verificarsi le Scritture, dal momento che deve succedere così? C. In quel punto medesimo disse Gesù alle turbe: J. Come un assassino siete venuti a prendermi, con spade e bastoni. Ogni giorno io me ne stavo nel tempio a insegnare, e allora non mi prendeste mai. C. E tutto questo avvenne, perché si compissero le scritture dei Profeti. Dopo ciò, tutti i discepoli lo abbandonarono, dandosi alla fuga. Ma quelli, afferrato Gesù, lo condussero a Caifa; principe dei sacerdoti, presso il quale si erano radunati gli scribi e gli anziani. Pietro però lo aveva seguito alla lontana fino all’atrio del principe dei sacerdoti; ed, entrato là, si era messo a sedere coi servi allo scopo di vedere la fine. I capi dei sacerdoti intanto e tutto il consiglio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù per aver modo di metterlo a morte; ma non trovandola, si fecero avanti molti falsi testimoni. Per ultimo se ne presentarono altri due, e dissero: S. Costui disse: Io posso distruggere il tempio di Dio, e in tre giorni posso rifabbricarlo. C. Levatosi su allora il principe dei sacerdoti, disse [a Gesù]: S. Io ti scongiuro per il Dio vivo, che tu ci dica, se sei il Cristo, figlio di Dio. C. Gesù rispose: J. Tu l’hai detto. Anzi vi dico che vedrete altresì il Figlio dell’uomo, assiso alla destra della Potenza di Dio, venir giù sulle nubi del cielo. C. Il principe dei sacerdoti allora si strappò le vesti, dicendo: S. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. È reo di morte! C. Allora gli sputarono in faccia e lo ammaccarono coi pugni. Altri poi lo schiaffeggiarono e gli dicevano: S. Indovina, o Cristo, chi è che ti ha percosso. C. Pietro intanto se ne stava seduto fuori nell’atrio. Or gli si accostò una serva e gli disse: S. Anche tu eri con Gesù di Galilea. C. Ma egli, alla presenza di tutti, negò, dicendo: S. Non capisco quello che dici. C. Mentre poi stava per uscire dalla porta, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: S. Anche lui era con Gesù Nazareno! C. E di nuovo egli negò giurando: S. Io non conosco quest’uomo! C. Di lì a poco gli si avvicinarono coloro che si trovavano là, e dissero a Pietro: S. Tu sei davvero uno di quelli, perché anche il tuo accento ti da a conoscere per tale. C. Cominciò allora a imprecare e a scongiurare che non aveva mai conosciuto quell’uomo. E a un tratto il gallo cantò; allora Pietro si rammentò del discorso di Gesù: «Prima che il gallo canti, tu mi avrai rinnegato tre volte»; ed uscito di là, pianse amaramente. Fattosi poi giorno, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo congiurarono insieme contro Gesù per metterlo a morte; e, legatolo, lo portarono via e lo presentarono al governatore Ponzio Pilato. Il traditore Giuda, allora, visto che Gesù era stato condannato, sospinto dal rimorso, riportò ai capi dei sacerdoti e agli anziani i trenta denari, e disse: S. Ho fatto male, tradendo il sangue d’un innocente! C. Ma essi risposero: S. Che ci importa? Pensaci tu! C. Gettate perciò nel tempio le trenta monete d’argento, egli si ritirò di là, andando a impiccarsi con un laccio. I capi dei sacerdoti per altro, raccattate le monete, dissero: S. Non conviene metterle colle altre nel tesoro, essendo prezzo di sangue. C. Dopo essersi consultati tra di loro, acquistarono con esse un campo d’un vasaio per seppellirvi i forestieri. Per questo, quel campo fu chiamato Aceldama, vale a dire, campo del sangue; e ciò fino ad oggi. Così si verificò quello che era stato predetto per mezzo di Geremia profeta: «Ed hanno ricevuto i trenta denari d’argento, prezzo di colui che fu venduto dai figliuoli d’Israele, e li hanno impiegati nell’acquisto del campo d’un vasaio, come mi aveva imposto il Signore». Gesù pertanto si trovò davanti al governatore, che lo interrogò, dicendogli: S. Sei tu il re dei giudei? C. Gesù gli rispose: J. Tu lo dici. C. Ed essendo stato accusato dai capi dei sacerdoti e dagli anziani, non rispose nulla. Gli disse allora Pilato: S. Non senti di quanti capi d’accusa ti fanno carico? C. Ma egli non replicò parola, cosicché il governatore ne rimase fortemente meravigliato. Nella ricorrenza della festività [pasquale] il governatore era solito di rilasciare al popolo un detenuto a loro piacimento. Ne aveva allora in prigione uno famoso, chiamato Barabba. A tutti coloro, perciò che si erano ivi radunati, Pilato disse: S. Chi volete che io vi lasci libero? Barabba, oppure Gesù, chiamato il Cristo? C. Sapeva bene che per invidia gliel’avevano condotto lì. Mentre intanto egli se ne stava seduto in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: S. Non aver nulla da fare con quel giusto, perché oggi in sogno ho dovuto soffrire tante ansie per via di lui! C. Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani sobillarono il popolo, perché fosse chiesto Barabba e fosse ucciso Gesù. In risposta allora il governatore disse loro: S. Chi volete che vi sia rilasciato? C. E quei risposero: S. Barabba. C. Replicò loro Pilato: S. Che ne farò dunque di Gesù, chiamato il Cristo? C. E ad una voce, tutti risposero: S. Crocifiggilo! C. Disse loro il governatore: S. Ma che male ha fatto? C. Ed essi gridarono più forte, dicendo: S. Sia crocifisso! C. Vedendo Pilato che non si concludeva nulla, ma anzi che si accresceva il tumulto, presa dell’acqua, si lavò le mani alla presenza del popolo, dicendo: S. Io sono innocente del sangue di questo giusto; è affar vostro! C. E per risposta tutto quel popolo disse: S. Il sangue di lui ricada sopra di noi e sopra i nostri figli! C. Allora rilasciò libero Barabba; e, dopo averlo fatto flagellare, consegnò loro Gesù, perché fosse crocifisso. I soldati del governatore poi trascinarono Gesù nel pretorio e gli schierarono attorno tutta la coorte; e lo spogliarono, rivestendolo d’una clamide di color rosso. Intrecciata poi una corona di spine, gliela posero in testa, e nella mano destra [gli misero] una canna. E piegando il ginocchio davanti a lui, lo deridevano col dire: S. Salve, o re dei Giudei. C. E dopo avergli sputato addosso, presagli la canna, con essa lo battevano nel capo. E dopo che l’ebbero schernito, gli levarono di dosso la clamide, gli rimisero le sue vesti, e lo condussero via per crocifiggerlo. Nell’uscire [di città], trovarono un tale di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a pigliare la croce. E arrivarono a un luogo, detto Golgota, cioè, del cranio. E dettero da bere [a Gesù] del vino mescolato con fiele; ma avendolo egli gustato, non lo volle bere. E dopo che l’ebbero crocifisso, se ne divisero le vesti, tirandole a sorte. E ciò perché si adempisse quello che era stato detto dal Profeta, quando disse: «Si sono divisi i miei abiti ed hanno messo a sorte la mia veste». E, postisi a sedere, gli facevano la guardia. E al di sopra del capo di lui, appesero, scritta, la causa della sua condanna: – Questi è Gesù, re dei Giudei -. Furono allora crocifissi insieme con lui due ladroni: uno a destra ed uno a sinistra. E quelli che passavano di li, lo schernivano, crollando il capo, e dicevano: S. Tu che distruggi il tempio di Dio e che lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso; se sei il Figlio di Dio, scendi giù dalla croce. C. Parimenti anche i capi dei sacerdoti lo deridevano, beffandosi di lui cogli scribi e cogli anziani del popolo, e dicendo: S. Salvò gli altri, e non può salvare se stesso. Se è il re d’Israele, discenda ora dalla croce, e noi gli crederemo. Confidò in Dio. Se vuole, Iddio lo liberi ora! O non disse che era Figliuolo di Dio? C. E questo pure gli rinfacciavano i ladroni che erano stati crocifissi con lui. Si fece poi un gran buio dall’ora sesta fino all’ora nona. E verso l’ora nona Gesù gridò con gran voce: J. Eli, Eli, lamma sabacthani; C. cioè: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed alcuni che erano li vicini, sentitolo, dissero: S. Costui chiama Elia! C. E subito uno di loro, correndo, presa una spugna, l’inzuppò nell’aceto, e fermatala in vetta a una canna, gli dette da bere. Gli altri invece dicevano: S. Lasciami vedere, se viene Elia a liberarlo. C. Ma Gesù, gridando di nuovo a gran voce, rese lo spirito. Si genuflette per un momento. Ed ecco che il velo del tempio si divise in due parti dall’alto in basso; e la terra tremò; e le pietre si spaccarono, le tombe si aprirono, e molti corpi di Santi che vi erano sepolti, resuscitarono. Usciti anzi dai monumenti dopo la resurrezione di Lui, entrarono nella città santa e comparvero a molti. Il centurione poi e gli altri che con lui facevano la guardia a Gesù, veduto il terremoto e le cose che succedevano, ne ebbero gran paura e dissero: S. Costui era davvero il Figliuolo di Dio. C. C’erano pure lì, in disparte, molte donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea per assisterlo, tra le quali era Maria Maddalena, e Maria di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo. Essendosi poi fatta sera, arrivò un uomo, ricco signore di Arimatea, chiamato Giuseppe, discepolo anche lui di Gesù. Egli si era presentato a Pilato per chiedergli il corpo di Gesù; e Pilato aveva dato ordine che ne fosse restituito il corpo. E, presolo, Giuseppe lo avvolse in un lenzuolo pulito, e lo pose in un sepolcro nuovo, che si era già fatto scavare in un masso; e, dopo aver ribaltata alla bocca della tomba una gran lapide, se ne andò. Erano ivi Maria Maddalena e l’altra Maria, sedute di davanti al sepolcro.]

OMELIA

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e … Soc. Ed. Vita e Pens. VI ed. Milano, 1956]

IL CULTO ESTERNO

Le dolorose profezie, che da secoli erano nei libri santi, ormai cominciavano ad avverarsi in Lui. Ma prima di finire come un ladro, voleva per un giorno trionfare come un re. Al mattino della domenica lasciò la bianca casa degli amici e s’incamminò verso Gerusalemme: andava per morirvi; e lo sapeva; e lo voleva. A metà strada si volse due discepoli e disse loro: « In quel villaggio che ci appare in faccia, c’è un puledro; andate a prenderlo per me. Se taluno vi dirà qualcosa, rispondete che lo vuole il Padrone ».  Sempre a piedi aveva camminato per tutta la vita; a piedi, in fango e in polvere, aveva percorso la Palestina intiera, da Cesarea di Filippi a Gerusalemme Almeno una volta, prima di morire, era giusto che il Re de’ secoli si avanzava cavalcando. Si sparse subito la voce del suo arrivo: la folla ch’era in città per la Pasqua gli venne incontro. Gente lo precedeva, gente lo seguiva. E moltissimi stesero le loro vesti sul suo cammino, e moltissimi tagliarono rami dagli alberi e li gettarono per la via. Erano questi, presso i popoli antichi, gli onori dei re. Così era stato proclamato sovrano d’Israele Iehu (IV Reg., IX, 13); così Giuda Maccabeo entrò in Gerusalemme riconquistata (II Macc., X, 6); così il popolo aveva accolto Arippa ed Alessandro, re di Siria; e così Gesù ha voluto, in quella domenica, trionfare. Intorno a lui, come un inno di vittoria, echeggiavano gli applausi: « Viva il Re che viene in nome del Signore! Pace in terra! Gloria in cielo! Viva il Re ». Ma quel giorno passò. E a sera, quando le ultime grida morivano soffocate tra le case, già nell’ombra si ordiva la congiura del Deicidio. Togliamo dal Vangelo un’osservazione soltanto, e comunissima. Non è raro udire certuni biasimare le manifestazioni esterne del culto cattolico, le processioni pubbliche, il canto del popolo, la pompa degli apparati. Il trionfale ingresso che Cristo ha voluto per sé prima di morire, ci mostra in qual conto dobbiamo tenere questi giudizi degli uomini di mondo. Non solo nell’occulto dell’anima nostra o della nostra casa, ma anche alla luce del sole, per le nostre strade, sulle nostre piazze, in faccia al mondo intero dobbiamo onorare Dio. Il culto esterno non è superstizione o ipocrisia: ma è giusto, è buono – 1. È GIUSTO a) È giusto perché è un dovere dell’uomo. In un’epoca di pace, Davide riposava placidamente nella sua reggia quando i suoi occhi indugiarono sul magnifico soffitto di cedro, ornato con arte e preziosità. « Come! — esclamò. — L’Arca di Dio sta sotto a una tenda di pelle, ed io, servo e creatura, abito una casa di cedro? Chiamò il profeta e Natan gli rispose: « Va: eseguisci tutto ciò che il cuore ti detta, poiché il Signore è teco » (II Reg., VII, 1-3). Ecco il sentimento in cui si fonda il dovere del culto esterno. Dite: non è giusto forse che al passaggio del Re tutto il popolo lo acclami e gli adorni il cammino? E allora perché non è molto più giusto che il nostro Dio, il Re dei Re, sia acclamato con pubbliche feste, con adorazioni e processioni solenni? Tutti vanno gloriosi quando possono avvicinare e onorare il sovrano della terra; ma purtroppo ci sono di quelli che hanno vergogna di avvicinare il Dio onnipotente ed eterno, hanno vergogna di indossare le gloriose divise delle confraternite, di partecipare alle commoventi cerimonie della settimana santa. b) Il culto esterno non solo è un dovere, ma è anche un bisogno. Un ateo aveva proibito alla sua donna di porre piede in Chiesa. Ella si sforzò d’ubbidire. Ma ecco, il più piccolo de’ suoi figliuoli si ammala, e nessun medico riesce a curarlo, nessuno riesce a guarirlo. La misera donna trema, smania, non ne può più: costruisce un altare in casa, vi accende molti ceri, vi colloca in mezzo l’immagine di Maria. L’ateo la vide singhiozzante, ginocchioni, in atto di protendere alla Madonna il piccolo morente. Immaginate, o Cristiani, se non ci fosse più la nostra Chiesa ove piangere, ove pregare, ove benedire l’amore, e santificare i figliuoli, e salutare i morti, che cosa sarebbe del nostro paese? Che cosa sarebbe della nostra vita se non ci fossero più le feste religiose, le processioni, le confraternite coi loro stendardi e con le croci, le associazioni cattoliche con la bandiera consacrata? Sarebbe simile alla vita delle bestie. Sì! Cicerone ha detto che l’uomo si distingue dalle bestie per la ragione; Quintiliano ha detto che l’uomo dalle bestie si distingue per la parola; ma Lattanzio ha detto meglio, dimostrando che l’uomo dalle bestie si distingue per il culto a Dio. Onde conclude che quegli uomini che non onorano Dio ogni giorno con qualche culto, in quel giorno si portano da bestie; e quei padri che non allevano i loro figli ossequiosi a Dio allevano i figli da bestie. – 2. È UTILE. S. Ambrogio in una lettera scritta a sua sorella racconta un fatto mirabile. La città di Milano, a quei tempi, era dominata da un’imperatrice ariana, che non poteva soffrire i trionfi dei Cattolici guidati dal loro Vescovo. Un giorno, dunque, in cui la chiesa dei Cattolici era gremita più che mai, questa donna mandò due compagnie di soldati, parte eretici e parte infedeli, con ordine che s’inoltrassero strepitosamente sino all’altare e mettessero in confusione ogni cosa, rovesciando, battendo e uccidendo tutti i Cattolici assistenti al divin culto. Entrano costoro nel sacro tempio con grida e con armi alla mano; rompono la piena del popolo con tumulto e spavento di tutti, si portano sino al recinto dell’altare. Quivi si fermano come incantati: i grandi doppieri dell’altare ardevano a loro davanti; gl’incensieri elevavano nuvole di profumo delicato; i canonici e i chierici, in ampio giro, erano curvi verso il mistero che si compiva; in alto, sul gradino supremo dell’altare, con gli occhi lucenti d’un chiaro oltramondano, il Vescovo Ambrogio celebrava il Sacrificio divino con lo sfarzo di abiti gemmati. A questo spettacolo non sanno resistere più; s’inginocchiano. E quando tutto il popolo incominciò una melodia serena e lenta, grosse lagrime caddero dai loro occhi. Molti di quegli idolatri chiesero il Battesimo, e alcuni eretici si convertirono. Quello, che tante prediche forse non avevano potuto fare in quegli animi, lo fece la bellezza del culto. Le funzioni della Chiesa, quando sono devote, parlano a tutti come un gran libro. Diderot, incredulo e rivoluzionario, ha scritto: « Io non ho mai veduto quella lunga fila di preti in abiti sacerdotali, quegli uomini robusti ed onesti raccolti nelle loro divise, quelle fanciulle dalle candide vesti e dalle azzurre cinture che spargono canti e fiori innanzi al Sacramento, senza che ne fossi commosso fino al fondo dell’anima e non mi venissero i lucciconi agli occhi ». Se grande è il fascino del culto esterno per gli idolatri, gli eretici, gli empi, maggiore ancora è per quelli che sono già buoni e che, per ciò, sono più disposti a comprenderlo. Davanti alle pubbliche cerimonie sentono la loro fede risvegliarsi, la loro mente e il loro cuore innalzarsi alle cose divine! Sentono veramente di esser fratelli in Gesù Cristo. Non solo gli altri, ma anche a noi, è utile il culto esterno. Maria di Stuart, regina di Scozia, nell’andare al supplizio s’incontrò in un crocifisso dipinto sul muro. Subito innalzò a lui le mani e gli occhi e i sospiri e chiese di potersi fermare alcuni istanti. Ma il duca di Kent, che venivale al fianco, la sospinse verso il patibolo dicendole: « Cristo bisogna averlo nel cuore ». La regina, senza scomporsi, gli rispose: « È vero. Ed è appunto per ravvivarne l’affetto nel cuor mio, che guardavo e sospiravo a quell’immagine ». Questa risposta è bella ed è vera. La nostra anima è avviluppata dai sensi; per questo domanda degli oggetti esterni e delle azioni sensibili e simboliche per risvegliare l’amore, per nutrire la speranza, per legare l’affezione. Del resto, a quelli che disprezzano le solennità pubbliche della Religione e chiamano ipocriti quelli che vi partecipano, a quelli che vantano di essere uomini probi, sinceri, generosi senza portare il baldacchino o segnarsi con l’acqua santa, io rivolgerei coscienziosamente una domanda: « È proprio vero che nel vostro interno glorificate Iddio, voi che disprezzate ogni cerimonia esterna? È proprio vero che la vostra anima serve a Dio, voi che non volete servire col vostro corpo? Avete almeno il cuore penitente, voi che sfoggiate un esteriore mondano? ». Siamo sinceri: troppo spesso a scagliarsi contro il culto esterno, sono quelli che a Dio han già negato il culto interno. – Terminerò con una risposta. Che bisogno ha Dio di tutte queste costosissime chiese, quando ci sono poveri senza tetto? Che bisogno ha Dio di tovaglie e di merletti, di oro e di gemme quando migliaia di fanciulli domandano pane? E poi, che cosa fanno, a Lui che ha creato il sole, i lumini dell’altare? A Lui che cammina di stella in stella le stazioni della « Via crucis » ed i nostri baci a un crocifisso di legno? – Risponderò: Non è Dio che ha bisogno di queste cose, ma siamo noi che abbiamo bisogno estremo di offrirgliele. Non siete persuasi? allora vi dirò che, prima di voi, c’è stato un altro a pensarla così: Giuda Iscariota. Egli ipocritamente biasimò il gesto di culto della Maddalena che aveva spezzato un vasetto di profumo sui piedi del Signore. — LA PALMA. Le folle, nell’amore al Profeta taumaturgo, non sanno meglio esprimere la loro contentezza che strappando rami di palma per agitarli e gettarli sulla via dove deve passare Gesù. Le palme che nelle terre di Oriente si innalzano al cielo superbe, protendendo all’intorno il ventaglio dei loro rami, sono il simbolo più espressivo delle vittorie e del trionfo. Le turbe agitando le palme a Gesù che veniva lo salutavano ed acclamavano Re del suo popolo e Messia sospirato da secoli. Alla venuta di Gesù nel nostro cuore nella Comunione pasquale anche noi, o Cristiani, dobbiamo portare ed agitare le palme: palme che significano vittoria e trionfo sopra noi stessi; palme che significano vittoria contro il rispetto umano che vorrebbe togliere la santa franchezza del bene. – 1. LA PALMA È ARRIVATA CONTRO NOI STESSI. Nelle prime pagine della storia leggendaria di Roma si trova l’episodio di Muzio Scevola. Gli Etruschi venuti col re Porsenna, avevano cinto di assedio la città di Roma per potersene impadronire. Ma quel soldato intrepido, uscito dalle mura, si introdusse nel campo nemico per uccidere il re. Però invece del re ferì il suo segretario. Arrestato mentre fuggiva e condotto dinanzi al sovrano, questi lo prese a minacciare per indurlo a tradire la patria. Muzio Scevola, per nulla intimorito, stende la sua destra sul fuoco per punirla dell’errore commesso ed esclama: « E proprio dei Romani l’essere forti nell’agire e nel soffrire ». – O Cristiani, nel giorno del nostro Battesimo abbiamo promesso di combattere contro i nemici della nostra salvezza: prima fra tutti il nostro corpo, le nostre passioni. Ciascuno porta in sé un tiranno che cinge di assedio le forze dell’anima e vuol toglierci il Signore. Dobbiamo uscire dalle mura della nostra freddezza, del nostro egoismo per uccidere od almeno sconfiggere sempre questo ingiusto aggressore che non ha il diritto di superarci. Spesso forse ci capita di sbagliare il colpo, di non vincere come dovremmo se pure non restiamo del tutto sconfitti. Ebbene, ripetiamo ancor noi le parole dell’eroe di Roma, cambiando opportunamente la frase: « Facere et pati fortia christianum est! È dei Cristiani soffrire ed operare con forza ». Se è vero che portiamo il triste germe del male è vero anche che ciascuno di noi ha in se stesso una grande forza di bene. Basta saper sfruttare le sane energie dell’anima nostra. Se ti senti portato alla superbia, pensa che la tua grandezza vien dal Signore, che tutto dipende da Lui, che la vera ambizione sta nell’ubbidire alla santa sua legge. Se ti senti portato alle cose create, se il tuo cuore si attacca ad affezioni umane, pensa che soltanto Iddio è degno di tutto l’amore, solo Lui può appagare le aspirazioni più belle del tuo affetto. Vuole da te che lo ami davvero: nessuno sa amare più di quanto ha saputo amarti il Signore. Se la sapienza di coloro che non avevano conosciuto il Signore stava nel programma: « Conosci te stesso! » la vera sapienza dei figliuoli di Dio aggiunge qualche mese di più: « Conosci te stesso, cioè la tua dignità di Cristiano, le tue belle capacità di vittoria e di bene; e poi vinci te stesso, la tua parte cattiva, per trionfare in Dio. Nel Signore vincerai e con Lui sarà eterno il tuo godimento ». Del resto la battaglia non è difficile; basta saper incominciare e fidarci soltanto di Dio che stimola ed aiuta la nostra debolezza. – 2. LA PALMA È VITTORIA CONTRO IL RISPETTO UMANO. Un ricco marchese di Francia, trovandosi un giorno con un gruppo di personalità distinte, fu invitato a far la conoscenza con Ernesto Renan, lo scrittore tristemente famoso che osò scrivere una vita di Gesù Cristo in cui sacrilegamente bestemmiò la divinità del Redentore. Ernesto Renan già stava porgendo la mano, ma quel signore ritirando la sua, esclamò ad alta voce, in pubblico: « Io non stringerò mai questa mano che ha schiaffeggiato il mio Signore! » – Quante volte, o Cristiani, noi abbiamo promesso di essere forti, di compiere il nostro dovere, di non aver paura a manifestare la nostra fede colle azioni. Ma ci siamo spaventati dello scherno che ci poteva venire dai nostri compagni, da quelli che ci avrebbero visti e siamo stati vili, siamo stati dei vinti. Così abbiamo dato mano, abbiamo quasi aiutato, siamo divenuti amici di quelli che schiaffeggiano il Signore. Guardate che forza non ha avuto quel ricco marchese di fronte a tante persone. Bisogna che anche noi ci abituiamo ad essere forti, ad essere di carattere. Non sono eroi soltanto quelli che vincono una battaglia sul campo di guerra: costa assai di più vincere il rispetto umano sul pacifico campo della nostra vita, nei rapporti quotidiani con tanti nostri vicini. Un atto di valore tante volte è cosa di un momento. Un gesto di eroismo farà conoscere il vostro nome, ci procurerà applausi ma la fortezza di credere e di esser Cristiani spesso ci attira lo scherno aperto od il sorriso maligno. Teniamo in mente la parola del Signore: « Non abbiate paura di coloro che uccidono il corpo e poi non possono far altro. Ma io vi insegnerò chi dobbiate temere: Temete Colui che dopo aver tolta la vita, ha potestà di mandare all’inferno. Questo sì, vi dico, temetelo! ». (Lc., XII, 4-5). – Dice il proverbio che ride bene chi ride ultimo. Gli ultimi a ridere non saranno i cattivi; di essi avrà vergogna il Figliuol di Dio nel giorno del giudizio (Lc. IX, 26). Gli ultimi a godere, e per sempre, saranno i buoni, i forti. Soltanto essi nel regno dei cieli, nella Gerusalemme celeste, agiteranno le palme della vittoria attorno all’Agnello. – Nei primi anni del 1700 si combatteva una guerra per decidere il successore al trono di Spagna. Filippo d’Angiò, nipote di Luigi XIV re di Francia, era il pretendente più forte alla corona ed il 10 dicembre del 1710 vinceva la battaglia decisiva che gli apriva le porte di Madrid, la città capitale di Spagna. Alla sera, stanco del combattimento, il giovane principe stava per andare a riposare quando un suo Maresciallo lo pregò che gli concedesse di preparargli il letto. Avuto il permesso, il Maresciallo fece portare una gran quantità di bandiere tolte al nemico e, postele una sopra l’altra, invitò il principe ad adagiarsi su quelle coltri gloriose. Era il letto della vittoria. Voi, o Cristiani, avete già capito ciò che questo fatto ci può insegnare. Dobbiamo noi pure combattere per decidere chi deve regnare nel nostro cuore: noi, oppure le nostre passioni. Strappiamo tante bandiere al nemico e gli atti di fortezza che compiamo quaggiù saranno al momento della nostra morte un letto di gloria sul quale chiuderemo lieti gli occhi, per essere risvegliati nel regno dei Cieli.

