GIORNO DEI MORTI
[J. J. Gaume: “Il Catechismo di perseveranza”, VI ed., Vol. 4; Torino 1881]
Giorno dei morti, – Sue armonie, sua origine, suoi fondamenti nella tradizione. — Sua istituzione. — Tenerezza della Chiesa. — Lamenti de’ defunti. — Esequie cristiane.
I. Festa dei morti. — Nel giorno degli Ognissanti la Chiesa è tutta intenta a scuotere le fibre del nostro cuore; e ben si scorge che mira a compiere un importante disegno e ad ottenere un grande effetto, vale a dire il disgusto della terra, la brama del cielo, la compassione reciproca, la carità universale fra i suoi figli. Se nel mattino di quella giornata memorabile la magnificenza delle sue cerimonie, l’allegrezza dei suoi inni presentano l’espressione di una gioia senza amarezza, la sera, ai suoi cantici si mescolano lunghi sospiri ed un palese colore di mestizia. Ed infatti ecco la scena, già in parte cambiata, prendere tutt’altro aspetto. Ai canti della gioia, ai sospiri dell’esilio succedono lugubri suoni; neri ornamenti, simboli di duolo surrogano i piviali arabescati d’oro; ecco che noi più non vediamo nel santo tempio fuorché un monumento funebre dipinto con immagini di scheletri, di teschi, di ossa. Che cosa significa tal mutazione? È una nuova festa, la Festa dei morti. Madre affettuosa, la Chiesa vuole che oggi sia una festa di famiglia; ella si presenta ai nostri occhi nelle sue tre differenti situazioni: trionfante nel cielo; esiliata sopra la terra; gemente in mezzo alle fiamme espiatrici. E i cantici del cielo, e i sospiri della terra, e i gemiti del purgatorio, in questo giorno si alternano, si mischiano, si rispondono a coro, ci fanno sovvenire che misteriosi vincoli legano in un sol corpo i figli di Cristo: che le tre Chiese come tre sorelle, si danno la destra, s’incoraggiano, si consolano, si confortano fino al giorno in cui, abbracciate fra loro nel cielo, formeranno una sol Chiesa eternamente trionfante. – Quale splendida armonia! Ma eccone un’altra che è impossibile di non osservare. Oh! quanto è bene scelto quel giorno per celebrare la Festa dei morti! Quegli uccelli che emigrano, quei giorni che si raccorciano, quelle foglie che cadono ai nostri piedi per lieve trastullo dei venti, quel cielo oramai cupo, quelle nuvole grigiastre foriere delle brezze, tutto questo spettacolo di decadenza e di morte non è egli straordinariamente acconcio a riempiere l’anima nostra dei gravi pensieri cui la Chiesa vuole inspirarci? Né ciò è tutto. Al paro di tutte le altre, e fors’anche più di tutte le altre, la Festa dei morti ristringe i vincoli di famiglia. Si vedeva in passato e si vedono tuttora per le campagne, fratelli, sorelle, parenti, vicini radunarsi nel cimitero, pregare, piangere sulle sepolture degli avi, e far elemosine per implorare riposo ai loro cari defunti. [Nel giorno d’Ognissanti si leggerà con infinito diletto il cap. XLVIII del lib. III dell’imitazione di Cristo; ovvero il cap. XXXV de’ Soliloqui di sant’Agostino, De desiderio et siti animas ad Deum.] – E se nel corso dell’anno è sorta fra taluno qualche ombra di discordia, in questo giorno ella si dilegua più agevolmente, poiché davvero siamo inclinati ad amarci quando preghiamo e piangiamo insieme. Anche testé in alcuni paesi un uomo, detto della veglia, percorreva nella notte le strade della città, e fermandosi ogni venti passi, e facendo suonare la sua squilla, gridava: Svegliatevi, voi che dormite, pregate per i defunti. Perché sono state dismesse queste commoventi usanze? Dacché noi abbiamo obliato i nostri morti, siamo divenuti indifferenti verso i vivi; l’egoismo ha inaridito il cuor nostro, quell’egoismo che avvilisce l’uomo, annienta la famiglia e sconvolge la società.
