25 Aprile: SAN MARCO EVANGELISTA

SAN MARCO EVANGELISTA

(Otto Hophan: Gli Apostoli, trad. G. Scattolon; Marietti ed. 1951. N. h.: M. Fantuzzi, C. E. D. – Impr.: A. Mantiero Vesc. di Treviso, 15 oct. 1949)

Marco in questo libro non sta accanto a Paolo per caso o per una allegra ironia come nel celebre quadro del Dürer; questo posto gli spetta realmente. Egli non appartiene più agli Apostoli, dei quali la serie augusta si conchiude con Paolo, l’« ultimo », il « minimo », come egli stesso si ritiene nella sua umiltà. Marco però è Evangelista, il secondo dei quattro Evangelisti, che insieme col terzo, Luca, come lui non Apostolo, è preso nel mezzo fra gli evangelisti-apostoli Matteo e Giovanni quasi a protezione e sostegno; lo troviamo già in cataloghi antichi del quarto e quinto secolo dopo Paolo, ma prima dei settanta discepoli, perché non era quanto un Apostolo, ma era di più d’un semplice discepolo. Marco nei Libri Sacri del Nuovo Testamento è ricordato dieci volte, ora solamente col suo nome ebraico Giovanni, ora soltanto col nome romano Marco, ora col doppio nome Giovanni-Marco; e, come per il suo grande maestro Saulo-Paolo, anche per lui un po’ alla volta il nome ebraico scomparve nell’ombra, prevalse il nome di Marco, finché a Roma questo divenne il suo nome esclusivo. È vero che i critici ritennero di dover distinguere due o anche tre Marco: Giovanni Marco, che s’accompagnò a Paolo; Marco, che accompagnò Pietro e scrisse il secondo Vangelo; e in realtà alcuni dati si possono conciliare solamente con un po’ di fatica; ma gli Scritti Sacri non offrono nessun motivo per questa distinzione; un pacato esame dei diversi testi mostra ch’è possibile ordinare nel corso della vita d’un unico e medesimo Marco le indicazioni apparentemente contrastanti; ne riparleremo ancora, ma frattanto possiamo aggiungere che oggi il doppio Marco è comunemente abbandonato. – Marco era per origine ebreo, ma nacque probabilmente fuori della Palestina; in una compilazione liturgica della chiesa coptica, il Synaxarion arabico, leggiamo che la terra della sua infanzia fu la « Pentapoli », la regione delle cinque città dell’antichità: Cirene, Apollonia, Barka, Tauchira ed Euesperida. Lo stesso Synaxarion quale padre suo indica un certo Aristobolo; la Sacra Scrittura ricorda soltanto la madre e in modo da far concludere che il padre morì per tempo, non prima però del Giovedì Santo. Egli dovette rimaner senza il padre esattamente in quegli anni, in cui aveva il massimo bisogno di lui; ché nemmeno la migliore delle madri può compensare del tutto il padre; ne manca per natura la mano ferma, cosciente delle mete e anche dura, se necessario; e si direbbe che questa deficienza abbia avuto il suo riflesso nell’educazione di Marco meno virile, meno coerente e sicura. Siamo indotti a rilevarlo dal fatto del suo ritorno alla madre, mentre gli si delineavano dinanzi gli strapazzi del primo viaggio apostolico; delle informazioni antiche poi, anche se non del tutto indubbie, ci riferiscono pure un altro fatterello della sua giovinezza, che non sarebbe avvenuto, se il padre gli fosse stato a fianco: si troncò lui stesso il pollice per rendersi inabile al servizio nel Tempio secondo la legislazione del Vecchio Testamento, giacché era obbligato al servizio sacerdotale, come discendente della tribù di Levi; quest’ultima notizia ci viene riferita dall’antico prologo al Vangelo di Marco, che risale al quarto secolo. Povero pollice! Ma forse questa leggenda attribuisce all’evangelista Marco un’automutilazione, che, nell’eccesso del suo fervore ascetico, aveva fatta un Marco monaco; quantunque il prete romano Ippolito (+ 235) ha per il nostro Evangelista l’appellativo « kolobodaktylos — dal dito monco »; è vero però che l’espressione potrebbe alludere ad una mano piccola, esile, e il senso potrebbe essere: mani piccole non possono serrarsi in pugni pesanti, atti a dominare le difficoltà. La madre di Marco, Maria, era una donna religiosa, colta e ricca; anche fosse vero, secondo l’informazione d’uno scritto arabico, che aveva perduto il suo vistoso patrimonio, nondimeno al tempo della sua vedovanza era ancora così benestante che possedeva una grande casa in Gerusalemme, messa dal suo pio sentimento a disposizione della giovane comunità cristiana, perché vi tenesse le sue adunanze. Secondo lo storico della Chiesa Niceforo, Maria sarebbe stata una « sorella » di Pietro, o « una figlia della zia della moglie di Pietro », come con complicata espressione precisa, in fatto di parentela, lo scritto arabico or ora ricordato; e a dir vero, un rapporto di parentela, per quanto largo, di Pietro spiegherebbe bene le sue relazioni con la casa di Maria e anche la sua evidente benevolenza per Marco. Questa donna, riferisce il Synaxarion arabico, era di molto talento ed istruì lei stessa il figlio, cui insegnò la lingua greca, la francese (latina?) ed ebraica. E fece molto bene, perché il suo Marco, secondo i disegni della Provvidenza sarebbe divenuto un giorno l’interprete di Pietro. Quante volte il Signore dona alle mamme un presentimento dei suoi piani sublimi! Riprendiamo con gusto all’idillio e all’ideale della cara vita familiare di questa gentile signora col suo figlio Marco; ella raccoglieva tutto il suo vedovo amore sul suo Marco, suo figlio, suo sole, e suo tutto; e Marco stendeva le sue mani delicate e il suo giovane cuore all’amore di sua madre, che l’andava plasmando. La Sacra Scrittura ricorda anche un altro vincolo di parentela del nostro Marco: egli era « il cugino — anepsiòs, consobrinus — di Barnaba »; questa espressione di solito è tradotta con « cugino », ma potrebbe tradursi anche con « nipote », e quindi Barnaba, che gli Atti degli Apostoli esaltano quale « uomo esimio, ripieno di Spirito Santo e di fede », sarebbe stato lo zio di Marco e probabilmente da parte del padre, giacché egli pure, secondo l’esplicita testimonianza della Scrittura, apparteneva alla tribù di Levi. Quanto egli si sia mostrato benevolo e fedele a suo nipote, lo veniamo a conoscere dalle relazioni degli Atti: piuttosto che mettere dalla parte del torto Marco, rinunciò all’amicizia dell’Apostolo gigante, Paolo. Se ora mettiamo insieme tutti questi brevi, vari e singolari elementi, ne risulta una figura di giovane lieta e solatia: Marco era ricco, colto, bello, circondato da cure e custodito, il beniamino di tutti. Gli « Atti di Marco », uno scritto della metà del quarto secolo, lo esaltano come un uomo « di buona indole e soffuso di divina bellezza »; descrivono poi il suo simpatico esteriore dicendo: « Era di portamento nobile e svelto; aveva belli gli occhi e un volto dal color d’oro, come un campo di grano, il naso non ricurvo ma diritto e sopracciglia aderenti ». Chi dalla vita è trattato ruvidamente, è tentato d’amaramente invidiare individui in tal modo illuminati dal sole, quasi vengano viziati dalla sorte; ma perché non ci dovrebbero essere anche le persone felici e belle? Esse sono una ricchezza del mondo povero e un raggio singolarmente fulgido del perfetto Iddio. Anche Marco fu un prediletto della natura e lo fu pure della grazia, che importa ancor più.

MARCO E GESÙ

Ma quanta parte dipende dalla famiglia, nella quale un uomo cresce! La casa può essere la sua eterna benedizione, come può pure divenire motivo della spaventosa rovina. Marco, favorito da Dio e dall’azione della Provvidenza, fu adagiato entro alla culla del Cristianesimo; egli crebbe insieme col recente Cristianesimo e nello stesso luogo; Marco e la giovane società di Cristo son come fratelli gemelli. Secondo un’antica tradizione degna di fede, la sala fortunata, nella quale si compirono i più augusti Misteri, quali la celebrazione della Cena il Giovedì Santo, le apparizioni del Risorto nei giorni pasquali, il soffio dello Spirito Santo nella bufera di Pentecoste, era la sala della casa materna di Marco; nelle supreme ore cristiane egli stava là, non certo come uno di coloro che circondavano Gesù direttamente, ma almeno come uno che è ammesso; poiché chi avrebbe potuto allontanare un buon giovane, specialmente se si trattava del figlio della padrona di casa, tanto ospitale? Silenzioso dunque, stupito, tutt’occhi e tutt’orecchi, egli visse con gli altri i sublimissimi eventi e, anche se non comprese il loro significato — non lo compresero del tutto nemmeno gli Apostoli —, presagì però che quivi, nella casa della madre sua, s’avveravano cose divine e nella sua sensibile anima di ragazzo s’impressero incancellabilmente le scene più stupende del Vangelo. – Quando i due Apostoli Pietro e Giovanni, nel pomeriggio del Giovedì Santo, gli tennero dietro ostinatamente per tutte le vie sino a casa, mentre s’allontanava dalla fonte, dove s’era portato per attingere acqua, egli si guardò attorno attonito; fin d’allora egli fu presente a Gesù, poiché con ragione si suppone che fosse Marco quel giovane, con la brocca d’acqua, che il Signore diede ai due Apostoli come segno: « Seguitelo! E dov’egli entra, ivi dite al padrone di casa: “Il Maestro ci fa chiedere: Dov’è la stanza, nella quale Io possa mangiare la Pasqua con i miei Discepoli?”. Egli vi farà vedere una grande stanza superiore, arredata di divani per la mensa. È già pronta; ivi preparate per noi ». Con la gioia ed il fervore d’un ragazzetto, cui è dato di prestare dei servizi insoliti, Marco aiutò Pietro e Giovanni nel preparare la cena pasquale; li aiuterà anche più tardi, nel preparare il vero Agnello pasquale per gli uomini. E giunse la sera; arrivavano gli altri dieci Apostoli, seri, silenziosi, oppressi, così gli sembrava, e s’avvicinavano alla casa; venne poi il Signore, pallido ma dignitoso. Mentre veniva accolto, Egli posò la mano sul capo di Marco, quella mano, che al domani sarebbe stata trafitta; poi Maria, la mamma, allontanò dal gruppo di quelle persone il figlio; ma chi vorrebbe rimproverarlo, se ben presto fu di nuovo dinanzi alla porta chiusa della sala? Sentì le parole sublimi, da lontano soltanto, certamente, non vicino come Giovanni, che più tardi le mise in iscritto; indietreggiò spaventato, quando Giuda aprì violentemente la porta e gli passò dinanzi precipitoso; messosi a letto, non s’addormentò e udì i passi che si dileguavano; che convenga seguire…? – Tre giorni dopo, di soppiatto, gli stessi individui vennero nella medesima sala; veramente non erano proprio gli stessi, perché erano venuti spiando come malfattori e sconvolti come fossero dei disperati; nessuno aveva avuto per lui uno sguardo o una parola di saluto. Quando da lassù, nella sala, giunse all’orecchio del nostro giovane lo strepito come d’un’esplosione di terrore e subito poi di festa, egli corse su, presso la porta chiusa, compresse il suo scarno corpo contro la parete, spiò attraverso una sottile fessura e fu colpito da tanta luce, che i suoi occhi ne soffrirono. Marco termina la prima stesura del suo Vangelo con la relazione della apparizione del Risorto alle pie donne: « Paura e timore s’erano impadroniti delle donne. Per il grande timore, non ne fecero parola a nessuno »; forse in queste singolari espressioni freme pure la prima esperienza pasquale di Marco stesso. La casa dei suoi genitori doveva essere per la terza volta il teatro d’una sublimissima grazia nel giorno di Pentecoste. Giovane com’era, sulle prime dovette sentirsi poco sicuro, quando « improvvisamente si levò un rumore dal cielo, come se giungesse una violenta bufera, il quale riempì tutta la casa, dov’essi erano raccolti ». Poi calarono le lingue fiammeggianti e una di esse accese del fuoco dello Spirito Santo anche Marco e gli infuse quella chiarezza e vigoria, che vampeggia ancor oggi nel suo Vangelo. Oh, come è vero che nella vita d’un uomo molto dipende dalla casa, dov’egli è a casa! – È vero che la stessa Sacra Scrittura attesta solo che la casa di Maria, la madre di Marco, servì, come una prima Chiesa, per le assemblee della prima comunità cristiana in Gerusalemme al tempo della persecuzione di Erode Agrippa (41-44); per questo ricevette il titolo onorifico di « madre di tutte le chiese », di  ‘Santa Sion » e di « chiesa degli Apostoli », e in un’epoca posteriore fu edificata nel suo posto una vasta Chiesa, nella quale venne inclusa anche la casa dell’Apostolo Giovanni, detta « Dormitio Mariæ Virginis — il rimpatrio della Vergine Maria » —, situata lì vicino. Questa indicazione però della Scrittura illumina quanto afferma la tradizione. Se Maria, la nobile e religiosa signora, mise a disposizione della comunità cristiana la sua casa, è probabile che l’avesse aperta già al Signore, i primi Cristiani anzi proprio per questo si sarebbero ritrovati insieme tanto volentieri in quella casa, perché essa era stata consacrata cioè dallo stesso Signore e dallo Spirito Santo. – Anche queste riunioni dei primi Cristiani nella casa di sua madre furono per Marco, giovane allora in fiorente sviluppo, una ricca sorgente di grazia e decisive per la sua vita. Quivi gli Apostoli andavano e venivano e trattavano delle loro sollecitudini, dei loro piani e successi; quivi si rifugiarono i primi Cristiani di Gerusalemme nei giorni penosi delle persecuzioni da parte del Sinedrio, di Paolo e di Erode. Inobliabile restò per Marco soprattutto quella notte di pasqua, durante la quale l’intera giovane Chiesa pregava per la salvezza di Pietro dalle mani di Erode, assetate di sangue: fu picchiato alla porta del cortile; « la fanciulla Rode accorse e stette ad ascoltare; riconobbe la voce di Pietro, ma per la gioia dimenticò di aprire la porta; rientrò correndo e annunziò che Pietro stava alla porta. Quelli le replicarono: “Sei ben fuori di te!”; ma lei insisteva a dire ch’era così; allora pensarono: “È il suo Angelo”; ma Pietro continuava a picchiare. Allora aprirono, videro e sbigottirono. Egli fece loro cenno con la mano di fare silenzio e raccontò loro come il Signore l’avesse liberato dal carcere » (Act. XII, 1-17). Per lo più bussare a una porta significa pure bussare a un cuore; Marco, con cuore grande e festante, aveva aperto la porta al Signore e a Pietro, e li vide entrare venire verso di sé come verso a una primavera; aprì loro anche il suo cuore? – Non ignoriamo che una nota dell’antico Papia sembra affermare che Marco non conobbe affatto di persona Gesù: « Non vide il Signore nella carne e nemmeno Lo udì »; ma questa e simili testimonianze antiche, che trattano di Marco come Evangelista, vogliono solamente dire ch’egli non fu, come gli Evangelisti Matteo e Giovanni, testimonio immediato oculare e auricolare degli avvenimenti evangelici; il così detto Frammento Muratoriano lascia persino intravvedere che egli di quando in quando fu presente alle scene del Vangelo. Epifanio e alcuni altri antichi scrittori ecclesiastici scorgono in Marco uno dei settantadue discepoli, uno anzi di quelli, che defezionarono dal Signore nella sinagoga di Cafarnao, dopo il discorso eucaristico, e più tardi nuovamente riconquistato da Pietro; ma tali asserzioni sono confutate dall’età stessa molto giovanile di Marco. Egli dunque vide il Signore, ma ancora con gli occhi grandi del bambino e col cuore tenero e sensibile del ragazzo. Nel suo Vangelo egli ha notato un particolare, ch’è in se stesso senza importanza, ma che s’incontra solamente in lui: « Dopo di che (dopo cioè la cattura sul Monte degli Olivi), tutti Lo abbandonarono e fuggirono. Un giovanetto però, che indossava sul nudo corpo un lenzuolo soltanto, Lo seguì; quando lo si volle acciuffare, lasciò andare il lenzuolo e se ne fuggì nudo »! Si ammette abbastanza comunemente che in questo episodio del Vangelo Marco, come un artista nel suo quadro, abbia delineato se stesso; e quante cose ci svela questo piccolo autoritratto! Nella grande notte dell’ultima Cena, egli non aveva potuto dormire, come sua madre invece aveva desiderato e sollecitato, perché aveva percepita la tensione, che gravava su quella notte; aveva intercettate parecchie espressioni del discorso d’addio e a un certo momento gli sembrò di sentire un risonar di spade; se la svignò da casa, ma di soppiatto per non scontrarsi col volere della mamma e in tenuta certamente strana, ma era notte e aveva il sangue caldo. Protetto dall’oscurità, trovò sul Monte degli Olivi un nascondiglio, donde ascoltò confuso il gemito del Maestro, il russare dei Discepoli e lo strepito degli sbirri, che accerchiarono Gesù con spade e bastoni. – E qui, in questo primo e unico fatterello, nel quale Marco stesso compare nel Vangelo, è già manifesta la sua affezione per Gesù. Gli Apostoli fuggirono; gli stessi Pietro e Giovanni seguirono soltanto da lontano!; ma il caro Marco si tenne vicino, da presso a Gesù. In quel momento gli occhi divini del Signore, ancor pregni di mestizia per il tradimento di Giuda, si rischiararono un po’ e si riposarono con compiacenza su quel nobile giovanetto. Quando i soldati stesero i loro pesanti pugni per colpire quest’ultimo e giovanissimo amico di Gesù, egli lasciò nelle loro mani il ridicolo lenzuolo e rimase nudo. E questa nudità, come un simbolo, indica già l’avvenire: Marco, il nostro giovanetto custodito, curato, delicato, per amore di Gesù abbandonerà tutto e con la sua spogliazione dimostrerà ch’egli è un autentico discepolo del Maestro: non aprì a Gesù solo la porta di casa, Gli aprì pure la porta del suo cuore.

MARCO E PAOLO

Marco e Paolo s’incontrarono probabilmente per la prima volta quando, nell’anno 44, Barnaba e Paolo portarono a Gerusalemme la generosa colletta della comunità etnicocristiana di Antiochia per i bisogni della povera Chiesa madre. Barnaba, lo zio, dovette presentare suo nipote Marco allo sguardo indagatore di Paolo con soddisfatta compiacenza; e il nipote, quand’ebbe udito della vita cristiana dei convertiti dal paganesimo, se ne scese ad Antiochia, quasi come un dono prezioso, che Gerusalemme offriva in compenso della colletta ricevuta. Da anni, infatti, ormai Marco s’era scelto Gesù quale scopo supremo della sua vita; adesso era divenuto un giovanotto robusto e brillante di circa venti primavere, che, come un albero di maggio, voleva portare frutto; le lontane regioni lo allettavano, gli suscitavano in cuore entusiasmo e gioia, cui forse s’aggiungeva pure un po’ di spirito d’avventura; e delle avventure ardite, liete e penose, non mancano nemmeno nel seguire Cristo. Era capitato bene; proprio in quel tempo Barnaba e Paolo intendevano cimentarsi nel rischio del primo viaggio apostolico; gli Atti degli Apostoli a questo punto inseriscono la notizia: « Avevano con loro quale assistente Giovanni (Marco) », non per i loro servizi personali, ma, in senso biblico, quale ministro della Parola, per l’amministrazione del Battesimo e per gli altri aiuti connessi con l’opera missionaria; dalla prima lettera ai Corinti sappiamo però che Paolo riteneva la predicazione come compito suo proprio; Marco, felice come un giovane sacerdote, regalava a piene mani la sua prima benedizione. Ma il viaggio andava oltre a quello che egli aveva immaginato; Cipro fu ben presto attraversata ed evangelizzata, e Paolo si spingeva più innanzi; anzi la sua intenzione di spingersi, attraverso il Tauro, nell’altipiano di Pisidia e Licaonia nell’Asia Minore non si palesò che lassù a Perge. Il viaggio importava una marcia al minimo di dieci giorni di cammino faticoso e altrettanto pericoloso, giacché nell’antichità la stessa scortese pianura di Panfilia era infamata e temuta a motivo dei suoi abitanti bellicosi e rapinatori; persino i Romani riuscirono ad avvicinarsi alle popolazioni semibarbare del Tauro soltanto dopo lunga fatica. Gli Atti degli Apostoli a questo punto ci fanno sapere di Marco: « Si separò da Paolo e Barnaba e tornò a Gerusalemme ». Ce ne domandiamo il perché. Qualcuno ha affermato che Marco era disgustato, perché Paolo sempre più chiaramente aveva assunta la direzione della missione; e di fatto d’or innanzi negli Atti si dirà sempre: « Paolo e Barnaba» e non più: « Barnaba e Paolo »; altri ha voluto scorgere in quel ritorno una protesta di Marco contro la missione di Paolo fra i gentili, libera dalla Legge; il Sacro Testo stesso però allude a un altro motivo: quello che spaventò il buon Marco fu semplicemente l’inaudita fatica del viaggio apostolico; i disagi già sostenuti in Siria, a Cipro e sino a Perge gli avevano fatto provare che l’andare in missione era molto di più che un’allegra e devota avventura; finora aveva resistito, ma non si sentiva in grado di prendere parte anche alla seconda tappa del viaggio. Il Synaxarion arabico più sopra ricordato conferma questa interpretazione, scrivendo: « Quando Marco, andando in giro per accompagnare Paolo e Barnaba, constatò quanti colpi e disprezzi essi dovevano tollerare, li abbandonò in Panfilia e tornò a Gerusalemme»; e un’omilia del nono secolo ce lo dipinge con squisita ingenuità: « Marco disse fra sé: questi uomini non hanno requie; preferisco tornarmene a mia madre; presso di lei troverò da mangiare. La mamma sua però ne sentì gran dolore ». Le mamme…! Ci è lecito disapprovare il ritorno di Marco come una fuga vile? Solo a pochi è concesso di affermarsi come eroi già al primo assalto; anche l’eroe deve formarsi attraverso l’aspra lotta e la molteplice rinuncia; il nostro amabile giovane invece fu strappato in età troppo immatura e troppo alle svelte al suo genere di vita nobile, abituato bene e forse un po’ viziato; e venne meno. Ma se un giovane vien meno una volta, verrà poi meno sempre? In questo sta la colpa di Paolo nei riguardi di Marco, perché, a causa di quell’unica ora di debolezza, gli negò la propria fiducia e lo disanimò, contro il monito ch’egli stesso rivolge ai padri. Quando infatti Marco, nell’anno 49, tre o quattro anni forse dopo il doloroso episodio di Perge, valendosi della mediazione di Barnaba, si fece annunziare per il secondo viaggio apostolico, Paolo gli rispose con un brusco rifiuto: « Paolo non ritenne opportuno di assumere colui, che dalla Panfilia li aveva lasciati in asso e non era andato con loro all’opera »; egli temeva evidentemente che l’incerto giovane se ne andasse da loro una seconda volta per tornarsene a casa o che comunque, nelle difficoltà imprevedibili e forse straordinarie del nuovo viaggio, tornasse più di ostacolo che di aiuto. Eppure, la richiesta di Marco avrebbe dovuto colpire Paolo; era così evidente che il povero giovane cercava, mediante un’attiva prestazione, di riparare il mal fatto e di redimersi dai suoi piccini sentimenti. Il ricordato Synaxarion riferisce: « Quando Paolo e Barnaba tornarono a Gerusalemme e raccontarono della conversione dei pagani e quali miracoli Iddio avesse operato per mezzo di loro, Marco si pentì di quanto aveva fatto per irriflessione »; l’informazione anzi leggendaria dello Pseudo-Marco dice persino che da principio il nostro giovane non aveva affatto osato presentarsi a Paolo; poi per tre sabati consecutivi lo pregò ginocchioni del suo perdono; invano! Dinanzi a questo duro comportamento di Paolo non possiamo sottrarci all’impressione che influissero su di lui non solo dei reali motivi, ma anche dei motivi personali. L’offrirsi di Marco per il secondo viaggio apostolico cadde subito dopo il conflitto di Antiochia; un momento fatale! Paolo, infatti, non aveva ancora potuto inghiottire che in quella circostanza non fosse stato con lui nemmeno il suo amico Barnaba: «Persino Barnaba si lasciò trascinare da quella simulazione »; e Marco fu vittima di quell’irritazione, egli, come si dice, fece traboccare il vaso. – Paolo e Barnaba, i due vecchi e fedeli amici, non si staccarono sicuramente solo a motivo di Marco; una profonda amicizia quale la loro non si spezza per un episodio così insignificante. « Si venne (fra Paolo e Barnaba) a un’aspra tensione — non solamente a “una divergenza di opinioni”, come spesso, ripiegando, si traduce, perché il greco “paroxysmés” significa veramente di più che opinione diversa soltanto —, e la conseguenza fu che si separarono l’uno dall’altro; Barnaba fece viaggio con Marco per Cipro, Paolo invece si elesse Sila e s’incamminò con lui per il suo viaggio». Ci rallegriamo con Marco, perché almeno uno credette ancora in lui, il buon Barnaba; che sarebbe stato di lui, se tutti l’avessero condannato come un vile? Quali decisioni per una giovane vita, se nell’ora opportuna una persona retta offre la sua mano perché prosegua e perché ascenda! La separazione nondimeno lascia dopo di sé un senso di scontentezza, persino il letichino Girolamo lamenta che questa lite fra Paolo e Barnaba fa vedere due grandi nella loro umana meschinità. – Allontanandoci però un poco dalla scena incresciosa, lo sconcerto diminuisce; gli uomini retti traggono vantaggio anche dalle vicende ingiuste; alla fine anche quella lite per causa di Marco tornò a maggior vantaggio di tutti. Questi, che non aveva ancora smesso di sognare, per quell’allarme di Paolo fu salutarmente scosso dai castelli in aria della sua bella giovinezza; si vide d’un tratto posto dinanzi all’inesorabile aut-aut: o uomo o vigliacco; tenne conto della dolorosa ma salutare lezione dell’Apostolo ed « essa lo fece migliore », scrive il Crisostomo; il rimprovero: «Non è venuto con noi nell’opera » gli stava conficcato nello spirito come un pungolo; dimostrerà in seguito ch’esso non aveva più ragione d’essere. Dal canto suo Paolo mutò parere nei riguardi di Marco. Scrive di lui in tre passi del suo epistolario; nella breve lettera a Filemone lo nomina come « collaboratore » al primo posto, persino prima di Luca; ai Colossesi, ai quali l’invia con degli incarichi, raccomanda caldamente: « Per riguardo a Marco avete già ricevuto istruzioni; se viene a voi, accoglietelo amichevolmente » e poco prima della morte, quasi come ultimo desiderio, domanda instantemente a Timoteo… Marco! « Porta con te Marco! Posso ben aver bisogno dei suoi servizi ». E infine nemmeno Barnaba nutrì alcun rancore per Paolo, ce lo attesta un passo della prima lettera ai Corinti. – Non torna ad onore degli Apostoli né giova alla nostra utilità passare timidamente sotto silenzio il loro lato troppo umano. Che essi siano stati dei lottatori, costituisce la loro grandezza e la nostra consolazione; ma la provvidenza di Dio è così sapiente e benigna, da tendere nel telaio dei suoi piani di salvezza le nostre stesse imperfezioni, e così tramutò anche quella lite umana in benedizione divina: la separazione e il raffreddamento fra Paolo e Barnaba ebbero per conseguenza che l’evangelizzazione s’inoltrò nel mondo in due direzioni anziché in una soltanto. Marco e Paolo! Oggi, ripensando a loro, non possiamo trattenerci da un sorriso, ed essi stessi dovettero sorridere, quando, circa dieci anni dopo, si diedero la mano al di lì, a Roma. Tutti e due divennero più grandi per l’aiuto che l’uno porse all’altro: Paolo a motivo di Marco divenne più mite e Marco a motivo di Paolo divenne più uomo. Il popolo fedele onora Marco quale « signore dell’atmosfera » e patrono contro i fulmini e la grandine; in un’antica benedizione del tempo era ricordato espressamente il suo nome: ci prova tutta l’amabilità di Marco il fatto ch’egli, nonostante il torto patito, ritornò nuovamente a Paolo e si fece, dimentico di sé, suo collaboratore. Ma egli è così: un cielo azzurro, che neppure il fulmine e il tuono di Paolo poterono offuscare. Oh, avessimo noi molti Marco!

MARCO E PIETRO

Marco è come un’edera verdeggiante, che dei suoi viticci ricopre festosamente le due torri principali della Chiesa, Pietro e Paolo; anche Pietro infatti stette in rapporti speciali con lui. La Sacra Scrittura veramente parla in un unico luogo di questi rapporti, ma con una parola, che dice quanto molte pagine. Pietro, terminando la sua prima lettera alle comunità dell’Asia Minore, scrive: «Vi saluta la Chiesa con voi eletta di Babilonia e Marco, mio figlio »; questa sola espressione ci richiama i vincoli d’amicizia intimi e di lunga data fra i due. Ordinariamente essa viene interpretata della paternità spirituale di Pietro, conseguita con l’amministrazione del battesimo a Marco; ma questo solo fatto, cui probabilmente è da aggiungere pure una certa parentela naturale, non basta a spiegare gli intimi rapporti fra Pietro e Marco; fra di loro vigeva anche una parentela dell’anima; Marco anzi, sotto molti aspetti, ci fa l’impressione d’un Pietro giovane, rinato, perché come lui è vivace, vispo, amabile e come lui fu una volta debole; se nel suo Vangelo poté rendere così fedelmente la predicazione di Pietro, lo si deve sicuramente anche al fatto che l’indole di Pietro rispondeva così bene alla sua, propria. – È difficile determinare il momento preciso, dal quale Pietro e Marco presero a vivere insieme. Alcuni pensano già all’anno 42: la notte, in cui Rode, la fanciulla distratta, fece finalmente entrare Pietro, Marco, il figlio della casa, si sarebbe unito all’Apostolo e l’avrebbe accompagnato nella fuga « nell’altro luogo », ripetendo, per così dire, il suo nobile accompagnamento di Gesù nella notte del Monte degli Olivi; a questo riguardo, può sorprendere che Pietro nella sua lettera alle comunità del « Ponto, Galazia, Cappadocia, Asia e Bitinia » aggiunga l’unico saluto di Marco; lo conoscevano esse di persona? Qualora egli, nella circostanza della liberazione dell’Apostolo, l’avesse seguito anche sino a Roma, questo suo primo soggiorno romano sarebbe stato sicuramente breve, poiché i dati biblici esigono ch’egli si trovasse pronto in Antiochia al più tardi nell’anno 45, per il famoso e funesto viaggio con Paolo sino a Cipro e a Perge. Marco potrebbe essersi accompagnato a Pietro anche dopo finito il suo viaggio apostolico con Barnaba a Cipro e quindi verso il 51-52; una sua attività in Egitto, di cui scriveremo ancora, non vi si opporrebbe. Egli fu certamente a Roma con Pietro, quando questi, negli anni 63-64, scrisse la sua prima lettera, e questo è pure confermato dai testi riguardanti Marco dell’epistolario paolino. Pietro, il pescatore del lago di Tiberiade schietto, ma sempre un po’ goffo, fu certamente lieto d’avere presso di sé, qual « protonotario pontificio » nel senso etimologico della parola, suo « figlio Marco », che era un segretario abile, elegante e premuroso. E questi — è il patrono anche dei notai e degli scrivani — gareggiava in servizi, felice di poter esibire al semplice Pietro la prova della sua attitudine, che Paolo invece aveva respinta. I suoi rapporti cordiali con Pietro sono richiamati da una narrazione apocrifa, la quale riferisce del suo soggiorno, certo leggendario, ad Aquileia, ma poi per la nostalgia di Pietro non avrebbe più resistito e se ne sarebbe tornato a Roma, dov’era il suo amico, padre e Pontefice. L’antichità cristiana, a cominciare da Papia (+ 130), chiamò Marco l’« interprete — hermeneutés-interpres — di Pietro », titolo, che potrebbe indurci a ritenere che egli abbia tradotto in greco o in latino i discorsi tenuti dall’Apostolo agli uditori romani in lingua aramaica; questi però possedeva certamente la lingua greca, almeno quanto era necessario per farsi intendere dai suoi ascoltatori; è probabile quindi che quel titolo « interprete di Pietro » rimandi alla redazione scritta fatta da Marco della predicazione orale di Pietro; l’antico Papia stesso riferisce che Marco mise in iscritto i detti e i fatti di Gesù, predicati da Pietro. Ci troviamo così dinanzi al monumento più bello e più importante dell’amicizia fra i due: il Vangelo di Marco.

MARCO EVANGELISTA

Marco scrisse un Vangelo, il secondo nell’ordine attuale dei Vangeli canonici. Il primo e principale testimonio ne è il vecchio Papia, la cui testimonianza però è più antica di lui, perché s’appoggia alla dichiarazione del « presbitero Giovanni », dell’Apostolo cioè di questo nome. Ecco com’essa dice: « Anche questo diceva il presbitero (Giovanni): Marco, un interprete di Pietro, ha messo in iscritto esattamente tutto quello, di cui si ricordava. Però (scrisse) quello, che dal Signore è stato detto o fatto, non secondo l’ordine. Marco cioè non ha udito il Signore né Lo ha accompagnato; ma più tardi, come già detto, ha udito Pietro, che disponeva i suoi insegnamenti secondo i bisogni e non come uno, che dia un’esposizione scritta dei discorsi del Signore. Così Marco non ha affatto peccato, se scrisse alcunché così, come si ricordava. Poiché solo d’una cosa ebbe cura, di non omettere nulla di quello che aveva udito o di non dire in questo il non vero ». A. questa antichissima testimonianza se ne aggiungono altre molto importanti, come ad esempio quella di Clemente Alessandrino (+ 231): Marco a Roma fu pregato dai cavalieri imperiali di mettere per iscritto le istruzioni, che Pietro aveva loro impartite; quando questi ne venne a conoscenza, non ne impedì il suo interprete né lo incoraggiò; Eusebio però, rifacendosi a Clemente, riferisce che Pietro poi approvò espressamente il Vangelo completo e stabilì che se ne desse lettura nelle chiese. Gli scrittori ecclesiastici più antichi, più vicini ai tempi apostolici sono unanimi nel mostrare l’intima connessione del vangelo di Marco con la predicazione di Pietro, Tertulliano anzi lo chiama senz’altro « il Vangelo di Pietro ». Passando a considerare il Vangelo stesso, possiamo affermare che gli occhi vivaci e buoni di Pietro ci rivolgono il loro sguardo quasi da ogni riga. Il contenuto e l’indole del suo insegnamento li conosciamo abbastanza bene attraverso le sue otto prediche contenute negli Atti degli Apostoli e le sue due lettere; ora il Vangelo di Marco appare esserne l’eco fedele; confrontandolo, per esempio, col discorso che l’Apostolo disse in casa di Cornelio, abbiamo l’impressione d’avere dinanzi una descrizione e uno sviluppo di quanto a grandi linee Pietro aveva abbozzato in casa del primo pagano accolto nella Chiesa. Marco narra con forza e colore la preparazione al lieto messaggio mediante la predicazione del Battista, il battesimo e le tentazioni di Gesù, la vocazione dei primi discepoli (capitolo 1, 1-20); segue lo svolgimento dell’attività in Galilea: il giorno dei miracoli a Cafarnao, i primi cinque conflitti con i Farisei, il ministero sul lago e le peregrinazioni intorno ad esso — il Vangelo del pescatore! — (capitoli 1, 21-8, 26); la conclusione del ministero galilaico: la professione di Pietro e la rivelazione del mistero della croce (capitoli 8, 27-9, 50); infine il compimento: il viaggio a Gerusalemme, la Domenica delle Palme e la Pasqua (capitoli 10, 1-16, 20). – Ma desideriamo vedere in qual modo il Vangelo di Marco si regoli con lo stesso Pietro. Modo abbastanza singolare! Si fa spesso parola di lui, più diffusamente che dagli altri Evangelisti; ma quando si tratta della sua preminenza e dei suoi privilegi, Marco si fa muto; non poté certamente evitare di concedergli il primo posto nel catalogo degli Apostoli, ma il fratello suo Andrea, non lo collocò al secondo posto, come fanno Matteo e Luca, bensì al quarto. Marco sembra pure ignorare che il suo maestro una volta camminò miracolosamente sulle onde del lago, che con un miracolo gli fu pagata la tassa e con un altro gli fu riempita la barca di pesci sino a sprofondare, che gli fu promessa una speciale preghiera del Signore. Ancor più meraviglia che nel secondo Vangelo non s’incontrino neppure quelle parole essenziali, che costituiscono il fondamento della grandezza propria di Pietro: « Tu sei Pietro, la roccia, e su questa roccia Io edificherò la mia Chiesa. A te darò le chiavi del regno dei Cieli »; e invano vi cercheremmo anche quelle altre, notate da Giovanni: « Pasci le mie pecore! Pasci i miei agnelli! ». Al contrario, quando si tratta di qualche cosa di sgradito e che fa arrossire, come ad esempio della natura irriflessiva di Pietro, della sua replica audace, del suo sonno sul Monte degli Olivi e anzitutto della sua triplice negazione, che ancor oggi fa arrossire ogni suo amico, allora Marco racconta tutto esatto e circostanziato. Il caro discepolo deve aver avuta spesso la tentazione di sopprimere qualche scena troppo penosa per il padre e amico suo Pietro, ma questi nella sua umiltà non tollerò che lo facesse. Ci richiama a questa umiltà di Pietro, che emerge dal Vangelo di Marco, già il Crisostomo: « Marco, il discepolo di Pietro, non ha messo in iscritto questo importante episodio — il saldo dell’imposta con un miracolo  —, perché con esso era congiunto un grande onore per Pietro; ha scritto invece il suo rinnegamento; quello che metteva in vista lo ha taciuto; forse il suo maestro gli aveva proibito di far sapere le cose mirabili riguardanti la sua persona ». Comunque, Pietro non decantò certamente le sue prerogative, che quindi non entrarono neppure nel vangelo di Marco; di qui una prova dal Vangelo stesso della sua genuinità. – Ma anche il suo stile e la sua lingua ci ricordano Pietro. Il vocabolario del secondo Vangelo ricorre lo stesso anche nelle lettere e nei discorsi del Principe degli Apostoli; la sola paroletta « euthys-subito », che in questo Vangelo non ricorre meno di 43 volte, tradisce Pietro, ch’era un sanguigno così pronto, che lo si potrebbe chiamare l’Apostolo « Subito ». Quanta vivacità e chiarezza poi nella narrazione di Marco e come è evidente che si compiace nella descrizione! Si leggano, ad esempio, le relazioni della guarigione della mano rattrappita, della guarigione del fanciullo ossesso e soprattutto il drammatico episodio dei duemila porci nella regione dei Geraseni: l’obiettivo Matteo riferisce tranquillo: « Gli spiriti cattivi Lo pregarono: “Se ci cacci, mandaci nel branco di porci”. Egli rispose loro: “Andatevene!”. Allora se n’andarono ed entrarono nei porci. Di conseguenza l’intero branco si precipitò giù per il declivio nel lago e annegò nelle onde ». Marco invece con più forza, occhi attenti e orecchi protesi descrive: « Lo spirito cattivo gridò ad alta voce: “Che ho da fare con Te, Gesù, Figlio di Dio, dell’Altissimo? Io Ti scongiuro per Iddio di non tormentarmi…”. Poi lo pregava insistentemente di non cacciarlo via dalla regione. Sul pendio del monte pascolava una gran mandria di porci. Allora lo pregarono: “Permettici di entrare nei porci”. Lo permise loro. La mandria allora di circa duemila capi si precipitò giù per il pendio nel lago e nel lago affogò ». –  Matteo e Marco! Nei loro Vangeli si rispecchiano chiaramente anche gli autori; il Vangelo di Marco quindi, lascia a desiderare quanto ad adattamento, forbitezza e bell’ordine, che caratterizzano il Vangelo del pubblicano, amante del sistema e dello schema; il secondo Vangelo è impetuoso come lo stesso Pietro, non ingegnoso nella distribuzione del materiale, non delicato nell’espressione; non importa molto a Pietro scambiare un nominativo con un accusativo, di tralasciare una parola, di annettere direttamente una muova sezione; un insegnante di lingue s’indispettirebbe e farebbe scorrere molto inchiostro rosso; che consolazione per gli scolari! Già Papia osservava questa deficienza « nell’ordine », e intendeva precisamente la noncuranza letteraria del secondo Vangelo. Che interesse poteva avere per Pietro? Non era suo metodo badare accuratamente che la sua predica si presentasse in due parti con tre pensieri ciascuna, che fluisse con l’armonia del ritmo, che non le mancassero i geniali giochi di parole; la sua bocca sovrabbondava della pienezza del suo cuore, e Marco mise in iscritto le cose dette appunto come erompevano dal cuore del maestro, sciolte e fresche come una gorgogliante sorgente. – Gli studi sulla caratteristica del secondo Vangelo hanno sempre più imposto il silenzio a quelle teorie razionalistiche, secondo le quali bisognava distinguere fra il Vangelo dell’Urmarco e il Vangelo del Marco odierno; ché nel secondo Vangelo attuale è impresso troppo profondamente il sigillo di Marco-Pietro perché lo si possa negare, senza dire del fatto controllabile da ognuno dell’uso del Vangelo da parte già dei più antichi scrittori ecclesiastici. Oggi sono ancora discussi i versetti 9-20 dell’ultimo capitolo. Essi mancano nei due manoscritti greci più antichi e in qualche traduzione orientale molto antica; ricorrono anche, in questa sezione finale, delle espressioni sconosciute al resto del Vangelo; nondimeno non è possibile addurre una prova convincente che i versetti in questione non abbiano per autore Marco, poiché la stragrande maggioranza dei manoscritti — 160 contro 7 — ha la medesima finale del secondo Vangelo odierno; potrebbe darsi che, come Giovanni, anche Marco abbia terminato il suo Vangelo con l’attuale conclusione soltanto in un tempo posteriore; tutti del resto concedono ch’egli non poté terminare col versetto 16, 8. – Come attesta l’antichità cristiana, Marco scrisse il suo Vangelo per gli etnicocristiani, specialmente per quelli di Roma, « spinto dalle preghiere insistenti dei Cristiani di Roma, perché volesse lasciar loro un ricordo scritto delle istruzioni proposte da Pietro a viva voce ». Una tradizione orientale, conservataci da Diounisio bar Salibi, dice a questo riguardo: «Poiché i Romani sapevano che Pietro voleva andarsene per predicare in altri luoghi, lo pregarono di scrivere un Vangelo; egli però non assecondò il loro desiderio, perché non ne aveva il tempo, giacché, in qualità di capo dei predicatori, doveva predicare il suo Vangelo al popolo giudaico e ai pagani; temeva anche che i fedeli, per accogliere il suo, mettessero in disparte i tre (altri) Vangeli, perché egli era il capo e il primo; e infine, a causa del suo rinnegamento, egli si riteneva indegno di scrivere il Vangelo. Per questo pregò che scrivesse Marco, suo discepolo, e questi riferì tutto quello, che aveva ascoltato dalla sua bocca ». Quest’informazione erra certamente in quanto presenta il Vangelo di Marco come l’ultimo dei quattro Vangeli; non è né l’ultimo né il primo, ma, per la quasi unanime testimonianza della tradizione, è il secondo; l’epoca della sua redazione deve cadere fra gli anni 51-62, fu certamente scritto prima della morte di Pietro (+ 67), come assicurano Clemente Alessandrino e gli altri antichi scrittori ecclesiastici. – Un largo influsso nella struttura del secondo Vangelo l’ebbe anche l’accolta di lettori romani e di qui dipende la sua divergenza sotto molti aspetti da quello di Matteo. Marco, avendo per destinatari immediati del suo Vangelo degli etnicocristiani, omise molta parte di quello, che Matteo, scrivendo per i giudeocristiani, aveva messo in risalto della vita tanto ricca di Gesù per provare la sua messianità; la comunità cristiana di Roma non se ne intendeva e non aveva l’interesse dei Cristiani di Palestina quanto all’adempimento delle profezie del Vecchio Testamento, per le questioni della legge mosaica e per i conflitti di Gesù con i Farisei. Marco tralascia questi dettagli; non ha quindi il discorso sul monte, non il discorso « Guai a voi! »; in lui non incontriamo neppure la parola « Legge », che nel Vangelo di Matteo ha una parte così importante; quando deve ricordare istituzioni e usi giudaici, si dà premura di spiegarli ai lettori, che li ignorano. Gli interessa di far conoscere ai Romani non tanto le parole di Gesù quanto piuttosto le sue opere; il loro animo calmo e pratico è guadagnato al Signore più rapidamente dai fatti di Lui che non per mezzo di dottrine; ecco perché nel secondo Vangelo troviamo in prima linea i miracoli e perché nel riferirli Marco generalmente non fa abbreviazioni. In modo singolarmente perspicuo e attraente descrive i miracoli sugli ossessi, poiché la virtù divina del Signore si rivela quanto mai possente nella repressione del demonio e per i Romani, che sapevano della potenza diabolica, era tanto efficace. Attenendosi a questi criteri, Marco delineò nel suo Vangelo una figura di Cristo, che inonda di giubilo e di orgoglio ogni cuore cristiano: ci dipinse Cristo Re! Il primo versetto intona con accordo vigoroso il tema di tutto il Vangelo: « Il Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio»; e ai piedi della croce, confermando e ammirando, il centurione romano risponde come un’eco lontana e grida: « Veramente quest’Uomo era il Figlio di Dio ». Il Vangelo di Marco presenta questo titolo « Figlio di Dio » senza spiegarne la profondità, come invece fa Giovanni; però, anche se l’Evangelista non istruisce espressamente circa la preesistenza e l’uguaglianza sostanziale di Gesù col Padre, tutti i lineamenti della figura di Gesù da lui tracciata rimontano alla Causa prima e alla origine divina; poiché l’onnipotenza, che inerisce a Gesù, non è a casa sua che in Dio soltanto. Il Vangelo di Marco, essendo il più corto di tutti, è pure il meno usato fra tutti; e nondimeno esso ha anche per la nostra epoca e soprattutto per il mondo maschile la sua utilità particolare: la figura di Cristo, che s’è levata sopra il nostro secolo, grande, serena, sublime, è la figura del Vangelo di Marco, è Cristo, il Figlio di Dio, pieno di potere e di forza; Cristo, il Re troneggiante; Cristo il Signore del mondo. Vicini a un eroismo menzognero, i nostri occhi si sono aperti alla grandezza di Cristo; dinanzi a Lui e dinanzi a Lui soltanto pieghiamo con orgoglio il nostro ginocchio: « Veramente quest’Uomo è il Figlio di Dio! ».