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps LXVIII:21-22.

Impropérium exspectávit cor meum et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur, et non fuit: consolántem me quæsívi, et non invéni: et dedérunt in escam meam fel, et in siti mea potavérunt me acéto.

[Oltraggio e dolore mi spezzano il cuore; attendevo compassione da qualcuno, e non ci fu; qualcuno che mi consolasse e non lo trovai: per cibo mi diedero del fiele e assetato mi hanno dato da bere dell’aceto.]

Secreta

Concéde, quæsumus, Dómine: ut oculis tuæ majestátis munus oblátum, et grátiam nobis devotionis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat.

[Concedi, te ne preghiamo, o Signore, che quest’ostia offerta alla presenza della tua Maestà, ci ottenga la grazia della devozione e ci acquisti il possesso della Eternità beata.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Sancta Cruce

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui salútem humáni géneris in ligno Crucis constituísti: ut, unde mors oriebátur, inde vita resúrgeret: et, qui in ligno vincébat, in ligno quoque vincerétur: per Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti júbeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che hai procurato la salvezza del genere umano col legno della Croce: cosí che da dove venne la morte, di là risorgesse la vita, e chi col legno vinse, dal legno fosse vinto: per Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la celebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt XXVI:42.

Pater, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum: fiat volúntas tua.

[Padre mio, se non è possibile che questo calice passi senza chi lo beva, sia fatta la tua volontà.]

Postcommunio.

Orémus.

Per hujus, Dómine, operatiónem mystérii: et vitia nostra purgéntur, et justa desidéria compleántur.

 [O Signore, per l’efficacia di questo sacramento, siano purgati i nostri vizi e appagati i nostri giusti desideri.].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (245)

LO SCUDO DELLA FEDE (245)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (14)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

CAPO III

IL SACRIFICIO DIVINO

SECONDA PARTE DEL CANONE.

Orazione: Communicantes.

« Noi comunicando, e prima di tutto venerando la memoria di Maria sempre vergine, gloriosa Madre di Dio e nostro Signor Gesù Cristo, come pure dei beati vostri Apostoli e martiri Pietro e Paolo, Andrea, Giacomo, Giovanni, Tommaso, Giacomo, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Simone, Taddeo, Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio, Cipriano, Lorenzo, Grisogono, Giovanni e Paolo, Cosma e Damiano, e di tutti i vostri santi: Deh! pei meriti e le preghiere loro concedete, che noi in tutte le cose veniamo muniti dell’aiuto di vostra protezione (qui giunge le mani e continua): Pel medesimo Gesù Cristo, Signor nostro. Così sia. »

Spiegazione dell’orazione: Communicantes.

La Chiesa in terra e in cielo è una sola famiglia. L’altare toglie via l’abisso che separa il cielo dalla terra, ed è come un ponte, per cui i fedeli dal tempo salgono all’eternità, e si mettono in società coi Beati comprensori del paradiso. Di qui, contemplando i loro fratelli in eterna beatitudine, questi figliuoli della Chiesa in battaglia pigliano conforto nel veder tale porzione del loro corpo già coronato in quella gloria infinita: e come membra della stessa famiglia, partecipano col cuore della beatitudine loro. Dall’altare ricordando poi le vicende della vita, in cui si trovarono anch’essi quei felicissimi, dal loro esempio pigliando conforto, insieme con loro rendono grazie a Gesù, comune Salvatore. Così mentre i fedeli in terra ricordano appié della croce coi meriti di Gesù i meriti dei Santi; i Santi sicuri della propria beatitudine, solleciti della nostra sorte come dice s. Cipriano s’affrettano di chiedere in cielo a Dio, che la virtù del suo Sangue quegli stessi prodigi di grazia, che ha già operato per la loro felicità, rinnovi pei fratelli in via; e questi dal canto loro presentano in questa azione, pei doni, che a quelli ha dato, ringraziamento degno di Dio. – Grande consolazione è questa comunione dei Santi! Per essa i fedeli, quando si sollevano coll’anima in cielo, si trovano in quella così lontana regione in mezzo a protettori ed amici, che si fanno premura di presentarsi con loro al trono di Dio per intercedere insieme: solleciti della nostra sorte, come diciamo con s. Cipriano. Il Sacerdote fra quell’immensa schiera di Beati in tanta gloria, non potendo nominarli tutti, (come si suol fare, quando uom si trova fra moltissimi cari in terra) chiama per nome coloro, che hanno titoli particolari per meritare la nostra confidenza. Deh! fra quei Beati, chi prima d’ogni altro dovrà rimemorare? …… In paradiso più dei Cherubini e dei Serafini, e senza paragone più di tutti i Beati, contempla gloriosa Maria in seno alla Santissima Trinità, e subito le corre innanzi con cuor di figlio, perché Maria è Madre.

Maria è Madre.

Oh! qui non sono a dir molte parole, per spiegareperché il Sacerdote in cielo elevato cerca subito la Regina del cielo. Col cuore che batte sìvivo in quella pienezza d’inesprimibili affetti, abbiamobisogno di un cuore che c’intenda, di uncuore che ci voglia il maggior bene ed ami connoi Iddio, come sentiamo di doverlo amare, divinamente.Perciò il nostro cuore si slancia al Cuordi Maria: anche i bambini si gettano in seno allamadre per stringersi al cuore di lei. No, non citroviam meglio che quando noi siam tra le bracciadi Maria a parlare con Dio: perché Maria èMadre. Quando pendeva in croce Gesù, il Sanguepioveva giù dalla testa, grondava giù dalle mani,scorreva giù dai piedi santissimi; e Maria stavasotto la croce, e il caldo Sangue di Gesù cadevasul volto, sulle vesti, sulle mani benedette di MariaSantissima: e Gesù, quando si vide lì sotto allacroce tutta bagnata di Sangue la sua Madre, ce ladiede per Madre nostra (S. Ephrem, Or. de Laur. vir.). Ora Maria dal cielo guarda noi all’altare intorno a Gesù: e da Gesù in Sacramento viene in noi il Sangue, che vorremmo dir Sangue di Lei: perché Gesù è Figlio del suo Sangue…… Ah si, sì senz’altra ragione lo comprendiamo nel cuore, che Maria ci guarda, come figliuoli del suo Sangue! Madre divina! Ella contempla in paradiso nello splendore della Divinità il Figlio suo in seno al Padre, e guarda noi in terra in tante miserie, poverini di figli! lì lì per perderci ad ora ad ora. « Oh! Figliuol mio, gli dice, è Sangue nostro in quei meschinelli. » Contempla poi nel Figlio le Piaghe gloriose, e « Figliuol mio, gli dirà, queste Piaghe vostre io ho sofferte nel mio cuore! » e guarda le piaghe nostre, e gli deve dire: « mi par di sentirle nella mia persona: son Madre vostra, Madre anche di loro », e mirando nel Costato ancora aperto: « mio Gesù, esclama, questa ferita poi l’ho sentita tutta io sola nel cuore mio: salvatemi i figli di tanto dolore! » Pensiamo se in terra una madre fosse così fortunata, che avesse il figlio suo primogenito per ventura diventato re sul più gran trono del mondo; e poi avesse gli altri suoi figliolini, dispersi per la terra, in abbietta miseria; chi, chi vorrà al figlio suo in tanta gloria raccomandare, se non i figliuoli suoi poverini? Ah! consoliamoci, ché abbiamo in cielo la Madre, che è la Madre di Dio (Di Napoleone si racconta (come il buon capitano di Tebe Epaminonda godeva d’ogni vittoria per la consolazione che ne avrebbe avuto la madre) che d’ogni nuova conquista voleva portare egli la novella alla madre sua Letizia; per godere della materna consolazione, e che la madre gli rispondeva sempre con un sospiro: « Ne godo, ma i vostri fratelli ?…..; » e che pur finalmente le dicesse Napoleone: « Mamma, per compiacervi, uno lo farò re di Spagna, poi l’altro re di Portogallo, poi l’altro re di Wesfalia, e regina d’Etruria la sorella » e che allora la madre con un largo sospiro gli rispondesse: La madre vostra è felice! »). Le madri sono sempre madri, anche coi figliuoli che siano stati cattivi: e se mai un figliuolo ravveduto non ardisse di presentarsi al padre, buono sì, ma tanto sdegnato; tra un padre e un figliuolo cattivo, che vuol farsi buono, in sulla soglia, chi si intromette a far pace?… Lasciate fare alla madre. Ella dirà al padre: « avete ragione, fu cattivo quel meschinello…. » Ma intanto va dietro al padre, e mette mano nel forziere, e piglia una manata d’oro (il padre finge di non vederla!) e va sulla porta al figlio e, « to’, gli dice, paga i debiti tuoi, perché ti salvi in onore; » e per giunta lo bacia e gli piange sul volto! Si, veramente l’amor di madre rende immagine dell’amor di Dio! Amor generoso, cresce più quanto è maggiore il dolore che le costa il figlio. Adunque per tutte le ragioni il Cuor di Maria è, dopo il Cuor di Gesù, il rifugio dei peccatori. Ella è Madre! – Il Sacerdote contempla questa Madre in paradiso, l’ama, la benedice; e le si getta in cuore per dirle: « o Maria SS., Madre di Dio, e Madre nostra, da tanta altezza ben conoscerete in questa povera terra i vostri figli! Vedeteci chiamati qui a rinnovare il prodigio, che si operò in voi, Vergine SS., benedetta Madre di Dio. In mezzo a noi deve scendere il vostro Figliuolo divino; ed io Sacerdote devo prestargli in persona quei servigi e ministeri, che voi prestavate a lui Bambino in confidenza di madre; poi tutti noi dobbiamo, come voi, riceverlo in seno ora, che vuole per noi sacrificarsi, come là sulla croce. Santissima Madre, vi avete ben dunque voi il vostro interesse a farci santi, e a darci in prestanza le vostre virtù, per prepararci. » La Regina del paradiso dal trono di Dio, in cui siede coronata di stelle immortali, abbasserà lo sguardo rivolta a noi; e scorgendoci, come siamo, intorno all’altare, rigenerati dal Sangue di Gesù Cristo, penserà quanti le costammo dolori, quando appiè della croce ci ricevette per figliuoli dal Figliuol suo morente. E pare a noi, che dovrà esclamare: « son proprio dessi i miei figliuoli costoro, perché in essi è il Sangue di Voi, o mio Gesù: sì sono essi figliuoli dei miei dolori! » – La Religione cattolica non è una idea astratta, ma è la verità divina, che s’incarna in noi e con noi si umanizza: non distrugge le relazioni che abbiamo tra noi in terra come fratelli della gran famiglia, ma di più santo amor fraterno ci unisce coi fratelli in paradiso. Ah! I  protestanti, quando negano la divozione ai Santi, col voler vantarsi razionalisti cessano di essere umani! Eh! Ci vuol tanto a capire che i Beati in paradiso, così vicini a Dio, hanno da pregare per noi e rispondere alle nostre preghiere con le grazie ottenute! Ecco come la Chiesa prega i Santi. Nell’invocarli ricorda le relazioni particolari ch’ebbero in terra, e mantengono vive in cielo. Questa è la ragione dello sceglierci, che facciamo, i Prottettori particolari dei paesi, delle comunità, delle famiglie, e di ciascuno di noi. Quindi, dopo Maria, invoca il Sacerdote ad uno ad uno i santi Apostoli: Pietro, che della Chiesa è pietra fondamentale; Paolo, il suo gran maestro; gli altri Apostoli, che ne sono colonne. Essi tramandarono a noi questo gran Sacrificio, essi versarono il sangue per innalzare gli altari, su cui offrirlo: essi ce ne fecero precetto (1 Cor. XI, 23) e qui siamo appunto per eseguirlo. Invoca tanti Pontefici e Martiri; i Pontefici, che sostennero colla loro immancabile fede la Chiesa; i Martiri, che la difesero col sangue, lasciando le lor vite appiè della croce, come tanti trofei della Religione divina. Invoca tutti i Santi. E noi così poveri in quella società, preghiamoli, che ci compartano dei loro meriti: e colle preghiere loro all’uopo nostro ci impetrino forza da poter giungere a compiere il numero degli eletti, che faranno corona eterna a Dio in Paradiso. Chiedesi adunque qui, che il sacrificio, già per se stesso accettevole, sia gradito anche per i meriti loro (Bossuet, Expl. de quelq. diffic. sur les priéres de la Messe.). Il Sacerdote invocati i Santi, congiunge le mani, come per attaccarsi alla croce, e dire: « O Santi! da questo divin Redentore viene tutta la vostra giustizia e santità; ai patimenti e meriti suoi uniamo qui i patimenti e meriti vostri; e dallo stesso ancora offerto per noi, speriamo la grazia della vittoria nel tempo, e la corona nell’eternità gloriosa. » Che gaudio pei Beati vedere presentati i meriti loro insieme col Sacrificio divino! Così appiè di Gesù crocifisso si abbracciano coi Beati i fedeli, si bacian dell’animo; e col gaudio di quelli comunican questi le loro speranze, e già all’altare si preparano alle nozze, che celebreranno eterne coll’Agnello immacolato in Paradiso. Il Sacerdote poi stende le mani coi pollici in croce sopra l’offerta, e dice: Hanc igitur oblationem, etc.

Art. II.

Orazione seconda:

Hanc igitur oblationem.

« Quest’oblazione adunque della nostra servitù, e di tutta la famiglia vostra, Vi preghiamo, Signore, di ricevere placato, e di disporre nella vostra pace i nostri giorni, e di scamparci dalla dannazione eterna, e di concedere che veniamo annoverati cogli eletti vostri, (qui giunge le mani) per Cristo Signor nostro: Così sia. »

Esposizione.

Egli è questo forse della Messa il più terribile momento. Ecco il sacerdote, che stende le mani legate coi pollici in croce sopra l’offerta. Per intendere il qual rito, è da ricordare ciò, che si faceva per ordine di Dio nella legge antica in figura. Quando si offriva un sacrificio per i peccati, si conduceva la vittima innanzi al Tabernacolo (Levit, 4, 8.1); ed il sacerdote vi stendeva sopra le mani. Con questo stender le mani, dice Bossuet (De orat. Miss.), S’indicava che il sacerdote s’univa alla vittima per offrirsi con essa a Dio. Il Sacerdote adunque, ad imitazione di tal rito, collo stender le mani sull’offerta, che sta per divenire Corpo e Sangue del Redentore, se stesso col popolo offre, e si mette colle mani legate insieme a Gesù sulla mistica croce, chiedendo per Esso la rimessione dei peccati, la pace per la vita presente e la gloria della futura (Ant. De opt. aud. Miss. orat. pres. — Ben. XIV, lib. 2, cap. 13). Seppure non si vuol accennare ad un rito di più terribile significazione. Giova esporlo qui: fa gran senso! Nel gran tempio del Signore, in Gerusalemme, si menava innanzi all’altare un capro: e sopra quel capro il pontefice degli Ebrei stendeva ambe le mani, e confessando tutte le iniquità dei figliuoli d’Israele, sopra la testa di quello le scaricava tutte, imprecando sopra di esso tutti i castighi e le maledizioni, che si meritavano quei peccatori. Poi si ributtava con ribrezzo dall’altare quel capro, e battendolo si spingeva fuori a morir nel deserto (Lev. XVI, 21). E che poteva mai significare quel capro emissario?… Per poco non ci basta l’animo, e ci trema il cuore nel ricordar la spiegazione, che ne danno alcuni Padri (Teod. h. Hieron. Auct. ep. con Paul. Samos : vedi Dei Sacr. ecc. del Card. Tadini, benché egli creda il capro emissario significhi il genere umano. Noi non concordiamo con lui). Quel capro così maledetto voleva figurare… Gesù Cristo!… Né ardiremmo pronunziarlo, se non avesse detto il profeta Isaia (LIII, 6), che pose in Lui Iddio l’iniquità di tutti noi, e che Egli dovette portare le nostre ingiustizie (LIII, 11): aggiungendo s. Paolo, che Egli diede se stesso a redenzione per tutti (1 ad Tim. II, 6), e s’offrì per togliere i peccati di molti (Hebr. IX, 28) fattosi maledetto Egli stesso (Gal. III, 13), e come tale buttato fuori dalle mura della città a morir per i nostri peccati (Hebr. XIII, 12). Noi qui c’immagineremo di vedere Gesù là nell’ orto di Getsemani per cominciare la sua passione in quella notte, in cui tradide in mortem animam suam et cui sceleratis reputatus est: quando cioè si venne ad offrire alla morte come uomo, che portassei delitti di tutti. Egli si prostrò davanti al Padresuo, e par dicesse: « Con questi meschinelli di uominieccomi uomo anch’io; eglino sono i miei fratellidi sangue…… io sono di loro…… e faccio causacomune con loro… pago io per la mia famiglia…Voi mi avete dato un corpo; ecco che vengo adoffrirvelo per i peccati di tutti….. ricadano sopradi me tutti i peccati… scaricate sopra di mei castighiper lor preparati… Via dall’altare del Diovivente le carni di bestie morte in sacrifizio……..Questi sciagurati in carne e sangue da uomo hannooffeso Voi, Grand’Iddio; ecco Io soddisferò per loroin Carne e Sangue da Dio. » Colla sua mente divinavedendo in ogni tempo di ciascuno ogni peccato,se li raccoglie tutti sul cuore, come se reo nefosse Egli solo: e, misurandone la tremenda enormitàdalla Maestà di Dio offesa, così come se nesentiva gravato Egli stesso, inorridì, fremette; unbrivido gli corse per le vene, e spinse il Sangue alCuore; e il Cuore, stretto in quella pressura ditremendo orrore, respinse il Sangue ancor per levene (Vence Bibl. Sac. Dissert. sul sudor di Sangue di G. C. di Aliot.): e Gesù in quell’angoscia cadeva per terra agonizzante. Fu allora, che in quell’abbandono della vita, cedendo l’eretismo della cute, il Sangue dal Cuore nelle vene respinto, tra i pori di essa s’apri la via, ed esciì di Sangue così profuso sudore, che ne grondava il volto, e la persona, e giù per le vesti scorreva per terra. Deh! Contempliamo Gesù Cristo cogli occhi allargati tutto bagnato di Sangue, boccheggiante in agonia, quasi fissi lo sguardo in volto a noi in quello spasimo e dica: « Intendete che cosa sia il peccato! mi fa sudar Sangue in agonia, e mi spinge a morte. Pregate sempre per non peccar più. » Levossi in piedi e si diede in mano ai Giudei, che lo batterono, e tutto lacero lo spinsero a morir fuori delle mura di Gerusalemme sul Calvario. Noi, picchiandoci il petto col più gran dolore, affrettiamoci di porci tremando coi nostri peccati a piè dell’altare, dove Gesù Cristo se li vuol addossare, affinché Dio si plachi rammentando i colpi, che già per la nostra redenzione e per la punizione e remissione del peccato si scaricarono sul Figlio, o meglio, affinché veda ancora il Figlio suo sacrificato dinanzi; e dal suo sdegno per Esso ci scampi. – Ora conosciuta la mistica significazione del rito, passiamo a considerare il modo eseguito dal Sacerdote protendente le mani in quell’atto, che noi con lui congiunge. Ecco poi perché si congiungono le mani. Siccome le vittime si strascinavano legate ai piedi delle are, dove si dovevano immolare; così il Sacerdote sta col popolo prostrato innanzi all’altare colle mani legate dai due pollici in forma di croce; quale reo dai vincoli stretto si confessa in peccato, e si dà nelle mani di Dio, come vittima sacra alla sua giustizia. In questo atto, di qui d’appié della croce getta uno sguardo nell’abisso d’inferno, che si vede spalancato sotto dei piedi: si slancia ad abbracciarsi alla croce; e mette tal grido di speranza e terrore: « Oh tremendo Iddio! ecco la povera vostra famiglia! Per noi Gesù vi placa coll’offrire se stesso! Vorrete perdere i figli comperati col Sangue del vostro Figlio divino? Deh per Gesù (qui giunge le mani per attaccarsi strettamente a Lui crocifisso) salvateci dalla dannazione meritata dai nostri peccati, e consolateci colla vostra pace; strappateci di bocca all’inferno, e portateci in union con Esso, a farvi, cogli eletti corona in cielo. » Noi passiamo a dare tradotta la terza orazione, prima di commentarla., perché si legga bene: affinché si possano gustare nell’intimo del cuore colla tenerezza della propria pietà, ben più che non possiam noi fare comprendere colle povere nostre parole, i sentimenti al tutto divini ch’essa inspira.

Art. III.

ORAZIONE III : QUAM OBLATIONEM.

Orazione.

« La quale offerta da Voi, o Signore, in tutti bene+detta, ascritta, confermata, ragionevole ed accettevole, vi preghiamo che vi degniate di fare che diventi per noi Corpo e Sangue del dilettissimo Figlio Signor nostro Gesù. »

Orazione: Qui pridie,

« Il quale, il giorno innanzi alla sua Passione, (il sacerdote prende l’ostia) prese il pane nelle sante e venerabili mani sue, (eleva gli occhi al cielo) ed elevati gli occhi in cielo) ed elevati gli occhi al cielo a Voi, Dio, Padre suo Onnipotente, a Voi rendendo grazie (fa colla mano il segno di croce sopra l’ostia) benedisse, spezzò e diede a’ suoi discepoli dicendo: « Prendete e mangiate: Hoc EST ENIM CORPUS MEUM. »

Queste della Consacrazione sono così sacrosante parole che vorremmo tenerle come velate col linguaggio della Chiesa in santo mistero.

La Consacrazione.

Pronunziate le parole della consacrazione, adora subito genuflesso la Santissima Ostia, sorge, l’innalza, per mostrarla al popolo, la ripone sopra il corporale, l’adora di nuovo: ed il pollice e l’indice non disgiunge, se non quando si ha da trattar l’Ostia, fino all’abluzione delle dita. – Nello stesso modo cenato ch’ebbe (prende il calice con ambe le mani), prendendo anche questo Calice preclaro nelle sante e venerabili sue mani, similmente rendendo a Voi grazie (tiene il Calice colla sinistra, e fa sopra di esso il segno di croce colla destra) benedisse e diede ai suoi discepoli dicendo: Prendete, bevete. (Qui proferisce le parole della consacrazione segretamente sopra il Calice, che tiene un poco sollevato tra le mani).

« HIC EST ENIM CALIX SANGUINIS MEI NOVI ET ÆTERNI TESTAMENTI: MISTERIUM FIDEI: QUI PRO VOBIS ET PRO MULTIS EFFUNDETUR IN REMISSIONEM PECCATORUM. » Pronunziate le parole della consacrazione, depone il Calice sopra il corporale, dice segretamente: « Ogni qual volta farete queste cose, le farete in memoria di me. » Il Sacerdote genuflesso adora, sorge, mostra al popolo il Calice affinché adori il Santissimo Sangue; lo depone, lo copre, l’adora di nuovo; di poi tenendo le mani aperte avanti al petto, continua.

Esposizione dell’orazione: Quam cblationem.

Solenne momento della più terribile Azione santissima!….. Ora si consacra il Santissimo Corpo, ed il Santissimo Sangue di Gesù Cristo. Oh, gran Dio della bontà! Possiamo dunque salire sul terribile monte a contemplarvi vicini vicini nel più sublime Mistero d’amore! Deh, quanto ci sentiamo miserabili in questo punto! Pur con così povero cuore ubbidiremo al vostro invito, terremo appresso, per mano, passo passo alla madre Chiesa, per penetrare in questa santissima orazione, che cercheremo di esporre in quattro distinti capitoli. Nel primo esporremo quella parte dell’orazione, in cui accingesi alla consacrazione: e mediteremo il Sacrifizio. Nel secondo contempleremo il Sacerdote nell’atto che si eleva fino ad unirsi con Gesù, e ad identificare l’azione sua con quella di Gesù Cristo stesso. Nel terzo contempleremo il prodigio della Consacrazione. Nel quarto mediteremo il comando del Redentore, che ci lascia il Sacrificio a far memoria della sua Passione.

