IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (10)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (10)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo QUARTO (2)

L’AMORE NEL SACRIFICIO

II. – IL SACRIFICIO

La più alta parola dell’amore è il sacrificio. E questa è anche la condizione indispensabile per poter conseguire la vittoria, nel conflitto quotidiano fra l’ideale e la realtà, fra l’Amore di Dio e le diverse forme di egoismo umano. « Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua », ha ammonito Gesù. Egli per il primo ce n’ha dato un divino esempio ed ha potuto esclamare, additandoci il suo martirio: « Nessuno ha maggiore amore, di chi sacrifica la sua vita per gli amici ». Perciò la morale cristiana, appunto perché è unione a Cristo ed imitazione di Cristo, implica un continuo rinnegamento di noi stessi e delle nostre cattive tendenze. Chi vuol vivere, deve cominciare a morire. Solo attraverso la oscurità della morte, si giunge alla Vita.

1. – Le obbiezioni.

Le ribellioni, dinanzi all’enunciazione rude e franca di un simile programma, non potevano mancare. E si sono moltiplicate in ogni campo. La filosofia ci presenta non solo il pseudo-epicureismo moderno, intollerante di abnegazione e di sacrificio; ma ci getta in faccia, quasi uno schiaffo, le dichiarazioni di alcuni grandi pensatori. Hegel, ad esempio, nella sua Geschichte der Philosophie, che denuncia alla detestazione comune Ơ«» i monaci, i quacqueri ed altrettanta gente pia », tristi creature, che non costituiscono un popolo, ma « come i pidocchi o le piante parassite non possono esistere per sè, bensì solo sopra un corpo organico ». È  Friedrich Nietzsche, che in tutte le sue opere disprezza la morale cristiana come « cosa compassionevole, e come « commedia stranamente dolorosa e in pari tempo grossolana e raffinata », perché — soggiunge — essa « ha condotto a schiacciare i forti, ad ammorbare le grandi speranze, a rendere sospetta la felicità che risiede nella bellezza, a tramutare tutto ciò che v’ha di indipendente, di virile, di conquistatore, di dominatore nell’uomo; a cangiare l’amore per le cose terrene e per la dominazione delle medesime in odio contro la terra ». È « una morale di animale aggregato., che ottenne il risultato di « deteriorare la razza europea ». Bisogna abolirla, distruggerla, se si vuol raggiungere le grandezze del Superuomo. Non all’etica cristiana, ma conviene porgere l’orecchio alle voci festose che ci vengono dall’Ellade santa, dalla Grecia con le sue cento città rivali, « tutta risonante del ritmo dei peani, vibrante di gloria, inebbriata dei suoi miti e dei suoi canti dionisiaci, forte di illusioni. Alcuni decenni or sono, queste ultime espressioni erano in ogni occasione ripetute dalla letteratura. « Tra spirito e materia, tra anima e corpo, tra cielo e terra non v’è mezzo: — così proclamava Giosuè Carducci; lo spirito, l’anima, il cielo è Gesù: la materia, il corpo, la terra, satana. La natura il mondo la società è Satana; il vuoto il deserto la solitudine, Gesù. Felicità dignità libertà è satana; servitù mortificazione dolore, Gesù. E questo Gesù è soave tanto da scendere col perdono e con l’amore fin tra i dannati (sic); ma a patto che prima sia l’inferno nell’universo. – Questa l’idea della perfezione cristiana… ». In essa « tutto rappresenta la morte; e il Dio crocifisso e gli ossami e gli scheletri esposti alla venerazione su gli altari han preso il luogo di Apollo e Diana, che lanciavansi giovenili forme divine, dal marmo pario negli spazi della vita ». Per questo In una chiesa gotica il poeta imprecava: Addio, semitico nume! Continua ne’ tuoi misteri la morte domina. O inaccessibile re degli spiriti, i tuoi templi il sole escludono. Cruciato martire, tu cruci gli uomini, tu di tristizia l’aer contamini… E, nel suo furore, in Rime nuove, intimava:

Pigri terror de l’evo medio, prole

Negra de la barbarie e del mistero,

Torme pallide, via! Si leva il sole,

E canta Omero.

