IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (12)

Capitolo quinto

SUL CAMPO DI BATTAGLIA

La legge cristiana dell’Amore, la quale si assomma nella virtù praticata nella vita, è un ideale che non basta sognareo salutare con tenere lacrimucce invocatrici, ma, come abbiamo constatato, bisogna realizzarlo in mezzo a difficoltà, a combattimenti, talvolta purtroppo a sconfitte. « Il mondo, il demonio, la carne » — l’ambiente che ci circonda, gli spiriti ribelli, il nostro io — tutto ci trascina lontano dal Sole dell’Amore. Le « tentazioni » si rinnovellano sempre ad ogni momento. Una battaglia perenne si impone, per tradurre in realtà l’ideale divino. L’occasione è sempre pronta ad aspettarci. Guardando al passato, noi scorgiamo come spesso lo sviluppo nostro ed i nostri progressi siano dipesi da circostanze minime, da occasioni che abbiamo preso come palla al balzo. Un istante di forza in un conflitto vi dà un eroe; un attimo di debolezza vi dà un traditore. E le lotte non terminano mai; si succedono, si avvicendano, si cambiano, continuano incessantemente. È la battaglia della vita, che — come ricorda Lacordaire — faceva esclamare a Seneca: « Ecco uno spettacolo degno di Dio » — Ecce par Deo spectaculum — ed a san Paolo: « Siamo stati fatti spettacolo al mondo, agli Angeli ed agli uomini ». Noi non possiamo avere la vana pretesa di descrivere tutte le lotte che si svolgono nell’intimità delle coscienze: solo vogliamo gettare uno sguardo sul campo del combattimento quotidiano, per convincerci che ogni conflitto si riduce, in ultima analisi ad un contrasto tra l’amore per Dio e per ciò che non è Dio.

I. – IL CRISTIANO E L’EGOISMO DELLO SPIRITO.

La prima grande battaglia che ognuno deve sostenere è dal Gratry felicemente definita: « L’egoismo dello spirito ». L’anima nostra dovrebbe essere un santuario, consacrato al Signore; invece, sull’altare del cuore, noi sostituiamo un idolo: il nostro piccolo io. Due norme allora stanno di fronte e cozzano ad ogni momento fra loro: la morale cristiana comanda di amare Dio sopra ogni cosa ed ogni cosa per Dio; l’egoismo dello spirito risponde: ama il tuo io sopra ogni cosa e tutto il resto amalo solo per il tuo io. Ecco la superbia, il primo dei peccati capitali; ecco la vanagloria, l’amar proprio — come dice l’asceta con una meravigliosa parola che esprime l’antitesi accennata. Ed al seguito di tale nemico, v’è un mondo di difetti e di colpe, che ne sono fatali conseguenze.

1. – Il piccolo io e Dio.