CAPITOLO I.

ESPOSIZIONE DELL’ORAZIONE:

QUAM OBLATIONEM.

È un istante di grande pietà! I fedeli ricoverati appiè della Croce, coll’inferno che si sprofonda sotto de’ piedi, col paradiso aperto sul capo, col cuore a Gesù che sta per sacrificarsi per loro, non sanno fare meglio che gettarsi fra le braccia di Dio, pregandolo di voler accoglierli per tutti suoi insieme alla grande sua oblazione. A questo fine il Sacerdote fa a nome di tutti questa santa preghiera, che, tramandata a noi dai tempi apostolici dai santi Padri di secolo in secolo, fu riguardata come parte della consacrazione. S. Ambrogio chiama questa orazione , « parole celesti; » e nella professione di fede, che la Chiesa da Berengario, volle, che questo eresiarca confessasse, che il Corpo ed il Sangue di Gesù Cristo sono realmente e sostanzialmente presenti nella SS. Eucaristia per mezzo della sacra preghiera e delle parole di Gesù Cristo. Non già che la Chiesa attribuisca a quest’orazione la virtù di cangiare il pane ed il vino nel SS. Corpo e nel Sangue. È di fede, che questo gran prodigio si opera colle sole parole di Gesù Cristo; ma in quest’orazione si esprime il voto della Chiesa, e l’intenzione di eseguire ciò che il Signore a lei unito vuole per lei operare: e se colle parole sole: « Questo è il mio Corpo » si opera il gran Mistero; colla orazione suddetta lo si prepara in questo ultimo istante. In essa diciamo al Signore: « La quale oblazione preghiamo ecc. » Grande Iddio! Non è già che dubitiamo del Mistero; egli non può mancare: ma col pregare non riconosciamo in noi altro diritto a questo favore, che quello che la vostra misericordia ci concede di domandare, la nostra speranza ci fa attendere, e ferma la fede sull’autorità della vostra parola, sa che si deve verificare certamente. « O Signore, degnatevi di fare che in tutti sia benedetta ecc. » Dio santo! questa gran meraviglia vuole da Voi la vostra Divinità! Voi volete il ristabilimento della giustizia, l’abolizione del peccato, un’adorazione qual è a Voi dovuta. Voi volete anche la nostra santificazione. Deh! operate per carità il miracolo, che vi chiediamo, e fatene un’Oblazione, che in tutte cose porterà la benedizione, che comprenderà tutte le grazie, servirà a tutti i bisogni, soddisferà a tutte le nostre obbligazioni, e sarà atta ad appagare tutti i nostri desideri, secondo la vostra volontà. « Sia Benedetta, ammessa, confermata, ragionevole ed accettabile ecc. » – Il Sommo Pontefice Benedetto XIV cita come la più bella spiegazione di queste parole, questa di Pascasio Abate (Lib. De corp. et sang. C. cap. 12); che noi commenteremo. Con questo gran Sacrificio divino la Chiesa, volendo offrire insieme tutti i suoi fedeli, chiede qui che per la divina Offerta, e con la divina Offerta, anche l’oblazione che di sé fanno i fedeli, sia in tutto e per tutto benedetta; cioè che in quella siam benedetti noi stessi: che sia ammessa, cioè che per essa siamo al cielo ammessi: che sia confermata e resa permanente, irrevocabile, che cioè per essa veniamo inviscerati in Gesù Cristo, così da non essere mai più da Lui separati: che sia ragiongrole, e così degna al tutto di Dio; sicchè soddisfacciamo per essa a tutti i nostri doveri, che altrimenti non abbiamo speranza di poter soddisfare coll’offerta d’irragionevoli creature; ed anche perché per essa veniamo purificati da ogni sozzura, e dall’antica corruzione, e da ogni resto di animalità; sicché alla ragione il mal talento si assoggetti, la carne all’anima, e l’anima a Dio, siccome esige l’ordine della eterna giustizia, che è la somma ragione, la volontà divina. Chiediamo finalmente, che la sia accettevole, ed in essa, senza che guardi Dio ciò che in noi gli spiace, si compiaccia del Figlio suo; così che per Esso diveniamo accettevoli al suo cospetto. – « Affinchè sia fatto per noi Corpo e Sangue del dilettissimo vostro Figliuolo Signor nostro. » Fin qui abbiam fatto tutto che per noi fare sì possa: ora ci affrettiamo di pregar Dio d’intervenire coll’opera sua. Quando Abramo saliva sul Moria disposto a sacrificare a Dio il figliuolo Isacco, che gli portava le legna da abbruciare la vittima, « Padre, gli disse il buon figliuolo, ormai siamo sul monte, la legna è pronta, lì erigeremo l’altare; ma la vittima dov’è? » « Provvederalla Iddio, » rispose Abramo, e saliva sul monte a fare l’offerta (Gen.). Anche la Chiesa dice pel Sacerdote: « Signore, provvedeteci tal vittima, che basti per le colpe nostre e per la vostra grandezza. » Mentre colla coscienza che ci accusa, attendiamo paurosi che ci provveda Iddio, ci pare di sentire il profeta Isaia esclamare: « Ecco ci è nato un Pargolo, ci fu largito un Fi-glio; (Is. XIII, 9) » e ci si presenta al pensiero Maria col Bambino tra le braccia, che placando il Padre, con un sorriso a noi si volse in atto di dirci: « Sono vostro e farò Io per voi. » Ah! sei pur bella e cara, o Religione santa, che per riconciliarci col cielo intrometti tra noi e Dio una così tenera Madre ed un Pargoletto divino! Bene anche noi possiamo esclamare, allargando il cuore ad accoglierlo con tenerezza infinita: « Questo Bambino è proprio nato per noi: e ce lo avremo per tutto nostro qui sull’altare. » Ecco perché dice che: sia fatto per noi il Corpo e il Sangue (S. Tom. Suarez, pres. Ben. XIV): perché, come per l’onnipotenza di Dio si ha da rinnovar sull’altare il prodigio della verginale maternità, e misticamente il divin Figliuolo si ha da incarnare (Bossuet, loc. cit) ; così chiediamo che per la salute dell’anima nostra compia Esso il tenerissimo Mistero, e si trovi qui fra noi fattosi proprio quasi di nostra ragione, senza che i nostri peccati impediscano che sia nostro (Opuc. S. Bern. Sermo de excel. San. Sacra). –  Raccogliamo qui tutti i nostri pensieri, per comprendere, per quanto ci è dato, il Sacrificio.

Il sacrificio.

Qui è da ricordare ciò che abbiamo già detto nei preliminari di questo libro, come la santa Messa è propriamente Sacrificio; ed il Sacrificio è una offerta di cosa sensibile, fatta a Dio solo da un legittimo ministro con distruzione o cambiamento del modo di essere della cosa stessa, per attestare il supremo dominio di Dio sopra tutte le cose, e per dare soddisfazione dei peccati alla sua giustizia. Il sacrificio, diciamo, è qualche cosa di più che una semplice offerta, perché nel sacrificio la cosa offerta deve essere distrutta, o subire cambiamento di stato (Bened. XIV, De sacrif. Miss., lib, 2, c, 16). Distruggendo per tanto una creatura in onore di Dio, l’uomo dice al Signore: Io riconosco che Voi siete il padrone della vita e della morte, e di tutto ciò che ha esistenza, e che nelle vostre mani sta la sorte mia e quella di tutti. Nei sacrifici per lo più si uccide la vittima, e sono chiamati cruenti per quest’atto appunto di versare il sangue per espiare il peccato. Se l’uomo fosse rimasto innocente, non si sarebbero fatti sacrifici accompagnati dalla morte della vittima: poiché la morte, dice S. Paolo, non è entrata per noi nel mondo, se non per il peccato. Ma l’uomo, coll’aver peccato, essendosi reso degno di morte, aveva bisogno di fare sacrifici di sangue, nell’offrire i quali si gettasse ai piedi dell’altare di Dio in umiltà, per dirgli con questo atto: « Confesso che merito la morte, ma della vita non essendo io il padrone, vi presento in sostituzione della mia vita questa vittima che vi sacrifico. » Gli uomini peccatori adunque hanno bisogno di offrire sacrifici; è la coscienza che loro intima il dovere di affrettarsi a scannare vittime innanzi a Dio, in sostituzione ed a scampo della loro vita, già devota e sacra alla divina giustizia. Quindi le genti di tutte le nazioni del mondo si mostrarono persuase in ogni tempo, che senza effusione di sangue non si fa remissione di colpe (Hebr., XIX, 22). Ora quale doveva essere la vittima, e quale il sangue, che valesse a placare lo sdegno di Dio? Immaginiamoci qui, che quando stiamo in devoto raccoglimento nella magione di Dio, una mano di Sacerdoti, spalancate le sacre porte, spingesse fino nel più interno dei magnifici nostri santuari un gregge di pecore e di buoi! Poi il pontefice, di una scure armato e di un coltello, salito sopra l’augusto altare, menasse colpi sulle bestie trascinategli ai piedi e si mettesse a sgozzarle: e presa una manata di quel caldo sangue, con esso cospergesse l’altare e le pareti delle venerande basiliche, e non che altro, le nostre persone!…. Sarebbe questo uno spettacolo che ci irriterebbe i sensi, e ne resterebbe offesa la nostra sensibilità. Eppure si farebbe ciò solamente, che hanno sempre praticato i popoli dell’universo, anche i più colti: e basti nominare i Romani e i Greci (vedi Omero, III, Odissea. – Virg. L’Eneide), della cui cultura e civiltà sono ormai noiosi gli eterni vanti. Anche gli Ebrei per divino comando offrivano di tali vittime, e ponevano sull’altare del Dio vivente le carni, l’adipe, il sangue degli sviscerati animali (Nicolas. Studi filosofici; Sacrificio). Ma i sacrifici degli animali non potevano essere per se stessi a Dio graditi, né potevano avere virtù, se non perché rappresentavano in figura un Sacrificio ben più accettevole, e di merito, e di prezzo infinito. Questo aveva al popolo suo promesso Iddio, annunziando per mezzo dei profeti il Sacrificio del suo Figlio: ed i fedeli a Dio, salutandolo da lungi, lo anticipavano colla speranza, impetravano a quel culto di figura l’efficacia promessa, e desiderata realtà, sospirando il Sacrificio che Dio aveva promesso di dare ai fedeli da offrire. Così i sacrifici erano un misterioso adombramento di quel Sacrificio per eccellenza, che sul Calvario consumato, si doveva poi rinnovare nell’adorato Mistero della santa Messa (S. Joan. Chrys. hom. 49 in Io.). A mantenere viva codesta fede nel popolo d’Israele, destinato ad essere il gran custode delle verità rivelate, erano ordinate quattro sorta di sacrifici (Lev. C. 1 e segg. – S. Tomm., p. 3, quæs. 103. – Lamy, L. 3. De vet. Temp.). L’olocausto, in cui la vittima dal fuoco interamente si consumava, e si offriva per adorare il Signore; il sacrificio Pacifico, che offrivasi per ringraziarlo: il Propiziatorio, per espiare il peccato; l’Impetratorio, per ottenere grazie dal cielo. Intanto tutti questi sacrifici, per la sola fede nel Redentore venturo, traevano il loro merito e la virtù da quello di Gesù Cristo. Così quei fedeli della speranza venivano a dire nell’offrirli: « Questi sono quel tanto, che per noi si può offrirvi, o grande Iddio; verrà poi il Desiderato nostro, che vi offrirà il Sacrificio che basti per tutti, e sia al tutto degno di voi. » E venne a compiere il cotanto necessario gran Sacrificio Gesù Cristo, Vittima e Pontefice eterno, per noi offrendo se stesso a morte in croce (Conc. Lateran. IV, cap. De fide catt.). Ora nella santa Messa si ripete il medesimo Sacrificio, e solo è diverso il modo con cui si offre (Conc. Trid. Sess, 22, c. 2). Così, come nel Sacrificio della croce è il prezzo del nostro riscatto; nel Sacrificio dell’altare è l’applicazione che se ne fa a noi (S. Thom. In cap. 6, Ioan. Lectio 6). Oh! sì veramente a questo fine poteva giungere l’amore di Dio, che seppe morire per noi … in fine dilexit eos! Ma qui sulla soglia dell’altare, nel più santo e tremendo istante, raccogliamo i nostri poveri pensieri; ne resterà soddisfatta come speriamo, questa meschina di ragione umana, che barcolla tra gli abissi di tanti misteri. Perché il Sacrificio divino, 1° spiega il mistero, che è il più gran mistero, di tutte le religioni; 2° rivela la essenziale bontà ch’è Dio, nel salvare gli uomini.

1. Il mistero di tutte le credenze è spiegato.

Qui, e fin dal principio dell’opera, abbiamo osservato:

1° Che tutta l’umanità sente il bisogno di offrire sacrificio a Dio e vittima per lo peccato.

2° La vittima poi sempre si è voluto, che sia tutt’altro che il colpevole, e pura ed umana al possibile. Per questo quasi dovunque si offrivano degli animali i primi nati, i più belli, i domestici sempre, gli agnelli sovente, simboli dell’innocenza.

3° Della vittima velevasi proprio versare il sangue nell’atto del sacrificio.

4° Della vittima, se si consumava una parte, l’altra parte tuttavia gli offerenti se la volevano mangiare.

Per soddisfare questo bisogno, qual cosa potevano presentare sugli altari?. Degli animali! Seppure questo vivo bisogno nelle bordaglie degli inferociti non diventava furore, da scannarvi sopra le persone migliori, che per loro avere si potessero! … Qual mistero qui!… Osserviamo che quanto più è universalmente sentito il bisogno da tutto il genere umano, tanto più sembrano irragionevoli i mezzi con cui si cerca appagare questo bisogno, di placare Dio collo scannare vittime, poi di voler pigliarsi una parte della vittima per mangiarsela. Infatti, si potrebbero a tutti quei popoli far queste quattro domande: La prima: se gli uomini si sentivano colpevoli, quali meriti al perdono pretendono trovare in una vittima scannata per forza, e tal volta con un nuovo orribile delitto, come nei sacrifici umani? – Le seconda: se la vittima valesse per una qualche cosa innanzi a Dio; per qual ragione pretendevano i colpevoli attribuirsi, e pigliarsi per sé i meriti della povera vittima, sacrificata talora con tanto di crudeltà? – La terza: non poteva forse che volessero imputare Dio di crudeltà per questa esigenza di vittime; quasi che Dio non si fosse altrimenti placato, né potesse la sua bontà manifestarsi, senza la distruzione delle creature? – La quarta: quale bisogno, anzi ardimento di mangiarsi parte della vittima offerta? Qui noi domandiamo: Quale risposta potrebbero dare le genti, per mostrare di aver in tanti sacrifici con ragione operato? La ragione umana, piuttosto che sapere rispondere, si adonta e ripugna a questa pratica, che il genere umano volle nel mondo universo mantenere con perseveranza ostinata. Piuttosto ella stessa la ragione incantata dovrebbe domandare: « E chi o genti così svariate, mise in fondo del cuore a voi tutte questa voglia universale di scannare tante povere vittime? » Se i popoli non sapessero rispondere, sappiamo noi dare la bella risposta. È la bontà di Dio! Sì, la bontà di Dio, che mentre rivelava la sua giustizia infinita, per non mancare a se stessa, reclamava una soddisfazione infinita; e mentre vedeva che gli uomini, nella loro miseria non la potevano dare, promise agli uomini, ancor raccolti nella primitiva famiglia, prima che si disperdessero sulla superficie del pianeta, che v’avrebbe provveduto col sacrificio di se stessa questa essenziale bontà!… Ah! d’allora lo sospirarono sempre le genti dell’universo!… e si affannavano intanto incessanti a far sacrifici. Questi sacrifici poi dispiacevano e piacevano a Dio: dispiacevano, se gli si offrivano per la loro realtà, quasi che ne abbisognasse Egli stesso: ma gli piacevano nella figura che rappresentavano. « Non mi piacciono i vostri doni (disse il Signore per Malachia): da dove sorge, fino là dove tramonta il sole, grande è il mio Nome, e al mio Nome si sacrifica e si offre una monda Oblazione » (Nal. X, 11). Ma quale, e dove è questa monda oblazione?… Oh! sentite, sentite: da dove sorge fin dove tramonta il sole s’innalza un cantico, è il cantico della nuova umanità che in tutte le Messe acclama: « È Santo, Santo, Santo, l’Altissimo, il Monarca eterno dell’universo, e per Lui ecco la monda oblazione, benedetto Chi viene a noi mandato da Dio? Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati non dell’uno, o dell’altro popolo; ma del mondo universo. Ecco l’Agnello di Dio, che l’Apostolo dell’amore vide in visione essere sacrificato fin dal principio. Ecco l’Agnello di Dio, che rompe i sigilli del gran mistero dell’umanità: mette in armonia il cielo colla terra: dona la pace agli uomini di buona volontà » Poiché e che cosa vogliono gli uomini, per aver la pace con Dio? Vogliono una vittima degna di Dio?.. Ecco l’Agnello di Dio: la vittima pura; santissima, se la cava Dio stesso dal suo seno: è essa il Figlio suo, a cui ha dato un corpo in terra, ed egli grida: Vengo ad offrirvelo in sacrificio. – Vogliono versare sangue a placare la giustizia di Dio? Ecco l’Agnello di Dio, che per mostrare quanto è grande giustizia divina, effonde il suo Sangue per redimere i peccati e trova in cielo la redenzione. – Vogliono una vittima che abbia meriti da parteciparvi? Ecco l’Agnello di Dio: ma che pure è di nostra ragione: Gesù è carne della nostra carne: partecipiamo adunque in Gesù Cristo dei suoi meriti. Su, su, noi meschinelli di uomini! Non ci resta altro a fare, che unire il nostro al Sacrificio divino, crocifiggere la nostra carne in Lui, attaccarci a Lui colla grazia, Pontefice eterno, Vittima che non muore, Dio con Dio, uomo con noi: e noi unendo il sacrificio della nostra carne coll’Agnello, su, su, con fiducia ritorniamo alla grazia, al trono di Dio; e in Dio troveremo tutto il nostro bene. Adoriamo! Il cielo si abbassa alla terra; i beati l’adorano con noi prostrati in Paradiso: e noi grideremo, che qui vediamo nella grandezza della giustizia eterna il trionfo della divina bontà. Vidimus gloriam eius: Deo gratias! –  È così; il sacrificio della santa Messa è il tuttoper la salvezza dell’umanità.L’umanità lo ha compreso. Daniele profeta l’avevaavvisata, che quando il Cristo sarà ucciso …i sacrifici saranno aboliti. Cessarono di fatto nel tempiosanto; cessarono nei templi pagani. Plinio fin dal principio dell’era cristiana si lamentava coll’imperatoreTraiano, che neppure i pagani non sì curasserodelle vittime più; e sei protestanti abolironola Messa, a rischio di mostrarsi una mostruosa eccezione tra i popoli dell’universo, resteranno senzasacrificio. La profezia di Daniele sul sacrificio delMessia divino è un fatto Mondiale.Buon Dio! .. Qui a noi in contemplazione di cosìalto mistero pare che piova uno splendore di misticaluce, per cui ci è dato di scorgere traccedella verità cattolica in fondo a tutte le religioni,di cui un barlume di luce fosforica ondeggia sullasuperficie dei falsi culti. Faremo di spiegarlo.Bene, il Verbo di Dio, che illumina ogni uomo,nella religione primitiva alla prima famiglia umanarivelò il vero cattolico: ma il diluvio, dai mali spiritiscatenato, dentro il tenebrore dell’ignoranza edella corruzione, rovinò il grande edificio della credenza universale, e vi gettò in mezzo quel putridume delle laide superstizioni. Pur tra mezzo a quella rovina restarono ruderi ammirandi, che accennano alla grandezza del rovinato edifizio; e Dio, perché non mancasse del tutto agli uomini la verità, in mezzo a quell’ondeggiar sconvolto di errori, mantenne fermo un monumento, in cui stanno scolpite in un bronzo indistruttibile le primarie verità cattoliche. Eccole: un Dio creatore da adorare; l’uomo decaduto per il peccato; un mediatore, che riconcilia gli uomini con Dio, senza di cui resterebbero di ogni bene per sempre diseredati. Adunque le principali verità cattoliche stanno scolpite, e si leggono chiaramente nel Sacrificio, è il Sacrificio praticato in tutte le religioni del mondo è come il bronzo, che le conserva incancellabili. In vero, se le nazioni in tutte le religioni fanno sacrificio alla Divinità, e cercano placarla col sangue, lo fanno perché sperano di riconciliarsi con essa: e se si gettano sugli altari a mangiare della vittima deposta quasi come in seno alla Divinità, sperano di trovare in essa tutto il loro bene. Hanno dunque in confuso le stesse credenze, che sì trovano divinamente spiegate nella sola Religione cattolica. – Deh! quale consolazione per un Cattolico, potere dire coscienziosamente con la più alta ragione: « Grazie a Dio! Io possiedo in tutta la sua bella interezza la verità, di cui si vedono gli avanzi in tutte le false religioni. » Così tutti i popoli in religione dissenzienti, a parte a parte, a dispetto delle loro contraddizioni, presentano una porzione di verità in conferma della Religione cattolica: e mostrano il bisogno di essere ristorati nel culto, che splende solo degno di Dio NEL SACRIFICIO DELLA SANTA MESSA. – Qui noi, si, vogliamo gridare d’appiè dell’altare: « Su via, Turchi, Bramini, Buddisti, Feticisti, Idolatri dell’Africa, dell’America, dell’Oceania, voi come i Greci e Romani, e tutti i pagani antichi e moderni, ecché volete ottenere con tanti vostri sacrifici? … quello che volete, si trova solo nella Santa Messa. »

QUARESIMALE (XXXIV)

QUARESIMALE (XXXIV)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711).

PREDICA TRENTESIMAQUARTA
Nella Domenica delle Palme.

La corrispondenza alle voci di Dio, necessaria alla salute eterna.

Benedictus qui venit in nomine Domini.