Origine di questa festa. — Ma è tempo di parlare dell’istituzione della Festa de’ morti. Fino dalia sua origine la Chiesa ha pregato per tutti i suoi figli quando morivano. Le sue preghiere erano supplicazioni per quelli che ne avevano bisogno e rendimento di grazie per i martiri. Si rinnovava il sacrificio e le supplicazioni nel giorno della loro morte. Tertulliano lo accenna chiaramente : « Noi celebriamo , ei dice, l’anniversario della natività de’martiri ». E più innanzi: « Secondo la tradizione degli antichi, noi offriamo il sacrificio per i defunti nell’anniversario della loro morte ». Gli altri Padri ci offrono le medesime testimonianze La Chiesa inoltre, sempre buona e sempre affettuosa per i suoi figli, aveva fin dal principio due maniere di pregare e di offrire il sacrifizio per i morti. L’una per ciascuno di essi e per qualcuno in particolare, l’altra per tutti i morti in generale, affinché la sua carità abbracciasse quelli che non avevano né congiunti né amici che potessero adempiere a quel dovere di pietà a loro riguardo ». [Tertull., Exhort. ad Cast. — Aug., Conf., lib, IX, c. ultim.] Essa praticava così anche prima di sant’Agostino. « È antichissimo, dice questo Padre, e universalmente praticato in tutta la Chiesa l’uso di pregare per tutti quelli che sono morti nella comunione del corpo e del sangue di Gesù Cristo » [De cura prò mort., cap. 4]. – Non vediamo per altro che vi sia stata una festa particolare per raccomandare a Dio tutti i defunti; vediamo bensì i fondamenti sui quali può essere stata instituita; perché se fino dalla sua origine la Chiesa, secondo la testimonianza dei Padri, ha pregato e sacrificato per i morti in particolare e per tutti in generale, se in tutte le liturgie e in tutte le Messe dell’anno è stato pregato per tutti i morti in comune, non è forse evidente che su questi fondamenti si poté instituire una festa speciale, per adempiere con maggior cura ed applicazione questo dovere verso i defunti? – Così avvenne infatti, e sarà vanto esimio e gloria eterna della Franca-Contea, conosciuta allora col nome di Borgogna, l’aver dato nascimento a questa pia istituzione. – Uscito da una delle famiglie più nobili della Borgogna , il beato Bernone, abate di Beaume-les-Messieurs, vicino a Lons-le-Saulnier, aveva fondato la Badia di Cluni. Questa illustre Congregazione, che aveva ereditato la pietà del fondatore verso i defunti, fu sollecita di adottare la commemorazione generale dei trapassati, che rese stabile e perpetua con decreto dell’anno 998. Ecco le parole del Capitolo generale di Cluni: « E stato ordinato dal nostro beato padre, Oddone, di consenso e ad istanza di tutti i monaci di Cluni, che siccome in tutte le chiese si celebra la festa degli Ognissanti nel primo giorno di novembre, così presso noi sarà celebrata solennemente in questa maniera la commemorazione di tutti i fedeli defunti. Il giorno della festa di tutti i santi, dopo il capitolo, il decano e i cellerari faranno una elemosina di pane e di vino a tutti quelli che si presenteranno: dopo il vespro saranno suonate tutte le campane, e sarà cantato il Notturno dei morti. La Messa sarà solenne, e saranno cibati dodici poveri. Noi vogliamo che questo decreto sia osservato a perpetuità, tanto in questo luogo come in tutti quelli che ne dipendono; e chiunque osserverà come noi questa istituzione parteciperà alle nostre buone intenzioni ». [“Venerabilis pater Odilo per omnia monasteria sua constituit generale decretum, ut sicut primo die mensis novembris, iuxta universalis Ecclesiæ regulam, omnium Sanctorum solemnitas agitur; ita sequenti die in psalmis et eleemosynis et præcipue Missarum solemniis, omnium in Christo quiescentium memoria celebretur.” S. Petr. Dam, in Vita B. Odil. — Baron., an. 1048, n. 6; et in Not. ad Martyrol., 2 novemb. — Helyot, etc.]