SAN MARCO EVANGELISTA
(Otto Hophan: Gli Apostoli, trad. G. Scattolon; Marietti ed. 1951. N. h.: M. Fantuzzi, C. E. D. – Impr.: A. Mantiero Vesc. di Treviso, 15 oct. 1949)
Marco in questo libro non sta accanto a Paolo per caso o per una allegra ironia come nel celebre quadro del Dürer; questo posto gli spetta realmente. Egli non appartiene più agli Apostoli, dei quali la serie augusta si conchiude con Paolo, l’« ultimo », il « minimo », come egli stesso si ritiene nella sua umiltà. Marco però è Evangelista, il secondo dei quattro Evangelisti, che insieme col terzo, Luca, come lui non Apostolo, è preso nel mezzo fra gli evangelisti-apostoli Matteo e Giovanni quasi a protezione e sostegno; lo troviamo già in cataloghi antichi del quarto e quinto secolo dopo Paolo, ma prima dei settanta discepoli, perché non era quanto un Apostolo, ma era di più d’un semplice discepolo. Marco nei Libri Sacri del Nuovo Testamento è ricordato dieci volte, ora solamente col suo nome ebraico Giovanni, ora soltanto col nome romano Marco, ora col doppio nome Giovanni-Marco; e, come per il suo grande maestro Saulo-Paolo, anche per lui un po’ alla volta il nome ebraico scomparve nell’ombra, prevalse il nome di Marco, finché a Roma questo divenne il suo nome esclusivo. È vero che i critici ritennero di dover distinguere due o anche tre Marco: Giovanni Marco, che s’accompagnò a Paolo; Marco, che accompagnò Pietro e scrisse il secondo Vangelo; e in realtà alcuni dati si possono conciliare solamente con un po’ di fatica; ma gli Scritti Sacri non offrono nessun motivo per questa distinzione; un pacato esame dei diversi testi mostra ch’è possibile ordinare nel corso della vita d’un unico e medesimo Marco le indicazioni apparentemente contrastanti; ne riparleremo ancora, ma frattanto possiamo aggiungere che oggi il doppio Marco è comunemente abbandonato. – Marco era per origine ebreo, ma nacque probabilmente fuori della Palestina; in una compilazione liturgica della chiesa coptica, il Synaxarion arabico, leggiamo che la terra della sua infanzia fu la « Pentapoli », la regione delle cinque città dell’antichità: Cirene, Apollonia, Barka, Tauchira ed Euesperida. Lo stesso Synaxarion quale padre suo indica un certo Aristobolo; la Sacra Scrittura ricorda soltanto la madre e in modo da far concludere che il padre morì per tempo, non prima però del Giovedì Santo. Egli dovette rimaner senza il padre esattamente in quegli anni, in cui aveva il massimo bisogno di lui; ché nemmeno la migliore delle madri può compensare del tutto il padre; ne manca per natura la mano ferma, cosciente delle mete e anche dura, se necessario; e si direbbe che questa deficienza abbia avuto il suo riflesso nell’educazione di Marco meno virile, meno coerente e sicura. Siamo indotti a rilevarlo dal fatto del suo ritorno alla madre, mentre gli si delineavano dinanzi gli strapazzi del primo viaggio apostolico; delle informazioni antiche poi, anche se non del tutto indubbie, ci riferiscono pure un altro fatterello della sua giovinezza, che non sarebbe avvenuto, se il padre gli fosse stato a fianco: si troncò lui stesso il pollice per rendersi inabile al servizio nel Tempio secondo la legislazione del Vecchio Testamento, giacché era obbligato al servizio sacerdotale, come discendente della tribù di Levi; quest’ultima notizia ci viene riferita dall’antico prologo al Vangelo di Marco, che risale al quarto secolo. Povero pollice! Ma forse questa leggenda attribuisce all’evangelista Marco un’automutilazione, che, nell’eccesso del suo fervore ascetico, aveva fatta un Marco monaco; quantunque il prete romano Ippolito (+ 235) ha per il nostro Evangelista l’appellativo « kolobodaktylos — dal dito monco »; è vero però che l’espressione potrebbe alludere ad una mano piccola, esile, e il senso potrebbe essere: mani piccole non possono serrarsi in pugni pesanti, atti a dominare le difficoltà. La madre di Marco, Maria, era una donna religiosa, colta e ricca; anche fosse vero, secondo l’informazione d’uno scritto arabico, che aveva perduto il suo vistoso patrimonio, nondimeno al tempo della sua vedovanza era ancora così benestante che possedeva una grande casa in Gerusalemme, messa dal suo pio sentimento a disposizione della giovane comunità cristiana, perché vi tenesse le sue adunanze. Secondo lo storico della Chiesa Niceforo, Maria sarebbe stata una « sorella » di Pietro, o « una figlia della zia della moglie di Pietro », come con complicata espressione precisa, in fatto di parentela, lo scritto arabico or ora ricordato; e a dir vero, un rapporto di parentela, per quanto largo, di Pietro spiegherebbe bene le sue relazioni con la casa di Maria e anche la sua evidente benevolenza per Marco. Questa donna, riferisce il Synaxarion arabico, era di molto talento ed istruì lei stessa il figlio, cui insegnò la lingua greca, la francese (latina?) ed ebraica. E fece molto bene, perché il suo Marco, secondo i disegni della Provvidenza sarebbe divenuto un giorno l’interprete di Pietro. Quante volte il Signore dona alle mamme un presentimento dei suoi piani sublimi! Riprendiamo con gusto all’idillio e all’ideale della cara vita familiare di questa gentile signora col suo figlio Marco; ella raccoglieva tutto il suo vedovo amore sul suo Marco, suo figlio, suo sole, e suo tutto; e Marco stendeva le sue mani delicate e il suo giovane cuore all’amore di sua madre, che l’andava plasmando. La Sacra Scrittura ricorda anche un altro vincolo di parentela del nostro Marco: egli era « il cugino — anepsiòs, consobrinus — di Barnaba »; questa espressione di solito è tradotta con « cugino », ma potrebbe tradursi anche con « nipote », e quindi Barnaba, che gli Atti degli Apostoli esaltano quale « uomo esimio, ripieno di Spirito Santo e di fede », sarebbe stato lo zio di Marco e probabilmente da parte del padre, giacché egli pure, secondo l’esplicita testimonianza della Scrittura, apparteneva alla tribù di Levi. Quanto egli si sia mostrato benevolo e fedele a suo nipote, lo veniamo a conoscere dalle relazioni degli Atti: piuttosto che mettere dalla parte del torto Marco, rinunciò all’amicizia dell’Apostolo gigante, Paolo. Se ora mettiamo insieme tutti questi brevi, vari e singolari elementi, ne risulta una figura di giovane lieta e solatia: Marco era ricco, colto, bello, circondato da cure e custodito, il beniamino di tutti. Gli « Atti di Marco », uno scritto della metà del quarto secolo, lo esaltano come un uomo « di buona indole e soffuso di divina bellezza »; descrivono poi il suo simpatico esteriore dicendo: « Era di portamento nobile e svelto; aveva belli gli occhi e un volto dal color d’oro, come un campo di grano, il naso non ricurvo ma diritto e sopracciglia aderenti ». Chi dalla vita è trattato ruvidamente, è tentato d’amaramente invidiare individui in tal modo illuminati dal sole, quasi vengano viziati dalla sorte; ma perché non ci dovrebbero essere anche le persone felici e belle? Esse sono una ricchezza del mondo povero e un raggio singolarmente fulgido del perfetto Iddio. Anche Marco fu un prediletto della natura e lo fu pure della grazia, che importa ancor più.