Queste parole dell’odierno Vangelo sono voci a voi di giubilo, a me di tormento. Odo trionfi, e sento plausi tributati dalla ossequiosa Gerosolima al Redentore; ed a voi senza dubbio R. A. tripudia il cuore in petto, e l’alma in seno, mentre da vestimenta stese al suolo e da palme sparse in segno di gioia, ne arguite una risoluzione universale di Gerusalemme di volere udire sollecitamente le voci del suo Redentore. Non così segue in me, giacché dall’eremo di Chiaravalle mi risuonano alle orecchie le dolorose voci di San Bernardo. Ahi, ahi, che vedo! Vedo, che tanti e tanti voltano le spalle a Cristo, che viene a chiamarli a penitenza, non lo vogliono sentire. Si, sì, dirò con San Bernardo, queste sono le riflessioni che turbano una giornata sì allegra, hanc serenam diem obnubilant. Rovinò Gerosolima perché  non volle udir le voci del Signore, rovinerà ogn’anima che non voglia udir la parola di Dio, allorché Egli viene per far pace col peccatore ove, all’opposto, se corrisponderà, avrà salute eterna. Non v’è chi non sappia che quando si devono aver trattati di pace non tocca all’offeso domandarla all’offensore, ma bensì all’offensore chiederla all’offeso. Ogni dover vuole che quello il quale ha ingiuriato, vilipeso e maltrattato il suo prossimo sia altresì quello che a lui si umili, gli domandi perdono e pace. Tanto appunto ci narrano le Sacre Carte allorché ci raccontano che Benadad, re della Siria doppo aver oltraggiato, vilipeso e maltrattato in varie guise Acabbo Re d’Israele, egli fu che a questi inviò Ministri vestiti di sacco e cinti di corda, aspersi di cenere, i quali a nome suo gli domandassero con tutta sommissione perdono e pace. Ma o quanto diversamente vedo io oggi praticarsi con voi miei uditori. Ditemi per verità: Chi è l’offeso, voi da Dio, o Dio da voi? Ah, che senza dubbio voi siete quelli che avete offeso Dio, l’avete offeso con i pensieri, l’avete offeso con le parole, l’avete offeso con l’opere. Dunque, ogni dover voleva che voi foste i primi a spedire a Lui ossequiosi messaggeri, i quali a nome vostro, trattassero e concludessero questa pace di tanto rilievo, di tanta importanza. Eppure io vedo operarsi tutto l’opposto; mentisco forse a parlare in tal forma, o questo no? Ecco che Egli è quello, che ha mandato a voi i suoi predicatori evangelici, perché vogliate con esso far la pace, che vuol dire una buona e santa Confessione. Potrò io credere che dopo un sì lungo invito in questo corso Quaresimale, vi debba esserne pur uno che non sia per corrispondere? No per verità; e se ciò seguisse, guai a lui, si costituirebbe in uno stato miserabilissimo, sì per l’ingiuria che farebbe a Dio, sì per il danno grandissimo che risulterebbe a sé medesimo. E qual ingiuria mai maggiore potreste voi fare al vostro Dio di questa? Ditemi, se un vostro amico se ne venisse alla vostra casa per chiedervi un favore, per domandarvi una grazia, non gli fareste voi una grande ingiuria se gli diceste che se ne andasse e che tornasse un’altra volta? Certo che sì, e ve lo conferma lo Spirito Santo ne’ Proverbi al terzo, riprovando un tal fatto come ingiurioso, ne dicas amico tuo vade, revertere, cras dabo tibi. Or, che gran male sarebbe mai usar questo mal termine, non con un uomo eguale a voi, ma con Dio onnipotente, col Signore degli Eserciti, col Padrone dell’Universo; ma avvertite che qui non ferma il mal termine, qui non stagna l’enormità delle ingiurie, ma cresce a dismisura, perché qui non si tratta di ributtare uno che venga a domandarvi grazie e favori, ma uno che viene ad offrirvele, che brama di farvele; più, uno che vi vuol fare il servizio maggiore che possa mai farvisi, qual è dar la salute all’anima vostra. … Or io dico, se il solo fare aspettare un Signore sì eccelso, sì benefico e cortese ed il non rispondergli subito
subito, basterebbe per altamente offenderlo, giudicate voi qual ingiuria sarebbe non solo farlo aspettare qualche poco, ma chiudergli ostinatamente la porta perché non entri, che vale a dire, non dare orecchio agli inviti suoi. Sebbene motivo più gagliardo al peccatore per far la pace con Dio sarà non l’ingiuria che fa a Dio, ma il danno che fa a se stesso. Or che gran danno fate a voi peccatori, se ricusate un’occasione sì bella di convertirvi, che altro non è che far la pace con Dio. Dovete sapere che Iddio, sì come ha ab eterno ordinato, determinato il fine della vostra salute, così pure ha determinato il mezzo; e qual mezzo mai più efficace può darvi della Divina Parola? Or, se voi lo ricusate, non potrete con fondamento temere della vostra salute? Guai a Zaccheo se chiamato da Dio non scendeva dall’albero subito per alloggiarlo. Guai a Matteo, se alle voci di Cristo non rispondeva con lasciare dubito il Telonio. Che sarebbe mai stato della donna samaritana, se ella avesse ricusato d’udire le parole di Cristo, se gli avesse voltate le spalle, se non gli avesse in verun modo prestato orecchio, ma avesse detto: adesso ho altro che fare, sono assetata, sono arsa, e poi l’ora è tarda, hora est quasi sexta, conviene che io torni alle mie faccende domestiche. Ditemi, se così avesse operato e parlato questa donna, non è più che probabile che ella avrebbe seguitato la sua vita infame, che sarebbe rimasta negli errori della sua infedeltà, e che ora piangerebbe giù tra i dannati nell’inferno? E perché non devo io temere che sia per esser l’istesso se voi adesso non rispondete agli inviti di Cristo, che con voi vuol pace, e perciò vuol che vi convertite? E di fatto, perché si perdette Gerusalemme? per qual causa una città sì ricca, sì nobile, sì bella, capo d’imperio, sede di re, città regina delle città, che in più giri di mura cingeva più corone, per qual causa, dico, fu desertificata dal ferro, fu incenerita dal fuoco? Non per altro, perché non seppe valersi del tempo suo, non corrispose quando Dio la chiamò a penitenza, eo quod non cognoveris tempus visitationis tuæ. Poveri voi, miseri voi peccatori, sì simili a Gerusalemme: ricuserete le chiamate di Dio, poiché proverete ancor voi estermini; sapete quello che farà Iddio con voi? Vi tratterà da nemici giacché tali volete essere non facendo seco la pace e perciò potrete temere, che non mandi sopra di voi i suoi fulmini con severi castighi, ed anche con togliervi ad un tratto la vita; lo potrebbe certo far con voi, siccome l’ha fatto con altri simili a voi. Così la tolse ad un cavaliere d’una città in Toscana, il quale senza dare orecchio alle chiamate divine se ne andò agli spassi con i compagni, da uno de’ quali, per divina permissione, fu ferito da un colpo di archibugio, di modo tale che in tre giorni se ne passò all’altra vita. Miei UU. non ne mancano di questi casi, però fate pace con Dio, perché altrimenti vi potete aspettar di peggio. Sapete quello farà Iddio se voi non approffittate di questa bella occasione, se non vorrete la pace che Egli per mezzo mio v’offre: cesserà di visitarvi, cesserà di parlarvi più al cuore, vi volterà le spalle. O che gran castigo sarebbe mai questo, e voi non inorridite a queste proteste? Ben si vede, dunque, che non capite ciò che voglia dire voltarvi Dio le spalle, abbandonarvi; non vi parlar più al cuore vuol dire darvi il maggior castigo che possa uscire dal braccio formidabile della sua Onnipotenza; e non udite come Egli se ne dichiara per bocca del suo Profeta, veæ cum recessero ab eis, guai a voi, se io stanco delle vostre ripulse, mi risolverò d’abbandonarvi? O che gran castigo, o che gran danno sarà il vostro. Io non dico, miei UU. che Iddio allorché vi volterà le spalle sia per privarvi di quella grazia la quale è necessaria per non cadere in peccato; ma dico bensì che ne sarete assistiti sì languidamente, che per vostra colpa vi cadrete. Talché a vostro maggior danno seguirà che dopo la caduta sarete privi dell’aiuto più copioso, e così privi non vi risolverete a pentirvi di cuore e a ritornare a Dio. Poveri voi, e qual castigo mai maggiore potete sognarvi di questo: che Dio v’abbandoni in tal modo che Dio non vi parli più al cuore, e vi volti le spalle? Volete conoscer meglio che castigo sia questo, ditemi. Se il sole fosse a forte sdegnato con la terra, qual sarebbe il maggior castigo che potesse dargli? Forse cangiar tutti i suoi raggi in tanti fulmini, e tutti sopra d’essa scaricarli? Appunto, il castigo maggiore sarebbe nascondere il suo volto, non comparir più sull’orizzonte, allontanarsi da lei, poiché allora la misera resterebbe pigra, fredda, gelata. Non più verdeggerebbero i campi, non più fiorirebbero i prati, si seccherebbe ogni pianta, ogni fonte, ogni fiume s’imputridirebbe. Per castigar la terra, quando il sole fosse con essa adirato, nulla più vi vorrebbe che voltargli le spalle. E se l’anima stesse adirata col corpo, qual vendetta più atroce potrebbe prender di lui, quanto dirgli: io me ne vado, io ti lascio? Ed ecco che partita l’anima, diviene un cadavere, diventa un mucchio di vermi, di putredine, di sordidezza. Dio vi liberi dunque, miei UU., che Iddio da voi si slontani, vi volti le spalle, e lo farà se voi adesso non venite seco a far la pace. E questa pace, se non la volete ora che ve la offre, è molto probabile che ve la sentiate negare quando la domanderete, quærent pacem, non invenient. Questa appunto negò all’infelicissimo Imperatore Valente, ma che non fece prima di negargliela, acciocché egli rientrasse in sé stesso? Voi ben sapete che egli spedì un uomo santo per nome Isacio abitatore de’ monti, il quale pieno di Spirito Divino si fece innanzi all’Imperatore, allorché con grosso esercito a danno de’ Cattolici si portava, ed appressato a lui gridò ad alta voce: Imperatore, se non comandi che si aprano le Chiese da te chiuse, resterai morto. L’udì Valente, e lo schernì come pazzo. Non si perde d’animo Isacio, tornò il dì seguente, e con voce più alta replicò: Imperatore, o s’apron le Chiese, o morirai. A questa replica si turbò Valente, e tra sé considerava, se dovesse o prezzare o disprezzar quel le voci. Deliberò consigliarsi ed i consiglieri, anche essi Ariani, lo persuasero a castigar più tosto, che ad udire l’ardito monaco. Quanto si stabilì nel consiglio, tanto si eseguì. Poiché tornato la terza volta Isacio alle medesime minacce, ordinò l’imperatore che fosse gettato in una orribil fossa, e così ucciso e sepolto nel medesimo tempo. Ma che, appena passato l’esercito, Isacio per mano di tre bellissimi giovani fu levato da quelle miserie, e postosi in cammino raggiunse l’Imperatore, e con sembiante di fuoco … e credevi, disse, che io fossi morto? Eccomi per avvisarti di nuovo: ravvediti, apri le Chiese se vuoi riportar vittoria, altrimenti vi resterai. Ed è pur vero, che neppure a questa quarta denunzia l’ostinato Valente s’ammollì; anzi, dato in smanie, fece catturare Isacio per castigarlo poi ritornato che egli fosse da quella impresa. Ma Isacio rivolto a Valente gli disse: t’inganni, se pretendi castigar me, tu, tu sarai il punito, perché non potendo resistere al nemico, cederai, fuggirai, e finalmente caduto nelle loro mani morirai bruciato. Quanto Isacio disse, tanto seguì, perché fuggito Valente e nascosto in una casuccia gli fu dato fuoco, e così fu bruciato vivo. Che dite UU. che più poteva fare Iddio per convertire questo tempio? … Non avrà scusa nel giorno del Giudizio. Che più poteva Iddio far con voi, quante volte v’ha avvisato per mezzo di religiosi, di confessori, di predicatori, che lasciate la pratica, che restituiate il tolto, e facciate quella pace, e voi duri, e voi perversi, e voi ostinati. Tutto il male di Valente fu perché si vergognò di dar fede ad un povero monaco; tutto il vostro male verrà perché non volete dar fede a me, povero ministro di Dio. Deh date orecchie, quantunque io sia debole di talenti, sia peccatore; confesso d’esser il minimo di quanti parlano da’ sacri pergami; non è però che io non possa essere un altro Isacio per voi, sicché, se voi non mi ubbidirete, voi altresì non vi perdiate. Si corrisponda dunque alle chiamate di Dio. Non più peccati, non più peccati, o mia cara città. Deh non crescano più le zizzanie di tante disonestà, di tanti furti, di tanti odii in questo campo del Padrone evangelico, perché io temo che tanti siate quei servi, che si portino al Tribunale di Dio e lo preghino della licenza di portarsi al campo per sradicare e buttar nel fuoco la zizzania di tanti peccatori. Ecco, ecco, miseri voi, che quel formidabile corteggio di tutte quelle creature che stanno armate al Trono di Dio, ad ultionem inimicorum, grida con quegli Evangelici Famigli, vis, imus, colligimus ea; Vis, imus, gridano i fulmini e, scagliandoci dalle nuvole, andremo precipitosi con impeto spaventoso a diroccar quei palchi, ove con immodestie si conculca il vostro onore, a buttare a terra quelle sale, quelle camere che, con veglie balli e canti disonesti s’oltraggia la Maestà vostra. Vis, imus, gridano i venti, ecco che stanati dalle nostre caverne scoppieremo con orribile terremoto, e buttando a terra quelle abitazioni dentro delle quali si dà ricetto ad amori indegni, ad accordi, a macchine per la rovina del prossimo, ne seppelliremo vivi gli indegni. Vis, imus, gridano l’acque, eccoci, che scapperemo da nostri lidi, da’ nostri argini, e scorreremo con orribili inondazioni, a desertar quei poderi, che sì ingiustamente alimentano i vostri inimici. Vis, imus gridano le fiamme, ecco che ci spargeremo per le piazze, per le strade, per le case, e voleremmo con orribile scorreria ad incenerire quei carubbi, ove tanto sono le usure, ad incenerir quei ridotti, ove tanti si radunano a danno del prossimo, vis, imus, vis, imus, grida a Dio tutta la birreria che egli tiene sopra le nuvole … ignis, grando, nix, glacies, spiritus procellarum: noi faremo le vostre parti, noi dissiperemo i vostri nemici; scegliete pure, o tuoni, o folgori, o grandini, o procelle, tutti siam pronti, guai a voi, se non corrispondete, e respiro.

LIMOSINA.
Quando un padre di famiglia fa nella casa un majorascato non pretende già che il figlio maggiore abbia tutto, o questo no; ma pretende che conservando egli col dovuto decoro lo splendor della famiglia, mantenga col dovuto sostentamento i fratelli minori, né è mai stata intenzione del padre di famiglia che i fratelli minori non debbano aver da vivere. Ricchi, comodi, voi siete stati trattati da Dio come primogeniti, ma Dio non intende che voi spendiate il tutto a vostro capriccio, ma bensì, che manteniate ancora i vostri fratelli minori, che sono i poveri, altrimenti Dio vi toglierà la primogenitura ..

SECONDA PARTE.

Quanto di male vi sovrasta, se non corrispondete alle voci di Dio, altrettanto di bene vi annunzio, se voi gli corrispondete; né mi state a dire che non sarà possibile il vostro risorgere dagli odi, dalle disonestà, da’ giuochi etc. perché questa non ha da essere opera vostra sola, ma di quel Dio ma di quel Dio, che tutto può e che vuole la vostra salute, purché voi dal canto vostro la vogliate. Parlate con un infermo e sentirete che egli non stima mai possibile poter operare quelle cose che praticano i sani, correre, saltare, ballare. Eppur guarito che egli sia, fa tutto. Ricordatevi che Cristo disse a San Pietro allorché era debole, non potes me sequi modo, sequeris autem postea che è quanto dire, dice qui Sant’Agostino, eris sanus, sequeris me. Se corrisponderete a Dio che vi chiama, risanerete da’ vostri mali, e risanati vi farete santi. Vi confermi questa verità il fatto di Maria Egiziaca: or ditemi, se io fossi andato a parlar a questa donna del tutto immersa nelle dissolutezze, e gli avessi detto, allorché più dissoluta se ne stava in Alessandria: sappi, o Maria Egiziaca, che ha da venire un giorno in cui tu, non solamente rifiuterai ogni comodo, ogni spasso, ma ritirata negli orrori d’un bosco menerai una vita piena di tormenti; sappi che tu sarai quarantasette anni senza mai vedere faccia d’uomo, ed altro ai tuoi occhi non si farà vedere, salvo il volto di lupi, orsi, leoni e tigri; partirai dalla città con soli tre pani, e questi duri ed ammuffiti ti serviranno di sostentamento, e questi finiti ti ciberai a guisa di fiera con le erbe del bosco e con acqua di paludi; sappi, che nei rigori del verno tra le nevi e tra’ ghiacci non avrai né veste che ti ricopra, né tetto che ti alloggi; questi tuoi occhi, che ora ti brillano in fronte ed incatenano i cuori, ha da venir tempo, che per concederli un’ora di sonno gli hai da costringere a piangere amaramente e mattina e sera. Questo tuo petto ricetto di tanti affetti, e ricoperto di gioie, l’hai da percuotere con pugni, con sassi, e sempre l’hai da tenere tra singulti e tra sospiri. Ditemi miei UU. se io così avessi parlato ad Egiziaca, non avrei io presso di lei meritato il nome di stolto? Come, io – m’avrebbe detto – partir dalla città, abbandonare i comodi, io senza le dissolutezze, senza le delizie di cibo, io senza morbidezza di piume, io senza sensuali contenti? Non può essere, non sarà mai, prima morire che eleggermi una tal vita; e pure, miei UU., perché corrispose alle voci di Dio, non solamente elesse una tal vita, ma le parve facile, ma le riuscì gioconda, come ella stessa vicina a morte testificò all’Abbate Zosimo. Animo, animo, miei UU., corrispondete a Dio che vi chiama, e non dubitate che di peccatori diverrete Santi. Tanto intervenne a quel peccatore veduto da Paolo il semplice. Uditene la storia, e non dubitate, che se darete orecchio alle voci di Dio, di gran peccatori, diverrete gran santi. Se ne sta va Paolo, detto il semplice, alla porta della Chiesa per osservar santamente quelli che vi concorrevano, o buoni e rei; quando una mattina, vide un spettacolo orrendissimo poiché vide un peccatore tutto squallido, sozzo e mostruoso, il quale veniva tenuto tra catene da due diavoli ed aveva dietro, ma assai da lungi, il buon Angelo suo custode che il seguiva con volto malinconico e con lento passo. A tal vista proruppe Paolo in lacrime, ma tra poco altrettanto si consolò, perché all’uscire, che quel misero fece dalla Chiesa, non solo lo mirò libero da’ demoni, ma lo vide anche sì bello e sì risplendente, che quasi non lo distingueva dal suo Angelo custode, che non più turbato, ma del tutto allegro gli stava a lato. Corse allora Paolo frettoloso a quell’uomo, lo fermò, l’interrogò ed intese che, avendo dato luogo nel suo cuore alle voci di Dio, proferite per mezzo del predicatore, tornava a casa risoluto di mutar vita… Cari miei uditori, se non darete udienza alle voci di Dio, vi sovrasta il precipizio dell’anima. Se corrisponderete, assicuratevi che ancorché gran peccatori, diverrete gran santi.

Quaresimale(XXXV)

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: APRILE 2023

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA:

APRILE 2023

Nel mese di aprile, la Santa Chiesa cattolica festeggia, con i riti che la precedono e la seguono, la Pasqua di Resurrezione, del N. S. Gesù Cristo, evento centrale della vita di ogni Cristiano. – Sii dunque benedetto e glorificato, vincitore della morte, che durante questo solo giorno ti sei degnato di mostrarti agli uomini fino a sei volte, per soddisfare il tuo amore e per confermare la nostra fede nella tua divina Risurrezione. Sii benedetto e glorificato per aver consolato, con la tua presenza e dolci carezze, il cuore così oppresso della tua e nostra Madre. Sii benedetto e glorificato per aver calmato la desolazione della Maddalena con una sola parola del tuo amore. Sii benedetto e glorificato per aver asciugato le lacrime delle pie donne con la tua presenza e per aver dato loro da baciare i tuoi sacri piedi. Sii benedetto e glorificato per aver dato, con la tua stessa bocca, l’assicurazione a Pietro del suo perdono e per aver confermato in esso i doni del suo Primato, rivelando a lui, prima che agli altri, il dogma fondamentale della nostra fede. Sii benedetto e glorificato per aver rassicurato, con tanta dolcezza, il cuore vacillante dei due discepoli sulla strada di Emmaus e per aver completato questo favore, svelandoti ad essi. Sii benedetto e glorificato per non aver lasciato finire questa giornata senza visitare i tuoi Apostoli e senza aver loro dato delle prove della tua adorabile condiscendenza alla loro debolezza. Sii benedetto e glorificato, infine, o Gesù, perché oggi ti degni di farci partecipare, dopo tanti secoli, per mezzo dell’istituzione della tua Chiesa, alle gioie che gustarono in un simile giorno Maria, tua Madre, Maddalena con le sue compagne, Pietro, i discepoli di Emmaus e gli Apostoli riuniti insieme. –  Niente qui ne è cancellato; tutto è vivo, tutto è rinnovato; tu sei sempre lo stesso e la nostra Pasqua, oggi, è pure la medesima di quella che ti vide uscir dalla tomba. Tutti i tempi sono tuoi; e il mondo delle anime, vive per mezzo dei tuoi misteri, come il mondo materiale si sostiene per mezzo del tuo potere, dal momento in cui ti piacque di cominciare l’opera tua, creando la luce visibile, fino a che essa impallidisca e si annienti davanti all’eterna luminosità che tu oggi ci hai conquistata.

PREGHIAMO

O Dio, che in questo giorno per mezzo del tuo Unigenito hai debellata la morte e ci hai riaperto le porte dell’eternità; fa’ che col tuo aiuto si adempiano le buone aspirazioni della grazia.

(Dom. P. Guéranger: L’anno liturgico, 1956)

201

En ego, o bone et dulcissime Iesu, ante conspectum tuum genibus me provolvo ac maximo animi ardore te oro atque obtestor, ut meumin cor vividos fidei, spei et caritatis sensus, atque veram peccatorum meorum paenitentiam, eaque emendandi firmissimam voluntatem velis imprimere: dum magno animi affectu et dolore tua quinque Vulnera mecum ipse considero, ac mente contemplor, illud præ oculis habens, quod iam in ore ponebat tuo David Propheta de te, o bone Iesu: Foderunt manus meas et pedes meos; dinumeraverunt omnia ossa mea (Ps. 21, V. 17 et 18).

Fidelibus, supra relatam orationem coram Iesu Christi Crucifixi imagine pie recitantibus, conceditur: Indulgentia decem annorum;

(ai fedeli che recitano questa orazione piamente davanti ad una immagine di Gesù crocifisso, si concedono 10 anni di indulgenza)

Indulgentia plenaria,

si præterea sacramentalem confessionem instituerint, cælestem Panem sumpserint et ad mentem Summi Pontificis oraverint

(… se preceduta dalla confessione sacramentale e dalla Comunione – Pane celeste – pregando secondo le intenzioni del Sommo Pontefice: Indulgenza plenaria.)

(S. C. Indulg., 31 iul. 1858; S. Paen. Ap., 2 febr. 1934).

202

Deus, qui Unigeniti Filii tui passione, et per quinque Vulnera eius Sanguinis effusione, humanam naturam peccato perditam reparasti; tribue nobis, quaesumus, ut qui ab eo suscept Vulnera veneramur in terris, eiusdem pretiosissimi Sanguinis fructum consequi mereamur in caelis. Per eumdem Christum Dominum nostrum. Amen (ex Missali Rom.).

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo oratio quotidie per integrum mensem pie iterata fuerit

(S. Paen. Ap., 12 dee. 1936).

Queste sono le feste della Chiesa cattolica del mese di APRILE (2023)

2 Aprile Dominica in Palmis    Semiduplex I. classis

               S. Francisci de Paula Confessoris    Duplex

3 Aprile Feria Secunda Majoris Hebdomadæ    Feria privilegiata

4 Aprile Feria Tertia Majoris Hebdomadæ   

                   S. Isidori Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

5 Aprile Feria Quarta Majoris Hebdomadæ    Feria privilegiata

                    S. Vincentii Ferrerii Confessoris    Duplex

6 Aprile Feria Quinta in Cena Domini   

7 Aprile Feria Sexta in Parasceve    Feria privilegiata

8 Aprile Sabbato Sancto    Feria privilegiata

9 Aprile Dominica Resurrectionis    Duplex I. classis

10 Aprile Die II infra octavam Paschæ    Duplex I. classis

11 Aprile Die III infra octavam Paschæ    Duplex I. classis

12 Aprile Die IV infra octavam Paschæ    Semiduplex

13 Aprile Die V infra octavam Paschæ    Semiduplex

                     S. Hermenegildi Martyris    Semiduplex

14 Aprile Die VI infra octavam Paschæ    Semiduplex

                      S. Justini Martyris    Semiduplex

15 Aprile Sabbato in Albis    Semiduplex

16 Aprile Dominica in Albis in Octava Paschæ    Duplex I. classis

17 Aprile S. Aniceti Papæ et Martyris    Simplex

21 Aprile S. Anselmi Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

22 Aprile SS. Soteris et Caji Summorum Pontificum et Martyrum    Semiduplex

23 Aprile S. Georgii Martyris    Semiduplex

24 Aprile S. Fidelis de Sigmaringa Martyris    Duplex

25 Aprile S. Marci Evangelistæ    Duplex II. classis

26 Aprile SS. Cleti et Marcellini Paparum et Martyrum    Semiduplex

27 Aprile S. Petri Canisii Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex m.t.v.

28 Aprile S. Pauli a Cruce Confessoris    Duplex m.t.v.

29 Aprile S. Petri Martyris    Duplex

30 Aprile Dominica III Post Pascha    Semiduplex Dominica minor *I*

                 S. Catharinæ Senensis Virginis    Duplex

FESTA DEI SETTE DOLORI DI MARIA SANTISSIMA (2023)

FESTA DEI SETTE DOLORI DI MARIA SANTISSIMA (2023)

I SETTE DOLORI DI MARIA SANTISSIMA

(Dom Guéranger: L’Anno Liturgico, vol. I, ed. Paoline, Alba, 1956)

La compassione della Madonna.

La pietà degli ultimi tempi ha consacrato in una maniera speciale questo giorno alla memoria dei dolori che Maria provò ai piedi della Croce del suo divin Figliolo. La seguente settimana è interamente dedicata alla celebrazione dei Misteri della Passione del Salvatore, e sebbene il ricordo di Maria che soffre insieme a Gesù sia sovente presente al cuore del fedele, il quale segue piamente tutti gli atti di questo dramma, tuttavia i dolori del Redentore e lo spettacolo della giustizia divina che s’unisce a quello della misericordia per operare la nostra salvezza, assillano troppo la mente, perché sia possibile onorare come merita il mistero della compassione di Maria ai patimenti di Gesù. Conveniva perciò che fosse scelto un giorno, nell’anno, per adempiere a questo dovere; e quale giorno meglio si addiceva del Venerdì della presente settimana, ch’è di per se stesso interamente dedicato al culto della Passione del Figlio di Dio?

Storia di questa festa.

Fin dal xv secolo, nel 1423, un arcivescovo di Colonia, Thierry de Meurs, inaugurava tale festa nella sua chiesa con un decreto sinodale (Labbe, Conciles, t. XII p. 365. – Il decreto esponeva la ragione dell’istituzione di tale festa: « Onorare l’angoscia che provò Maria quando il Redentore s’immolò per noi e raccomandò questa Madre benedetta a Giovanni, ma soprattutto affinché sia repressa la perfidia degli empi eretici Ussiti ».). Successivamente si propagò, sotto diversi nomi, nelle regioni cattoliche, con tolleranza della Sede Apostolica; fino a che il Papa Benedetto XIII, con decreto del 22 agosto 1727, non l’inserì solennemente nel calendario della Chiesa universale, sotto il nome di Festa dei sette Dolori della Beata Vergine Maria. In tal giorno, dunque, la Chiesa vuole onorare Maria addolorata ai piedi della Croce. Fino all’epoca in cui il Papa non estese all’intera cristianità la Festa, col titolo suindicato, essa veniva designata con differenti nomi: La Madonna della Pietà, La Madonna Addolorata, La Madonna dello Spasimo; in una parola, questa festa era già sentita dalla pietà del popolo, prima che fosse consacrata dalla Chiesa.

