Siamo in un tempo in cui tutti si sentono teologi, esegeti, canonisti, ma in modo tutto particolare, cioè senza averne titolo alcuno, in violazione del decreto Officiorum ac munerum di Leone XIII che fulmina con una pesante scomunica latæ sententiæ specialmente riservata, chiunque discuta in pubblicazioni varie di temi religiosi, biblici, o renda pubbliche rivelazioni private non approvate, senza permesso dell’Ordinario, cioè senza nihil obstat ed imprimatur. E questo per ovviare a ciò che San Paolo già diceva a Timoteo: “… lo Spirito dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, [I Tim. IV, 1] … Se qualcuno insegna diversamente e non segue le sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e la dottrina secondo la pietà, costui è accecato dall’orgoglio, non comprende nulla ed è preso dalla febbre di cavilli e di questioni oziose. [I Tim. VI, 3-4], …Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole [II Tim. IV, 3-4].” Ultimamente si stanno diffondendo delle “favole” nei riguardo del peccato originale, favole scaturite da presunte rivelazioni, sogni annebbiati, di un sacerdote apostata della setta modernista del “novus ordo”. Queste fantasie si sono caricate poi ancor più delle allucinazioni e dei deliri che alcuni allegri “esegeti” fai da te, che per il prurito di dir qualcosa di nuovo, e per una mal celata smania di protagonismo, sono disposti a dar credito ad innovazioni che la Chiesa non ha mai fatto proprie, possedendo Essa una chiarezza dottrinale robusta e ben strutturata. A tal fine portiamo alla conoscenza dei Cattolici veri, da non confondere con i pseudo-tradizionalisti eretici o scismatici (i lefebvriani, i sedevacantisti diversamente deliranti, esagitati ed isterici), o i modernisti del novus ordo, la posizione più corretta propria della Chiesa Cattolica, mediante un capitolo tratto dal libro di E. Galbiati e A. Piazza: “Pagine difficili della Bibbia”, pubblicato a Milano nel 1954, con nihil obstat ed imprimatur, rispettando quindi tutti i canoni delle pubblicazioni cattoliche.
[E. Galbiati-A. Piazza:
“Pagine difficili della Bibbia” –
[Bevilacqua & Solari Genova – Ed. MASSIMO, Milano, 1954 – impr. ]
Cap. IV.
IL PECCATO ORIGINALE
Analogamente a quanto abbiamo fatto per le narrazioni bibliche della creazione distinguiamo anche nel capo III della Genesi:
– una dottrina sull’origine dell’attuale situazione penosa dell’umanità;
– un fatto storico incluso nella dottrina stessa;
– un racconto che plasticamente presenta il fatto e concretamente traduce la dottrina. Sarà un compito quanto mai delicato, in questo terzo punto, tracciare la linea di demarcazione tra il contenuto storico-dottrinale e l’eventuale involucro letterario.
— LA NARRAZIONE BIBLICA (Genesi III)
— Prima di passare ad un esame più dettagliato del pensiero biblico in materia, è indispensabile rileggere nel suo tenore più primitivo il testo di Genesi III.
« 1. E il serpente era il più astuto di tutti gli animali della campagna, che aveva fatto Jahvè Dio. E disse alla donna: « Ha proprio detto Dio: non mangiate di nessun albero dell’orto? ».
2. E disse la donna al serpente: « Del frutto degli alberi dell’orto noi
3. possiamo mangiare; ma del frutto dell’albero che è in mezzo all’orto disse Dio: non mangiatene e non toccatelo, per non doverne morire ».
4. E disse il serpente alla donna: « No, che non dovrete morire! ma sa
5. bene Dio che quando ne mangiaste, si aprirebbero allora i vostri occhi, e diventereste come Dio, conoscitori del bene e del male ».
6. Allora la donna considerò che l’albero era buono come cibo e che era bello agli occhi e appetibile era quell’albero per avere conoscenza; così prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al suo marito insieme con lei, ed egli mangiò.
7. Allora si aprirono gli occhi di ambedue e si accorsero di essere nudi; e intrecciarono il fogliame di un fico e se ne fecero delle cinture.
8. Poi sentirono il rumore di Jahvè Dio che passava per l’orto alla brezza del giorno, e si nascosero l’uomo e la sua donna dalla faccia di Jahvè Dio in mezzo all’orto.
9. Allora Jahvè Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei? ».
10. E disse (quello): « Ho sentito il tuo rumore nell’orto, ed ho avuto paura, perché sono nudo, così mi sono nascosto ».