MARCO E GESÙ
Ma quanta parte dipende dalla famiglia, nella quale un uomo cresce! La casa può essere la sua eterna benedizione, come può pure divenire motivo della spaventosa rovina. Marco, favorito da Dio e dall’azione della Provvidenza, fu adagiato entro alla culla del Cristianesimo; egli crebbe insieme col recente Cristianesimo e nello stesso luogo; Marco e la giovane società di Cristo son come fratelli gemelli. Secondo un’antica tradizione degna di fede, la sala fortunata, nella quale si compirono i più augusti Misteri, quali la celebrazione della Cena il Giovedì Santo, le apparizioni del Risorto nei giorni pasquali, il soffio dello Spirito Santo nella bufera di Pentecoste, era la sala della casa materna di Marco; nelle supreme ore cristiane egli stava là, non certo come uno di coloro che circondavano Gesù direttamente, ma almeno come uno che è ammesso; poiché chi avrebbe potuto allontanare un buon giovane, specialmente se si trattava del figlio della padrona di casa, tanto ospitale? Silenzioso dunque, stupito, tutt’occhi e tutt’orecchi, egli visse con gli altri i sublimissimi eventi e, anche se non comprese il loro significato — non lo compresero del tutto nemmeno gli Apostoli —, presagì però che quivi, nella casa della madre sua, s’avveravano cose divine e nella sua sensibile anima di ragazzo s’impressero incancellabilmente le scene più stupende del Vangelo. – Quando i due Apostoli Pietro e Giovanni, nel pomeriggio del Giovedì Santo, gli tennero dietro ostinatamente per tutte le vie sino a casa, mentre s’allontanava dalla fonte, dove s’era portato per attingere acqua, egli si guardò attorno attonito; fin d’allora egli fu presente a Gesù, poiché con ragione si suppone che fosse Marco quel giovane, con la brocca d’acqua, che il Signore diede ai due Apostoli come segno: « Seguitelo! E dov’egli entra, ivi dite al padrone di casa: “Il Maestro ci fa chiedere: Dov’è la stanza, nella quale Io possa mangiare la Pasqua con i miei Discepoli?”. Egli vi farà vedere una grande stanza superiore, arredata di divani per la mensa. È già pronta; ivi preparate per noi ». Con la gioia ed il fervore d’un ragazzetto, cui è dato di prestare dei servizi insoliti, Marco aiutò Pietro e Giovanni nel preparare la cena pasquale; li aiuterà anche più tardi, nel preparare il vero Agnello pasquale per gli uomini. E giunse la sera; arrivavano gli altri dieci Apostoli, seri, silenziosi, oppressi, così gli sembrava, e s’avvicinavano alla casa; venne poi il Signore, pallido ma dignitoso. Mentre veniva accolto, Egli posò la mano sul capo di Marco, quella mano, che al domani sarebbe stata trafitta; poi Maria, la mamma, allontanò dal gruppo di quelle persone il figlio; ma chi vorrebbe rimproverarlo, se ben presto fu di nuovo dinanzi alla porta chiusa della sala? Sentì le parole sublimi, da lontano soltanto, certamente, non vicino come Giovanni, che più tardi le mise in iscritto; indietreggiò spaventato, quando Giuda aprì violentemente la porta e gli passò dinanzi precipitoso; messosi a letto, non s’addormentò e udì i passi che si dileguavano; che convenga seguire…? – Tre giorni dopo, di soppiatto, gli stessi individui vennero nella medesima sala; veramente non erano proprio gli stessi, perché erano venuti spiando come malfattori e sconvolti come fossero dei disperati; nessuno aveva avuto per lui uno sguardo o una parola di saluto. Quando da lassù, nella sala, giunse all’orecchio del nostro giovane lo strepito come d’un’esplosione di terrore e subito poi di festa, egli corse su, presso la porta chiusa, compresse il suo scarno corpo contro la parete, spiò attraverso una sottile fessura e fu colpito da tanta luce, che i suoi occhi ne soffrirono. Marco termina la prima stesura del suo Vangelo con la relazione della apparizione del Risorto alle pie donne: « Paura e timore s’erano impadroniti delle donne. Per il grande timore, non ne fecero parola a nessuno »; forse in queste singolari espressioni freme pure la prima esperienza pasquale di Marco stesso. La casa dei suoi genitori doveva essere per la terza volta il teatro d’una sublimissima grazia nel giorno di Pentecoste. Giovane com’era, sulle prime dovette sentirsi poco sicuro, quando « improvvisamente si levò un rumore dal cielo, come se giungesse una violenta bufera, il quale riempì tutta la casa, dov’essi erano raccolti ». Poi calarono le lingue fiammeggianti e una di esse accese del fuoco dello Spirito Santo anche Marco e gli infuse quella chiarezza e vigoria, che vampeggia ancor oggi nel suo Vangelo. Oh, come è vero che nella vita d’un uomo molto dipende dalla casa, dov’egli è a casa! – È vero che la stessa Sacra Scrittura attesta solo che la casa di Maria, la madre di Marco, servì, come una prima Chiesa, per le assemblee della prima comunità cristiana in Gerusalemme al tempo della persecuzione di Erode Agrippa (41-44); per questo ricevette il titolo onorifico di « madre di tutte le chiese », di ‘Santa Sion » e di « chiesa degli Apostoli », e in un’epoca posteriore fu edificata nel suo posto una vasta Chiesa, nella quale venne inclusa anche la casa dell’Apostolo Giovanni, detta « Dormitio Mariæ Virginis — il rimpatrio della Vergine Maria » —, situata lì vicino. Questa indicazione però della Scrittura illumina quanto afferma la tradizione. Se Maria, la nobile e religiosa signora, mise a disposizione della comunità cristiana la sua casa, è probabile che l’avesse aperta già al Signore, i primi Cristiani anzi proprio per questo si sarebbero ritrovati insieme tanto volentieri in quella casa, perché essa era stata consacrata cioè dallo stesso Signore e dallo Spirito Santo. – Anche queste riunioni dei primi Cristiani nella casa di sua madre furono per Marco, giovane allora in fiorente sviluppo, una ricca sorgente di grazia e decisive per la sua vita. Quivi gli Apostoli andavano e venivano e trattavano delle loro sollecitudini, dei loro piani e successi; quivi si rifugiarono i primi Cristiani di Gerusalemme nei giorni penosi delle persecuzioni da parte del Sinedrio, di Paolo e di Erode. Inobliabile restò per Marco soprattutto quella notte di pasqua, durante la quale l’intera giovane Chiesa pregava per la salvezza di Pietro dalle mani di Erode, assetate di sangue: fu picchiato alla porta del cortile; « la fanciulla Rode accorse e stette ad ascoltare; riconobbe la voce di Pietro, ma per la gioia dimenticò di aprire la porta; rientrò correndo e annunziò che Pietro stava alla porta. Quelli le replicarono: “Sei ben fuori di te!”; ma lei insisteva a dire ch’era così; allora pensarono: “È il suo Angelo”; ma Pietro continuava a picchiare. Allora aprirono, videro e sbigottirono. Egli fece loro cenno con la mano di fare silenzio e raccontò loro come il Signore l’avesse liberato