Maria Corredentrice.

Per ben comprendere l’oggetto, e meglio compiere in questo giorno, verso la Madre di Dio e degli uomini i doveri che le sono dovuti, dobbiamo ricordare che Dio, nei disegni della sua sovrana Sapienza, ha voluto in tutto e per tutto associare Maria alla restaurazione del genere umano. Tale mistero ci mostra un’applicazione della legge che rivela tutta la grandezza del piano divino; ed ancora una volta ci fa vedere il Signore sconfiggere la superbia di satana col debole braccio di una donna. Nell’opera della salvezza, noi costatiamo tre interventi di Maria, tre circostanze, nelle quali è chiamata ad unire la sua azione a quella stessa di Dio. La prima, ne\l’Incarnazione del Verbo, il quale non assume carne in Lei se non dopo averne ottenuto il consenso con quel solenne FIAT che salvò il mondo; la seconda, nel Sacrificio di Gesù Cristo sul Calvario, ove ella assiste per partecipare all’offerta espiatrice; la terza, nel giorno della Pentecoste, quando riceve lo Spirito Santo come lo ricevettero gli Apostoli, per potere adoperarsi efficacemente alla fondazione della Chiesa. Nella festa dell’Annunciazione esponemmo la parte ch’ebbe la Vergine di Nazaret al più grande atto che piacque a Dio intraprendere per la sua gloria, e per il riscatto e la santificazione del genere umano. In seguito avremo occasione di mostrare la Chiesa nascente che si sviluppa e s’ingigantisce sotto l’influsso della Madre di Dio. Oggi dobbiamo descrivere la parte che toccò a Maria nel mistero della Passione di Gesù, spiegare i dolori che sopportò presso la Croce, ed i nuovi titoli che ivi acquistò alla nostra filiale riconoscenza.

La predizione di Simeone.

Il quarantesimo giorno dopo la nascita di Gesù, la Beata Vergine venne a presentare il Figlio al Tempio. Questo fanciullo era atteso da un vegliardo, che lo proclamò « luce delle nazioni e gloria d’Israele ». Ma, volgendosi poi alla madre, le disse: «(Questo fanciullo è posto a rovina e risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione; anche a te una spada trapasserà l’anima » (Lc.. II, 34-35). L’annuncio dei dolori alla madre di Gesù ci fa comprendere che le gioie natalizie erano cessate, ed era venuto il tempo delle amarezze per il figlio e per la madre. Infatti, dalla fuga in Egitto fino a questi giorni in cui la malvagità dei Giudei va macchinando il più grave dei delitti, quale fu lo stato del figlio, umiliato, misconosciuto, perseguitato e saziato d’ingratitudini? Quale fu, per ripercussione, il continuo affanno e la costante angoscia del cuore della più tenera delle madri? Noi oggi, prevenendo il corso degli eventi, facciamo un passo avanti ed arriviamo subito al mattino del Venerdì Santo.

Maria, il Venerdì Santo.

Maria sa che questa stessa notte suo figlio è stato tradito da un suo discepolo, da uno che Gesù aveva scelto a suo confidente, ed al quale ella stessa, più d’una volta, aveva dato segni della sua materna bontà. Dopo una crudele agonia, s’è visto legare come un malfattore, e la soldatesca l’ha condotto da Caifa, suo principale nemico. Di là l’hanno portato al governatore romano, la cui complicità era necessaria ai prìncipi dei sacerdoti e ai dottori della legge, perché potessero versare, secondo il loro desiderio, il sangue innocente. Maria si trova allora a Gerusalemme, attorniata dalla Maddalena e da altre seguaci del Figlio; ma esse non possono impedire che le grida di quel popolo giungano fino a lei. Del resto, chi potrebbe far scomparire i presentimenti nel cuore d’una tal madre? In città non tarda a spargersi la voce che Gesù Nazareno è stato consegnato al governatore per essere crocifisso. Si terrà forse in disparte Maria, in questo momento in cui tutto un popolo s’è mosso per accompagnare coi suoi insulti fino al Calvario, questo Figlio di Dio che ha portato nel suo seno ed ha nutrito del suo latte? Ben lungi da tale viltà, si leva e si mette in cammino, fino a portarsi al passaggio di Gesù. L’aria risuonava di schiamazzi e di bestemmie. La moltitudine che precedeva e seguiva la vittima era composta da gente feroce od insensibile; solo un gruppetto di donne faceva sentire i suoi dolorosi lamenti, e per questa compassione meritò d’attirare su di sé gli sguardi di Gesù. Poteva Maria, dinanzi alla sorte del suo Figlio dimostrarsi meno sensibile di queste donne, che avevano con lui solo legami di ammirazione o di riconoscenza? Insistiamo su questo punto, per dimostrare quanto abbiamo in orrore il razionalismo ipocrita che, calpestando tutti i sentimenti del cuore e le tradizioni della pietà cattolica ha tentato, sia in Oriente che in Occidente, di mettere in dubbio la verità della Stazione della Via dolorosa, che segna il punto d’incontro del figlio e della madre. Questa setta che non osa negare la presenza di Maria ai piedi della Croce, perché il Vangelo è troppo esplicito al riguardo, piuttosto di rendere omaggio all’amore materno più devoto che mai sia esistito, preferisce dare ad intendere che, mentre le figlie di Gerusalemme si mostrarono intrepide al passaggio di Gesù, Maria si recò al Calvario per altra via.

Lo sguardo di Gesù e di Maria.

Il nostro cuore di figli tratterà con più giustizia la donna forte per eccellenza. Chi potrebbe dire il dolore e l’amore che espressero i suoi sguardi, quando s’imbatterono in quelli del figlio carico della Croce? E dire con quale tenerezza e con quale rassegnazione rispose Gesù al saluto della madre? E con quale affetto Maddalena e le altre sante donne sostennero fra le loro braccia colei che doveva ancora salire il Calvario, per ricevere l’ultimo respiro del suo dilettissimo figlio? Il cammino è ancora lungo sulla Via dolorosa, dalla quarta alla decima Stazione, e se fu irrigato dal sangue del Redentore, fu anche bagnato dalle lacrime della madre sua.

La Crocifissione.

Gesù e Maria sono giunti sulla sommità della collina che servirà da altare al più augusto dei sacrifici; ma il divino decreto ancora non permette alla Madre d’accostarsi al Figlio; solo quando sarà pronta la vittima, s’avanzerà Colei che deve offrirla. Mentre aspetta questo solenne momento, quali scosse per la Vergine ad ogni colpo di martello che inchioda sul patibolo le delicate membra del suo Gesù! E quando finalmente le sarà permesso d’avvicinarsi a Lui col prediletto Giovanni, la Maddalena e le compagne, quali indicibili tormenti proverà il cuore di questa Madre nell’alzare gli occhi e nello scorgere, attraverso il pianto, il corpo lacerato del figlio, stirato violentemente sul patibolo, col viso coperto di sangue e imbrattato di sputi, e col capo coronato da un diadema di spine! – Ecco dunque il Re d’Israele, del quale l’Angelo le aveva preannunziato le grandezze; ecco il Figlio della sua verginità, Colui che Ella ha amato come suo Dio e insieme come frutto benedetto del suo seno. Per gli uomini, più che per sè, Ella lo concepì, lo generò, lo nutrì; e gli uomini l’hanno ridotta in questo stato! Oh, se, con uno di quei prodigi che sono in potere del Padre celeste, potesse essere reso all’amore di sua madre, e se la giustizia alla quale s’è degnato di pagare tutti i nostri debiti volesse accontentarsi di ciò che egli ha sofferto! Ma no, deve morire, ed esalare lo spirito in mezzo alla più crudele agonia.

Il martirio di Maria.

Dunque, Maria è ai piedi della Croce per ricevere l’addio del Figlio, che sta per separarsi da lei; fra qualche istante, di questo suo amatissimo Figlio non le resterà che un corpo inanimato e coperto di piaghe. Ma cediamo qui la parola a S. Bernardo, del cui linguaggio si serve oggi la Chiesa nell’Ufficio del Mattutino: « Oh, Madre, egli esclama, considerando la violenza del dolore che ha trapassata l’anima tua, noi ti proclamiamo più che martire, perché la compassione che hai provato per tuo Figlio, sorpassa tutti i patimenti che il corpo può sopportare. Non è forse stata più penetrante d’una spada per la tua anima quella parola: Donna ecco il figlio tuo? Scambio crudele! In luogo di Gesù, ricevi Giovanni; in luogo del Signore, il servo; in luogo del Maestro, il discepolo; in luogo del figlio di Dio, il figlio di Zebedeo: un uomo, insomma, in luogo d’un Dio! Come poté la tua anima sì tenera non essere ferita, quando i cuori nostri, i nostri cuori di ferro e di bronzo, si sentono lacerati al solo ricordo di quello che dovette allora soffrire il tuo? Perciò non vi meravigliate, fratelli miei, di sentir dire che Maria fu martire nella sua anima. Di nulla dobbiamo stupirci, se non di colui che avrà dimenticato ciò che S. Paolo annovera tra i più gravi delitti dei Gentili, l’essere stati disamorati. Ma un tale difetto è lungi dal cuore di Maria; che sia lungi anche dal cuore di coloro che l’onorano! » (Discorso delle dodici stelle). Nella mischia dei clamori e degl’insulti che salgono fino al Figlio elevato sulla Croce, nell’aria. Maria ascolta quella parola che scende dall’alto fino a lei e l’ammonisce che d’ora in poi non avrà altro figlio sulla terra che quello di adozione. Le gioie materne di Betleem e di Nazaret, gioie così pure e sì spesso turbate dalla trepidazione, sono compresse nel suo cuore e si cambiano in amarezza. Era la Madre d’un Dio, e suo figlio le è stato tolto dagli uomini! Alza per un’ultima volta i suoi sguardi al caro Figlio, e lo vede in preda ad un’ardentissima sete, e non può ristorarlo; contempla i suoi occhi che si spengono, il capo che si reclina sul petto: tutto è consumato!

La ferita della lancia.

Maria non s’allontana dall’albero del dolore, all’ombra del quale è stata trattenuta fino adesso dal suo amore materno; ma quali crudeli emozioni l’attendono ancora! Sotto i suoi occhi, s’avvicina un soldato a trapassare con una lanciata il costato del Figlio suo appena spirato. « Ah, dice ancora S. Bernardo, il tuo cuore, o madre, è trapassato dal ferro di quella lancia ben più che il cuore del Figlio tuo, che ha già reso l’ultimo suo anelito. Non c’è più la sua anima; ma c’è la tua, che non può distaccarsene » (Ivi). L’invitta Madre rimane immobile a custodire i sacri resti del Figlio; coi suoi occhi lo vede distaccare dalla Croce; e quando alla fine gli amici di Gesù, con tutte le attenzioni dovute al Figlio ed alla Madre, glielo rendono così come la morte l’ha ridotto, Ella lo riceve sulle sue ginocchia, che una volta furono il trono sul quale ricevette gli omaggi dei prìncipi dell’Oriente. Chi potrà contare i sospiri ed i singhiozzi di questa Madre, che stringe al cuore la spoglia esamine del più caro dei figli? Chi conterà le ferite, di cui è coperto il corpo della vittima universale?

La sepoltura di Gesù.

Ma l’ora passa; il sole declina sempre più verso il tramonto: bisogna affrettarsi a rinchiudere nel sepolcro il corpo di colui ch’è l’autore della vita. La Madre di Gesù raccoglie in un ultimo bacio tutta la forza del suo amore, ed oppressa da un dolore immenso come il mare, affida l’adorabile corpo a chi, dopo averlo imbalsamato, lo distenderà sulla pietra della tomba. Chiuso il sepolcro, accompagnata da Giovanni suo figlio adottivo, dalla Maddalena, dai due discepoli che hanno assistito ai funerali e dalle altre pie donne, Maria rientra nella città maledetta.

La novella Eva.

Vedremo noi, in tutti questi fatti, solo lo spettacolo delle sofferenze sopportate dalla Madre di Gesù, vicino alla Croce del Figlio? Non aveva forse Dio una intenzione, nel farla assistere di persona alla morte del Figlio? E perché non la tolse da questo mondo, come Giuseppe, prima del giorno della morte di Gesù, senza causare al suo cuore materno un’afflizione superiore a quella di tutte la madri prese insieme, che si sarebbero succedute da Eva in poi, lungo il corso dei secoli? Dio non l’ha fatto, perché la novella Eva aveva una parte da compiere ai piedi dell’albero della Croce. Come il Padre celeste attese il suo consenso prima d’inviare sulla terra il Verbo eterno, così pure richiese l’obbedienza ed il sacrificio di Maria per l’immolazione del Redentore. Non era il bene più caro di questa incomparabile Madre, quel Figlio che aveva concepito solo dopo aver accondisceso alla divina proposta? Ma il cielo non poteva riprenderselo, senza che Lei stessa lo donasse. Quale terribile conflitto scoppiò allora in quel cuore sì amante! L’ingiustizia e la crudeltà degli uomini stanno per rapirle il Figlio: come può Lei, la Madre, ratificare, col suo assenso la morte di chi ama d’un duplice amore, come suo Figlio e come suo Dio? D’altra parte, se Gesù non viene immolato, il genere umano continua a rimanere preda di satana, il peccato non è riparato, ed invano Lei è divenuta la Madre d’un Dio. Per lei sola sarebbero gli onori e le gioie; e noi saremmo abbandonati alla nostra triste sorte. Che farà, allora, la Vergine di Nazaret, dal cuore così grande, la creatura sempre immacolata, i cui affetti non furono mai intaccati dall’egoismo che s’infiltra così facilmente nelle anime nelle quali è regnato il peccato originale? Maria, per la sua dedizione unendosi per gli uomini al desiderio di suo figlio, che non brama che la loro salvezza, trionfa di se stessa: una seconda volta pronuncia il suo FIAT, ed acconsente all’immolazione del Figlio. Non è più la giustizia di Dio che glielo rapisce, ma è lei che lo cede: e, quasi a ricompensa, viene innalzata a un piano di grandezza che mai la sua umiltà avrebbe potuto concepire. Un’ineffabile unione si crea fra l’offerta del Verbo incarnato e quella di Maria; scorrono insieme il sangue divino e le lacrime della Madre, e. si mescolano per la redenzione del genere umano.

La fortezza di Maria.

Comprendete ora la condotta di questa Madre ed il coraggio che la sostiene. Ben differente da quell’altra madre di cui parla la Scrittura, la sventurata Agar, la quale dopo aver cercato invano di spegnere la sete d’Ismaele, ansimante sotto la canicola solare del deserto, fugge per non vedere morire il figlio. Maria inteso che il suo è condannato a morte, si alza, corre sulle sue tracce fin che non lo ritrova e l’accompagna al luogo ove dovrà spirare. Ed in quale atteggiamento rimane ai piedi della Croce di questo figlio? La vediamo forse venir meno e svenire? L’inaudito dolore che l’opprime l’ha forse fatta cascare al suolo, o fra le braccia di quelli che l’attorniano? No; il santo Vangelo risponde con una sola parola a tutte queste domande: « Maria stava (in piedi) accanto alla Croce ». Come il Sacrificatore sta eretto dinanzi all’altare, così Maria, per offrire un sacrificio come il suo conserva il medesimo atteggiamento. S. Ambrogio, che col suo tenero spirito e la profonda intelligenza dei misteri, ci ha tramandato preziosissimi trattati del carattere di Maria, esprime tutto in queste poche parole: « Ella rimase ritta in faccia alla Croce, contemplando coi suoi occhi il figlio, ed aspettando, non la morte del caro figlio, ma la salvezza del mondo » (Comment. su S. Luca. c. XXIII).

Maria, madre nostra.

Così la Madre dei dolori lungi dal maledirci, in un simile momento, ci amava e sacrificava a nostra salvezza perfino i ricordi di quelle ore di felicità che aveva gustate nel figliol suo. Facendo tacere lo strazio del suo cuore materno, ella lo rendeva al Padre come un sacro deposito che le aveva affidato. La spada penetrava sempre più nell’intimo dell’anima sua; ma noi eravamo salvi: da semplice creatura, essa cooperò insieme col figlio alla nostra salute. Dopo di ciò, ci meraviglieremo se Gesù scelse proprio questo momento per eleggerla Madre degli uomini, nella persona di Giovanni che rappresentava tutti noi? Mai, come allora, il Cuore di Maria era aperto in nostro favore. Sia dunque, ormai, l’Eva novella, la vera « Madre dei viventi ». La spada, trapassando il suo Cuore immacolato, ce ne ha spalancata la porta. Nel tempo e nell’eternità, Maria estenderà anche a noi l’amore che porta a suo figlio, perché da questo momento ha inteso da lui che anche noi le apparteniamo. A riscattarci è stato il Signore: a cooperare generosamente al nostro riscatto è stata la Madonna.

Preghiera. Con tale confidenza, o Madre afflitta, oggi noi veniamo con lasanta Chiesa, a renderti il nostro filiale ossequio. Tu partoristi senzadolore Gesù, frutto dal tuo ventre; ma noi, tuoi figli adottivi, siamo penetrati nel tuo Cuore per mezzo della lancia. Con tutto ciòamaci, o Maria, Corredentrice degli uomini! E come potremmo noinon cantare all’amore del tuo Cuore sì generoso, quando sappiamoche per la nostra salvezza ti sei unita al sacrificio del tuo Gesù?Quali prove non ci hai costantemente date della tua materna tenerezza,tu che sei la Regina di misericordia, il rifugio dei peccatori, l’avvocatainstancabile di tutti noi miseri? Deh! o Madre, veglia su noi; fa’ che sentiamo e gustiamo la dolorosa Passione di tuo figlio. Non si svolse, essa, sotto i tuoi occhi? non vi prendesti parte? Facci dunque penetrare tutti i misteri, affinché le nostre anime, riscattate dal sangue di Gesù, e lavate dalle tue lacrime, si convertano finalmente al Signore e perseverino d’ora innanzi nel suo santo servizio.

QUARESIMALE (XXXIII)

QUIARESIMALE (XXXIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711).

PREDICA TRENTESIMATERZA
Nella feria sesta della Domenica di Passione.

Il peccatore disonesto è per verità gran peccatore; grande per la qualità del fallo; grande per il numero de’ peccati; grande per la malizia con cui li commette.

Fornicatio autem, et omnis immunditia, nec nominetur in vobis sicut
decet Sanctos.
L’Apostolo San Paolo, Epist. Eph. 5.