Non la morale cristiana, apportatrice di morte; ma « le primavere elleniche » allora si invocavano da molti e « di Grecia i numi » che « non hanno occaso ». E gridava il poeta:

O Paro, o Grecia, antichità serena,

Datemi i marmi e i canti.

Marmi di Paro in fulgidezza bianca,

Splendenti a la marina,

Come la falce de la luna stanca

Nel ciel de la mattina;

Carmi di Lesbo sussurranti al vento

Su molte isole intorno,

Come d’Apollo il grande arco d’argento.

Nel ciel di mezzogiorno,

Ricoprano il mio cuore irrigidito

Da i cristiani tufi.

Gabriele d’Annunzio, a quei tempi, univa la sua voce, annunciando la morte del Dio nemico della « Vitale idea », insultava la Vergine Madre « vestita di cupa doglianza », invocava la « Dea ritornante dal florido mare onde nacque », proponeva, infine, di gettare « nelle oscure favisse » del Campidoglio la croce di quel Galileo che « temeva i pensieri ardenti e dominatori ». Gaudeamus igitur, sogghignava da Parigi il vecchio e grasso Renan, felice nel suo dilettantismo superficiale. Gaudeamus, soggiungeva, aristocraticamente scettico, Anatole France; ed ovunque erano deplorazioni contro « il dolente Dio che non ama il sole »; erano invocazioni di una morale nuova…

Si è esagerato, — commentano oggi parecchi studiosi, ricercando attenuanti e scuse; — ma, se vogliamo essere schietti, anche oggi, praticamente, se non teoricamente, si ritiene dai più che la morale cristiana, con la sua dottrina della mortificazione, dell’abnegazione e del sacrificio, colpisce al cuore la nostra personalità, conduce alle esagerazioni dell’ascetismo, abolisce la gioia dal mondo. Ecco, perciò, la vita contemporanea che si ispira solo al « piacere » e detesta la parola « sacrificio.. Ecco i metodi educativi, così balordi, in uso in moltissime case, dove i fanciulli non vengono formati allo spirito di abnegazione, ma sono appagati in tutti i loro capricci, in tutte le loro passioncelle, con una indulgenza che prepara alla società dei deboli, privi di energia e di volontà. – Il Dio dell’Amore sarebbe entusiasticamente plaudito, se si limitasse a dire: « Amate! »; ma quando avverte: « Rinnegate voi stessi e prendete la vostra croce! », il suo appello fa tremare. E non pochi scrollano la testa, in atto di diniego, quasi che per amare non fosse indispensabile sacrificarsi.

2. – Il concetto del sacrificio.

È necessario porre in luce un principio fondamentale, che Ollé Laprune, nelle sue lezioni tenute a Parigi, all’École Normale e poi raccolte nel suo Prix de la vie, così delicatamente e accuratamente inculcava.