dal carcere » (Act. XII, 1-17). Per lo più bussare a una porta significa pure bussare a un cuore; Marco, con cuore grande e festante, aveva aperto la porta al Signore e a Pietro, e li vide entrare venire verso di sé come verso a una primavera; aprì loro anche il suo cuore? – Non ignoriamo che una nota dell’antico Papia sembra affermare che Marco non conobbe affatto di persona Gesù: « Non vide il Signore nella carne e nemmeno Lo udì »; ma questa e simili testimonianze antiche, che trattano di Marco come Evangelista, vogliono solamente dire ch’egli non fu, come gli Evangelisti Matteo e Giovanni, testimonio immediato oculare e auricolare degli avvenimenti evangelici; il così detto Frammento Muratoriano lascia persino intravvedere che egli di quando in quando fu presente alle scene del Vangelo. Epifanio e alcuni altri antichi scrittori ecclesiastici scorgono in Marco uno dei settantadue discepoli, uno anzi di quelli, che defezionarono dal Signore nella sinagoga di Cafarnao, dopo il discorso eucaristico, e più tardi nuovamente riconquistato da Pietro; ma tali asserzioni sono confutate dall’età stessa molto giovanile di Marco. Egli dunque vide il Signore, ma ancora con gli occhi grandi del bambino e col cuore tenero e sensibile del ragazzo. Nel suo Vangelo egli ha notato un particolare, ch’è in se stesso senza importanza, ma che s’incontra solamente in lui: « Dopo di che (dopo cioè la cattura sul Monte degli Olivi), tutti Lo abbandonarono e fuggirono. Un giovanetto però, che indossava sul nudo corpo un lenzuolo soltanto, Lo seguì; quando lo si volle acciuffare, lasciò andare il lenzuolo e se ne fuggì nudo »! Si ammette abbastanza comunemente che in questo episodio del Vangelo Marco, come un artista nel suo quadro, abbia delineato se stesso; e quante cose ci svela questo piccolo autoritratto! Nella grande notte dell’ultima Cena, egli non aveva potuto dormire, come sua madre invece aveva desiderato e sollecitato, perché aveva percepita la tensione, che gravava su quella notte; aveva intercettate parecchie espressioni del discorso d’addio e a un certo momento gli sembrò di sentire un risonar di spade; se la svignò da casa, ma di soppiatto per non scontrarsi col volere della mamma e in tenuta certamente strana, ma era notte e aveva il sangue caldo. Protetto dall’oscurità, trovò sul Monte degli Olivi un nascondiglio, donde ascoltò confuso il gemito del Maestro, il russare dei Discepoli e lo strepito degli sbirri, che accerchiarono Gesù con spade e bastoni. – E qui, in questo primo e unico fatterello, nel quale Marco stesso compare nel Vangelo, è già manifesta la sua affezione per Gesù. Gli Apostoli fuggirono; gli stessi Pietro e Giovanni seguirono soltanto da lontano!; ma il caro Marco si tenne vicino, da presso a Gesù. In quel momento gli occhi divini del Signore, ancor pregni di mestizia per il tradimento di Giuda, si rischiararono un po’ e si riposarono con compiacenza su quel nobile giovanetto. Quando i soldati stesero i loro pesanti pugni per colpire quest’ultimo e giovanissimo amico di Gesù, egli lasciò nelle loro mani il ridicolo lenzuolo e rimase nudo. E questa nudità, come un simbolo, indica già l’avvenire: Marco, il nostro giovanetto custodito, curato, delicato, per amore di Gesù abbandonerà tutto e con la sua spogliazione dimostrerà ch’egli è un autentico discepolo del Maestro: non aprì a Gesù solo la porta di casa, Gli aprì pure la porta del suo cuore.
MARCO E PAOLO
Marco e Paolo s’incontrarono probabilmente per la prima volta quando, nell’anno 44, Barnaba e Paolo portarono a Gerusalemme la generosa colletta della comunità etnicocristiana di Antiochia per i bisogni della povera Chiesa madre. Barnaba, lo zio, dovette presentare suo nipote Marco allo sguardo indagatore di Paolo con soddisfatta compiacenza; e il nipote, quand’ebbe udito della vita cristiana dei convertiti dal paganesimo, se ne scese ad Antiochia, quasi come un dono prezioso, che Gerusalemme offriva in compenso della colletta ricevuta. Da anni, infatti, ormai Marco s’era scelto Gesù quale scopo supremo della sua vita; adesso era divenuto un giovanotto robusto e brillante di circa venti primavere, che, come un albero di maggio, voleva portare frutto; le lontane regioni lo allettavano, gli suscitavano in cuore entusiasmo e gioia, cui forse s’aggiungeva pure un po’ di spirito d’avventura; e delle avventure ardite, liete e penose, non mancano nemmeno nel seguire Cristo. Era capitato bene; proprio in quel tempo Barnaba e Paolo intendevano cimentarsi nel rischio del primo viaggio apostolico; gli Atti degli Apostoli a questo punto inseriscono la notizia: « Avevano con loro quale assistente Giovanni (Marco) », non per i loro servizi personali, ma, in senso biblico, quale ministro della Parola, per l’amministrazione del Battesimo e per gli altri aiuti connessi con l’opera missionaria; dalla prima lettera ai Corinti sappiamo però che Paolo riteneva la predicazione come compito suo proprio; Marco, felice come un giovane sacerdote, regalava a piene mani la sua prima benedizione. Ma il viaggio andava oltre a quello che egli aveva immaginato; Cipro fu ben presto attraversata ed evangelizzata, e Paolo si spingeva più innanzi; anzi la sua intenzione di spingersi, attraverso il Tauro, nell’altipiano di Pisidia e Licaonia nell’Asia Minore non si palesò che lassù a Perge. Il viaggio importava una marcia al minimo di dieci giorni di cammino faticoso e altrettanto pericoloso, giacché nell’antichità la stessa scortese pianura di Panfilia era infamata e temuta a motivo dei suoi abitanti bellicosi e rapinatori; persino i Romani riuscirono ad avvicinarsi alle popolazioni semibarbare del Tauro soltanto dopo lunga fatica. Gli Atti degli Apostoli a questo punto ci fanno sapere di Marco: « Si separò da Paolo e Barnaba e tornò a Gerusalemme ». Ce ne domandiamo il perché. Qualcuno ha affermato che Marco era disgustato, perché Paolo sempre più chiaramente aveva assunta la direzione della missione; e di fatto d’or innanzi negli Atti si dirà sempre: « Paolo e Barnaba» e non più: « Barnaba e Paolo »; altri ha voluto scorgere in quel ritorno una protesta di Marco contro la missione di Paolo fra i gentili, libera dalla Legge; il Sacro Testo stesso però allude a un altro motivo: quello che spaventò il buon Marco fu semplicemente l’inaudita fatica del viaggio apostolico; i disagi già sostenuti in Siria, a Cipro e sino a Perge gli avevano fatto provare che l’andare in missione era molto di più che un’allegra e devota avventura; finora aveva resistito, ma non si sentiva in grado di prendere parte anche alla seconda tappa del viaggio. Il Synaxarion arabico più sopra ricordato conferma questa interpretazione, scrivendo: « Quando Marco, andando in