Eccomi su questo pulpito stamane, risoluto di prendermela a faccia scoperta col brutto mostro della disonestà, giacché egli è quello che col piede indegno calpesta il più bel fiore della Cristianità, con l’alito pestilente l’avvelena, e col dente maligno la lacera. È vero, che d’un vizio di tal sorta neppure converrebbe parlarne o nelle contrade egiziane o nelle moschee de’ Turchi. È vero che l’Apostolo ci vieta eziandio il nominarlo, ma come può tacersi, mentre l’ammorbato lago delle sue abominazioni si è talmente dilatato che la povera colomba non ha ormai ove posare innocente il piede, e dappertutto s’incontrano sozzi amori. Entrate nelle case, ecco gli amori; andate nelle piazze, ecco gli amori, portatevi alla campagna … ecco gli amori. Che più? Penetrate i Santuari, le Chiese, e quivi pure troverete indegni amori: che occorre di più? Basti dire che talora le lordure si nascondono sotto gli abiti stessi più sacrosanti. Si, dico dunque, ne parlerò di questo brutto mostro. Ma tu, o sole, intanto nascondi per l’orrore i tuoi raggi. Me la prendo dunque con zelo apostolico contro de’ disonesti, i quali, dopo d’essersi satollati de’ frutti pestiferi di questa pianta infernale, si ricoprono poi con le sue fronde; spacciando che il loro fallo alla fine non è altro che una mera fragilità. Orsù, io voglio strapparvi d’intorno queste fronde d’una scusa del tutto bugiarda, la quale raddoppia più tosto la vostra malizia e farvi veramente toccar con mano, che un uomo disonesto è per verità gran peccatore. Qua, qua, alle strette, alle prese. Che cosa si richiede perché uno possa dirsi gran peccatore? Tre cose: la qualità de’ falli, il numero, la malizia. Vediamo se tutte tre concorrono in un disonesto, e poi negate, se potete, che il disonesto non sia un gran peccatore. Se vogliamo ben conoscere questa verità non bisogna che consideriamo il peccato della disonestà con l’occhio de’ disonesti per una debolezza, per una fragilità, per una quasi necessità di natura alla condizione dell’uomo troppo connaturale; ma bensì come ce lo rappresenta la Fede ed i sacri Dottori. – La Fede ce lo rappresenta per una colpa tale, che basta tenere un’anima sommersa nel fuoco per una eternità per colpa tale, che se Dio fosse capace di dolore, più disgusto gli recherebbe un peccato disonesto che non gli recano di consolazione tutti gli ossequi di quanti regnano in Cielo: colpa tale che mai potrebbe pagarsi adeguatamente da tutte le opere buone di mille mondi; ancorché fossero pieni d’anime sante, ed ognuna di loro fosse più Santa che ora non è la Vergine Santissima. Or io dico, una colpa sì pestifera potrà chiamarsi da gente battezzata il minor male che commetta l’uomo? Ah lingua sacrilega, lingua scomunicata! Taci, taci … E di’ piuttosto che questo peccato è una grandissima iniquità: nefas est, et iniquitas maxima. Né solo è grande in sé stesso il peccato della disonestà, ma è grande anche paragonato con gli altri. L’Angelico San Tommaso insegna che tra quei peccati o che offendono la carità del prossimo o di noi stessi, toltone l’omicidio, il più grave è la disonestà: più grave che non è il furto, che tanto s’odia, privandoci de’ nostri averi; più grande della detrazione della fama, della reputazione che dalle persone onorate si stima più della vita. E la ragione si è, perché i peccati de’ disonesti, sebbene non sono contro la vita d’un uomo già nato, come sono gli omicidi, sono però contro la vita di un uomo che può nascere, o privandolo affatto d’essa vita, o dandogliela con modo disordinato e contrario a quello che intende la natura. Oh che peccato è mai questo della disonestà! E se è tanto male in gente libera, che sarà se vi è parentela d’affinità? Peggio di consanguineità? Peggio, spirituale? Che farà se si manchi di fede al marito, alla consorte, se si manchi di fede a Dio oltraggiando il voto di castità? Che sarà se si irriti il Cielo ad incenerirti con i cittadini delle pentapoli nefande? Sebbene, che dico? I disonesti non sono capaci di prove sì chiare; merceché dalla Scrittura sono paragonati agli ubriachi privi di senno: Fornicatio, ebrietas auferunt cor. È necessario che io per convincerlo mi serva d’argomenti più grossi. Diciamo dunque così: quel peccato che la giustizia Divina ha sempre più severamente perseguitato in terra e più acerbamente punito, convien dire che sia quello che ella più abomina; giacché siccome i benefizi sono manifesti segni d’amore, così i castighi lo sono d’odio. Or se così è, o disonesti, bisogna, che voi affermiate queste due proposizioni: la prima, che niuno eccesso ha Iddio vendicato con pena più universale e più tremenda, di quello che abbia vendicato la disonestà; la seconda, che niuno altro eccesso è solito Egli di vendicare con simil pena. Angeli Santi, che foste ministri della Divina Giustizia; allorché rotte le cataratte del cielo, lasciaste cadere a diluvi le acque sopra la terra. Ecco rotto ogni lido a’ mari, ogni argine a’ fiumi; ecco, che il mondo si sommerge, uomini e donne, grandi e piccioli, nobili e plebei, principi e sudditi, monarchi e vassalli; tutti alla rinfusa restano sommersi sotto dell’acque. E perché, Angeli Santi, un mondo intero affogato sotto dell’acque? Eccone la ragione, rispondono quegli Spiriti Angelici. Dovete sapere, che gli uomini a quel tempo, s’erano ingolfati nelle abominazioni del senso, e però erano divenuti sì odiosi agli occhi divini, che Iddio non potendoli più sopportare ebbe a dire: non permanebit spiritus meus in homine in æternum, quia caro est, che vale a dire, come spiega la Glossa, troppo dato a’ vizi della disonestà; idest nimis implicatus peccatis carnalibus. Onde Iddio affogo’ i colpevoli, perché  infetti nelle disonestà affogò gli innocenti perché  non si infettassero: mostrando in tal forma nella morte degli uni e degli altri, l’odio che porta alle disonestà. Disonesti qua: un’occhiata a questo gran monte di cadaveri: specchiatevi, e nel vederlo dite, se vi dà l’animo, che la disonestà è il minor male che commetta l’uomo. Ditemi: se Iddio per eccessi simili mandasse in rovina tutta la vostra città, ardireste di dire che è poco peccato? E se passasse a mandare in rovina tutta l’Italia, direste che è un male di poco rilievo? No per certo. Ah iniqui! Ed ardirete di dire che l’esser disonesto è poco male, mentre ha tirato seco la rovina del mondo tutto? Da qui avanti, o disonesti, o negate fede alle Divine Scritture, o strappatevi di bocca quella lingua malvagia, prima che torniate a dire che la disonestà è il minor male che si commetta. O che gran male è la disonestà! Basta dire, come osserva San Tommaso di Villanuova, che Iddio non manda certe stragi universali per altro delitto che per questo. È comune opinione degli espositori, che la desolazione intimata già a Ninive, adbuc quadraginta dies, et Ninive subvertetur, non per altro seguisse che per la disonestà. Cari miei UU. se sono infettate da pestilenza le città, date la colpa alle lascivie; se sono scosse da terremoti, sicché non rimanga, quasi dissi, pietra sopra pietra: sia la colpa de’ disonesti. La disonestà porta le carestie, la disonestà arma le milizie, e se mi direte: Padre abbiamo riscontri che questi castighi, e particolarmente i terremoti, siano mandati da Dio, non per le disonestà, ma per il poco rispetto alle Chiese? Io vi rispondo che avete ragione. Ma ditemi, perché si rispettano poco le Chiese? Per parlarci disonestamente, per farci all’amore, come se si stesse ne’ postriboli, contrattandosi l’onor della maritata, la castità della donzella. – Il vizio della disonestà tanto abominevole agli occhi di Dio, è abominato anche da’ Santi in Cielo, dalle bestie in terra, da’ demoni dell’inferno. Era già Maria Maddalena de Pazzi ad abitare tra’ Serafini del Cielo, quando nel suo medesimo cadavere mostrò d’aborrir tanto un giovane impuro venuto a vederla … che così morta gli voltò le spalle. San Francesco di Paola abominò tanto una donna intaccata di questa pece che, essendo ella con le altre venuta in Napoli per baciare un dente del Santo racchiuso in un prezioso cristallo, il dente si ruppe per mezzo. Santa Francesca Romana passando d’avanti la porta d’una donna malvagia, ebbe a venir meno; ed a Santa Caterina di Siena si rendeva intollerabile il fetore di alcuni peccatori disonesti. Ma che gran cosa che sia in odio a’ Santi, mentre è abominato anche dalle bestie? Racconta Tommaso Cantipratense, come una certa femmina data in preda agli amori andava di male in peggio: quando Iddio per ravvederla, mentre ella dormiva gli si fece vedere assiso in trono in forma di giudice, assistito da numerose squadre d’Angeli ed Arcangeli, e da schiere beate di Vergini, Martiri e Confessori, e già stava per udire la sentenza di dannazione. Si raccomandò allora la giovane, ed ottenne la grazia di non esser condannata ma di aver tempo di far penitenza, e sentì dirsi: lascia veglie, lascia balli, lascia amori. Giovò questa visione per qualche tempo; ma perché era tanto invischiata in quei maledetti amori, tornò come prima a vagheggiare, ed a farsi vagheggiare barattando colpe, e con gli occhi, e con fatti. Volete altro? non potendo più Iddio tollerare la di lei disonestà, la buttò ammalata in un letto; indi a poco la mandò la morte, e passò all’altra vita senza Sacramenti. Sollevato il cadavere, secondo il costume, fu posto sopra una tavola in una camera: quando ecco si vedono entrare due cani mastini, che ben mostrarono d’essere avidi di saziarsi di quelle laide carni: s’avventarono, ma ne furono respinti la prima volta, non così nel secondo assalto; poi che addentarono fieramente quel cadavere, che tutto ridussero in pezzi, e con il loro urlo chiamarono quanti erano cani nella città a saziarsene. Né solo i disonesti sono in odio alle bestie, ma agli stessi demoni: sì, sì, a’ diavoli stessi. È certo che vari demoni sono occupati a tentarci, chi d’interesse, chi di vendetta, chi di superbia. A tentare di disonestà, credete voi che siano occupati i compagni di lucifero, che vale a dire, i più nobili? Appunto, i più vili, i più sozzi. Ecco le parole di San Tommaso: dicuntur magistri aliquot dæmones, qui memores antiquæ nobilitatis dedignatur de luxuria tentare. Non occorre altro: siete in odio, o lascivi, anche a’ diavoli; ed appunto uno di questi si lasciò vedere ad una rea femmina, allorché lordava col corpo l’anima e dissegli: ohibò, ohibò! Lasciandola ivi tramortita. – Dite ora, se potete, che il peccatore disonesto non sia un gran peccatore, mentre è in odio fino a’ diavoli. Dite, che la disonestà è il peccato più leggero; che io ve ne do la smentita; soggiungendo che in radice è il maggiore, perché e padre di furti, di risse, di omicidi, d’irriverenze alle Chiese, e di quanti prescrive precetti Dio e ne comanda la Chiesa. Datemi mente: confesserete ancor voi la gravezza della disonestà. E se sono detestabili i disonesti per la gravezza del fallo; niente meno lo sono per il numero delle loro lascivie; certo che con ogni ragione quel demonio che teneva gli uomini di disonestà si chiama nella Scrittura Sacra: Asmodeo che, secondo la forza della lingua santa vuol dire: abbondanza di peccati; perché chi si dà in preda a questo vizio ne commette tanti e tanti, che egli stesso non ne sa rinvenire il numero. O quanto mai cresce la gravezza di questo peccato per la moltitudine che se ne commettono! Sacri confessori se a’ vostri piedi si presenta un ladro, un assassino di strada, un bestemmiatore, è pur vero che sanno ridirvi il numero delle loro colpe: ma se vi viene un disonesto, tanti sono i peccati commessi ne’ pensieri, nelle parole, nell’opere, che non ve ne sa dire il numero, e se voi nuovamente l’interrogate: quanti? Egli vi risponde: non lo so, … ma lo sa il diavolo, se non lo sai tu, che li ha registrati tutti a tua dannazione. Quanto tempo è che divenisti infedele a Dio per osservar la fede di una donna infedele al suo consorte. Sono mesi, sento rispondermi, sono anni, ed i peccati commessi chi può saperli? Quanto tempo è, o femmina, che ti adorni disonestamente per piacere a chi non devi? Quanto tempo è che vivi nelle braccia del diavolo? Sono anni, ed i peccati chi li sa? Quanti, o Dio, a tre peccati mortali il giorno in quindici anni, sono più di sedici mila peccati mortali, e pure vi saranno tanti e tanti, e forse anche in questo luogo, che tra compiacenze malvagie, tra desideri iniquità, tra scandalosi tentativi ed opere consumate, arriveranno … Iddio sa a quanti peccati il giorno, e ciò non per lo spazio solo di quindici anni, ma di venti, ma di trenta e più; e però chi può sommare il conto delle loro colpe? E poi ardite di dire, che non sono nulla i peccati di senso; mentre non cedono, ma superano ogn’altro nel numero.  Aggiungete di più, che ogni peccato disonesto, e ben spesso come quel frutto del Malabar, che ognuno ne racchiude più di trecento; sguardi, cenni, parole,
mezzi malvagi, ond’è che giustamente San Pietro chiamò questo vizio: diletto che non ha fine: oculos habentes plenos adulteri, et incessabilis delicti; perché ben spesso si principia dagli anni più teneri, e non si finisce finché la morte non viene col suo freddo fatale a smorzar quelle fiamme di disonestà; trovandosi ben spesso chi a guisa del mongibello di fuori e bianco per la canizie, di dentro avvampa di lascivia. Prima che la Santa Fede dileguasse nella gran Città del Messico le tenebre della idolatria, ogn’anno si sacrificavano al demonio i cuori di ventimila fanciulli raccolti da tutto il Paese, e miseramente scannati. È bontà del nostro Iddio, che a nostri giorni e ne’ nostri Paesi non si pratichino sacrifici tanto inumani; ma è altresì malizia esecranda di satanasso l’aver tra’ Cristiani addomesticata sì fattamente questa furia infernale della disonestà, che per essa si sacrificano al demonio ogni dì un numero senza numero di Cristiani; e se gli sacrifica non solo il cuore materiale, ma l’anima ed il corpo; ed in ogni luogo, ed in ogni momento s’alza altare e si compisce l’orribile sacrificio. Dissi che gli si sacrifica non solo l’anima, ma tutto il corpo ancora, perché  gli altri peccatori offendono la loro anima; ma i disonesti offendono ancora il corpo: qui fornicatur in corpus suum peccat; di più se gli offre in olocausto perché non si riserba parte alcuna: non gli occhi, che come tante spie vanno sempre in cerca di nuovi oggetti; non le orecchie sempre attente ad udire laide canzoni e ragionamenti disonesti, non la lingua sempre occupata a promuoverli; non le mani, non i piedi tutti ministri d’oscenità. Dissi in ogni tempo ed  in ogni luogo; perché non dirò quale strada, qual piazza, ma qual casa, e qual Chiesa dove l’onestà abbia ai dì nostri un sicuro riparo, e qual tempo, ove ella possa quietamente posare? E non è vero che il sonno stesso non è in costoro innocente abbastanza, mentre aggirandosi per la fantasia quei fantasmi d’impurità che hanno un franco commercio tutta la giornata, espongono anche ad occhi chiusi in vista de’ miserabili disonesti, laide rappresentazioni che, quasi mercanzie di gran pregio, sono da loro comprate con un libero consenso, quando gli svegliano; e pagate allegramente con rinunziar per esse al Paradiso. Una vita dunque così pestifera, il di cui ordito sono perpetui desideri, perpetui incitamenti, ed il ripieno sono perpetui eccessi talora sconosciuti fino alle bestie; una vita, dunque, di tal sorta chiamerete fragilità? Il minor male che si commetta? Eh, che bisogna una volta gettar giù dalla faccia questa maschera che vi sta sì male; non bisogna più dire: che peccato è? Che mal è una fragilità? Bisogna bensì dire che mal è un numero senza numero di migliaia de’ più abominevoli peccati che commetta l’uomo, un numero senza numero di peccati, de’ quali si vergogna lo stesso demonio, un numero senza numero di peccati che allontanano l’anima affatto da Dio, più che comunemente non fanno gli altri; giacché al dire di San Tommaso: Homo per luxuriam maximè recedit a Deo, un numero senza numero di peccati per cui l’uomo è divenuto tutto del diavolo; così asserisce San Cipriano demon totum hominem agit in triumphum libidinis; un numero senza numero di quei peccati per i quali si riempie l’inferno; così attesta San Remigio exceptis parvulis per carnis vitium pauci salvantur. E questo è quel peccato che voi chiamate da nulla, e lo ricoprite col nome di fragilità, che la volete far comparire per una febbre necessaria allo sconcerto della vostra natura e per una necessità di condizione umana. Ah stolti indegni! Ben si vede che non solo siete ciechi, per aver gli occhi chiusi, ma siete ciechi perché ve li cavate, per non vedervi. Piacesse al Cielo che questa nostra cecità bastasse per alleggerire le vostre colpe; appunto non può essere, perché le vostre colpe sì gravi per la qualità, e sì intollerabili per il numero, si rendono gravissime, perché le commettete con una strana malizia. Uditemi. Chi pecca per abito, dice San Tommaso, non pecca per infermità, o fragilità, ma pecca per malizia. Ditemi: evvi ́mai niun peccatore, il quale più pecchi per abito del disonesto? No per certo, il peccatore disonesto, con atti tanto intensi e tante volte replicati, produce in sé un abito fortissimo. Un atto solo vizioso basta talora per formare una dura catena del male costume. O giudicate voi, le basteranno poi tanti e tanti, che vi si aggiungono
alla giornata: questi rinforzeranno ogni dì più quei legami infernali e li renderanno più difficili ogni volta che di a sbrigarsene, aggravabit compedes vestros, ut non egrediamini; ed ecco donde nasce principalmente quella adesione al bene creato, per la quale sebbene il peccator disonesto non è sempre il maggior di tutti secondo la sua specie; diventa il maggior di tutti nel suo individuo; tanto segue ad insegnare l’Angelico: si hoc peccatum secundum speciem non fit majus aliis: est majus in individuo quia fit cum adhæsione maxima. Ad Alessandro Magno furono donati alcuni cani sì bravi, i quali afferrata che avevano una volta la preda, non lasciavano mai più: e per farne la prova; ad un di essi, che aveva addentata una fiera, gli fu tagliata prima una zampa, e poi l’altra, indi le cosce, e poiché tuttavia teneva stretti i denti fu tagliato per il mezzo, e non bastando anche questo, gli fu reciso il collo; credereste, anche col collo reciso, e così morto seguiva a tener stretta la preda. Queste bestie così avide ed indivisibili da quelle fiere alle quali s’attaccano, sono il vero ritratto de’ disonesti, i quali quantunque si vedano della età già cadente fare in pezzi; benché provino la mancanza delle forze; pur seguono a tenersi co’ desideri quel diletto infelice che fugge loro dalle mani, finché tagliati per mezzo dalla morte, lasciano talora un buon legato all’amica; non volendo che neppure la sepoltura abbia tante ceneri da sorpassar l’ardor maledetto del loro amore. E questo operare, voi ardirete chiamare peccar per fragilità; ed il vivere in questa foggia farà commettere il minore de’ mali? Mi meraviglio di voi! Questo è un peccar da demonio vestito d’umane membra: questo è un non volere abbandonar il peccato, finché il peccato non abbandona: fornicati sunt et non cessaverunt. Dite pure, e direte con tutta verità, che il peccatore disonesto è per verità un gran peccatore, ed è pur vero che a tutte queste prove, vi son di quelli che tanto ardiscono dire: che cosa è un peccato di disonestà? Se così è, che posso io far di più: so io quello che farò, verrò a praticare stravaganze; e giacché i disonesti sono ottusi per le loro lascivie, né hanno mente per piegarsi alle ragioni, gli farò vedere con i propri occhi, e toccar con le proprie mani; quanto siano gran peccatori, con esser disonesti. Olà peccatori disonesti, fissate gli occhi in questo Cristo ed in vederlo così maltrattato, ravvisate la grandezza del vostro peccato: udite le parole dell’Eterno Padre, il Quale vi rende la ragione, perché Egli abbia posto su questa Croce il suo Figliuolo: propter scelus populi mei percussi eum, per la scelleraggine del mio popolo; qual è la scelleraggine popolare? Gli amori indegni, le sozze disonestà, le sue grandi lascivie. Eccolo, dunque, per questa scelleraggine popolare, lacero da capo a piedi. Eccolo confitto, e pendente in un legno, ricoperto di sangue, e di piaghe, trapassato da tante spine nel capo: eccolo agonizzante, privo d’ogni conforto. Questo è l’operato da te o disonesto, propter scelus populi mei percussi eum. Tu, dunque, con andare in quella casa, con mantenere quella pratica, col durare in quella occulta corrispondenza hai piagato, hai crocifisso il tuo Signore, il tuo Dio? Ed ardirai di chiamare fragilità un tale eccesso? Taci, e se vuoi apri bocca, aprirla solo per detestare le tue colpe, per domandare misericordia. Sebbene a che riscaldarmi? Merceché ai peccatori disonesti nulla premono i patimenti o la morte di Cristo. Non so pertanto chi mi tenga che io non venga qui a stravaganze. Una onorata fanciulla
vedendosi lungamente perseguitata da un giovine disonesto, tentò tutte le arti per rigettarlo: usò preghiere, adoprò ammonizioni; mischiò minacce; ma tutto invano, perché lo sfacciato giovine avendo un dì osservato esser sola rimasta in casa la donzella; ebbe ardire d’aprir la porta, salir le scale, giungere alla sala e finalmente arrivare alla camera della fanciulla, la quale in vedersi comparir davanti improvviso quel giovine indegno, s’impallidì, intimorì come alla vista d’un orribile serpente; e non sapendo in quello sbigottimento d’animo, in quella contusione di pensieri come difendersi, nel cercar che voleva scampo e nell’alzar che fece gli occhi per domandare aiuto dal Cielo, vide un gran Crocifisso, che ella teneva appeso nella sua stanza, e presolo, corse frettolosa alla porta della camera, e quivi attraversato alla soglia, lo collocò: indi con volto acceso, con guardo fosco, con voce più che femminile ripiena di tanto ardire gridò: vieni pure, vieni e sfogati, o scellerato; ma ecco d’onde ti convien passare: su questo Cristo. Se ti dà l’animo di prima conculcare le sue membra, io sto per dire, avrò pazienza, che poi profani le mie. Restò a tal atto quel giovine ed a quelle voci non so se più stupito per la novità, o se più confuso per la vergogna, cambiò il sembiante in mille colori, e prostrato a’ piedi di quel Cristo, parlò assai più con gli occhi che con la lingua; si disfece in pianto, si dolse dell’ardire; ne domandò il castigo; ne propose l’emendazione; ma se quel giovine miei UU. avesse operato tutto l’opposto, ed avesse posto il piede sulla faccia, sulle piaghe di quel Cristo, voi v’inorridireste al racconto; e se l’aveste potuto aver presente con le vostre, meritatamente l’avreste sbranato. Or sappiate che voi non potete entrare in quella casa; né potete penetrare in quella camera; non potete passare per quella strada, voi m’intendete; senza mettere i piedi sulle piaghe adorate di questo Cristo; se non visibile, almeno certo invisibile. Se così è, disonesti, saziatevi, conculcatelo, strapazzatelo: eccovelo sotto de’ piedi. O Dio! In che modo barbaro bisogna mai predicare! Andate pure, o disonesti, a sfogare i vostri capricci, che Gesù intanto si rimarrà a scontar con le sue pene i vostri delitti: voi andrete a posarvi su morbide piume, egli si rimarrà a spasimare sì duro patibolo: voi andrete ad inghirlandarvi di molli fiori; egli rimarrassi a languire fra spine acute: voi andrete a passar le ore in trastulli libidinosi, e Gesù rimarrà ad enumerarle fra mortali agonie. Voi finalmente a godere, e Cristo a patire. Possibile che ad ogn’altro si abbia da dare l’amore fuorché a Gesù? Qui non amat Dominum Jesum anathema sit; chi non ama Gesù gli sia strappato il cuore dal petto, sia scomunicato. Ma voi singolarmente vorrei l’amaste. Donzelle, voi che andate così perdute dietro a quei vostri innamorati: che pensate, che vogliono? Belle parole, belle promesse: ti piglierò; ti sposerò; ti renderò l’onor tuo, fin tanto che siano giunti a contaminare, a togliervi l’onestà; e dopo poi darvi de’ calci, voltarvi le spalle: non voler più saper nulla di voi. Eh via, siate voi le prime a sprezzarli, non li guardate più; mandateli alla malora. Ecco l’Amante vostro, eccolo, eccolo, donatevi a Lui; consacratevi à Lui! O che bell’Amante è Gesù. Questi errori malnati partano da voi, e tornino ad abitare negli abissi, donde sono usciti. Tra di noi chi ha da regnare? L’amor di Gesù, viva, viva Gesù, viva Gesù! Questo ricolmi i nostri cuori, e vi benedica.

LIMOSINA

Gli antichi Cristiani che ben conoscevano, la limosina esser il vero modo d’ottenere il perdono dei peccati, se non avevano con che far limosina, digiunavano e davano parte del loro cibo a’ poveri. Che dirò io di coloro i quali senza togliersi nulla di bocca hanno tanto che dare, son comodi, son ricchi, e pure non danno un soldo? E gli pare d’aver usato gran atto di carità se dicano al povero: Dio ve ne dia, andate in pace, perché molti li scacciano con le brutte.

SECONDA PARTE.

Voi avete inteso, miseri disonesti, siete gran peccatori, e quel che a me dà pena maggiore, è il vedere che quantunque siate in tante miserie, ad ogni modo non cercate rimedio al vostro male. Ditemi: quando mai si trova un disonesto che cerchi rimedio al suo male, che si raccomandi a Dio, che ricerchi l’aiuto di Maria; che a questo effetto digiuni, faccia limosina; in una parola, ponga qualche mezzo per sfangare dalle disonestà. Eripe me de luto. Sebbene, che dissi? Non pigliano rimedio al loro male? Dissi poco; farebbe meno male: il peggio è che non solo non li cercano, ma quando il confessore a guisa di medico dell’anime loro, gli prescrive il modo che devono tenere di loro vita per guarire; né  meno le ne prevalgono. Fate che un confessore imponga ad uno di questi languidi talora di trentotto anni, che per uscire dal letto delle loro invecchiate miserie, si comunichi per un anno, ogni mese ed ogni giorno per un anno ricorra con alcune poche orazioni alla Santissima Vergine, come rifugio de’ Peccatori. Voi vedrete, che in breve tempo, o se ne scorda; o si attedia; o lascia affatto la medicina preferitagli per guarire. E questi direte voi, che non peccano per somma malizia, mentre subito sposta, ed avvedutamente vogliono? Non occorre altro, il peccare disonesto è il peccare più malizioso di tutti; poiché non solo non cerca i rimedi, non li riceve, quando gli sono offerti; ma egli va sempre studiosamente cercando le occasioni, ed immergendosi in quelle nelle quali sono state maggiori le cadute… e poi direte, che peccano per fragilità! Che l’esser disonesto è il minor de mali? Chi così discorre, può dire d’aver totalmente perduto il senno. Se un nocchiero urta una volta in uno scoglio, e rompe la nave che guida, potrà per avventura darsene la colpa o alla fragilità del legno, o alla forza de’ venti o alla furia del mare: ma se ogni giorno rompesse una nuova barca, e se a bello studio andasse ad investire gli scogli, e se a questo fine spiegasse tutte le vele per andarvi con maggior impeto; chi potrebbe mai scusarlo con la debolezza del legno o con l’imperversare de’ venti? Così è de’ disonesti; vanno ad ogni veglia: si trattengono a guardare: stanno le femmine allo specchio, e poi dicono … fragilità ed arrivano a disprezzare questo peccato come peccato da nulla: rimediate al vostro male or che potete, e pius cum in profundum venerit contemnet ed intanto non si accorgono i meschini, che questo medesimo dipingere loro la disonestà per poco male è un’arte finissima del demonio affinché, non vedendo la rete, v’entrino allegramente, e dopo esservi entrati non ne escano mai più. Che si ha dunque da fare per liberarci da quelle disonestà, che ci costituiscono si gran peccatori? Raccomandarci a Dio, alla Vergine Santissima, ed a Lei a tale effetto ricorrere con qualche particolare devozione, portarsi da qualche buon confessore; scoprirgli tutte le nostre piaghe; pregarlo di rimedio sopra tutto fuggir balli, fuggir veglie, ritirarsi dagli amori, svilupparsi con ogni sforzo da tutti gli effetti peccaminosi, giacché si tratta di troppo, si tratta di perdere in eterno, per un diletto bestiale, quanto ci apparecchio’ Dio di bene in Paradiso, e di addossarci in eterno quanto Dio ci preparò di male nell’inferno. L’uomo disonesto non è, torno a dire, un peccatore ordinario, ma un peccatore grande; sì per la qualità de’ falli, sì per la moltitudine, sì per la malizia con cui il commette. Rimediate al vostro male or che potete, e Dio vi benedica.

QUARESIMALE (XXXII)

QUARESIMALE (XXXII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)


PREDICA TRENTESIMASECONDA
Nella Feria quinta della Domenica di Passione.

Si palesano le finezze di Dio per ridurre il peccatore a penitenza, e le miserie che li sovrastano, abusandosene.

Remittuntur ei peccata multa. San Luca al 7.