Noi siamo nell’egoismo, esclama il Gratry nella sua opera La connaissance de l’ame. Chi può fingere di ignorarlo?… Posso forse non vedere che io mi preferisco agli altri, all’ordine, alla giustizia ed alla verità, di conseguenza a Dio, e che non soltanto mi preferisco ai miei simili, ma che accetto, per un po’ di felicità, una grande sofferenza altrui? Più ancora: posso negare la storia quando mi mostra che certe anime amavano intensificare la loro gioia col dolore degli altri? quando constato questo fatto così generale del sangue umano mescolato alle grandi orge e che mi indica non solo dei proconsoli che facevano massacrare gli schiavi nei loro banchetti, per il piacere loro e delle loro cortigiane, ma ancora popoli interi, ebbri di gioia e di piacere allo spettacolo di gladiatori che si scannavano? Non è questo forse egoismo? « Ciascuno discenda nel proprio cuore. Chi non ha avuto, nella sua vita, qualche ora di feroce passione, in cui si sarebbe accettata la distruzione del genere umano, per vivere nella propria concupiscenza soddisfatta a tal prezzo? Tutti gli uomini hanno potuto sentirsi, in qualche giorno, fratelli di Nerone, che bruciava Roma per il suo piacere, o di Caligola, il quale s’augurava che il genere umano avesse una sola testa per poterla recidere. In quasi tutti i cuori, v’è un Nerone, se non sviluppato, almeno in germe… « Noi nasciamo ingiusti, dice Pascal, perché ciascuno tende a sé. Ciò è contro ogni ordine… L’inclinazione verso di sé è l’inizio d’ogni disordine, in guerra, in politica, in economia. Chiunque non odia in sé questo amor proprio e questo istinto, che lo porta a mettersi al di sopra di tutto, è ben cieco. « Pascal, come Platone, come Michelangelo, e come tutti i veri filosofi, ha visto che noi nasciamo e siamo in uno stato di egoismo assurdo e mostruoso, che consiste nel volere fare di noi in ogni cosa il centro, il principio, il tutto ». Per questa strana, ma possente illusione « quasi tutti gli spiriti che pensano vivono isolati. Ciascuno, al centro della sua sfera, non vede che se stesso; gli altri, da lontano, gli appaiono come astri nella notte che si intravedono senza comprenderli; e quando negli slanci del pensiero attuale il nostro proprio sole si leva e si percepisce direttamente e senza nubi, si eclissano nel nostro cielo anche le deboli tracce dei soli più vicini. Sì: noi siamo il sole; tutti gli altri spiriti sono stelle eclissate dal giorno ». – La punta del nostro naso diviene così il centro dell’universo. All’amore per Dio, che implica l’amore del prossimo e di tutti vorrebbe fare un corpo unico vivente, si sostituisce l’egoismo e, perciò, la disgregazione, la dispersione, il contrasto, l’odio, con i diversi frutti avvelenati che ne conseguono. Saranno le anto incensazioni, per le quali si assomiglia ai vecchi palloni gonfiati, con la minaccia di scoppiare. Saranno le ambizioncelle, di chi sprezza la raccomandazione di san Francesco di Sales: « Non imitare il ragno, che è l’immagine degli orgogliosi, ma imita l’ape, simbolo dell’anima umile. Il ragno tesse la sua tela a vista di tutti, giammai in segreto: la fila nei verzieri da un albero all’altro, e nelle case, alle finestre, ai soffitti, insomma sotto gli occhi di tutti; rassomiglia in questo ai vanitosi ed agli ipocriti, che ogni cosa fanno per essere veduti e ammirati dagli uomini… Le api sono più savie e prudenti: fabbricano il loro miele dentro l’alveare, dove non le può vedere nessuno; oltre a questo si costruiscono ivi tante cellette, in cui conducono avanti il lavoro segretamente; il che ci rappresenta molto bene l’anima umile, sempre chiusa in sè, non vaga di gloria o di lode per le sue azioni, ma studiosa di occultare i suoi divisamenti, contenta che vegga e sappia Iddio quello che essa fa ». Del resto, è logico il procedimento: se non si agisce per amore di Dio, si cerca « di essere veduto dagli uomini », nonostante la condanna di Gesù nel Vangelo. E l’adorazione del proprio io, centro del mondo, assumerà forme svariatissime: arà il culto esagerato della propria bellezza o della propria forza. Sarà il vanto di poter portare ciondoli e gioielli, non ricordando ciò che osservava ancora il mite spirito di Sales: “Forse che il mulo cessa di essere una povera bestia, perchè carico di monili preziosi?”. Saranno gli eccessi della moda ridicola ed oscena. Saranno brame esasperanti di gloria, di onori, di successi. Saranno gelosie che di tutti vorrebbe fare un corpo unico vivente, si sostituisce l’egoismo e, perciò, la disgregazione, la dispersione, il contrasto, l’odio, con i diversi frutti avvelenati che ne conseguono invidie, più o meno abilmente ricoperte da veli benigni. – Pubblicava un giorno il « Mercure de France » un gustosissimo aneddoto. Che Sarah Bernhardt, anche quando era consacrata ormai artista insuperabile e aveva raggiunto il vertice della celebrità, sentisse profonda la gelosia verso tutti quelli che potevano contrastarle il primato che essa deteneva, è cosa da tutti saputa. E si sa anche che gli allori, che attraverso il mondo raccoglieva Eleonora Duse, turbavano i sonni della grande tragica francese, la quale volentieri avrebbe voluto mettere in pratica l’opinione di Medea: « Io sola, e basta ». Questa gelosia di mestiere era in Sarah Bernhardt così profonda, da non riuscire molte volte a dissimularla, come avvenne quando, nel 1897, Eleonora Duse si produsse per la prima volta a Parigi, in una serata di gala per il monumento ad Alessandro Dumas figlio, al teatro della Renaissance. In quella serata, dice il « Mercure de France », la Duse fu semplicemente ammirevole. Sarah era dietro una quinta, spiando con l’occhio attraverso uno strappo della tela i movimenti del pubblico e l’impeto della Duse. Ad ogni istante gli applausi scoppiavano nella sala entusiastici e Sarah Bernhardt se ne mostrava visibilmente urtata, come se un fuoco di fucileria fosse stato diretto contro di lei. Vicino a lei era un gruppo di familiari, i quali per compiacerla affettavano di scrollare le spalle e di sogghignare ogni qualvolta la Duse veniva applaudita. Uno di essi, staccandosi ad un certo momento dal gruppo, si pose a percorrere il retroscena, imitando con grossolana caricatura i gesti della grande attrice italiana, le sue contrazioni del volto, il suo passo alquanto zoppicante. E Sarah, voltatasi, l’approvò con un sorriso, non sapendo, la disgraziata, che un giorno essa avrebbe zoppicato ancora di più, poiché le avrebbero tagliato una gamba. Tuttavia Sarah accolse tra le sue braccia la Duse, quando essa uscì di scena. Ma era per il pubblico. Una gran quantità di gente era venuta sul palcoscenico a felicitare l’italiana: bisognava ben dissimulare il proprio rancore, almeno per orgoglio. Con quella esagerazione, che è la caratteristica della gente di teatro, Sarah Bernhardt la copriva di baci e con effusione diceva: « Divina!