giro per accompagnare Paolo e Barnaba, constatò quanti colpi e disprezzi essi dovevano tollerare, li abbandonò in Panfilia e tornò a Gerusalemme»; e un’omilia del nono secolo ce lo dipinge con squisita ingenuità: « Marco disse fra sé: questi uomini non hanno requie; preferisco tornarmene a mia madre; presso di lei troverò da mangiare. La mamma sua però ne sentì gran dolore ». Le mamme…! Ci è lecito disapprovare il ritorno di Marco come una fuga vile? Solo a pochi è concesso di affermarsi come eroi già al primo assalto; anche l’eroe deve formarsi attraverso l’aspra lotta e la molteplice rinuncia; il nostro amabile giovane invece fu strappato in età troppo immatura e troppo alle svelte al suo genere di vita nobile, abituato bene e forse un po’ viziato; e venne meno. Ma se un giovane vien meno una volta, verrà poi meno sempre? In questo sta la colpa di Paolo nei riguardi di Marco, perché, a causa di quell’unica ora di debolezza, gli negò la propria fiducia e lo disanimò, contro il monito ch’egli stesso rivolge ai padri. Quando infatti Marco, nell’anno 49, tre o quattro anni forse dopo il doloroso episodio di Perge, valendosi della mediazione di Barnaba, si fece annunziare per il secondo viaggio apostolico, Paolo gli rispose con un brusco rifiuto: « Paolo non ritenne opportuno di assumere colui, che dalla Panfilia li aveva lasciati in asso e non era andato con loro all’opera »; egli temeva evidentemente che l’incerto giovane se ne andasse da loro una seconda volta per tornarsene a casa o che comunque, nelle difficoltà imprevedibili e forse straordinarie del nuovo viaggio, tornasse più di ostacolo che di aiuto. Eppure, la richiesta di Marco avrebbe dovuto colpire Paolo; era così evidente che il povero giovane cercava, mediante un’attiva prestazione, di riparare il mal fatto e di redimersi dai suoi piccini sentimenti. Il ricordato Synaxarion riferisce: « Quando Paolo e Barnaba tornarono a Gerusalemme e raccontarono della conversione dei pagani e quali miracoli Iddio avesse operato per mezzo di loro, Marco si pentì di quanto aveva fatto per irriflessione »; l’informazione anzi leggendaria dello Pseudo-Marco dice persino che da principio il nostro giovane non aveva affatto osato presentarsi a Paolo; poi per tre sabati consecutivi lo pregò ginocchioni del suo perdono; invano! Dinanzi a questo duro comportamento di Paolo non possiamo sottrarci all’impressione che influissero su di lui non solo dei reali motivi, ma anche dei motivi personali. L’offrirsi di Marco per il secondo viaggio apostolico cadde subito dopo il conflitto di Antiochia; un momento fatale! Paolo, infatti, non aveva ancora potuto inghiottire che in quella circostanza non fosse stato con lui nemmeno il suo amico Barnaba: «Persino Barnaba si lasciò trascinare da quella simulazione »; e Marco fu vittima di quell’irritazione, egli, come si dice, fece traboccare il vaso. – Paolo e Barnaba, i due vecchi e fedeli amici, non si staccarono sicuramente solo a motivo di Marco; una profonda amicizia quale la loro non si spezza per un episodio così insignificante. « Si venne (fra Paolo e Barnaba) a un’aspra tensione — non solamente a “una divergenza di opinioni”, come spesso, ripiegando, si traduce, perché il greco “paroxysmés” significa veramente di più che opinione diversa soltanto —, e la conseguenza fu che si separarono l’uno dall’altro; Barnaba fece viaggio con Marco per Cipro, Paolo invece si elesse Sila e s’incamminò con lui per il suo viaggio». Ci rallegriamo con Marco, perché almeno uno credette ancora in lui, il buon Barnaba; che sarebbe stato di lui, se tutti l’avessero condannato come un vile? Quali decisioni per una giovane vita, se nell’ora opportuna una persona retta offre la sua mano perché prosegua e perché ascenda! La separazione nondimeno lascia dopo di sé un senso di scontentezza, persino il letichino Girolamo lamenta che questa lite fra Paolo e Barnaba fa vedere due grandi nella loro umana meschinità. – Allontanandoci però un poco dalla scena incresciosa, lo sconcerto diminuisce; gli uomini retti traggono vantaggio anche dalle vicende ingiuste; alla fine anche quella lite per causa di Marco tornò a maggior vantaggio di tutti. Questi, che non aveva ancora smesso di sognare, per quell’allarme di Paolo fu salutarmente scosso dai castelli in aria della sua bella giovinezza; si vide d’un tratto posto dinanzi all’inesorabile aut-aut: o uomo o vigliacco; tenne conto della dolorosa ma salutare lezione dell’Apostolo ed « essa lo fece migliore », scrive il Crisostomo; il rimprovero: «Non è venuto con noi nell’opera » gli stava conficcato nello spirito come un pungolo; dimostrerà in seguito ch’esso non aveva più ragione d’essere. Dal canto suo Paolo mutò parere nei riguardi di Marco. Scrive di lui in tre passi del suo epistolario; nella breve lettera a Filemone lo nomina come « collaboratore » al primo posto, persino prima di Luca; ai Colossesi, ai quali l’invia con degli incarichi, raccomanda caldamente: « Per riguardo a Marco avete già ricevuto istruzioni; se viene a voi, accoglietelo amichevolmente » e poco prima della morte, quasi come ultimo desiderio, domanda instantemente a Timoteo… Marco! « Porta con te Marco! Posso ben aver bisogno dei suoi servizi ». E infine nemmeno Barnaba nutrì alcun rancore per Paolo, ce lo attesta un passo della prima lettera ai Corinti. – Non torna ad onore degli Apostoli né giova alla nostra utilità passare timidamente sotto silenzio il loro lato troppo umano. Che essi siano stati dei lottatori, costituisce la loro grandezza e la nostra consolazione; ma la provvidenza di Dio è così sapiente e benigna, da tendere nel telaio dei suoi piani di salvezza le nostre stesse imperfezioni, e così tramutò anche quella lite umana in benedizione divina: la separazione e il raffreddamento fra Paolo e Barnaba ebbero per conseguenza che l’evangelizzazione s’inoltrò nel mondo in due direzioni anziché in una soltanto. Marco e Paolo! Oggi, ripensando a loro, non possiamo trattenerci da un sorriso, ed essi stessi dovettero sorridere, quando, circa dieci anni dopo, si diedero la mano al di lì, a Roma. Tutti e due divennero più grandi per l’aiuto che l’uno porse all’altro: Paolo a motivo di Marco divenne più mite e Marco a motivo di Paolo divenne più uomo. Il popolo fedele onora Marco quale « signore dell’atmosfera » e patrono contro i fulmini e la grandine; in un’antica benedizione del tempo era ricordato espressamente il suo nome: ci prova tutta l’amabilità di Marco il fatto ch’egli, nonostante il torto patito, ritornò nuovamente a Paolo e si fece, dimentico di sé, suo collaboratore. Ma egli è così: un cielo azzurro, che neppure il fulmine e il tuono di Paolo poterono offuscare. Oh, avessimo noi molti Marco!