. Tale è il decreto di Cluni. La devota pratica s’introdusse ben presto in altre chiese, e quella di Besanzone fu la prima ad adottarla. Era, possiamo dire in certa maniera, una sua sostanza, un suo patrimonio, che le tornava, consacrato dal suffragio dei santi amici di Dio. Indi a non molto la commemorazione generale de’ morti, fatta nel giorno successivo agli Ognissanti, era comune a tutta la Chiesa cattolica. – Terminiamo quello che ci rimane a dire intorno all’origine di questa festa con un’osservazione capacissima a far risplendere l’immensa carità della Chiesa nostra madre. La Commemorazione generale dei defunti non è che un supplemento a tutte le altre feste, uffizi e sacrifici dell’anno; ed essa ha questo di comune non solo con la festa di tutti i Santi, ma anche con quella della Trinità e del santo Sacramento. Infatti in tutte le feste, in tutti gli uffizi o sacrifizi dell’anno si presta un culto supremo alla Trinità per mezzo dell’adorabile sacrificio dell’Eucaristia, in cui Gesù Cristo è immolante ed immolato con tutti i suoi santi che vi sono nominati, almeno in generale. Quindi anche le feste particolari della Trinità, del santo Sacramento e degli Ognissanti non sono state instituite che come supplemento della festa generale per risvegliare l’attenzione e il fervore con cui dobbiamo celebrarla in tutto l’anno. Ciò pure avviene rispetto alla Commemorazione generale dei morti. La Chiesa l’ha instituita per supplire alle preghiere e ai sacrifici che si fanno per essi ogni giorno, e per avvertirci che dobbiamo adempiere ai nostri doveri verso di loro con singolare pietà ed attenzione. – Non ripeteremo qui la spiegazione di tutti i motivi che abbiamo di pregare per i morti; ma ci contenteremo di sottoporre alla meditazione de’ cristiani i seguenti.
III. Pianto dei defunti. — La gloria di Dio, la carità, la giustizia, il nostro interesse medesimo, ecco i potenti motivi che abbiamo di pregare per i defunti. Oh potessimo noi soddisfare all’obbligo che la natura e la Religione c’impongono d’accordo, in modo da impor silenzio a quella voce lamentevole, a quella voce accusatrice che sorge dal purgatorio e ferisce costantemente l’orecchio del cristiano che vi presta attenzione: Hominem non habeo! hominem non habeo! « Non ho un uomo; non ho un uomo ! » [Ioan., V 7] Il primo che fece udire queste parole dolenti fu il paralitico di cui si parla nel Vangelo. Rattratto in tutte le membra, quell’infelice era da trent’anni inchiodato sulle sponde della probatica piscina. Sempre esposto alla vista della folla immensa che la curiosità o il desiderio della guarigione conduceva in quel luogo celebre, il suo male era conosciuto da tutta la Giudea. E in quella moltitudine vi erano senza dubbio dei congiunti, dei conoscenti, degli amici di quel disgraziato, se i disgraziati aver potessero amici. Che chiedeva egli per esser guarito? Il semplice impulso d’una mano caritatevole che lo gettasse entro la piscina nel momento in cui l’Angelo del Signore veniva ad agitare l’onda salubre. E tuttavia egli aspettava invano quel meschino servigio, invano lo implorava da trentotto anni. Non è forse questa per fede vostra la viva immagine delle anime del purgatorio? – Ritenute dalla divina giustizia in orribili patimenti, esse aspettano con impazienza, esse implorano con alte grida l’aiuto della mano caritatevole, che spezzerà le loro catene e le introdurrà in quella città eterna, ove non si conosce il dolore. Quei giusti che soffrono sono nostri fratelli: tutto ci richiama la loro memoria: e i luoghi che percorriamo, e le case che abitiamo, e i beni di cui godiamo, e il nome stesso che portiamo, e quelle lugubri cerimonie alle quali assistiamo, e quelle tombe che possiamo vedere ogni giorno! E nondimeno quei cari defunti non sono sovvenuti. Chiedete loro perché soffrano gli uni da vent’anni, gli altri forse da trenta o quaranta. La loro risposta sarà quella del paralitico: Ohimè, non ho alcuno per me: hominem non habeo! Ho ben lasciato sulla terra dei parenti, ma mi accorgo di non avervi lasciato un amico; ho ben lasciato sopra la terra una moglie, ma conosco ch’ella ha presto asciugato le lacrime, che il mio nome non è più sulle sue labbra, che la mia memoria non vive più nel suo cuore: hominem non habeo. Ho ben lasciato sulla terra dei figli che ho colmati delle più affettuose premure, che ho nutriti, che ho educati a costo dei miei sudori, ma vedo che il loro padre più nulla è per essi: hominem non habeo; non ho alcuno per me! E pure è ben poco quello ch’io chiedo: qualche preghiera, qualche elemosina, elemosina, null’altro; e le chiedo invano Non ho alcuno per me; schiavi dei piaceri e degli interessi, tutti hanno obliato i loro morti, i loro morti più cari! Nomine non habeo; non ho alcuno per me! Deh! questa voce accusatrice, questo lamento straziante, giunga a commuovere il nostro cuore e a procurare gloria a Dio. riposo ai morti, e a noi la ricompensa della misericordia! Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia.