… Ah! cara, voi siete stata divina…» E Sarah stringeva così forte la Duse, da far venire in mente ai presenti il verso famoso: « J’embrasse mon rival, mais c’est pour l’étouffer » (abbraccio il mio rivale, ma solo per soffocarlo. Nulla come questo egocentrismo rende ridicoli gli uomini grandi e gli uomini piccoli. Si pensi, ad es., a Cola di Rienzo, piangente perchè più non v’erano i grandi d’un tempo e la loro sublime giustizia, disperato di non esser nato quattordici secoli prima, sicuro d’essere il restauratore di Roma e dell’Italia, il campione della libertà ed il redentore dell’umanità, mentre datava le sue lettere dal Campidoglio nell’anno primo della nuova repubblica e si cingeva la fronte di sei corone: con foglie, cioè, di quercia, di edera, di mirto, di ulivo, di alloro e di argento dorato. Si pensi al nostro grande Petrarca, gloria della letteratura nostra. Persino il cantore d’aura si fece compatire, quando pretese di non andar debitore di nulla ai suoi contemporanei, di non voler essere paragonato a nessuno di essi, di rifiutare ad altri la gloria del suo tempo. Non aveva caro, così almeno fu detto, che gli si parlasse di Dante e della Divina Commedia; trovandosi a Milano, all’inizio della peste, dichiarò stoicamente ad un medico che non si doveva fuggire la morte e poi subito riparò a Padova ed a Venezia; s’irritava dei suoi critici, sentenziando: « Si sono arrogati il diritto di giudicarmi; in verità, io non so chi abbia dato loro un tale diritto ». Erano gli scherzi dell’orgoglio. – E pazienza se si trattasse solo di questo! L’egoismo dello spirito non solo ci copre di ridicolo, come anche per colui che è sempre stato rinchiuso nel proprio villaggio si può dimostrare con esemplificazioni gustose; ma ci conduce anche a mille spropositi, più o meno grossi e grossolani, secondo le mansioni affidate ad una persona. Individui simili ad Icaro, che pretendeva volare con ali di cera; famiglie rovinate da pretese pazzesche, suggerite dall’amor proprio; coscienze perdute, che, pur di soddisfare il loro egoismo superbo, son ricorse a tutti i mezzi, anche ai più indecorosi ed illeciti; ribellioni all’autorità dei genitori e disprezzo di ogni e qualsiasi autorità: simili colpe —e delitti sono le esigenze di questo idolo imperioso ed esigente, che è il nostro io. Soffermiamoci sopra un caso concreto e frequentissimo, che il Gratry illustra: il caso del giovane studente. Frequenta il liceo, o le scuole magistrali, o, se anche si vuole, l’Università; ossia, omincia ad appressare le labbra al calice della cultura. Subito è ubbriaco. Egli vi risolve ogni problema. Per lui non esistono enigmi dell’universo. Non esistono uomini grandi, se non a parole. Vi discute la grandezza di Dante, di Aristotele, persino di Cristo: e vi dice sul serio che non crede più. Scrutate il suo stato d’animo: egli è proprio convinto d’aver maggior luce, maggior conoscenza dell’uomo e di Dio, di sant’Agostino, di san Tommaso, di Dante, di Bossuet, di Pascal, di Manzoni. « Tutto questo gli sembra notte oscura: egli non vi vede nulla; e sulla testimonianza dei suoi occhi, che, non giungendo sin là, in realtà nulla vedono, giudica che tutto questo passato non è che una notte. Chiunque s’è occupato di giovani ed ha ricevuto le loro intime e sincere confidenze, conosce queste cose. Questo ragazzo, adunque, dichiara questo: per lui, maestri, genitori, Chiesa e tradizione, grandi uomini, grandi autori e grandi secoli, tutte queste autorità sono nulle e non avvenute; tutto questo per lui non è che menzogna, stupidità, ipocrisia, superstizione, tenebre; lui solo sa a che cosa deve attenersi e vi si attiene. A ce compte et en ce sens, continua il Gratry e citiamolo in francese, per non offendere nessuno, que d’hommes demeurent écoliers toute leur vie! [Quanti uomini restano studenti tutta la loro vita]. Questo è il fatto. Possiamo ridere, ma dobbiamo confessare che quando eravamo in liceo il compito di risolvere le varie questioni filosofiche o religiose, artistiche o letterarie, non ci atterriva; avevamo in tasca per ogni problema una soluzione netta, precisa, esauriente, infallibile, anzi così infallibile che magari bisognava modificarla e mutarla ogni volta che si cambiava il moccichino; e tuttavia non si dubitava mai del nostro signor io. Dubitare di tutti, sì; era giusto, intuitivo; era il dovere dell’uomo moderno, dopo Cartesio ed il suo dubbio metodico: l’unica cosa di cui eravamo sicuri, di cui non sospettavamo affatto, era questo io benedetto, superbo ed ignorante, nonostante le quattro parole di greco o i quattro concettuzzi che i nostri disgraziati professori a stento appiccicavano alla nostra memoria, come un manifesto sui muri d’una città. E pensare che ci spiegavano il problema della conoscenza!… • accaloravano per farci capire come egualmente Emanuele Kant aveva rinnovato la rivoluzione copernicana: non è più il soggetto che girava intorno all’oggetto, ma è l’oggetto che gira intorno a noi; e noi ci sprofondavamo nel nostro io alla ricerca delle categorie a priori e… l’unica cosa che non conoscevamo era proprio questo… pessimo soggetto, che è l’animo nostro con la sua superbia. Sorvolo sulle conseguenze disastrose dell’egoismo dello spirito e della sostituzione dell’amor proprio all’amore di Dio. Satana, la figura tipica dell’orgoglio, cadde nell’inferno; anche noi per lo stesso peccato, precipitiamo spesso nell’abisso delle disillusioni, delle amarezze, delle inquietudini, delle scimunitaggini. L’egocentrismo ci fa ritenere d’aver maggiori forze, che in realtà non abbiamo, e disprezza le difficoltà che purtroppo esistono. Perciò fin quando celebra i suoi trionfi nel regno dell’immaginazione fantastica, tutto va a pennello: quando, invece, scende sul terreno pratico, son dolori e disastri! E persino nella più rosea delle ipotesi, anche se si riesce ad affermare il proprio io e ad imporne la venerazione agli altri, non si raggiunge la pace dell’animo e la gioia. Anche i pochi che han toccato le alte vette del monte della gloria, ripetono con Cordelia: « Quelle rocce che sembran di diamante e che risplendono ai raggi del sole son formate di lagrime; le sue viscere non sono altro che cuori infranti e sanguinosi ». Non è il caso di rammentare la confessione di un Bismarck, che a Friedrichsruhe nel 1895 diceva ai suoi ammiratori, accorsi a festeggiarlo: « Signori, debbo dirvi che durante la mia vita non sono stato veramente felice neppure ventiquattro ore. La gioia maggiore la provai quando uccisi la prima lepre ». Non è il caso di rievocare il lamento di Goethe, poco tempo prima di morire, e che leggiamo nei suoi Gespriiche mit Eckermann: « La mia vita non è stata in sostanza, che pena e lavoro; posso affermare con sicurezza che in settantacinque anni di vita non ho avuto quattro settimane di vera gioia. È stato come l’eterno rotolare di una pietra, che sempre doveva essere sollevata ». – Poi, da ultimo, viene la morte e dinanzi ad essa l’egocentrismo dilegua, svanisce. Lo ha rivelato persino Pierre Loti, in uno dei suoi libri di viaggio, quando in una cabina del « Redoutable », mentre la nave s’avvicinava a Nagasaki, il 17 gennaio 1901, udì i colpi di cannone, annunciare la morte della regina Vittoria d’Inghilterra. Il cannone aveva tuonato tutto il giorno: « Verso sera, quando il vero crepuscolo s’aggiunge alla penombra delle nubi e della piaggia, il cannone grado grado si calma. A lunghi intervalli qualche ultimo colpo rumoreggia ancora, prolungato dall’eco. Poi un infinito silenzio ricade su questa morte con la notte che giunge: la pagina della storia è voltata; la vecchia dama orgogliosa comincia la sua eterna discesa, forse nella pace, certo nella cenere e nell’oblìo… ». E le iscrizioni sepolcrali, non solo per i grandi, ma persino e soprattutto per i piccoli e i microcefali, potrebbero suonare così: « Qui giace colui — o colei — che credeva essere il centro dell’universo… ».