MARCO E PIETRO
Marco è come un’edera verdeggiante, che dei suoi viticci ricopre festosamente le due torri principali della Chiesa, Pietro e Paolo; anche Pietro infatti stette in rapporti speciali con lui. La Sacra Scrittura veramente parla in un unico luogo di questi rapporti, ma con una parola, che dice quanto molte pagine. Pietro, terminando la sua prima lettera alle comunità dell’Asia Minore, scrive: «Vi saluta la Chiesa con voi eletta di Babilonia e Marco, mio figlio »; questa sola espressione ci richiama i vincoli d’amicizia intimi e di lunga data fra i due. Ordinariamente essa viene interpretata della paternità spirituale di Pietro, conseguita con l’amministrazione del battesimo a Marco; ma questo solo fatto, cui probabilmente è da aggiungere pure una certa parentela naturale, non basta a spiegare gli intimi rapporti fra Pietro e Marco; fra di loro vigeva anche una parentela dell’anima; Marco anzi, sotto molti aspetti, ci fa l’impressione d’un Pietro giovane, rinato, perché come lui è vivace, vispo, amabile e come lui fu una volta debole; se nel suo Vangelo poté rendere così fedelmente la predicazione di Pietro, lo si deve sicuramente anche al fatto che l’indole di Pietro rispondeva così bene alla sua, propria. – È difficile determinare il momento preciso, dal quale Pietro e Marco presero a vivere insieme. Alcuni pensano già all’anno 42: la notte, in cui Rode, la fanciulla distratta, fece finalmente entrare Pietro, Marco, il figlio della casa, si sarebbe unito all’Apostolo e l’avrebbe accompagnato nella fuga « nell’altro luogo », ripetendo, per così dire, il suo nobile accompagnamento di Gesù nella notte del Monte degli Olivi; a questo riguardo, può sorprendere che Pietro nella sua lettera alle comunità del « Ponto, Galazia, Cappadocia, Asia e Bitinia » aggiunga l’unico saluto di Marco; lo conoscevano esse di persona? Qualora egli, nella circostanza della liberazione dell’Apostolo, l’avesse seguito anche sino a Roma, questo suo primo soggiorno romano sarebbe stato sicuramente breve, poiché i dati biblici esigono ch’egli si trovasse pronto in Antiochia al più tardi nell’anno 45, per il famoso e funesto viaggio con Paolo sino a Cipro e a Perge. Marco potrebbe essersi accompagnato a Pietro anche dopo finito il suo viaggio apostolico con Barnaba a Cipro e quindi verso il 51-52; una sua attività in Egitto, di cui scriveremo ancora, non vi si opporrebbe. Egli fu certamente a Roma con Pietro, quando questi, negli anni 63-64, scrisse la sua prima lettera, e questo è pure confermato dai testi riguardanti Marco dell’epistolario paolino. Pietro, il pescatore del lago di Tiberiade schietto, ma sempre un po’ goffo, fu certamente lieto d’avere presso di sé, qual « protonotario pontificio » nel senso etimologico della parola, suo « figlio Marco », che era un segretario abile, elegante e premuroso. E questi — è il patrono anche dei notai e degli scrivani — gareggiava in servizi, felice di poter esibire al semplice Pietro la prova della sua attitudine, che Paolo invece aveva respinta. I suoi rapporti cordiali con Pietro sono richiamati da una narrazione apocrifa, la quale riferisce del suo soggiorno, certo leggendario, ad Aquileia, ma poi per la nostalgia di Pietro non avrebbe più resistito e se ne sarebbe tornato a Roma, dov’era il suo amico, padre e Pontefice. L’antichità cristiana, a cominciare da Papia (+ 130), chiamò Marco l’« interprete — hermeneutés-interpres — di Pietro », titolo, che potrebbe indurci a ritenere che egli abbia tradotto in greco o in latino i discorsi tenuti dall’Apostolo agli uditori romani in lingua aramaica; questi però possedeva certamente la lingua greca, almeno quanto era necessario per farsi intendere dai suoi ascoltatori; è probabile quindi che quel titolo « interprete di Pietro » rimandi alla redazione scritta fatta da Marco della predicazione orale di Pietro; l’antico Papia stesso riferisce che Marco mise in iscritto i detti e i fatti di Gesù, predicati da Pietro. Ci troviamo così dinanzi al monumento più bello e più importante dell’amicizia fra i due: il Vangelo di Marco.