C’è un duplice genere di morte: una morte, che è fine a se stessa: ed una morte liberatrice, che è mezzo di vita. Nell’etica cristiana, « tutto conduce alla vita. Tutto, anche il sacrificio… La morte non è la ragione, né il termine di qualsiasi cosa. La morte è un mezzo. La morte sopprime l’ostacolo, e, quando occorre, rompe i legami e ce ne libera. Tu n’anéantis pas, tu délivres… (tu non annienti, tu liberi) dice Lamartine, rivolgendosi alla morte. E così si dica di ogni rinuncia, di ogni sacrificio, essendo ogni rinuncia ed ogni sacrificio una mortificazione ed una morte almeno parziale. Tutto viene dalla vita e tutto va alla vita. Solo la volontà che si allontana dalla vita col peccato, va alla morte. Peccatum generat mortem. Ecco la vera morte. Ma la rinuncia, ma il sacrificio, ma tutte queste morti che uccidono il desiderio, la passione, anche il corpo se è necessario, e quando occorre anche il proprio spirito con le sue meschinerie e con le sue gonfiezze, la propria volontà con le sue piccinerie e le sue stravaganze, tutte queste morti sono mezzi di vita ». Un altro metodo non è possibile. La legge della vita è questa: « Rinunciare alla vita parziale, alla vita egoista, abbandonarla e perderla, è un andare alla vera vita. Mourir c’est vivre, et pour vivre il faut mourir. (Morire è vivere, e per vivere bisogna morire). L’abnegazione, la rinuncia, la mortificazione ha una virtù vivificante… Non si è un uomo, se non si sa morire. Ogni grande azione esige una fatica, che è un inizio di morte, perchè è un logoramento, un dispendio di forze vitali. Ciò è vero in ogni campo. E se non si è pronti a morire qualora fosse necessario, quale vita si conduce? Quale impresa ardita si oserà affrontare? Per vivere grandemente, nobilmente, generosamente, bisogna abbracciare la morte. L’eroismo appare così ammirabile, solo per il poco conto che fa della vita ». Non è, del resto, questo un principio così evidente, nell’ordine stesso naturale, che gli stessi pagani talvolta hanno acclamato ed imposto? L’educazione severa della gioventù a Sparta, la disciplina che Pitagora imponeva ai discepoli, il metodo di autoformazione che gli Stoici suggerivano ai loro seguaci, l’onore che sempre nella storia venne tributato a coloro che si sacrificano per la patria o per un ideale, ne sono una conferma luminosa. È vero: fuori del mondo cristiano è fiorito in ogni tempo — come esagerazione di quella verità or ora illustrata — un misticismo assurdo, che dall’India alla Germania, da Buddha a Bohme, tende all’annientamento del finito, dell’individuo e delle sue facoltà, con l’assorbimento in Dio e nell’infinito. Ma la Chiesa l’ha sempre condannato, come si è egregiamente opposta (si ricordi ad es., la storia del quietismo e di Molinos) a ogni forma di misticismo che annientasse l’azione. Il misticismo ortodosso, veramente cristiano, ha sempre lavorato, come rileva il Gratry, alla glorificazione di ogni essere, « allo sviluppo indefinito del finito, mediante la sua unione con l’Infinito. Si tratta forse d’annullare e di distruggere la propria personalità, la propria dignità, la propria volontà? Per null’affatto. Si tratta solo di liberarci da ciò che sono i nostri egoismi, le nostre meschinità, le nostre cattive tendenze, per volere ciò che vuole Iddio, nella vera libertà di figli suoi, nella dilatazione d’un cuore che prima era prigioniero della passione. Rinunciare ad una volontà di morte, per abbracciare la volontà di Colui che è la Vita, significa annientare in sè il male e la morte e vivere in modo completo. Forse qualcuno sospetterà che qui si indora la pillola amara, o si cospargono di soave liquor gli orli del vaso, ma che la realtà è diversa. Prendete i monaci insultati da Hegel; prendete i Padri del deserto, denunciati da Carducci; non erano forse negatori della vita e dei valori umani? Non io; ma risponderanno… gli imputati stessi. Prendo l’opera già citata d’un Certosino, edita dal Tissot: La vita interiore semplificata, e riferisco: « Vere e false mortificazioni. — Quale penetrazione di discernimento deve avere la mortificazione, per distinguere in me tra l’uomo e il peccatore, fra materia e il male a fine di distruggere la morte e salvare la vita! Il punto più delicato della mortificazione è il saper spezzare il lacciuolo e liberare l’uccello, uccidere il microbo e guarire il malato, disimpegnare la vita dalla morte. È vera mortificazione che spezza ciò che è da spezzare e fortifica ciò che è da fortificare. Le mortificazioni false, e non sono rare, colpiscono senza discernimento; e sotto l’impulso del genio del male, arrivano fatalmente a spezzare quello che bisognerebbe conservare e a conservare ciò che bisognerebbe spezzare. Invece di crocifiggere nella carne i vizi e le concupiscenze, esse uccidono l’uomo, lasciandogli le sue passioni e moltiplicando i suoi vizi.