11. E disse (Dio): « Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Dell’albero di cui ti ho comandato di non mangiare hai dunque mangiato? ».
12. E disse l’uomo: « La donna che tu hai messo con me, lei mi ha dato dell’albero, ed io ho mangiato ».
13. E disse Jahvè Dio alla donna: «Che è ciò che hai fatto?». E disse la donna : « Il serpente mi ha ingannato, e così ho mangiato ».
14. Allora Jahvè Dio disse al serpente: « Perché hai fatto questo tu sii maledetto tra ogni animale e tra ogni bestia della campagna: sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai tutti i giorni della tua vita.
15. E inimicizia metterò tra te e la donna e fra il seme tuo e il seme di lei: esso ti schiaccerà al capo e tu lo stringerai al calcagno ».
16. Alla donna disse: « Farò assai grave il tuo travaglio e la tua gravidanza: con doglia partorirai figli, e verso il tuo marito sarà la tua passione ma egli ti dominerà ».
17. E all’uomo disse: « Poiché hai ascoltato la voce della tua donna e hai mangiato dell’albero su cui t’avevo comandato dicendo: non ne mangiare, maledetto il terreno per causa tua, con travaglio ne mangerai tutti i giorni della tua vita;
18. e triboli e spine ti produrrà; e mangerai l’erba della campagna,
19. e col sudore del tuo volto mangerai pane; finché tornerai al terreno — perché da esso sei stato tratto, perché tu sei polvere — e alla polvere tornerai ».
20. Poi l’uomo chiamò il nome della sua donna Havvà (vita) perché essa fu la madre di tutti i viventi.
21. E Jahvè Dio fece all’uomo e alla sua donna delle tuniche di pelle, e li vestì.
22. Poi disse Jahvè Dio: « Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto al conoscere il bene e il male; ed ora ch’egli non stenda la sua mano e prenda anche dell’albero della vita e ne mangi e viva in eterno!… ».
23. E Jahvè Dio lo mandò via dall’orto di Eden per lavorare il terreno da cui era stato tratto.
.24. E scacciò l’uomo, e collocò ad oriente dell’orto di Eden i Cherubini e la fiamma della spada guizzante per custodire la via all’albero della vita. »
È in questa forma semplice e popolare, che l’insegnamento divino s’incise nella mente di un popolo amante della concretezza, e che, attraverso i secoli, arrivò fino a noi, a presentarci la chiave del mistero del nostro destino. Abbiamo detto forma popolare, ma non vorremmo per questo fosse sottovalutata, oltre la profondità e originalità del pensiero, la bellezza artistica e letteraria, con la quale, nella semplicità delle pagine veramente grandi, è resa impareggiabilmente soprattutto la psicologia della tentazione e della prima colpa. Passiamo ora a considerare il contenuto teologico del racconto, affinché sia tosto messo in evidenza il complesso di quegli elementi assolutamente sottratti a discussione, perché parte integrante del deposito della fede, e suggeriti dall’intenzione storico-dottrinale dell’autore sacro. Notiamo tuttavia che per cogliere con esattezza l’intenzione dell’autore sacro e raggiungere così adeguatamente il senso del racconto biblico, non solo è legittimo, ma doveroso profittare della luce che su queste pagine antichissime proietta lo sviluppo della Rivelazione successiva. Infatti i diversi libri biblici anche i più distanziati nel tempo, come la Tradizione e il magistero vivo della Chiesa rispecchiano il pensiero dell’unico Dio rivelatore.
B . — DOTTRINA TEOLOGICA E CONTENUTO STORICO DI GENESI III
34 — Il racconto della caduta originale appare come una apologia di Dio, e in questo senso è il seguito naturale della narrazione della creazione. Dio ha creato ogni cosa bella e buona. Il dolore che ci rattrista, la morte che ci spaventa, non entrarono nel suo disegno primitivo, ma furono conseguenza di una infedeltà dei primi uomini: infedeltà liberamente voluta e tanto grave da esigere l’applicazione di un castigo sanzionato in antecedenza. Questa soluzione al problema del male suscita ulteriori problemi, che approfondiremo basandoci su di un esame più minuzioso del testo biblico e sugli apporti della Rivelazione del Nuovo Testamento. [Per uno studio più approfondito della teologia dell’elevazione dell’uomo allo stato soprannaturale e del peccato originale cfr. oltre ai noti manuali: A. VERRIELE. Il soprannaturale in noi e il peccato originale, Milano 1936; M. J. SCHEEBEN, I Misteri del Cristianesimo, Brescia 1949, capitolo III-IV.]