2. – Un’obbiezione.

No, ci pare di sentire. Mille volte no! Non bisogna distruggerlo questo nostro piccolo io! È ciò che di più necessario e di vital esista! Se non ci fosse la molla di quello che la morale cristiana chiama « orgoglio » od « amor proprio », noi getterermmo la storia in un’atmosfera grigia di stupida tranquillità e di indolenza spirituale. Sono i fremiti dell’ambizione, dell’invidia, della superbia, che scuotono il mondo. Sono le affermazioni superbe del proprio io, che creano energie, suscitano entusiasmi, dànno la forza per affrontare sacrifici, per compiere opere immortali. Una folla di umili sarebbe un branco di scemi. E mi sembra che, « forte e radioso come un sole mattutino », Zarathustra s’avanzi; e non al gregge miserabile degli schiavi, ma si indirizzi agli eletti nelle cui vene scorre sangue divino, alle anime orgogliose intorno alle quali aleggia il profumo dei mari, alle nature forti e titaniche che possono sopportare l’aria delle altezze e che, dotate di coraggio, non conoscono pusillanimi viltà. Compagni egli cerca, e non cadaveri, e neppure mandrie o credenti. Cerca creatori come lui, che scrivano nuovi valori su nuove tavole. Solo a costoro Zarathustra dice: « Io vi insegnerò il Superuomo… Per l’amor mio e la mia speranza, io vi scongiuro: non rigettate l’eroe che è nella vostra anima; credete alla santità della più alta speranza! »; ed innalza un inno alla vita ed alla bellezza, all’esaltazione della propria individualità, al superamento dell’uomo; ad una vita esuberante, lussureggiante, tropicale, che sia continuo sviluppo, progresso illimitato, perpetua tendenza a nuove affermazioni, ad ascensioni più. alte, a conquiste più dolci: ad una vita possente, bella, artisticamente bella; all’azione, all’attività eroica, all’energia, alla Wille zur Macht, alla volontà di dominio, alla forza, in una parola al proprio io. Guai a chi lo tocca!