 La mano di satana e quella di Dio. — Nessun sacrificio è voluto per se stesso. L’idea del sacrificio per se stesso è satanica, perché omicida. Per l’individuo, essa mette capo logicamente al termine fatale del suicidio; per la società, alle abominazioni dei sacrifici umani. Quante aberrazioni e mostruosità ci fa vedere la storia, nel corso dei secoli, presso tutti i popoli! Dovunque, colui che S. Agostino chiama il « præpositus mortis » semina la morte. Uno dei suoi trionfi più graditi è impadronirsi di questa idea del sacrificio, una delle idee religiose più fondamentali, è farne strumento di morte. L’impronta diabolica si riconosce facilmente a questo fatto, che esso è un attentato alla dignità e all’integrità delle membra e facoltà dell’uomo; è distruttore della vita; è omicida. Nulla di ciò che è divino degrada. Senza dubbio, Dio esige talvolta il sacrificio di un membro, d’una facoltà, della salute, della vita stessa, ma lo esige in vista dello sviluppo generale. Se fa delle ferite, sono ferite che portano alla guarigione; se dà la morte, è a fine di farne scaturire la vita – Io debbo morire a me stesso, prosegue il Certosino; ma ciò « non è la distruzione né dell’anima, né del corpo, né delle facoltà, né delle attitudini, né delle aspirazioni, né dell’attività, né degli strumenti, né dei loro piaceri, né delle speranze, né della felicità. È piuttosto la loro purificazione, mediante la distruzione d’una certa viscosità che m’attacca alle cose create, e -d’una certa indipendenza che m’allontana da Dio. 《 la liberazione del mio essere, mediante la rottura dei vincoli che lo incatenano alle cose di quaggiù. Quello che bisogna spezzare, distruggere, annientare, non sono io, bensì i legami; io debbo essere liberato. E se, secondo la protesta del Precursore, vi è un io che deve diminuire e cancellarsi dinanzi a Dio, affinché cresca Lui, quest’io è quello dell’egoismo, che ricerca sé fuori di Dio, è quello della natura che si muove senza Dio Il Santo, di conseguenza « è il solo uomo veramente e totalmente ragionevole… Se gli è stato necessario passare per spogliamenti e distruzioni senza numero, egli sente che nulla del suo essere è perito in questi tormenti; che nulla di ciò che deve vivere è perduto. Al contrario, la sua vita si è svincolata nella sua purezza e nella sua libertà; è un bagno nel quale il corpo ha lasciato le sue immondezze; è un crogiuolo nel quale l’oro ha deposto le sue scorie. V’ha qui ancora uno dei suggelli della vera santità; le sue penitenze sanno immolare ciò che bisogna, senza nulla compromettere di ciò che è vitale. Le mortificazioni dei Santi quanto sono igieniche, per l’anima, anzitutto, ed anche pel corpo! ». – Ma, si obbietterà, e le esagerazioni degli anacoreti e gli esempi, che ci mettono addosso i brividi, delle gravi penitenze dei Santi? Rispondiamo, citando ancora il Certosino: « La mortificazione è un rimedio, e, in questa qualità e come in tutti i rimedi, dev’essere dosata, misurata secondo lo stato del male da guarire e secondo la capacità dell’anima e del corpo a cui dev’essere applicata. Non ogni mortificazione conviene ad ogni persona, in quella guisa che un rimedio non conviene a tutte le malattie; ci vuol discernimento nell’uso ». Parole d’oro, che dimostrano, ancora una volta, come il senso della concretezza e della storicità lo si apprende davvero nei nostri grandi maestri di morale cristiana. Com’è possibile valutare il significato dei Padri del deserto, se non si tien conto del compito storico da essi assolto? Persino il Carducci l’ha intuito, nonostante il suo odio a quella religione che predicava « la stoltezza della Croce, l’obbrobrio del mondo, la sete del dissolvimento, la rinnegazione della vita ». Dopo d’aver deplorato tutto