1. — Lo stato dei progenitori
a) L’immortalità corporale. L’uomo, in forza della sua costituzione naturale è mortale : « tornerai al terreno, perché da esso sei stato tratto; perché tu sei polvere e alla polvere tornerai » (v. 19). Poiché l’applicazione del castigo è presentata precisamente come un lasciare libero corso alle forze naturali, tendenti a disintegrare ogni organismo vivente, l’immortalità corporale dei progenitori risulta evidentemente un privilegio, un dono preternaturale, chiaramente indicato nell’albero della vita. – I progenitori erano sottratti all’impero della morte, non nel senso che già possedessero l’immortalità per costituzione naturale, com’è proprio dei puri spiriti, ma nel senso che avevano la possibilità di non morire. – E quale sarebbe stata la sorte finale loro e dei discendenti, in caso che la fedeltà a Dio li avesse preservati dal tremendo castigo? Possiamo pensare, per analogia con la dottrina della risurrezione (1 Corinti XV, 35-58), che, dopo un certo numero di anni, il corpo di ogni singolo uomo sarebbe stato sottratto alle leggi biologiche mediante un’intima trasformazione, e trasferito in un mondo migliore. Dopo la colpa è preclusa all’uomo la via all’albero della vita e ciò coerentemente significa che l’uomo non ha più la possibilità di vivere sempre e, ad inculcare più efficacemente il carattere di assoluta irrevocabilità della sentenza divina, è segnalata la presenza dei « Cherubini e della fiamma della spada guizzante » (v. 24) incaricati di vegliare contro qualsiasi tentativo di rivalsa da parte dell’uomo. – I Cherubini nell’Antico Testamento (qualunque sia il rapporto etimologico e raffigurativo coi Kàribu mesopotamici) sono esseri sovrumani (Angeli) ministri di Jahvè (cfr. III Re VI,23-27; Ezechiele 1,5-14 e soprattutto 28,14, che richiama chiaramente il nostro testo) e la fiamma della spada guizzante ha certo un significato, almeno generico, di minaccia o di punizione (cfr. Isaia XXXIV,5; Geremia XLVI,10; Ezechiele XXI, 13). È facile riscontrare come il privilegio dell’immortalità e il castigo della morte abbiano nel racconto sacro un risalto eccezionale rispetto al resto: se ne parla, direttamente o indirettamente, sette volte nel corso di due capitoli: II,9.17; III,3.4.19.22.24. È la spiegazione della tristissima e ineluttabile sorte che attende ormai ogni uomo, sintesi e confluenza di tutte le pene: la disintegrazione del proprio essere con la morte, che dissolve il corpo e, solo così, come precisa la Rivelazione successiva, dischiude allo spirito la porta della vita eterna.
b) L’integrità. Naturalmente il genere umano si sarebbe propagato per generazione (L’opinione contraria di alcuni padri orientali (S. ATANASIO, PG. 27, 240; S. GREG. NISSENO, PG44, 185-189; S. Giov. DAMASCENO, PG 94, 976; MOSE’ BAR KEPHA, PG 111, 515) che escludono l’attività generativa dell’umanità, se non fosse intervenuto il peccato originale, non fu mai generale nella Chiesa ed è pressoché sconosciuta presso i Latini). Tuttavia, in questo àmbito appare il secondo privilegio: la sottomissione alle leggi biologiche è tale da non creare un conflitto con l’attività spirituale, perché il meccanismo degli istinti non si scatena, non entra in azione, né prima, né eventualmente contro la decisione della volontà illuminata dalla ragione. L’antico autore biblico aveva intuito questo dissidio, almeno nella sfera sessuale, e a modo suo insiste nell’escluderlo dallo stato primitivo. I progenitori non sono affatto imbarazzati dalla nudità (II,25), ma soltanto dopo il peccato si accorgono di essa come di qualche cosa di nuovo e di pericoloso, e due volte si parla della necessità di coprirsi (III,7; III,21). – Inoltre, sono messi in rilievo, tra le conseguenze del peccato, non solo i pericoli della gravidanza e i dolori del parto, ma anche la passione della donna ad abbandonarsi all’uomo e l’istinto di conquista dell’uomo sulla donna (III,16), il che crea una visione pessimistica dell’amore, in contrasto con la presentazione idilliaca del matrimonio come istituzione divina prima del peccato (II,23-24). – Questo privilegio viene comunemente denominato « integrità » e « immunità della concupiscenza » per indicare positivamente e negativamente lo stato di perfetto equilibrio interiore, per cui l’uomo sentiva nel suo intimo solo la spinta verso il bene ed era sottratto allo spasimo lancinante di quel perenne urto interiore tra bene e male, vita e morte, messo a fuoco con arte inarrivabile da S. Paolo al capo VII dell’epistola ai Romani.