MARCO MISSIONARIO

Pietro era morto, Paolo era morto, ma Gesù « rimane lo stesso ieri, e oggi, e in eterno »; anche dopo la morte dei due Principi, cui Marco aveva servito con fedeltà e cui forse aveva chiusi gli occhi affranti, l’opera del Re continuò per mezzo del discepolo. Numerose testimonianze attestano che annunziò il lieto messaggio in Egitto, ove anche fondò la chiesa di Alessandria, della quale fu il primo presule. Questa tradizione è attendibile, anche se i due luminari della chiesa alessandrina, Clemente e Origene, serbano a questo riguardo assoluto e curioso silenzio. Alessandria e Antiochia! Antiochia, la città di Paolo e Alessandria, la città di Marco! Si direbbe che la tensione fra Paolo e Marco si fosse comunicata anche alle loro città. Ambedue, infatti, le città furono centri della cultura cristiana e anzitutto della scienza biblica, in contrasto però fra loro; la scuola alessandrina indagò il senso allegorico delle Sacre Scritture, la scuola antiochena invece quello storico. Per un ministero di Marco in Egitto abbiamo a nostra disposizione alcuni anni fra il 52 e il 62 e poi nuovamente gli anni, che seguirono al rimpatrio deI Principi degli Apostoli. Se interroghiamo le più antiche informazioni riguardo all’epoca, in cui andò in Egitto, e la durata del suo ministero ivi esercitato, otteniamo risposte diverse. È abbastanza frequente la notizia di Marco inviato da Roma in Egitto, dove avrebbe portato il suo Vangelo già scritto; Giovanni Crisostomo invece, secondo il quale Marco avrebbe scritto il Vangelo soltanto in Egitto, è solo ad affermarlo. L’antica tradizione, secondo la quale Marco lasciò l’Egitto l’ottavo anno di governo dell’imperatore Nerone — l’anno 62 —, stabilendovi come capo della chiesa di Alessandria Aniano, prima calzolaio, è conciliabile con i dati biblici, i quali esigono ch’egli si trovasse a Roma al più tardi l’anno 62. Possiamo dunque affermare come molto probabile che Marco si sia portato ad Alessandria verso l’anno 54 e abbia esercitato il ministero ecclesiastico come presule della città sino all’anno 62. Se dovessimo prestare orecchio alle chiacchiere, che intorno all’opera di Marco in Egitto si leggono negli « Atti di Marco », scritti verso la metà del quarto secolo, a lui sarebbe stato assegnato l’Egitto fin dal momento della separazione degli Apostoli, per primo avrebbe predicato il Vangelo in tutta la regione e poi in Libia, nella Marmarica, nell’Ammoniaca, l’oasi di Giove Ammon, e nella Pentapoli, la terra della sua infanzia; indi ricevette in ispirito l’ordine di mettersi in cammino verso Alessandria per presentarsi al Faraone; all’entrata in città, le scarpe gli si rompono; si rivolge a un calzolaio; riparandole, questi si ferisce seriamente; Marco lo guarisce con un miracolo, lo istruisce intorno al Figlio di Dio Gesù Cristo; a questo punto il calzolaio lamenta, rimpiangendo, che i ragazzi egiziani vengono istruiti soltanto nell’Iliade e nell’Odissea; Marco amministra ad Aniano e alla sua famiglia il battesimo e lo consacra vescovo della chiesa di Alessandria, prima ch’egli debba sottrarsi con la fuga alle insidie degli idolatri sdegnati. Secondo la leggenda scappa poi nella Pentapoli, ma i documenti storici, quali la lettera di Pietro, quella ai Colossesi e quella a Filemone, esigono ch’egli in questo tempo sia a Roma; di qui fu inviato da Pietro o da Paolo in Asia Minore per una missione; nell’anno 66/67 Paolo prega e ottiene che dall’Asia Minore, ritorni di nuovo a Roma, donde, dopo la morte dei Principi degli Apostoli, parte nuovamente per Alessandria, dove lavora nella propria vigna; le antiche informazioni, infatti, sono unanimi nell’attestare un’attività di Marco ad Alessandria in due tempi. Che apostolato movimentato il suo! Cipro! Roma! Egitto! Roma! Asia Minore! Roma! Alessandria!. Com’è divenuto ricco e attivo! Un giorno, quando con Paolo doveva attraversare il Tauro, gli era venuto meno l’animo; e adesso gareggia quasi col suo rigido maestro nel travaglio della peregrinazione apostolica. Marco dà ragione a tutti coloro, che non si sgomentano per il fallimento dei giovani. – Egli morì probabilmente nell’anno 14° dell’impero di Nerone e, secondo una relazione, di morte naturale, secondo un’altra come martire. Gli « Atti di Marco » descrivono il suo rimpatrio così: mentre, nella festa di Pasqua, che in quell’anno cadeva il giorno 24 aprile, stava celebrando le funzioni solenni, fu preso dai pagani, che in quel giorno stesso celebravano la loro festa in onore di Serapide, fu legato con funi al collo e in questo modo straziante fu trascinato per le vie di Alessandria; poi il corpo lacerato fu gettato in carcere, dove nella notte un Angelo confortò il Martire: « Marco, ministro di Dio, il tuo nome è scritto nel libro della vita eterna e la tua memoria non si cancellerà in perpetuo; gli Angeli custodiranno la tua anima e il tuo corpo non imputridirà nella terra »; il giorno appresso il crudele tormento fu ripetuto; Marco vi soccombette e il suo corpo fu bruciato. La Chiesa romana il 25 aprile, giorno della sua morte, ne accompagna la festa con una processione rogazionale attraverso le verdeggianti campagne e fra gli alberi in fiore: non fu anche Marco come un albero fiorente, bello ma in pericolo nel fiore della sua giovinezza? Volesse il Cielo che tutti gli alberi di maggio portassero a maturazione i frutti copiosi e pregiati di Marco! La leggenda delle sue reliquie, che dovrebbe essere sorta veramente soltanto nel secolo nono, fa l’impressione d’essere bizzarra: dopo la conquista dell’Egitto da parte dei Saraceni, l’imperatore Leone l’Armeno (813-820) proibì ogni traffico con Alessandria; ma, nonostante l’ingiunzione di questo divieto fatta dal doge Giustiniano (827-830), i due distinti veneziani Bono e Rustico si portarono ad Alessandria, dove trovarono i Cristiani in grande preoccupazione; essi allora decisero di rubare i resti mortali dell’Evangelista per sottrarli a un eventuale colpo di mano degli increduli e portarli al sicuro in terra cristiana; per dissimulare il pio inganno, indossarono le reliquie di Santa Claudia, vergine, del mantello di seta di Marco e su d’un’imbarcazione riuscirono a portare felicemente il bramato tesoro delle reliquie a Venezia. Vogliamo lasciare ai Veneziani San Marco! Anche presso di loro egli trova tutto bello, come nel tempo della sua giovinezza: la maestosa basilica che gli eressero (976-1071), la piazza meravigliosa che seppero crearle dinanzi, come una sorella della piazza di San Pietro a Roma — Pietro e Marco! —, le vie azzurre che s’intrecciano attraverso la città, le imbarcazioni dagli svolazzanti nastri variopinti, i mandolini che tanto soavemente s’insinuano nell’orecchio e nel cuore; questo paradiso sta davvero bene per Marco! Libero l’animo da ogni pensiero e desiderio, l’occhio dalla gondola dondolante si ricrea nella bellezza di Venezia, che sale dal mare come una prima visione dell’Oriente. Ma resta ancora il leone! Che ha da che fare il leone con Marco? È il simbolo di lui come evangelista, perché nel primo capitolo del suo Vangelo scrive del « deserto », dove il leone ha la sua patria. Marco e il leone! In un dipinto del Pinturicchio il leone guarda, come fosse un uomo, tristemente, perché può solamente ruggire, non può essere anche così amabile com’è Marco. E ancor più mirabile è quest’altra cosa, che il « kolobodaktylos », il Marco dalle dita piccole e delicate, abbia nella sua persona e nella sua opera qualche cosa della forza del leone. – E in questo forse sta il mistero e la grandezza di Marco, ch’egli cioè, ch’era stato tanto circondato da cure, sia divenuto per Cristo e in Cristo un leon

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (6) “Da s. LEONE Magno a Ilario”.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (6)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(Da S. Leone Magno a Ilario)

LEONE I IL GRANDE: 29 settembre 440-10 novembre

Lettera Ut nobis gratulationem ai Vescovi della Campania, Piceno e Tuscia; 10 ottobre 443.

Usura

280 – (Cap. 3). Ci è sembrato anche di non dover passare sotto silenzio il fatto che alcuni, avvinti dal desiderio di un vergognoso guadagno, si abbandonino a rapporti usurari e vogliono arricchirsi prestando ad interesse; e questo, non dico per coloro che sono insediati in un ufficio clericale, ma anche per i laici che vogliono essere chiamati Cristiani, lo deploriamo molto. Decretiamo che coloro che ne sono colpevoli siano puniti più severamente, in modo da eliminare ogni occasione di peccato.

281 – (Cap. 4) Abbiamo anche ritenuto necessario ricordare che nessun chierico debba tentare di praticare il prestito ad interesse, né a nome di un altro né a nome proprio: non è infatti opportuno commettere una perdita per se stessi a beneficio di un altro. Dobbiamo considerare e praticare solo quel prestito di interesse che consiste nel fatto che ciò che concediamo qui con misericordia, possiamo riceverlo di nuovo dal Signore che concederà abbondantemente ciò che rimarrà per sempre.

Lettera “Quanta fraternitati” al Vescovo Anastasio di Tessal., nel 446

La gerarchia ecclesiastica e la monarchia.

282 – (Cap. 11)… La congiunzione di tutto il corpo produce un’unica e medesima salute, un’unica e medesima bellezza; e questa congiunzione richiede l’unanimità di tutto il corpo, e in particolare la concordia dei Sacerdoti. Sebbene abbiano una dignità comune, il rango non è lo stesso, perché anche tra i beati Apostoli c’era una certa differenza di potere in un onore simile; e se l’elezione di tutti era la stessa, ad uno solo fu dato di essere al di sopra degli altri. Da questo modello nacque anche una distinzione tra i Vescovi, e con una saggia disposizione si stabilì che non tutti dovessero rivendicare tutto per sé, ma che in ogni provincia ci fosse qualcuno la cui opinione dovesse essere tenuta al primo posto tra i fratelli, e che allo stesso modo alcuni, istituiti in città più importanti, dovessero avere una maggiore sollecitudine; attraverso di loro l’ufficio universale della Chiesa doveva convergere verso l’unica sede di Pietro, e nulla doveva essere separato dal suo capo.

Lettera “Quam laudabiliter” al Vescovo Turribio di Astur., 21 447 luglio.

Gli errori dei priscillianisti in generale.

283 – (L’empietà dei Priscilliani) nacque persino nelle tenebre del paganesimo, cosicché, attraverso le pratiche segrete ed empie delle arti magiche ed i vani inganni degli astrologi, fondarono la fede della religione e la regola della morale sul potere dei demoni e sull’effetto degli astri. Se si permettesse di credere e di insegnare questo, la ricompensa non sarebbe più dovuta alle virtù, né la punizione ai vizi, e tutti gli ordinamenti, non solo delle leggi umane ma anche dei comandamenti divini, si dissolverebbero; perché non ci potrebbe più essere alcun giudizio, né sulle azioni buone né su quelle cattive, se una necessità del destino spingesse il movimento della mente da una parte o dall’altra, e se tutto ciò che viene fatto dagli uomini non fosse degli uomini ma delle stelle. … I nostri Padri … hanno agito giustamente e con fermezza affinché questa empia follia venisse scacciata da tutta la Chiesa: anche i principi del mondo aborrivano a tal punto questa sacrilega follia, che hanno abbattuto il suo autore (Priscilliano) con la spada delle leggi pubbliche, insieme alla maggior parte dei suoi seguaci. Infatti, vedevano che il vincolo del matrimonio sarebbe stato completamente annullato, e che anche la legge divina ed umana sarebbe stata sovvertita, se a tali uomini fosse stato permesso di vivere con tale professione in qualsiasi luogo. Per lungo tempo questa severità ha giovato alla mitezza ecclesiastica che, pur accontentandosi del giudizio dei Sacerdoti ed evitando punizioni cruente, è comunque aiutata dai severi decreti dei principi.

284 – La Trinità divina, contro i modalisti.

(Cap. 1) Perciò, nel primo capitolo, si mostra quale empia opinione abbiano della Trinità divina coloro che affermano che le Persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo siano una sola e medesima Persona, come se lo stesso Dio fosse chiamato a volte Padre, a volte Figlio, a volte Spirito Santo; non ci sarebbe uno che genera, un altro che è generato, un altro che procede da entrambi; ma questo tipo di bestemmia non riguarda una sola Persona, ma tre. Questo tipo di bestemmia deriva loro dall’opinione di Sabellio, i cui seguaci sono giustamente chiamati Patripassiani; infatti, se il Figlio è colui che è il Padre, la croce del Figlio è la passione del Padre, e tutto ciò che il Figlio ha sopportato in forma di schiavo per obbedire al Padre, il Padre in persona lo ha sperimentato pienamente in se stesso. Questa affermazione è indubbiamente contraria alla fede cattolica, che professa così fortemente l’identità della sostanza della Trinità divina da credere che il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo siano indivisi senza confusione, siano eterni senza essere soggetti al tempo, siano uguali senza differenza, perché non è una sola e stessa persona, ma una sola e stessa Essenza, che realizza l’unità nella Trinità…

La natura dell’anima umana.

285 – (Cap. 5) In un quinto capitolo viene riportata la loro concezione che l’anima dell’uomo sia di sostanza divina e che la natura della nostra condizione sia indistinguibile dalla natura del suo Creatore. Questa empietà… la fede cattolica la condanna: perché sa che non c’è creatura così sublime e così eminente, per la quale Dio sia la sua stessa natura. Perché ciò che è di sé è ciò che Egli stesso è, e questo non è altro che il Figlio e lo Spirito Santo. Oltre a quest’unica, consustanziale, eterna ed immutabile divinità dell’altissima Trinità, non c’è assolutamente nulla tra le creature che sia stato creato dal nulla al suo inizio. Nessuno degli uomini è la Verità, nessuno la Sapienza, nessuno la Giustizia; ma molti hanno una parte nella verità, nella saggezza e nella giustizia. Ma Dio da solo non ha bisogno di partecipare a nulla: tutto ciò che di Lui è giustamente creduto, in qualsiasi modo, non è qualità ma essenza. A Colui che è immutabile, nulla si aggiunge e nulla si toglie, perché a Colui che è eterno, l’essere appartiene sempre a se stesso. Perciò rinnova tutto rimanendo in se stesso, e non ha ricevuto nulla che non abbia dato Egli stesso.

La natura del diavolo.

286 –  (Cap. 6) La sesta osservazione riguarda la loro affermazione che il diavolo non è mai stato buono, e che la sua natura non è opera di Dio, ma che è emerso dal caos e dalle tenebre, perché non ha un creatore, ma è lui stesso il principio e la sostanza di tutto il male; ma la vera fede. … professa che la sostanza di tutte le creature, spirituali o corporee, è il bene, e che il male non ha natura perché Dio, che è il creatore dell’universo, non ha fatto altro che il bene. Quindi il diavolo sarebbe buono se fosse rimasto nello stato in cui è stato creato. Ma avendo abusato della sua eccellenza naturale e “non rimanendo nella verità” (Gv 8,44) non è passato in una sostanza contraria, ma si è separato dal bene sovrano al quale doveva rimanere unito, proprio come coloro che affermano questo precipitano da ciò che è vero a ciò che è falso, e attaccano la natura per ciò che hanno intenzionalmente commesso, e sono condannati a causa della loro volontaria perversità. Il male sarà in loro stessi e il male stesso non sarà la sostanza, ma la punizione per la sostanza.

Lettera “Lectis dilectionis tuæ” al Vescovo Flaviano di Costantinopoli (“Tomus (I) Leonis”), 13 giugno 449.

L’incarnazione del Verbo di Dio

290 – (Cap. 2) Ignorando, quindi, ciò che dovrebbe pensare sull’Incarnazione del Verbo di Dio…, avrebbe dovuto almeno ascoltare attentamente la confessione comune e unanime, con la quale l’universalità dei fedeli professa di credere in “Dio Padre onnipotente e in Gesù Cristo suo unico Figlio, nostro Signore, nato dallo Spirito Santo e da Maria Vergine” (Confessione apostolica di fede), cfr. Can. 12… Quando si crede in un Dio e Padre onnipotente, si dimostra che suo Figlio è co-eterno a Lui, non differendo in nulla dal Padre, poiché è nato Dio da Dio, Onnipotente da Onnipotente, co-eterno dall’Eterno, non posteriore nel tempo, non inferiore nella potenza, non dissimile nella gloria, non separato nell’essenza.

291 – Ma questo stesso Figlio unigenito ed eterno di un Padre eterno è nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria, una nascita nel tempo che non ha diminuito o aggiunto nulla alla nascita divina ed eterna, ma è stata interamente impiegata per rifare l’uomo, che era stato ingannato, affinché vincesse la morte e distruggesse con la propria potenza il diavolo che deteneva l’impero della morte. Non potremmo infatti prevalere contro l’autore del peccato e della morte, se Lui, che né il peccato ha potuto contaminare né la morte trattenere, non avesse assunto la nostra natura e l’avesse fatta sua. Sì, è stato dunque concepito dallo Spirito Santo nel grembo della Vergine Madre, che lo ha dato alla luce, la cui verginità è stata salvata così come è stata salvata quando lo ha concepito.

292 – O forse egli (Eutiche) pensava che il nostro Signore Gesù Cristo non fosse della nostra natura per il motivo che l’Angelo inviato alla beata Maria disse: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti adombrerà, e perciò l’Essere santo che nascerà da te sarà chiamato Figlio di Dio” Lc 1,35, in modo che, essendo il concepimento della Vergine un’operazione divina, la carne dell’essere concepito non fosse della natura di colui che ha concepito? Ma non dobbiamo intendere questa generazione singolarmente meravigliosa e meravigliosamente singolare nel senso che ciò che è proprio della specie sia stato messo da parte dalla novità della sua creazione. La fecondità della Vergine è un dono dello Spirito Santo, ma dal suo corpo è stato tratto un corpo reale. E la Sapienza che costruisce una casa Pr 9,1: il Verbo si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi Gv 1,14, cioè in quella carne che ha preso dall’uomo e che ha animato con il soffio della vita razionale.

293 – (Cap. 3) Così, con le proprietà delle due nature unite in una sola Persona, l’umiltà è stata assunta dalla maestà, la debolezza dalla forza, la mortalità dall’eternità e, per pagare il debito della nostra condizione, la natura inviolabile è stata unita alla passibile: affinché, come convenisse alla nostra guarigione, un solo e medesimo “mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù” (1 Tim 2,5), fosse da un lato capace di morire e dall’altro incapace di farlo. È dunque nella natura intatta di un vero uomo che nasce il vero Dio, completo in ciò che gli è proprio, completo in ciò che ci è proprio. Per “ciò che ci è proprio” intendiamo la condizione in cui il Creatore ci ha stabilito all’inizio e che Egli ha assunto per ristabilirla; perché di ciò che l’ingannatore ha portato e l’uomo ingannato ha accettato, non c’è traccia nel Salvatore… Ha assunto la forma del servo senza macchia di peccato, arricchendo l’umano senza diminuire il divino, perché questo annientamento con cui l’invisibile è stato reso visibile, era un’inclinazione della Sua misericordia, non una carenza della Sua potenza.

294 – (Cap. 4) Ecco dunque che il Figlio di Dio entra in queste parti più basse del mondo, scendendo dal trono celeste senza lasciare la gloria del Padre, generato in un nuovo ordine, con una nuova nascita. Un ordine nuovo perché invisibile in ciò che è suo, si è reso visibile in ciò che è nostro; infinito ha voluto essere contenuto; sussistente prima di ogni tempo, ha cominciato ad esistere nel tempo; Signore dell’universo, ha velato l’immensità della sua maestà nell’ombra, ha preso la forma di un servo; Dio impassibile, non ha disdegnato di essere un uomo passibile, immortale, il sottomettersi alle leggi della morte. Generato da una nuova nascita, perché la verginità inviolata, senza conoscere la concupiscenza, ha fornito la materia della carne. Dalla Madre del Signore è stata assunta la natura, non la colpa, e nel Signore Gesù Cristo generato dal grembo di una Vergine, la nascita meravigliosa non rende la sua natura diversa dalla nostra. Perché Colui che è vero Dio è, allo stesso modo, vero uomo. In questa unità non c’è menzogna, poiché l’umiltà dell’uomo e l’elevazione della divinità si avvolgono a vicenda. Perché come Dio non viene cambiato dalla misericordia, così l’uomo non viene assorbito dalla dignità. Ciascuna delle due forme, infatti, svolge il proprio compito in comunione con l’altra: il Verbo fa ciò che è del Verbo, la carne fa ciò che è della carne. Uno dei due brilla di miracoli, l’altro soccombe agli oltraggi. E come il Verbo non cessa di essere uguale nella gloria al Padre, così la carne non si sottrae alla natura della nostra razza.

295 – … Non è un atto della stessa natura dire: “Io e il Padre siamo uno”. Gv X, 30 e di dire: “Il Padre è più grande di me” Gv XIV, 28. Infatti, sebbene nel Signore Gesù Cristo la Persona di Dio e quella dell’uomo siano una sola, una cosa è che i rimproveri siano comuni all’uno e all’altro, e un’altra cosa è che la gloria sia comune a loro. Perché da ciò che è nostro Egli ritiene l’umanità inferiore al Padre, dal Padre ritiene la divinità uguale al Padre.

Lettera “Licet per nostros” a Giuliano di Cos, 13 giugno 449.

L’incarnazione del Figlio di Dio

296 – (cap. 1)… In voi e in noi c’è una sola istruzione e una sola dottrina dello Spirito Santo, e se qualcuno non la riceve, non è membro del corpo di Cristo, né può gloriarsi di quel Capo in cui, come afferma, la sua natura non esiste… …

297 – (cap. 2)… Ciò che appartiene alla divinità, la carne non l’ha diminuito, e ciò che appartiene all’umanità, la divinità non l’ha abolito. Lo stesso infatti era eterno per mezzo del Padre e temporale per mezzo della Madre, inviolabile nella sua potenza, passibile nella nostra umanità; nella divinità della Trinità era di una sola e medesima natura con il Padre e lo Spirito Santo, ma assumendo l’uomo non era di una sola sostanza, ma di una sola e medesima Persona, così che lo stesso era ricco nella povertà, onnipotente nell’abbattimento, impassibile nel supplizio, immortale nella morte. Il Verbo, infatti, non è stato mutato in carne o anima da nessuna parte di sé, poiché la natura semplice e immutabile della Divinità è sempre intera nella sua essenza, e non conosce diminuzione o aumento di sé, e rende la natura assunta così benedetta da rimanere glorificata in ciò che glorifica. Perché dovrebbe sembrare improprio o impossibile che il Verbo e la carne e l’anima siano l’unico Gesù Cristo o l’unico Figlio di Dio e dell’uomo, quando la carne e l’anima, le cui nature sono dissimili, formano una sola persona anche nell’incarnazione del Verbo? Perciò né il Verbo è stato mutato in carne, né la carne in Verbo, ma entrambi rimangono in uno, ed uno è in entrambi, non diviso dalla diversità, non confuso dalla mescolanza, né l’uno dal Padre, né l’altro dalla Madre, ma lo stesso altrimenti dal Padre prima di ogni inizio, altrimenti dalla Madre fino alla fine dei secoli, affinché fosse “il mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Cristo Gesù”. (1 Tm 2,5) perché “la pienezza della Divinità abiti in lui corporalmente” (Col 2,9) , perché è una promozione di colui che è stato assunto, non di colui che assume, se “Dio lo ha esaltato…” (Fil II: 9-11)

298 – (cap. 3)… Penso che quando egli (Eutiche) dice questo (cioè che prima dell’Incarnazione c’erano due nature in Cristo, ma dopo l’Incarnazione una sola), sia convinto che l’anima che il Salvatore ha preso abitasse in cielo prima di nascere dalla Vergine Maria, e che il Verbo l’abbia unita a sé nel grembo materno. Ma questo le menti e le orecchie cattoliche non possono sopportarlo, perché il Signore, quando è venuto dal cielo, non ha mostrato nulla che facesse parte della nostra condizione. Non ha preso un’anima che esisteva prima, né una carne che non era stata del corpo della Madre: perché la nostra natura non è stata assunta in modo tale da essere creata prima per essere assunta dopo, ma in modo tale da essere creata dall’assunzione stessa. Da qui ciò che è stato giustamente condannato in Origene (cfr. 209), che affermava che le anime, prima di essere inserite nel corpo, non solo avrebbero avuto vita, ma avrebbero anche emanato da esso varie attività, deve necessariamente essere punito anche in questo, a meno che non preferisca rinunciare alla sua opinione.

299 – Infatti, sebbene la natività di nostro Signore secondo la carne abbia alcune caratteristiche peculiari, per le quali supera gli inizi della condizione umana, sia perché Egli solo è stato concepito e nato senza concupiscenza (dallo Spirito Santo) dalla Vergine inviolata, o perché uscì dal grembo della Madre in modo tale che sia la fecondità che la verginità rimasero, la sua carne non era di natura diversa dalla nostra, e non fu in un inizio diverso da quello degli altri uomini che l’anima fu soffiata in Lui: un’anima che non è più eccellente per una differenza di genere, ma per l’eminenza della virtù. Infatti, non aveva nulla che si opponesse alla sua carne, e nessuna discordia di desideri dava luogo a conflitti di volontà; i sensi del corpo erano rafforzati senza la legge del peccato e, sotto la guida della Divinità e dello Spirito, la verità di ciò che sentiva non era tentata dalla seduzione e non si sottraeva all’insulto. Il vero uomo è stato unito al vero Dio, e non è stato fatto scendere dal cielo secondo un’anima preesistente, né è stato creato dal nulla secondo la carne, perché ha la stessa Persona nella divinità del Verbo, e possiede nel corpo e nell’anima la natura comune a noi. Non sarebbe infatti il Mediatore di Dio e dell’uomo se non fosse una cosa sola, sia Dio che uomo, e in verità in entrambi.

CONCILIO DI CALCEDONIA(IV Ecumenico)

(8 ottobre – inizio novembre 451)

5a sessione, 22 ottobre 451: professione di fede di Calcedonia.

Le due nature in Cristo

300 – (preambolo alla definizione. In seguito alle professioni di fede di Nicea e Costantinopoli) Ora, dunque, per una completa conoscenza e conferma della religione, sarebbe bastato questo saggio e salutare Simbolo della grazia divina, che dà un insegnamento perfetto sul Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ed espone l’Incarnazione del Salvatore a coloro che lo ricevono con fede. Ma ecco che coloro che cercano di respingere la predicazione della verità con le loro eresie hanno dato vita a novità:  alcuni hanno osato rifiutare il termine Madre di Dio in relazione alla Madonna; altri introducono confusione e mescolanza e stoltamente immaginano che la carne e la divinità siano una sola natura e mostruosamente dicono che, a causa della confusione, la natura divina del Figlio è passibile per questo motivo, volendo chiudere loro la porta a qualsiasi macchinazione contro la verità, il santo e grande concilio ecumenico, ora presente, insegnando l’incrollabile dottrina predicata fin dall’inizio, ha definito che soprattutto la confessione di fede dei 318 padri deve rimanere intatta. E ratifica l’insegnamento sulla sostanza dello Spirito dato dai 150 padri che si riunirono in seguito nella città imperiale a causa di coloro che combattevano contro lo Spirito Santo; un insegnamento che questi padri fecero conoscere a tutti, non perché volessero aggiungere qualcosa che mancava alle proposizioni precedenti, ma perché volevano chiarire con la testimonianza delle Scritture il loro pensiero sullo Spirito Santo contro coloro che cercavano di rifiutare la sua signoria. D’altra parte, a causa di coloro che tentano di sfigurare il mistero dell’economia e che, nella loro impudente stoltezza, dicono che colui che la Beata Vergine Maria ha portato in grembo è un semplice uomo, il concilio ha ricevuto le lettere sinodali del beato Cirillo, che era pastore della Chiesa di Alessandria, a Nestorio e ai vescovi d’Oriente, come molto adatte a confutare le follie di Nestorio… A queste lettere ha giustamente unito, per la conferma delle dottrine ortodosse, la lettera che il beato e santissimo arcivescovo Leone, che presiede alla grandissima e antichissima Roma, scrisse al defunto arcivescovo Flaviano per la soppressione della perversità di Eutiche Can. 290-295, in quanto questa lettera si accorda con la confessione del grande Pietro ed è lì come una sorta di colonna comune contro coloro che hanno opinioni false. Si oppone a coloro che cercano di dividere il mistero dell’economia in una dualità di figli; allontana dall’assemblea dei Sacerdoti coloro che osano dire che la divinità del Figlio unigenito sia passabile; insorge contro coloro che immaginano, riguardo alle due nature di Cristo, una mescolanza o una confusione; Scaccia coloro che nel loro delirio affermano che la forma schiava che Cristo ha ricevuto per sé da noi è celeste o di qualche altra sostanza; e anatemizza coloro che inventano la favola di due nature del Signore prima dell’unione, ma ne immaginano una sola dopo l’unione.

301 – (Definizione) Seguendo i santi Padri, dunque, tutti noi insegniamo unanimemente che confessiamo un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, lo stesso perfetto nella divinità e lo stesso perfetto nell’umanità, lo stesso veramente Dio e veramente uomo (composto da) un’anima ragionevole ed un corpo, consustanziale con il Padre nella divinità e lo stesso consustanziale con noi nell’umanità, in tutto simile a noi tranne che nel peccato (cfr. Eb IV, 15), prima dei secoli generato dal Padre nella divinità e negli ultimi giorni lo stesso (generato) per il nostro bene e la nostra salvezza dalla Vergine Maria, Madre di Dio nell’umanità …

302 – un solo e medesimo Cristo, Figlio, Signore, unigenito, riconosciuto in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza divisione e senza separazione, la differenza delle nature non essendo in alcun modo abolita a causa dell’unione, le proprietà dell’una e dell’altra natura essendo piuttosto mantenute e contribuendo ad una sola Persona e ad una sola ipostasi, un solo Cristo che non si scinde né si divide in due persone, ma un solo e medesimo Figlio, l’Unigenito, Dio Verbo, il Signore Gesù Cristo, come i profeti hanno da tempo insegnato di Lui, come Gesù Cristo stesso ci ha insegnato e come il Credo dei padri ci ha trasmesso.

303 – (Sanzione) Tutto ciò essendo stato da noi formulato con la più scrupolosa accuratezza e diligenza, il Santo Concilio Ecumenico ha definito che a nessuno è permesso di professare, scrivere o comporre un’altra confessione di fede, né di pensare o insegnare diversamente…

7a sessione: canoni.

Simonia

304 – Can. 2. Se un Vescovo facesse un’ordinazione a pagamento e mettesse in vendita la grazia invendibile, e ordinasse a pagamento un Vescovo, un Vescovo corale, un sacerdote, un diacono, o uno qualsiasi di quelli annoverati tra il clero, o nominato per denaro un economo, un avvocato, un amministratore, o in generale un qualsiasi funzionario, spinto dalla propria vergognosa avidità, che chi intraprende una cosa del genere si espone, se il fatto viene provato, a perdere il proprio grado; e chi è stato ordinato non tragga profitto dall’ordinazione o dalla promozione ottenuta per mestiere, ma perda la dignità o la carica acquisita per denaro. Se, inoltre, dovesse risultare che qualcuno si sia intromesso in questi profitti vergognosi e proibiti, sia pure privato del proprio grado, se è un chierico, e, se è un laico o un monaco, sia colpito da anatema.

305 – Matrimonio misto e ricezione del Battesimo nell’eresia

Can 14. Poiché in alcune eparchie è stato permesso a lettori e cantori di sposarsi, il santo concilio ha deciso che non sia permesso a nessuno di loro di sposare una donna eretica. Coloro che hanno avuto figli da tali matrimoni, se hanno già fatto battezzare la loro prole tra gli eretici, devono portarli nella comunione della Chiesa Cattolica; se questi figli non sono ancora battezzati, non possono farli battezzare tra gli eretici, né possono darli in sposa ad un eretico, ad un ebreo o ad un pagano, a meno che naturalmente la persona che deve essere sposata con l’ortodosso non prometta di passare alla fede ortodossa. Se qualcuno trasgredisce questa decisione del santo concilio, sia sottoposto alle sanzioni canoniche.

306 – Lettera sinodale a papa Leone I, inizio novembre 451

La preminenza della Sede romana … Che cosa, infatti, dà più gioia della fede? Questa fede il Salvatore stesso ce l’ha trasmessa fin dai tempi antichi, dicendo: “Andate e insegnate a tutte le nazioni…”. “Mt XXVIII,19; tu stesso l’hai conservata come una catena d’oro che, al comando di colui che comanda, viene a noi, essendo per tutti l’interprete della voce del beato Pietro, e dando a tutti la benedizione della sua fede. Così anche noi, servendoci di voi come guida feconda per questo bene, abbiamo mostrato ai figli della Chiesa il patrimonio della verità… facendo conoscere con un solo cuore e una sola mente la confessione della fede. E noi eravamo in un unico coro, deliziandoci, come in un banchetto reale, del cibo spirituale che Cristo, attraverso i vostri scritti, ha preparato per gli ospiti del banchetto, e ci sembrava di vedere lo Sposo celeste come ospite tra noi. Infatti, se dove due o tre sono riuniti nel suo nome egli è presente, come dice, in mezzo a loro, Mt 18,20, quale familiarità non ha mostrato allora ai cinquecentoventi sacerdoti che hanno posto la conoscenza della confessione della fede più in alto della loro patria e delle loro fatiche? Essi che, come il capo fa per le membra, tu hai condotto in coloro che tenevano il tuo posto facendo conoscere i tuoi eccellenti consigli…

Lettera “Sollicitudinis quidem tuæ” al Vescovo Teodoro di Fréjus. 11 giugno 452

308 Il sacramento della penitenza.

(Cap. 2). La misericordia di Dio, nelle sue molteplici forme, ha rimediato così bene alle colpe umane, che non è solo con la grazia del Battesimo, ma anche con il rimedio della Penitenza, che viene restituita la speranza della vita eterna, così che coloro che hanno contaminato i doni della rigenerazione, se si riconoscono colpevoli, possono ottenere la remissione delle loro colpe; le disposizioni della bontà divina sono fatte in modo tale che il perdono di Dio possa essere ottenuto solo con la supplica dei Sacerdoti. “Il Mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Gesù Cristo”, Mt. 1, ha trasmesso ai responsabili della Chiesa il potere di concedere la penitenza ai peccatori pentiti e, quando questi si siano purificati con una salutare soddisfazione, di ammetterli alla comunione dei Sacramenti aprendo loro la porta della riconciliazione…

309 – (Cap. 4) A coloro che in caso di necessità e di pericolo imminente implorano l’aiuto della penitenza e di una rapida riconciliazione, non si deve negare né l’espiazione né la riconciliazione, perché non spetta a noi porre limiti o ritardi alla misericordia di Dio, presso il quale nessuna vera conversione attende a lungo il perdono.

310 – (Cap. 5) Ogni Cristiano, dunque, deve sottomettersi al giudizio della sua coscienza, per non rimandare di giorno in giorno la sua conversione a Dio, per non fissare il momento della soddisfazione alla fine della sua vita… e, quando potrebbe meritare il perdono con una soddisfazione più completa, per non scegliere l’angoscia di un tempo in cui la confessione del penitente e la riconciliazione procurata dal Sacerdote non avranno che un piccolo posto. Tuttavia, come ho detto, dobbiamo aiutare queste persone nella loro angoscia non negando loro né la penitenza né la grazia della Comunione quando, pur essendo prive dell’aiuto della voce, lo chiedano con segni inequivocabili. Ma se la violenza della malattia pesa tanto fortemente su di essi tanto che non siano capaci di manifestare in presenza del prete, ciò che essi domandavano poco prima, le testimonianze dei dei fedeli presenti dovranno lor servire a ricevere nello stesso tempo il beneficio della penitenza e quello della riconciliazione … – Per aiutare i fedeli che hanno sofferto per la mancanza di fede, le testimonianze dei fedeli presenti dovrebbero aiutarli a ricevere sia la benedizione della Penitenza che quella della Riconciliazione alla presenza del Sacerdote.

Lettera “Regressus ad nos” al Vescovo Nicetas di Aquileia, 21 Marzo 458.

Il secondo matrimonio delle vedove putative.

311 – (cap. 1) Poiché dite che, a causa della sconfitta in guerra e dei gravissimi attacchi del nemico, alcuni matrimoni furono spezzati, cosicché, dopo che gli uomini furono presi in prigionia, le loro mogli rimasero abbandonate e, pensando che i loro mariti fossero stati uccisi o credendo che non sarebbero mai state liberate dalla loro servitù, e poiché ora, con l’aiuto di Dio, lo stato delle cose è cambiato in meglio, alcuni di quelli che si pensava fossero morti sono tornati, la vostra carità esita evidentemente a ragione su ciò che dobbiamo ordinare riguardo alle donne che si sono unite ad altri uomini. Ma poiché sappiamo che è scritto che la donna è unita all’uomo da Dio (cfr. Pr 19, 14 ), e che conosciamo anche il comandamento secondo cui ciò che Dio ha unito, l’uomo non deve separarlo Mt XIX, 6, è necessario che crediamo che le unioni del matrimonio legittimo debbano essere ristabilite, e che dopo che i mali inflitti dal nemico sono stati rimossi, a ciascuno sia restituito ciò a cui aveva di diritto; e che ognuno riceva ciò che gli spetti, con tutto il suo zelo.

312 – (Cap. 2) Non si deve però considerare colpevole e intruso nei diritti altrui chi ha fatto la parte di un marito che si pensava avesse cessato di esistere. In questo modo molte cose che appartenevano a coloro che erano stati portati in cattività possono essere passate nei diritti di altri, e tuttavia è pienamente conforme alla giustizia che vengano restituite loro al ritorno. E se questo viene osservato per quanto riguarda i beni o addirittura le case o i possedimenti, non è forse ancora più necessario, nel ristabilire i matrimoni, fare in modo che ciò che è stato turbato dalla fatalità della guerra venga ristabilito dal rimedio della pace?

313 – (Cap. 3) E quindi, se gli uomini che sono tornati dopo una lunga prigionia perseverano a tal punto nell’amore per le loro mogli da desiderare che tornino all’unione con loro, è necessario rinunciare a ciò che la necessità ha portato, e considerarlo esente da colpe, e ripristinare ciò che la fedeltà richiede.

314 – (Cap. 4) Ma se alcune donne sono così prese dai loro mariti successivi che preferiscono rimanere legate a loro piuttosto che tornare alla comunità legittima, devono essere giustamente biasimate e private della comunione ecclesiastica, perché invece di una cosa scusabile hanno scelto la contaminazione di un’offesa, mostrando di aver gradito nella loro incontinenza ciò che un giusto perdono avrebbe potuto espiare…

Il carattere non ripetibile del Battesimo.

315 – (Cap. 6) Quanto a coloro… che il timore ha indotto o l’errore ha indotto a ripetere il Battesimo, e che ora riconoscono di aver agito contro il Sacramento della fede cattolica, devono osservare la regola di entrare in comunità con noi solo con il rimedio della penitenza, e di ricevere l’unità della comunione solo con l’imposizione delle mani del Vescovo…

316 – (Cap. 7) Infatti coloro che hanno ricevuto il battesimo degli eretici, mentre prima non erano stati battezzati, devono essere confermati solo con l’invocazione dello Spirito Santo e l’imposizione delle mani, perché hanno ricevuto solo la forma del battesimo senza la virtù della santificazione. E questa regola, come sapete, prescriviamo di osservarla in tutte le Chiese, cioè che il bagno ricevuto una volta non deve essere violato da alcuna reiterazione, poiché l’Apostolo dice: “Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo”, Ef IV, 5. La loro abluzione non deve essere alterata da alcuna reiterazione, ma, come abbiamo detto, deve essere invocata solo la santificazione dello Spirito Santo, affinché ciò che nessuno riceve dagli eretici, lo riceva dai Sacerdoti cattolici.

Lettera “Promisisse me memini” all’imperatore. Leone I, 17 agosto 458.