MARCO EVANGELISTA
Marco scrisse un Vangelo, il secondo nell’ordine attuale dei Vangeli canonici. Il primo e principale testimonio ne è il vecchio Papia, la cui testimonianza però è più antica di lui, perché s’appoggia alla dichiarazione del « presbitero Giovanni », dell’Apostolo cioè di questo nome. Ecco com’essa dice: « Anche questo diceva il presbitero (Giovanni): Marco, un interprete di Pietro, ha messo in iscritto esattamente tutto quello, di cui si ricordava. Però (scrisse) quello, che dal Signore è stato detto o fatto, non secondo l’ordine. Marco cioè non ha udito il Signore né Lo ha accompagnato; ma più tardi, come già detto, ha udito Pietro, che disponeva i suoi insegnamenti secondo i bisogni e non come uno, che dia un’esposizione scritta dei discorsi del Signore. Così Marco non ha affatto peccato, se scrisse alcunché così, come si ricordava. Poiché solo d’una cosa ebbe cura, di non omettere nulla di quello che aveva udito o di non dire in questo il non vero ». A. questa antichissima testimonianza se ne aggiungono altre molto importanti, come ad esempio quella di Clemente Alessandrino (+ 231): Marco a Roma fu pregato dai cavalieri imperiali di mettere per iscritto le istruzioni, che Pietro aveva loro impartite; quando questi ne venne a conoscenza, non ne impedì il suo interprete né lo incoraggiò; Eusebio però, rifacendosi a Clemente, riferisce che Pietro poi approvò espressamente il Vangelo completo e stabilì che se ne desse lettura nelle chiese. Gli scrittori ecclesiastici più antichi, più vicini ai tempi apostolici sono unanimi nel mostrare l’intima connessione del vangelo di Marco con la predicazione di Pietro, Tertulliano anzi lo chiama senz’altro « il Vangelo di Pietro ». Passando a considerare il Vangelo stesso, possiamo affermare che gli occhi vivaci e buoni di Pietro ci rivolgono il loro sguardo quasi da ogni riga. Il contenuto e l’indole del suo insegnamento li conosciamo abbastanza bene attraverso le sue otto prediche contenute negli Atti degli Apostoli e le sue due lettere; ora il Vangelo di Marco appare esserne l’eco fedele; confrontandolo, per esempio, col discorso che l’Apostolo disse in casa di Cornelio, abbiamo l’impressione d’avere dinanzi una descrizione e uno sviluppo di quanto a grandi linee Pietro aveva abbozzato in casa del primo pagano accolto nella Chiesa. Marco narra con forza e colore la preparazione al lieto messaggio mediante la predicazione del Battista, il battesimo e le tentazioni di Gesù, la vocazione dei primi discepoli (capitolo 1, 1-20); segue lo svolgimento dell’attività in Galilea: il giorno dei miracoli a Cafarnao, i primi cinque conflitti con i Farisei, il ministero sul lago e le peregrinazioni intorno ad esso — il Vangelo del pescatore! — (capitoli 1, 21-8, 26); la conclusione del ministero galilaico: la professione di Pietro e la rivelazione del mistero della croce (capitoli 8, 27-9, 50); infine il compimento: il viaggio a Gerusalemme, la Domenica delle Palme e la Pasqua (capitoli 10, 1-16, 20). – Ma desideriamo vedere in qual modo il Vangelo di Marco si regoli con lo stesso Pietro. Modo abbastanza singolare! Si fa spesso parola di lui, più diffusamente che dagli altri Evangelisti; ma quando si tratta della sua preminenza e dei suoi privilegi, Marco si fa muto; non poté certamente evitare di concedergli il primo posto nel catalogo degli Apostoli, ma il fratello suo Andrea, non lo collocò al secondo posto, come fanno Matteo e Luca, bensì al quarto. Marco sembra pure ignorare che il suo maestro una volta camminò miracolosamente sulle onde del lago, che con un miracolo gli fu pagata la tassa e con un altro gli fu riempita la barca di pesci sino a sprofondare, che gli fu promessa una speciale preghiera del Signore. Ancor più meraviglia che nel secondo Vangelo non s’incontrino neppure quelle parole essenziali, che costituiscono il fondamento della grandezza propria di Pietro: « Tu sei Pietro, la roccia, e su questa roccia Io edificherò la mia Chiesa. A te darò le chiavi del regno dei Cieli »; e invano vi cercheremmo anche quelle altre, notate da Giovanni: « Pasci le mie pecore! Pasci i miei agnelli! ». Al contrario, quando si tratta di qualche cosa di sgradito e che fa arrossire, come ad esempio della natura irriflessiva di Pietro, della sua replica audace, del suo sonno sul Monte degli Olivi e anzitutto della sua triplice negazione, che ancor oggi fa arrossire ogni suo amico, allora Marco racconta tutto esatto e circostanziato. Il caro discepolo deve aver avuta spesso la tentazione di sopprimere qualche scena troppo penosa per il padre e amico suo Pietro, ma questi nella sua umiltà non tollerò che lo facesse. Ci richiama a questa umiltà di Pietro, che emerge dal Vangelo di Marco, già il Crisostomo: « Marco, il discepolo di Pietro, non ha messo in iscritto questo importante episodio — il saldo dell’imposta con un miracolo —, perché con esso era congiunto un grande onore per Pietro; ha scritto invece il suo rinnegamento; quello che metteva in vista lo ha taciuto; forse il suo maestro gli aveva proibito di far sapere le cose mirabili riguardanti la sua persona ». Comunque, Pietro non decantò certamente le sue prerogative, che quindi non entrarono neppure nel vangelo di Marco; di qui una prova dal Vangelo stesso della sua genuinità. – Ma anche il suo stile e la sua lingua ci ricordano Pietro. Il vocabolario del secondo Vangelo ricorre lo stesso anche nelle lettere e nei discorsi del Principe degli Apostoli; la sola paroletta « euthys-subito », che in questo Vangelo non ricorre meno di 43 volte, tradisce Pietro, ch’era un sanguigno così pronto, che lo si potrebbe chiamare l’Apostolo « Subito ». Quanta vivacità e chiarezza poi nella narrazione di Marco e come è evidente che si compiace nella descrizione! Si leggano, ad esempio, le relazioni della guarigione della mano rattrappita, della guarigione del fanciullo ossesso e soprattutto il drammatico episodio dei duemila porci nella regione dei Geraseni: l’obiettivo Matteo riferisce tranquillo: « Gli spiriti cattivi Lo pregarono: “Se ci cacci, mandaci nel branco di porci”. Egli rispose loro: “Andatevene!”