3. – L’umiltà e l’amore.

Il Superuomo non deve spaventarci. Sulla sua fronte v’è il segno della lebbra. Oh che! Riconoscere che Dio è il centro della realtà, e non il nostro io, equivale forse a condannarci ad una vita di spirituale pigrizia e di viltà, ad annientare le forze individuali, a spegnere la fiamma della conquista e dello sviluppo? Per null’affatto. Anche noi vogliamo l’attività e la vita. Ed è proprio il Dio bestemmiato, io scrivevo altrove, è « il dolente Dio che non ama il sole », che ci ha indicato un Sole infinito di perfezione e ci ha detto: — Imitate! Siate perfetti come il Padre, che a voi sorride dall’azzurro dei cieli. — Il nostro Dio che ci inculca di « fare la propria vita come si fa un’opera d’arte », poiché la vita umana è simile ad un poema, del quale ogni anno scriviamo un canto, ogni giorno componiamo un verso; poema che dev’essere magnifico e bello, ispirato dal soffio dell’amore divino. È il nostro Dio che suscita l’eroismo, perché « nella morale comune, come ben si è osservato, c’è già quanto basta per essere eroi.; c’è quanto basta per dare la propria vita per la patria e per l’ideale, per compiere al tempo della carestia e della peste di Milano i prodigi di Carlo Borromeo (il santo che nel suo stemma e nella sua vita ebbe come parola programmatica: humilitas, o per salpare con. Cristoforo Colombo alla scoperta di nuovi mondi… – Quale differenza, dunque v’è tra il superbo e il Cristiano? Il superbo dice: il vero Dio sono io: tutto dipende da me. Il Cristiano risponde: no, non sono io che ho creato il mondo, che mi sono dato l’esistenza e queste doti che posseggo, questa intelligenza, questa volontà, questa attività che mi divora e mi sospinge. In tutto questo io saluto l’amore di Dio per me. Sarebbe falsa e puerile umiltà quella di non guardare e riconoscere in noi ciò che Dio ci ha dato; sarebbe un’ingiuria all’amore di Dio. Egli ci ha dato un dono che noi non possiamo disprezzare, né negligere. Umiltà è verità; ma, in pari tempo, sarebbe stoltezza il pretendere che quello che ho, sia una creazione mia. « Cos’hai, ci grida Paolo l’Apostolo, che tu non abbia ricevuto? E se così è, perchè ti vai gloriando, come se non l’avessi ricevuto? ». Il superbo dice: io sono qualcosa di grande; se non avessi fede nelle mie forze, nulla farei. Il Cristiano risponde: io sono un complesso di forza e di debolezza, di buone tendenze e di istinti malvagi. Se guardo a me stesso, debbo scrivere le mie Confessioni con Agostino ed esclamare con una santa, che aveva chiesto a Dio la grazia di conoscere la sua anima e n’era stata esaudita: « Signore, basta, altrimenti mi perdo di coraggio! ». È insulsaggine non prendere coscienza delle proprie deficienze ed è molto pericoloso. È vero: ho una volontà preziosa, dalla quale dipende la mia decisione; ed anch’essa è dono dell’Amore di Dio; ma è pur vero che molteplici e gravi sono le difficoltà. Esse, tuttavia, non mi possono atterrire. Io pongo la mia fiducia non nel mio io umano, ma nel mio io divinizzato dalla grazia, fortificato da Dio, ed allora posso esclamare con san Paolo: « Posso tutto in Colui che mi conforta ». Il superbo dice: gli altri esistono per me. Il Cristiano risponde: no; gli altri esistono per Dio ed io li debbo amare come fratelli. Quanti debiti di riconoscenza io ho verso il prossimo! Della vita, della civiltà, della cultura, di mille e mille cose, io sono debitore agli altri. Il superbo dice: io posso schiacciare gli altri con piede inesorabile e servirmene come di sgabello; posso sacrificare gli altri a me. Il Cristiano risponde: no; io non ho diritto di sacrificare nessuno; ma debbo sacrificarmi io stesso per il mio prossimo. Solo a questo modo farò qualcosa di grande per me, per la mia famiglia, per la patria, per la Chiesa. – Ancora una volta: la differenza tra il superbo ed il Cristiano non sta nella volontà di vivere, nell’audacia dell’azione, nella vastità dei programmi, nella saldezza dei propositi, nella generosità degli sforzi. Nessuno dev’essere audace più di chi vive unito a Dio e si sente potente della sua potenza. Nessuno più di chi apre la finestra della sua anima e non sta rinchiuso nel suo egoismo, contempla orizzonti sereni e larghi. La differenza risiede nell’oggetto dell’amore: il superbo ama se stesso; il Cristiano ama Dio, e sé ed il prossimo in Dio. Agendo in tal modo, il Cristiano non va all’annientamento, bensì alla sua grandezza; non si spaventa di nessuna impresa, purché Dio ad essa lo chiami; dà un valore eterno alla sua vita, perchè quest’ultima diventa un contributo positivo di un’opera, dinanzi alla quale, meglio dell’artista antico, egli può asserire: laboro æternitati. In breve: l’umiltà è grandezza di amore e carità; l’orgoglio è l’egoismo dello spirito.