Le due nature in Cristo

317 – (cap. 6) Anche se c’è dunque nell’unico Signore Gesù Cristo, vero Figlio di Dio e vero Figlio dell’uomo, una sola Persona del Verbo e della carne che, senza separazione o divisione, compie azioni comuni, è necessario, tuttavia, che le qualità delle operazioni stesse siano ben comprese, e si può vedere con fede sincera a che cosa si elevI l’umiltà della carne e a che cosa si abbassi la sublimità della divinità, che cosa non fa la carne senza il Verbo e che cosa non realizza il Verbo senza la carne. .. Sebbene fin dall’inizio, quando il Verbo si fece carne nel grembo della Vergine, non ci fu mai alcuna divisione tra le due forme, e durante la crescita del corpo le azioni furono sempre quelle di un’unica Persona, ciò che fu fatto senza separazione non lo confondiamo con una mescolanza, ma percepiamo dalla qualità delle opere ciò che appartiene a ciascuna forma…

318 – (Cap. 8) Sebbene il Signore Gesù Cristo sia uno, e in Lui una sola e medesima Persona sia quella della vera divinità e dell’umanità, riconosciamo tuttavia che l’esaltazione con la quale, come dice il Dottore delle Genti, Dio lo ha esaltato e gli ha dato un Nome che è al di sopra di ogni nome (cfr. Fil II, 9 ss.), si riferisce a quella forma che doveva essere arricchita dall’aggiunta di una così grande glorificazione. Nella forma di Dio, infatti, il Figlio era uguale al Padre, e tra il generato e l’Unigenito non c’era alcuna distinzione di essenza, né alcuna differenza di maestà; e con il mistero dell’Incarnazione il Verbo non aveva perso nulla di ciò che doveva essergli restituito da questo dono del Padre. Ma la forma del servo, con cui l’impassibile Divinità ha compiuto il sacramento della sua grande misericordia, è l’abbassamento umano che è stato innalzato nella gloria della potenza divina, mentre fin dal concepimento della Vergine la Divinità e l’umanità erano state legate in una tale unità che le cose divine non erano fatte senza l’uomo, né le cose umane senza Dio.

319-320. Lettera “Frequenter quidem” al Vescovo Neo di Ravenna; Ravenna, 24 ottobre 458.

Battesimo discutibile e conferito da eretici.

319 (1)… Da informazioni fornite da alcuni fratelli abbiamo appreso che alcuni prigionieri che tornano liberi alle loro case – e che erano caduti in cattività in un’età in cui non potevano avere una conoscenza sicura di nulla – chiedono il rimedio del Battesimo, ma non possono ricordarlo, a causa dell’ignoranza dovuta alla loro infanzia, se hanno ricevuto il mistero di questo Battesimo e dei Sacramenti, e che per questo motivo, a causa di questa memoria nascosta, le loro anime sono in pericolo perché, con il pretesto della precauzione, la grazia non viene concessa perché si pensa che sia già stata concessa. Poiché per questo motivo il timore di alcuni fratelli, non senza ragione, ha esitato a concedere a tali persone i sacramenti del mistero del Signore, abbiamo ricevuto, come abbiamo detto, questa richiesta formale… Innanzitutto, dobbiamo stare attenti a non danneggiare le anime da rigenerare aggrappandoci all’apparenza della prudenza. Infatti, chi sarà così attaccato alle sue supposizioni da affermare come vero ciò che – non essendoci più prove – è supposto solo a causa di un’opinione dubbia? Pertanto, se colui che desidera la rigenerazione non ricorda di essere stato battezzato, né un altro può testimoniarlo, perché non sa se sia stato santificato, non c’è nulla che permetta al peccato di insinuarsi, perché su questo punto della sua coscienza né colui che è santificato né colui che santifica è colpevole. Certamente sappiamo che è un crimine inescusabile quando qualcuno, secondo le pratiche degli eretici condannate dai santi Padri, è costretto a sottoporsi due volte al Battesimo che è stato concesso una sola volta a coloro che devono essere rigenerati; perché questo è contrario alla dottrina cattolica che ci proclama una sola divinità nella Trinità, una sola confessione nella fede, un solo sacramento nel Battesimo Ef. IV, 5. Ma in questo caso non c’è nulla da temere, perché non si può incorrere nella decadenza del diritto di voto. reiterazione quando non si sa affatto se sia stato fatto…

320. – (2) Ma se si dovesse accertare che qualcuno sia stato battezzato da eretici, il Sacramento della rigenerazione non deve essere in alcun modo ripetuto per lui, e gli deve essere conferito solo ciò che gli mancava: che con l’imposizione delle mani del Vescovo ottenga il potere dello Spirito Santo.

321-322. Lettera “Epistolas fraternitatis” al Vescovo Rusticus di Narbonne, 458

Il carattere obbligatorio dei voti religiosi.

321 – (Domanda 14) La risoluzione di un monaco, presa per sua decisione o volontà, non può essere abbandonata senza peccato. Infatti, ciò che una persona promette a Dio, deve anche adempiere, Dt XXIII, 21 Sal L, 14. Perciò chi ha rinunciato alla promessa di solitudine e si è dato al servizio armato o al matrimonio deve purificarsi soddisfacendo la penitenza pubblica, perché se il servizio armato può essere privo di male e il matrimonio onesto, è una trasgressione aver rinunciato alla scelta di ciò che è meglio.

322 – (Domanda 15) Se le ragazze, che non siano state costrette da un comandamento dei genitori, ma che abbiano preso per libera decisione la risoluzione e l’abito della verginità, scelgono poi il matrimonio, peccano, anche se non vi è ancora stata aggiunta alcuna consacrazione.

Lettera “Magna indignatione” a tutti i vescovi della Campania, ecc., 6 marzo 459.

323 La confessione segreta (Cap. 2) Ordino che questa audacia contraria alla regola apostolica, commessa da alcuni, come ho appreso di recente, per usurpazione illecita, debba assolutamente essere eliminata. Per la penitenza che i fedeli chiedono, non si legga pubblicamente uno scritto in cui sono dettagliati i loro peccati, poiché è sufficiente indicare ai soli Sacerdoti con una confessione segreta la colpa delle coscienze. Senza dubbio appare lodevole questa fede totale che, per timore di Dio, non teme di arrossire davanti agli uomini; tuttavia – poiché i peccati di tutti coloro che chiedono penitenza non sono tali da temere che vengano resi pubblici – tale usanza impopolare sarà abolita, cosicché molti non saranno trattenuti dai rimedi della penitenza finché arrossiranno o temeranno che le loro azioni vengano rivelate ai loro nemici e per le quali, secondo le disposizioni della legge, potranno essere puniti. Infatti, è sufficiente che questa confessione sia fatta prima davanti a Dio e poi anche davanti al Sacerdote, che si presenta come intercessore per i peccati dei penitenti. Infine, molti possono essere portati alla penitenza se la coscienza di chi confessa il proprio peccato non viene resa pubblica alle orecchie del popolo.

Statuta Ecclesiae Antiqua, metà o fine del V secolo.

L’esame di fede prima dell’ordinazione episcopale

325 – Colui che deve essere ordinato Vescovo deve essere esaminato prima per vedere se… se è prudente nella comprensione delle Scritture, se ha esperienza dei dogmi della Chiesa e, soprattutto, se afferma con parole semplici gli insegnamenti della fede, cioè confermando che il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo siano un solo Dio e insegnando che tutta la Divinità nella Trinità è della stessa essenza, sostanza, eternità e onnipotenza; se confessa che ciascuna delle Persone nella Trinità è pienamente Dio e tutte e tre le Persone sono un solo Dio; se crede che l’incarnazione divina è avvenuta non nel Padre né nello Spirito Santo, ma solo nel Figlio, in modo che egli, che nella Divinità era il Figlio di Dio Padre, divenne nell’uomo il Figlio Di sua madre, vero Dio dal Padre e vero uomo dalla madre, prendendo carne dal grembo e un’anima umana ragionevole; in Lui sono presenti entrambe le nature, quella di uomo e quella di Dio, ed Egli è una sola Persona, un solo Figlio, un solo Cristo, un solo Signore, il Creatore di tutto ciò che è, con il Padre e lo Spirito Santo l’Autore e il Signore e il Creatore (colui che governa) di tutte le creature; che ha sofferto le vere sofferenze della carne, che è morto alla vera morte del corpo, ed è risorto con la vera risurrezione della carne e la vera ripresa dell’anima, nella quale verrà a giudicare i vivi e i morti. Bisogna anche chiedergli se creda che l’autore e il Dio del Nuovo e dell’Antico Testamento, cioè della Legge, dei Profeti e degli Apostoli, sia uno solo; se crede che il diavolo non sia diventato cattivo a causa della sua condizione, ma liberamente. – Dobbiamo anche chiedergli se crede nella risurrezione di questa carne che portiamo e non di un’altra; se crede in un giudizio a venire e che ognuno riceverà la punizione o la gloria per ciò che ha fatto in questa carne; se non disapprovi il matrimonio; se non condanni il nuovo matrimonio; se non biasimi il consumo di carni; se riceva nella comunione i peccatori riconciliati; se creda che nel Battesimo tutti i peccati, cioè sia quelli contratti in origine sia quelli commessi volontariamente, siano perdonati; se al di fuori della Chiesa Cattolica nessuno si salva. Quando, dopo essere stato esaminato su tutti questi punti, sarà risultato pienamente istruito, allora, con il consenso del clero e dei laici, e riuniti tutti i Vescovi della provincia, … sia ordinato Vescovo.

L’imposizione delle mani, il segno esterno dell’ordinazione.

326 – Ricapitolazione dell’ordinazione di coloro che hanno un ufficio nella Chiesa: Can. 90 (2). Quando un Vescovo viene ordinato, due Vescovi pongano e tengano il libro dei Vangeli sul suo collo (testa), e mentre uno dice la benedizione su di lui, tutti gli altri Vescovi presenti devono toccargli la testa con le mani.

327Can. 91 (3). Quando un presbitero viene ordinato, mentre il vescovo lo benedice e tiene le mani sul suo capo, anche tutti gli altri presbiteri presenti devono tenere le mani sul suo capo accanto a quelle del vescovo.

328Can. 92 (4). Quando un diacono viene ordinato, solo il vescovo che lo benedice deve porre le mani sul suo capo, perché non è sacro al sacerdozio ma al ministero.

329Can. 93 (5). Quando viene ordinato un suddiacono, poiché non riceve l’imposizione delle mani, riceverà dalla mano del Vescovo la patena e il calice vuoti. Ma riceverà dalla mano dell’arcidiacono l’anfora con l’acqua, il bacile e il manutergio.

ILARIO: 19 novembre 461-29 febbraio 46.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (7) “Da Simplicio a Giovanni I”

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – “Pastoralis officii”

Questa lettera Enciclica di S.S. Leone XIII è rivolta a sopprimere definitivamente la disdicevole pratica, un tempo diffusa, del duello. C’è in essa una frase che può essere riferita ad ogni tentativo di lesione od omicidio – di qualunque tipo –  nei confronti di esseri umani «…. è assodato infatti che entrambe le leggi divine, sia quella che è stata proposta con il lume della ragione, sia quella che è stata promulgata con gli scritti divinamente ispirati, vietano a chiunque, nel modo più assoluto, di uccidere o di ferire un uomo in assenza di un giusto motivo pubblico, a meno che non vi sia costretto dalla necessità di difendere la propria vita. » Nei tempi attuali fortunatamente questi duelli, più o meno d’onore, si sono pressoché azzerati, per merito soprattutto dell’azione efficace della Chiesa, ma sono comparsi altri tipi di lesioni od omicidi dai quali difendersi, sotto il pretesto di terapie mediche o dei cosiddetti “sieri genici” che sono dei veri tentativi di omicidio o di lesioni gravi a cui vengono sottoposti ignari cittadini convinti di curarsi con presidii che di medico e di scientifico nulla hanno, se non i referti delle autopsie agli obitori (quando permesse). Quindi, se a nessuno è permesso di attentare alla integrità fisica di un essere umano, è altrettanto giusto resistere alla somministrazione, o inoculazione che si voglia, di sostanze o pseudo-medicamenti che si conosce per certo, o quanto meno con attendibile dubbio, da fonti sanitarie ufficiali di molti Paesi, essere forieri di danni ingenti per la salute, spesso generando condizioni irreversibili o mortali. Difendere qui la propria vita, significa ora, non mettere nel fodero spade o pistole, ma evitare accuratamente ogni pseudo-terapia o siero preteso, almeno nel sospetto di poter generare danni senza avere nel contempo alcun effetto terapeutico certamente valido. Tutto questo, regola elementare di ogni deontologia medica, trova conferma indiretta nel Magistero ecclesiastico con questa lettera Enciclica, anche se i suoi fini ultimi riguardano il duello, ma la sostanza prossima è la stessa: la salvaguardia della vita umana. Qui abbiamo ben altro duello, quello tra popoli inermi ed ingannati, e famelici ladri – soprattutto quelli in talare usurpata nera o bianca – di corpi e di anime pronti ad avventarsi sugli agnelli già votati (da essi) al macello. Preghiamo col vero legittimo Santo Padre perché il Signore allontani da noi quest’altro castigo che colpisce – e sembra continuerà a colpire – chi si è allontanato dal Cristo e dalla sua Chiesa, ritenendosi salvato e tutelato da una falsa scienza materialista e senz’anima.

Leone XIII
Pastoralis officii

Lettera Enciclica

Mossi dalla consapevolezza del dovere pastorale e dall’amore del prossimo, con le lettere a Noi indirizzate nello scorso anno vi siete proposti d’informarci sul frequente ricorso, fra la vostra gente, a quei particolari combattimenti che prendono il nome di duelli. Con espressioni di dolore mettevate in evidenza che codesto tipo di combattimento, quasi fosse un diritto consacrato dalla consuetudine, viene praticato anche fra i Cattolici; nello stesso tempo chiedevate che anche la Nostra voce s’impegnasse per distogliere gli uomini da un simile, riprovevole comportamento. Certamente codesta aberrazione è oltremodo dannosa, e non si ferma entro i confini delle vostre popolazioni, ma si spinge ben più lontano, tanto che risulta difficile trovare un popolo immune da questo male. Apprezziamo pertanto il vostro impegno e, quantunque sia noto e risaputo ciò che il pensiero cristiano, in pieno accordo con la natura razionale, dispone al riguardo, è opportuno ed utile che per mezzo Nostro esso sia riproposto brevemente, dal momento che questa malvagia prassi dei duelli è particolarmente favorita dalla dimenticanza dei precetti Cristiani. – È assodato infatti che entrambe le leggi divine, sia quella che è stata proposta con il lume della ragione, sia quella che è stata promulgata con gli scritti divinamente ispirati, vietano a chiunque, nel modo più assoluto, di uccidere o di ferire un uomo in assenza di un giusto motivo pubblico, a meno che non vi sia costretto dalla necessità di difendere la propria vita. Coloro invece che provocano un combattimento privato o ne accettano la proposta, lo fanno, e indirizzano la mente e le forze a questo fine, senza esservi costretti dalla necessità, per uccidere, o almeno per ferire, l’avversario. Le due leggi divine citate proibiscono anche ad ogni uomo di mettere a repentaglio la propria vita, esponendosi ad un grave ed evidente pericolo, senza alcuna giustificazione riconducibile al dovere o alla carità eroica. Questa cieca temerarietà, che è disprezzo della vita, si ravvisa intera nella natura del duello. – Nessuno può quindi essere all’oscuro o dubitare che coloro che partecipano ad un combattimento privato sono rei del duplice delitto dell’altrui rovina e del volontario pericolo della propria vita. – Non vi è infine alcun’altra calamità che contrasti maggiormente con le norme della vita civile e che sconvolga il legittimo ordine della società, quanto il concedere ai cittadini la facoltà di avere in proprio la forza e il potere di tutelare il proprio diritto e di vendicare una presunta violazione dell’onore. – Per queste ragioni la Chiesa di Dio, custode e garante sia della verità come della giustizia e dell’onore, nel cui armonioso intreccio sono contenuti la pace e l’ordine pubblico, non ha mai tralasciato di riprovare con forza, e di colpire con le maggiori pene possibili, i rei di combattimento privato. – Le Costituzioni di Alessandro III, Nostro predecessore, inserite nei libri del Diritto canonico, condannano e respingono come esecrabili questi combattimenti privati. Il Sinodo Tridentino si indirizzò, con una straordinaria severità di pene, contro tutti coloro che li sostenevano o in qualunque modo vi partecipavano e, oltre a tutto questo, li bollò anche con il marchio dell’infamia, li giudicò estromessi dal seno della Chiesa e quindi, se fossero caduti in combattimento, indegni dell’onore della sepoltura ecclesiastica. Il Nostro predecessore Benedetto XIV ampliò e chiarì le sanzioni del Tridentino nella Costituzione promulgata il 10 novembre 1752 che inizia Detestabilem. In tempi assai più recenti Pio IX, di felice memoria, nella Lettera Apostolica Apostolicae Sedis che riduce di numero le censure “latae sententiae”, dichiarò senza mezzi termini che le pene ecclesiastiche colpiscono non solo quelli che si affrontano in duello, ma anche i cosiddetti padrini, i testimoni e coloro che ne sono al corrente. – La saggezza di queste disposizioni risulta ancora più evidente, se si considera l’inadeguatezza degli argomenti che si è soliti addurre per difendere e per giustificare l’inumana prassi del duello. Infatti ciò che viene ripetuto fra la gente, cioè che questi combattimenti sono per loro natura destinati a lavare le macchie che l’altrui calunnia, o l’insulto, ha gettato sull’onore dei cittadini, è tale da poter trarre in inganno soltanto lo stolto. Ammesso pure che esca vincitore dal combattimento colui che lo ha voluto a motivo dell’ingiuria ricevuta, il giudizio di tutte le persone assennate sarà questo: dall’esito di questo scontro è accertato che lo sfidante è sicuramente migliore nella lotta o nel maneggio delle armi, ma non è certo superiore per nobiltà d’animo. E se lo stesso vi troverà la morte, a chi non risulterà dissennato un simile modo di difendere l’onore? Pensiamo siano veramente pochi quelli che commettono questo delitto ingannati dal falso ragionamento. – È sempre il desiderio di vendetta che spinge le persone superbe e crudeli a chiedere la pena. Se, al contrario, frenassero la superbia dell’animo e volessero sottomettersi a Dio (che comanda agli uomini di amarsi con sentimenti fraterni, vieta di commettere violenza verso gli altri, condanna nel modo più assoluto la bramosia della vendetta nei privati cittadini e avoca unicamente a sé il potere di stabilire le pene) si allontanerebbero senza fatica dalla barbara consuetudine dei duelli.

Neppure può fornire una valida giustificazione – a coloro che accettano la proposta del combattimento – il timore di essere considerati vili se non accettano la sfida. Infatti, se gli obblighi delle persone dovessero essere misurati in base alle fallaci convinzioni del volgo e non all’immutabile norma del bene e del giusto, non vi sarebbe alcuna sostanziale e vera distinzione fra le azioni oneste e quelle malvagie. Anche i saggi pagani ritennero e tramandarono che le ingannevoli convinzioni del volgo dovessero essere disprezzate dall’uomo forte e fermo di carattere. Al contrario è giusto e santo il timore che trattiene l’uomo da un’ingiusta uccisione, e lo fa essere preoccupato della propria vita e di quella dei fratelli. Chi disprezza gl’inconsistenti giudizi del volgo, e preferisce subire i colpi delle ingiurie piuttosto che venire meno al proprio dovere, viene giudicato di animo migliore e più elevato di chi fa ricorso alle armi quando è colpito da un insulto. Anzi, se lo si volesse definire con un giudizio rispondente al vero, è il solo che mette veramente in luce quella fortezza che merita il nome di virtù ed al quale spetta un onore non simulato e ingannevole. La virtù, infatti, consiste nel bene coerente con la ragione: il buon nome che non trova riscontro nell’approvazione di Dio è del tutto insensato. Da ultimo, è così evidente la turpitudine del duello, anche se gode dell’approvazione e del sostegno di molti, da indurre pure i legislatori del nostro tempo a reprimerlo con la forza del pubblico potere e con l’imposizione di pene. Ed è oltremodo pericoloso e fuorviante che, nella realtà, le leggi scritte vengano disattese, e che ciò si verifichi spesso sotto gli occhi e nel silenzio di chi ha il dovere di punire i colpevoli e di far rispettare la legge. E così avviene che, un po’ alla volta, diventa possibile arrivare impunemente agli scontri privati nel disprezzo della maestà delle leggi. – È inoltre altrettanto infondata e indegna di una persona saggia l’opinione di coloro che, mentre ritengono sia necessario impedire questo genere di combattimento ai civili, sono tuttavia del parere di permetterlo ai militari, perché con tale pratica si potenzia il valore dei soldati. Si deve anzitutto precisare che gli atti onesti e quelli disonesti sono differenti per natura, né possono cambiar di genere, in alcun modo, a seconda dello stato delle persone. Tutti gli uomini senz’ombra di dubbio, qualunque sia la loro condizione di vita, sono soggetti, in pari misura, alle leggi naturale e divina. La ragione di quest’indulgenza nei confronti dei militari potrebbe essere ricercata nella pubblica utilità, ma questa non potrà mai essere di tale importanza da soffocare, per poterla perseguire, la voce del diritto naturale e divino. Che altro, quando la stessa giustificazione dell’utilità si rivela apertamente infondata? Infatti i mezzi per accrescere il valore militare hanno lo scopo di rendere la società più preparata ad opporsi ai nemici. Sarà forse possibile ottenere ciò ricorrendo ad una consuetudine che, per sua natura, in presenza di un contrasto sorto tra militari (e non sono rare le cause che lo provocano) finisce con la morte di uno dei due difensori della patria? Da ultimo, il nostro tempo, che si vanta di superare di gran lunga i secoli passati in forza di una civiltà più umana e della raffinatezza dei costumi, si è assuefatto a tenere in scarsa considerazione le antiche consuetudini e a respingere tutto ciò che non si accorda con lo stile di vita dell’odierna sensibilità. Per quale motivo allora, in questa pretesa di così alta civiltà, si trattiene dal respingere questa ignobile reliquia del passato, qual è l’usanza del duello? – Sarà vostro compito, Venerabili Fratelli, inculcare con ogni cura, negli animi dei vostri popoli, le cose che Noi abbiamo succintamente trattate, perché non accettino su questo punto, in modo irresponsabile, le false opinioni, e non permettano di lasciarsi trascinare dal giudizio degli stolti. Ciascuno di voi operi perché i giovani maturino la convinzione di dover valutare e giudicare il duello in sintonia con la filosofia naturale, come lo valuta e lo giudica la Chiesa, e di trarre da tale pensiero una norma costante di azione. Anzi, come già si è consolidata in certi luoghi la prassi che i cattolici, in modo particolare i giovani, si impongono spontaneamente di non iscriversi mai ad associazioni moralmente riprovevoli, allo stesso modo riteniamo opportuno e assai utile che diano vita ad una specie di patto, con la promessa di non cimentarsi mai, e per nessun motivo, in un duello. – Chiediamo a Dio, con accenti di supplica, di rendere efficaci, con la sua potenza, i nostri comuni sforzi e di concedere benignamente quanto desideriamo per l’integrità dei costumi e della vita cristiana. Auspice poi dei divini favori e, in pari tempo, della Nostra benevolenza, con i sentimenti del più vivo affetto nel Signore, impartiamo a voi, Venerabili Fratelli, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 12 settembre 1891, quattordicesimo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA II DOPO PASQUA (2023)

DOMENICA II DOPO PASQUA (2023)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

Questa Domenica è chiamata la Domenica del Buon Pastore (Questa parabola fu da Gesù pronunziata il terzo anno del suo ministero pubblico allorché, alla festa dei Tabernacoli, aveva guarito a Gerusalemme il cieco nato. Questi è dai Giudei cacciato dalla Sinagoga, ma Gesù gli offre la sua Chiesa come asilo e paragona i farisei ai falsi pastori che abbandonano il loro gregge). Infatti, San Pietro, che Gesù risuscitato ha costituito capo e Pastore della sua Chiesa, ci dice nell’Epistola che Gesù Cristo è il pastore delle anime, che erano come pecore erranti. Egli è venuto per dare la propria vita per esse ed esse gli si sono strette intorno. Il Vangelo ci narra la parabola del Buon Pastore che difende le pecore contro gli assalti del lupo e le preserva dalla morte (Or.), e annunzia pure che i pagani si uniranno agli Ebrei dell’Antica Legge e formeranno una sola Chiesa e un solo gregge sotto un medesimo Pastore. Gesù le riconosce per sue pecorelle ed esse, come i discepoli di Emmaus « i cui occhi si aprirono alla frazione del pane » (Vang., 1° All., S. Leone, lezione V), riconoscono a loro volta, all’altare ove il Sacerdote consacra l’Ostia, memoriale della passione, che Gesù « il Buon Pastore che ha dato la sua vita per pascer le pecorelle col suo Corpo e col suo Sangue » (S. Gregorio, lezione VII). Levando allora il loro sguardo su Lui (Off.), esse gli esprimono la loro riconoscenza per la sua grande misericordia (Intr.). « In questi giorni, dice S. Leone, lo Spirito si è diffuso su tutti gli Apostoli per l’insufflazione del Signore e in questi giorni il Beato Apostolo Pietro, innalzato sopra tutti gli altri, si è sentito affidare, dopo le chiavi del regno, la cura del gregge del Signore » (2° Notturno). È questo il preludio alla fondazione della Chiesa. Stringiamoci dunque intorno al divino Pastore delle anime nostre, nascosto nell’Eucarestia, e di cui il Papa, Pastore della Chiesa universale, è il rappresentante visibile.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XXXII: 5-6. Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja.

[Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Ps XXXII: 1. Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.

[Esultate, o giusti, nel Signore: ai buoni si addice il lodarlo.]

Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja.

[Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúja: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Deus, qui in Filii tui humilitate jacéntem mundum erexísti: fidelibus tuis perpétuam concéde lætítiam; ut, quos perpétuæ mortis eripuísti casibus, gaudiis fácias perfrui sempitérnis.

[O Dio, che per mezzo dell’umiltà del tuo Figlio rialzasti il mondo caduto, concedi ai tuoi fedeli perpetua letizia, e coloro che strappasti al pericolo di una morte eterna fa che fruiscano dei gàudii sempiterni].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. [1 Petri II: 21-25]

Caríssimi: Christus passus est pro nobis, vobis relínquens exémplum, ut sequámini vestígia ejus. Qui peccátum non fecit, nec invéntus est dolus in ore ejus: qui cum male dicerétur, non maledicébat: cum paterétur, non comminabátur: tradébat autem judicánti se injúste: qui peccáta nostra ipse pértulit in córpore suo super lignum: ut, peccátis mórtui, justítiæ vivámus: cujus livóre sanáti estis. Erátis enim sicut oves errántes, sed convérsi estis nunc ad pastórem et epíscopum animárum vestrárum.

[Caríssimi: Cristo ha sofferto per noi, lasciandovi un esempio, affinché camminiate sulle sue tracce. Infatti, Egli mai commise peccato e sulla sua bocca non fu trovata giammai frode: maledetto non malediceva, maltrattato non minacciava, ma si abbandonava nelle mani di chi ingiustamente lo giudicava; egli nel suo corpo ha portato sulla croce i nostri peccati, affinché, morti al peccato, viviamo per la giustizia. Mediante le sue piaghe voi siete stati sanati. Poiché eravate come pecore disperse, ma adesso siete ritornati al Pastore, custode delle anime vostre].

In queste due parole « mors et vita » si compendia tutta la storia dell’umanità, individua e sociale. Due parole che si integrano a vicenda pur sembrando diametralmente contrarie, parole la cui sovrana importanza dal campo fisiologico si riverbera nel mondo spirituale. Che cosa è il Cristianesimo? Dottrina di vita, o dottrina di morte? Amici e nemici hanno agitato il problema, delicato e difficile anche per la varietà dei suoi aspetti, grazie ai quali quando fu imprecato al Cristianesimo dai neo pagani, come a dottrina velenosa e deprimente di morte, si poté rispondere e si rispose da parte nostra, rivendicando al Cristianesimo l’amore, il culto della vita; e quando invece da noi si esalta la dinamica vitale del Cristianesimo, si poté e si può dagli avversari rammentare tutto un insieme cristiano di austere parole di morte. La soluzione dell’enigma ce la dà San Pietro nella Epistola odierna. Il Cristianesimo è tutto insieme un panegirico di vita e un elogio di morte; ci invita a respirare la vita a larghi polmoni, ci invita ad accettare quel limite immanente della vita che è la morte. Tutto sta nel determinare bene: a che cosa dobbiamo morire per essere Cristiani? e a che cosa dobbiamo rinascere? Ce lo dice San Pietro in due parole dopo averci rimesso davanti l’esempio di N. S. Gesù Cristo, che prese sopra di sé i nostri peccati, espiandoli in « corpore suo super lignum. » Noi Cristiani dobbiamo morire al peccato, vivere alla giustizia. Morire al peccato, come chi dicesse morire alla morte, negare la negazione. Negare la negazione è la formula scultoria della affermazione. Morire alla morte è formula di vita…. e noi dobbiamo morire al peccato, cominciando dal convincerci che il peccato è morte, e che quindi si vive davvero morendo a lui. Purtroppo, il grande guaio è la riputazione che il peccato si è venuto usurpando. Il male morale si è usurpato una fama di cosa viva e vivificatrice. Noi viviamo, dicono con orgogliosa e fatua sicurezza quelli che si godono la vita e cioè la sfruttano, la sciupano, quelli che lasciano la briglia sciolta a tutte le passioni, non escluse le più vergognose e mortifere. Noi viviamo, dicono i seguaci del mondo; i loro divertimenti, le loro dissipazioni, i loro giochi, i loro folli amori, le loro vanità gonfie e vuote, tutto questo chiamano vita, esaltano come se fosse veramente tale. E della vita tutto questo simula le apparenze. Ma è febbre, calore sì, ma calore morboso; troppo calore… anche il precipitare è un moto, ma chi vorrebbe muoversi a quel modo? Chi vorrebbe considerare come forma classica di moto il precipitare, la corsa pazza d’una automobile priva dei suoi freni? Così si muovono, così vivono i mondani. A guardar bene, sono come quei prodighi che vivono mangiando il capitale. Bella forma di economia! Il peccato ci logora, ci sciupa; è usura, logoramento delle nostre risorse più vitali. Così in realtà chi vive nel peccato, muore ogni giorno più alla vera vita. Chi folle, persegue l’errore, atrofizza, a poco a poco, quella capacità di rintracciar il vero che solo merita il nome di intelligenza, di vita intellettuale. Chi ama il fango, la materia, paralizza, a poco a poco, quella capacità di amare spiritualmente che è la vera forma di amare. Il programma della nostra vita cristiana deve essere un altro, tutt’altro; vivere per la giustizia. Gesù Cristo voleva che la giustizia fosse per noi cibo e bevanda. Beati quelli e solo quelli che hanno fame e sete di giustizia. Questo ardore per la giustizia è nell’uomo vita vera e duratura. Parola sintetica quella parola giustizia: tutto ciò che è diritto, che è vero, che è alto, che è dovere nostro, volontà di Dio. In questo mondo superiore devono appuntarsi le nostre volontà, dirigersi i nostri sforzi. Lì è vita, la forza, l’entusiasmo, la gioia vera, umana. Il Cristianesimo ci ha fatto sentire la nostra vocazione autentica. Siamo una razza divina. Le razze inferiori possono vivere di cose basse: le superiori solo di cose alte. Razza divina, noi abbiamo bisogno proprio di questo cibo divino che è la giustizia. Di questo, con questo viviamo. Senza di esso, fuori di esso è la morte.

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Alleluja

Allelúja, allelúja Luc XXIV: 35.

Cognovérunt discípuli Dóminum Jesum in fractióne panis. Allelúja

[I discepoli riconobbero il Signore Gesú alla frazione del pane. Allelúia].

Joannes X: 14. Ego sum pastor bonus: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ. Allelúja.

[Io sono il buon Pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Joánnem.

Joann X: 11-16.

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis: Ego sum pastor bonus. Bonus pastor ánimam suam dat pro óvibus suis. Mercennárius autem et qui non est pastor, cujus non sunt oves própriæ, videt lupum veniéntem, et dimíttit oves et fugit: et lupus rapit et dispérgit oves: mercennárius autem fugit, quia mercennárius est et non pértinet ad eum de óvibus. Ego sum pastor bonus: et cognósco meas et cognóscunt me meæ. Sicut novit me Pater, et ego agnósco Patrem, et ánimam meam pono pro óvibus meis. Et alias oves hábeo, quæ non sunt ex hoc ovili: et illas opórtet me addúcere, et vocem meam áudient, et fiet unum ovíle et unus pastor”.

(“In quel tempo Gesù disse ai Farisei: Io sono il buon Pastore. Il buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle. Il mercenario poi, o quei che non è pastore, di cui proprie non sono le pecorelle, vede venire il lupo, e lascia lo pecorelle, e fugge; e il lupo rapisce, e disperde le pecorelle: il mercenario fugge, perché è mercenario, e non gli cale delle pecorelle. Io sono il buon Pastore; e conosco le mie, e le mie conoscono me. Come il Padre conosce me, anch’io conosco il Padre: e do la mia vita per le mie pecorelle. E ho dell’altre pecorelle, le quali non sono di questa greggia: anche queste fa d’uopo che io raduni: e ascolteranno la mia voce, e sarà un solo gregge e un solo pastore”.)