. Allora se n’andarono ed entrarono nei porci. Di conseguenza l’intero branco si precipitò giù per il declivio nel lago e annegò nelle onde ». Marco invece con più forza, occhi attenti e orecchi protesi descrive: « Lo spirito cattivo gridò ad alta voce: “Che ho da fare con Te, Gesù, Figlio di Dio, dell’Altissimo? Io Ti scongiuro per Iddio di non tormentarmi…”. Poi lo pregava insistentemente di non cacciarlo via dalla regione. Sul pendio del monte pascolava una gran mandria di porci. Allora lo pregarono: “Permettici di entrare nei porci”. Lo permise loro. La mandria allora di circa duemila capi si precipitò giù per il pendio nel lago e nel lago affogò ». – Matteo e Marco! Nei loro Vangeli si rispecchiano chiaramente anche gli autori; il Vangelo di Marco quindi, lascia a desiderare quanto ad adattamento, forbitezza e bell’ordine, che caratterizzano il Vangelo del pubblicano, amante del sistema e dello schema; il secondo Vangelo è impetuoso come lo stesso Pietro, non ingegnoso nella distribuzione del materiale, non delicato nell’espressione; non importa molto a Pietro scambiare un nominativo con un accusativo, di tralasciare una parola, di annettere direttamente una muova sezione; un insegnante di lingue s’indispettirebbe e farebbe scorrere molto inchiostro rosso; che consolazione per gli scolari! Già Papia osservava questa deficienza « nell’ordine », e intendeva precisamente la noncuranza letteraria del secondo Vangelo. Che interesse poteva avere per Pietro? Non era suo metodo badare accuratamente che la sua predica si presentasse in due parti con tre pensieri ciascuna, che fluisse con l’armonia del ritmo, che non le mancassero i geniali giochi di parole; la sua bocca sovrabbondava della pienezza del suo cuore, e Marco mise in iscritto le cose dette appunto come erompevano dal cuore del maestro, sciolte e fresche come una gorgogliante sorgente. – Gli studi sulla caratteristica del secondo Vangelo hanno sempre più imposto il silenzio a quelle teorie razionalistiche, secondo le quali bisognava distinguere fra il Vangelo dell’Urmarco e il Vangelo del Marco odierno; ché nel secondo Vangelo attuale è impresso troppo profondamente il sigillo di Marco-Pietro perché lo si possa negare, senza dire del fatto controllabile da ognuno dell’uso del Vangelo da parte già dei più antichi scrittori ecclesiastici. Oggi sono ancora discussi i versetti 9-20 dell’ultimo capitolo. Essi mancano nei due manoscritti greci più antichi e in qualche traduzione orientale molto antica; ricorrono anche, in questa sezione finale, delle espressioni sconosciute al resto del Vangelo; nondimeno non è possibile addurre una prova convincente che i versetti in questione non abbiano per autore Marco, poiché la stragrande maggioranza dei manoscritti — 160 contro 7 — ha la medesima finale del secondo Vangelo odierno; potrebbe darsi che, come Giovanni, anche Marco abbia terminato il suo Vangelo con l’attuale conclusione soltanto in un tempo posteriore; tutti del resto concedono ch’egli non poté terminare col versetto 16, 8. – Come attesta l’antichità cristiana, Marco scrisse il suo Vangelo per gli etnicocristiani, specialmente per quelli di Roma, « spinto dalle preghiere insistenti dei Cristiani di Roma, perché volesse lasciar loro un ricordo scritto delle istruzioni proposte da Pietro a viva voce ». Una tradizione orientale, conservataci da Diounisio bar Salibi, dice a questo riguardo: «Poiché i Romani sapevano che Pietro voleva andarsene per predicare in altri luoghi, lo pregarono di scrivere un Vangelo; egli però non assecondò il loro desiderio, perché non ne aveva il tempo, giacché, in qualità di capo dei predicatori, doveva predicare il suo Vangelo al popolo giudaico e ai pagani; temeva anche che i fedeli, per accogliere il suo, mettessero in disparte i tre (altri) Vangeli, perché egli era il capo e il primo; e infine, a causa del suo rinnegamento, egli si riteneva indegno di scrivere il Vangelo. Per questo pregò che scrivesse Marco, suo discepolo, e questi riferì tutto quello, che aveva ascoltato dalla sua bocca ». Quest’informazione erra certamente in quanto presenta il Vangelo di Marco come l’ultimo dei quattro Vangeli; non è né l’ultimo né il primo, ma, per la quasi unanime testimonianza della tradizione, è il secondo; l’epoca della sua redazione deve cadere fra gli anni 51-62, fu certamente scritto prima della morte di Pietro (+ 67), come assicurano Clemente Alessandrino e gli altri antichi scrittori ecclesiastici. – Un largo influsso nella struttura del secondo Vangelo l’ebbe anche l’accolta di lettori romani e di qui dipende la sua divergenza sotto molti aspetti da quello di Matteo. Marco, avendo per destinatari immediati del suo Vangelo degli etnicocristiani, omise molta parte di quello, che Matteo, scrivendo per i giudeocristiani, aveva messo in risalto della vita tanto ricca di Gesù per provare la sua messianità; la comunità cristiana di Roma non se ne intendeva e non aveva l’interesse dei Cristiani di Palestina quanto all’adempimento delle profezie del Vecchio Testamento, per le questioni della legge mosaica e per i conflitti di Gesù con i Farisei. Marco tralascia questi dettagli; non ha quindi il discorso sul monte, non il discorso « Guai a voi! »; in lui non incontriamo neppure la parola « Legge », che nel Vangelo di Matteo ha una parte così importante; quando deve ricordare istituzioni e usi giudaici, si dà premura di spiegarli ai lettori, che li ignorano. Gli interessa di far conoscere ai Romani non tanto le parole di Gesù quanto piuttosto le sue opere; il loro animo calmo e pratico è guadagnato al Signore più rapidamente dai fatti di Lui che non per mezzo di dottrine; ecco perché nel secondo Vangelo troviamo in prima linea i miracoli e perché nel riferirli Marco generalmente non fa abbreviazioni. In modo singolarmente perspicuo e attraente descrive i miracoli sugli ossessi, poiché la virtù divina del Signore si rivela quanto mai possente nella repressione del demonio e per i Romani, che sapevano della potenza diabolica, era tanto efficace. Attenendosi a questi criteri, Marco delineò nel suo Vangelo una figura di Cristo, che inonda di giubilo e di orgoglio ogni cuore cristiano: ci dipinse Cristo Re! Il primo versetto intona con accordo vigoroso il tema di tutto il Vangelo: « Il Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio»; e ai piedi della croce, confermando e ammirando, il centurione romano risponde come un’eco lontana e grida: « Veramente quest’Uomo era il Figlio di Dio ». Il Vangelo di Marco presenta questo titolo « Figlio di Dio » senza spiegarne la profondità, come invece fa Giovanni; però, anche se l’Evangelista non istruisce espressamente circa la preesistenza e l’uguaglianza sostanziale di Gesù col Padre, tutti i lineamenti della figura di Gesù da lui tracciata rimontano alla Causa prima e alla origine divina; poiché l’onnipotenza, che inerisce a Gesù, non è a casa sua che in Dio soltanto. Il Vangelo di Marco, essendo il più corto di tutti, è pure il meno usato fra tutti; e nondimeno esso ha anche per la nostra epoca e soprattutto per il mondo maschile la sua utilità particolare: la figura di Cristo, che s’è levata sopra il nostro secolo, grande, serena, sublime, è la figura del Vangelo di Marco, è Cristo, il Figlio di Dio, pieno di potere e di forza; Cristo, il Re troneggiante; Cristo il Signore del mondo. Vicini a un eroismo menzognero, i nostri occhi si sono aperti alla grandezza di Cristo; dinanzi a Lui e dinanzi a Lui soltanto pieghiamo con orgoglio il nostro ginocchio: « Veramente quest’Uomo è il Figlio di Dio! ».