4. – La morale autonoma.

I sacerdoti, però, di quel terribile idolo che è l’egoismo dello spirito non si dànno per vinti. E, soprattutto ai giorni nostri, essi si appellano alla affermazione tante volte ripetuta, da Kant sino agli idealisti contemporanei, della nostra autonomia, come conditio sine qua non dell’etica. Senza far qui una discussione filosofica ed una critica dei vari sistemi, possiamo dire che il pensiero fondamentale che tutti hanno in comune, si può esprimere nei termini seguenti. Qual è il segreto che spiega l’influsso affascinante di Emanuel Kant? Perché, durante la sua vita, molti si recavano in pellegrinaggio a Kónigsberg per vederlo e per consultarlo? Perché anche oggi la corrente idealistica lo saluta come padre e molti sulla tomba di lui si commuovono, ripetendo le celebri parole: « Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me »? Perché l’idealismo, dall’inizio del secolo XIX ai giorni nostri, ha potuto spesso penetrare nelle anime e pretendere di sintetizzare tutta la cultura moderna? È la grandezza e la dignità dell’uomo, che forma il segreto di questi apparenti trionfi. Lo spirito umano è qualcosa di grande ed è artefice a se stesso del suo valore. Un senso innato della propria signoria canta in noi: ciascuno deve conquistarsi da sé la verità che è degno di possedere e tutto il merito delle buone azioni, che è capace di fare. Non da fuori, ma da noi, e da noi soltanto dobbiamo aspettarci tutto: è dallo svolgimento senza posa delle energie operose nostre, è dalla libera nostra ricerca intellettuale, è dalle successive nostre conquiste morali, è dall’uomo, e non da Dio, che dipende la nostra dignità e la nostra spirituale grandezza. Dipende da noi, insisterà Kant, e la sua parola è ancor oggi ripetuta, « l’alto valore che l’umanità si può e si deve procurare mediante la moralità »; e perciò « l’autonomia della volontà è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri che loro corrispondono ». – Non è Dio che mi obbliga ad osservare la legge morale, sono io che mi dò tale obbligazione. Altrimenti io mi sentirei schiacciato da un peso immane, mi sentirei avvilito da un comando tirannico, mi sentirei annullato dal tutto di Dio e dalle sue imposizioni. Dio, ben lungi dall’essere la base della morale, ne sarebbe la negazione assoluta, se io dovessi agire conformemente al dovere, sì, ma per Lui e non semplicemente per il dovere. Solo quando io agisco per puro rispetto alla legge morale mi sento grande, mi sento uomo e non schiavo! – Da questo principio sgorga l’invocazione calda e commossa del filosofo di Kònigsberg al dovere: « Dovere! nome grande e sublime, che non comprendi in te niente di ciò che piace e lusinga, ma reclami l’ubbidienza; che tuttavia per muovere la volontà non hai in te nulla di minaccioso, che non desti un’avversione naturale nè atterrisci, ma poni soltanto una legge; la quale trova da sè accesso nello spirito e guadagna da se, anche malgrado noi, la venerazione (se non sempre l’obbedienza), e davanti la quale tacciono le passioni, per continuare ad agire contro di essa in segreto; quale è la nascita di te degna e dove si trova la radice delle tue nobili origini, che fieramente respinge ogni parentela con le passioni ed è la sola sorgente di quell’unico valore che gli uomini possono darsi da se stessi? ». Ed alla domanda l’idealismo, con Kant, risponde indicando la nostra personalità umana e puramente umana. L’amore di sé, nella forma più austera e più seducente, viene così opposto all’amore di Dio. E l’uomo, postosi su questa strada, è giunto a proclamarsi Dio. Il trascendente ed il soprannaturale sono stati negati. Nella storia della cultura non si era mai verificata una negazione così completa e recisa del Cristianesimo.

5. – Il Cristianesimo e la nostra autonomia.