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

LO ZELO DELLE ANIME

Gesù si trovò in mezzo ai Farisei. Contro questa gente bianca di fuori e nera di dentro; contro questa gente larga di parole e stretta di cuore; contro questa gente che aveva scacciato dalla sinagoga il giovanetto nato cieco solo perché voleva bene a Colui che l’aveva guarito, Gesù disse la parabola della sua bontà. « Io sono il buon Pastore! Non sono io come il negoziante o come il servo che mena a pasturare un branco non suo: costoro, se un lupo assalta le pecore, fuggono e lasciano che la belva azzanni or questa or quella, scavi all’una un fianco e all’altra la gola e semini la sanguinosa strage in tutto il gregge. Si capisce come costoro fuggano: ad essi importa poco delle pecore, ma tanto della propria pelle e della propria borsa. Ma io no; Io sono il buon Pastore! Io le conosco, le mie pecorelle, ad una ad una, come un padre conosce i suoi figliuoli ed esse conoscono me e distinguono la mia voce quando le chiamo. Tutta la mia vita sacrifico per loro, ed è per loro che morirò ». – Poi la sua voce si fece mestissima. Nella sua mente, passava il pensiero di tutte quelle anime che non l’avrebbero conosciuto o l’avrebbero misconosciuto; e lanciò un grido appassionato: « Oh! quante pecore non sono ancora nel mio ovile? Eppure è necessario ch’Io vada a prenderle e faccia loro udire la mia voce e le conduca aformare un solo ovile sotto un solo pastore. Il Pastore buono sono io ». Et alias oves habeo quæ non sunt ex hoc ovili.Queste parole accorate Gesù le ripete oggi ancora a ciascuno di noi; perché oggiancora sono troppe le anime che non ascoltano la sua voce di salvezza, ma vannodietro ai lusinghevoli richiami del mercenario che le lascerà poi sgozzare dal lupo.Il mercenario è il mondo e il lupo è il demonio. Et alias oves habeo quæ non sunt ex hoc ovit. Ed a ciascuno di noi incombe l’obbligo di fare tutto quello che può per ricondurre queste pecore all’ovile di Cristo. Lo zelo delle anime non riguarda appena i Sacerdoti, ma tutti i Cristiani. Èimpossibile voler bene a Gesù che nacque, visse e morì per la salvezza delle anime, senza sentirci obbligati di far qualche cosa anche noi. Udite quello che lo Spirito Santo comanda indifferentemente a ciascuno: « Recupera proximum secundum virtutem tuam » (Eccl., XXIX, 27). Attendi a conquistare l’anima del tuo prossimo secondo i tuoi mezzi. E nessuno dica, osserva San Gregorio (Hom., VI in Evang.) di non esserne capace, di non averne il tempo o di non esserne obbligato, poiché precetto dell’amore è l’essenza della religione, e l’amore comincia dalle anime.Ma un’altra considerazione ci manifesterà l’obbligo di zelare la salvezza delle anime. Non avete mai scandalizzato nessuno? Pensate un poco quanti perversi consigli vi saranno usciti di bocca a danno altrui, quanti cattivi esempi, quante parole libere o blasfeme avete sparso in giro a voi. E intanto strappaste a Dio delle anime: ora bisogna restituirgliele. Animam pro anima (Lev., XXIV, 18). Ecco come ci tocca da vicino il grido che Gesù leva dalla sua parabola: « Oh quante anime non sono ancora del mio ovile! eppure bisogna che vengano… ». Sono anime lontane, in regioni selvagge, dove il missionario non è ancora giunto; sono anime vicine a noi, nelle nostre città, nei nostri paesi, che non avendo udito il richiamo del buon Pastore si sono lasciate sedurre dal mercenario; sono forse le anime della nostra famiglia, che mangiano insieme a noi, che dormono sotto il nostro tetto. Per tutte queste anime, Gesù ci chiama a far qualche cosa. – 1. PER LE ANIME DELLE MISSIONI. Nell’estate del 1929 la nostra patria ed ogni nazione tendeva l’orecchio se arrivasse dalle zone polari una voce, un grido di speranza e d’angoscia. Un gruppo di valorosi, spinti dall’amore della patria e della scienza, fiduciosi nella Provvidenza divina, avevano osato violare le misteriose regioni del freddo e del ghiaccio: ma qualche cosa di triste doveva a loro essere accaduto, perché da più giorni avevano cessato di mandarci qualsiasi comunicazione. Tutti, perfino il Papa, nell’attesa angosciosa, tremavano e pregavano. Quand’ecco passare nell’aria, raccolta dalle stazioni radiotelegrafiche, una voce sperduta: «Italia: S.O.S.». Salvate le anime nostre! E tutta l’Italia, e tutto il mondo palpitò: da ogni parte si accorreva al soccorso, ogni uomo si commoveva come se avesse avuto un fratello smarrito tra la nebbia sul ghiaccio, ed ogni madre come se si trattasse di salvare il proprio figliuolo. O Cristiani, ogni giorno altre infinite voci passano nell’aria. Vengono dalle regioni dell’Africa arsa dal sole, vengono dalle foreste dell’Asia traversate da impetuose fiumane, vengono dall’America e dall’Australia circondate dall’oceano. « S.O.S.: salvate le anime nostre! ». Sono milioni e milioni di infedeli che non conoscono il buon Pastore, ed in mezzo a loro il lupo infernale, nelle maniere più barbare, semina la strage. Tratto tratto vi arriva qualche missionario, solo, senza mezzi: ma gli operai sono pochi e la messe è molta. E sono nostri fratelli, perché e noi e loro siamo tutti figli di un unico Padre: Dio che sta nei cieli. « Salvate le anime nostre dalla morte eterna! Salvatele dall’inferno di fuoco che brucia per l’eternità! ». Così essi gridano a noi: ma la loro voce angosciosa non è raccolta. Bisogna leggere i giornali e le riviste missionarie, per formarsi una idea di quello che si soffre laggiù: la profonda ignoranza, l’odio e la vendetta, le malattie inguaribili, i bambini abbandonati o uccisi, e tutta la schiavitù del demonio, il mercenario delle anime. Ma nelle nostre case forse la stampa missionaria non è conosciuta: arrivano romanzi cattivi, illustrazioni vergognose, ma non si trova il denaro per abbonarsi a un piccolo giornaletto delle Missioni. Non si trova una moneta d’elemosina per quei nostri Fratelli bisognosi di tutto, fin anco del Battesimo, mentre tanto si sciupa nelle golosità, nelle mode, nei divertimenti mondani. S. Teresa del Bambino Gesù, che non possedeva nulla da offrire alle Missioni, perché era carmelitana scalza nel convento di Lisieux, offriva le sue preghiere e i suoi sacrifici. E quando la stanchezza, o il dolore di testa, o la tosse della tisi la tormentava, « Coraggio, coraggio!» si diceva. « Forse in questo momento un Missionario si sente male sulla strada e non può più andare avanti… È per lui che soffro, perché cammini ancora ». E chi di voi può rifiutarsi di fare almeno questo per ricondurre all’ovile di Cristo quelle anime lontane? – 2. PER LE ANIME DELLE NOSTRE CONTRADE. Un giorno, nella capitale di Francia, un gruppo di giovani tra cui v’era, ventenne appena Federico Ozanam, discorrevano della bellezza della loro fede cattolica. Ma una persona di idee avverse che li ascoltava, disse: « Voi, che vi vantate Cattolici, che fate voi? Dove sono le opere che vi dimostrano tali, e che valgono a far rispettare la vostra credenza? ». « In verità — disse poi Ozanam — in quel rimprovero vi era pur troppo del vero, perché noi non facevamo nulla. Fu allora che noi dicemmo a noi stessi: ebbene, operiamo! Facciamo qualche cosa che sia consentaneo alla nostra fede. Ma che faremo noi? che potremo fare per essere veramente Cattolici, se non adoperarci in quello che più piace a Dio, la salvezza delle anime? ». Il medesimo rimprovero, e con più forza, può essere rivolto a moltissimi Cristiani: « Voi che vi vantate Cattolici, che fate voi? dove sono le vostre opere di zelo? ». È vero che non appartiene a voi far prediche, ma quante volte vi siete trovati in una conversazione dove si ordivano calunnie, si insidiava l’onestà, si meditava la vendetta, si tesseva la frode, si diffondeva l’incredulità, e non avete fatto nulla per trattenere queste anime dal male che si preparavano a compiere, anzi le avete sospinte più in là: Recupera proximum tuum secundum virtutem tuam! Sei tu una persona stimata e autorevole? Sei tu una persona ricca? Perché con le tue elargizioni non aiuterai le opere buone; e non solleverai la miseria di quelle persone che tu conosci in povertà? Sei il padrone di un’officina, il capo di un reparto: non permettere in tua presenza né la bestemmia, né i discorsi osceni. Sei commerciante: non aiutare gli altri nei furti e nelle frodi, ma cerca di distoglierli. Sei adulto: cerca col tuo esempio e con la tua parola di attirare i giovani a alla pratica della virtù. Hai degli amici ammalati? assistili, perché non abbiano ad aggravarsi senza ricevere il prete e i Sacramenti. E quando anche non potessi far niente per l’anima del tuo prossimo, puoi sempre pregare. La forma più bella di zelare la salute delle anime è quella d’iscriversi e operare nelle file dell’Azione Cattolica. – 3. LE ANIME DELLE NOSTRE FAMIGLIE. L’inverno rincrudiva con tutto il suo rigore e la neve era ben alta sui montani paesi dell’Umbria. In Cascia dove Rita, la santa, moriva, venne a trovarla una sua parente da Rocca Porrena, il paesello in cui era nata, in cui aveva tanto pregato, e moltissimo sofferto. Nell’accommiatarsi quella parente le chiese se desiderasse qualche cosa. « Sì – rispose Rita – andate nell’orto della mia casa, cogliete una rosa e portatemela ». Sembrò strana alla visitatrice la richiesta della parente, s’era nel colmo dell’inverno e le campagne del paese nativo, chiuso tra i burroni e privo di sole, erano d’uno squallore senza pari. Temette la donna che la malattia avesse alienato la mente di Rita, e compiangendola tra sé, se ne tornò al paese. Giuntavi, più per curiosità che peraltro, si reca nell’orticello e scorge nel roseto una rosa, splendidamente fiorita. La coglie commossa, e ritorna a Cascia. La morente accolse tra le scarne dita quel fiore e levando gli occhi grandi al Cielo, ringraziò. Dio così la premiava. A diciotto anni, contro il suo desiderio che era di consacrarsi al Signore, i suoi genitori l’avevano sposata a un uomo bestiale e furioso. Ogni giorno, rovesciava sulla sua testa una bufera di bestemmie, di parole ingiuriose, e talvolta di percosse. Ma ella, lungi dal comportarsi come tante altre spose rintuzzando le ingiurie di lui con altrettante ingiurie, cercò di vincere il male col bene: si dedicò allo scrupoloso adempimento delle domestiche faccende; alle parole aspre rispondeva dolcemente, e più spesso taceva; alle percosse faceva riscontro con tenerezze e la preghiera. E così per anni e anni. Finalmente Dio le concesse la grazia: Ferdinando, il suo Sposo, si convertì, e divenne mite e si sforzò sempre d’essere degno della sua compagna. Questa era la rosa che la sua dolce umiltà e la sua grande pazienza avevano fatto fiorire. Entrando in Paradiso la santa avrà presentato a Gesù la rosa fiorita nell’orto domestico tra i rigori dell’inverno, come il dono più bello. Può darsi che anche nelle altre famiglie ci sia qualche anima lontana da Dio. Può darsi che anche nelle nostre famiglie ci sia qualche anima lontana da Dio. Forse è lo sposo collerico e ubriacone; forse è un figliuolo scioperato e vizioso; forse è il fratello bestemmiatore e senza fede. Tocca a noi imitare quello che Rita da Cascia fece per il suo sposo Ferdinando. quello che Monica fece per Agostino suo figliuolo. Morendo, anche noi, nelle mani tremule e pallide stringeremo una rosa simbolica: la rosa fiorita fuor di stagione nell’orticello di casa nostra. – Uscendo dal palazzo, avanti l’alba, il papa Gregorio Magno incespicò in un cadavere disteso sulla soglia. Era un povero uomo, morto di freddo. «Io dormivo, mentre potevo aprirgli e salvarlo. Forse avrà bussato ripetutamente con mano sempre più stanca, forse m’avrà chiamato con voce sempre più fioca… ed è morto » pensò fra sé Gregorio Magno. Il Papa allora, si curvò sul cadavere e scoppiò a piangere, come un fanciullo, dirottamente. Lontane da noi, vicino a noi, sulla soglia della nostra casa, ci sono forse anime che muoiono nel peccato. Ogni giorno il mercenario abbandona al lupo infinite pecore. E noi potremmo salvarle: una parola, una preghiera, un’offerta, il buon esempio. Ma noi dormiamo e il demonio trionfa. Perché non dobbiamo commuoverci? Perché non dobbiamo sentire il singhiozzo salirci dal del cuore, come a san Gregorio? Perché non dobbiamo oggi fare un proposito opportuno? « Signore! — diceva S. Giovanni Bosco — Dammi le anime che tutto il resto non m’interessa ». — I DOVERI DEI GENITORI. In certe città indiane l’idolatria ha suscitato un fanatismo orribile. Ogni anno, quando ricorre la festa del dio, si vedono scene raccapriccianti. Mentre tra i fiori e i profumi e i suoni di trombe e urla del popolo passa il cocchio con l’idolo dalla faccia mostruosa, sempre, qualche madre, con le proprie mani, lancia sotto la ruota stritolante del carro un suo bimbo, in offerta al dio. Povere mamme! Ma non sono forse più sventurate certe mamme e certi padri, non dell’India, ma dei nostri paesi civili e Cattolici? Oh! Non i corpi dei loro figliuoli sacrificano sotto il carro del demonio che passa nel mondo, ma le anime! Quelle piccole anime, create da Dio, belle per la sua gloria, sono stritolate per la negligenza o i mali esempi dei genitori, sotto le unghie del demonio. Eppure Iddio ad ogni famiglia ha preposto un padre e una madre perché fossero il pastore buono del piccolo gregge domestico, come Cristo è pastore di tutto il mondo. « Io sono il pastore buono » dice Gesù nel Vangelo, « e so dar la vita per le mie pecorelle. Il mercenario invece, che non è pastore vero, quando vede venire il lupo fugge, perché le pecore non sono sue: … et non pertinet ad eum de ovibus  ». E che cosa importa, a certi genitori snervati, dell’anima dei loro figlioli, quando non sanno resistere ai loro capricci? Quando non vegliano a custodia, ma dormono ancora mentre il lupo è giunto e fa stragi? Quando essi stessi con la loro condotta insegnano la mala via a quelle anime ignare che Dio gelosamente aveva loro affidato … Et non pertinet ad eos de ovibus. La molle indulgenza, la non vigilanza, il cattivo esempio rendono i padri e le madri pastori mercenari nella loro famiglia. – 1. LA MOLLE INDULGENZA. Pochi anni or sono, in una grande città d’Italia moriva di broncopolmonite una giovane, perché aveva preso freddo, uscendo accaldata da un ballo. Nella piccola stanza del terzo piano s’erano radunati i parenti a salutarla per l’estrema volta e a confortarla nel misterioso passaggio. Tutti tacevano: s’udiva solo l’ansimar faticoso della malata. Ognuno in cuor suo sentiva compassione di quel povero fiore che appassiva mentre sarebbe stato il tempo di spiegare i colori nel sole della vita. Ad un tratto entrò nella stanza una donna pallida e piangente. La morente accennò col tremito delle labbra di voler parlare. « Mamma! » E poi raccolse tutte le forze in un grido incredibile: « Oh, se tu non mi avessi lasciata andare al ballo, la prima volta, mamma! Ora non morirei così. Oh, questo grido straziante, dal letto di morte, dal limitare dell’eternità, non pochi figli ve lo grideranno dietro, o genitori! È invalsa una sacrilega moda di tenere i figliuoli da piccoli come balocchi, e grandi come tiranni. E i genitori cominciano a truccarli come tanti giocattoli o marionette; a trattarli come tanti idoletti; e poiché non li vogliono sentir piangere, ogni loro capriccio, anche il più stravagante, deve essere accontentato. E crescono questi figliuoli moderni, e in loro indisturbate crescono le passioni come la gramigna nel campo del pigro. Crescono i figliuoli ed entrano nella vita senza aver imparato a rinunciare ad una vogliuzza grama, simili a quel susino che l’agricoltore, per timore di vederlo appassire, non ha potato a suo tempo. Il susino frondeggia oziosamente, me non dà frutto. Ma chi potrà imporre a questi figli, fatti adulti, un freno che rattenga le lore passioni? – Non era per questo, o genitori, che Dio vi ha concesso i figli: non perché voi, come il pastore mercenario, lasciaste in balìa del lupo i vostri agnelli. Ricordate il grido straziante di quella fanciulla morente: « Mamma, non morirei così!… » Non morirei così disonorata se tu mi avessi punito quel primo giorno in cui mi vedesti tra le mani un frutto rubato. Non morirei così senza religione, se la prima volta che mi coricai senza la preghiera, m’avessi risvegliato e fatto pregare ancora, se quando violai il precetto festivo m’avessi costretto ad alzarmi una settimana intera, di buon mattino, ad ascoltare la santa Messa. Non morirei così bestemmiatore se la prima volta che davanti ai miei genitori ripetei invanamente il nome di Dio, m’avessero dato uno schiaffo sulle labbra, invece di sorridermi come a una precocità d’ingegno. Mamma, non morirei così!… – 2. LA NON VIGILANZA. Somnolentia pastorum est gaudium luporum. — Si dice che un viaggiatore si sia fermato in un paesello per studiare i costumi popolari. Incontrò una massaia ed attaccò discorso. « Quante galline mantenete? ». « Quindici, Signore » rispose precisa la massaia. «E dove le avete? ». « Ecco » rispose la donna, accennando: « cinque sono chiuse in pollaio, tre crocitano sull’aia, le altre vagano nel cortile ». Il viaggiatore parve soddisfatto e cambiò argomento. « Quanti figli avete? ». « Cinque o sei ». « E dove sono? ». La donna sgranò gli occhi e rispose: « Chi lo sa dove sono!?. Non ho mica tempo di correrci dietro tutto il giorno! ». « Come? » fece stupito quel signore. « Sapete dove sono le vostre galline, e non sapete dove sono i vostri figliuoli? ». E non è appena in quel paesello che avveniva così. Ci sono genitori che non dormono tranquilli di notte, per custodire nei loro cassetti qualche gemma e qualche anello d’oro, e non vigilano sui loro figliuoli. Ma non sanno che l’anima dei loro figli è una gemma di cielo, è un anello di Dio? Ci sono genitori che a sera s’addormentano placidamente ed hanno fuor di casa, senza sapere dove, qualche figliuolo. Ma potrebbero dormire se avessero lasciato fuor dall’uscio un oggetto prezioso, o fuor del pollaio una gallina? Dove sono i vostri figliuoli, o genitori, mentre voi siete al lavoro, siete in casa, siete in chiesa? Avete indagato con chi vanno? Quali libri leggono? « Ma noi siam di mestiere e abbiamo affari… e non troviam tempo per vigilare sui nostri figliuoli ». Ecco la scusa di molti genitori. Ma il primo mestiere, il primo affare non è quello di educare i propri figliuoli? Tutto il resto è secondario. – La madre di S. Teodoro lavorava in un albergo. Ma quando s’accorse che il suo bambino, crescendo, poteva essere cattivamente impressionato da quello che si vedeva, diceva e si sentiva in quel luogo, fuggì col suo piccolo tesoro nel deserto. Patì fame e sete, ma il suo figlio fu santo. Giobbe, avendo saputo che i suoi figli s’erano radunati a banchetto, levò a Dio fervente preghiera, perché in quell’occasione li avesse a preservare da ogni peccato. – Quante volte, o genitori, avete saputo che i vostri figli si trovano in cattive occasioni: all’officina, nello studio, in caserma. Avete pregato, voi? – 3. IL CATTIVO ESEMPIO. Qualche anno fa i giornali pubblicavano l’incendio di un teatro di varietà. È mezzanotte: salone addobbato con motivi decorativi di carta a rosoni e a tralci; domina l’allegria e la sete del piacere. D’improvviso un lampo si proietta dal palcoscenico: e una lingua di fuoco scoppiettante, uscita fuori dai tendaggi laterali, si arrampica su su fino al soffitto, si propaga in tutti i sensi, perseguendo le decorazioni di carta. Grida di spavento, fumo, fuoco: è un inferno. Intanto le attrici si sono trovata preclusa la via del salvamento: corrono nelle loro cabine; ma il fuoco le ha raggiunte. E tra di esse c’era una mamma, c’era una bimba che s’iniziava a quella vita sciagurata. E sono morte. Noi pensiamo con angoscia a quella mamma che aveva venduto la sua figliuola ad un’arte così pericolosa; a quella mamma. che, stolta, le insegnava il misurato passo della danza e della corruzione; a quella mamma che ha trascinato la sua creatura nel fumo e nel fuoco d’un teatro, e, Dio non voglia, dell’inferno. Forse nell’ultimo spasimo quella povera bimba avrà tese le sue mani, imprecando alla mamma. O genitori: questo esempio non suscita in voi nessun rimorso? Chi insegnò a quel fanciullo a profanare il Nome di Dio, se non la madre che ad ogni piccola stizza l’ha sulla lingua? Chi gli ha insegnato a bestemmiare il Corpo e il Sangue del Redentore se non il padre nelle sue collere? Chi gli ha insegnato a profanar la festa, se non l’esempio dei suoi di casa che lavorano, che trascurano la santa Messa? Che meraviglia se quel figlio ama le osterie, quando suo padre ama l’ubriachezza? Che meraviglia se quella fanciulla non è ritirata né modesta, quando la sua mamma si perde dietro alla vanità del vestire e del trattare? Se un figlio dovesse cadere nell’inferno per il mal esempio dei suoi genitori, oh come li maledirebbe! E da quelle fiamme uscirebbe contro di loro un grido d’imprecazione per tutta l’eternità. – Nell’arca dell’alleanza accanto alla manna che Dio per i suoi figli raminghi aveva fatto piovere sul deserto, si custodiva pure la verga vigilante di Aronne. Nell’arca di ogni famiglia si deve custodire la manna e la verga: la manna che è simbolo d’amore, ma anche la verga che insegna il cammino, la verga che sferza i disviati.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps LXII:2; LXII:5  Deus, Deus meus, ad te de luce vígilo: et in nómine tuo levábo manus meas, allelúja.

Secreta

Benedictiónem nobis, Dómine, cónferat salutárem sacra semper oblátio: ut, quod agit mystério, virtúte perfíciat.

[O Signore, questa sacra offerta ci ottenga sempre una salutare benedizione, affinché quanto essa misticamente compie, effettivamente lo produca].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

Paschalis

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre: Te quidem, Dómine, omni témpore, sed in hac potíssimum die gloriósius prædicáre, cum Pascha nostrum immolátus est Christus. Ipse enim verus est Agnus, qui ábstulit peccáta mundi. Qui mortem nostram moriéndo destrúxit et vitam resurgéndo reparávit. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia cœléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare: Che Te, o Signore, esaltiamo in ogni tempo, ma ancor piú gloriosamente in questo giorno in cui, nostro Agnello pasquale, si è immolato il Cristo. Egli infatti è il vero Agnello, che tolse i peccati del mondo. Che morendo distrusse la nostra morte, e risorgendo ristabilí la vita. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joannes X: 14. Ego sum pastor bonus, allelúja: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ, allelúja, allelúja.

[Io sono il buon pastore, allelúia: conosco le mie pecore ed esse conoscono me, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Præsta nobis, quaesumus, omnípotens Deus: ut, vivificatiónis tuæ grátiam consequéntes, in tuo semper múnere gloriémur.

[Concédici, o Dio onnipotente, che avendo noi conseguito la grazia del tuo alimento vivificante, ci gloriamo sempre del tuo dono.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

LO SCUDO DELLA FEDE (248)

LO SCUDO DELLA FEDE (248)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (17)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

CAPO III

IL SACRIFICIO DIVINO

SECONDA PARTE DEL CANONE.

ART. IV.

ORAZIONE IV: UNDE ET MEMORES.

O LA MEDITAZIONE DELLA PASSIONE DI G. C.

« Per lo che anche memori noi, vostri servi, e con noi pure il vostro popolo santo, della tanto beata Passione del medesimo Signor nostro Gesù Cristo, ed anche della sua Risurrezione, come pure della gloriosa sua Ascensione nei cieli, offriamo alla preclara Maestà vostra di questi vostri doni a noi dati (Qui giunge le mani e fa tre segni di croce, sopra l’ostia, e sopra il calice insieme) quest’Ostia + pura, ostia santa, ostia + immacolata: (poi fa un segno di croce sopra l’ostia, ed un altro sopra il calice dicendo) pane + santo di vita eterna, e calice + di salute perpetua. »

Esposizione dell’Orazione: Unde et memores,

« Per il che memori anche noi, vostri servi, e con noi pure il vostro popolo santo, della così beata Passione ecc. ecc. » Più che di esposizione, or fa bisogno di tenera pietà a sfogo di divozione. Oh, buon Dio! ecco qui come sul Calvario, misticamente sacrificato Gesù ! (Osserva il S. P. Ben. XIV che in qualche chiesa di Francia, come anche dei Cartusiani, Domenicani e Carmelitani, ed anche nella Messa di rito Ambrosiano, sì usa qui dal Sacerdote nel celebrare alzar le braccia e tenerle allargate per rappresentare la figura di Gesù Cristo crocifisso. – Lib. 2, De sac. Miss. cap. 16, n. 4) Ma tuttavia invece di un popolo furioso, che lo insulti, Egli ha d’intorno noi, poveri servi suoi, e questo buon popolo di eletti, per essere in Lui sacrificato (Ephes. 14.). Deh! stringiamoci intorno coll’anima sopra di Lui per contemplare i suoi patimenti. Il sacerdote prega in secreto… Alto silenzio… I patimenti di Dio vogliono lagrime e non parole!… sfoghiamoci in secrete parole calde del Sangue di Gesù!…. Ah! i pensieri al Calvario ,in questo momento: ed il cuor nostro tutto qui sul Petto a Gesù. Il Calvario…. contempliamo il Calvario!…. Quest’orrido monte…. il patibolo rizzato sopra esso, la croce!… e sopra la croce chi muore!.. Tra quella turba di furibondi, tra quei carnefici ubriachi di rabbia, fra due malfattori in patibolo… Chi è… chi è quel morente insanguinato, e tutto lacero di piaghe?… Santa fede!,…. In questo patibolo è 1’Uomo-Dio. Deh! Copriamoci colle mani il volto e gridiam spaventati: tristi a noi, tristi a noi, che siamo uomini! se gli uomini hanno potuto essere tanto empi da bagnarsi le mani nel Sangue del figlio di Dio, e mettere in croce il Salvator del mondo! – Trema paurosa la terra, il sole s’oscura. Appaiono smorte le stelle in quel tenebrore come pallide fiaccole ai funerali dell’Uomo-Dio. Si squarcia il velo del tempio, si spezzan le rupi, sì spalancano i sepolcri, e l’aere negro pare che pianga inorridito anche esso!… E che? l’iniquità avrà dunque da trionfare sulla terra? E la giustizia sarà oppressa nel suo Giusto, che la rappresenta? Così contro di Dio l’ha da vincere il male che lo avversa? Ahi! Che fino l’Uomo-Dio pare che non possa più reggere sotto il peso dei delitti dell’umanità sciagurata! E grida dalla croce; « O Padre, o Padre, forse perché ho presa la forma dell’uom peccatore, mi avete adunque abbandonato! »…. Alto silenzio Gesù agonizza; e tra le angosce dell’agonia mette un più forte grido esclamando: Consummatum est, la malizia degli uomini, e la giustizia di Dio, tutto è consumato! Ripetiamolo noi, che ne abbiamo ragione: « Sì, sì, tutto è consumato, se il Redentore trionfante resta per noi in sacrificio: consummatum est! » Come da Gesù boccheggiante nell’agonia,così da Gesù sacrificato s’alza pur questo grido;« consummatum est: il Sacrificio di Dio è consumato! »…. Questo grido si ripete per tutta la terra: questo grido si ripete per tutti i mondi del firmamento…. e fino negli abissi d’inferno col fremito del terrore si ripete « consummatum est! » … A questo grido. dal più alto dei cieli il grand’Angelo, che sta a guardia della Giustizia di Dio, in atto di fulminare chi l’oltraggia, abbassa il terribile sguardo sull’altare, come là sulla croce, e vedendo Gesù sacrificato… rompe e getta la spada del suo furore, e grida anche esso esultante: « consummatum est! » – Adoriamo atterriti e compunti… Grande Iddio!.. Dall’eterna gloria il Padre in cielo…. qui sull’altare con noi il Figlio… e l’Amore eterno, il celeste Amore tra il Padre e il Figlio, s’abbraccia sull’altare, come là sul patibolo, a Gesù Cristo, e prende la calda onda del Sangue di Gesù, la getta sul viso e sul cuore degli uomini, gridando: « O redenti, i vostri peccati li paga di sua vita Gesù! » Diciamoci adunque noi: « Memori… della così beata Passione vostra ecc. » Qui noi nella nostra contemplazione posiamogli il capo sul Petto: e come a Lui morente in croce, ripassandogli ad una ad una le Piaghe, sfoghiamogli in silenzio nel seno parole piene di pianto. « Oh la veramente beata passione del nostro Signore, per noi è una vera beatitudine! In essa, stracciata la scritta, dov’erano registrati i nostri peccati, l’avete confitta coi chiodi a questa croce, e da questa scorrono giù i larghi gorghi del vostro preziosissimo Sangue, a cancellare i caratteri di dannazione. » « Come pure memori della Risurrezione vostra, ma anche della gloriosa vostra Ascensione nei cieli ecc. ecc. » Vero Principe di pace, trionfatore dellamorte, Voi avete rotta questa terribile barriera, cheseparava il cielo dalla terra, e gli uomini tenevalontani come nemici, da Dio. Dall’altare della crocepenetraste negli abissi della regione della morte; spezzaste le porte dell’inferno, rovesciaste il trono del demonio, e lo incatenaste ai piedi del vostro altare. Allo splendor della vostra gloria le anime dei Santi in tenebre sepolte si destarono; Voi, rotte le catene ai vinti di morte (Io. Chrys. Hom. 24 ad Cor,), li tiraste fuori ad accompagnarvi nel trionfo della vostra risurrezione, e con quella legione di trionfanti saliste al Paradiso. Ora noi esclameremo con ragione: « o morte, o morte, dove è la tua vittoria? Guarda Gesù che muore e risorge, che sale al cielo, e lassù nel cielo porta nelle sue piaghe il pegno della risurrezione per tutti: guarda Gesù sotto queste specie in sacrificio, glorioso capo dei risorgenti, che con noi s’incorpora. È per portarci seco a vita eterna in Paradiso! » « Noi intanto, o eterno Padre, alla vostra preclara Maestà di questi doni, in che ci avete dato il Figliuol vostro, offriamo in sacrificio un’Ostia + pura, un’Ostia + Santa, un’Ostia + immacolata. Dio delle misericordie! ecco che il Figliuol divino è divenuto Pane Santo di vita eterna e Calice + di salute perpetua! » Qui fa le cinque croci, per mettere sotto gli occhi dirò così le cinque Piaghe di Gesù Cristo; le fa colla destra in atto di benedire, per derivar dalla croce e dalle Piaghe la benedizione delle anime nostre (S. Thom. 3 p., q. 8, a. 5. Suarez 3 P., t. 3, q. 83. a. 5, et Ben. XIV, loc. cit. Bossuet, Tract. de Miss. cap. 14.). Il sommo pontefice Benedetto XIV osserva, che ogni volta che si nomina Corpo e Sangue di Gesù Cristo, si fa sempre accompagnandoli col segno di croce, per significare che sotto la specie dell’ostia è il medesimo Corpo, che fu in croce lacerato e pendente; e nel calice il medesimo Sangue, che si versò pei peccati del mondo. Osserva ancora (Microl. cap. 14, et Nat. Alex. De sac. Euch.), che nella Messa il segno di croce si fa o una volta sola, o tre, o cinque: una volta, per indicare l’unità dell’essenza di Dio; tre, per indicare la SS. Trinità; cinque per indicare le cinque Piaghe di Gesù Cristo e la santa sua Passione. – Il sacerdote stende le mani e prosegue:

L’Orazione: Supra quæ etc.

« Sopra le quali cose con propizio e sereno volto degnatevi di riguardare, e di aver per accetti, come accetti aveste i doni del vostro servo giusto Abele, i sacrifici del patriarca nostro Abramo, e ciò, che vi offrì il sommo sacerdote Melchisedecco: santo sacrificio, Ostia immacolata. »

Esposizione dell’Orazione: Supra quæ etc.

Qui il sacerdote ritto in mezzo all’altare torna a stendere le mani; torna, per dir così, a mettere le sue mani sulle Mani piagate di Gesù Cristo, il capo sul Capo di lui coronato di spine, il petto sul suo Petto squarciato, e così con Gesù Cristo identificandosi, sta colle mani innalzate a fidanza di aver a fare con un Dio placato, e lo prega di degnarsi di guardare sull’altare con volto propizio e sereno. Anzi vorremmo dire, che con una certa aria di trionfo ricorda gli antichi sacrifici, che del Sacrificio presente furono le principali figure, per dire a Dio: « eh! se vi furon grate quelle offerte, ben vi deve essere carissimo questo nostro Sacrificio, santo per essenza, e sì veramente Vittima immacolata. » Perché, se gli offriva Abele ciò che di meglio per lui si poteva, se Abramo, ciò che di più caro aveva, se Melchisedecco ciò che gli fosse di più misterioso inspirato; s’era innocente Abele, obbediente Abramo, Melchisedecco santo; ed in questi fu significato Gesù; et in his signatus Christus: qui su quell’altare con questa Vittima in mano, noi abbiam ben ragione di aspettarci, che Dio, sì! ci debba fare buon viso: e dimenticando tutti i nostri torti per ricordarsi della sola sua bontà, accogliere volentieri anche dalle mani nostre questo gran Dono. – Osserva s. Bonaventura (In exposit. Miss), che qui si ricordano specialmente quei tre santi dell’antico Testamento, perché rappresentano in figura più propriamente Gesù nella Passione sua, e nella ss. Eucaristia. Ricordasi Abele ( Gen. IV, 4.), perché Abele fece offerta dei primogeniti del suo gregge, e Gesù offrì se stesso primogenito tra i molti fratelli (Rom VIII, 29), lasciandosi uccidere immacolato agnello ed innocente. Perciò lo vide appena Giovanni Battista, e dovette esclamare: « Ecco l’agnello di Dio. » Di più Abele innocente venne trucidato dal fratello Caino; e Cristo dai Giudei, suoi mali confratelli secondo la carne fu tradito e mandato a morte. – Ricordasi Abramo, perché Abramo obbedì a Dio fino ad immolargli il figlio: e Gesù si fece obbediente al Padre fino alla morte, e nelle mani del Padre diede l’anima sua. – Ricordasi Melchisedecco, perchè Melchisedecco comparisce nella storia Sacerdote senza che se ne conosca il padre, senza stirpe, senza antecessori nel sacerdozio, senza principio di giorni, senza fine di vita (Heb.); anch’egli mediatore tra Dio e gli uomini, partecipando in certo modo della Divinità, essendo ineffabile la sua generazione, partecipando della umanità per la sua qualità di re; così rappresenta al vivo Gesù uomo, Dio, pontefice eterno, re dell’universo. E come quell’antico, offrendo il pane ed il vino, dedicava il mistero del sacrificio cristiano e benediceva quindi ad Abramo ed a tutti i suoi: così per supplire all’imbecillità del sacerdozio antiquato, pure sotto le specie del pane e del vino, Gesù offre il suo Corpo ed il suo Sangue santissimo, ed apre sull’altare la sorgente di tutte le celesti benedizioni, per condurre a perfezione la santificazione degli eletti (Cyp. Ep. ad Caec. S. Leo. sess. serm. 9, in Anniv. Conc. Trid, sess. 22, cap. 1, De sac. Miss. Hier. Ep. ad Marcel. Aug. De Civ. Dei, lib. 6, cap. 22.). Con fiducia adunque presentiamoci al trono di grazie, per supplicare l’Eterno di volere consumare la nostra santificazione per virtù del sacrificio santo immacolato; prostrandoci 0uniti al Sacerdote con Gesù, che ora entra nel santuario non manufatto col suo divin Corpo e Sangue, cioè in cielo, per comparire innanzi a Dio alla nostra testa ad impetrarci misericordia (Heb, 6.). Il Sacerdote profondamente inchinato pone le mani giunte sopra l’altare e prosegue l’orazione:

Supplices te rogamus.

« Supplichevoli vi preghiamo, onnipotente Iddio, comandate Voi, che queste offerte si presentino per man del vostro Angelo santo sul sublime vostro altare al cospetto della vostra Maestà divina: affinché tutti noi che (qui bacia l’altare) di questa partecipazione dell’altare avrem ricevuto (fa segni di sopra il Corpo ed il Sangue) il sacrosanto Corpo e Sangue + del Figlio vostro (segna se stesso di croce) veniam riempiti di ogni celeste benedizione e grazia: Per il medesimo Cristo Signor nostro. Così sia. »

Esposizione dell’orazione suddetta.

In quest’orazione, dice s. Bonaventura (Bonav. in Epos. Miss.), sono così profonde ed inscrutabili parole, che il beato Gregorio ne parlò come di cose ineffabili, da non si poter spiegare. Ora che diremo mai noi, se quei Santi appena ardivano di meditarle? Noi ci contenteremo di tener dietro a quei Padri, e ai sommi Pontefici Innocenzo III e Benedetto XIV, che teniamo sempre per guida, per poter comprendere qualche cosa. Ecco intanto le principali spiegazioni, che quelli ci danno, e che ci parvero spiranti più soave pietà. – L’orazione dice: « Vi preghiamo supplichevoli, che comandiate, che quest’offerta si presenti per mano del vostro Angelo santo sul sublime altar vostro, al cospetto della vostra Maestà divina ecc. ecc. » Queste parole spiega il sommo Pontefice Innocenzo III (Inn. III, 5, Myst. Miss.) in questo senso: « Vi preghiamo, che comandiate che questi fedeli colle suppliche che mettono innanzi sull’altare, insieme col sacrificio divino, per mano del vostro Angelo santo, cioè pel ministero degli Angeli, sul sublime altare vostro presentati, vengano alla divina vostra Maestà. » Siccome gli Angeli presentano a Dio in cielo i voti e gemiti, e le opere buone che noi facciamo qui in terra (infatti diceva l’Angelo a Tobia: quando pregavi colle lacrime, io offrivo la tua orazione al Signore): così noi preghiamo, che nel presentare la grand’offerta, l’Angelo del Signore come per mano seco ci conduca innanzi, per essere anche noi insieme con lui presentati. Il vero credente sa di non essere mai abbandonato a se stesso nel suo cammino; perché un Angelo buono è sempre al suo fianco, che lo veglia; celeste amico, che lo difende dall’angelo reo, e che gli è così affezionato, che peregrina volentieri con lui nella terra d’esilio per ricondurlo seco alla patria. Questo Angelo, quando ha seco il suo caro affidato a trattar con Dio sopra l’altare, in questo istante più desiderato per compiere la sua missione, deve ben adoperarsi, per introdurlo al cospetto di Dio, e farlo accogliere con bontà dal suo Signore in cielo. Dice pure s. Ireneo (Iren. lib. 4, cap. 24.); vi è in cielo un altare, e colà si depongono le nostre suppliche e le nostre offerte. Altare sublime, invisibile dice anche Agostino (S. Aug. psal. 26, enar. 2, et in psal, 42), a cui nessuno si appressa coll’animo, se non il giusto, che all’altare in terra s’accosta sicuro. Non vi è adunque dubbio, (così s. Gregorio con s. Bonaventura) che nell’ora stessa dell’immolazione alla voce del Sacerdote s’aprano i cieli. Qui intervengono i cori degli Angeli (Ad eccitare maggior rispetto e tutta la più fervorosa divozione nel tempo della santa Messa, diciamo con S. Lorenzo Giustiniano – Serm. de Corp. Chr. -, che in quest’ora si aprono i cieli, che ammirano gli Sngeli, lodano i Santi, esultano i giusti, sì vanno a visitare i prigioni e si sciolgono gli incatenati, piange l’inferno, esulta le beata Chiesa, gli Angeli (S. Gio. Gris. De sac. lib. cap. 6.) fanno corona. Di fatto s. Giovanni Grisostomo, S. Nilo abate, s. Gregorio Magno, s. Filippo Benizio, il beato Gioachino Servita, e tanti altri videro proprio gli Angeli in venerazione intorno all’altare nell’ora del sacrificio), sicché le somme cose del cielo colle umili di quaggiù si confondono mirabilmente; ed avviene appunto in quest’istante, che in cielo si presenta pel ministero degli Angeli il Corpo di Gesù, che sull’altar nostro si offerisce (S. Bonav. in Exs. Miss.). Osserva poi s. Tommaso, che il Sacerdote non chiede già che si portino in cielo le specie sacramentali; ma sì col Corpo di Gesù reale sull’altare e sotto î mistici veli, che in paradiso è in gloria, anche il Corpo mistico, vale a dire il Sacerdote ed il popolo colle loro suppliche, pel ministero degli Angeli vengano in cielo presentati (3 p., q. 83, a.4). Seppure per l’Angelo non si volesse eziandio intendere lo stesso divin Redentore Gesù; ché ci conforterebbe l’autorità di S. Tommaso, e d’ Innocenzo III (Ben. XIV de sac. Miss. lib. 2, Cap. 16, n. 25.); perché Gesù Cristo è l’Angelo dei misterioso consiglio di Dio, da lui nell’Incarnazione sua rivelato; è l’Angelo del nuovo Testamento, che suggellò col proprio Sangue; ed Angelo mediatore tra Dio e gli uomini, ai quali dispensa le grazie che loro ha meritate. – Passiamo ora ad osservare il modo, con cui il Sacerdote recita questa orazione. Così vicino al Santissimo, egli s’inchina profondamente; ossia cade sotto il peso delle sue miserie, e inabissato nel suo nulla, egli confessa che Dio è troppo grande in bontà. Bacia l’altare per significare la riconciliazione che si fa sull’altare tra gli uomini e Dio, ed il desiderio di unirsi a Dio per Gesù Cristo. Fa tre segni di croce: uno sopra il SS. Corpo, per ricordare il sudore di Sangue, di che Egli fu tutto bagnato nella sua Passione; l’altro sopra il calice, per ricordare le gocce di Sangue, che grondavano giù dalla croce; il terzo sopra se stesso per ricordare che Gesù cadde colla faccia per terra; offrendosi a morire come l’uomo dei peccati (Inn. III, lib. 5 Miss. cap. 5.). Questa spiegazione è d’Innocenzo III, il quale dice anche che le due prime croci significano i vincoli ed i flagelli di Gesù Cristo; l’altra croce, che il Sacerdote fa sopra se stesso, significa l’oltraggio di quei satelliti, che gli sputarono sul volto santissimo. S. Tommaso poi pensa, che le croci esprimano l’estensione del Corpo colle braccia inchiodate sulla croce, e lo spargimento del Sangue, ed il frutto della Passione (3 pars, q. 83, a. 5,  Natal. Alex. Theol. lib. 2) : e questo frutto pare che vogliano esprimere le parole che si pronunciano nel fare i segni, in cui si dice: « tutti che avremo il Corpo, il + Sangue ricevuto, veniam riempiuti d’ogni benedizione, e grazie celesti. » Esposte così le interpretazioni che ci parvero più belle e spiranti divozione maggiore, ritorniamo a considerare il rito, per riceverne le inspirazioni della pietà. Il sacerdote nell’inchinarsi profondamente, colle mani giunte sull’altare, dice: « vi preghiamo supplichevoli ecc. » Per placare lo sdegnodi Dio il profeta Gioele (Ioel. 2) gridava agli Israeliti: « Date colle trombe il segno solenne, radunate le turbe, e convocate il popolo, menate per mano i pargoletti, padri e madri, portate anche i bimbi sul petto: sorgete, o sposi, da’ vostri talami, traete innanzi a Dio. Qui tra il vestibolo e l’altare i Sacerdoti ministri di Dio grideranno piangendo: perdonate, o Signore, perdonate al popol vostro e non lo mandate in perdizione! » Ma che cosa era mai in quell’altare, da potere placare Iddio ed intenerirlo a pietà? Era da tanto un animale svenato? E come si poteva sperare, che si compiacesse Iddio di quella carne morta? E che vi era mai là, che degno fosse dello sguardo suo divino? Ecco, ecco ciò che era in quella vittima sacrificata: era l’immagine del Sacrificio che il Figliuol suo già gli offriva in cielo fin dal principio del mondo (Apoc. XIII, 8), e che gli offre ora, e gli offrirà, finché dura il tempo, negli altari cattolici. Eh! bisogna bene che un avanzo di quella fede sia rimasto in fondo al cuore dell’umanità; poiché ne troviamo in tutte le storie, e nei poemi (in cui si manifestano le credenze e gli usi delle nazioni e barbare e colte di tutte le età dell’universo) una solenne, imponente espressione nel riparare che fanno sempre i tementi agli altari, per trovarvi un asilo nelle grandi sciagure. Questo abbracciarsi alle are, quando altrimenti non si possa ottener pietà, egli è forse un ricordare anche ai potenti e ai prepotenti il gran Padre comune, per ottenere grazie a Suo riguardo? È come un appello, che fanno gli oppressi alla giustizia di Dio? Oppure un’intimazione solenne ai soverchiatori di rispettare nei deboli il diritto di Dio, col minacciarli che alla fine pur Egli farebbe giustizia con i potenti potentemente? Noi quando, vediam dappertutto negli istanti più paurosi cercarsi uno scampo appiè dell’altare; noi, più che un istinto della umana natura, crediamo sia come una ispirazione della speranza dell’umanità, nata dalla credenza almeno confusa, che sull’altare un dì si sarebbe trovato dagli uomini il loro Salvatore. Noi fortunati adunque, che l’abbiamo in Gesù! Non altro ci resta, che di abbracciarci a quest’ora e gridare: « O Signore, tutto ci è dato a sperare da Voi per Gesù Cristo, che vi offriamo in questi misteri! » – È pur vero, che tutto che abbiamo di buono, è una partecipazione dei doni di Dio: e chi vuol tutto il bene di che abbisogna, solo per Gesù Cristo egli può sperare d’ottenerlo. Per questo il Sacerdote si inchina profondamente, bacia l’altare, si segna di croce. Cioè si getta per terra appiè di Gesù: e le benedizioni vuole assorbire alla Fonte della vita eterna in seno a Dio!…. Per questo mira a baciare dentro del Cuor di Gesù, in cui abita la pienezza della Divinità….. e vuol con questo bacio sommergerci tutti nel sommo Bene, che alimenta le anime di vita eterna!… Fa il segno di croce, per mettere sopra se stesso e sopra tutti i figliuoli del Sangue divino le piaghe di Gesù, e coprirsi coi suoi meriti: come Giacobbe, che quando stava per correre in braccio al vecchio padre Isacco, cercò con ogni argomento di rendersi simile al primogenito, affine di ottenere per se stesso le paterne Benedizioni; e si coprì colla pelle dell’agnello. Profondità di misteri!… Benedetto il Padre della misericordia, che rivela agli umili i tesori della sua bontà!….. In questo abisso di Divinità più noi ci addentriamo tremanti, più vediamo in fondo una mistica luce, che rivela i secreti di Dio!… Insomma ci pare di comprenderlo!… La prima e l’ultima parola di Dio sul nostro destino è questa, di unirci nella perfezione e beatitudine di sua vita eterna: tutti i prodigi dell’alleanza, tutti i veli dei riti sacramentali non altro sono che forieri e preparazioni. Dio vuol cogli uomini consumare la sua carità in un amplesso divino….. eterno (la Comunione)! Il dogma finisce qui…. e vuol l’amore!…. Su, su con Gesù, ad amarlo di un amore, a cui non basta il cuore umano…. All’altare adunque, all’ altare, al Convito dell’amore divino! Qui il Sacrificio piglia la forma di un Convitto. L’altare è la mensa, Gesù è il Capo della famiglia dei rigenerati. Oh meraviglia! oh consolazione! Il bagliore della prima rivelazione, di cui rimase un crepuscolo, un avanzo e quasi una luce fosforica in tutte le nazioni del mondo, diventa sì, come abbiamo già detto, qui splendore di luce prodigiosa, che opprime il pensiero di sua lucidità…. Intendiamo, intendiamo ora, perché in tutti i sacrifici anche le nazioni idolatre, offerta la vittima, sogliono quasi sempre partecipare di essa, mangiando della carne immolata (Vedi Dei sacrifici religiosi di tutte le nazioni, Card. Tadini, De Maistre, ecc.); quasi che la vittima mangiata dovesse derivare negli uomini la benedizione della Divinità, inviscerandosi essi colle vittime a lei devote (Mirate Israele carnale, dice s. Paolo; non è egli vero che quelli che mangiano, hanno comunione coll’altare? – Corint X, 18). Adunque qual relazione passa tra il sacrificio ed il cibo? E la mensa che ha da far coll’altare? Chi insegnò a praticar di conserva riti così disparati al genere umano? Risponderemo, che il cuore della povera umanità presentiva già e praticava ciò che la mente non conosceva per bene, per manco di fede. Risponderemo chiaramente, che la Chiesa cattolica, nella pienezza del tempo, squarcia il velo del mistero, e ci lascia vedere nell’ombra del santuario, come vuole Iddio il suo amore negli uomini accontentare! Appressiamoci con umiltà! Oh! che cosa è ciò; chi ci è dato di scorgere?….. Oh gran mistero! Il mistero di carità! E chi avrebbe mai potuto immaginare bontà così infinita? Nessuno, nessuno mortale certamente, e per poco neppur gli Angeli del cielo; perché nessuna mente creata può misurare i tesori del Cuor di Dio! Profondamente e bene avendo osservato il filosofo Leibniz, che l’uomo è un composto di tempo coll’eternità; e che l’eternità entra nella sua composizione per la verità; e siccome la verità discende da Colui che illumina ogni uomo che viene in questo mondo, così dal solo Verbo di Dio, vero pane mistico dell’anima nostra, e sposo della nostra intelligenza, questo alimento si poteva aspettare: il quale solo diventa possibile per un ingegno di carità al tutto divina nel Sacrificio della santa Messa. Onde, se non ci fosse dato questo tesoro di bontà celestiale, anche riconciliati con Dio, non avremmo sacrificio, che corrispondesse ai bisogni della nostra umanità. Per esso solo il Verbo del Dio della bontà si comunica a noi, fatto vero pane di vita dell’anima affamata del primo vero, fatto vera celeste bevanda alle anime assetate del primo amore. Deh! contempliamo più addentro meraviglie misteriose! Ecco il Corpo e il Sangue di Gesù sotto le specie distinte e separate, le quali rappresentano che il Sangue fu dal Corpo diviso a ricordanza della sua morte; eccoli sotto le specie di pane e di vino, i quali sono emblemi della vita; e fanno intendere che la vita nostra è redenta mercé della sua morte. Ancora: ecco nella Messa vi è sacrificio a segnale di redenzione. Nell’antico culto l’oblazione andava dal sacrificio separata: nel culto cristiano sono mischiati insieme, perché nel gran Sacrificio tutto è consumato in Gesù, divenuto causa di eterna salute ai fedeli; e quivi è l’alimento della vita eterna. Qui è tutto quello che per gl’immensi bisogni dell’animo si voleva: e che solo dal cielo si poteva aspettare. – Ecco il Figlio di Dio non solo ha perdonato agli uomini, che gli eran nemici, ma gli ha redenti proprio sangue; non solo redenti, ma santificati: non solo santificati, ma seco li vuole uniti e sull’altare stringerli a Sé. Stiamo a contemplare che voglia mai fare ancora di più! Adoriamo….. Dio siede a capo alla mensa, e nella frazione del pane si dà a conoscere per padre ai suoi figliuoli (dice s. Bernardo). O Angioli del paradiso! Il cielo che è vostro, non avrà più delizie, che siano da desiderare per noi, a cui si comunica Iddio. Per noi sarà cielo, e sovrabbondar di gaudio più che celeste (De mit. Chr. lib. 4.), qui dove possiam nell’infinito Bene inabissarci e riporre in sicurezza la nostra povera umanità in seno a Dio. Conchiudiamo: in mezzo a tante miserie umane, dovendo esser fatti partecipi di così divini misteri, era ben conveniente invocare gli Angioli in quest’orazione. Essi intervennero quando incominciò l’opera della Redenzione nella grotta di Betlem nella beata notte, in che Maria SS. donava al mondo Gesù; ed intorno al Bambino sulla paglia giacente cantavano: Gloria in excelsis Deo. Deh! quegli Angeli benedetti intervengano anche in questo istante, in cui Gesù si compie veramente il mistero di redenzione. E se allora cantavano da parte di Dio: « pace agli uomini di buona volontà, » ora cantino a nome degli uomini: « Onore, benedizione a Dio (Apoc. cap. V) per tanto amore divino. » – Intanto noi, su via, al convito, al convito divino , corriamo a parteciparvi tutti. Deh! sono proprio qui tutti i fratelli?….. Ahi, Padre santo, ve ne mancano tanti! vi mancano quei cari, che, dato 1’ultimo addio, si partirono per l’eternità, e a Voi non giunsero ancora; poi vi mancano (lo diciamo piangendo) i peccatori! quindi si passa a pregare per i fratelli defunti e pei peccatori per avere anche essi al banchetto delle nozze eterne.

ART. V.

ORAZIONE V: MEMENTO DEI TRAPASSATI.

« Ricordatevi, o Signore, dei vostri servi e delle vostre ancelle N. N., che ci precedettero col segno della fede, e dormono nel sonno della pace » (giunge le mani, prega alquanto per quei defunti, pei quali intende pregare; di poi stese le mani, prosegue): « vi preghiamo perché concediate ad essi, o Signore, ed a tutti quelli che riposano in Cristo, il luogo di refrigerio, di luce e di pace, (giunge le mani e china il capo). Pel medesimo Cristo Signor nostro. Così sia. »

Esposizione del Memento dei defunti.