questo, soggiungeva: « E pure, non lo negherò già io, quelle idee e quelle rappresentazioni furono storicamente necessarie ad abbattere per una volta la sozza materialità dell’Impero e ad atterrire i Trimalcioni dell’aristocrazia romana, tiranni godenti del mondo; furono necessarie a contenere la materialità selvaggia de’ barbari, a infrenare la forza cieca e orgogliosa dei discendenti di Attila di Genserico di Clodoveo: con tanta carne e tanto sangue un po’ di astinenza ci voleva ». E sta bene, M L aggiunga subito — chi ne desidera la documentazione brillante, legga i due suggestivi volumi su “Les Pères du desert” [i padri del deserto], pubblicati da Jean Brémond — che le regole dell’eremitaggio han sempre condannato ogni eccesso. Esse dicevano, ad esempio: « I digiuni eccessivi fanno lo stesso male della golosità. Le veglie immoderate sono altrettanto dannose del troppo dormire; e l’eccesso d’una astinenza indiscreta, indebolendo straordinariamente il corpo, lo riduce per necessità nello stesso stato in cui lo mette una negligenza volontaria. Il che è così vero, che noi abbiamo spesso visto delle persone, le quali, non essendo mai state soccombenti nelle battaglie contro la gola, si sono lasciate così indebolire dai digiuni eccessivi, che in seguito l’infermità e la debolezza sono state per esse l’occasione di ricadere sotto la tirannia della passione che già avevano superata. Abbiamo parimenti visto che le veglie straordinariamente indiscrete, fino a passare spesso tutte le notti senza dormire, hanno alla fine abbattuto coloro che il sonno non aveva potuto vincere ». E quando fu chiesto: « Se scorgiamo qualche fratello dormicchiare durante l’Ufficio, dobbiamo scuoterlo, perchè si mantenga desto? », un Abate rispose: « Quanto a me, se vedo un fratello che sonnecchia, io metto la sua testa sulle mie ginocchia, e l’aiuto a riposarsi ». Per ciò, poi, che riguarda i monaci, bisogna pregare Giorgio Hegel a non paragonarli ai pidocchi ed ai parassiti, perché ciò è semplicemente indizio di stoltezza. Limitiamoci ai Benedettini. La dottrina di morte, inculcata dalla morale cristiana, li ha resi i personaggi più benefici che vanti la storia umana. In secoli di sconvolgimenti e di rovine, essi seppero scrivere pagine immortali di fede e di civiltà ad un tempo. Convertirono l’Europa al Cristianesimo, mutarono le boscaglie ed i deserti in campi fecondi e conservarono l’antico sapere. Sì, furono questi pretesi « pidocchi e parassiti » che insegnarono l’agricoltura ai barbari, aprirono scuole gratuite al popolo, furono maestri di scienze e di arti, raccolsero pergamene, manoscritti, libri, salvandoli dallo sterminio, ricopiarono i classici, e ad uno storico non sospetto, il Gibbon, fecero confessare che essi contribuirono più alla letteratura ed alla civiltà che non le due illustri Università inglesi di Oxford e di Cambridge, e, si può soggiungere, che non l’idealismo hegeliano. – La mortificazione, o la morte, dal Calvario di Gerusalemme ai vari Calvari cristiani di ogni esistenza, ha sempre portato la vita; ed, aggiungiamo, ha portato la gioia. I pellegrini, che spinti dalla curiosità, andavano nei deserti a trovare gli Eremiti, erano sorpresi dall’impressione di letizia serena che constatavano in quelle colonie di monaci; e chi conosce gli uomini di Dio, sa che l’austerità loro è sempre alleata col sorriso. Ciò è naturale. Poiché, qual altro sentimento se non di spirituale allegrezza può provare e nutrire chi si libera dalle miserie dello spirito, dagli orizzonti limitati del suo piccolo io, per rinnovarsi in Dio e per spiccare ad ogni ora il suo libero volo? Anche se la ferita prodotta dal sacrificio è sanguinante, la coscienza è tranquilla e felice, nella nobile fierezza della vittoria conquistata.