Alle voci allettatrici di tutte le sirene idealiste, il Cristiano non porge orecchio, perchè osserva a se stesso: « Non illuderti. Non fantasticare. Non farneticare. Non è l’uomo, non sei tu il centro dell’universo. Certo: tu hai un pensiero; hai una volontà libera: puoi svolgere la tua intelligenza e le tue energie; anzi, ne hai il dovere! Guai se tu lasciassi inoperose le forze che possiedi! Verresti meno al compito della tua vita. Ma questa stessa tua intelligenza viene forse da te? La tua volontà l’hai fosse data tu a te stesso? Sono forse un prodotto, una creazione tua? Puoi davvero, sul serio, affermare la autonomia del tuo essere?… Se Dio non ti avesse creato, se i tuoi genitori, strumenti suoi, non ti avessero messo al mondo, la tua persona sarebbe un nulla e resterebbe nel nulla. E domani, nonostante tutte le declamazioni di autonomia che tu puoi fare, basterà un malanno, per mostrarti come non sei tu il padrone della tua esistenza. Un po’ di tempo ancora e poi il tuo cadavere in putrefazione insegnerà a tutti il valore ineffabile delle tue superbe affermazioni. L’autonomia del tuo pensiero!… No. Non è il tuo pensiero che produce la realtà; non è l’atto del tuo pensiero che crea gli Appennini od una minuscola formica! Tu non puoi pensare quello che vuoi. Non puoi pensare, in nome di una pretesa autonomia, che due e due fanno dieci e che le stelle non brillano. La verità non la crei tu; la conquisti e riconosci soltanto … L’autonomia della tua volontà!… Anche qui, ti illudi forse di dare a te stesso la tua legge? Non è il singolo uomo il creatore della norma etica. Noi non creiamo la legge morale; la riconosciamo e la dobbiamo liberamente applicare e seguire. La nostra vera dignità, la nostra vera grandezza non consiste nel creare noi le forme etiche, ma nell’applicarle. Io non posso dare a me stesso imperativi categorici di questo genere: tu « devi rubare; devi uccidere chiunque non ti vada a genio ». E se non lo posso, dove va la mia autonomia? Non rispondermi che è la legge intrinseca del tuo spirito, che ti impone di non essere ladro od assassino; perché è verissimo che sono le leggi intrinseche dell’essere, conosciute dalla coscienza, quelle che ci tracciano la linea della nostra condotta; ma, ancora una volta, le hai forse costituite tu queste leggi intrinseche della realtà? Non è forse Dio il loro autore sapiente ed amorevole? Guai se Dio non esistesse! Io potrei deridere queste leggi; esse mi comandano: « Tu devi »; ed io risponderei: « Io posso fare quello che voglio », anzi farei quello che voglio, se non altro per affermare che nulla v’è che mi lega e mi incatena ». Non è forse a queste esplicite conseguenze che è giunto il pensiero e la letteratura contemporanea? Senza dubbio: bisogna compiere il proprio dovere. E forse non era necessario aspettare che un professore di filosofia lo insegnasse: l’umanità già lo sapeva da secoli parecchi. E sa anche che bisogna agire non solo conformemente al dovere, a anche per il dovere. Perché cos’è il dovere? Non è forse la volontà di Dio e non la nostra volontà? Non basta dire che la legge del dovere ci impone: « Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio d’una legislazione universale; io mi domando: perché la mia massima può divenire legge universale? E rispondo: non già perché ho in me un principio sintetico a priori in una « facoltà misteriosa » che « la ragione umana non potrà mai capire » e che si chiama coscienza; ma perchè il centro della realtà è Dio: da Lui dipendono gli esseri ed i loro rapporti; l’individuo singolo o l’umanità intera debbono inchinarsi a queste leggi intrinseche della realtà, le quali, se osservate, conducono allo sviluppo ed al perfezionamento nostro; se violate, conducono alla catastrofe. – Quando la morale cristiana comanda di fare il dovere non per egoismo, ma per Dio, non insegna forse a compiere il dovere per il dovere? Certo: non è un dovere, che venga fissato da me, ma solo da me riconosciuto; è un dovere, che mi dice la voce di Dio e non solo la voce del mio io; ed è altresì un dovere, una legge che abbraccia solo una parte della attività morale. – Non bisogna illudersi su quest’ultimo punto. L’invocazione al dovere, nome grande e sublime, non ci porta alla vetta più alta della morale. Al di sopra della morale del dovere c’è la morale dell’amore, anche se Kant ed i suoi seguaci non se ne sono accorti. Prendiamo un semplice esempio. I missionari, che dall’Europa vanno fra i lebbrosi dell’America del Sud e si richiudono in quei lazzaretti, dove, pochi anni dopo, muoiono vittime della carità; e tutto l’esercito sterminato di Suore, che sacrifica la propria giovinezza e la vita intera nelle corsie degli ospedali, non sono forse persone che ci parlano di morale non a parole, ma a fatti? Eppure, secondo Kant e gli idealisti, sono persone… immorali!… Non si rida: è la realtà. Per Kant è azione morale solo quella che si compie per il dovere. Ora, quale dovere avevano quei missionari di recarsi in un lebbrosario? E chi di voi potrebbe dire a una figlia, nel fiore degli anni: « Tu hai il dovere di rinunciare alle tue ricchezze, alle tue comodità, alla tua casa, al tuo avvenire, alle gioie d’una famiglia; tu hai il dovere di consacrarti tutta agli infermi; hai il dovere di star là, per tutta la vita in un ospedale? ». Gli eroi della carità non sono spinti dall’imperativo categorico del dovere. C’è un nome più grande e sublime del dovere stesso: è l’amore, nel suo senso più alto e divino, anche quando i suoi consigli non possono divenire « principio di una legislazione universale ». Ed è, anzi, l’amore, che, come vedemmo, fa sì che lo stesso dovere sia compiuto, non per un semplice amore o puro rispetto della « legge », ma per amore del legislatore. Ma allora, si obbietterà, la mia personalità umana è schiacciata! Allora la dignità dell’uomo resta distrutta! Allora dobbiamo subire una legge capricciosa, tirannica, d’un Essere che non è il mio essere e che mi comanda, come il negriero comanda alle sue vittime! Allora abbiamo « l’eteronomia! »… Non è vero. Non giochiamo, innanzi tutto, con le frasi. Pare a qualcuno, quando pronuncia questa parola: « eteronomia », di avere espre o chi sa quale idea mirabilmente profonda, quasi che il problema della vita si potesse risolvere con una parola greca italianizzata o tedeschizzatal La legge morale, nella concezione cristiana, non è mai stata una imposizione capricciosa di un Dio tiranno, nemico della dignità e della grandezza dell’uomo. Abbiamo visto come tale legge pullula dalla realtà stessa ed è il dettame della ragione; perciò non ha nulla di cervellotico, di arbitrario. Non da un tiranno, ma dall’Amore essa proviene e, seguendola, diventiamo non schiavi, bensì liberi. È una legge non asservitrice, ma liberatrice; non ci incatena, ma spezza i ceppi delle passioni e degli istinti irrazionali; non schiaccia, ma vivifica ed innalza. Finiamola di rappresentarci materialisticamente Iddio come qualcosa di esterno a noi. « Dio è più intimo in noi, di ciò che in noi vi è di più intimo », ammoniva sant’Agostino, ripetendo san Paolo ed il Vangelo. Ed anche il soprannaturale, ossia la divinizzazione nostra, non è qualcosa di estrinseco, che pesi sopra di noi e non ci pervada nelle intimità profonde della nostra anima. L’idealismo si balocca con immagini spaziali là dove lo spazio non c’entra, forse per darci un compenso alle negazioni dello spazio, là dove lo spazio esiste. Ciò che importa notare è che dall’amore di Dio, e non dal nostro io, abbiamo l’esistenza, la natura umana e la soprannatura. Se per eteronomia s’intende che noi non abbiamo creato noi stessi e che per il nostro sviluppo spirituale abbiamo avuto bisogno degli altri, dei genitori, dei maestri, della società, e soprattutto di Dio, allora noi siamo difensori di essa; ma crediamo che ogni uomo ragionevole lo sarà con noi. Se, al cont ario, si intende per eteronomia l’oppressione della nostra dignità, della nostra libertà, della nostra grandezza spirituale, nulla di meno eteronomo del Cristianesimo e della morale cristiana. Quest’ultima non trascura Dio e gli altri; ma guarda anche al nostro io. Noi non possiamo porre un atto morale, se non mediante l’attività nostra libera, il nostro libero consenso, il nostro libero atto di amore. E non sta forse qui il merito e la cooperazione umana? Noi siamo uomini; e questa dignità di uomo, questa natura di essere umano non è merito nostro. Noi siamo figli di Dio; e questa dignità di uomini divinizzati, questa soprannatura, non è merito nostro. Tutto ciò lo dobbiamo all’amore di Dio per noi. Ma, per merito nostro, noi rispondiamo all’amore di Dio per noi con l’amore nostro per Lui. Sviluppando le nostre energie spirituali e la nostra personalità morale, agendo liberamente secondo la legge etica, noi cooperiamo alla nostra formazione. Questo contributo personale è essenziale all’atto morale, tanto che non abbiamo moralità se non quando raggiungiamo l’uso della ragione e se non quando agiamo coscienti e liberi. Dio e la sua grazia, in altri termini l’amore di Dio per noi, non annullano, ma potenziano il nostro spirito; non rendono inutile la nostra attività, ma la eccitano, l’aiutano e la sospingono al più alto grado di intensità; non sono l’annegamento del soggetto, ma tendono alla sua più potente affermazione. Le più grandi personalità morali, le più grandi anime, non sono state forse formate dal Cristianesimo?