« Ricordatevi, o Signore, dei vostri servi e delle vostre ancelle ecc. ecc. » Quanta tenerezza vi è nel pregare pei fratelli defunti, in questo così prezioso momento! I fedeli sull’altare del sacrificio, che ora sì prepara a banchetto, trovandosi, per così dire, tra le braccia di Dio, di seno a Lui guardano nel mondo delle invisibili cose, e là in mezzo a quella regione dell’infinito vedono col pensiero le anime dei cari, che loro dissero addio, e se n’andarono colla speranza del Paradiso. Esse ci precedono in via; e noi possiamo pensare, che per potervi giungere avranno ancora da patir tanto, perché, povere anime! Lasciandoci qui tutto quello che possedevano, partirono per l’eternità, forse con ancora non pochi debiti colla giustizia: di Dio; e là non possono guadagnarsi meriti per soddisfarvi. Dunque, per loro altro non resta, che scontarli coi patimenti. Siamo nondimeno fortunati noi di potere per Gesù mantenere un pietoso commercio tra essi, che partirono, e noi che dobbiamo raggiungerli: e fino in cielo, dove si sublima il mistero che celebriamo, possiamo dare per esse una bella soddisfazione, col presentare anche per loro la redenzione. Qui lo facciamo dicendo: « Ricordatevi, o Padre, che l’offriamo anche per quelli, che non sono più qui, ma son pure vostri servi e vostre ancelle. » « Essi ci precedettero col segno della fede ecc. » Oh! le cose del tempo come sfumano a nulla, quando l’uomo s’addentra nell’eternità. Qui per muovere Dio in lor favore, non si mettono innanzi i titoli pomposi delle loro dignità, non il posto insigne da loro occupato nel mondo, non le cariche adempiute, né i larghi possedimenti. La morte adegua ogni disuguaglianza, e l’orgoglio del maggior potentato non può ottener dalla religione una preghiera per poco diversa da quella, che s’innalza spontaneamente anche pel più tapino. Anzi sovente per questo meschinello la è più conveniente; perché  per la maggior umiltà questi fu servo migliore, e porta più brillante il carattere dell’uom crocifisso. In verità per ogni ragione di tenerli raccomandati vale l’essere stati servi di Dio e nel Battesimo crocesignati in Gesù Cristo. Dice poi, che « dormono in sonno di pace ecc. ecc. » Questa è delicata preghiera di anima, che in tenera pietà si delizia in Dio soavemente! la quale temendo quasi di dire parola men grata al cuore di Dio, col parlare di patimenti in questa ora di consolazione celeste, esprime il loro stato con un’immagine la più amabile: « buone anime, dice, che spirando nel bacio del vostro perdono, s’addormentarono nella pace dei giusti. » Pare anzi che rivolgasi anche alle anime per confortarle, quasi voglia dir loro sospirando: « consolatevi pure, o anime benedette, perché non avete niente da invidiare a noi, che siamo ancora in battaglia. Voi almeno tra quelle vostre pene godete un fondo d’inalterabile pace nell’aspettazion del Paradiso, che non potete perdere più. » Qui il Sacerdote giunge le mani, e fa alquanto orazione per quei defunti, per cui ha intenzione di pregare particolarmente. Pregando tiene gli occhi fissi nel SS. Sacramento, e con quello sguardo s’intende del cuore con Gesù. Sa ben Gesù le persone, la cui memoria deve toccarlo più vivamente: certo i parenti, i benefattori, e tutti secondo l’ordine della preghiera, che abbiamo esposto: non dimenticando coloro che trattarono con maggior tenerezza Gesù nel Sacramento, e i devoti di Maria SS., perché ben deve tornar grato al Signore il sentirseli raccomandare. Anticamente il suddiacono leggeva nei dittici, che erano tavolette formate a tal fine, i nomi dei Vescovi defunti, per rammentarli sotto voce al Vescovo celebrante. Poi prega per Gesù la requie eterna a tutti. Tutti i popoli dell’universo sentirono di avere nel cuore un’intima relazione coi loro defunti. Essi celebravano solenni le esequie sulle loro salme; usavano, per consolare le anime pie, preghiere e riti d’espiazione sopra gli avanzi che avevano in terra lasciati: gli onoravano di tombe, che fanno sovente meravigliar della potenza dell’amor verso i morti. Sulle tombe ponevano fiori, o spargevano lagrime, facevano offerte, e si sedevano sopra esse silenziosi, per trovarsi soli coi trapassati: quasi avessero speranza nella quiete dei sepolcri di parlare colle anime e ricevere da loro ispirazioni, e confortarle a vicenda colle preghiere. Il Cristianesimo qui come altrove, con la luce della dottrina della santa fede rischiara le idee intorno al dogma, ch’era già come rivelato e ricevuto nel fondo dell’umana natura. Il Cristianesimo ha poi consolato il cuore umano colla dottrina divina del suffragio.

Il Suffragio.

Qual conforto pel cattolico, che sopravvive alla morte di una cara persona! Egli vede il Sacerdote assisterla nel passaggio all’eternità fino al punto, in cui l’anima diletta spira con un bacio nel Costato in Gesù Crocifisso; e mentre bagna di calde lacrime il freddo cadavere, vede ritornare, mandato dalla Chiesa alla porta di sua casa, ancora il Sacerdote del Dio vivente a raccogliere e portar nel santuario le povere spoglie, fossero pur anche del più miserabile. Mentre per le vie della città procede il feretro, seguito dai dolenti che piangono appresso, l’uom di Dio, raccolto in preghiera colla croce innalzata la quale è il vessillo della nostra speranza, lo precede, come per rappresentare l’immortalità, che cammina innanzi alla morte. Il popolo s’inchina riverente al morto, che forse in vita ha disprezzato. Corriamo appresso anche noi, per vedere come saremo nella morte dalla religione trattati. Ecco: Essa apre i suoi templi a quella carne dalla morte avvilita; e mentre nessuna religione umana le dichiarava guerra, quando era in fior di bellezza nel vigor dei sensi; la divina Religione cattolica, che la volle trattare come un ribelle nel suo rigoglio, ora che è caduta a terra, la riceve in seno, e siam per dire, la riscalda coll’alito della sua carità, e la depone in mezzo della chiesa innanzi all’altare. Sopra quella testa cadente rizza la croce; poi le gira intorno scuotendo l’incensiere del santo profumo, e in atto di rispetto verso di questa povera carne, che pur fu tempio vivo dello Spirito Santo pei divini Sacramenti ricevuti, e per temperare ogni avanzo di mal odore di peccato. Allora si fa innanzi un ministro, e legge in nome di Dio una sua Lettera ai dolenti: « Fratelli, non vogliate contristarvi tanto… anzi consolatevi del transito di sì cara persona. Vi do parola: ella è un dormiente della speranza » (I ad Thess. IV, nella Messa pei defunti in Die obitus,). Ma ecco in mezzo ad una nube d’incenso, fra i gemiti del dolore ed i cantici dell’immortalità, il Sacerdote dell’Altissimo, che innalza tra le mani incontaminate, oh religione beatissima!… il Corpo del Dio vivente; e par che gridi sopra il cadavere: « Dormi in pace nella terra benedetta: ma guarda pegno di resurrezione! (Jo. VI, Evangelo nella Messa pei defunti e nell’Epistola della Messa in Die obitus. I Thess. cap. 4). Questo è il Corpo di Gesù, che verrà nel gran dì a rapirti dalle braccia fredde della morte, come sua porzione, che vuolsi portare a vivere seco nella magione celeste. » Meraviglia! Era sopra il feretro il cadavere di Pasquale Baylon: e alla santa elevazione due volte apriva gli occhi al cospetto del popolo, quasi per confortarsi di questa cara speranza dell’immortalità, innanzi a quel Corpo con cui aveva palpitato tanto d’amore nella sua vita devota. Così noi vediamo, per la fede del santo suffragio tra la muta oscurità dei sepolcri scendere un raggio di luce celeste, che noi ed i trapassati rallegra della speranza di poterci consolare a vicenda ed a vicenda aiutare; e mentre dal profondo di tutte le tombe (Ps. CXXIX) ci pare ch’esca il cupo gemito: « Signore! se guardate le iniquità, chi potrà reggere a Voi dinanzi?…; » la Chiesa in tutte le Messe, in ogni parte della terra, nel Memento risponde: « consolatevi, consolatevi, oh! i miei poveri figli, ché appresso al Signore è copiosa la redenzione: » e mette innanzi pel prezzo il Sangue e i meriti di Gesù Cristo, e quelli di Maria, la divina Madre di tutti, e quelli dei santi; poi anche le opere buone dei viventi loro fratelli: e trova in tanta abbondanza la ragione del suffragio da poter esclamare: « Donate, o Signore, a loro la requie eterna; vedano la luce del cielo nella pace del paradiso: » requiem æternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis. Ecco il suffragio, e la ragione di esso. Quanto è mai bello dunque sapere per dogma difede, che le orazioni e le opere buone dei fratelli viventi sollecitano la liberazione delle anime purganti.Oh! il meraviglioso commercio tra il figliuolo che vive in terra e il padre che di qui passò all’altro mondo! tra la figliuola e la madre! tra losposo e la sposa! tra la vita e la morte! Amabile dottrina! La virtù mia, la mia preghiera, la miaofferta nel Sacrificio, così meschino mortale come sono, diventa un bene comune per tutti i Cristiani, pei vivi non solo, ma eziandio pei morti. I nostri ricchi possono dividere il ben, che loro avanza col povero; e per sentire più viva la contentezza della carità, sanno che Dio rimerita la buona azione anche col farne gustare refrigerio al padre o alla madre, cui vorrebbero rendere merito di tutto il beneche hanno da loro. Il povero e l’afflitto possonodire, portando la croce di Gesù Cristo: « questi nostri patimenti, uniti insieme coi patimenti del nostro Redentore benedetto, danno sollievo alle anime dei nostri cari. » Così per questa ammiranda comunicazione di una porzione della Chiesa coll’altracoadunate in Gesù Cristo, la Religione fa chei fedeli godano quasi in comune con Dio del granprivilegio di concedere altrui la beatitudine eterna: mentre d’altra parte possono essere sicuri, che Iddiorimunera in vita e nell’eternità la loro misericordia usata ai morti.Poi anche quelle anime benedette, a cui essi affrettano il Paradiso, vorranno tutta impegnare laloro sollecitudine per ottenere grazie ai pietosi loro liberatori.Dica ogni cuor ben fatto, se quei Cristiani che, per manco di umiltà, nella Dieta di Augusta protestarono di non voler più ricevere i dogmi della fede dall’insegnamento della Chiesa cattolica, e si arrogarono il diritto di potere ciascuno a suo modo foggiarsi una credenza col proprio giudizio privato, gloriandosi per questo di essere protestanti; dica, se non è vero, che abbiano fatto un gran male al cuor umano, anche solo col rifiutare la così tenera dottrina del suffragio delle anime dei trapassati. E si danno poi vanto di riformare la Chiesa, perché staccandosi dal seno di lei, non ebbero più parte alle tenerezze materne! Eppure la buona madre sa ciò che fa bene al cuor dell’uomo, e glielo porge colla sua dottrina, con cui indovina, interpreta e soddisfa i suoi secreti bisogni. E questo bisogno è un altro argomento della verità della sua dottrina medesima. Quanto invece è muto senza affetto quell’avanzo di religione, che non ha niente da dire sul conto dei nostri morti! Essa non ci lascerebbe neppure la dolce consolazione di poter pregare piangendo per un’anima amata! Eppure il cuor lo vuole, e l’anima sa di poter comunicare colle anime, che son fuori di questo carcere del corpo: e si sente che l’amor non si spegne nel vedere l’amato a morire! Anzi, a dispetto di loro protesta, anche i protestanti lo sentono e ne dànno segno col tradurre in atto questo sentimento, cui dicono di non voler credere! Noi abbiamo visitato i lor cimiteri; e alla vista di quelle tombe pietose, di quegli emblemi di mite speranza, in cui i vivi s’esprimono coi loro estinti, abbiam dovuto dire: « anch’essi hanno bisogno di pregare, come insegna la Chiesa cattolica. »

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (5) “Da San Bonifacio I a Sisto II”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZ

A PER SENTENZA

DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (5)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(Da Bonifacio I a Sisto III)

S. BONIFACIO I: 29 dicembre 418-4 settembre 422

Lettera “Retro maioribus” al Vescovo Rufo di Tessaglia, 11 Marzo 422.

La preminenza della Sede romana

232 – (cap. 2)… Abbiamo inviato al sinodo (di Corinto)… direttive scritte affinché tutti i fratelli comprendano che ciò che abbiamo giudicato non debba essere discusso di nuovo. Infatti, non è mai stato permesso di trattare nuovamente ciò che sia stato deciso dalla Sede Apostolica.

Lettera “Institutio” ai Vescovi della Tessaglia, 11 marzo 422.

La preminenza della Sede romana

233 – (cap. 1). L’istituzione della Chiesa universale nascente ha preso le mosse dal titolo d’onore del Beato Pietro, in cui consiste il suo governo e la sua incoronazione. Dalla sua fonte, infatti, scaturì la disciplina in tutte le Chiese, quando la venerazione della Religione stava già crescendo. I precetti del Concilio di Nicea non attestano altro; infatti non osava porre nulla al di sopra di lui, perché vedeva che nulla poteva essere posto al di sopra del suo rango, e infine sapeva che tutto gli era stato concesso dalla parola del Signore. Questa (Chiesa romana) è dunque con certezza per tutte le Chiese sparse nel mondo come capo dei suoi membri; se qualcuno si separa da essa, sia allontanato dalla Religione cristiana, poiché ha cessato di far parte di questa stessa assemblea.

Lettera “Manet beatum” a Rufo e agli altri Vescovi di Macedonia, ecc., 11 mar.

La preminenza della Sede romana

234 – Il beato Apostolo Pietro, per parola del Signore, ha ricevuto da Lui la premura per l’intera Chiesa, che, come sapete, è stata fondata su di lui secondo la testimonianza del Vangelo. E mai una posizione d’onore può essere libera da preoccupazioni, poiché è sicuro che tutto dipenda dalla sua riflessione. … Non accada ai Sacerdoti del Signore che qualcuno di loro cada nella colpa di tentare qualcosa con una nuova usurpazione e diventi nemico delle decisioni degli anziani, quando sa di avere per rivale soprattutto colui al quale il nostro Cristo ha affidato il Sommo Sacerdozio; e chi si alzerà a rimproverarlo non sarà un abitante del regno dei cieli. A te”, dice, “darò le chiavi del Regno dei cieli”, Mt XVI, 19 nel quale nessuno entrerà senza il favore del portiere.

235 – Poiché il luogo lo richiede, vi prego di fare un censimento delle determinazioni dei canoni, e troverete quale sia la seconda sede dopo la Chiesa romana, e quale la terza. … Nessuno ha mai alzato la mano con coraggio contro l’eminenza apostolica il cui giudizio non può essere rivisto, nessuno si è opposto se non voleva essere giudicato. Le cosiddette grandi Chiese osservano le dignità per mezzo dei canoni: quelle di Alessandria e di Antiochia (vedi il primo Concilio di Nicea, can. 6); perché hanno conoscenza della legge della Chiesa. Osservano, dico, le decisioni degli anziani, concedendo la loro buona grazia in ogni cosa, mentre ricevono in cambio quella grazia: quella che sanno di dovere a Noi nel Signore che è la nostra pace. Ma poiché la questione lo richiede, si dimostrerà con i documenti che le Chiese d’Oriente, soprattutto nelle grandi questioni che richiedevano un dibattito più ampio, abbiano sempre consultato la Sede romana e chiesto il suo aiuto ogni volta che fosse necessario. (Seguono esempi di appelli e richieste nel caso di Atanasio e Pietro di Alessandria, della Chiesa di Antiochia, di Nettario di Costantinopoli e degli Orientali separati al tempo di Innocenzo I).

S. CELESTINO I: 10 Settembre 422 – 27 luglio 432

Lettera “Cuperemus quidem” ai Vescovi delle province di Vienne e Narbonne, 26 luglio 428.

Riconciliazione in articulo mortis (al momento della morte).

236 – (2) Abbiamo sentito dire che la Penitenza fosse negata ai moribondi e che i desideri di coloro che, al momento della morte, desideravano che la loro anima fosse aiutata da questo rimedio, non venissero esauditi. Siamo inorriditi, lo confessiamo, dall’empietà di coloro che osano mettere in dubbio la bontà di Dio. Come se Dio non potesse aiutare tutti i peccatori che si rivolgono a Lui in qualsiasi momento, e come se non potesse liberare l’uomo che barcolla sotto il peso dei suoi peccati, dal fardello da cui desideri liberarsi. Vi chiedo: qual sia il senso di tutto questo, se non quello di portare una nuova morte a colui che sta per morire, e di uccidere la sua anima, comportandosi in modo tale che non possa più essere purificata? Dio è sempre pronto a perdonare; invita alla penitenza e dichiara: “Al peccatore, qualunque sia il giorno in cui si converte, non sarà più imputato il suo peccato” Ez. XXXIII,16 … Poiché è Dio che scruta i cuori, non dobbiamo mai rifiutare la penitenza a chi la chiede…

Lettera “Apostolici verba” ai Vescovi della Gallia. Maggio 431.

L’autorità di Agostino.

237 – Cap. 2. Agostino, uomo di santa memoria per la sua vita ed i suoi meriti, lo abbiamo sempre avuto in comunione con noi, e mai nemmeno la voce di un sospetto lo abbia raggiunto; e ricordiamo che avesse ai suoi tempi una così grande cultura, che già prima i miei predecessori lo considerassero sempre tra i migliori maestri.

Capitoli della Pseudo-Celestina o “Indiculus“.

La Grazia.

238 – Poiché ci sono alcuni che si gloriano del nome di Cattolici, ma per malvagità o ignoranza rimangono nelle idee condannate degli eretici, osano opporsi ai pii argomentatori, e mentre condannano senza esitazione Pelagio e Celestio, accusano falsamente i nostri maestri di essere andati oltre la misura necessaria, e dichiarano di voler solo seguire e riconoscere ciò che la Santissima Sede del Beato Apostolo Pietro abbia stabilito, dal ministero dei suoi Vescovi, sancito ed insegnato contro i nemici della grazia di Dio, era necessario indagare esattamente il giudizio dei capi della Chiesa romana sull’eresia sorta ai loro tempi e le idee che ritenevano necessario avere sulla grazia di Dio contro i dannosissimi difensori del libero arbitrio. Abbiamo anche accluso alcune sentenze dei Concili africani: quelle che i Vescovi apostolici hanno certamente fatto proprie approvandole. Affinché coloro che dubitino di qualche aspetto possano essere istruiti in modo più completo, pubblichiamo, in un breve riassunto (Indiculus), le costituzioni dei santi Padri. Chi non è troppo incline alla contestazione potrà riconoscere che il risultato di tutte queste discussioni sia racchiuso nelle brevi frasi delle legittime autorità, e che non gli resti alcun motivo di contraddizione, se crede e confessi con i Cattolici:

239 – Cap. 1. Nella prevaricazione di Adamo, tutti gli uomini hanno perso la loro potenza naturale e la loro innocenza, e nessuno può, per libera scelta, risalire dall’abisso di questa rovina, a meno che la grazia di Dio misericordioso non lo sollevi, come dichiara Papa Innocenzo, di felice memoria, nella sua epistola al Concilio di Cartagine: “Una volta vittima del proprio arbitrio, usando i propri beni in modo sconsiderato, l’uomo cade negli abissi della prevaricazione, dove sprofonda, e non trova nulla che gli permetta di uscirne. Ingannato per sempre dalla sua libertà, rimarrebbe schiacciato sotto il peso di questa rovina se non fosse per la grazia di Cristo, che nel bagno del Battesimo ha lavato ogni peccato passato con la purificazione di una nuova nascita.

240Cap. 2. Nessuno è buono di per sé, a meno che Colui che è il solo buono non lo renda partecipe di se stesso. Questo ci viene dichiarato nella stessa lettera con la sentenza dello stesso Papa: “Possiamo d’ora in poi aspettarci qualcosa di buono da spiriti che pensano di dovere la loro bontà a se stessi, senza guardare a Colui dal quale ricevono quotidianamente la grazia, confidando di poterla ottenere senza di Lui? “

241Cap. 3. Nessuno, anche se rinnovato dalla grazia del Battesimo, è in grado di vincere le insidie del diavolo, né di vincere le concupiscenze della carne, se non riceve dall’aiuto quotidiano di Dio la perseveranza nella vita buona. Ciò è confermato dalla dottrina dello stesso Pastore in queste stesse pagine, dove dice: “Anche se Dio ha riscattato l’uomo dai suoi peccati passati, perché sa che ci saranno mezzi per renderlo giusto, anche dopo queste colpe, dando ogni giorno quei rimedi senza i quali, se non ci affidiamo con fiducia ad essi, non potremo in alcun modo superare i nostri errori umani. Perché è necessario che, come siamo vittoriosi con il suo aiuto, così senza il suo aiuto siamo sconfitti.

242Cap. 4. Che nessuno usi il suo libero arbitrio se non per mezzo di Cristo, lo stesso maestro lo dichiarò nella lettera inviata al Concilio di Milevi 219: “Attenzione, infine, alla dottrina perversa di menti molto perverse, che la sua stessa libertà ha così ingannato il primo uomo che, mentre egli usava il suo freno più dolcemente, la sua presunzione lo fece cadere nella prevaricazione”. Non avrebbe potuto esserne liberato se, con l’intenzione di rigenerarlo, la venuta di Cristo non avesse ripristinato lo stato della prima libertà.

243Cap. 5. Tutti gli sforzi, tutte le opere e tutti i meriti dei Santi devono essere elevati alla gloria e alla lode di Dio. Nessuno lo soddisfa se non con ciò che Egli stesso ha dato. È verso questa idea che ci indirizza l’autorità decisiva di Papa Zosimo, di felice memoria, quando, scrivendo ai Vescovi di tutto l’universo, dice: “Per noi, è per una mozione divina (tutti i beni devono infatti essere riferiti al loro Autore, da cui provengono) che abbiamo consegnato tutto alla coscienza dei nostri fratelli e colleghi Vescovi. I Vescovi d’Africa veneravano talmente queste parole, in cui brillava la luce di una verità molto sincera, che scrissero al loro autore come segue: “Questa frase nelle lettere che vi siete preoccupati di inviare a tutte le province, dicendo: “Per noi è per moto divino, ecc. ” …  abbiamo pensato che lo dicesse per colpire rapidamente, come di sfuggita, con la spada sguainata della verità, coloro che esaltano la libertà del libero arbitrio contro l’aiuto di Dio. Che cosa ha fatto con questo libero arbitrio se non riferire tutto alla nostra umile coscienza? E tuttavia avete visto con sincerità e saggezza che lo avete fatto per moto divino e lo avete detto con verità e coraggio. Pertanto, poiché “la volontà è preparata dal Signore”, (Pr. VIII, 35 LXX; cfr. Can. 374), egli stesso tocca il cuore dei suoi figli con le sue ispirazioni paterne, in modo che essi facciano del bene. “Tutti coloro che sono animati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio” (Rm. VIII,14); quindi, non pensiamo che manchi il nostro libero arbitrio e non dubitiamo che, in ognuno dei buoni movimenti della volontà umana, sia prevalente l’aiuto dello Spirito Santo”.

244Cap. 6. Dio agisce nel cuore degli uomini e nella stessa libera volontà, così che un pensiero santo, un’intenzione pia ed ogni movimento di volontà buona vengono da Dio: possiamo fare del bene grazie a Lui, senza il quale non possiamo fare nulla Gv. XV, 5. Lo stesso dottore Zosimo ci ha insegnato a dire questo quando ha parlato ai Vescovi di tutto l’universo dell’aiuto della grazia divina: “C’è un momento – ha detto – in cui non abbiamo bisogno del suo aiuto? In ogni atto, in ogni situazione, in ogni pensiero, in ogni movimento, dobbiamo invocare il nostro aiutante ed il nostro protettore. È un vanto per la natura umana vantarsi di qualcosa, quando l’Apostolo proclama: “Noi non combattiamo contro avversari di carne e di sangue, ma contro i principati e le potenze dell’aria, contro gli spiriti maligni degli spazi celesti” Ef. VI, 12. E come dice lui stesso: “Misero che sono! Chi mi libererà da questo corpo che mi condanna alla morte? La grazia di Dio attraverso il nostro Signore Gesù Cristo. E ancora: “È per grazia di Dio che sono quello che sono, e la sua grazia verso di me non è stata infruttuosa, ma ho faticato più di tutti loro: non io, ma la grazia di Dio che è con me” 1 Co XV, 10.

245Cap. 7. Accettiamo anche come proprietà propria, per così dire, della Sede Apostolica, ciò che sia stato deciso nei decreti del Concilio di Cartagine (418) nel suo terzo capitolo: “Chiunque dica che la grazia di Dio, che giustifica l’uomo per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, sia solo per la remissione dei peccati già commessi, ma non per aiutarlo a non peccare più, sia anatema!”. E ancora nel quarto capitolo: “Chiunque dica che la grazia di Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo ci aiuti a non peccare più nel senso che ci rivela e ci apre la comprensione dei comandamenti, in modo che sappiamo ciò che dobbiamo desiderare e ciò che dobbiamo evitare, ma non ci dà in alcun modo l’amore e la forza di fare anche ciò che abbiamo riconosciuto come nostro dovere, sia anatema!”. Poiché l’Apostolo dice: “La conoscenza gonfia, ma la carità edifica”, -1 Cor VIII, 1- è molto empio pensare che abbiamo la grazia di Cristo per la conoscenza che gonfia e non per la carità che edifica, poiché è anche un dono di Dio sapere ciò che dobbiamo fare e avere l’amore per farlo. Così la carità che edifica impedisce alla conoscenza di gonfiarci. Come è scritto di Dio: “Egli insegna all’uomo la sapienza”, Sal XCIV, 10, così è scritto: “La carità viene da Dio”, 1Gv IV, 7. E così pure nel quinto capitolo: “Chiunque dica che la grazia della giustificazione ci venga data proprio per poter fare più facilmente con essa ciò che dobbiamo fare con il nostro libero arbitrio, in modo che, se la grazia non fosse data, potremmo tuttavia, anche se con minore facilità, osservare i comandamenti di Dio senza di essa, sia anatema!”. Quando parla del frutto dei Comandamenti, il Signore non dice: “Senza di me potete farlo più facilmente”, ma: “Senza di me non potete fare nulla” 1Gv XV, 5.

246Cap. 8. Oltre a queste decisioni inviolabili della Santissima Sede Apostolica con le quali i nostri santi Padri, respingendo l’orgoglio di questa novità malvagia, hanno insegnato che i comandamenti della buona volontà, l’aumento degli sforzi lodevoli e la perseveranza in essi fino alla fine, sono da attribuire alla grazia di Cristo, consideriamo anche i misteri delle preghiere dette dai Sacerdoti. Queste sono stati tramandate dagli Apostoli e vengono celebrate uniformemente in tutto il mondo e in tutta la Chiesa cattolica, affinché la legge della preghiera sia la legge della fede. Quando coloro che presiedono le assemblee sacre svolgono la missione loro affidata, presentano la causa del genere umano alla clemenza divina e, con tutta la Chiesa che geme, chiedono e pregano che sia data la fede agli increduli, che gli idolatri siano liberati dagli errori che li lasciano senza Dio, che scompaia il velo che copre il cuore dei Giudei, che il velo che copre i cuori dei Giudei scompaia e la luce della verità risplenda su di loro; che gli eretici si pentano ed accettino la fede cattolica; che gli scismatici ricevano lo spirito di una rinnovata carità; che a coloro che sono caduti siano dati i rimedi della penitenza; che infine il palazzo della misericordia celeste sia aperto ai catecumeni condotti ai Sacramenti della rigenerazione. Queste richieste non sono rivolte a Dio in modo formale o vano: i fatti lo dimostrano. Dio, infatti, si degna di trarre molte vittime da ogni tipo di errore; “strappate al potere delle tenebre, le introduce nel regno del suo Figlio diletto” Col. I:13, e “da vasi d’ira” le rende “vasi di misericordia” Rm. IX: 22-23. Tutto questo è così fortemente sentito come opera di Dio che continui ringraziamenti e lodi della Sua gloria sono rivolti a Dio che fa queste cose, per aver illuminato e corretto questi uomini.

247Cap. 9. Contempliamo anche con occhio diligente ciò che la santa Chiesa fa uniformemente per i battezzati di tutto il mondo. Quando i bambini o gli adolescenti si accostano al Sacramento della rigenerazione, non entrano nella fonte della vita finché lo spirito immondo non sia stato espulso da loro attraverso gli esorcismi e le esalazioni dei sacerdoti; affinché sia veramente messo in luce come “il principe di questo mondo viene scacciato” (Gv XII,31), come “prima l’uomo forte viene legato” (Mt XII, 29), e poi “gli vengono tolti i beni” (Mc III, 27), che passano in possesso del vincitore, che “ha fatto prigionieri i prigionieri” (Ef IV, 8) e che “fa doni agli uomini” (Sal LXVII,19).

248 – Queste regole della Chiesa e queste prove fondate sull’autorità divina ci hanno talmente confermato, con l’aiuto del Signore, che professiamo che Dio sia l’Autore di tutti i buoni movimenti e le buone azioni, di tutti gli sforzi e di tutte le virtù che, fin dagli inizi della fede, ci fanno tendere verso Dio. Non dubitiamo che la sua grazia anticipi tutti i meriti dell’uomo. Attraverso di Lui cominciamo a “volere” e a “fare” del bene Ph. II:13. Questo aiuto e questa assistenza da parte di Dio non tolgono il libero arbitrio, ma lo liberano, in modo che dalle tenebre diventi luce, dalla perversione diventi diritto, dal languore diventi salute, dall’imprudenza diventi saggezza. Perché è così grande la bontà di Dio verso tutti gli uomini che vuole che i nostri meriti siano suoi doni e che ci dia una ricompensa eterna per ciò che ci ha elargito. Egli opera in noi per volere e fare ciò che vuole, e non permette che ciò che ci ha dato rimanga inattivo in noi, affinché lo usiamo, non lo trascuriamo, affinché siamo anche noi cooperatori della grazia di Dio. Se vediamo che qualcosa langue in noi a causa della nostra viltà, rivolgiamoci a Colui che guarisce tutte le nostre lingue e riscatta la nostra vita dalla morte, Sal. CII, 3-4, al quale diciamo ogni giorno: “Non ci indurre in tentazione, ma liberaci del male” Mt. VI:13.

249 – Cap. 10. Per quanto riguarda i punti più profondi e difficili delle questioni che si pongono, e che sono stati trattati nella misura più ampia da coloro che hanno resistito agli eretici, non osiamo disprezzarli, né riteniamo necessario citarli, per confessare la grazia di Dio. Non osiamo disprezzarli, né riteniamo necessario farvi riferimento, perché per confessare la grazia di Dio, alla cui opera misericordiosa non può sfuggire assolutamente nulla, riteniamo sufficiente ciò che questi scritti ci hanno insegnato, secondo le norme della Sede Apostolica già citate, tanto che non consideriamo più come cattolico ciò che sembrerebbe contrario alle sentenze sopra stabilite.

CONCILIO DI EFESO (3° ecumenico)

22 giugno – Settembre 431

Prima sessione dei Cirilliani, 22 giugno 431.

a) 2a lettera di Cirillo di Alessandria a Nestorio

L’incarnazione del Figlio di Dio

250 – Non diciamo infatti che la natura del Verbo con una trasformazione si sia fatta carne, né che si sia trasformata in un uomo completo, composto di anima e corpo, ma piuttosto questo: il Verbo, avendo unito secondo l’ipostasi una carne animata da un’anima ragionevole, si è fatto uomo in modo indicibile ed incomprensibile ed ha ricevuto il titolo di Figlio dell’uomo, non per semplice volontà o piacere, né perché ne avrebbe assunto solo il carattere; e diciamo che le nature sono diverse quando sono riunite in una vera unità, e che dalle due è nato un solo Cristo ed un solo Figlio, non perché la differenza delle nature sia stata abolita dall’unione, ma piuttosto perché la divinità e l’umanità hanno formato per noi l’unico Signore Cristo e Figlio con la loro ineffabile ed indicibile compresenza nell’unità. Così, sebbene Egli sussista prima dei secoli e sia stato generato dal Padre, si dice anche che sia stato generato secondo la carne da una donna, non che la sua natura divina abbia cominciato ad essere nella santa Vergine, né che abbia avuto necessariamente bisogno di una seconda nascita attraverso di Lei dopo quella che aveva ricevuto dal Padre, È infatti una leggerezza e un’ignoranza dire che Colui che esiste prima dei secoli ed è co-eterno con il Padre, abbia bisogno di una seconda generazione per esistere, ma poiché fu per noi e per la nostra salvezza che si unì secondo l’ipostasi dell’umanità e nacque dalla Donna, si dice che fosse generato da Lei secondo la carne.

251 (questo numero è suddiviso in sottocapitoli: 251a; 251b; 251c; 251d; 251e) –

Infatti, non è stato un uomo comune quello che è stato generato per primo dalla Beata Vergine e sul quale è poi disceso il Verbo, ma è per essere stato unito alla sua umanità fin dal grembo materno che si dice che abbia subìto la generazione carnale, in quanto si è appropriato della generazione della sua stessa carne. Così diciamo che abbia sofferto ed è risorto, non che il Dio-Verbo abbia sofferto nella sua natura i colpi, i fori dei chiodi e le altre ferite (perché la divinità è impassibile, essendo incorporea); ma poiché il corpo che è diventato suo abbia sofferto tutto questo, diciamo ancora che è stato Lui (il Verbo) a soffrire per noi: l’Impassibile era nel corpo che soffriva. Ed è allo stesso modo che pensiamo alla sua morte. Perché il Verbo di Dio è per natura immortale, incorruttibile, vivificante e vivificato. Ma ancora, poiché il suo stesso corpo, per grazia di Dio, ha gustato la morte per ogni uomo, come dice Paolo (Eb. II, 9), diciamo che egli ha sofferto la morte per noi: non perché abbia sperimentato la morte per quanto riguarda la propria natura (sarebbe folle dirlo o pensarlo), ma perché, come ho appena detto, la sua carne ha gustato la morte. Così, essendo la sua carne risorta, si parla di risurrezione del Verbo, non perché il Verbo sia caduto nella corruzione, anzi, ma ancora perché la sua carne è stata risuscitata. il corpo è risorto. … Così essi (i santi padri) si sono permessi di chiamare la santa Vergine Madre di Dio, non perché la natura del Verbo o la sua divinità abbia ricevuto l’inizio della sua esistenza dalla santa Vergine, ma perché da lei è stato generato il suo santo corpo animato da un’anima ragionevole, un corpo al quale il Verbo è stato unito secondo l’ipostasi e per questo si dice che è stato generato secondo la carne.

b) 2. Lettera di Nestorio a Cirillo

L’unione delle nature in Cristo

251a – (Cap. 3) Io (noi) credo dunque, dicono i santi padri, nel Signore nostro Gesù Cristo, suo Figlio, suo unigenito. Osservate come essi abbiano dapprima posto come basi “Signore”, “Gesù”, “Cristo”, “Unigenito”, “Figlio”, nomi comuni alla divinità e all’umanità, per poi costruire la tradizione dell’Incarnazione, della Risurrezione e della Passione; Il loro scopo era, una volta stabiliti alcuni nomi significativi comuni all’una e all’altra natura, che ciò che si riferisce alla figliolanza e alla signoria non venisse diviso, e che nell’unicità della figliolanza ciò che si riferisce alle nature non rischiasse di scomparire per confusione.

251b – (Cap. 4) Questo, infatti, aveva insegnato loro Paolo, il quale, accennando all’Incarnazione divina e in procinto di aggiungere la Passione, inizia mettendo questo nome di Cristo comune alle nature, come ho detto poco fa, e poi aggiunge il discorso relativo alle due nature. Che cosa dice in effetti: “Abbiate tra voi gli stessi sentimenti che erano in Cristo Gesù. Egli, che esisteva in forma di Dio, non custodì gelosamente il rango che lo rendeva uguale a Dio, ma (per non citare tutto nei dettagli) si fece obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil. II, 5 – Fil. 8). Così, mentre si accingeva a menzionare la morte, affinché non si traesse la conclusione che il Verbo di Dio sia passibile, pone questo nome di Cristo, come appellativo che indica la sostanza impassibile e passibile in una sola Persona, impassibile per la divinità, passabile per la natura corporea.

251c – (Cap. 5) Anche se potrei dire molto su questo argomento, e prima di tutto che in relazione all’economia questi santi Padri non hanno nemmeno menzionato la generazione ma l’Incarnazione, sento che la mia promessa di brevità nel mio preambolo mi trattiene dal discorso e mi porta al secondo punto della Vostra Carità. Lì ho lodato la divisione delle nature secondo la ragione dell’umanità e della divinità e la loro congiunzione in una sola Persona; e anche che voi dite che Dio Verbo non ha avuto bisogno di una seconda generazione dalla Donna e che confessate che la divinità non è suscettibile di sofferenza. Tutto questo è ortodosso perché vero e contrario alle false opinioni di tutte le eresie sulle nature del Signore. Se il resto contiene una saggezza nascosta, incomprensibile per le orecchie dei lettori, spetta alla vostra penetrazione conoscerla: a me, almeno, è sembrato, in ogni caso, ribaltare quanto detto sopra. Infatti, Colui che in precedenza era stato proclamato impassibile e non suscettibile di una seconda generazione, fu nuovamente presentato, non so come, come passibile e creato ex novo, come se le qualità inerenti al Dio-Verbo fossero state distrutte dal congiungimento con il Tempio, o che fosse una cosa da poco agli occhi degli uomini che il Tempio senza peccato, inseparabile dalla natura divina, dovesse subire la generazione e la morte per amore dei peccatori, o che la voce del Signore che gridava ai Giudei non fosse creduta: “Distruggete questo Tempio e lo farò risorgere in tre giorni” Gv. II, 19 e non: “Distruggete la mia divinità e sarà risorta in tre giorni”.

251d – (Cap. 6)… In ogni luogo della divina Scrittura, quando si parla dell’economia del Signore, la generazione e la Passione che vengono presentate non sono quelle della divinità, ma dell’umanità di Cristo, così che la santa Vergine deve essere chiamata con una denominazione più esatta Madre di Cristo e non Madre di Dio. Ascoltate anche le parole del Vangelo che proclamano: “Nel Libro della genealogia di Gesù Cristo, si dice: figlio di Davide, figlio di Abramo” Mt I,1 È chiaro, dunque, che il Dio-Verbo non era figlio di Davide. Vi prego di considerare un’altra testimonianza: “Giacobbe generò Giuseppe, sposo di Maria, dalla quale fu generato Gesù, che essi chiamano il Cristo”. Mt I, 16 Esaminate un’altra voce che ci testimonia: “Questa fu la generazione di Gesù Cristo”. Poiché Maria, sua madre, era promessa sposa di Giuseppe, rimase incinta per opera dello Spirito Santo” Mt I, 18. Chi potrebbe supporre che la divinità del Figlio unigenito sia una creatura dello Spirito? E che dire di questa parola: “La Madre di Gesù era lì” Gv. II,1. E ancora: “Con Maria, madre di Gesù” At, 1,14, e “Ciò che fu generato in lei fu dallo Spirito Santo” Mt I, 20 e: “Prendi il bambino e sua madre e fuggite in Egitto” Mt. II,13; ed a proposito del suo Figlio, che è nato dalla stirpe di Davide secondo la carne” Rm. 1,3 e ancora a proposito della Passione: “Dio, avendo mandato il suo Figlio a somiglianza di carne di peccato e a causa del peccato, ha condannato il peccato nella carne” Rm. VIII, 3 e ancora: “Cristo è morto per i nostri peccati” 1Co XV, 3 e: “Cristo ha sofferto nella sua carne” 1Pt IV, 1 e: “Non è questa la mia divinità, ma il mio corpo spezzato per voi” 1Co XI, 24.

251e – (Cap. 7) E poiché un’infinità di altre voci testimoniano al genere umano che la divinità del Figlio non è da considerarsi recente o passibile di sofferenza corporea, ma piuttosto la carne unita alla natura della divinità (per cui Cristo si definisce Signore di Davide e suo figlio: “Qual è la vostra opinione”, dice, “del Cristo? Di chi è figlio? Gli dicono: “di Davide”. Gesù rispose loro: “Come mai Davide, sotto l’azione dello Spirito, lo chiama Signore, dicendo: “Il Signore disse al mio Signore”: Mt XXII, 42-44 (nel pensiero che Egli è interamente figlio di Davide secondo la carne, ma Signore di Davide secondo la divinità), è bene e conforme alla tradizione evangelica confessare che il corpo è il Tempio della divinità del Figlio e un Tempio unito secondo una congiunzione suprema e divina, così che la natura della divinità si appropria di ciò che appartiene a questo Tempio; Ma in nome di questa appropriazione, attribuire al Verbo anche le proprietà della carne congiunta, cioè la generazione, la sofferenza e la mortalità, è il fatto, fratelli, di un pensiero o traviato dai Greci, o ammalato della follia di Apollinare, di Ario e delle altre eresie, o piuttosto è qualcosa di più grave di queste. Perché necessariamente chi si lascia trascinare dalla parola “appropriazione” dovrà rendere il Verbo Dio partecipe dell’appropriazione, perché di appropriazione si tratta, renderlo partecipe della crescita progressiva e del timore al momento della Passione ed il metterlo nel bisogno dell’assistenza di un Angelo. E passo sotto silenzio la circoncisione, il sacrificio, il sudore, la fame, tutte cose che, attaccate alla carne, sono adorabili come avvenute a causa nostra, ma che, se attribuite alla Divinità, sono false e ci causano, come calunniatori, una giusta condanna.

c) Anatemi di Cirillo di Alessandria, allegati alla lettera del Concilio di Alessandria, a Nestorio (III lettera di Cirillo a Nestorio).

L’unione delle nature in Cristo

252 (1) Se qualcuno non confessa che l’Emmanuele sia Dio in verità e che per questo la Beata Vergine sia la Madre di Dio (perché ha partorito il Verbo di Dio fatto carne dalla carne), sia anatema!

253 (2) – Se qualcuno non confessa che il Verbo, che procede da Dio Padre, sia stato unito secondo l’ipostasi alla carne, e che è un solo Cristo con la sua stessa carne, cioè lo stesso Dio e lo stesso uomo, sia anatema!

254 (3) – Se qualcuno, a proposito dell’unico Cristo, divide le ipostasi dopo l’unione, combinandole secondo la mera congiunzione della divinità, della sovranità o della potenza, e non piuttosto con la riunione secondo un’unione fisica, sia anatema!

255 (4) – Se qualcuno divide in due persone o ipostasi le parole contenute nei Vangeli e negli scritti degli Apostoli, sia quelle pronunciate dai Santi a proposito di Cristo, sia quelle pronunciate da Lui a proposito di se stesso, e ne attribuisce alcune a Lui come ad un uomo considerato separatamente dal Verbo da Dio, e altre al solo Verbo da Dio Padre perché sono appropriate a Dio, sia anatema!

256 (5) – Se qualcuno osi dire che Cristo sia un uomo teoforico e non piuttosto Dio in verità come Figlio unigenito e per natura, poiché il Verbo si è fatto carne e ha comunicato in sangue e carne come noi, sia anatema!

257 (6) – Se qualcuno dice che il Verbo del Padre Dio sia il Dio o il Maestro di Cristo e non confessi piuttosto che lo stesso è sia Dio che uomo, poiché il Verbo si è fatto carne secondo le Scritture, sia anatema!

258 (7) – Se qualcuno dice che Gesù, in quanto uomo, sia stato mosso dal Dio-Verbo e che la gloria del Figlio unigenito sia stata attribuita a Lui come ad un altro che sussiste a parte Lui, sia anatema!

259 (8) – Se qualcuno osi dire che l’uomo assunto debba essere co-adorante e co-glorificato con Dio Verbo e che debba essere chiamato Dio come un altro con un altro (perché ogni volta l’aggiunta della parola “con” costringerà a concepire la cosa in questo modo) e non onora invece l’Emmanuele con un’unica adorazione e non gli rivolga un’unica glorificazione, secondo che il Verbo si è fatto carne, sia anatema!