Non aveva ancora Marco Antonio Imperatore ben stretto lo Scettro in pugno nel comando di Roma e dell’Impero, quando la consorte Faustina tentò porgli in cuore sentimenti di vendetta contro Avidio Cassio ed altri suoi e rivali e ribelli. Ma rivoltosi il Monarca alla troppo appassionata consigliera, così rispose: Cassio, è vero, ha offeso un  Imperatore Romano che non è suo pari, e per questo stesso voglio perdonargli, per non farmi pari a lui nelle passioni . Ego ejus liberis parcam, et Genero, et Uxori, nihil enim est, quod Imperatorem Romanum melius commendes gentibus quam clementia; Io stimo che un imperatore di Roma non possa rendersi più glorioso presso le genti, che con la clemenza; sarà sempre mio assioma che per rendersi schiavo un mondo, non avrà Roma le migliori catene della clemenza. Questi erano o miei Uditori i sentimenti cortesi del monarca romano; ma o quanto di gran lurga maggiori sono quelli del Monarca Celeste. Egli pure dice: Nihil est, quod Imperatorem Cælestem magis commendet gentibus, quam clementia, e questa è quella, che oggi appunto pratica con la Maddalena, mentre gli concede il perdono di tutti i suoi peccati, che pur furono molti: remittuntur ei peccata multa. Rallegratevi pure anime peccatrici, se pur qui ve ne è alcuna; siete cadute questa volta in buone mani, in un Dio tutto clemenza, tutto bontà, tutto misericordia; e però altro non brama, che poter dire a ciascuno di voi: Remittuntur tibi peccata, ed acciocché tocchiate con mano, che io non mento, voglio questa mane mostrarvi quanto Dio faccia per ridurre a sé le anime, e potergli poi dire: remittuntur tibi peccata. Sia straordinaria l’attenzione, perché straordinaria riesca la confusione in quel peccatore che ostinato non si volesse arrendere alle finezze d’una tanta clemenza. Contentatevi che io sul bel principio vi spieghi l’operare di Dio con la bella differenza che passa tra due mestieri ambedue ordinati al medesimo fine; e sono la pesca e la caccia; ambedue questi mestieri non hanno altra mira che far preda; ma quanto diversamente operano! Il pescatore si studia di lusingare il pesce con cose dolci, con paste medicate con esche amabili, a procura quanto può di non spaventarlo, onde cerca di non esser veduto, sta in silenzio, e tende le sue insidie tra le tenebre della notte, e l’inganna di modo tale che il pesce, quantunque preso, quantunque prigione, talor non se ne avveda. Non così però fa il cacciatore: esce questi in campagna con gran strepito di cavalli e di cani, dà fiato al corno, e quasi voglia portar guerra alle selve, sfida con le grida a scappar dalla tana gli orsi e dalla grotta i cinghiali, e con lance, con spiedi e con archibugi dà fuga alle fiere, le assale, le trafigge, le ferma, le uccide, e spesso del lor sangue ne porta tinte le mani, macchiati i panni. Da questa diversità d’operare, voi con me ne deducete che uno vuol la preda per amore, l’altro per forza. Così è, ed appunto di queste due forme si serve Dio per guadagnare a sé i peccatori. E prima si serve di quella di pescatore, indi di cacciatore. Uditene Geremia, che apertamente ve l’esprime al 16. Ecce ego mittam eis Piscatores et piscabuntur eos, et post hæc mittam eis venatores, et venabuntur eos. Ponete cura, o miei UU., a quelle paroline post hæc, le quali significano che Dio si vuol valere prima della pesca, che è quanto dire delle dolci chiamate, et post hæc … e se queste non giovano, alla caccia, allo strepito, al sangue, alla morte. E che ciò sia vero, mirate quello che fa. Ecco, che si accorge che quel mercante tutto dedito all’interesse, falsifica pesi, scorta misure, bagna le seti, tiene all’umido i grappi; che quel nobile non paga mercedi, non soddisfa legati pii, e se ne vive pieno d’ambizione, e gonfio di vendette; vede che tanti e tanti, vivendo tra le lascivie si sono slontanati da Lui, recesserunt ab Eo, e però par che gli dica: e perché  avete potuto dare a me le spalle, ed al demonio il cuore? No, no, lo voglio io, Præbe mihi cor tuum, dammi il tuo cuore, ed indirizzalo per la strada del Paradiso, et dirige cor tuum per viam rectam. Ben si avvede che quella femmina tanto vana, va tanto lungi da Lui ed Egli le dice: revertere ad me et ego suscipiam te; lo so benissimo, tu vinta o dalla passione sfrenata dell’amore, o dalla ingordigia dell’interesse, sei caduta, m’hai trafitto il cuore, ad ogni modo son pronto a riceverti nello stesso cuore da te ferito. Dovrei senza altro, per avermi tu sì barbaramente offeso, muoverti guerra, eppure Io ti perdono, e ti chiedo pace. Cari miei uditori, quante volte avete sperimentato questi tratti di finissima dolcezza, usati da Dio per togliervi dal peccato? Egli si è diportato con voi a guisa d’una madre amorosa intorno ad un suo figlio ammalato, insieme e svogliato che, per farlo cibare si protesta di perdonargli ogni strapazzo e gli offre donativi. Tutto è vero, mio Dio, tanto voi praticate col peccatore egli simile a quel fiume colà nella Scitia, che ne’ calori più fervidi si fa gelato: egli, dico, alle vostre divine dolcezze sempre più s’indurisce. Mio Dio, giacché il Peccatore indurisce alle vostre finezze che con tanto amore lo chiamano a penitenza, non ve ne curate, e lasciate, che a briglia sciolta corra tanto che giunga fino all’inferno, ed ivi sprofondi per eternamente dimorarvi. No, no, dice Iddio; a me l’anima del peccatore costa sudori, sudori di sangue sparsi colà nell’orto del Getsemani; a me costa strapazzi, obbrobri e percosse tollerate ne’ tribunali d’Anna, Caifa e Pilato. Troppo mi preme la sua salute che tanto mi costò, e perciò voglio tentare tutti i mezzi per indurlo a lasciare la mala pratica, a deporre gli odii, a staccare il cuore da quell’interesse che l’accieca, e perché veda l’oppressione de’ pupilli, la rovina delle vedove che cagiona, e giacché non basta averlo pregato a vivere secondo i miei voleri, voglio ricordargli, per motivo d’obbedirmi, i benefizi che gli ho fatti. Sentite giovane, uomo o donna che siate, voi m’offendeste tutto dì con quei vostri sì scorretti costumi, con quegli spergiuri, con quelle bestemmie, eppure Io son quello che v’ho dato l’essere, avendovi cavato dal nulla; Io son quello, che v’ho organizzato quel corpo che avete, arricchito di tre potenze, memoria, intelletto e volontà; Io son quello che vi mando ricchezze, Io vi mandai quella eredità, Io vi riempii quelle casse d’argento, quegli scrigni di gioie; per me fruttano quei poderi, per me vi rendono quei censi, per me vi vivono gl’armenti, per me vi giungono in porto felicemente quelle mercanzie che vi sono di tanto guadagno. Io fui che vi conclusi quelle nozze tanto desiderate, che vi concessi quella figliolanza che tanto bramavi; per me godete quei titoli, quelle dignità, quegli onori. Chi vi liberò da quel colpo di quel rivale, se non Io? chi vi scansò da quelle insidie che vi tramava l’inimico? Chi v’esimé dalla voracità di quelle onde che stavano già per sommergere il legno? Chi vi sottrasse in somma da quei tanti pericoli se non Io? e perché dunque, se tanto v’ho beneficato, non solo in quanto spetta al corpo, ma molto più intorno all’anima; mentre v’ho comportato, v’ho tollerato ne’ peccati, acciò venisse a penitenza; perché  dunque rispondete con ingratitudine a’ miei benefizi? E non siete voi quello che più volte avete detto farvi Iddio assai più di quello che meritate? Avete pur confessato di propria bocca che, al pari d’ogn’altro siete stato favorito dalla mia beneficenza? Come è dunque possibile che una tal memoria non v’induca ad arrendervi a mutar vita? Non occorre altro; obblighi pure Iddio certa razza di peccatori con replicati benefici, e li troverà simili a quelli de’ quali scrisse il Martire Sant’Ignazio quibus cum benefeceris pejores fiunt; i benefici li fanno peggiori. Fu penna d’oro la vostra, o Clemente Alessandrino, allorché scriveste: nunc homines, tanto magis impii, quanto Deus benignior est, quanto Dio è dolce con certi peccatori, tanto essi sono amari verso di Lui, sicché possono assomigliarsi a quelle perfide vipere che tanto più si fanno crude, quanto più è dolce il canto che talora sentono. Orsù dunque, se così è, non più benefici, mio Signore, lasciate imperversare questi empi, e giacché vogliono perdersi, si perdano. No, no, dice Iddio, non lo comporta né il mio amore, né lo sborso del sangue fatto per riscattarli. Vuoi tu, che lasci perirli, mentre per loro mi sono sottoposto alla spietata flagellazione nel pretorio di Pilato, ove molti manigoldi, dandosi la muta l’un con l’altro mi flagellarono sì spietatamente, che con ritirare il colpo, ritiravano a brano a brano anche la carne, e ne fondavano i solchi fino alle ossa? Non sia mai vero; li aiuterò, perché si ravvedano; farò che quel lascivo, quell’interessato, quel vendicativo, s’imbatta in quel buon religioso, col quale venendo a discorrere dell’altra vita e della eternità, ne ritragga vivi sentimenti di compunzione, e li vada a confessare; farò che venga alla predica, ed ivi gli toccherò il cuore talmente che, se non sarà più che di sasso, certo s’intenerirà; gli manderò una ispirazione sì gagliarda al cuore, ed una cognizione sì viva dello stato miserabile in cui si trova, trovandosi in peccato mortale, che se non ha cieca affatto la mente, mi darà orecchio; gli farò capitar un libro in mano ove, leggendo la vita d’uno de’ miei Santi, s’arrossisca in vedersi tanto dissimile, e così si converta; farò che oda una Messa per le anime del Purgatorio, che visiti una immagine della Vergine mia Madre, e nel medesimo tempo non lascerò di picchiargli al cuore, e di fargli conoscere che sta con un piede nel mondo ed ormai con tutti due nell’inferno. Cercherò con queste batterie di ridurlo a penitenza. Ditemi, ha pur usati Iddio questi stratagemmi con voi, e voi? Eh, mio Dio, ancorché seguitiate, non vi riuscirà, perché un tal peccatore, per potersi rivoltare tra’ pantani del senso, non farà conto né delle parole de’ religiosi, né  della lettura de’ libri spirituali, di nulla, di nulla, volendo vivere a capriccio nelle proprie soddisfazioni, e così si paleserà sempre più ingrato, e perciò torno a dirvi, Signore: lasciatelo andare. No, no, non lo comporta il mio amore, replica Iddio; oltre di ché l’anima sua costa a me le ferite che tante acutissime spine fecero nella mia testa, e fu sì acerbo il dolore che una sola di quelle spine saria bastante, fissa in testa ad un leone, ad ucciderlo, e vuoi che lasci in abbandono un’anima che a me costa sì caro prezzo? Non sarà mai vero! Terrò bensì altra strada, e giacché né le preghiere, né i benefici, né gli stratagemmi del mio amore possono far breccia nel suo cuore, verrò alle minacce. Porgete le orecchie a quanto vi dico, o peccatori, è Dio che parla, e voi siete da Lui minacciati. Udite, ed inorridite; così si legge nel Levitico al 26: Urbes vestras redigam in solitudinem, disperdamque terram vestram, et evaginabo gladium meum post vos, eritque terra vestra deserta, et civitates vestræ dirutæ; Io, Io, dice Iddio, distruggerò da’ fondamenti, o gente peccatrice, le vostre città, e farò de’ vostri edifici polvere e pietre; Io, Io muterò i chiodi della mia Croce in coltelli, acciò vi fiano strumenti di piaghe orribili, come vi furono di salute, e farò che delle vostre città, terre ed averi, altro non rimanga salvo che la memoria, che vale a dire, carestie che vi affamino; terremoti che vi subissino; malattie che vi uccidano; pestilenze che vi desolino. Non sono queste, o miei uditori, minacce che debbano entrar per un orecchio ed uscire per l’altro, è Dio che parla, ed è quel Dio che, se la sa dire, la sa anche fare, e la farà, come l’ha anche eseguita altre volte; e perché vuole che siano e stimate, e credute, e temute; per questo, non in un solo lungo le intima, ma in molti. Dalle sacre Carte, per Isaia, si fa sentire egualmente formidabile, allorché dice: Veæ, veæ, qui trahitis iniquitatem, guai, guai a voi che principiaste a peccare, né mai la finite; e per Osea non meno spaventoso si fa udire, Veæ eis, cum recessero ab eis, guai a quei peccatori, che m’hanno abbandonato, perché li abbandonerò. Le vostre minacce, o mio Dio, non fanno un colpo al mondo nel cuore di quel peccatore, voi parlate al vento, e gridate al deserto, tanto è risoluto di condursi viva quella pratica alla sepoltura, allorché egli vi andrà morto, allora lascerà di mormorare, allora abbandonerà quei tanti vizi, che gli hanno oppresso il cuore, ed uccisa l’anima. Dunque, mio Dio, mutate modo: vi vuol altro che minacce con costoro, che sono appunto di quelli de quali scrisse San Saverio, isti facere que placent, volunt audire, que displicent non sustinent; dunque abbandonateli, toglieteli la vostra santa mano di testa, dateli in totale potere delle loro passioni; No, dice Iddio, no, non lo comporta il mio cuore amoroso, neppur lo comporta quell’obbrobrio a me sì doloroso di vedermi esposto con una canna in mano, coronato di spine, e schernito a guisa di re da scena, e con un tal patimento sofferto per l’anima del peccatore, vuoi, che l’abbandoni? Non sarà mai vero; farò così, gli farò sentire le minacce più da vicino, cioè nel nuovo testamento, poiché se quelle del vecchio, come troppo lontane, non gli facessero colpo glielo facciano queste. Udite le minacce di Cristo nel nuovo Testamento Veæ vobis, dice per San Luca, qui ridetis nunc, guai a voi che, invece di piangere, perché m’offendete, vi ridete d’avermi offeso, verrà tempo, che piangerete. All’Evangelista si soscrive Santa Brigida con una rivelazione avuta dal suo Gesù. Brigida, dice Cristo, se i peccatori, udite le mie minacce, diranno, aspettiamo ancora un poco, non è ancor tempo di mutar vita, io dico che siccome cacciai Adamo dal Paradiso terrestre, e flagellai Faraone con dieci piaghe, castigherò costoro prima di quello che si credono; giuro che, se non faranno penitenza, io mi vendicherò di loro nell’ira mia. Infelicissimi peccatori, che rispondete a queste voci di Dio? Deh riflettete, che i colpi di Dio saranno pesanti, onde a voi rivolto con San Lorenzo Giustiniano, esclamo: disce quæ peccatoribus Deus comminetur, ut Deum timeas, aprite le orecchie a queste divine minacce, per non ne avere a provare spietati gli effetti. Dio immortale, io so pure che, quando il leone ruggisce dall’alto, gl’animali tutti temono e tremano, e voi alle voci tremende di questo Leone di Giuda non vi atterrite? Dio, Dio, come è possibile che queste orribili minacce non vi atterriscano? Una gran principessa disse ad un gran cavaliere, vi meritereste che io vi facessi gettar la testa a’ piedi; ed è pur vero, che questa, quantunque non fosse minaccia di farlo decapitare, ad ogni modo, atterrito morì in tre dì accorato. E voi che fate che non temete, non tremate, non tramortite? Non occorre altro, Signore, costoro non vi credono, potete minacciare quanto volete, tanto vogliono continuare a peccare; la vera sarebbe lasciarli in impietate sua, voltargli le spalle; o questo no, dice Dio, non lo comporta il mio amore; non lo vogliono queste piaghe, che sono prezzo sborsato per la loro salute; userò loro un altro stratagemma, e dalle minacce della lingua passerò a mostrargli i castighi che sono usciti dal braccio mio onnipotente, a danni di chi non mi ha voluto obbedire. Sentite UU., voi strapazzate quel Dio che fece strage d’innumerabili Amorrei, non solo con le spade, ma per seppellirli anche vivi con grandini di pietre; quel Dio che nella città di Gerico piantò fiero coltello nelle viscere degli abitatori e fece che si troncassero alla rinfusa vene nobili e plebee, che senza riguardo s’immergessero le aste micidiali anche nel petto delle donzelle innocenti e de’ teneri pargoletti. Voi offendete quel Dio che fece sanguinoso sterminio di ventitré mila idolatri per vendicare l’ingiuria venutagli dalla adorazione del vitello d’oro, e ben dovevano cadere morti a’ piedi di quella bestia quelli che tante volte vi si erano inchinati vivi. Quel Dio che ricoprì le campagne empiendo i cuori di formidabile orrore con i tronchi e lacerati cadaveri di cento ottanta mila assiri. Quel Dio, che diede la morte, dopo innumerabili stenti, a seicento mila guerrieri che si portavano alla Terra di Promissione. Peccatori miei, vive, sì, vive anche oggi quel braccio tremendissimo di quel Dio, che farà scempio non inferiore nelle vostre vite, se non vi convertite a Lui con penitenza. Grande Iddio, tanto si teme quel giudice, e tanto si rende formidabile a’ malfattori non con altro che con mostrar loro le veglie, i cavalletti, le verghe, le manette, le funi con cui egli può tormentare, ed è possibile che non si abbia da temer quel Dio il quale ha un apparato immenso di mali che ogni dì Ei fa vedere nelle nostre case, nei nostri parenti, ne’ nostri amici, tormentati chi da dolori intensissimi di viscere, chi da crucio di denti, chi da spasmo di calcoli di pietre, di dolori di testa colici etc…. Nelle nostre città con terremoti, con pestilenze; nelle nostre campagne con tempeste che desertificano, con venti che bruciano; con inondazioni che portan via intere campagne; con mortalità negli armenti. Io non la so intendere; chi ha più strumenti da tormentare quel giudice terreno che voi tanto temete, o questo Giudice Celeste di cui vi ridete? Dico di più, che il giudice terreno ha il termine prescritto dalle leggi nel tormentare, tante ore di corda, e non più; tante di veglia, e non più. Quelli che può dare Iddio a voi, eccedono talora i confini degli anni, ed anni, a segno tale, che molti e molti per non vivere in quei tormenti, si sono dati la morte. Eh, temete questo Dio! Come è possibile che non vi moviate a queste verità? Ditemi, o Grande Iddio della eternità, avete voi forse bisogno, per popolare il Paradiso, di questi iniqui, di questi scellerati? No! Dunque, abbandonateli affatto, giacché si vede che l’ostinazione gli ha chiuso il cuore. Così dici tu, mi replica Iddio, ma non così parlo Io; a me, queste anime, benché perverse, sono costate la vita data sopra d’una Croce in mezzo a due ladri, a guisa d’un infame; il mio amore non comporta che Io li abbandoni fino all’ultimo, e però voglio dare l’ultima batteria a questi cuori ostinati, per vedere se vogliano una volta risolversi ad abbandonare il vizio; voglio che dagli stermini del corpo, si passi a mostrargli le rovine dell’anima. Non farete nulla, mio Dio, perché costoro tanto stimeranno l’anima in altri, quanto in sé, e la stimano sì poco che, quasi dissi, vi chiamano mercadante mal pratico, in aver comprata l’anima con tanto prezzo, mentre loro la danno per poco e niente. Non importa, il mio amore mi spinge a fare questa ultima prova. Ecco dunque, o peccatori, ciò che Iddio vi espone per mezzo di più rivelazioni, vi fa intendere lo sterminio di tante anime perdute, perché vissero come voi. Or trenta, or sessanta mila ne vide in un sol colpo dannate nel tribunale di Dio un’anima santa. Ecco vedersi cader colaggiù nell’inferno da un Servo di Dio, le anime in sì gran numero, che si eguagliavano ai fiocchi della neve, quando cade più folta. Vi confermi questa verità la bocca d’un dannato nella città di Parigi. Venne a morte un nobile cancelliere; era questi amatissimo dell’Arcivescovo, il quale su quell’ultimo andò a visitarlo, e lo pregò, che dopo la sua morte volesse apparirgli per dargli qualche ragguaglio di ciò che gli fosse accaduto all’altra vita. Promise il moribondo, e morì. In capo ad un mese, allorché l’Arcivescovo se ne stava studiando, si vide comparir l’amico già morto, si spaventò alla vista. Indi preso cuore, l’interrogò perché fosse venuto … per mantenervi la promessa, replicò il morto, e che gli faceva sapere esser egli dannato sì per la sua superbia, sì per le sue disonestà. Indi gli soggiunse, che all’inferno vi fioccano le anime del mondo, come le nevi fioccano nell’inverno sopra della terra, … sicut nix ruit de cœlo, ita animæ ruunt in infernum; e ciò detto, dato un strillo orribile, sparì. UU. miei, come fiocchi di neve si va all’inferno; quanta ragione, quanto motivo avete voi di temere se non vi ravvedete, e se ci balzate,  miseri voi, quis ex vobis poterit habitare cum ardoribus sempiternis, rispondete ad Isaia, come potrete stare tra quelle fiamme? Rispondimi donna che tanto accarezzi la tua carne, che la vesti con tanta delicatezza, che non puoi soffrire una punta d’ago, il quale t’insanguini leggermente la pelle, come potrai poi resistere a quelle mannaie, dalle quali ti sentirai smembrare, disossare, e tritare con eterna carnificina? Che dici uomo sì diligente in procacciarti tutti i tuoi comodi, poteris habitare cum ardoribus sempiternis, tu non puoi ora patire la puzza d’un poverino il quale ti si avvicini, come potrai reggere a quelle cloache d’inferno, dove resterai appestato per tutta l’eternità? Che dite voi, Sacerdote sì trascurato in adempire i vostri debiti, poteris habitare cum ardoribus sempiternis, voi, che non potete stare per lo spazio d’un’ora in quel Coro della vostra Chiesa modestamente, senza scomporvi, senza guardare, senza parlare? Come potrete stare per tutti i secoli eterni assiso non sopra un seggio di vita noce, ma bensì stirato negli eculei su letto di fuoco? Che dici vendicativo, che dici disonesto, che dici? poteris, poteris… Sebbene, perdonatemi, più che a voi, debbo io parlare a me. Che sarà di me se io non piango davvero i miei peccati, se cerco la stima, se procuro i comodi? come potrò stare a’ piedi di lucifero per un’intera eternità? Ed è pur vero, così non fosse, che qui vi farà qualche peccatore sì ostinato, che non vorrà arrendersi neppure alla denunzia di castighi sì formidabili, che pur sono il precipizio dell’anima. Si, se così è, che qui sia chi voglia seguitare ad esser empio ad onta di questo ultimo stratagemma di Dio per farlo ravvedere, lo sia, e se ama perire, perisca il misero. Esca, dunque, dalla di lui mente ogni raggio di luce celeste, e si adempia il detto d’Isaia, schiantandosi dalle loro viscere il cuor di carne, in sua vece ve se ne ponga uno di sasso. Vada pur di male in peggio, e così venga a cadere sopra di lui il castigo più spietato di Dio che è il non castigarlo in questa vita; ecco, che lo prendo dal Salmo centesimoquarto, e lo fulmino a danno degli ostinati. Inorridite: exacerbavit Dominum peccator, il peccatore ha esacerbato Iddio, adunque Iddio severamente lo castighi, qual sarà il castigo, secundum multitudinem iræ suæ non queret, lo lascerà con i suoi peccati in cuore e con la briglia sul collo; e da questo che ne verrà? Non quæret, e non curandosi più Iddio, il precipizio sarà indubitato. Eh mio Dio, giacché voi siete il gran Leone di Giuda, fate in pezzi questi capretti presciti, per darli in tutti i secoli a masticar nell’inferno; è dovere che una volta giungano colaggiù, ove già sono tanti anni che vi si incamminano, non vi sia più per loro misericordia, non vi ha più speranza d’emendazione; vadano, vadano colaggiù, ed il più fiero carnefice, che li tormenti, non sia né il fuoco, né i diavoli, né tutto il resto che compone quell’abisso di tormenti, ma la bontà vostra abusata … Or chiudasi l’inferno, mentre v’arde il peccatore ostinato.


LIMOSINA.
Vi sono ancora degli ostinati in non voler far limosine: bene. Or sentite Gedeone agli abitatori di Socoth là nel deserto, perché non vollero sovvenire i poveri suoi soldati affamati: fece questa terribile intimazione, cum reversus fuero conteram carnes vestras cum spinis, tribulisque deserti; al mio ritorno farò una vendetta sì esemplare della vostra crudeltà, che trascinerò i vostri corpi tra le macchie di questo incolto paese, affinché non ne rimanga memoria. UU., quanto è più possente Iddio che Gedeone, tanto sarà più terribile la vendetta che Egli eseguirà contro di quelli che sono ostinati in non sovvenire i poverelli, cum reversus fuero conteram. Farà Iddio un fascio di ricchi e delle ricchezze e di quanti, potendo, non sovvennero i poveri, e darà fuoco a tutto, senza che vi sia mai acqua che possa spegnere un sì grande incendio.