IV. Cerimonie del dì dei defunti. — Egli è questo il luogo opportuno d’intrattenerci alquanto circa le esequie cristiane. La Chiesa che consacra la nostra culla e che circonda di una protezione sì augusta e sì rispettabile il bambino che entra nella valle delle sventure, è egualmente sollecita di render l’uomo rispettabile, allorché, giunto al termine del suo viaggio, egli scende nel sepolcro per subirvi la sentenza che lo condanna a ridivenir polvere. E primieramente v’ha una cosa che mi colpisce nelle nostre cerimonie. Vedo da un lato dei parenti, degli amici, dei fanciulli piangenti, odo il funebre suono della campana, non vedo nel tempio fuorché immagini lugubri, e da un altro lato odo la Chiesa che canta, e canta senza riposo. Quale contraddizione! Come mai può una madre cantare sulla morte del proprio figlio? E non è la Chiesa la più affettuosa delle madri? Ah! si, la Chiesa ci ama di un amore tanto più vivo quanto è più nobile! Proviamoci a comprenderne il cuore. Depositaria delle promesse d’immortalità, essa le proclama altamente in presenza della morte: se vi è lamento nella sua voce, vi scorgi eziandio della gioia. Essa piange, ma più fortunata dell’affettuosa Rachele essa consola sé stessa, e consola noi pure, perché sa che i suoi figli le saranno restituiti. Perciò nelle lacrime dei parenti io ravviso le lacrime della natura; nei canti della Chiesa io ravviso la fede. L’una si rattrista dicendo: Io devo morire; l’altra la conforta rispondendo: tu resusciterai! – Quando dunque l’anima del cristiano si è separata dal corpo, la campana invita i cristiani a pregare per il loro fratello; e al fine di eccitare il loro fervore, il suono lugubre vien rinnovato ad intervalli fino al punto in cui è consegnato alla terra ciò che appartiene alla terra. Prima di trasportare il corpo, il sacerdote, nel gettare acqua benedetta sopra la bara, dice: Requiem æternam. « Signore, concedetegli un eterno riposo; e la luce che giammai si estingue splenda sempre a’suoi occhi». Poi si recita il De profundis a voci alterne. Infatti vi ha due voci in quei lugubri cantici: voce dell’anima inquieta e turbata che teme i giudizi di Dio, e voce dell’anima che sente rinascere la sua speranza alla vista della Redenzione del Signore, che scancella tutte le iniquità d’Israele. Il trasporto del cadavere si fa processionalmente; la croce, arca di speranza e pegno di risurrezione, precede il convoglio, e il defunto è tradotto alla Chiesa ove comincia e finisce la sua carriera cristiana. Quale ravvicinamento tra la cuna e la tomba, tra il battesimo e la sepoltura! – In mezzo all’apparato funebre che circonda il cadavere si vedono splendere delle faci; sono esse il simbolo della fede e della carità del defunto, son esse il confortevole emblema del suo ritorno futuro ad una vita migliore, il pegno che la tristezza cristiana sarà cangiata in giubilo. Cosi la vita presente e la vita avvenire, il tempo e l’eternità si riuniscono intorno alla bara, l’uno con le sue lacrime e con le sue speranze deluse, l’altra con le sue contentezze e con le sue promesse immortali. Incomincia la Messa, e ben presto la voce grave dei cantori fa rimbombare le sacre volte dell’inno Dies iræ. Nulla più imponente e più idoneo a ghiacciare di spavento, come quel cantico della morte e dell’ultimo giudizio; la Chiesa lo fa cantare tanto per istruzione dei vivi, quanto per sollievo de’morti. La morte con i suoi sepolcri e la fredda sua polvere, il giudizio con i suoi segni formidabili e con i suoi rigori ci si presentano a vicenda all’immaginazione. Quindi per sollevare alquanto l’anima costernata, un’ultima parola, una parola di speranza, viene a colpire l’orecchio, e vi discende nel cuore svegliando il sentimento che deve dominarla. Eccola: « Per redimermi voi avete sofferto la croce. Ah! non resti senza frutto uno spasimo sì grande. Giusto giudice, terribile vindice del peccato, perdonatemi prima di citarmi al vostro tribunale. Io gemo come un