c) L’immunità dal dolore. I protoparenti vengono collocati in un giardino-paradiso, quasi teatro e coefficiente di una felicità, che, nell’incontro e utilizzazione delle cose da parte dell’uomo, bandiva ogni sforzo ed ogni pena. L’uomo per natura sua è un lavoratore (cfr. II,15), cioè un creatore di nuovi rapporti tra le cose, capace d’indurre perciò e inserire nell’universo un nuovo ordine, che potenzia all’indefinito le incommensurabili attitudini insite nelle creature. Ora, solo dopo il peccato, il lavoro per la vita viene esplicitamente presentato come fatica: « col sudore del tuo volto mangerai il pane » (III,17-19). – Così pure solo dopo il peccato vengono assegnate ad Eva, come castigo, le pene inerenti alla convivenza coniugale e alla maternità:
« Farò assai grave il travaglio e la tua gravidanza:
con doglia partorirai figli,
e verso il tuo marito sarà la tua passione
ma egli ti dominerà» (III,16).
I teologi denominano lo stato di felicità dei progenitori prima della colpa: immunità dal dolore, estendendola a tutte le manifestazioni della vita umana. Notiamo come questo privilegio sia in parte frutto e complemento dei precedenti, in quanto l’immortalità è per l’uomo la liberazione dalla prova esteriore più dura e l’immunità dalla concupiscenza la preservazione dalla lotta interiore, spesso più penosa della stessa morte.
d) La scienza. I progenitori risultano dal testo sacro in possesso di un patrimonio di nozioni riguardanti la loro posizione rispetto a Dio, l’umanità futura e, in generale, ciò che era necessario al retto governo della loro vita, sia materiale che morale. Si tratta, come si vede, di un corredo di concetti in gran parte caratteristici dell’età matura o addirittura di misteri. Dal testo non risulta che i protoparenti abbiano compiuto il penoso e lungo tirocinio dello studio e della riflessione, sicché si può concludere che Dio stesso abbia infuso anche nozioni di ordine naturale oltre alla rivelazione di quelle verità superiori alla ragione (entità della prova castigo, ecc.), indispensabili ad una partecipazione cosciente allo stato soprannaturale, cui l’uomo era elevato. Questo privilegio si denomina comunemente: « dono della scienza » .
e) L’elevazione allo stato soprannaturale. Si comprende come in uno stadio così primitivo della Rivelazione l’autore si limiti a mettere in evidenza ciò che vi è di più concreto e sperimentabile nello stato dei progenitori e nelle conseguenze del peccato; solo oscuratamente lascia intendere (È sintomatico in questo senso p. es. il risalto in cui è posta la fuga dal cospetto di Dio, dopo la colpa (III, 8-11). Evidentemente si suppone prima del peccato una familiarità con Dio, di per sé non dovuta alla natura umana) che vi era, oltre quei privilegi, una particolare relazione di amicizia tra Dio e l’uomo, la quale è invece l’elemento principale per la teologia cattolica, anzi per il dogma stesso. Questo dogma, secondo cui i progenitori erano costituiti in stato di giustizia e santità, si deduce dal Nuovo Testamento (specialmente Colossesi III,9-10; Romani V,10-19) ed è la chiave di volta per intendere l’essenza del peccato originale e la perdita degli altri privilegi. Questi si comprendono bene come una base di perfezionamento dello stato naturale reso in tal modo più adeguato al destino sovrumano, alla dignità soprannaturale di figlio di Dio, conferita all’uomo. Avendo il peccato distrutto questa amicizia con Dio, si capisce come sia crollato tutto ciò che ne era come un abbellimento complementare: l’esenzione dalla morte e dalla tirannia degli istinti. Per questo, nella visione simbolica dell’umanità rinnovata (Apocalisse 22,2), ricompare « l’albero della vita », in relazione con la santità riconquistata: « Beati quelli che lavano le loro vesti nel sangue dell’Agnello, essi avranno potere sull’albero della vita » (ibid. 22,14).
[1- Continua …]