3. – Il sacrificio cristiano.

Con tale idea che bisogna morire per vivere, siamo già arrivati al concetto completo del sacrificio cristiano? Non ancora.. Innanzi tutto, il Cristianesimo sviluppa l’idea che il vero sacrificio ha origine dall’amore. La Croce è amore, e se tutti possono fare sacrifici per raggiungere uno scopo (poiché non c’è ideale umano che possa realizzarsi per altra via, tanto che anche l’egoista batte la strada del sacrificio e persino l’avaro non riempie mai senza sacrificio la sua cassaforte), il Cristiano è colui che si sacrifica per amore. Non basta ancora. Una madre pagana può sacrificarsi per amore dei figli; un soldato greco o romano può morire fieramente per amore della patria. Per avere un sacrificio cristiano, occorre non qualcosa di meno, ma qualcosa di più, che si aggiunga a questo e lo trasformi divinamente. Noi siamo uniti a Gesù Cristo è costituiamo un unico organismo con Lui e coi nostri fratelli. Gesù non è un essere isolato e noi non viviamo atomisticamente divisi. Viviamo in Lui, per Lui, con Lui. Ogni nostro sacrificio, perciò, è non solo nostro, ma Suo ed ha un influsso su tutto quanto l’organismo della Chiesa. Egli è morto per darci la vita; e noi moriamo con Lui; Egli si è sacrificato; e noi ci sacrifichiamo con Lui. I suoi patimenti furono la redenzione del mondo; e noi cooperiamo con Lui all’opera redentrice. San Paolo, con parole che a prima vista possono sembrare audaci, non esitava a scrivere ai fedeli di Colossi: « Compio nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, per il corpo suo che è la Chiesa ». In sè certo, nulla mancava all’integrità del sacrificio di Cristo, di valore infinito; ma Cristo non è solo; è capo della Chiesa, dell’organismo del quale noi siamo le membra, che debbono per la somiglianza convenire col Capo; noi, quindi, compiamo in noi ciò che manca al corpo mistico di Cristo. In linea pratica: quando io mi mortifico, il mio atto, per l’unione di carità che ho con Cristo, è divinizzato dalla grazia, ed è mio, ma non del mio piccolo io isolato, bensì del mio vero io, che forma un unico tutto con Cristo e con la Chiesa. Io, quindi, soffro, combatto, lavoro, mi mortifico con Cristo. Egli, con la Sua forza divina, mi aiuta e mi sprona a vincere ed a superare me stesso; è in me, mentre lotto e procedo innanzi fra sforzi e abnegazioni; i miei sacrifici continuano quello del Golgota; le mie piccole croci costituiscono un’unica Croce con la Sua; e, per usare ancora un’espressione di san Paolo ai credenti di Filippi, a me ed a tutti noi « è stato dato il dono non solo di credere in Cristo, ma anche di patire per lui Ogni singhiozzo ha un accento divino; ogni mortificazione è simile ad una nota musicale che io scrivo nella storia della Chiesa. Chi guarda le cose alla superficie, ritiene eguali due sol, due la, ossia una stessa mortificazione fatta da uno stoico e da un cristiano; ma, quantunque l’uno e l’altro abbiano compiuto un gesto simile, il valore della nota dipende dal canto in cui essa entra. Il canto dello stoico mira solo alla dignità umana; il canto del cristiano mira all’armonia della musica divina, che si inizia con la Passione e prosegue nei secoli. Il sacrificio del Cristiano è, quindi, un atto di amore a Dio in unione con Cristo, perchè la carità, ordinando tutti gli atti delle virtù infuse con lei connesse, dà a questi atti la propria forma d’amore e di merito sostanziale; ed è altresì un atto di amore per i fratelli, in quanto, siccome amiamo Gesù nel fratello nostro, non differiscono specificamente l’atto col quale si ama Dio e quello col quale si ama il prossimo, ed in quanto altresì, per il dogma della Comunione dei santi, ogni azione buona individuale ha una ripercussione in tutto l’organismo della Chiesa. La nostra dignità, non che essere diminuita, è in tal modo soprannaturalmente elevata ed io sento quella che Bossuet definiva « la terribile serietà della vita umana ». Di qui il concetto di riparazione a Dio per le colpe non solo nostre, ma anche altrui; di qui la vera imitazione di Cristo, che consiste nel sacrificarsi per i fratelli; di qui gli eroi della carità cristiana, che in ogni tempo, non con chiacchiere vuote, ma coi fatti, hanno dimostrato che il « cruciato Martire » insegna efficacemente la grandezza di animo e le generosità feconde dell’abnegazione; di qui il saluto, opposto alla bestemmia volgare, e così eloquente nel suo significato storico: « Ave, Crux, spes unica » La Croce non è morte, ma è l’unica speranza di vita.