MARCO MISSIONARIO
Pietro era morto, Paolo era morto, ma Gesù « rimane lo stesso ieri, e oggi, e in eterno »; anche dopo la morte dei due Principi, cui Marco aveva servito con fedeltà e cui forse aveva chiusi gli occhi affranti, l’opera del Re continuò per mezzo del discepolo. Numerose testimonianze attestano che annunziò il lieto messaggio in Egitto, ove anche fondò la chiesa di Alessandria, della quale fu il primo presule. Questa tradizione è attendibile, anche se i due luminari della chiesa alessandrina, Clemente e Origene, serbano a questo riguardo assoluto e curioso silenzio. Alessandria e Antiochia! Antiochia, la città di Paolo e Alessandria, la città di Marco! Si direbbe che la tensione fra Paolo e Marco si fosse comunicata anche alle loro città. Ambedue, infatti, le città furono centri della cultura cristiana e anzitutto della scienza biblica, in contrasto però fra loro; la scuola alessandrina indagò il senso allegorico delle Sacre Scritture, la scuola antiochena invece quello storico. Per un ministero di Marco in Egitto abbiamo a nostra disposizione alcuni anni fra il 52 e il 62 e poi nuovamente gli anni, che seguirono al rimpatrio deI Principi degli Apostoli. Se interroghiamo le più antiche informazioni riguardo all’epoca, in cui andò in Egitto, e la durata del suo ministero ivi esercitato, otteniamo risposte diverse. È abbastanza frequente la notizia di Marco inviato da Roma in Egitto, dove avrebbe portato il suo Vangelo già scritto; Giovanni Crisostomo invece, secondo il quale Marco avrebbe scritto il Vangelo soltanto in Egitto, è solo ad affermarlo. L’antica tradizione, secondo la quale Marco lasciò l’Egitto l’ottavo anno di governo dell’imperatore Nerone — l’anno 62 —, stabilendovi come capo della chiesa di Alessandria Aniano, prima calzolaio, è conciliabile con i dati biblici, i quali esigono ch’egli si trovasse a Roma al più tardi l’anno 62. Possiamo dunque affermare come molto probabile che Marco si sia portato ad Alessandria verso l’anno 54 e abbia esercitato il ministero ecclesiastico come presule della città sino all’anno 62. Se dovessimo prestare orecchio alle chiacchiere, che intorno all’opera di Marco in Egitto si leggono negli « Atti di Marco », scritti verso la metà del quarto secolo, a lui sarebbe stato assegnato l’Egitto fin dal momento della separazione degli Apostoli, per primo avrebbe predicato il Vangelo in tutta la regione e poi in Libia, nella Marmarica, nell’Ammoniaca, l’oasi di Giove Ammon, e nella Pentapoli, la terra della sua infanzia; indi ricevette in ispirito l’ordine di mettersi in cammino verso Alessandria per presentarsi al Faraone; all’entrata in città, le scarpe gli si rompono; si rivolge a un calzolaio; riparandole, questi si ferisce seriamente; Marco lo guarisce con un miracolo, lo istruisce intorno al Figlio di Dio Gesù Cristo; a questo punto il calzolaio lamenta, rimpiangendo, che i ragazzi egiziani vengono istruiti soltanto nell’Iliade e nell’Odissea; Marco amministra ad Aniano e alla sua famiglia il battesimo e lo consacra vescovo della chiesa di Alessandria, prima ch’egli debba sottrarsi con la fuga alle insidie degli idolatri sdegnati. Secondo la leggenda scappa poi nella Pentapoli, ma i documenti storici, quali la lettera di Pietro, quella ai Colossesi e quella a Filemone, esigono ch’egli in questo tempo sia a Roma; di qui fu inviato da Pietro o da Paolo in Asia Minore per una missione; nell’anno 66/67 Paolo prega e ottiene che dall’Asia Minore, ritorni di nuovo a Roma, donde, dopo la morte dei Principi degli Apostoli, parte nuovamente per Alessandria, dove lavora nella propria vigna; le antiche informazioni, infatti, sono unanimi nell’attestare un’attività di Marco ad Alessandria in due tempi. Che apostolato movimentato il suo! Cipro! Roma! Egitto! Roma! Asia Minore! Roma! Alessandria!. Com’è divenuto ricco e attivo! Un giorno, quando con Paolo doveva attraversare il Tauro, gli era venuto meno l’animo; e adesso gareggia quasi col suo rigido maestro nel travaglio della peregrinazione apostolica. Marco dà ragione a tutti coloro, che non si sgomentano per il fallimento dei giovani. – Egli morì probabilmente nell’anno 14° dell’impero di Nerone e, secondo una relazione, di morte naturale, secondo un’altra come martire. Gli « Atti di Marco » descrivono il suo rimpatrio così: mentre, nella festa di Pasqua, che in quell’anno cadeva il giorno 24 aprile, stava celebrando le funzioni solenni, fu preso dai pagani, che in quel giorno stesso celebravano la loro festa in onore di Serapide, fu legato con funi al collo e in questo modo straziante fu trascinato per le vie di Alessandria; poi il corpo lacerato fu gettato in carcere, dove nella notte un Angelo confortò il Martire: « Marco, ministro di Dio, il tuo nome è scritto nel libro della vita eterna e la tua memoria non si cancellerà in perpetuo; gli Angeli custodiranno la tua anima e il tuo corpo non imputridirà nella terra »; il giorno appresso il crudele tormento fu ripetuto; Marco vi soccombette e il suo corpo fu bruciato. La Chiesa romana il 25 aprile, giorno della sua morte, ne accompagna la festa con una processione rogazionale attraverso le verdeggianti campagne e fra gli alberi in fiore: non fu anche Marco come un albero fiorente, bello ma in pericolo nel fiore della sua giovinezza? Volesse il Cielo che tutti gli alberi di maggio portassero a maturazione i frutti copiosi e pregiati di Marco! La leggenda delle sue reliquie, che dovrebbe essere sorta veramente soltanto nel secolo nono, fa l’impressione d’essere bizzarra: dopo la conquista dell’Egitto da parte dei Saraceni, l’imperatore Leone l’Armeno (813-820) proibì ogni traffico con Alessandria; ma, nonostante l’ingiunzione di questo divieto fatta dal doge Giustiniano (827-830), i due distinti veneziani Bono e Rustico si portarono ad Alessandria, dove trovarono i Cristiani in grande preoccupazione; essi allora decisero di rubare i resti mortali dell’Evangelista per sottrarli a un eventuale colpo di mano degli increduli e portarli al sicuro in terra cristiana; per dissimulare il pio inganno, indossarono le reliquie di Santa Claudia, vergine, del mantello di seta di Marco e su d’un’imbarcazione riuscirono a portare felicemente il bramato tesoro delle reliquie a Venezia. Vogliamo lasciare ai Veneziani San Marco! Anche presso di loro egli trova tutto bello, come nel tempo della sua giovinezza: la maestosa basilica che gli eressero (976-1071), la piazza meravigliosa che seppero crearle dinanzi, come una sorella della piazza di San Pietro a Roma — Pietro e Marco! —, le vie azzurre che s’intrecciano attraverso la città, le imbarcazioni dagli svolazzanti nastri variopinti, i mandolini che tanto soavemente s’insinuano nell’orecchio e nel cuore; questo paradiso sta davvero bene per Marco! Libero l’animo da ogni pensiero e desiderio, l’occhio dalla gondola dondolante si ricrea nella bellezza di Venezia, che sale dal mare come una prima visione dell’Oriente. Ma resta ancora il leone! Che ha da che fare il leone con Marco? È il simbolo di lui come evangelista, perché nel primo capitolo del suo Vangelo scrive del « deserto », dove il leone ha la sua patria. Marco e il leone! In un dipinto del Pinturicchio il leone guarda, come fosse un uomo, tristemente, perché può solamente ruggire, non può essere anche così amabile com’è Marco. E ancor più mirabile è quest’altra cosa, che il « kolobodaktylos », il Marco dalle dita piccole e delicate, abbia nella sua persona e nella sua opera qualche cosa della forza del leone. – E in questo forse sta il mistero e la grandezza di Marco, ch’egli cioè, ch’era stato tanto circondato da cure, sia divenuto per Cristo e in Cristo un leon