SECONDA PARTE

Io mi stupisco, come mai quelli i quali sanno che Dio ha la spada sfoderata contro di loro e li ferisce, e tanto pecchino, che Dio ha il flagello alla mano in tante disgrazie, che gli manda, e ad ogni modo l’oltraggiano. E prima di me, con occhio attonito si stupì Isaia, allorché disse: Ecce tu iratus peccavimus, tu sei adirato con noi, e tanto noi pecchiamo. Riflettete, ascoltanti, che il Profeta non dice peccavimus et tu iratus es, perché questo lo capirei; ma dice iratus es, peccavimus. O questa sì, che è cosa degna di sommo stupore, sapere che Iddio è adirato con noi, e tanto offenderlo. E non è vero, che taluno di voi è stato più perverso, dopo d’esser stato castigato ed avere conosciuta l’ira di Dio nelle tempeste che v’hanno desertato le campagne, e tanto avete peccato. Avete conosciuta l’ira di Dio nella mortalità dei vostri armenti, e tanto avete seguitato ad una accumular roba con danno del vostro prossimo. Iratus es, peccavimus; o questo sì che non intendo: avete conosciuta l’ira di Dio, allorché vi fu alla vita quel rivale per uccidervi, e tanto avete seguitato ad andare in quella casa. Non più, non più, verrà al castigo, accadrà a voi come all’infelice Nabucco. Sentitene il caso funesto. Si porta Daniele al cospetto di questo superbissimo principe, e con autorità di Profeta gli intima da parte di Dio che egli tra poco sarebbe scacciato dal trono e cambiato in fiera, sarebbe passato alla selva, per ivi vivere; che però l’esortava a ricomprare con limosine i suoi peccati, ad abbassar la sua alterigia, ad alimentar famelici, a vestire ignudi. Voi vi crederete, che l’empio regnante alle parole del Profeta balzasse giù dal trono, e buttatoglisi a’ piedi offrisse tutti i suoi tesori per ricattarsi dall’imminente castigo. Appunto, appunto; nulla perciò intimorito nonché compunto, seguitò a vivere più empiamente che mai. Un anno intero gli concesse Iddio di tempo per ravvedersi; quando ecco, che dalle minacce passò al castigo. Ecco che un dì, mentre se ne passeggiava orgoglioso per la sua sala, ammirando la sua reggia, esaltando la sua potenza… vox de Cœlo ruit, calò una voce precipitosa dal Cielo, la quale gridò: alle selve, alle selve; tibi dicitur Nabuchodonosor Rex, cum bestiis erit habitatio tua. Appena udite queste voci, si sentì subito l’empio Re cambiare e sembianza, e voglia e costumi; si squarciò le vesti sul petto, e mandando per voce un alto muggito, tutto apparve a guisa di bestia, e buttatosi per terra, se ne fuggì alla selva per viver da bestia. Cari miei uditori, quanto tempo è che Dio v’intima castighi, non un anno come a Nabucco, ma tre, ma quattro. Quanto tempo è che vi dice, che mutiate vita, che lasciate la pratica, etc.. E voi? Verrà al castigo, vi cambierà in bestia, e vi metterà ad abitar tra’ diavoli. – Racconta Plutarco, che a tempo suo cadde in Roma un fulmine, e non fece altro male, che sciogliere ad un soldato una scarpa. Li peccatori si figurano che i fulmini della Divina Giustizia siano di questa tempra; sicché, dopo il tuono di tante minacce, non debbono mai cadere, e pur cadendo, poco o nulla di male abbiano a fargli. Si figurano costoro un Dio simile a loro, che non odii il peccato, giacché essi non l’odiano; existimasti inique, quod ero tui similis, e quando pure credano che Egli abborrisca le ingiurie fatteli, se lo figurano come il re delle api, sempre col miele d’una misericordia continuata, e senza pungolo da vendicare i suoi oltraggi. Dio è misericordioso, sì, ma è anche giusto. È benigno tra noi quel principe, che piangendo soscrive la sentenza di morte contro il malfattore, ma non per questo lascia di soscriverla, perché  così vuole il giusto. È misericordioso Iddio e si duole d’avere a condannare quell’anima da lui creata per esser Stella del Cielo, alle fiamme dell’inferno; ma non resta però di condannarla, richiedendo così la sua Divina Giustizia, per la di lui ostinazione nel male. Lasciate, o peccatori, la mala vita, perché Iddio non potendo più soffrire la vostra ostinazione, lascerà di far con voi le amorose parti di Padre e si vestirà di quelle di Giudice, ed allora siete spediti. Che si ha dunque da fare? Ritornare a Dio, e ritornarvi sollecitamente con un’ottima Confessione, abbandonando col peccato l’occasione del peccato, altrimenti io vi dico, che Dio vi volterà le spalle, e vi dannerete. Non vi negherà mai la grazia sufficiente con cui vi potreste salvare, ma non vi salverete, perché non ve ne valerete. Pensate a’ casi vostri.

QUARESIMALE (XXXI)

QUARESIMALE (XXXI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA TRENTESIMAPRIMA

Nella Feria quarta della Domenica di Passione.


Si mostra la nostra predestinazione esser congiunta con le nostre opere.

Oves meæ vocem meam audiunt, et ego cognosco eas, et sequuntur et ego vitam æternam do eis. San Gio: cap. 10.


Segretissimo agli uomini è il lavoro dell’eterna predestinazione, seguendo in ciò la grazia operare ordinario della natura, cui il più prezioso delle sue opere ed il più nascosto. Non lavora ella all’aperto de’ campi il tesoro de’ ricchi metalli, e delle pietre più preziose, ma gelosa intorno a fabbriche sì nobili, le perfeziona nell’occulto delle miniere, nel profondo de’ mari, celandole agl’occhi della curiosità. Or del pari, riveriti UU., ci avvisa Sant’Agostino: segue nell’affare di nostra predestinazione, Prædestinatio vocationis nostræ fit in occulto; occulto è in noi il bel lavoro della predestinazione eterna, occulta, la stabilità de’ divini decreti, occulto lo stato della grazia. Seminiamo, ma chi può assicurarci della raccolta? Combattiamo, ma chi può promettersi della corona? Corriamo, ma senza sapere se giungeremo alla conquista del Pallio. È vero, non v’ha dubbio, quanto io vi dico, ma è altresì vero potersi da noi arrivare alla certezza di questa incertezza. Si non es predestinatus fac ut prædestineris, potete sì, assicurarvi la beatitudine eterna, con l’incertezza della predestinazione. Attenti. Con le vostre opere va congiunta la vostra predestinazione, il vostro salvarvi. Vivete bene, miei UU., e poi aspettatevi pure che Dio si dichiari che voi, come sue pecorelle, bene udite la sua voce, Oves meæ vocem meam audiunt, e che, come a tali, vi conferisca la vita eterna, et ego vitam æternam do eis. Ecco il mio assunto. Se sarete predestinati, le vostre opere saranno buone, perirete quando siano cattive. Tanto vi dice la terra, tanto vi conferma il Cielo, anzi lo stesso inferno. Alessandro il Grande sospirava un chiodo, con cui fermare il giro alla ruota della fortuna incostante, suspiro clavum. A noi per inchiodare l’eterna fortuna in un regno di beatitudine, ci porge un sicuro strumento Sant’Agostino, allorché ci dice: Qui fecit te sine te, non salvabit te sine te.Tu venisti alla luce del mondo senza tuo aiuto. Non ti pensare però di potere arrivare al Paradiso senza la tua cooperazione, perché Iddio, non salvabit te sine te. Bestemmi pure quanto vuole dalle taverne di Ginevra, Calvino, e dalle bettole della Germania, Lutero che ora a costo di fiamme nell’inferno, sono costretti a confessar questa verità, che per acquistare il Paradiso ed essere nel numero de’ predestinati, vi vuol l’opera nostra cagionata dalla Grazia. Vi confermi questa verità quel gran Re e Profeta David, che per esser secondo il cuor di Dio potrà decifrarci quest’arcano, se vi vogliano le nostre opere per salvarci. Or sentite come egli parla. Dopo aver io saputo, dice, il coronato Re, che in Dio v’era podestà di riprovare e castigare, e v’era misericordia per eleggere e predestinare, non andrò investigando se son predestinato mi salverò, se son prescito mi dannerò; appunto, ma soggiunse quel che io considero, mio Dio, quel che io tengo per certo è, che Voi, mio Signore, siete così giusto, che darete a ciascheduno quello che con le sue opere buone o male avrà meritato, e se io vi servirò mi pagherete con premio
eterno, se io vi offenderò mi castigherete come è di giustizia. Quia tu reddes unicuique juxta opera sua. David, dunque, che era secondo il cuor di Dio, così parlava, e voi temerari, che siete giusta il cuor del diavolo, perché siete inviluppati in mille laidezze, nelle quali volete seguire la vostra vita, avrete ardir di dire che vi perdete, vi dannate, perché Dio v’ha riprovato. Né mentite scellerati, che non è iniquitas apud Deum, grida l’Apostolo. Rispondete: è Dio che vi fa camminare la strada della disonestà, che vi fa star tra quei vizi, con quel cuore pieno di sdegno, che arde di vendetta? Vi comanda forse Dio, che andiate ad uccidere l’inimico, che pratichiate quell’usura, succhiate il sangue a quei poverelli, spogliate quelle vedove, quei pupilli? È forse Iddio, che vi fa bestemmiare il suo santo Nome, e v’induce a mettervi sotto de piedi quanti precetti contiene il Decalogo, quanti ne prescrive la Chiesa? No, no; ma voi siete quelli che li trasgredite, e non volete salvarvi, perché volete vivere con la briglia sul collo, libero ad ogni vizio, dite dunque, e confessate, a vostro marcio dispetto, che non vi salvate perché non volete salvarvi. Se il sole bastasse da se medesimo a produrre l’oro nelle montagne, tutte le miniere ne sarebbero colme, ma perché, oltre gl’influssi del sole, si richiedono ancora le disposizioni della terra, per questo l’oro è sì raro, voglio dire, che se per salvarvi bastasse la sola volontà del Signore, tutti ci salveremmo, ma perché Egli richiede che alla sua Grazia si congiungano le nostre opere buone, per mancanza di queste tanti e tanti periscono. Orsù, miei UU., sollevatevi dalle bassezze di quella terra, per indagare anche dal Cielo questa verità. Su, portatevi sino alle stelle, ma prima di penetrare più addentro, sentite le parole di Paolo, giunto al terzo Cielo, giacché egli audivit arcana verba. Ego igitur, cosi dice, sic curro, non quasi in incertum, sic pugno, non quasi aerem verberans, pur soggiunge, castigo corpus meum, in servitutem redigo, ne cum aliis prædicaverim, ipse reprobus efficiar. È vero, dice Paolo, che Dio per sua infinita misericordia, e non per i miei meriti, mi ha eletto alla gloria in intenctione, ma non per questo m’ha dispensato in executione, di guadagnarmela con le mie opere, che però quando io non cooperi alla sua grazia, reprobus, reprobus efficiar. Intendila, o Cristiano, quantunque tu tenessi per certo d’essere predestinato, ad ogni modo non otterrai il Paradiso, se non te lo guadagni con le buone opere. Ditemi, Paolo giunto al terzo Cielo, ove pure poté avere qualche notizia di sé, ad ogni modo opera per ottenere il Cielo, e voi, o peccatori, che sempre state con la mente, col cuore, e con l’opere in terra, avrete ardir di dire: se son predestinato mi salverò, se son prescito, mi dannerò? Egli fu dottore delle genti ed affermò la salute esser congiunta con le nostre opere, e voi ammaestrati solo nella scuola dell’iniquità, avete ardir di dire, se son predestinato mi salverò etc… Via su, passate avanti a penetrare fin all’Empireo. Vedete voi là quel coro d’Angeli apparecchiati, con le ali sempre allestite al volo? Ditegli un poco perché discendono sì frequenti, ora ad illustrarvi la mente perché offuscata non acconsenta al peccato, ora v’inteneriscono il cuore perché produca affetti più devoti verso di Dio, perché vanno frapponendo intoppi ai santi vostri disegni, che se riuscissero, vi sarebbero di danno. Or io dico: perché o Angeli Santi vi prendete tanto incomodo, e lasciando quelle vostre sedie dorate, vi prendere santa sollecitudine di noi, e non sapere voi dove sia il gran catalogo, in cui a caratteri d’oro, stanno registrati i nomi delli eletti, e non vi dà l’animo d’aprirlo, e vedere se in esso siano scritti i nomi di quelli che con tanta efficacia voi custodite, perocché quando mai non vi fossero, farebbero male impiegate le vostre industrie. Eh che quelli Spiriti Beati quantunque vicini al Trono di Dio conoscono benissimo, che per esser ammesso alla loro compagnia vi vuole la nostra cooperazione; eppure sento, che dalla bocca di qualche scellerato esce quella indegna proposizione: se son predestinato mi salverò, etc. etc. Convien dunque dire, che chi così parla sia stato più degl’Angeli vicino al gabinetto più segreto della Divinità. Ah, sciocchi voltate gli occhi alla vostra vita scandalosa e poi fissateli nell’inferno, e sappiate che se in quel catalogo de’ dannati v’è il vostro nome, la vostra dannazione è provenuta dalle vostre opere. Ma io torno a dirvi, miei UU., che costoro così parlano, perché vogliono seguitare in quelle usure, in quei giuochi, in quegli odii, in quelle maledette amicizie, e per questo dicono: se sono predestinato mi salverò, se … etc…. Tacete, tacete, e se volete avere più chiare e certe notizie di questa verità accostatevi, né vi spaventate da quell’abisso di luce, accostatevi per interrogare lo stesso Dio sopra d’un affare canto rilevante. Ma ahimè, che restano abbagliate le nostre pupille e non siamo degni di parlare con l’eterno Monarca, onde Egli scoprendo le nostre brame ci rimette ad uno de’ suoi segretari. Voi ben sapete, UU. che i segretari, sono quelli che sanno i segreti de’ principi; quali sono i segretari di Dio? I Santi Profeti: ecco dunque, che uno di questi, Ezechiele, dice, Convertimini, et agite pænitentiam. Convertitevi a penitenza, operate bene; ma santo Profeta, noi vi riconosciamo per segretario veridico dell’Altissimo, ad ogni modo noi non sappiamo intendere il vostro parlare, quando ci dite … convertimini; sentite, o voi parlate agli eletti, o ai reprobi; se agli eletti, che importa loro convertirsi, mentre o presto o tardi andranno in Cielo; se ai reprobi, che importa loro convertirsi, mentre infallibilmente andranno all’inferno; No, non dico così io, replica Ezechiele, son segretario di Dio e so molto bene che dalle vostre opere dipenderà la vostra salute. Che dite, che rispondete, che risolvete? In somma il nostro salvarci è congiunto con le nostre operazioni, e pure tanto vi è chi sta ostinato e dice con le opere peccando, se non con le parole bestemmiando: se sono predestinato mi salverò, se prescito mi dannerò. Or via, per indagare questa verità mi contento che lasciate in disparte e David, quantunque fosse secondo il cuor di Dio, e Paolo Apostolo, benché giunto al terzo Cielo, ove sentì quæe non licet homini loqui, e gl’Angeli vostri custodi, che pur sono Principi del Soglio eterno, e quei Santi Profeti, che ebbero il segreto del gabinetto più recondito della Divinità. Consolateci, che, se invano tentaste i colloqui con la semplice Divinità, gli potete avere col Verbo, che, se sino dalla Stalla di Betlem si soggettò alle comuni miserie, Egli vi compatirà, e si compiacerà ascoltarvi. Parlate pure animosi, parlate, domandategli, se per salvarvi, ci vogliono le vostre operazioni, e non dubitate, che Egli non sia per darvi giusta la risposta, e dirvi sincera la verità, perché Egli al pari del Padre suo Eterno, sa i profondi Decreti della vostra predestinazione. Or sentite ciò che risponde alle vostre interrogazioni, e se date, dice, una volta questi vostri tumultuanti pensieri, e per portar calma al vostro cuore, vi basti riflettere a ciò che dissi, allorché fui interrogato da quel dottor di Legge di ciò che doveva far per salvarsi. In lege quid scriptum est: hoc fac, et vives, se tu vuoi salvarti, osserva i Divini Comandamenti, lascia il peccato, fa penitenza, vivi a Dio, hoc fac et vives. Giovine, che pensiero è il vostro, volete essere nel numero de predestinati? Lasciate quell’amicizia, quella pratica maledetta, che col precipizio della vostra casa, con danno della vostra roba, vita e reputazione vi fa correre all’inferno. Nobili, volete essere fra gl’eletti: pagate quelle mercedi ritenute, quei legati non soddisfatti; hoc fac, et vives; donne, se volete salvarvi, desistete dagl’amori, dagl’ornamenti immodesti, deponete quelle vanità scandalose che son lacci d’inferno, raffrenate quelli occhi, che non guardano senza ferire il cuore di colpa mortale, hoc fac et vives; non più crapule, non più mormorazioni, non più bestemmie UU. ecco il modo di salvarvi: si lascino le usure, o mercanti, si depongano gl’odi o vendicativi, ed ecco il modo vero d’assicurare la vostra predestinazione e tra tanta incertezza, rendervi certo il possesso del Cielo; hoc fac, et vives, così disse Cristo al dottor di Legge, serva mandata, osserva i Comandamenti, e sarai salvo. Non occorre dunque più fantasticare col vostro cervello, miei UU. e non predestinato mi salverò, se prescito mi perderò, poiché Cristo stesso vi dice che la salvezza è congiunta con le vostre opere e inoltre non sentite replicarvi dal Redentore, qui bona egerunt ibunt in vitam æternam, qui vero mala in ignem æternum, chi farà bene si salverà, chi male si dannerà etc. etc.. E pur vi son di quelli che, senza dar retta a’ detti di Cristo, replicano, se son predestinato mi salverò, se prescito mi perderò, a costoro così grossolani, voglio apportare un caso avvenuto in Atene, per veder di smentire la loro cecità. Un certo indovino, portatosi un giorno nella piazza di quella città, vantava un segreto commercio con le stelle e tutto indovinava a suo pro. Era questi, un dì cinto d’ogn’intorno da popolo curioso, e da tutti riportava con gl’applausi, quantità di denaro, quando, accostatosi uno de’ circonstanti per gabbarlo con una passera chiusa in pugno, gli chiese che indovinasse se ella era viva oppur morta, dicendo dentro di sé: se l’astrologo mi dirà che sia morta, io lascerò che ella voli, e così lo svergognerò, se viva, io con stringerla più, la farò morire, e tale la mostrerò; ma l’arte questa volta restò delusa da un’arte più fina, imperocché l’indovino, accortosi della trama, rispose con gran prontezza: la passera, tale è quale voi la volete, se viva, viva; se morta, morta. E così riportò duplicato il plauso schernendo lo schernitore stesso. Contentatevi ora che io mi valga di questa narrazione a mio proposito. Se sarà predestinata, o prescita l’anima vostra, io non sono per certo tanto stolto, che m’arroghi di poter dare un’accertata sentenza sopra d’una tanta e sì grande interrogazione, ma via per uscirne anche io con la mia, dirò che l’anima vostra è qual la volete. Con l’aiuto della grazia: fra’ vivi, se la volete viva e predestinata; tra’ morti se la volete morta e prescita. Anima vestra in manibus vestris. Intendiamola o Cristiani, vi salverete se opererete bene, vi dannerete se cattive saranno le opere vostre. Tutto bene Padre, ma noi sappiamo per fede che Dio sin ab æterno ha preveduto quello che sarà di noi, e quello appunto seguirà. Io non nego quanto mi dite, ma vi rispondo con San Vincenzo Ferrerio. Rappresentatevi, dice egli, un gran signore, il quale avendo proposto un nobil Palio a tutti coloro che se lo guadagneranno con correre velocemente ad una meta prescritta, salga di poi sulla cima d’un’alta torre per rimirarne i loro sforzi, le loro prove. Certo che da quel posto sublime egli scorge ad un tempo quei che, invece di correre al palio prendono una via del tutto opposta, quelli che, dopo avere cominciato bene, escono di strada senza più ritornarvi, e quelli altresì che ne uscirono, e poi vi ritornarono e finalmente quelli che dall’intrapresa carriera verso il suo termine mai cessarono di correre finché non vi giunsero. Or così Iddio ha proposto a chi osserva i suoi Divini Comandamenti il Paradiso per Palio, ed Egli pure vede con la sublimità della sua sapienza, a cui sono presenti, ad un modo, sì il passato, come il futuro; vede dico, che alcuni senza cominciare a correre per le vie segnate dalla sua legge, prendono una strada del tutto opposta, cominciando a peccare sin dalla fanciullezza, e non terminando fino alla morte; vede altri che cominciano bene e finiscono male; vede chi, uscito di strada vi ritorna per la penitenza; vede chi direttamente cammina sempre verso il suo fine, con una continuata innocenza; ma che siccome la vista di quel Re non è cagione che erri chi erra e che non giunga al palio chi non vi giunge. Così il prevedere Iddio, fin ab æterno, che i reprobi non giungeranno alla Gloria, non è cagione che essi non vi pervengano. Fate che i concorrenti giungano al palio, ed il Re li vede giunti. Fate che gli uomini muoiano in stato d’amicizia e di grazia, e Dio fin ab æterno li avrà veduti giunti alla corona. Concludiamo, dunque, che questo dire che cammina per le bocche scellerate: già è decretato quel che ha da essere di me, altro non ha per conseguenza, che voler vivere pessimamente; del resto ben conoscete ancor voi, che quæ seminaverit homo, hac metet. Tutto bene Padre, ma in tanto se son predestinato mi salverò, se prescito mi dannerò. O che voci d’inferno, e che potrò dir io di più, per levar questa pazzia di capo a più d’uno, e far che si creda questa irrefragabile verità: che l’opere sono quelle che salvano, e così, se colui vuol salvarsi, convien che lasci l’amicizia, lasci l’odio lasci l’interesse, le mormorazioni, le bestemmie, e colei d’esser sì scandalosa e voler la venerazione d’ogni cuore, altrimenti non vi salverete. Ho finito, non so più che dirmi, andate in pace: senza opere buone non vi salverete. Sebbene piano, odimi o peccatore, se tu non hai voluto credere che per essere predestinato vi vogliano le opere buone. Né a David secondo il cuor di Dio; né a San Paolo che giunse al terzo Cielo; né ai santi Profeti segretari della Divinità; né alle parole di Dio medesimo, ho trovato un soggetto a cui tu crederai, perché egli è tuo grande amico, e ben spesso si dà più fede all’asserzione d’un amico che all’autorità d’un grande. Questo è certo tuo grande amico perché fai quanto egli vuole, chi è? Il diavolo. Interroga dunque il demonio, se ci vogliano le opere per salvarti, e sentirai risponderti a forza di fatti, che sì! Sentite di grazia UU. È certo, che il demonio sa meglio di noi l’immutabilità de’ Divini Decreti; perché in Lui naturalia remanserunt, e senza dubbio sa meglio di noi che si salverà il predestinato e si dannerà il prescito, e pure quello che egli meno pensa è questo, ma solo attende a tentare indifferentemente tutti. Discorriamola un poco col demonio: tu sai, dico io, o spirito infernale, che Dio ha già determinato quello che ha d’essere; perché dunque tentare gl’uomini? Se quello è predestinato, certo si salverà benché tu lo tenti; se quello è reprobo si dannerà, senza che tu t’affatichi a tentarlo. Sì, tutto è vero, dice il demonio ma non per questo desisto dal tentare, perché so che l’uomo è libero, ed ha l’arbitrio assoluto, ed ognuno per santo che sia può divenir tristo e dannarsi; sì come ognuno per scellerato che sia, può farli santo e salvarsi; e so di più, che Dio: reddet unicuique juxta opera sua; tento perciò tutti, o buoni o cattivi, o predestinati o presciti che siano, e nulla lascio di fare perché si dannino. Ah peccatore! Il demonio benché sappia più di te, non lascia di tentarti, o prescito o predestinato che tu sia, e non guarda a’ decreti divini, ma alla libertà del tuo arbitrio, alla Giustizia Divina che ha da premiare il buono e castigare il reo, e tu vuoi andare perdendo il cervello con cercare se sei predestinato o prescito, averti che, se non operi bene ti troverai dannato.


LIMOSINA.
Uno de’ segni di predestinazione è l’essere elemosiniere. Cristo nel Giudizio Universale dà nome di benedetti ai predestinati … Venite Benedicti, e di maledetti a’ reprobi, … discedite maledicti, non per altro se non perché quelli furono, e questi non furono elemosinieri, a quelli dirà: esurivi, et dedistis, a questi: esurivi  et non dedistis mihi manducare.

SECONDA PARTE.

O per me, esco fuori di me, ogni qual volta considero che l’uomo nelle sue azioni mondane non si governa con pensar ciò che Dio ha decretato. Ditemi: chi pretende in questo mondo onori, dignità, cariche, ed offizi, chi cerca accumular ricchezze, ed ammassar tesori, non ha la mira a quello che Dio ha decretato ab æterno; non dice: se Dio ha determinato che io sia ricco, lo farò senza affaticarmi; no! Ma s’ingegna ed applica con diligenza a tutti i mezzi possibili per giungere a quello, che pretende. Deh sentitemi signor tale, lasciate pur li scrigni aperti, ove sono i vostri denari, e voi o signora non chiudete lo stipo delle vostre gioie, perché, se Dio, ab æterno, ha stabilito che non vi sia rubato non vi sarà tolto. Che direste a questo mio parlare? Padre, mi rispondereste non mi do pensiero di questi decreti divini che non fanno per me, quel che so di certo è che, se non guardo bene i miei denari, se non custodisco bene le mie gioie, si perderanno, mi saranno rubate. Quanto voi UU. direste con ragione a me in materia di gioie e di denari, tanto io dico a voi in materia d’anima. Se voi non custodirete l’anima, fortificandola di buone opere, non vi salverete; se voi la lascerete in abbandono vi sarà rubata dal diavolo. Dio immortale! Almeno si praticasse ne’ mali dell’anima la metà di quello; fino ed il medico avesse la bella sorte pratica ne’ mali del corpo; s’ammali l’uno tanto più pericoloso dell’altro, quanto l’anima è superiore al corpo. Piacesse a Dio, che a me fosse concessa una simile fortuna, e che col mio rappresentare a chi m’ode la necessità delle buone opere per salvarsi, l’inducesse a lasciare quei tanti vizi che gl’opprimono l’anima e ad abbracciar le virtù, che la conducano al Cielo. Miei UU. sumus adhuc in via, non è ancora terminata la carriera del nostro vivere, voglio dire che possiamo ottenere il premio del Paradiso; siamo ancora in battaglia, possiamo assicurar la vittoria, e già che contro di noi non è ancor pubblicata la sentenza, vi resta luogo alla grazia, satagite, dunque vi dirò con l’Apostolo Pietro: operate bene … ut per bona opera certam vestram vocationem et electionem faciatis; eseguite dunque i consigli di San Pietro: vivete bene e vi salverete.

QUARESIMALE (XXXII)