4. – Il problema del dolore.

È superfluo spendere parole per indicare come la stessa attuazione del programma « morire per vivere » venga in tale modo facilitato ed acquisti una divina fisionomia. Ed è anche superfluo insistere sulla soluzione cristiana, che sgorga da tali premesse, del problema del dolore. Nessuno mai capirà tale problema, se non lo imposta e non ricerca una soluzione in funzione dell’amore. Io non lo esamino in un paragrafo speciale, perchè tutto il mio volumetto lo risolve. Il Cristiano è colui che alla domanda:

« Perchè il dolore? », risponde: « Perché, nelle attuali condizioni esso è la prova dell’amore nostro per Dio ». Sarebbe facile amare Dio, se fossimo sempre in una barca elegante su un lago di delizie; ma il vero modo di amare Dio è di essergli figli fedeli anche nel dolore. Il Cristiano, perciò, non si lascia ammaliare dalle correnti pessimistiche, pronte con Buddha a rinunciare alla vita pur di sopprimere il dolore, o disposte con Schopenhauer a proclamare l’irrazionalità del reale; ma muta, piuttosto, il dolore in amore, traendo profitto dalle sue pene e cambiando in celesti ricchezze tutti i travagli della vita. Soffrire con Cristo e per i fratelli: ecco la vera visione cristiana della sofferenza. Soffro io; ma non sono io che soffro; è Cristo che soffre in me. La croce che ho sulle spalle è la Sua. Egli me la impone e mi sussurra: « Avanti, per amore mio, per le anime… Avanti, un giorno ancora, ancora un anno, finchè Io vorrò… Nessuna lagrima tua, santificata così, cade a terra invano; il mio Cuore la raccoglie e serve alla Vita del mondo.. E le anime, che hanno approfondito e che vivono il Cristianesimo con serietà, giungono, anche nei loro più crudeli martiri, a ripetere il grido caro a santa Liduina, fra i tormenti delle sue gravissime malattie: « Io non sono da compiangere: sono felice ». Ogni dolore, diceva Argene Fati, la santa giovane, che fu una delle prime apostole della Gioventù Femminile d’Italia, si trasforma in un gioiello, in cui brilla il raggio dell’Amore.

5. – Conclusione.

Negli Atti commoventi del martirio di santa Perpetua e Felicita, leggiamo che quest’ultima, al carceriere che la interrogava in qual modo avrebbe potuto aver il coraggio di divenire pasto delle belve, rispose: « Vi sarà dentro di me un altro, il quale patirà per me, perché anch’io mi dispongo a morire per Lui ». – È la parola di tanti martiri oscuri del dovere quotidiano, che nel silenzio operoso delle pareti domestiche, fra le esigenze del lavoro, sul letto dell’agonia, nella battaglia d’ogni ora contro le tentazioni, le insidie e gli istinti malvagi, soffrono con Cristo e sanno che solo la crocefissione prepara lo squillo lieto, annunziatore della gloria del Risorto. – Il Cristiano sa che deve combattere e sacrificarsi; ma non teme, seguace anche in ciò delle Martiri suaccennate: « Sorse il dì della vittoria, ed esse uscirono dalla prigione verso l’anfiteatro, liete e composte in volto, come quelle che s’avviavano al cielo: trepidavano, è vero; non però di paura, ma piuttosto di gioia ». Furono straziate dapprima con staffili, passando tra le file dei venatores; ma anche di ciò « furono liete, perché eran messe in qualche modo a parte dei patimenti del Signore ». Con tale animo affrontarono, sublimi, la morte. Non di smidollati, schiavi di ogni passione ed incapaci di combattere; ma di queste anime, cristianamente forti, abbiamo bisogno. In ogni campo ci porteranno una nuova primavera ridente, annunciatrice d’un avvenire degno di Cristo.