colpevole, io arrossisco alla memoria dei miei delitti. Mio Dio, pietà di un colpevole che vi supplica! Misericordioso Gesù, date il riposo ai defunti». – L’autore di questo splendido inno si crede comunemente il cardinale Malabranca, della famiglia Orsini, che viveva nel secolo XIII. – Dopo la Messa il coro va a situarsi per l’Assoluzione intorno alla bara, e si canta il responsorio Libera me, etc. Liberatemi, o Signore, ecc. In questa lugubre e affettuosa preghiera è il morto che parla, e pare di udir Giona che esclama verso Dio dal fondo dell’abisso e dalle viscere del mostro nel quale era sepolto vivo: «Liberatemi, o Signore, liberatemi, e la profonda voragine non si rinchiuda sopra di me». Poi ad un tratto il grido della speranza si fa udire: Io so, prosegue il morto per l’organo dell’immortale sua madre, io so che il mio Redentore è vivente, e ch’io uscirò nel giorno finale da questa terra. Il celebrante dice: «Signore abbiate pietà di noi ». Il coro: «Cristo, abbiate pietà di noi». Il sacerdote: « Signore, abbiate pietà di noi». Poi intona il Pater che recita a voce bassa. In questo tempo ei fa il giro della bara e l’asperge d’acqua benedetta, che è un’ultima purificazione pel morto; poscia lo incensa, e quell’incenso rammenta sì la preghiera della Chiesa pel defunto suo figlio, sì il buon odore di quelle virtù che quel cristiano ha praticate, e che lo fanno salire al cielo, insieme col fumo degli incensi. Sarà egli così di voi, che leggete queste pagine? Che cosa lascia sperare la vostra vita? È giunto il momento d’incamminarsi al cimitero. Addio, Chiesa santa, ove io ricevei il battesimo; addio, sacro pulpito, da cui scesero sopra di me, a guisa di rugiada benefica, le parole di salute: addio, tribunale di misericordia, ove ho ricevuto tante volte, insieme col perdono dei miei falli, eterni consigli e inenarrabili conforti; addio, santa mensa, ove il mio Dio mi nutrì con la sua carne immortale: addio, parenti, amici, figli, addio a tutti fino alla risurrezione generale. Ecco quanto dice questo avviarsi della Chiesa verso il cimitero. Quindi le lacrime, le strida dei congiunti si raddoppiano in quel momento solenne. Che fa allora la Religione? Con voce dolce (per poco non dissi lieta) ella dà il segnale della partenza cantando quelle parole sì consolanti: Deducant te angeli, etc. « Gli angeli ti conducano al paradiso; vengano i martiri ad incontrarti e t’introducano nella immortale Gerusalemme: il coro degli Angeli ti accolga e ti faccia partecipare col povero Lazzaro al riposo e all’eterna felicità. [Rituale Romano] – Così mentre la natura piangente non scorge al termine del cammino che un cimitero con la spaventosa sequela di decomposizione e di putrefazione, la Religione raggiante d’immortalità ci mostra il paradiso, con le sue gioie e la sua felicita; sicché sulla fossa ella pronunzi un’altra parola di conforto. Il sacerdote dice nel gettare un poco di terra sopra la bara: La polvere ritorni alla terra dalla quale è uscita, e l’anima ritorni a Dio, che l’ha creata; riposi ella in pace, cosi sia. – Dopo un’ultima aspersione di acqua benedetta, la sepoltura viene rinchiusa, e la croce, che le sta sopra, indica che ivi è il corpo d’un cristiano che ha vissuto pieno di speranza, e che aspetta con fiducia il giorno della Risurrezione generale. Idea consolante! Sii benedetta, o santa Religione! In questa fossa sormontata da una croce, il cristiano somiglia al viaggiatore, che stanco si riposa dolcemente all’ombra d’un albero, aspettando l’ora di riprendere il suo cammino.
Preghiera.
O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio della tenerezza, che avete inspirata alla Chiesa per i defunti; concedeteci la grazia che facciamo per loro tutto ciò che vorremmo un giorno che fosse fatto per noi. – Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose ed il prossimo, come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore:
io consacrerò tutti i lunedì a pregare per i morti.