260 (9) Se qualcuno dice che l’unico Signore Gesù Cristo sia stato glorificato dallo Spirito, come se avesse usato un potere estraneo che gli è venuto dallo Spirito, e che abbia ricevuto da Lui il potere di agire contro gli spiriti immondi e di compiere i suoi segni divini tra gli uomini, e non dica piuttosto che questo Spirito, con cui ha operato i segni divini, fosse il suo proprio, sia anatema!

261 (10) – La Sacra Scrittura dice che Cristo sia stato il Sommo Sacerdote e l’Apostolo della nostra confessione di fede (cfr. Eb. III,1) e che si è offerto per noi come aroma profumato a Dio e al Padre. Se poi qualcuno dice che il nostro Sommo Sacerdote e Apostolo non fosse il Verbo stesso da Dio quando si è fatto carne ed uomo come noi, ma che fosse un altro propriamente distinto da Lui, un uomo nato da donna; o se qualcuno dice che abbia presentato l’offerta per sé e non piuttosto per noi soltanto (perché chi non conosceva il peccato non poteva avere bisogno dell’offerta), sia anatema!

262 (11) –  Se qualcuno non confessa che la carne del Signore sia vivificante e che sia la carne stessa del Verbo venuto da Dio Padre, ma sostiene che sia quella di un altro, distinto da lui e unito a lui secondo la dignità, o che abbia ricevuto solo l’abitazione divina; e se invece non confessa che è vivificante, come abbiamo detto, perché è la carne stessa del Verbo, che ha il potere di vivificare ogni cosa, sia anatema!

263 (12) – Se qualcuno non confessa che il Verbo di Dio abbia sofferto nella carne, sia stato crocifisso nella carne, abbia gustato la morte nella carne e sia il primogenito dai morti, in quanto è vita e vivifica come Dio, sia anatema!

Sentenza del Concilio contro Nestorio.

Condanna del nestorianesimo

264 – Poiché l’onorabile Nestorio, tra l’altro, non ha voluto né obbedire al nostro invito, né ricevere i Vescovi santissimi e reverendissimi che gli abbiamo inviato, siamo stati costretti ad esaminare le empietà che ha pronunciato, come risulta dalle sue lettere, dagli scritti che sono stati letti e dalle dichiarazioni che ha pronunciato recentemente in questa metropoli, e di cui abbiamo testimonianze, lo abbiamo colto nell’atto di pensare e predicare empiamente, costretti sia dai canoni che dalla lettera del nostro santissimo Padre e collega nel ministero Celestino, Vescovo della Chiesa di Roma, siamo giunti, non senza molte lacrime, a questa triste sentenza contro di lui: Nostro Signore Gesù Cristo, da lui bestemmiato, ha deciso con questo santissimo Concilio che il detto Nestorio sia d’ora in poi spogliato della dignità episcopale e separato dall’intero corpo sacerdotale.

VI sessione dei Cirilliani, 22 luglio 431.

L’attaccamento alla professione di fede nicena.

265 – Il santo Concilio ha deciso che a nessuno sia permesso professare, o scrivere, o comporre una confessione di fede diversa da quella definita dai santi Padri riuniti a Nicea con lo Spirito Santo. …

266 – Se qualcuno, Vescovi, chierici o laici, si convincesse di accettare, condividere o insegnare le dottrine contenute nell’esposizione del presbitero Carisio sull’incarnazione dell’unigenito Figlio di Dio, o quelle di Nestorio, che sono dannose e distorte, cada sotto la sentenza di questo santo Concilio ecumenico.

VII sessione dei Cirilli, 31 agosto (?) 431; lettera sinodale.

Condanna del pelagianesimo.

267 – (Can. 1) Il metropolita di un’eparchia che si separa da questo santo Concilio ecumenico… o che ha condiviso le opinioni di Celestio o le condividerà in futuro, non può più agire in alcun modo contro i Vescovi dell’eparchia, mentre d’ora in poi è escluso dal Concilio da ogni comunione ecclesiastica e sospeso da ogni attività.

268 – (Can. 4). Se alcuni chierici si sono separati e hanno osato condividere privatamente o pubblicamente le opinioni di Nestorio o di Celestio, è stato giudicato che anche loro siano stati deposti dal santo Concilio.

XISTIUS (SISTO) III: 31 luglio 432 – 19 Agosto 440

Formula di unione tra Cirillo di Alessandria e i Vescovi della Chiesa di Antiochia, primavera 433.

Le due nature in Cristo

271 – Ciò che pensiamo e diciamo riguardo alla Vergine Madre di Dio e al modo dell’incarnazione dell’unigenito Figlio di Dio, lo diremo brevemente e per quanto è necessario, non per aggiungere qualcosa, ma per assicurarvi pienamente di ciò, come lo abbiamo ritenuto fin dall’inizio, avendolo ricevuto dalle divine Scritture e dalla tradizione dei Santi Padri, senza aggiungere nulla alla fede esposta dai santi Padri di Nicea. Come abbiamo già detto, questo è sufficiente per la conoscenza della vera fede e per la confutazione di ogni errore eretico. Parleremo quindi senza l’audacia di avvicinarci a ciò che è inaccessibile, ma, confessando la nostra debolezza, chiuderemo la bocca a chi vuole attaccarci perché scrutiamo ciò che è al di sopra dell’uomo.

272 – Confessiamo dunque il Signore nostro Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, perfetto Dio e perfetto uomo, fatto di un’anima ragionevole e di un corpo, generato dal Padre prima dei secoli nella sua divinità, ed alla fine dei giorni lo stesso per noi e per la nostra salvezza, nato dalla Vergine Maria nella sua umanità; lo stesso consustanziale al Padre nella sua divinità e consustanziale a noi nella sua umanità. Poiché delle due nature è stata fatta l’unione, noi confessiamo un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore. E per questa nozione di unione indissolubile, confessiamo che la santa Vergine è la Madre di Dio, perché il Verbo di Dio si è fatto carne ed uomo, e fin dal momento del concepimento ha unito a sé il Tempio che ha preso da Lei.

273 – Per quanto riguarda le espressioni dei Vangeli e degli Apostoli sul Signore, sappiamo che i teologi ne applicano alcune indifferentemente, perché si riferiscono all’unica Persona, ma distinguono le altre perché si riferiscono alle due nature, e attribuiscono alla divinità di Cristo quelle che sono appropriate a Dio, ed alla sua umanità quelle che segnano il suo abbassamento.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (6) “Da s. LEONE Magno a Ilario”.

TU SEI PIETRO (3)

Monsignor Tihamér Tóth

VESCOVO DI VESZPRÉM

“Tu sei Pietro”

STORIA E ATTUALITÀ DEL PONTEFICE ROMANO (III)

1956

CENSURA ECLESIASTICA

Nihil obstat: Dr. Vicente Serrano Censore eccl.

IMPRIMATUR: † JOSE MARIA. Ob. Ausiliario e Vicario Generale Madrid, 2 marzo 1956

Capitolo III

LA CORONA DI SPINE DEL PAPA

Quanto sono misteriose e profonde le parole con cui Gesù Cristo ha voluto mostrare il futuro a Pietro, il primo Papa! “In verità, in verità, in verità io ti dico che quando eri più giovane, ti cingevi le vesti e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, tenderai le mani e un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vuoi.” (Gv XXI, 18). Che strano e misterioso! Pietro le ha capite? Allora è probabile che non le abbia capite. Non aveva ancora visto la croce che, il 29 giugno 67, sarebbe stata eretta sul colle del Vaticano, e sulla quale lui, il primo Papa, sarebbe stato eretto, a testa bassa, con la testa rivolta in giù, per suggellare con la vita la sua fedeltà a Gesù Cristo. Ma il Signore ci stava pensando. Pensava al martirio del primo Papa e di tutti gli altri. San Giovanni Evangelista non ha mancato di riportarlo: “Disse questo per indicare con quale tipo di morte Pietro avrebbe glorificato Dio” (Gv. XXI,19). Gesù Cristo vide molto bene che, nel corso dei secoli, i suoi nemici mortali avrebbero attaccato con accanimento proprio quell’istituzione dalla cui esistenza dipende il destino della Chiesa. Egli vide molto bene che la triplice corona, la tiara dei Papi, non sarebbe stata, in realtà, una corona reale, ma una triplice corona di spine, che insanguinava la fronte dei suoi Vicari. Studiando, dunque, in questa serie di capitoli, l’istituzione del Papato, il presente capitolo, che tratterà la seguente tesi, non sarà superfluo.

“La sollecitudine di tutte le Chiese” (2 Corinzi XI:28).

La prima corona di spine è l’accumulo di fatiche e doveri che il Papa deve compiere per la causa di Cristo, e che San Paolo esprime con queste parole: “…la cura di tutte le chiese” (2 Corinzi XI, 28).

A) Si sentono qua e là commenti infantili ed ingenui sulla vita del Papa: ha centinaia di stanze in Vaticano, può andare in giro per il suo Vaticano, può andarsene in giro come vuole, mangia e beve come vuole, tutti si inchinano a lui, lui è un “signore sorprendentemente grande”. Chi non ha mai visto il Papa lo immagina così.

Invece, coloro che conoscono i suoi orari, i suoi doveri ed il suo lavoro sovrumano;

chi sa come si alza presto e come lavora incessantemente fino a tarda notte; quelli che sanno che dal primo gennaio al 31 dicembre, giorno dopo giorno, riceve 3.000 interpellanze ed invia altrettante risposte; chi sa che concede costantemente innumerevoli udienze a visitatori che arrivano da tutto il mondo, dai più modesti ai più illustri. Chi sa a quanti consigli e riunioni partecipi e come non solo guidi la vita spirituale dei 460 milioni di fedeli cattolici, ma anche come spiani la strada per la conversione dei non credenti. Chi sa tutte queste cose non invidierà ingenuamente questa “grande signoria” del Papa, ma guarderanno a lui con rispetto e ammirazione, in quanto primo operatore della causa di Gesù Cristo. Vedranno nel Papa il “servo dei servi di Dio”, al quale si possono applicare, in senso stretto, le parole di San Paolo, secondo cui su di lui pesa “la sollecitudine di tutte le Chiese”.

B) E quanto è ammirevole: i compiti e i doveri si moltiplicano ai nostri giorni. Il fatto è che la sua autorità stia crescendo sempre più in tutto il mondo. Notiamo con particolare gratitudine alla divina Provvidenza, che quando nel caos che ha seguito la guerra mondiale, grandi imperi scomparvero, diversi troni crollarono, e la fiducia che gli uomini avevano riposto nelle monete, nelle scuole e nelle filosofie andò in frantumi, fu proprio allora che la voce delle trombe d’argento che risuonava nella Basilica di San Pietro, si fece più penetrante e robusta; e, giorno dopo giorno andò crescendo il numero di uomini, popoli e Paesi, la cui attenzione, speranza, aspettativa ed omaggio sono rivolti verso il Vaticano, da dove giunge ovunque il suono trionfale delle trombe: Tu sei Pietro e… su questa pietra edificherò la mia Chiesa (Mt XVI, 18).

È con gioia e quasi con orgoglio che vediamo come, soprattutto dal dopoguerra, sia cresciuta in modo costante e al massimo grado, l’autorità del Papa agli occhi del mondo. Quante milioni di persone guardano a Roma ed ascoltano la parola del Papa!

Non dobbiamo dimenticare, in mezzo al nostro mondo, quanti milioni di persone guardano a Roma e ascoltano la parola del Papa, e come l’enorme compito del Papa di guidare il mondo intero sia in costante crescita.

Il lavoro del Papa di guidare il mondo intero.

Chi è malato, perché io non sia malato con lui?

(2 Corinzi XI, 29)

La seconda corona di spine – più pesante e dolorosa della prima – è l’accumulo di ansie e di preoccupazioni, e le innumerevoli pene e dolori causati dalla persecuzione contro il Signore. “Chi è malato, che io non sia malato con lui?”. -Il Papa potrebbe ripetere con San Paolo: “Chi si scandalizza che io non sia addolorato?” (2 Cor XI, 29). A volte incontriamo esseri stanchi, privi di umorismo, che si lamentano tristemente: “Come sono stanco? Non ce la faccio più, ho tante fatiche, tanti dolori, tante responsabilità sulle mie spalle! Ebbene, cosa deve provare il Papa che deve gestire non una scuola, non una banca, non un ministero, non un Paese, ma la più grande comunità universale, che conta i suoi membri non a migliaia, non a centinaia di migliaia, ma a centinaia di milioni, e il cui campo d’azione non si limita ad un villaggio o ad un paese, a una provincia, a una regione o a un Paese, ma si estende a tutto il mondo, da Est a Ovest, da Sud a Nord? Ogni giorno giungono al Papa notizie sullo stato della Chiesa in tutto il mondo e sulle sorti, prospere o avverse, della stessa, ovunque. Ognuna di queste notizie ha una risonanza speciale nel suo cuore paterno. Tutte le lamentele, tutti i dolori e tutte le disgrazie di tutti i Paesi, isole e continenti e persino delle regioni polari, hanno un’eco nel suo cuore paterno. Quando si dichiara guerra ai principii cristiani, quando si vuole estirparli dalle anime degli uomini e delle donne, con la religiosità di un popolo con astuzia e furbizia, su chi sferrano i colpi più terribili, se non sul Papa? Come si può calcolare l’immenso dolore che deve aver riempito il cuore del Papa a causa dell’inumana persecuzione religiosa del Soviet russo e la sanguinosa persecuzione della Chiesa in Spagna e in Messico? Osserviamolo mentre quando riceve i pellegrini di un paese: quale ansia, quale compassione, quale amore vibra nelle sue parole! Lui che conosce tutte queste cose, cerca di mitigare tanto dolore; perché è giusto che i figli vogliano mitigare le preoccupazioni dei genitori. Come possiamo addolcire le pene del Papa? a) Innanzitutto con le nostre preghiere. Preghiamo per l’intenzione del Papa. Che bella abitudine inserire nelle nostre preghiere i mille dolori, le ansie, e dolori di colui che è il Capo di tutta la cristianità, “affinché perché Dio lo custodisca e non lo consegni nelle mani dei suoi nemici”!

b) I fedeli possono anche mitigare le pene del Papa con un contributo materiale. So che questo suona strano in mezzo alle difficoltà moderne. So quanto sia difficile la vita oggi in tutto il mondo. Eppure, da ogni parte del mondo il denaro di San Pietro viene inviato al Santo Padre. Questo nome non è già molto significativo? Il denaro di San Pietro! Non “denaro di Benedetto”, non “denaro di Pio”, ma denaro di San Pietro. L’obolo di Pietro. Questa è la fonte delle grandi somme di denaro che il Papa investe… In cosa? Nella sua cucina, nella sua casa, nei suoi vestiti…? Ah, no. Non ne ha bisogno,

perché vive come un modesto religioso. La somma esorbitante con cui il Papa è solito aiutare i poveri di tutto il mondo, quelli che soffrono la miseria, gli sfortunati ed i missionari. Per questo motivo, ovunque ci sia un amore un po’ vivo per il Padre comune del Cristianesimo, si cerca almeno di aiutarlo con un modesto contributo, perché si vede che su di lui grava la sollecitudine di tutte le Chiese. E non c’è da temere per il cambio della propria Nazione a causa di questi oboli. Non mancano coloro che ci accusano che questi oboli diminuiscano il valore della propria moneta. Mi sembra che basti rispondere con una sola frase. Non so esattamente a quanto ammonti ogni anno il denaro di San Pietro. Ma una cosa la so: che non è nemmeno un decimo di quello che noi ungheresi permettiamo di mandare all’estero, per esempio, per comprare le arance o altri prodotti di cui il nostro mercato interno è carente.

La persecuzione del Papa.

Il Papa ha anche una terza e dolorosissima corona di spine: l’odio e la persecuzione costante a cui il Papato è esposto da mille e novecento anni, che non è altro che il compimento di tre profezie di Gesù Cristo.

Tre profezie di Gesù Cristo.

Di quali profezie si tratta?

29

A) La prima: Un altro vi cingerà e vi condurrà dove voi non volete (Gv XXI, 18).

Come si è adempiuta, parola per parola, in tutta la storia della Chiesa! – Ripercorriamo la serie dei Papi. Nei primi secoli, essere Papa equivaleva ad essere un martire. Fino a Costantino il Grande ci sono stati 32 Papi; 30 di loro morirono da martiri e gli altri due finirono la loro vita in esilio. Dov’è la dinastia che ha iniziato il suo regno con trenta martiri? La maggior parte di loro non raggiunse nemmeno i trenta monarchi. Ma anche dopo Costantino, quali sofferenze accompagnarono la va del Pontefice! Basterà citare alcuni fatti. Innocenzo I e San Leone Magno sono assediati da Alarico e dai Vandali. Giovanni I muore in prigione. Agapito muore in esilio. Silverio viene portato su un’isola, dove muore di fame. Vigilio viene bandito. Martino I deve portare le sue catene fino al Mar Nero. Sergio I vive per sette anni in esilio. Stefano III è costretto a ricorrere all’aiuto dei principi franchi. Leone III viene maltrattato. Leone V muore in prigione. Giovanni X viene strangolato a morte. Benedetto VI, nel castello di Sant’Angelo. Giovanni XIV muore di fame in prigione. Gregorio V viene bandito da Roma. Silvestro II, avvelenato. Gregorio VII muore in esilio a Salerno. Pasquale II, a Benevento, di pura miseria. Innocenzo II viene catturato da Rogerio, principe di Sicilia. Lucio II viene ferito in una ribellione. Alessandro II deve fuggire dal Barbarossa. Lucio III muore in esilio. Gregorio IX deve assistere alla distruzione dei templi di Roma da parte dei Saraceni. I Saraceni distruggono i templi di Roma. Innocenzo IV fugge da Federico II. Alessandro IV muore in esilio a Viterbo. Bonifacio VIII si ritrova nelle mani di di Filippo il Bello. Clemente V inizia la prigionia di Avignone, che dura settant’anni. Urbano VI deve assistere al grande scisma. E poi seguono i dolori della Riforma! Sotto Urbano VIII, scoppia il giansenismo; sotto Alessandro VII, il gallicanesimo; sotto Innocenzo VII, il Re Sole; Clemente XI e Clemente XII hanno dovuto sopportare le offese dei monarchi di Napoli, Madrid, Parigi e Vienna. Benedetto XIV (il Papa più saggio) deve subire il sarcasmo di Voltaire. Clemente XIII e XIV dovettero assistere alla persecuzione dei gesuiti. Pio VI fu costretto a fuggire a Venezia. Pio VII, a Fontainebleau. Pio IX, a Gaeta. Durante il pontificato di Leone XIII il Kulturkampf, la “guerra culturale” tedesca, si scatena. San Pio X muore rattristato

dall’infedeltà della Francia e dal modernismo. Pio XI vive nell’amarezza dalla persecuzione della Chiesa in Russia, Messico e Spagna… Gregorio XVII, appena eletto viene impedito nel suo operato e vive da recluso nel palazzo di Genova (ndr. -) … un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vuoi andare…. Come si sono realizzate le parole del Signore!

B) E si compì anche un’altra profezia: Simone, Simone, ecco, satana ti insegue per vagliarti come il grano (Lc XXII, 31).

Quando Satana vide che il trono del Pescatore era saldo anche in mezzo ai mari di sangue che minacciavano di straripare, e che stava in piedi anche dopo le rivoluzioni, le eresie e i bandi, cambiò la sua tattica per una molto più pericolosa: si spinse fino alla roccia stessa del Papato quando, nel IX e X secolo, sulla sede di Pietro sedevano uomini che non erano certo i più adatti a far fiorire la Chiesa con con fiori di santità e slancio di vita. L’istituzione del Papato avrebbe dovuto crollare con la forza, non in mezzo a ondate di sangue, né tra il fragore delle eresie, ma nella calma corrosiva di quei secoli. Questa roccia granitica non fu nemmeno smossa.

satana vi insegue per vagliarvi come grano“. Diverse volte nella storia si è ripetuta la scena più triste della Santa Passione: il tradimento di uno degli apostoli. Qualsiasi altra istituzione sarebbe crollata irrimediabilmente. Ma questa, se non è stata creata da Dio il giorno della creazione, è stata chiamata a vivere dalla parola specialissima e creativa del Figlio di Dio: “Tu sei Pietro…”.

satana vi insegue per vagliarvi come il grano“. La storia della Chiesa è una lotta continua di terribili persecuzioni, interrotte da brevi intervalli di pace. Il monarca più potente d’Europa, Federico Barbarossa, assedia Roma, e non sembra che abbia intenzione davvero di farla finita con il Papato, privo di aiuti umani e senza possibilità di salvezza. Ma ecco, i formidabili accampamenti che circondano Roma… Che cosa è successo, intendono forse incendiare la città? No. La peste imperversa nell’accampamento, e stanno bruciando i cadaveri di migliaia e migliaia di soldati. I falò non bastano più e i morti vengono portati a migliaia sulla riva del mare e gettati in acqua. Poco dopo Federico Barbarossa arriva a piedi nudi per fare penitenza… Il sultano Saladillo invia a Pio II il seguente messaggio: “Vengo a Roma; intendo trasformare la Basilica di San Pietro in una moschea”. Il Papa rispose: “La nave può essere sballottata dalla tempesta, ma non affonda”. E non affondò! Queste lezioni sono servite alle generazioni successive? No. Napoleone disprezzò le minacce del Papa, deridendo Pio VII ed esclamando altezzosamente: “Il Papa crede davvero che questa scomunica farà cadere le armi dei miei soldati?” Ma arrivarono fuoco…, neve…, ghiaccio…, carestia…, e le armi, nel senso più reale del termine, caddero dalle mani morte dei soldati, che stavano morendo di freddo. E poi vennero Waterloo e Sant’Elena. Solo rimane nelle pagine della storia, come qualcosa che non doveva più essere, il ricordo di quell’imperatore. Il papato, invece, è ancora in piedi, e il Papa porta ancora in testa la sua triplice corona di spine,

C) Sta in piedi perché il Signore ha fatto una terza promessa, e anche questa si è realizzata: E le porte degli inferi non prevarranno contro di essa (Mt XVI,18).

16, 18).

a) Si è adempiuta nel passato e b) si adempirà anche nel futuro.

Non vi ricordate la favola del leone malato? Il leone giaceva malato nella sua tana. Gli animali andarono a visitarlo uno dopo l’altro. Arrivò anche la volpe, ma si fermò all’ingresso, non volendo non volendo entrare. – Perché stai fuori? -gli chiesero. – Le impronte mi spaventano”, rispose, “vedo che molti animali sono entrati, sì, ma nessuno è tornato. Questa è la favola; ed è chiaro che l’arciduca Rodolfo vi alludeva quando, esortato ad attaccare il Papa e la Chiesa, rispose solo: “Sì, molti animali sono entrati, ma nessuno è tornato”. – L’altare di Giove della capitale è affondato per sempre, e tutto ciò che rimane è il ricordo degli imperatori e dei re che dichiararono guerra senza quartiere al Papa… Ma l’istituzione del Papato vive, fiorisce e risplende sempre di più. La tomba del pescatore di Galilea è stata, da mille e novecento anni a questa parte, una fonte di vita e di valori eterni ed inesauribili. L’ovvia verità di quell’adagio francese si è sempre avverata: “Qui mange du Pape, en meurt“, “Chi mangia dal Papa, ne muore”.

Quante cose hanno visto e vissuto i Papi in una successione infinita! Hanno visto come l’odio degli imperatori romani sia stato rivolto contro la giovane Chiesa…, e hanno visto come la maggior parte dei persecutori è stata annegata nel proprio sangue. Hanno visto sotto l’arco di trionfo di Tito le masnade germaniche, bionde e vittoriose, stupiti del fasto di Roma, che guardavano con occhi azzurri e e stupefatti…, ed hanno visto anche la morte dei capi germanici e udirono le marce funebri dei loro guerrieri, che li accompagnarono alla tomba. Hanno visto Carlo Magno risplendere di maestà imperiale ed hanno anche visto la fine dei Carolingi. Hanno visto quando hanno combattuto la Chiesa gli Hohenstaufen, e come, finalmente, hanno visto la testa bionda dell’ultimo Hohenstaufen rotolare sotto la scure del boia! Hanno visto molte dinastie sorgere e cadere sui troni d’Europa. Hanno visto sorgere i Carolingi, i Capetingi, ed i Valois. dei signori sassoni, danesi e normanni d’Inghilterra; delle famiglie dei Plantageneti, dei Lancaster, York, Tudor e Stuart. Hanno visto l’ascesa dei mongoli e degli zar di Russia; hanno visto i Romanov e i Gottorpo. Hanno visto gli Arpadi, gli Angiò, gli Asburgo, gli Orléans, gli Angulema, i Borboni. Hanno visto il Re Sole nel pieno del suo sfarzo; ma hanno anche ascoltato le parole che un grande oratore, Massillon, pronunciò sulla bara di quel monarca: “Fratelli, fratelli miei, sorelle mie, fratelli miei, solo Dio è grande! Hanno visto brillare la gloria di Napoleone e l’hanno vista spegnersi a poco a poco. E non è stata la forza delle armi a sostenere la Chiesa. Dietro non ci sono cannoni, né baionette; solo una promessa divina che aleggia sopra di essa, ed è la parola di Dio, e questa è la parola del suo Fondatore: “Le porte dell’inferno non prevarranno mai“.

(b) La promessa di Cristo si realizzerà anche in futuro.

– Verrà mai un giorno in cui il Papato perirà? … potrebbe chiederci qualcuno. Risponderemmo, con tutti coloro che sanno studiare la storia: non sembra che sia in via di estinzione. In passato ha saputo resistere a tutte le eresie, a tutti gli scismi, a tutte le rivoluzioni e agli intrighi umani; ai nostri giorni cresce ai nostri occhi e diventa sempre più forte. Quanto più spaventosamente le onde di un mare ruggente, pieno di neri presagi, sballottano il mondo, tanto più fiduciosamente sollevano il clamore del loro sguardo verso l’unico punto fermo che non vacilla, all’unica luce che ancora risplende imperterrita in mezzo al cataclisma, all’unico potere che rimane saldo. – Chi sa studiare la storia è obbligato a meditare sulla forza misteriosa che, superando tutti i calcoli di probabilità, e persino in mezzo a troni e regni in disfacimento, solleva in alto, con bellezza incontaminata e con una forza di attrazione sempre maggiore, il pontificio Trono. Se possiamo parlare di miracoli nella storia, dobbiamo chiamare un miracolo questa salda istituzione del Pontificato, che rimane quando tutto il resto soccombe e non proprio nella calma dell’Oriente, che finora ha goduto di una certa immobilità, ma in mezzo ai continui sconvolgimenti e turbamenti dello spirito europeo. Sicuramente il famoso storico anglicano MACAULAY pensava a tutte queste cose, quando scrisse le seguenti belle parole: “Quale istituzione, con l’eccezione della Chiesa cattolica, che sia stata testimone di quei tempi in cui dal Pantheon saliva ancora il fumo dei sacrifici e quando leopardi e tigri ruggivano nell’anfiteatro di Flavio? Le case reali più orgogliose risalgono a ieri, se le confrontiamo con la serie dei Papi. La repubblica di Venezia era quella che più si avvicinava al Pontificato. Ma la repubblica veneziana, molto poco in confronto al potere dei Papi, scomparve per sempre, e il Papato sussiste. E sussiste non nella decadenza o come un residuo antiquato di tempi che non sarebbero mai più tornati, ma traboccante di vita e di forza giovanile. E non c’è il minimo segnale che indichi la fine di questo lungo regno della Chiesa cattolica … Questa Chiesa ha visto l’origine di tutte le forme di governo e di istituzioni religiose che esistono oggi nel mondo, e non siamo sicuri che non sia chiamata a vederne la fine di tutte. Questa Chiesa era grande e rispettata già prima che gli Anglosassoni mettessero piede nella terra di Britannia e prima che i Franchi passassero il Reno; ed era grande e rispettata quando gli accenti dell’eloquenza classica risuonavano ancora in Grecia e nel tempio della Mecca si adoravano idoli pagani. E può anche darsi che sia ancora in piedi, con il vigore di una giovinezza intatta, quando un giorno qualche viaggiatore della Nuova Zelanda, in mezzo ad un deserto, si appoggerà ad una colonna crollata del London Bridge per disegnare le rovine del tempio di San Paolo”. – È la trasposizione nel linguaggio di uno storico di queste parole senza tempo della Sacra Scrittura: “Le porte degli inferi non prevarranno contro di essa“. (MACAULAY: Saggi critici e storici. Lipsia, 1850. Volume IV, p. 98).

* * *

Chi può dire cosa riserva il futuro se non Dio, che conosce ogni cosa? Verrà mai un giorno in cui il Pontificato riacquisterà tutto il lustro e il potere che aveva  nel Medioevo, o verrà un tempo in cui il Papa sarà di nuovo povero, come il Papa è stato nel Medioevo, povero, povero come Pietro, e vagabondo e senza una patria dovrà predicare Cristo? Non lo sappiamo. Ma una cosa la sappiamo di sicuro:

Sappiamo che ci sarà un Papa finché ci sarà un uomo sulla terra.

Come facciamo a saperlo? Perché, molto semplicemente, finché ci sarà un uomo sulla terra, avrà un cuore umano con una fame di nobile e di bello, e avrà un’intelligenza con una fame di verità, e avrà un’anima sempre insoddisfatta, che non potrà essere placata né da radio, né da aeroplano, o qualsiasi altra meraviglia della tecnologia futura, (né dal transumanesimo distopico – ndr. -) né dalle meraviglie della tecnologia futura, ma avrà voglia di Dio … e finché ci sarà un uomo sulla terra, un uomo che anela a Dio, la Chiesa cattolica, che è l’unica scelta da Dio per comunicare con l’uomo, deve restare in piedi, ed il Pontificato, cioè la solida roccia su cui si fonda la Chiesa, deve stare in piedi. – Per mille e novecento anni i più grandi odi della storia si sono infranti contro questa solida roccia, e ci sono stati attacchi, guerre e persecuzioni incessanti; ma è essa rimasta salda, ferma ed incrollabile, vedendo la nascita e la morte nei secoli di dinastie, e l’ascesa e la caduta di Nazioni. Le sue fondamenta più profonde sono perse nel divino e non c’è nessun potere in grado di raggiungere quelle fondamenta. La mano di Dio, che la difende, è troppo alta perché la malvagità umana possa raggiungerla. La roccia si erge ancora, la Chiesa si erge ancora, salda su quella roccia. E da quella salda roccia, come un faro dell’eternità, si leva la fiaccola della luce che è tenuta dalle mani di Pietro, il pescatore. E per quanti numerosi millenni la terra possa esistere, quella fiaccola divina non cesserà mai di brillare, coronata da una triplice corona di spine pungenti, fino a quando lo splendore di quella luce non si perderà nei bagliori del grande giorno del Giudizio. Fino a quando non si perderà nel suono delle trombe angeliche, la voce di Pietro, il pescatore, risuonerà, guidando i mortali. Perché le parole di Gesù Cristo sono eterne: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa“. E le porte dell’inferno non non prevarranno contro di essa.

[Nota redazionale: Questo dovrebbero ben considerare gli usurpanti apostati che occupano truffaldinamente il Soglio di S. Pietro, e tutti i poteri mondialisti guidati dalle bestie massoniche dei kazari, tutti i governanti attuali di Nazioni schierate compatte contro la Chiesa di Cristo, Nazioni apparentemente tra loro antitetiche ma in realtà tutte unite nella unica feroce lotta contro Cristo ed il suo Vicario (si, la Cina, la Russia, l’Impero anglo-americano, l’India, tutta la Comunità europea, sono tutti diretti dallo stesso manipolo di burattinai che tirano i fili come ai pupazzi siciliani). Cosa pensate di poter fare perché Dio non vi distrugga all’improvviso e proprio quando penserete di aver raggiunto i vostri obiettivi? Credete forse di poter uccidere Dio immortale e distruggere la sua Chiesa? Se oggi avete il controllo apparente del Vicario di Cristo, relegato all’impotenza forzata e sacrilega dalla vostra malvagità, questo è solo perché Dio vi dimostrerà l’insensatezza dei vostri pensieri e … irridebit vos. … si riderà dei vostri progetti che sfumeranno in un solo attimo lasciandovi sbigottiti, ma nel contempo condannati senza appello in eterno allo stagno di fuoco ove piomberete con la bestia che avrete servito, con i falsi profeti e gli eretici apostati corruttori e millantatori, e con il dragone primordiale degli inferi! Il vostro orgoglio, come quello di Lucifero, e che vi fa paragonare a Dio, sarà miseramente schiacciato da un delicato piedino, quello della Vergine Maria, la Madre del Dio-Uomo e del Corpo mistico di Cristo di cui è parte militante la Chiesa Cattolica guidata da Pietro … et non prævalebunt, allora, oggi e sempre. Convertitevi e salvatevi, siete ancora in tempo!]

TU SEI PIETRO (4)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (4). “Da San Siricio e San Zosimo”.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA

DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (4)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(da S. Siricio a S. Zosimo)

S. SIRICIO: dicembre 384 (12 gennaio 385?)-26 novembre 399

Lettera “Directa ad decessorem” al Vescovo Himere di Tarragona, 10 febbraio 385.

Preminenza e autorità dottrinale del Vescovo di Roma.

181 – (Introduzione, par. 1)… Non rifiutiamo alla vostra richiesta una risposta adeguata, poiché, in considerazione del Nostro ufficio, non siamo liberi di nascondere o dissimulare alcunché, dato che lo zelo per la Religione cristiana incombe su di Noi più che su chiunque altro. Portiamo i pesi di tutti coloro che lavorano, e ancora di più, li porta in Noi il beato Apostolo Pietro, che crediamo fiduciosamente ci protegga e ci custodisca in ogni cosa come erede del suo ministero…

182 – (Cap. 15, par. 20) Ora incoraggiamo sempre di nuovo il proposito della vostra fraternità di osservare i canoni e di mantenere i decreti emanati, in modo che ciò che abbiamo scritto in risposta alla vostra richiesta, possiate farlo conoscere a tutti i nostri Vescovi coadiutori, e non solo a quelli della vostra provincia; ma ciò che è stato da Noi stabilito secondo un’ordinanza salutare deve essere inviato anche, insieme alla vostra lettera, a tutti i Vescovi di Cartagine, Betia, Lusitania e Galizia. E sebbene nessun Sacerdote del Signore sia libero di ignorare le decisioni della Sede Apostolica o le venerabili determinazioni dei canoni, può tuttavia essere molto utile e – vista l’anzianità del vostro sacerdozio – molto glorioso per la vostra carità, che quanto vi è stato scritto in termini generali sia portato a conoscenza di tutti i nostri confratelli grazie alla vostra preoccupazione per l’unanimità: Affinché ciò che è stato decretato da Noi, non in modo avventato ma con circospezione, con grande prudenza e lunga riflessione, rimanga inviolato, e che in futuro si chiuda la via delle scuse, che non può più essere aperta a nessuno prima di Noi.

Battesimo degli eretici.

 183 – (Cap. 1, par. 2) (Hai fatto conoscere)… che molti di coloro che sono stati battezzati dagli empi ariani si stanno affrettando verso la Chiesa cattolica, e che alcuni dei nostri fratelli vogliono battezzarli di nuovo: questo non è permesso, perché l’Apostolo lo proibisce (cfr. Ef IV., 5; Eb VI.,4), i canoni vi si oppongono, e lo proibiscono anche i decreti generali inviati alle province dal mio predecessore Liberio, di felice memoria, dopo l’annullamento del concilio di Rimini. Noi li accogliamo nella comunità dei Cattolici con i Novaziani e gli altri eretici, come è stato deciso nel sinodo, con la sola invocazione dello Spirito septiforme e con l’imposizione delle mani del Vescovo – che viene osservata ugualmente da tutto l’Oriente e dall’Occidente; anche voi non dovete più deviare da questa strada, se non volete essere separati dalla comunità con noi con una sentenza sinodale.

La necessità del Battesimo.

184 – (Cap. 2, par. 3) Senza tuttavia voler diminuire la sacra riverenza che si annette alla Pasqua, Noi prescriviamo che il Battesimo sia amministrato senza indugio ai neonati che, a causa della loro età, non sono ancora in grado di parlare, o alle persone che si trovano in qualsiasi necessità di ricevere il santo Battesimo, per non danneggiare le nostre anime se, come risultato della nostra negazione della fonte di salvezza a coloro che la desiderano, alcuni moribondi perdessero il Regno e la loro vita. Chiunque sia minacciato da un naufragio, da un’invasione nemica o da una malattia mortale, sia ammesso, non appena lo chieda, al beneficio della rigenerazione richiesta. L’errore finora commesso in questa materia deve bastare; ora tutti i Sacerdoti si attengano alla regola suddetta, se non vogliono essere strappati dalla solidità della Roccia apostolica su cui Cristo ha costruito tutta la Chiesa.

Il celibato dei chierici.

185 – (cap. 7, par. 8). Abbiamo infatti appreso che molti Sacerdoti e leviti di Cristo, molto tempo dopo la loro consacrazione, hanno procreato figli sia dal proprio matrimonio che da un commercio vergognoso, e che difendono il loro misfatto con il pretesto che nell’Antico Testamento si legge che il permesso di generare è concesso ai sacerdoti e ai ministri. (Contro questa argomentazione il Romano Pontefice obietta:) (Paragrafo 9) Perché ai sacerdoti fu imposto di abitare lontano dalle loro case nel tempio anche nell’anno del loro turno di servizio? Per questo motivo non dovevano avere rapporti carnali, nemmeno con le loro mogli, in modo da risplendere per la purezza della loro coscienza e offrire così un sacrificio gradito a Dio. (Par 10) Perciò, dopo averci illuminato con la sua venuta, il Signore Gesù attesta a sua volta nel Vangelo di essere venuto a compiere la Legge e non ad abolirla (Mt V.,17). E per questo ha voluto che la forma della Chiesa, di cui è lo Sposo, risplendesse dello splendore della castità, in modo da poterla trovare… “senza macchia né ruga” (Ef V,27) nel giorno del Giudizio, quando tornerà. – Per la legge indissolubile di queste disposizioni siamo tutti tenuti, Sacerdoti e leviti, a consacrare il nostro cuore ed il nostro corpo alla sobrietà e alla castità fin dal giorno della nostra ordinazione, per poter piacere al Signore nostro Dio nei sacrifici che offriamo quotidianamente.

3° Concilio di Cartagine, 28 agosto 397

Il Canone delle Sacre Scritture.

186 – (Si decise) che nulla al di fuori delle Scritture canoniche dovesse essere letto nella Chiesa sotto il nome di Scritture divine. Ora, le Scritture canoniche sono: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio, Nave di Gesù, Giudici, Ruth, quattro libri dei Re, due libri delle Cronache, Giobbe, il Salterio di Davide, cinque libri di Salomone, dodici libri dei Profeti, Isaia, Geremia, Daniele, Ezechiele, Tobia, Giuditta, Ester, due libri di Esdra, due libri dei Maccabei. Per quanto riguarda il Nuovo Testamento: quattro libri dei Vangeli, un libro degli Atti degli Apostoli, tredici epistole dell’apostolo Paolo, dello stesso agli Ebrei, due di Pietro, tre di Giovanni (cfr. Can. 179), una di Giacomo, una di Giuda, l’Apocalisse di Giovanni (è aggiunta in un manoscritto:)… per la conferma di questo canone bisogna consultare la Chiesa d’oltremare.

ANASTASO I: 27 novembre 399-402 (19 dicembre 401)?

1° Consiglio di Toledo, Settembre 400 (405?)

a) Capitolo

La consacrazione del crisma e il suo ministro.

187 -207

187 – Can. 20. (1) Sebbene sia quasi universalmente osservato che nessuno oltre al Vescovo consacra il crisma, perché si dice che in alcuni luoghi o province i presbiteri consacrano il crisma, tuttavia si è deciso che da oggi in poi nessuno oltre al Vescovo consacrerà il crisma e lo distribuirà alle diocesi, e questo nel modo seguente: da ogni chiesa diaconi o suddiaconi siano inviati al Vescovo prima del giorno di Pasqua, in modo che il crisma consacrato e distribuito dal Vescovo possa essere smaltito il giorno di Pasqua. (2) Il Vescovo ha indubbiamente il diritto di consacrare il crisma in qualsiasi momento, ma non si deve fare assolutamente nulla all’insaputa del Vescovo; e si è stabilito che il diacono non compia la crismazione, ma che la compia il presbitero in assenza del Vescovo, e in sua presenza se il Vescovo lo abbia incaricato.

b) il “Symbolum Toletanum” (a. 400) “e la sua forma più lunga come “Libellus in modum symboli” del  Vescovo Pastor di Palencia (477).

Professione di fede contro gli errori dei priscillianisti.

188 – Noi crediamo nell’unico vero Dio, il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, Creatore di tutte le cose visibili e invisibili, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose in cielo e in terra. Questo è l’unico Dio e questa è l’unica Trinità del nome divino (della sostanza divina). (Ma) il Padre non è il Figlio stesso, ma ha un Figlio che non è il Padre. Il Figlio non è il Padre, ma è il Figlio di Dio della natura del Padre. E lo Spirito è il Paraclito, che non è né il Padre stesso né il Figlio, ma procede dal Padre (e dal Figlio). Il Padre è dunque non generato, il Figlio è generato, il Paraclito non è generato ma procede dal Padre (e dal Figlio). È il Padre, la cui voce è stata udita dal cielo: Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo, (Mt XVII,5; 2P I,17 cfr. Mt III,17. È il Figlio che dice: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo da Dio” (cfr. Gv XVI, 28). È il Paraclito stesso (lo Spirito Paraclito) di cui il Figlio dice: se non vado al Padre, il Paraclito non verrà a voi (Gv XVI, 7). Questa Trinità, distinta in Persone, è una sola sostanza, virtù, potenza, maestà (unita dalla sua virtù e potenza e maestà), indivisibile e senza differenze; al di fuori di essa (crediamo) non c’è natura divina, né di un Angelo, né di uno spirito, né di una potenza che possa essere ritenuta Dio.

189. – Questo Figlio di Dio, dunque, Dio, nato dal Padre prima di ogni inizio, fu santificato nel grembo della beata Vergine Maria (il grembo della Vergine Maria), e da Lei generato senza seme di uomo, assunse una vera umanità (cioè due nature, quella della Divinità e quella dello Spirito Santo), e cioè della Divinità e della carne, erano interamente unite in una sola persona) cioè il Signore Gesù Cristo (e) non aveva un corpo magico o fatto di una mera forma (di un fantasma), ma intero (e vero). E aveva fame e sete, provava dolore e piangeva, e sentiva ogni ferita del corpo (sopportava ogni insulto del corpo). Infine, fu crocifisso (dai Giudei), morì e fu sepolto, (e) il terzo giorno risuscitò; poi conversò con i (suoi) discepoli e nel quarantesimo giorno (dopo la risurrezione) salì al cielo. Questo Figlio dell’uomo è chiamato anche “Figlio di Dio”, ma il Figlio di Dio è chiamato “Dio”, non “Figlio dell’uomo” (ma il Figlio di Dio, Dio, è chiamato Figlio dell’uomo).

190 – Ma noi crediamo nella risurrezione della carne umana (che ci sarà una risurrezione per la carne umana). Ma l’anima dell’uomo non è una sostanza divina o una parte di Dio, bensì una creatura non caduta per volontà divina (noi la chiamiamo creatura creata dalla volontà divina).

191 – (1). Ma se qualcuno dice e/o crede che questo mondo e tutte le sue disposizioni non siano state fatte da Dio onnipotente, sia anatema.

192 – (2). Se qualcuno dice e/o crede che Dio Padre sia lo stesso del Figlio o del Paraclito, sia anatema.

193 – (3). Se un uomo… crede che Dio Figlio (Figlio di Dio) sia lo stesso del Padre o del Paraclito, sia anatema.

194 – (4). Se qualcuno… crede che lo Spirito Paraclito sia il Padre o il Figlio, sia anatema.