6. Conclusione.

Quand’era giovane, Enrico Ibsen compose un poema epico, dal titolo significativo: Sulle altezze. Descriveva un cacciatore, che, abbandonata la valle, la madre, la fidanzata ed il campanile, era salito sulla montagna. Lassù, su la cima, aveva incontrato uno straniero venuto da lontano, dagli occhi freddi e profondi, che lo suggestionò, lo conquise, lo dominò. Ogni volta che il cacciatore era tentato di ridiscendere, l’altro lo strappava ai ricordi e lo teneva in alto. Dalla valle la campana della chiesa lanciava alle vette la voce suadente, che pareva un invito dolce al ritorno; ma lo straniero diceva: « Lascia suonare! Il canto della cascata ha un suono più armonioso! ». Il giovane si lasciò convincere; dimenticò tutto per conquistare una sola cosa: la sua libertà. Anche a noi, sul monte dell’orgoglio, appare la visione seduttrice. E ci sembra di essere in alto, di poter svolgere su libere altezze, sfrenata e bella, la vita, e di dare la legge a noi stessi, senza riceverla da nessuno. Ma altri monti non possiamo dimenticare, il monte delle Beatitudini ed il monte dell’amore, il Calvario. Ed Uno, forse per qualcuno dei miei lettori ancora « straniero », ci guarda negli occhi su quelle vette e da quella Croce. È un Dio che ha umiliato se stesso, e che sacrificandosi ci salva, ci divinizza, salva e divinizza il mondo. Nessun canto di cascata ha un suono più armonioso dell’appello che parte da quelle labbra e, meglio ancora, da quel costato trafitto, dal Cuore di quel Crocifisso.