195 – (5). se qualcuno… se crede che l’uomo Gesù Cristo non sia stato assunto dal Figlio di Dio (che solo la carne, senza anima, sia stata assunta dal Figlio di Dio), sia anatema.

196 – (6). Se qualcuno… crede che il Figlio di Dio abbia sofferto come Dio (Cristo non può nascere), sia anatema.

197 – (7). Se qualcuno… crede che l’uomo Gesù Cristo fosse un uomo impassibile (la divinità di Cristo era soggetta a cambiamenti e sofferenze), sia anatema.

198 – (8). Se qualcuno… crede che altro sia il Dio dell’antica Legge, altro il Dio dei Vangeli, sia anatema.

199 – (9). Se qualcuno… crede che il mondo sia stato fatto da un altro Dio rispetto a (e non da) quello di cui è scritto: In principio Dio fece il cielo e la terra (cfr. Gen 1,1), sia anatema.

200 – (10). Se qualcuno… crede che i corpi umani non risorgeranno dopo la morte, sia anatema.

201 – (11). Se qualcuno… crede che l’anima umana sia una porzione di Dio o della sostanza di Dio, sia anatema.

202 – (12). Se qualcuno crede che, oltre alle Scritture che la Chiesa cattolica ha ricevuto, altre debbano essere ritenute autorevoli, o se le venera, sia anatema.

203 – (13). Se qualcuno… crede che in Cristo ci sia una sola natura della Divinità e della carne, sia anatema.

204 – (14). Se qualcuno… crede che ci sia qualcosa che possa estendersi al di fuori della Trinità divina, che sia anatema.

205 – (15). Se qualcuno crede che si debba credere all’astrologia o alla matematica (sic!), sia anatema (cfr. Can. 460).

206 – (16). Se qualcuno… crede che i matrimoni ritenuti leciti secondo la Legge divina siano abominevoli, sia anatema.

207 – (17). Se qualcuno… ritiene che non sia solo per la mortificazione del corpo che uno si astenga dalla carne degli uccelli o delle bestie che vengono date in pasto, sia anatema.

208 – (18). Se qualcuno aderisce agli errori della setta di Priscilliano, o li professa, in modo che nel Battesimo di salvezza faccia qualcos’altro, contro la sede di San Pietro, sia anatema.

Lettera “Dat mihi” al vescovo Venerius di Milano, 401 ca.

La questione dell’ortodossia di Papa Liberio.

209. Una grande gioia mi è data dal fatto, che è opera di Cristo, che l’Italia vittoriosa nell’intero universo, infiammato dallo zelo e dalla foga divina, mantenne intatta la fede tramandata dagli Apostoli e stabilita dagli antichi, e questo al tempo, è vero, in cui Costanzo di divina memoria regnava vittorioso sull’universo, e che la fazione ariana non potesse insinuare alcuna eresia e introdurre così le sue contaminazioni, perché il nostro Dio, crediamo, si è preoccupato che questa fede santa e immacolata non venisse alterata dalla bestemmia di uomini infami: quella fede che era stata esaminata e definita nella riunione del sinodo di Nicea da uomini santi e da Vescovi già riuniti nel resto dei santi. Per questo accettarono di buon grado l’esilio coloro che allora si mostrarono santi Vescovi, cioè Dionigi, per questo servo di Dio, uomo istruito dall’insegnamento divino, e quelli di santa memoria che seguirono il suo esempio, Liberio, il Vescovo della Chiesa romana, Eusebio di Vercelli, Ilario di Gallia, per non parlare dei molti che possono aver preferito essere fissati sulla croce piuttosto che bestemmiare Dio Cristo come esortava l’eresia ariana, o chiamare il Figlio di Dio, Dio Cristo, una creatura del Signore.

(Segue la condanna dei libri di Origene di Alessandria tradotti in latino da Ruffin, v. 353 )

S. INNOCENZO I: 21 (22?)

Dicembre 402 – 12 marzo 417

Lettera “Etsi tibi” al vescovo Victricium di Rouen, 15 febbraio 404.

Battesimo degli eretici

211 – (Cap. 8, Par. 11) (È bene vedere)… che coloro che provengano dai Novaziani o dai Montanisti siano ricevuti solo con l’imposizione delle mani; infatti, sebbene siano stati battezzati da eretici, sono stati comunque battezzati nel Nome di Cristo.

Lettera “Consulenti tibi” al Vescovo Esuperio di Tolosa, 20 Febbraio 405

Riconciliazione in articulo mortis (al momento della morte).

212 – (Cap. 2)… Ci si è chiesti come ci si debba comportare nei confronti di coloro che, dopo il Battesimo, si siano abbandonati senza sosta alla voluttà carnale e che, alla fine della loro vita, chiedono sia la Penitenza che la riconciliazione nella Comunione. Per loro la prescrizione antica è più severa; quella più recente è più mite, come misura di misericordia. Infatti, secondo l’antica consuetudine, si richiedeva che venisse concessa loro la Penitenza, ma che venisse rifiutata la Comunione. Infatti, in quei tempi lontani in cui le persecuzioni erano frequenti, la Comunione veniva giustamente rifiutata, per evitare che, a causa di una pace ottenuta troppo facilmente, i fedeli, sicuri della loro riconciliazione, si lasciassero trascinare ancora di più nell’apostasia; ma si concedeva loro la Penitenza per non rifiutare tutto, e la durezza dei tempi rendeva più difficile il perdono. Ma dopo che Nostro Signore aveva riportato la pace nelle sue Chiese ed il terrore era passato, si decise di concedere la Comunione ai moribondi – che sarebbe stata come un viatico, grazie alla misericordia divina, per coloro che stavano per morire, per non dare l’impressione di seguire la durezza e il rigore dell’eretico Novaziano, che negava la possibilità del perdono. La Comunione sarà quindi concessa con la Penitenza in extremis: in questo modo gli uomini di cui abbiamo parlato, almeno nei loro ultimi momenti, e con il consenso di nostro Signore, saranno salvati dalla dannazione eterna.

Il Canone delle Sacre Scritture e i Libri Apocrifi

213 – (Cap. 7) I libri accolti nel canone sono indicati in una breve appendice. Questo è ciò che volevate fosse indicato: cinque libri di Mosè, cioè Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio, e uno di Giosuè, uno di Giudici, quattro libri dei Re, allo stesso tempo Ruth, sedici libri dei Profeti, cinque libri di Salomone, il Salterio. Allo stesso modo i libri di storia: un libro di Giobbe, uno di Tobia, uno di Ester, uno di Giuditta, due di Maccabei, due di Esdra, due di Cronache. Così come quelli del Nuovo Testamento: quattro Vangeli, 14 epistole dell’Apostolo Paolo, tre epistole di Giovanni, due epistole di Pietro, (un’epistola di Giuda), un’epistola di Giacomo, gli Atti degli Apostoli, l’Apocalisse di Giovanni. Quanto al resto, che appare o sotto il nome di Matteo o sotto quello di Giacomo il Minore, o sotto quello di Pietro e Giovanni, scritto da un certo Leucio, (o sotto il nome di Andrea, scritto dai filosofi Xenocharide e Leonida) o sotto il nome di Tommaso, e se ci sono altri scritti, non solo devono essere respinti, ma, come sapete, condannati.

Lettera “Magna me gratulatio”. a Rufo e ad altri Vescovi della Macedonia, 13 dic. 414.

La forma del Battesimo

214 – (Si spiega perché, secondo i canoni 8 e 19 di Nicea Can.127-128, i paulisti che tornano alla Chiesa, debbano essere ribattezzati ma non i Novaziani:)

(Cap. 5, § 10) Che ci sia una distinzione tra queste due eresie, la ragione lo chiarisce, perché i paulisti non battezzano affatto nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, mentre i Novaziani battezzano in questi stessi Nomi temibili e venerabili, e con loro l’unità della potenza divina, cioè del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, non è mai stata messa in discussione.

Lettera “Si instituta ecclesiastica” al Vescovo Decenzio di Gubbio, 19 marzo 41

Il Ministro della Cresima.

215. (Cap. 3, §. 6) Per quanto riguarda la cresima dei bambini, si sa che non debba essere fatta da altri che dal Vescovo. Infatti, i presbiteri, pur essendo Sacerdoti di secondo grado, non hanno il grado supremo del pontificato. Che questo pontificato spetti solo ai Vescovi, affinché possano consegnare o trasmettere lo Spirito Paraclito, è attestato non solo dalla consuetudine della Chiesa, ma anche da quel passo degli Atti degli Apostoli che riferisce che Pietro e Giovanni furono inviati a trasmettere lo Spirito Santo a coloro che erano già stati battezzati (cfr. At. VIII, 14-17). Infatti, ai presbiteri è permesso, quando battezzano senza il Vescovo o in presenza del Vescovo, di ungere i battezzati con il crisma, che però è stato consacrato dal Vescovo; ma non di segnare la fronte con lo stesso olio, cosa che spetta solo ai Vescovi quando impartiscono lo Spirito Paraclito. Le parole, tuttavia, non posso dirle, per non sembrare che io stia rivelando (il mistero) piuttosto che rispondere ad una richiesta.

Unzione degli infermi

216. – (Cap. 8, §. II) Poiché la vostra carità desiderava consultarsi su questo come sul resto, mio figlio, il diacono Celestino, ha aggiunto nella sua lettera che la vostra carità ha menzionato ciò che è scritto nell’epistola di San Giacomo: “C’è qualcuno tra voi che è malato? Si chiamino i presbiteri della Chiesa e si faccia che preghino su di lui, dopo averlo unto con olio nel nome del Signore. La preghiera di fede salverà il paziente e il Signore lo farà risorgere. Se ha commesso dei peccati, gli saranno perdonati”, Giacomo V: 14-15. Non c’è dubbio che sia necessario sentirlo e capirlo dai fedeli ammalati che possano essere unti con l’olio santo del crisma, che viene fatto dal Vescovo, e che è permesso non solo ai Sacerdoti, ma anche a tutti i Cristiani di usare per l’unzione, nelle loro necessità personali, o in quelle dei loro parenti.  D’altra parte, questa aggiunta ci sembra superflua: ci si chiede se il Vescovo possa fare ciò che è certamente permesso ai presbiteri. Infatti, il motivo per cui vengono menzionati i presbiteri è che i Vescovi, impediti da altre occupazioni, non possano recarsi da tutti i malati. Ma se un Vescovo ha la possibilità di farlo, e se giudica che qualcuno meriti di essere visitato da lui, può benedirlo e ungerlo con il crisma senza difficoltà, poiché è lui a fare il crisma. Non può essere unta sui penitenti, perché è dell’ordine del sacramento. Per coloro ai quali sono stati negati gli altri sacramenti, come possiamo pensare di concedere loro uno di questi?

In requirendis, ai Vescovi del Concilio di Cartagine, 27 gennaio 417.

La preminenza della Sede di Roma.

217 – (Cap. 1) Nel consultarci sulle cose divine … fedeli agli esempi dell’antica tradizione, … avete affermato il vigore del vostro spirito religioso in modo veritiero, non meno ora quando chiedete consiglio che prima quando vi pronunciavate, che approvavate di rimettervi al nostro giudizio, sapendo ciò che è dovuto alla Sede Apostolica, poiché tutti Noi che siamo stabiliti in questo luogo desideriamo seguire l’Apostolo da cui deriva l’episcopato e tutta l’autorità di questo nome. È seguendo lui che abbiamo imparato a condannare ciò che è malvagio e ad approvare ciò che è lodevole, come avete stimato nella vigilanza del vostro ufficio sacerdotale, affinché le ordinanze dei Padri non siano calpestate”; i Padri, infatti, con un pensiero più divino che umano, avevano stabilito che qualsiasi affare da trattare, anche nelle province più remote e appartate, non dovesse essere considerato concluso finché non fosse stato portato a conoscenza di questa Sede, affinché confermi con tutta la sua autorità le giuste sentenze e affinché le altre Chiese – come le acque che sgorgano dalla loro fonte originaria e scorrono in tutte le regioni del mondo in torrenti puri dalla sorgente incorrotta – ricevano da lui ciò che dovranno prescrivere e sappiano chi devono purificare e chi, macchiato di ineffabile sporcizia, non riceverà l’acqua degna di corpi puri.

Lettera “Inter ceteras Ecclesiæ Romanæ” a Silvanus e gli altri padri del Concilio di Mileto, 27 gennaio 417.

La preminenza della Sede romana.

218 – (Cap. 2) Con diligenza, dunque, e come è giusto, avete consultato l’arcano dell’ufficio apostolico – l’ufficio, dico, di colui al quale appartiene “oltre alle cose esteriori, la cura di tutte le Chiese” 2 Co XI: 28 – riguardo alla posizione da assumere nelle questioni dubbie, e in questo vi siete conformati a quella che è l’antica regola, che, come sapete, è sempre stata osservata con Me dall’intero universo… Perché lo avete confermato anche voi con la vostra azione, se non perché sapete che le risposte arrivano sempre dalla fonte apostolica in tutte le province, per coloro che le richiedono? Soprattutto ogni volta che si discute di una questione di fede, penso che tutti i nostri fratelli e Vescovi debbano riferirsi a Pietro, cioè al garante del suo nome e del suo ufficio, come ha fatto ora la vostra Carità, per chiedere cosa possa essere di beneficio per tutte le Chiese insieme nel mondo intero. Devono anzi diventare più prudenti, quando vedono che, secondo la relazione del doppio sinodo, gli inventori del male sono separati dalla comunione dalle determinazioni del nostro giudizio.

La necessità del battesimo.

219 – (cap. 5) … che i bambini piccoli possano, anche senza la grazia del Battesimo, godere dei premi della vita eterna, è insensato al massimo grado. Se infatti non mangiano la carne del Figlio dell’uomo e non bevono il suo sangue, non avranno la vita in loro (cfr. Gv VI, 53). Coloro che sostengono che questi bambini la avranno senza essere nati, mi sembra che vogliano rendere vano il Battesimo stesso, predicando che essi hanno ciò che la fede professa possa essere loro conferito solo dal Battesimo. Se poi, come vogliono, non c’è alcuna conseguenza negativa nel non nascere di nuovo, devono anche professare che le acque sante della nuova nascita sono inutili. Ma la verità può superare rapidamente la dottrina errata di questi uomini vani con le parole del Signore nel Vangelo: “Lasciate che i bambini piccoli vengano a me e non impediteli, perché a loro appartiene il regno dei cieli” (cfr. Mt XIX,14 Mc X,14 Lc XVIII,16).

S. ZOSIMO: 18 marzo 417-26 Dicembre 418

Lettera “Quamvis Patrum” al Concilio di Cartagine, 21 marzo 418.

L’autorità dottrinale del Vescovo di Roma.

221 – (N. 1) Sebbene la tradizione dei Padri abbia riconosciuto alla Sede Apostolica un’autorità tale che nessuno ha osato mettere in discussione il suo giudizio, e l’abbia sempre osservata con canoni e regole, e con le sue leggi la disciplina ecclesiastica finora in vigore si manifesta nel nome di Pietro, da cui essa stessa discende, la riverenza che le è propria: … (3) Sebbene, dunque, Pietro sia l’origine di tale autorità, e i successivi decreti di tutti gli anziani confermino che la Chiesa romana sia stabilita da tutte le leggi e le consuetudini umane e divine – e voi non lo ignorate, ma lo avete appreso, cari fratelli, e come Sacerdoti dovete sapere che Noi dirigiamo la Sede di essa e deteniamo anche il potere in suo nome: (4) e mentre avremmo un’autorità tale che nessuno potrebbe più contestare la nostra decisione, non abbiamo comunque fatto nulla che non avremmo portato d’ufficio a vostra conoscenza con la nostra lettera; concedendo questo alla fratellanza e consultandoci insieme, non perché non avremmo saputo cosa si dovesse fare, o che avremmo fatto qualcosa che sarebbe dispiaciuto perché sarebbe andato contro l’utilità della Chiesa, ma abbiamo voluto trattare con voi insieme con lui (Celestino che è accusato).

XV° (o XVI°) Concilio di Cartagine, iniziato il 1° maggio 418.

Il peccato originale.

222Can. 1. Fu deciso da tutti i Vescovi riuniti nel santo concilio di Cartagine: Chiunque dica che Adamo, il primo uomo, fosse creato mortale in modo tale che, sia che peccasse o meno, dovesse morire corporalmente, cioè che lasciare il corpo non sarebbe stata una conseguenza del peccato, ma una necessità della natura, sia anatema.

223Can. 2. È stato deciso allo stesso modo: chi nega che i bambini debbano essere battezzati, o dice che siano battezzati per la remissione dei peccati, ma che non abbiano nulla del peccato originale di Adamo che il bagno di rigenerazione dovrebbe espiare, con il risultato che per loro la formula del Battesimo “per la remissione dei peccati” non abbia un significato vero ma falso, sia anatema! Non si possono infatti intendere in altro modo le parole dell’Apostolo: “Per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e la morte per mezzo del peccato, e così la morte è entrata in tutti gli uomini, avendo tutti peccato in lui” (Rm. V, 12), se non nel modo in cui la Chiesa cattolica, diffusa in tutto il mondo, l’ha sempre intesa. Infatti, è a causa di questa regola di fede che anche i neonati, che non sono ancora in grado di commettere alcun peccato proprio, sono tuttavia veramente battezzati per la remissione dei peccati, affinché la rigenerazione purifichi in loro ciò che la generazione ha portato.

224Can. 3. È stato deciso allo stesso modo: chi dice che il Signore ha detto: “Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore” (Gv XIV, 2) per far intendere che c’è un certo luogo nel regno dei cieli, in mezzo o altrove, dove vivono beati i bambini che hanno lasciato questa vita senza il Battesimo, senza il quale non possono entrare nel Regno dei cieli, che è la vita eterna, sia anatema! Poiché il Signore dice: “Se uno non nasce da acqua e da Spirito Santo, non entrerà nel regno dei cieli” (Gv. III, 5), quale Cattolico dubiterà di essere un compagno del diavolo chi non ha meritato di essere un coerede di Cristo? Perché colui che non è a destra sarà senza dubbio collocato a sinistra.

La Grazia.

225Can. 3. È stato deciso allo stesso modo: chi dice che la grazia di Dio, che giustifica l’uomo per mezzo del Signore Gesù Cristo, sia solo per la remissione dei peccati già commessi, ma non per aiutarlo a non commetterne più, sia anatema!

226Can. 4. Allo stesso modo: chi dice che questa stessa grazia di Dio per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo ci aiuti a non peccare più nel senso che ci rivela e ci apre la comprensione dei comandamenti, in modo che sappiamo ciò che dobbiamo desiderare e ciò che dobbiamo evitare, ma non ci dà in alcun modo l’amore e la forza di fare anche ciò che abbiamo riconosciuto come nostro dovere, sia anatema! Poiché l’Apostolo dice: “La conoscenza gonfia, ma la carità edifica” (1 Cor. VIII, 1), è molto empio pensare che abbiamo la grazia di Cristo per la conoscenza che gonfia e non per la carità che edifica, poiché è anche un dono di Dio sapere ciò che dobbiamo fare e avere l’amore per farlo. Quindi la carità che edifica impedisce alla conoscenza di renderci troppo grandi. Come è scritto di Dio: “Egli insegna all’uomo la conoscenza”, Sal XCIII, 10, così è scritto: “L’amore è da Dio”, 1Gv. IV, 7.

227 – Can. 5. 11. È stato deciso allo stesso modo: chi dice che la grazia della giustificazione ci viene data proprio per poter compiere più facilmente con essa ciò che dobbiamo fare con il nostro libero arbitrio, in modo che, se non ci venisse data la grazia, potremmo comunque, anche se con meno facilità, osservare senza di essa i comandamenti di Dio, sia anatema! Quando parla del frutto dei comandamenti, il Signore non dice: “Senza di me potete farlo con maggiore difficoltà”, ma: “Senza di me non potete fare nulla” Gv XV, 5.

228 Can. 6. È stato deciso allo stesso modo: l’Apostolo Giovanni dice: “Se diciamo di non avere peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi”. 1Gv I, 8. Chiunque pensi che questo sia il modo in cui deve essere inteso: è umiltà dire che abbiamo peccato, ma non perché è la verità, sia anatema! Infatti l’Apostolo aggiunge subito: “Se confessiamo i nostri peccati, Egli è fedele e giusto da perdonare i nostri peccati e da purificarci da ogni iniquità” 1Gv I,9. Questo passaggio rende sufficientemente chiaro che ciò non è detto solo in umiltà, ma anche in verità. Infatti, l’Apostolo poteva dire: “Se diciamo: “Non abbiamo peccato”, ci vantiamo e l’umiltà non è in noi”, ma dicendo: “Inganniamo noi stessi e la verità non è in noi”, dimostra a sufficienza che chi si dichiari senza peccato non dice la verità, ma la falsità.

229 – Can. 7. È stato deciso allo stesso modo: chi dice che nel Padre Nostro i santi dicono: “Rimetti a noi i nostri debiti”, Mt. VI, 12 non per se stessi, poiché non hanno più bisogno di fare questa richiesta, ma per altri del loro popolo che sono peccatori, potendosi ritenere giusto, sia anatema! Santo e giusto, infatti, era l’Apostolo San Giacomo, quando diceva: “Tutti pecchiamo in molte cose” Giacomo III, 2. Sal CXLII, 2; e nella preghiera del sapientissimo Salomone: “Non c’è uomo che non abbia peccato” 1Re VIII, 46 e nel libro del santo Giobbe: “Egli sospende l’attività degli uomini, affinché ciascuno riconosca la propria debolezza” Giobbe XXXVII, 7; anche il santo e giusto Daniele, quando disse al plurale: “Abbiamo peccato e commesso iniquità”, e altre parole che confessa con verità e umiltà; affinché non si pensi, come alcuni credono, che non stia parlando dei propri peccati, ma piuttosto di quelli del suo popolo, aggiunge: “Quando…”. … ho pregato e confessato i miei peccati e i peccati del mio popolo” al Signore mio Dio, non intendeva “i nostri peccati”, ma “i peccati del suo popolo” e “i suoi”, perché, come profeta, vedeva in anticipo che ci sarebbero stati uomini che lo avrebbero capito molto male.

230Can. 8. È stato deciso allo stesso modo: Queste parole del Padre Nostro, in cui diciamo: “Rimetti a noi i nostri debiti” Mt VI, 12, tutti coloro che vogliono che i santi le dicano per umiltà e non in verità, siano anatema! Chi allora ammetterebbe che chi prega, non solo agli uomini, ma al Signore stesso mente, dichiarando con le labbra di voler essere perdonato e dicendo in cuor suo di non avere debiti da rimettere?

Epistula tractoria alle Chiese orientali, tra il giugno e l’agosto del 418.

Il peccato originale.

231 – Il Signore è fedele nelle sue parole Sal CXLIV, 13, e il suo Battesimo, nella sua realtà e nelle sue parole, cioè in ciò che si fa, nella confessione di fede e nella vera remissione dei peccati, contiene la stessa pienezza per ogni sesso, ogni età ed ogni condizione dell’uomo. Nessuno, infatti, diventa libero se non è schiavo del peccato, e nessuno può dirsi salvato se non chi un tempo fosse stato veramente prigioniero del peccato, come sta scritto: “Se il Figlio vi ha liberati, sarete liberi davvero”. Gv. VIII: 36. Perché per mezzo di Lui siamo rinati spiritualmente, per mezzo di Lui siamo crocifissi al mondo. Con la sua morte è stato strappato quel decreto di morte (cfr. Col. II, 14) che era stato contratto con la propagazione e che era stato introdotto da Adamo per tutti noi e trasmesso a ogni anima – un decreto a cui tutti coloro che nascono, senza eccezione, sono soggetti prima di essere liberati dal Battesimo.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (5) “Da San Bonifacio I a Sisto II”

TU SEI PIETRO (2)

Monsignor Tihamér Tóth

VESCOVO DI VESZPRÉM

“Tu sei Pietro”

STORIA E ATTUALITÀ DEL PONTEFICE ROMANO (II)

1956

CENSURA ECLESIASTICA

Nihil obstat: Dr. Vicente Serrano Censore

IMPRIMATUR: † JOSE MARIA. Ob. Ausiliario e Vicario Generale

Madrid, 2 marzo 1956

Capitolo II

L’INFALLIBILITÀ DEL PAPA

Abbiamo appena studiato nell’ultimo capitolo il triplice scopo del Papato, come Gesù Cristo abbia conferito a San Pietro e a tutti i suoi successori il supremo potere della Chiesa; il supremo potere magisteriale, di governo e sacerdotale; cioè come abbia posto nelle mani del Pontefice di Roma i destini della Chiesa. Ma, per questa missione, al di là delle forze dell’uomo, il Papa ha bisogno di aiuto soprannaturale e sovrumano. Infatti, se il Papa non avesse l’assistenza dello Spirito Santo, se, nell’indicare alla Chiesa di Cristo, le vie del dogma e della morale, potrebbe sbagliare, allora sarebbe impossibile evitare che nel corpo della Chiesa si aprano piaghe, che un giorno o l’altro ne causerebbero la morte. Ma Cristo dice che la sua Chiesa deve rimanere fino alla fine del mondo. Né “le porte dell’inferno” prevarranno contro di essa. La Chiesa di Gesù Cristo sussisterà finché sulla terra vivrà un uomo a cui Egli potrà comunicare i tesori della redenzione. Pertanto, se la Chiesa di Cristo non è destinata a finire, né a sbagliare, lo stesso si deve dire del suo Capo. Se il timoniere fallisce o viene ingannato, la nave perirà tra gli scogli. Il timoniere della Chiesa, che è il Papa, il successore di Pietro, deve essere infallibile in materia di morale e di fede.

L’infallibilità del Papa! Ecco un dogma che troppo spesso è esposto agli attacchi di uomini frivoli. “Che cosa avete fatto del Papa? – ci dicono: – volete elevarlo al rango di un Dio? È una cosa inaudita, affermare che un uomo sia infallibile!…”. Tuttavia, chi medita su questo con serenità, anziché scandalizzarsi del fatto che Gesù Cristo abbia concesso l’infallibilità al Papa in materia di fede e di morale, proverà gratitudine e persino orgoglio. – Contro questo scandalo farisaico di uomini frivoli, vogliamo spiegare i seguenti tre punti: I. L’infallibilità del Papa è davvero un dono di Gesù Cristo; II. Corrisponde al fine della Chiesa; e III. Che che non rientra nel concetto di infallibilità.

I. L’infallibilità è un dono di Cristo

Il dogma dell’infallibilità significa che quando il Papa, il supremo maestro della cristianità, parla ufficialmente a tutta la Chiesa, imponendo il suo giudizio su questioni di fede e di morale, non può sbagliare. Tale attributo è così intimamente legato alla missione del Papato che, se mancasse, sentiremmo la mancanza di una forza essenziale tra le energie che devono certamente trionfare sulle porte dell’inferno. Ma noi sappiamo, perché Gesù Cristo lo ha detto, che questa forza esiste.

A) È già di grande interesse il passo registrato nel Vangelo sul primo incontro di Gesù Cristo con Pietro. Questo evento avvenne all’inizio dell’attività pubblica del Redentore. Il Signore si mosse incontro a Giovanni Battista, e quando quest’ultimo lo vide, esclamò con entusiasmo: “Ecco l’Agnello di Dio” (Gv I, 36). Con il Battista c’erano due dei suoi discepoli, Andrea e Giovanni, che sarebbero poi diventati Apostoli e che poterono vedere il Signore, e ne furono entusiasti. Andrea, fuori di sé, corse a portare a suo fratello, Simon Pietro, questa notizia: “Abbiamo trovato il Messia”. (Gv I,41). Pietro si commosse alle sue parole. “Cosa? Avete trovato il Messia? Dov’è?”… e Pietro andò con suo fratello a trovare Gesù. C’è qualcosa di molto interessante in questo racconto evangelico. Quando i due discepoli del Battista, Andrea e Giovanni, andarono a trovare Gesù, il Vangelo non riporta nulla di speciale. Eppure è certo che Gesù fissasse con profondo amore gli occhi puri e vergini di San Giovanni, il cui sguardo si sarebbe posato un giorno sul suo Corpo divino appeso alla croce. Guardava anche con profondo amore negli occhi di Andrea, pieni di ardore ed entusiasmo, e che un giorno sarebbero stati chiusi per sempre nel supplizio della croce per amore del suo Maestro. Tuttavia, nel Vangelo non si dice nulla di questi sguardi profondi di Gesù. Ma ora, quando è Simone a venire a trovarlo, il il Vangelo afferma esplicitamente: “Intuitus autem eum Jesus“: “Gesù fissò i suoi occhi su di lui”. Le parole del testo latino, come quelle del testo greco, significano uno sguardo penetrante che arriva al profondo dell’anima. Non è “aspexit“, né “vidit“, ma “intuitus“. Il Signore guardò in profondità nell’anima di anima di Simone e gli diede un nuovo nome: “Tu sei Simone, figlio di Giona: Sarai chiamato Cefa, che significa Pietro, o pietra” (Gv I, 42). Cristo dà a Simone un nome nuovo! E quando Dio dà un nome, dà le qualità necessarie per realizzarlo. Noi uomini non siamo in grado di fare una cosa del genere. Possiamo chiamare una persona Bianca una persona che non lo sarà mai; Rosa, e non essere bella; Costanza, senza avere nemmeno lontanamente questa qualità. Questo non accade con Dio. Se ha dato ad Abram il nome di Abramo, ha realizzato in lui il significato di questo nome: che diventasse il padre di tutti i credenti, il padre del popolo di Israele. E se Egli volle dare a Simone il nome di “Pietro”, cioè “Pietra”, allora gli ha dato la forza necessaria per essere una pietra, una roccia. Può forse essere scosso il fondamento della pietra? Se le fondamenta fossero deboli, l’edificio crollerebbe.

Intuitus eum Jesus“, il Signore “fissò i suoi occhi su Pietro”, più di quanto non facesse Michelangelo quando fissò lo sguardo sull’enorme blocco di marmo da cui trasse il suo “Mosè”. Questo sguardo profondo e penetrante di Gesù Cristo è stato il primo colpo di martello che ha dato alla statua di questo Mosè del Nuovo Testamento.. Pietro, infatti, doveva essere come Mosè, colui che, senza deviare dalla retta via, avrebbe condotto il popolo della Nuova Legge attraverso i deserti della vita. Si dice che quando Michelangelo terminò la sua magnifica statua e la vide così sublime, si infuriò e, prendendo il suo martello, colpì il ginocchio della statua, dicendo: “Parché non parli, Mose?”, “Parla, Mosè!”. La magnifica statua, nonostante la sua apparente vita, non riusciva a parlare. Il Signore ha veramente trionfato nel suo “Mosè”. Ha detto a Pietro: “Parla, Pietro!”, e attraverso di lui è andato via via dicendo: “Parla, Lino!”, “Parla, Clemente!”, “Parla, Benedetto!”, “Parla, Pio!”…, e loro parlano ed insegnano e mostrano la via, e sono infallibili, perché sono ancora la “pietra”, la salda roccia della Chiesa.

B) Dopo il suo primo incontro con Gesù, Pietro deve avere probabilmente riflettuto molto sulle intenzioni del Signore nel dargli un nome così inaspettato. Cristo non ha voluto dargli la spiegazione. Lasciò che l’anima dell’Apostolo maturasse. Aspettò due anni. E un giorno, quando i due anni erano passati, in una conversazione nei pressi di Cesarea, Gesù chiese ai suoi discepoli cosa pensassero di Lui gli uomini. Essi risposero: “Alcuni pensano che tu sia Elia; altri dicono che tu sia Giovanni Battista, o forse qualche altro profeta”. “E voi chi dite che io sia? Pietro rispose a nome di tutti e la risposta di Pietro fu premiata da queste parole del Signore: “E io ti dico che tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa ed a te darò le chiavi del regno dei cieli; e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato in cielo, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto   anche in cielo” (Mt XVI,18-19). Allora Pietro comprese il nome che aveva ricevuto due anni prima dalle labbra del Signore. Ed anche noi ne comprendiamo ora il nesso: Tu sei Simone; sarai chiamato Cefa”; “Tu sei Gioacchino Pecci; sarai chiamato Leone XIII”;  “Tu sei Giuseppe Sarto; sarai chiamato Pio X”;  Tu sei Della Chiesa; sarai chiamato Benedetto XV”; “Tu sei Achille Ratti; sarai chiamato Pio XI”; “Tu sei Eugenio Pacelli; sarai chiamato Pio XII”. “Tu sei Giuseppe Siri, sarai chiamato Gregorio XVII” – ndr. – E “… le porte degli inferi non prevarranno contro la Chiesa, di cui tu sarai la pietra angolare“. “Se tu potessi sbagliare, certamente prevarrebbero; ma non prevarranno perché voi non sbaglierete!”. E “tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato anche in cielo“. Se potessi errare, se tu insegnassi una falsa dottrina, se vincoli gli uomini con comandi sbagliati, allora non sbaglierai. Se tu vincolassi gli uomini con comandi sbagliati, allora Dio stesso ratificherebbe un errore; ma tu non sbaglierai!”. E “tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto anche nei cieli“. Se si potesse errare e sciogliere erroneamente in materia di fede e di morale, allora Dio stesso dovrebbe ratificare il tuo errore; ma tu non devi sbagliare!”.

C) A questo si aggiungono le parole che il Signore rivolse a San Pietro dopo la Risurrezione. la Risurrezione: “Pasci i miei agnelli” (Gv. XXI,15). Pasci le mie pecore” (Gv. XXI, 17). È la solenne investitura del supremo potere pastorale. Nutrire significa guidare. Pascere“, cioè “condurle sulla retta via; le affido a te, perché non vadano fuori strada”. – Se tu potesssi condurli sulla cattiva strada, essi andrebbero si smarrirebbero; ma tu non devi smarrirti!”. Se il pastore si smarrisce, che ne sarà delle pecore? Se il Se il Papa dovesse sbagliare nel suo insegnamento su questioni di fede e di morale, come potrebbero realizzarsi le parole di San Paolo, che ci assicura che la Chiesa è “colonna e sostegno della verità”? (I Tim III, 5).

D) Se c’è ancora qualche dubbio sul fatto che Cristo abbia voluto o meno conferire l’infallibilità al Papa, esso sarebbe completamente dissipato da altre parole chiare e categoriche del Signore: “Simone, Simone…” – disse Cristo, guardando Pietro – Quale sarà la nuova promessa che inizia così? Gli farà una nuova promessa, quella di non essere mai esposto alla tentazione? O di una vita sempre trionfante e gioiosa in questo mondo? No, niente del genere, perché gli dice: “Simone, Simone, ecco che satana viene a cercarti per per vagliarti come il grano” (Lc. XXII, 31). – No, il Signore non ha voluto esonerare nemmeno gli Apostoli dalle fatiche e dalle tentazioni. Ma almeno gli prometterà, visto che lo ha reso una roccia solida, che, anche se verranno le tentazioni, non peccherà mai? No, perché gli dice: “Quando ti sarai convertito, conferma i tuoi fratelli”. Cosa significa questo se non che anche voi cadrete? Qual è, allora, la promessa fatta a Pietro? “Simone, Simone, ecco che satana ti insegue per vagliarti come il grano. Ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non perisca; e tu, quando ti sarai convertito, rafforza i tuoi fratelli” (Lc XXII, 31-32). Che la vostra fede rimanga così retta e vera che, anche se tu stesso dovessi cadere, tu sia in grado di confermare questa fede retta e vera. E che cos’è, in fin dei conti questa, se non la promessa chiara e definitiva dell’infallibilità papale, fatta da Gesù Cristo a San Pietro, il primo dei Papi?

L’infallibilità deriva anche dal fine stesso della Chiesa.

Esaminando la missione affidata dal Signore alla sua Chiesa, dobbiamo affermare che questa stessa missione e il fine della Chiesa, come sono stati definiti da Gesù Cristo, richiedano l’infallibilità del Papa, ed esigano: A) la purezza della fede; B) l’unità della stessa.

.A) La purezza della fede esige l’infallibilità del Papa. A cosa sarebbe servito che Cristo fosse vissuto sulla terra, ci avesse insegnato la conoscenza di Dio ed il suo culto, che fosse morto per noi ed ottenesse per noi la grazia redentrice, se i suoi insegnamenti divini potessero essere adulterati nel corso dei secoli, togliendo ciò che meglio piacesse, cioè se non avesse concesso a Pietro ed ai suoi successori il dono di preservarli da ogni errore in materia di fede e di morale? La purezza della fede esige che il Magistero vivente della Chiesa ed il suo Capo siano esenti dalla possibilità dall’errore in materia di fede e di morale e che, nel definire qualcosa come insegnamento di Cristo, non ci debba essere la minima ombra di incertezza. Il mondo cattolico sa bene che Pietro ed i suoi (veri – ndr.) successori sono maestri infallibili della fede. Pertanto, ogni volta che sia stato messo in dubbio se qualche punto fosse o meno in accordo con la dottrina del Vangelo, i più eccelsi studiosi e dottori della Chiesa si sono rivolti a Roma. Questo accadde a Corinto, anche durante la vita di San Giovanni Apostolo. I fedeli non andavano da San Giovanni Apostolo, che viveva nei pressi di Efeso, per decidere sulla questione, ma al successore di San Pietro, che aveva sede a Roma, molto più lontano. Si rivolsero al Vescovo romano San Clemente. Sapevano infatti che il Maestro divino aveva pregato affinché Pietro e i suoi successori fossero liberi da ogni errore nello spiegare e propagare la loro dottrina.

B) L’unità della fede richiede anche l’infallibilità del Papa. Se Cristo ha voluto che la sua dottrina durasse fino alla fine del mondo, era necessario stabilire questo Magistero infallibile. Infatti, a cosa sarebbe servita tutta la ,Scritture senza un’autorità ufficiale che le spiegasse? Lo si vede bene, anzi dolorosamente, nella lotta delle trecento confessioni che esistono oggi, (Oggi pare che siano arrivate a più di sedicimila – ndr. -) tutte basate sulle Sacre Scritture per la loro dottrina, e tutte espongono lo stesso passo della Bibbia in modi diversi. Per preservare l’unità della fede, è assolutamente necessario che ci sia un giudice infallibile! Ma chi sarà questo giudice infallibile? Un Vescovo? No. Ci sono stati Vescovi esaltati che hanno sbagliato e sono stati ammoniti dal Papa. L’intero corpo di tutti i Vescovi? No, perché se i singoli non sono infallibili, l’insieme non può certo essere infallibile. D’altra parte, va da sé che non era consigliabile che la Chiesa fosse fondata in questo modo, anche per ragioni puramente pratiche. Come sarebbe stato possibile convocare i Vescovi di tutto il mondo tutte le volte fosse necessario il loro giudizio inappellabile di fronte all’errore o alla contumacia di un singolo? Rimane, allora, come unica e suprema istanza, quella del Papa, infallibile ed inappellabile. Quale gioia e quale serenità pensare che sia il Papa infallibile che abbia nelle sue mani il governo della Chiesa! Di solito non pensiamo ad una cosa del genere; ci siamo abituati a navigare tranquillamente nella nave della Chiesa nel suo cammino verso la vita eterna, senza ricordare, solo di tanto in tanto, la riconoscenza e l’immensa gratitudine che dobbiamo al vigoroso timoniere che con tanta attenzione e tanto amore la guida. Possiamo ben affermare questo, quando anche il padre della filosofia positivista,  Auguste Comte, ha detto: “L’infallibilità del Papa, che con tanta bile si è rinfacciata al Cattolicesimo, significa un altissimo grado di progresso in campo intellettuale e sociale” (A. COMTE: Corso di Filosofia positiva, V. LV Lezione).

Cosa non significa l’infallibilità del Papa

Mi dispiace che alcuni vogliano interrompermi a questo punto per le obiezioni che hanno sentito o letto sull’infallibilità del Papa. Difficilmente potremmo enumerare il gran numero di errori che sono stati propagati riguardo a questo dogma, e il numero di persone che hanno grandi difficoltà ad accettarlo, perché immaginano, racchiuse in questo dogma, molte cose assurde che la Chiesa non ha mai insegnato. Sentiamo cosa dicono molti su questa questione:

A) “Tutto quello che viene detto è vero. Deve essere così. Non ne dubito. Ma non posso credere che il Papa sia infallibile in tutto…“. Dove la Chiesa insegna che il Papa sia infallibile in tutto? È infallibile solo in materia di fede e di morale; e anche in queste materie non è infallibile quando esprime la sua opinione come uomo privato, ma solo quando impone un dogma a tutta la Chiesa, in modo ufficiale, come Capo della cristianità. Allora, e solo allora, è infallibile. Supponiamo, ad esempio, che venga eletto Papa un grande matematico, e un giorno un grande professore di matematica venga da lui e gli dica: “Santo Padre! Santo Padre! Per anni sono stato tormentato da questo problema, che finalmente credo di aver risolto. Vostra Santità vorrebbe esaminarlo e dirmi se la soluzione è corretta? la soluzione?”. Il Papa lo esamina e dice, dopo qualche istante: “È tutto corretto”. La soluzione è davvero giusta perché il “Papa infallibile” l’ha dichiarata tale? Tutt’altro, perché? Perché Gesù Cristo non ha conferito questo tipo di infallibilità. E perché non gliel’ha conferita? Perché essa non riguarda la salute degli uomini, né è necessaria per la salvezza. – Un altro esempio. Pio XI, prima di essere eletto Papa, era un dotto bibliotecario della grande Biblioteca Ambrosiana di Milano. Supponiamo che uno storico si sia rivolto a lui con un antico manoscritto: “Santo Padre, ho avuto la fortuna di trovare questo manoscritto, di straordinaria importanza. Ma non so con certezza se sia autentico o falsificato”. Il Papa lo esamina e dopo qualche minuto dice: “Il documento è autentico”. Lo è davvero perché il Papa lo ha dichiarato tale? Lo è davvero perché il Papa lo ha dichiarato tale? Assolutamente no. Perché? Perché Cristo non gli ha concesso questa infallibilità. Se il Papa non sa contare bene, questo non ha alcuna influenza sulla salvezza dei fedeli. Se si sbaglia in qualche punto della storia, non ha importanza. Ma ha un’influenza sulle questioni di fede e di morale; in queste non può sbagliare. E tuttavia, anche in queste, bisogna aggiungere: non può sbagliare quando, come capo della Chiesa, pronuncia una sentenza di carattere vincolante e generale.

B) Un’altra obiezione. Alcuni non ritengono giusto che, in base alla sua infallibilità, il Papa possa essere elevato a una gloria più che umana. Egli cessa quasi di essere un uomo; e per di più, dicono, “è sicuro della propria salvezza eterna, perché se è infallibile, non può più peccare!”. Queste accusenon possono essere sostenute.

a) La dignità sovrumana del Papa? Alla cerimonia di incoronazione il Papa entra effettivamente nella Basilica di San Pietro con un corteo sfolgorante. Ma il maestro di cerimonie ferma la processione e, dando fuoco a un fascio di stracci, si rivolge al Papa con queste parole: “Padre santissimo, da questa parte Padre santissimo, così passa la gloria del mondo”. Passerà anche la vostra … Eppure tu sei infallibile, ma le due cose non sono in contraddizione.

b) Il Papa cessa di essere un uomo? Il martedì di carnevale, si celebrano le famose feste italiane. Il giorno dopo le chiese sono piene di fedeli che si fanno imporre le ceneri. Nella cappella del Vaticano un Sacerdote vestito di bianco è inginocchiato davanti all’altare; un altro Sacerdote scende da esso; il Papa riceve le ceneri sulla fronte, china il capo; le ceneri scivolano sulla sua tonaca bianca…. e poi la Chiesa pronuncia su di lui le stesse parole che pronuncia su milioni di fedeli: “Ricordati, o uomo, che sei polvere e in polvere tornerai. Anche tu, Santissimo Padre, dovrai tornare alla polvere…. Eppure sei infallibile!

c) Che il Papa non possa peccare? Nemmeno questo significa infallibilità. Non può sbagliare nell’insegnamento della fede e della morale; ma può deviare e inciampare nella propria vita morale. Le debolezze della natura umana sussistono anche nei Papi; anch’essi possono peccare, e purtroppo la storia ha registrato alcune tristi cadute. Cristo, che ha avuto un Giuda tra i suoi Apostoli, non ha deciso che tutti i Papi fossero santi. Sì, ce n’erano di ferventi e santi, più che in ogni famiglia reale; ma – purtroppo – c’erano anche dei peccatori. E non c’è Papa che osi avvicinarsi all’altare senza prima pronunciare, come gli altri celebranti: “Per mia colpa, per mia colpa, per mia colpa, grandissima colpa”. – Un giorno alla settimana, quando il sole manda i suoi ultimi raggi attraverso le finestre del Vaticano, un prete vestito di bianco si alza e si siede alla scrivania. Attraversa i corridoi silenziosi e bussa ad una porta. Lì si trova un altro prete semplice e modesto che lo serve. “Desidero confessarmi”, dice il primo e si inginocchia nel confessionale.. Dopo qualche minuto, sul Papa, che si inginocchia, sul Papa che si è confessato, si sentono le parole dell’assoluzione: ego te absolvo. Quindi anche il Papa si confessa? Sì, il Papa infallibile può essere un peccatore? Sì: può esserlo, perché infallibilità non significa impeccabilità. Quindi non facciamo del Papa un “essere sovrumano”; il Papa non cessa di essere “uomo mortale, debole e fragile”, anche se crediamo e confessiamo che ciò che insegna, Cristo lo insegna; che ciò che proibisce, Cristo lo proibisce; e ciò che comanda, Cristo comanda. Crediamo che ciò che egli lega sulla terra sarà legato anche in cielo, e ciò che egli scioglie sulla terra sarà sciolto anche in cielo.

* * *

Mirabili sono le vie della Provvidenza. Quanti errori, quante eresie ci sono già state, quante eresie ci sono state nella Chiesa per mille e novecento anni! Perché per così dire, ogni secolo ha avuto la sua eresia; ed è da notare che anche alcuni Vescovi di Gerusalemme, Efeso, Alessandria, Antiochia – chiese di origine apostolica – caddero nell’eresia. – L’unico che non ha mai vacillato è stato il Vescovo di Roma! Anche se la storia solleva la sua voce di accusa contro la vita privata di qualche Papa, perché ci sono stati davvero alcuni tra i 263 che non hanno adempiuto al loro alto ufficio con la dovuta dignità, non è ancora stato provato che qualcuno di loro abbia errato nell’insegnamento della fede. Possono aver sbagliato nella loro vita, ma nella fede mai. – Ecco perché tutti i Cattolici ascoltano con spirito di obbedienza la voce di Roma; sappiamo che quando il Santo Padre parla, ci parla il maestro infallibile, che insegna a tutti, fedeli, Sacerdoti, Vescovi. Sappiamo che, nell’insegnare a tutti noi una dottrina di fede, è protetto dalla preghiera di Cristo, il divino Fondatore della Chiesa, ed è assistito dallo Spirito Santo, cosicché nei suoi insegnamenti può dire solo ciò che sia fondato sulla rivelazione divina e non possa mai sbagliare. Navigando da Napoli verso l’isola di Capri, in mezzo ad un mare agitato, c’è uno scoglio che si erge come se volesse lanciarsi verso l’alto. Questo scoglio è lì da migliaia di anni, in mezzo alla schiuma del mare, una mareggiata continua. Un nugolo di piccole imbarcazioni lo circonda, senza nemmeno curarsene. Navi cariche e fieri piroscafi gli passano vicino senza farci caso. Quando l’ho visto per la prima volta, mi è venuto in mente: è l’immagine della Chiesa. Il mare della vita agita e sballotta le piccole navi; sono le persone modeste, che vivono intorno alla Chiesa, indifferenti a tutto. Inoltre, passano anche i grandi trasporti e le navi cariche di ricche mercanzie: sono i capitalisti ed i ricchi di questo mondo, gli orgogliosi ed i magnifici senza notare l’antica roccia. Ma gli anni passano, i secoli passano… E quando le onde hanno finito di giocare con i poveri resti frantumati dei fieri piroscafi, invano assaltano l’antico scoglio, che è ancora in piedi e ha sulla sua cima il faro eretto da Cristo. Il Papa romano, il Papa infallibile, continua a mostrare ai popoli del mondo il faro della fede e della morale ai popoli del mondo.

TU SEI PIETRO (3)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (3) “Da S. Marco I a S. Damaso”.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (III)

DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (3)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(Da S. Marco a S. Damaso)

S. MARCO: 18 gennaio – 7 ottobre 336

GIULIO I: 6 febbraio 337-12 aprile 352

Lettera agli Antiocheni, 341.

Il primato del Romano Pontefice

132 – (22) Se infatti, come dite, ci fosse stata una colpa da parte loro, la questione avrebbe dovuto essere giudicata secondo i canoni della Chiesa e non come è stata fatta. Avrebbe dovuto scrivere a tutti noi, in modo che ciò che era giusto fosse deciso da tutti. Si trattava di Vescovi e di Chiese che non sono Chiese qualsiasi, ma Chiese governate dagli stessi apostoli. Sulla Chiesa di Alessandria, perché  perché non ci è stato scritto? Non sapete che era consuetudine scriverci per primi, e da lì proclamare ciò che era giusto. Se il Vescovo di Alessandria era sospettato, la Chiesa di qui avrebbe dovuto essere informata.

133 – 135 – Concilio di Serdico, 343 ca.

Ordine delle Chiese. Il Primato del Romano Pontefice

133 – (Rec. latina) Can. 3a Il Vescovo Ossio dice: anche questo (…si dovrebbe aggiungere…): che nessun Vescovo viaggi da una provincia all’altra in cui ci sono vescovi, a meno che non sia invitato dai suoi confratelli, affinché non sembri che abbiamo chiuso la porta della carità. Anche questo deve essere previsto: se in una provincia un Vescovo dovesse avere una disputa con un altro vescovo, suo fratello, nessuno dei due chieda aiuto ai vescovi di un’altra provincia. Ma se un vescovo è stato condannato in una causa e pensa che la sua causa sia buona per essere riprovata, onoriamo la memoria del santissimo apostolo Pietro: coloro che hanno esaminato la causa, o i vescovi che risiedono nella provincia vicina, scrivano al Vescovo di Roma; e se egli giudica che il processo debba essere rivisto, che sia rivisto e che dia dei giudici. Se, invece, ritiene che la causa sia tale da non far ripetere ciò che è stato fatto, ciò che ha deciso sarà confermato. Questo fa piacere a tutti? Il sinodo ha risposto: sì.

(recensione greca) 3. Il Vescovo Ossio dice: Bisogna aggiungere anche questo: che nessun vescovo si rechi dalla sua provincia in un’altra provincia in cui ci sono vescovi, a meno che non sia invitato dai suoi confratelli, affinché non sembri che chiudiamo le porte della carità. Allo stesso modo, si deve fare in modo che se in una provincia un vescovo dovesse avere una disputa con il suo confratello e con il suo co-vescovo, nessuno di loro debba chiedere aiuto ai Vescovi di un’altra provincia per arbitrare. Ma se risulta che uno dei Vescovi è stato condannato in una causa, e se pensa che la sua causa non sia cattiva ma buona per essere giudicata di nuovo, facciamo in modo, se piace alla Vostra Carità, di onorare la memoria dell’Apostolo Pietro: coloro che hanno pronunciato la sentenza scrivano a (Giulio) il Vescovo di Roma, in modo che i vescovi vicini della provincia, se necessario, possano rinnovare la sentenza, e lui deve nominare degli arbitri. Ma se non è possibile dimostrare che la causa è tale da richiedere una rinnovazione del procedimento, la sentenza emessa non deve essere sospesa, ma quella emessa deve rimanere tale e quale.

134. (rec. latina) (Isid. 5) Il Vescovo Gaudenzio dice: se vi conviene, dovete aggiungere a questa decisione che avete preso e che è piena di santità: Se un vescovo è stato deposto dai Vescovi giudicanti che risiedono nelle vicinanze e ha dichiarato di dover trattare la questione nella città di Roma, dopo l’appello di colui che è stato considerato deposto, un altro vescovo non deve assolutamente essere ordinato al suo posto nella stessa cattedra fino a quando la causa non sia stata decisa da una sentenza del Vescovo di Roma.

(rec. greca) Il Vescovo Gaudenzio dice: Se vi sembra bene, è necessario aggiungere a questa decisione che avete preso e che è piena di pura carità: se un Vescovo è stato deposto dal giudizio dei Vescovi che risiedono nelle vicinanze, ed egli dichiara che è di nuovo suo dovere difendersi, non se ne stabilisca un altro nella cattedra finché il vescovo dei Romani non abbia deciso e preso una disposizione.

135 – (rec. latina) ( Can. 3b ) (Isid.) Il Vescovo Ossio dice: Oppure gli è piaciuto che se un Vescovo è stato accusato e i Vescovi della regione riuniti lo hanno giudicato e spogliato del suo rango, e se risulta che si è appellato e si è rifugiato presso il Vescovo beato della Chiesa romana, e se quest’ultimo ha voluto essere ascoltato e ha ritenuto giusto rinnovare l’esame, si degni di scrivere ai Vescovi che si trovano nella provincia adiacente al suo confine, affinché esaminino attentamente ogni cosa e decidano secondo ciò che sembrerà loro fedele alla fede. Ma se qualcuno chiede che la causa sia ascoltata di nuovo, e con la sua petizione decide che il Vescovo di Roma invii un presbitero a latere, sarà in potere del Vescovo decidere ciò che vuole o ciò che ritiene necessario; se decide che fosse necessario inviare presbiteri che giudicassero contemporaneamente ai Vescovi con l’autorità di colui che li ha inviati, sarà lasciato alla sua convenienza. Ma se ritiene che i Vescovi siano sufficienti a porre fine alla questione, farà come ha giudicato nel suo sapientissimo consiglio.

(Recensione greca) 5. Il Vescovo Ossio dice: Gli è piaciuto che se un Vescovo è stato denunciato e se i Vescovi della regione riuniti lo hanno privato del suo rango e se come accusato si è rifugiato presso il beato Vescovo della Chiesa dei Romani, e se quest’ultimo è disposto ad ascoltarlo e ritiene giusto rinnovare l’esame del caso, si degni di scrivere a quei Vescovi che sono adiacenti alla provincia, affinché esaminino tutto con coscienza e attenzione, e pronuncino un giudizio secondo ciò che sembrerà loro fedele alla fede. Ma se qualcuno chiede che la sua causa sia ascoltata di nuovo, e risulta che con la sua petizione abbia deciso che il Vescovo di Roma debba mandare dei presbiteri a latere, sarà in potere del Vescovo se gli sembra giusto; e se decide che sia necessario mandarli a giudicare contemporaneamente ai Vescovi con l’autorità di colui che li ha mandati, decida anche questo. Ma se ritiene che i Vescovi siano sufficienti per esaminare la questione e giudicare il Vescovo, deve fare ciò che sembra giusto nel suo saggio consiglio. I Vescovi hanno risposto: sì a ciò che è stato detto.

Lettera del concilio di Serdicus. Quod semper” a Papa Giulio I,

ca. 343.

IL Primato del Romano Pontefice

La preminenza della Sede romana

136 – Ciò che apparirà migliore e più adatto è questo: che da tutte le varie province i Sacerdoti del Signore riferiscano al capo, cioè alla sede dell’Apostolo Pietro.

LIBERIO: 17 maggio 352-24 settembre 366

Condanna di Atanasio e professioni di fede

138 a) Lettera “Studens paci” ai Vescovi d’Oriente.

Per la pace e la concordia tra le Chiese, avendo ricevuto la lettera scritta dalla Vostra Carità al vescovo Giulio di benedetta memoria riguardo alla persona di Atanasio e agli altri, e seguendo la tradizione dei predecessori Ho inviato i presbiteri della città di Roma, Lucio, Paolo ed Eliano, ad Alessandria, in deputazione, al suddetto Atanasio, affinché venga a Roma per far stabilire in sua presenza ciò che corrisponde alla disciplina della Chiesa. Gli feci anche inviare dai suddetti presbiteri una lettera in cui si diceva che se non fosse venuto, doveva sapere che sarebbe stato escluso dalla comunione con la Chiesa romana. Al loro ritorno, i presbiteri riferirono che egli si rifiutava di venire. Infine ho dato seguito alla lettera della Vostra Carità, che ci avete indirizzato riguardo al detto Atanasio, e questa lettera, che ho composto in vista dell’unanimità con voi, deve farvi sapere che sono in pace con tutti voi e con tutti i Vescovi della Chiesa cattolica, ma che il detto Atanasio è escluso dalla comunione con me, cioè dalla comunione con la Chiesa romana, e dallo scambio di lettere ecclesiastiche.

b) 1a professione di fede di Sirmium (351) sottoscritta da Liberus in 357.

139 – Noi crediamo in un solo Dio, il Padre onnipotente, che ha creato e fatto tutte le cose, dal quale prende nome ogni paternità, in cielo e in terra (cfr. Ef 3, 15); e nel suo Figlio unigenito, il Signore nostro Gesù Cristo, generato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose, in cielo e in terra, quelle visibili e quelle invisibili; egli è Verbo e Sapienza, vera luce e vita; che si è fatto uomo per noi negli ultimi giorni, e nacque dalla Beata Vergine, e fu crocifisso, e morì e fu sepolto; e risuscitato dai morti il terzo giorno, assunto in cielo e assiso alla destra del Padre; che verrà alla fine dei tempi per giudicare i vivi e i morti e dare a ciascuno secondo le sue opere; il suo Regno è senza fine e dura nei secoli dei secoli; perché siederà alla destra del Padre, non solo in questa età, ma anche in quella futura; e nello Spirito Santo, cioè nel Paraclito, che promise di inviare agli apostoli dopo la sua ascensione al cielo, e che inviò per insegnare ed esortarli in ogni cosa. E per mezzo di Lui siano santificate anche le anime di coloro che credono sinceramente in Lui.

140 –  (1) Ma coloro che dicono che il Figlio è venuto dal nulla, o da un’altra ipostasi, e non da Dio, che c’è stato un tempo o una durata in cui non era, la santa Chiesa cattolica li ritiene estranei a lei. 2. Ancora una volta diciamo: se qualcuno dice che il Padre e il Figlio sono due dèi, sia anatema. 3. E se qualcuno dice che Cristo, in quanto Figlio di Dio, è Dio prima di tutti i tempi, ma non confessa di aver aiutato Dio nella creazione di tutte le cose, sia anatema. 4. Se qualcuno osa dire che l’Immacolato o una sua parte è nato da Maria, sia anatema. 5. Se qualcuno dice che il Figlio è prima di Maria secondo la prescienza e non che, generato dal Padre prima dei secoli, è con Dio e che per mezzo di lui sono state fatte tutte le cose, sia anatema. 6. Se qualcuno dice che la sostanza di Dio si espande o si contrae, sia anatema. 7. Se qualcuno dice che la sostanza di Dio dilatata fa il Figlio, o chiama la dilatazione della sua sostanza Figlio, sia anatema. 8. Se qualcuno chiama il Figlio di Dio la Parola interiore o professata, sia anatema. 9. Se qualcuno dice che il Figlio di Maria è solo un uomo, sia anatema. 10. Se qualcuno, nominando Colui che è da Maria Dio e uomo, intende con questo il Dio increato, sia anatema. 11. 11. Se qualcuno, con le parole: “Io sono Dio, il primo, e sono dopo tutti questi, e all’infuori di me non c’è Dio”, Is 44,6, pronunciate per la distruzione degli idoli e di coloro che non sono dèi, lo concepisce alla maniera dei Giudei, escludendo l’unigenito di Dio prima dei secoli, sia anatema. 12. Se qualcuno sente dire “il Verbo si è fatto carne” (Gv 1,14) e pensa che il Verbo sia stato cambiato in carne, o dice che ha preso carne sottoponendosi ad un cambiamento, sia anatema. 13. Se qualcuno sente che l’unigenito Figlio di Dio è stato crocifisso e dice che la Divinità abbia subito corruzione, o sofferenza, o cambiamento, o diminuzione, o annientamento, sia anatema. 14. Se qualcuno dice che la parola “Facciamo l’uomo” (Gen. 1,26) non sia stata pronunciata dal Padre al Figlio, ma che Dio abbia parlato a se stesso, sia anatema. 15. Se qualcuno dice che non fu il Figlio ad essere visto da Abramo in Gen 18,1-22, ma il Dio increato o una sua parte, sia anatema. 16. Se qualcuno dice che non sia stato il Figlio a lottare con Giacobbe come uomo (Gen XXXII, 25-31), ma il Dio increato o una sua parte, sia anatema. 17. Se qualcuno non comprende le parole “Il Signore fece piovere fuoco dal Signore” Gen 19,24 dal Padre e dal Figlio, ma dice che egli stesso fece piovere da se stesso, sia anatema. 18. Se qualcuno sente dire che il Padre è il Signore e il Figlio è il Signore e che il Padre e il Figlio sono il Signore e, quando il Signore ha fatto piovere dal Signore, parla di due dèi, sia anatema. Infatti, non poniamo il Figlio allo stesso livello del Padre, ma diciamo che è subordinato al Padre. Il Figlio, infatti, non è sceso su Sodoma senza la volontà del Padre, né ha fatto piovere da sé, ma dal Signore, cioè per istigazione del Padre; e non siede alla destra di se stesso, ma sente il Padre che dice: “Siedi alla mia destra” Sal CIX, 1. 19. Se qualcuno dice che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo siano una sola persona, sia anatema. 20. Se qualcuno che chiama lo Spirito Santo Paraclito, dice che sia il Dio increato, sia anatema. 21. Se qualcuno non dice, come ci ha insegnato il Signore, che il Paraclito è altro dal Figlio, perché dice: “E il Padre vi manderà un altro Paraclito, che io chiederò” Gv XIV,16, sia anatema. 22. Se qualcuno dice che lo Spirito Santo sia parte del Padre e del Figlio, sia anatema. 23. Se qualcuno chiama il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo tre dèi, sia anatema. 24. Se qualcuno dice che il Figlio di Dio è stato fatto secondo la volontà di Dio come una delle creature, sia anatema. 25. Se qualcuno dice che il Figlio sia stato generato contro la volontà del Padre, sia anatema. Il Padre, infatti, non ha generato il Figlio per necessità di natura, senza volerlo; ma appena l’ha voluto, ha mostrato di averlo generato da sé, fuori dal tempo ed immutabile. 26. Se qualcuno chiama il Figlio increato e senza principio, parlando così di due esseri increati e facendo due dèi, sia anatema. Perché il capo, che è il principio di tutto, è il Figlio; e il capo, che è il principio di Cristo, è Dio; in questo modo portiamo tutte le cose divine attraverso il Figlio all’unico principio di tutto che è senza inizio. 27. E ancora, esprimiamo con cura il significato della dottrina cristiana e diciamo: “Se qualcuno non dice che Cristo Dio, il Figlio di Dio, sia stato prima di tutti i tempi cooperatore con il Padre nella creazione di tutte le cose, ma dice che quando è nato da Maria sia stato chiamato Cristo e Figlio ed abbia ricevuto l’inizio dell’essere divino, sia anatema”.

c) Lettera “Pro deifico” ai Vescovi orientali, primavera 357.

141 – (Lettera di Liberio:) Per il timore che è opera di Dio: la vostra santa fede è nota a Dio e agli uomini di buona volontà Lc II,14. Come dice la Legge: giudicate con giustizia, figli di uomini Sal LVII, 2 Non ho difeso Atanasio, ma poiché il Vescovo Giulio, mio predecessore di felice memoria, lo aveva accolto, temevo di essere considerato in qualche modo inadempiente. Ma non appena ho riconosciuto, quando è piaciuto a Dio, che lo avevate giustamente condannato, mi sono subito trovato d’accordo con i vostri giudizi. Allo stesso modo feci portare all’imperatore Costanzo una lettera di nostro fratello Fortunato su di lui, cioè sulla sua condanna. Poiché Atanasio è quindi escluso dalla comunione con tutti noi e le sue lettere non devono più essere ricevute da me, dico che sono in pace e all’unanimità con tutti voi e con tutti i Vescovi dell’Oriente, cioè di tutte le province. (2) Affinché sappiate ancora meglio che nella mia lettera esprimo la vera fede: perché il mio signore e fratello Demofilo si è degnato nella sua benevolenza di esporre la vostra fede cattolica, che è stata discussa, esposta ed accettata a Sirmio da molti fratelli e Vescovi (è con questa eresia ariana, ho notato, non con l’apostata, Liberato ciò che segue: ) da parte di tutti i presenti, l’ho accettato volentieri (Sant’Ilario lo anatematizza: che io anatematizzi anche te, Liberus e le tue consorti), non l’ho contraddetto in alcun modo e ho aderito ad esso; lo seguo e lo mantengo (una seconda volta anatema, e una terza volta, traditore Liberus). Ho quindi ritenuto mio dovere pregare Vostra Santità, visto che ora mi vedete d’accordo con voi in tutto, di degnarsi di lavorare insieme affinché io possa essere liberato dall’esilio e tornare alla sede affidatami da Dio.

d) Lettera “Quia scio” a Ursazio, Valente e Germinio, 357.

142 – Poiché so che siete figli della pace e che amate la concordia e l’unanimità, per questo motivo, non per costrizione – Dio mi è testimone – ma per amore della pace e della concordia, che è preferibile al martirio, mi rivolgo a voi con questa lettera, cari fratelli nel Signore. La vostra prudenza sappia che Atanasio, che era vescovo della Chiesa di Alessandria (fu condannato da me) prima, secondo la lettera dei vescovi d’Oriente (che scrivo) alla corte del santo imperatore (che) fu anche escluso dalla comunione con la Chiesa romana, come testimonia l’intero presbiterio della Chiesa romana. Questo è l’unico motivo per cui sono apparso solo in ritardo nell’inviare una lettera su di lui ai nostri fratelli e coetanei orientali, affinché i miei legati, che avevo inviato dalla città di Roma alla corte, e i Vescovi che erano stati deportati, e noi stessi con loro, potessero essere richiamati, se possibile, dall’esilio. (2) Ma voglio anche che sappiate che ho chiesto a frate Fortunato (di trasmettere) al misericordiosissimo imperatore la lettera (che ho fatto ai vescovi d’Oriente, affinché anche loro sappiano che con loro sono separato dalla comunione con Atanasio. Credo che per amore della pace la sua pietà lo riceverà con gratitudine… Che la Vostra Carità riconosca che l’ho fatto da un cuore gentile e innocente. Mi rivolgo quindi a voi con questa lettera e vi prego, per Dio onnipotente e per Cristo Gesù suo Figlio, nostro Dio e Signore, di degnarvi di presentarvi (al clementissimo imperatore) Costanzo Augusto e di pregarlo che, per la pace e la concordia in cui la sua pietà trova sempre la sua gioia, si compiaccia di farmi tornare alla Chiesa affidatami da Dio, affinché durante la sua vita la Chiesa romana non soffra alcun tormento.

143. – (2) Ho ritenuto necessario informare Vostra Santità che ho preso le distanze dalla persona di Atanasio in merito a questa disputa, e che ho inviato una lettera ai nostri fratelli e Vescovi d’Oriente su di lui. Perciò, dato che anche noi, secondo la volontà di Dio, siamo in pace con tutti, vorrà gentilmente visitare tutti i vescovi della Campania e farli conoscere. Con una tua lettera, manda una loro lettera al misericordiosissimo imperatore per l’unanimità e la pace con noi, così che anch’io possa essere libero dalla tristezza. … Siamo in pace con tutti i Vescovi orientali e con voi. …

S. DAMASO I: 1 OTTOBRE 366 – 11 DICEMBRE 384

Frammenti di lettere a Vescovi orientali intorno al 374.

La Trinità Divina

144 – Per questo motivo, fratelli, questa Gerico, che è figura della voluttà del tempo, si sta sgretolando sotto il clamore e non si innalza più, perché tutti noi con una sola bocca diciamo che la Trinità è di una sola potenza, di una sola maestà, di una sola divinità, di una sola ousia, così che diciamo che c’è una sola potenza inseparabile, e tuttavia tre Persone, che non ritornano a se stesse e non si riducono,… ma rimangono sempre; e anche che non ci sono diversi gradi di potenza, né diversi tempi di origine, che il Verbo non è così professato da scartare la generazione, né così imperfetto che la sua Persona mancherebbe della natura del Padre o della pienezza della Divinità; E anche che il Figlio non è dissimile nell’opera, né dissimile nella potenza, né dissimile sotto alcun aspetto, né che deriva la sua esistenza da altrove, ma che è nato da Dio, non come un falso Dio, ma è stato generato vero Dio da vero Dio, vera luce dalla vera luce, in modo che non sia né diminuito né dissimile, perché l’unigenito ha lo splendore della luce eterna Sap VII, 26, perché nell’ordine della natura la luce non può essere senza luminosità, né la luminosità senza luce; Egli è anche l’immagine del Padre, perché chi ha visto Lui ha visto anche il Padre Gv XIV,9 ; lo stesso, per la nostra redenzione, è uscito dalla Vergine per nascere come uomo completo per l’uomo completo che aveva peccato. Per questo motivo affermiamo che il Figlio di Dio ha preso anche l’uomo completo.

145 – Professiamo anche che lo Spirito Santo è increato e di una sola maestà, una sola ousia, una sola potenza con Dio Padre e con il Signore nostro Gesù Cristo. E non merita l’insulto di essere una creatura, lui che è stato mandato a creare, come ci ha assicurato il santo profeta quando ha detto: “Manda il tuo Spirito e saranno creati” Sal 103,30 . Poi un altro disse la stessa cosa: “Lo Spirito divino che mi ha fatto” (cfr. Giobbe XXXIII: 4). Non si deve infatti separare nella divinità colui che è unito nell’operazione e nella remissione dei peccati.

L’incarnazione, contro gli apollinaristi

146 – Siamo certamente sorpresi che si dica di alcuni dei nostri che, sebbene sembrino avere una comprensione ortodossa della Trinità, non pensIno tuttavia in modo corretto… riguardo al sacramento della nostra salvezza. Si dice infatti che il nostro Signore e Salvatore abbia tratto dalla Vergine Maria un uomo incompleto, cioè privo di spirito. Ahimè, quanto è vicina questa concezione agli ariani! I secondi dicono che la divinità è incompleta nel Figlio di Dio, i primi affermano in modo ingannevole che l’umanità è incompleta nel Figlio dell’uomo. Ma se è stato preso un uomo incompleto, la nostra salvezza è incompleta, perché non è l’uomo intero che è stato salvato. E perché è stata pronunciata questa parola del Signore: “Il Figlio dell’uomo è venuto a salvare ciò che era perduto” (Mt XVIII, 11)? L’uomo intero, cioè in anima e corpo, in spirito e in tutta la natura della sua sostanza. Ma se è stato salvato senza lo spirito, allora sembrerà, contro la fede del Vangelo, che non è stato salvato tutto ciò che era perduto; e in un altro luogo il Salvatore stesso dice: siete arrabbiati con Me perché ho guarito l’uomo intero (cfr. Gv 7:23). Del resto è proprio nello spirito dell’uomo che si verificano la colpa originale e la totalità della perdizione. Perché se il senso che fa scegliere all’uomo il bene e il male non fosse dapprima perito, non sarebbe morto: come possiamo allora ammettere che quello che si riconosce aver peccato per primo non si sia salvato del tutto? Quanto a noi, che sappiamo di essere stati salvati completamente e perfettamente, secondo la professione di fede della Chiesa cattolica, professiamo che Dio ha assunto lo stato di un uomo perfetto.

Lo Spirito Santo e l’incarnazione del Verbo

147 –  Come in tutto manteniamo inviolabile la fede di Nicea, senza deviarne le parole o distorcerne il significato, e crediamo nella Trinità di una sola e medesima essenza co-eterna, e non separiamo in alcun modo lo Spirito Santo, ma lo veneriamo con il Padre e il Figlio, perfetto in ogni cosa, in potenza, in onore, in maestà e in divinità, così confidiamo che la pienezza del Verbo di Dio, non pronunciato ma nato, non che dimora nel Padre, di modo che non sia, ma perfetto e sussistente dall’eternità all’eternità, abbia preso e salvato il peccatore completo, cioè nella sua totalità.

Lettera “Per filium meum” al Vescovo Paolino di Antiochia, 375.

L’incarnazione del Verbo divino

148 – … Bisogna confessare che la Sapienza stessa, il Verbo, il Figlio di Dio, ha assunto corpo, anima e spirito, cioè tutto Adamo e, per parlare più espressamente, tutto il nostro vecchio uomo tranne il peccato. Come nel confessare che Egli prese un corpo umano non vi aggiungiamo le passioni viziose degli uomini, così nel dire che Egli prese l’anima e lo spirito dell’uomo non diciamo che fu soggetto al peccato dei pensieri umani. Ma se qualcuno afferma che il Verbo ha preso il posto dello spirito umano nella carne del Signore, la Chiesa cattolica lo anatematizza, così come coloro che confessano due figli nel Salvatore, uno prima dell’incarnazione e l’altro dopo che ha preso carne dalla Vergine, e che non confessano lo stesso Figlio di Dio prima e dopo.

Lettera “Oti te apostolike cathedra” ai Vescovi d’Oriente, 375 ca.

Condanna dell’apollinarismo

149 – Dovete sapere, dunque, che molto tempo fa abbiamo condannato l’infame Timoteo, il discepolo di Apollinare l’Eretico, insieme alla sua empia dottrina, e non crediamo affatto che ciò che ha lasciato possa avere una qualche influenza in futuro… Cristo, il Figlio di Dio nostro Signore, con la propria Passione, ha donato la salvezza in tutta la sua pienezza al genere umano, per liberare da ogni peccato tutto l’uomo invischiato nei peccati. Se, dunque, qualcuno dice di aver avuto una parte minore nella divinità o nell’umanità, dimostra di essere pieno di spirito del diavolo, come figlio della Gehenna. Perché allora mi chiede di nuovo della condanna di Timoteo? Anche qui è condannato dalla Sede Apostolica… insieme al suo maestro Apollinare…

1° Concilio di Costantinopoli (2° Concilio ecumenico)

Maggio-30 luglio 381

Professione di fede di Costantinopoli.

150 – (Versione greca) Noi crediamo in un solo Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili, e in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, unigenito, generato dal Padre prima di tutti i secoli, luce della luce, Dio vero da Dio vero, generato non fatto, consustanziale al Padre, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose; che per noi e per la nostra salvezza è disceso dal cielo, si è incarnato per opera dello Spirito Santo e della Vergine Maria e si è fatto uomo; è stato crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, ha sofferto ed è stato sepolto, è risorto il terzo giorno secondo le Scritture ed è salito al cielo; siede alla destra del Padre e tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti: E nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, che procede dal Padre, che con il Padre e il Figlio è coadiuvato e co-glorificato, che ha parlato per mezzo dei profeti: in una sola Chiesa santa, cattolica e apostolica. Confessiamo un unico battesimo per la remissione dei peccati; aspettiamo la risurrezione dei morti e la vita del mondo a venire. Amen.

(Versione latina) Credo in un solo Dio, il Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. E in un solo Signore Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non fatto, consustanziale al Padre, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose; il quale, per causa nostra e per la nostra salvezza, è disceso dal cielo, si è incarnato dallo Spirito Santo della Vergine Maria e si è fatto uomo; è stato anche crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, ha sofferto ed è stato sepolto, è risorto il terzo giorno secondo le Scritture ed è salito al cielo; siede alla destra del Padre e tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti; e il suo Regno non avrà fine. E nello Spirito Santo, che è Signore e donatore di vita, che procede dal Padre e dal Figlio, che con il Padre e il Figlio è ugualmente co-adorato e co-glorificato, che ha parlato per mezzo dei profeti. E in un’unica Chiesa santa, cattolica e apostolica. Confesso un solo battesimo per la remissione dei peccati. Attendiamo con ansia la resurrezione dei morti e la vita del mondo a venire. Amen

Canoni, 9 luglio 381.

Condanna di varie eresie

151 – 1. di non abrogare la fede dei 318 Padri riuniti a Nicea in Bitinia, ma di mantenerla in vigore; e di anatematizzare ogni eresia: specialmente quella degli Eunomiani, cioè degli Anomei, quella degli Ariani o Eudossiani, quella dei Semi-Ariani o Pneumatomatici, quella dei Sabelliani, quella dei Marcelliani, quella dei Fotiniani e quella degli Apollinaristi.

2. Che i Vescovi di una diocesi non interferiscano nelle Chiese a loro estranee, né portino disordine nelle Chiese, ma che, secondo i canoni, il Vescovo di Alessandria amministri solo gli affari dell’Egitto, i Vescovi dell’Oriente solo quelli della diocesi orientale, mantenendo le prerogative riconosciute dai canoni di Nicea alla Chiesa di Antiochia; che i Vescovi della diocesi d’Asia amministrino solo gli affari dell’Asia, quelli del Ponto solo quelli del Ponto e quelli della Tracia solo quelli della Tracia. Se non sono chiamati, i Vescovi non si allontanino dalla loro diocesi per imporre le mani o per esercitare altre funzioni ecclesiastiche. Se osserviamo questo canone, è chiaro che il sinodo dell’eparchia è competente nella sua eparchia, secondo le determinazioni di Nicea. Per quanto riguarda le Chiese di Dio che si trovano tra i popoli barbari, è opportuno che siano amministrate secondo la consuetudine messa in atto dai Padri.

3. Il Vescovo di Costantinopoli deve avere il primato d’onore dopo il Vescovo di Roma, perché quella città è la nuova Roma.

4. Il Vescovo di Costantinopoli deve avere il primato d’onore dopo il Vescovo di Roma. Riguardo a Massimo il Cinico e ai disordini che, a causa sua, si sono verificati a Costantinopoli, (dichiariamo) che Massimo non è mai stato e non è un vescovo, né coloro che egli ha ordinato erano di alcun grado del clero; tutto ciò che è stato fatto nei suoi confronti o che egli stesso ha fatto non ha alcun valore.

Concilio di Roma. 382.

a) Il “Tomus Damasi” o professione di fede al Vescovo Paulin di Antiochia, 152

Trinità e incarnazione

152 Perché dopo il Concilio di Nicea è sorto questo errore e alcuni hanno osato dire con bocca sacrilega che lo Spirito Santo è stato fatto dal Figlio:

153 (1) Anatemizziamo coloro che non proclamano liberamente che Egli ha una sola potenza, una sola sostanza con il Padre e il Figlio.

154. (2) Anatemizziamo anche coloro che seguono l’errore di Sabellius, dicendo che il Padre è lo stesso del Figlio.

155. (3) Anatemizziamo Ario ed Eunomio, che, sebbene differiscano nelle parole, sono uguali nell’empietà e dicono che il Figlio e lo Spirito Santo sono creature.

156. (4) Anatemizziamo i Macedoniani che, provenendo dalla radice di Ario, non hanno cambiato la perfidia ma solo il nome.

157. (5) Anatemizziamo Fotino, che rinnova l’eresia di Ebione e professa che il Signore Gesù Cristo è solo di Maria.

158. (6) Anatemizziamo coloro che affermano due Figli, uno esistente prima dei secoli e l’altro dopo l’assunzione della carne della Vergine.

159. (7) Anatemizziamo coloro che dicono che il Verbo di Dio abitò nella carne umana al posto di un’anima spirituale ragionevole, perché il Figlio e Verbo di Dio non era nel suo corpo al posto di un’anima spirituale ragionevole, ma era la nostra anima (ragionevole e spirituale) che egli prese e salvò senza peccato.

160. (8) Anatemizziamo coloro che dicono che il Verbo, il Figlio di Dio, è un’estensione o una contrazione, separato dal Padre, senza sostanza, e che avrà una fine.

161 (9) Anche coloro che sono passati da una chiesa all’altra riteniamo che siano esclusi dalla comunione con noi finché non siano tornati nelle città in cui erano stati fondati. E se uno, quando un altro se n’è andato, è stato ordinato al suo posto mentre era in vita, colui che ha lasciato la sua città sarà senza dignità sacerdotale fino al momento in cui il suo successore riposerà nel Signore.

162. Se qualcuno non dice che il Padre è sempre, che il Figlio è sempre, che lo Spirito Santo è sempre, è un eretico.

163. Se qualcuno non dice che il Figlio è nato dal Padre, cioè dalla sua sostanza divina, è un eretico.

164. Se qualcuno non dice che il Figlio di Dio è vero Dio, come suo Padre è vero Dio, e che può fare tutte le cose, conosce tutte le cose ed è uguale al Padre, è un eretico.

165. Se qualcuno dice che il Figlio, quando era sulla terra nella carne, non era con il Padre nei cieli, è un eretico.

166 (14) Se qualcuno dice che nella sofferenza della croce è stato Dio a sentire il dolore, e non la carne e l’anima di cui Cristo, Figlio di Dio, si è rivestito – la forma di schiavo che ha assunto, come dice la Scrittura (cfr. Fil 2,7 ) – è in errore.

167 (15) Se qualcuno non dice che Egli siede alla destra del Padre nella carne, nella quale verrà a giudicare i vivi e i morti, è un eretico.

168. Se qualcuno non dice che lo Spirito Santo è veramente e propriamente del Padre come il Figlio, che è della sostanza divina e vero Dio, è un eretico.

169. Se qualcuno non dice che lo Spirito Santo è Onnipotente, che è Onnisciente, che è ovunque, come il Figlio e il Padre, è un eretico.

170. Se qualcuno dice che lo Spirito Santo è una creatura o che è stato fatto dal Figlio, è un eretico.

171. Se qualcuno non dice che il Padre ha fatto tutte le cose, cioè quelle visibili e invisibili, per mezzo del Figlio e dello Spirito Santo, è un eretico.

172. Se qualcuno non dice che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno una sola divinità, una sola potenza, una sola maestà, una sola forza, una sola gloria, una sola sovranità, un solo regno, è un eretico, una sola volontà e una sola verità è un eretico.

173. (21) Se qualcuno non dice che le tre Persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo sono vere, che sono uguali, sempre viventi, che contengono tutte le cose visibili e invisibili, che hanno potere su tutte le cose, che giudicano tutte le cose, che vivificano tutte le cose, che creano tutte le cose e conservano tutte le cose, è un eretico.

174. (22) Se qualcuno non dice che lo Spirito Santo deve essere adorato da ogni creatura come il Figlio e il Padre, è un eretico.

175. (23) Se qualcuno pensa bene del Padre e del Figlio, ma non pensa bene dello Spirito, è un eretico, perché tutti gli eretici che pensano male del Figlio di Dio e dello Spirito Santo si trovano nell’empietà dei Giudei e dei pagani.

176. (24) Se qualcuno, dicendo che il Padre è Dio, il Figlio è Dio e lo Spirito Santo è Dio, divide, e quindi significa dei, e non Dio, a causa dell’unica divinità e potenza, che crediamo e sappiamo appartenere al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo; Se esclude il Figlio o lo Spirito Santo, ritenendo che solo il Padre debba essere chiamato Dio, e quindi crede in un unico Dio, è un eretico in tutti questi punti; è persino un ebreo. Perché il nome di dèi è stato ordinato e dato da Dio a tutti gli Angeli e ai Santi. Ma nel caso del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, la loro unica ed eguale divinità rende l’appellativo non di dèi, ma di Dio, che ci viene mostrato e indicato per credere. Perché noi siamo battezzati solo nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, e non nel nome di Arcangeli o Angeli, come gli eretici o i giudei o anche i pagani stolti.

177. Questa è la salvezza dei Cristiani: credendo nella Trinità, cioè nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo, e battezzati in essa, dobbiamo credere fermamente che essa sia una sola vera Divinità e potenza, maestà e sostanza.

b) “Decretum Damasi,” De explanatione fidei.

Lo Spirito Santo

178 – Prima di tutto dobbiamo occuparci dello Spirito settiforme che riposa su Cristo. Lo Spirito di sapienza: Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio 1 Cor I,24 Lo Spirito di intelletto: Io vi darò comprensione e vi istruirò sulla via da seguire Sal 31,8. Lo Spirito del consiglio: e il suo nome sarà chiamato messaggero del grande consiglio (Is IX,6 – LXX). Lo Spirito di fortezza: come sopra, la forza di Dio e la sapienza di Dio 1Co 1,24 Lo Spirito della scienza: a causa dell’eminenza della conoscenza di Cristo Gesù (Ef III,19 Fil III,8), colui che è stato mandato. Lo Spirito di verità: Io sono la via, la vita e la verità (Gv XIV,6). Lo Spirito di timore (di Dio): L’inizio della saggezza è il timore di Dio: Sal. CX,10 Pr. IX,10. La distribuzione dei nomi di Cristo è però multiforme: Signore, perché è Spirito; Verbo, perché è Dio; Figlio, perché è l’unico nato dal Padre;… Lo Spirito Santo non è lo Spirito del solo Padre o del solo Figlio, ma lo Spirito del Padre e del Figlio, perché sta scritto: “Se uno ama il mondo, lo Spirito del Padre non è in lui” (cfr. 1Gv II,15; Rm VIII,9); e sta scritto: “Chi non ha in sé lo Spirito del Padre, non ha nessuno in sé”: È da questa nomina del Padre e del Figlio che si riconosce lo Spirito Santo”, di cui il Figlio stesso dice nel Vangelo: lo Spirito Santo procede dal Padre (Gv XV,26) e: riceverà ciò che è mio e ve lo annuncerà (Gv XVI,14).

Il Canone della Sacra Scrittura

179 – Dobbiamo ora parlare delle Scritture divine, di ciò che la Chiesa cattolica universale riceve e di ciò che deve evitare. Cominciamo con l’ordine dell’Antico Testamento. Genesi, un libro; Esodo, un libro; Levitico, un libro; Numeri, un libro; Deuteronomio, un libro; Giosuè, un libro; Giudici, un libro; Rut, un libro; Re, quattro libri; Paralipomena, due libri; 150 Salmi (Salterio), un libro; Salomone, tre libri; Proverbi, un libro; Ecclesiaste, un libro; Cantico di Salomone, un libro; Sapienza, un libro; Ecclesiastico, un libro. Poi l’ordine dei profeti. Isaia, un libro; Geremia, un libro, con Cinoth, cioè le sue Lamentazioni; Ezechiele, un libro; Daniele, un libro; Osea, un libro; Amos, un libro; Michea, un libro; Gioele, un libro; Abdia, un libro; Giona, un libro; Nahum, un libro; Abacuc, un libro; Sofonia, un libro; Aggeo, un libro; Zaccaria, un libro; Malachia, un libro. Poi l’ordine delle storie. Giobbe, un libro; Tobit, un libro; Esdra, due libri; Ester, un libro; Giuditta, un libro; Maccabei, due libri. Poi l’ordine delle Scritture del Nuovo ed Eterno Testamento, che la Chiesa Santa e Cattolica (romana) riceve (e venera). Vangeli (quattro libri): un libro secondo Matteo; un libro secondo Marco; un libro secondo Luca; un libro secondo Giovanni (anche gli Atti degli Apostoli, un libro). Le epistole di Paolo, quattordici: una ai Romani; due ai Corinzi; una agli Efesini; due ai Tessalonicesi; una ai Galati; una ai Filippesi; una ai Colossesi; due a Timoteo; una a Tito; una a Filemone; una agli Ebrei. Allo stesso modo l’Apocalisse, primo libro. E gli Atti degli Apostoli, un libro (vedi sopra). Poi le epistole canoniche, in numero di sette: due dell’apostolo Pietro; una dell’apostolo Giacomo; una dell’apostolo Giovanni; due dell’altro Giovanni, il presbitero; una dell’Apostolo Giuda, lo Zelota. Fine del canone del Nuovo Testamento.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (4). “Da San Siricio e San Zosimo”.