DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2023)
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Stazione: a S. Pietro.
Semidoppio Dom. privil; di IParamentolacei.
Come le tre prime profezie del Sabato Santo con le loro preghiere sono consacrate ad Adamo, a Noè, ad Abramo, così il Breviario e il Messale, durante le tre settimane del Tempo della Settuagesima, trattano di questi Patriarchi che la Chiesa chiama rispettivamente il « padre del genere umano », il « padre della posterità » e il « padre dei credenti ». Adamo, Noè e Abramo sono le figure del Cristo nel mistero pasquale; lo abbiamo già dimostrato per i due primi, nelle due Domeniche della Settuagesima e della Sessagesima, ora lo mostreremo di Abramo. Nella liturgia ambrosiana la Domenica di Passione era chiamata « Domenica di Abramo » e si leggevano, nell’ufficiatura, i “responsori di Abramo”. Anche nella liturgia romana il Vangelo della Domenica di Passione è consacrato a questo Patriarca. « Abramo vostro Padre, – disse Gesù, – trasalì di gioia nel desiderio di vedere il mio giorno: Io vide e ne ha goduto. In verità, in verità vi dico io sono già prima che Abramo fosse ». – Dio aveva promesso ad Abramo che il Messia sarebbe nato da lui e questo Patriarca fu pervaso da una grande gioia, contemplando in anticipo, con la sua fede, l’avvento del Salvatore e allorché ne vide la realizzazione, contemplò con novella gioia l’avvenuto mistero dal limbo ove attendeva con i giusti dell’antico Testamento, che Gesù venisse a liberarli dopo la sua Passione. Quando al Tempo di Quaresima si aggiunsero le tre settimane del Tempo di Settuagesima, la Domenica consacrata ad Abramo divenne quella di Quinquagesima. Infatti, le lezioni e i responsori dell’Ufficio di questo giorno descrivono l’intera storia di questo Patriarca. Volendo formarsi un popolo suo, nel mezzo delle nazioni idolatre (Grad. e Tratto). Dio scelse Abramo come capo di questo popolo e lo chiamò Abramo, nome che significa padre di una moltitudine di nazioni. « E lo prese da Ur nella Caldea e lo protesse durante tutte le sue peregrinazioni » (Intr., Or.). « Per la fede, – dice S. Paolo – colui che è chiamato Abramo, ubbidì per andare al paese che doveva ricevere in retaggio e partì senza saper dove andasse. Egli con la fede conseguì la terra di Canaan nella quale visse più di 25 anni come straniero. È in virtù della sua fede che divenne, già vecchio, padre di Isacco e non esitò a sacrificarlo, in seguito ad ordine di Dio, sebbene fosse suo figlio unico, nel quale riponeva ogni speranza di vedere effettuate le promesse divine d’una posterità numerosa. (Agli Ebrei, XI. 8,17) – Isacco infatti rappresenta Cristo allorché fu scelto « per essere la gloriosa vittima del Padre » (VI Orazione del Sabato Santo.); allorché portò il fastello sul quale stava per essere immolato, come Gesù portò la Croce sulla quale meritò la gloria colla sua Passione; allorché fu rimpiazzato da un montone trattenuto per le corna dalle spine di un cespuglio, come Gesù, l’Agnello di Dio ebbe, dicono i Padri, la testa contornata dalle spine della sua corona; e specialmente allorché liberato miracolosamente dalla morte, fu reso alla vita per annunziare che Gesù dopo essere stato messo a morte, sarebbe risuscitato. Così con la sua fede, Abramo, che credeva senza esitare ciò che stava per avvenire, contemplò da lungi il trionfo di Gesù sulla Croce e ne gioì. Fu allora che Dio gli confermò le sue promesse: “Poiché tu non mi hai rifiutato il tuo unico figlio, io ti benedirò, ti darò una posterità numerosa come le stelle del cielo e l’arena del mare” (VI orat. Del Sabato santo). Queste promesse Gesù le realizzò con la sua Passione. « Il Cristo, dice S. Paolo, ci ha redenti pendendo dalla croce perché la benedizione, data ad Abramo fosse comunicata ai Gentili dal Cristo, e così noi ricevessimo mediante la fede la promessa dello Spirito », cioè lo Spirito di adozione che ci era stato promesso. « Fa’, o Dio, prega la Chiesa nel Sabato Santo, che tutti i popoli della terra divengano figli di Abramo, e, mediante l’adozione, moltiplica i figli della promessa » (3a settimana dopo l’Epifania, feria 2a – martedì) . Si comprende ora perché la Stazione oggi si fa a S. Pietro, essendo il Principe degli Apostoli che fu scelto da Gesù Cristo per essere il capo della sua Chiesa e, in una maniera assai più eccellente che Abramo stesso, « il padre di tutti i credenti ». – La fede in Gesù, morto e risuscitato, che meritò ad Abramo di essere il padre di tutte le nazioni e che permette a tutti noi di divenire suoi figli, è l’oggetto del Vangelo. Gesù Cristo vi annunzia la sua Passione ed il suo trionfo e rende la vista ad un cieco dicendogli: La tua fede ti ha salvato. Questo cieco, commenta S. Gregorio, recuperò la vista sotto gli occhi degli Apostoli, onde quelli che non potevano comprendere l’annunzio di un mistero celeste fossero confermati nella fede dai miracoli divini. Infatti bisognava che vedendolo di poi morire nel modo come lo aveva predetto, non dubitassero che doveva anche risuscitare ». (4° e 5° Orazione). L’Epistola, a sua volta mette in pieno valore la fede di Abramo e ci insegna come deve essere la nostra. « La fede senza le opere, scrive S. Giacomo, è morta. La fede si mostra con le opere. Vuoi sapere che la fede senza le opere è morta? Abramo, nostro padre, non fu giustificato dalle opere, quando offri suo figlio Isacco su l’altare? Vedi come la fede cooperò alle sue opere e come per mezzo delle opere fu resa perfetta la fede. Così si compi la Scrittura che dice: Abramo credette a Dio e gli fu imputato a giustizia e fu chiamato amico di Dio. Voi vedete che l’uomo è giustificato dalle opere e non dalla fede solamente » (3° Notturno). L’uomo è salvato non per essere figlio di Abramo secondo la carne, ma per esserlo secondo una fede simile a quella di Abramo. « In Cristo Gesù, scrive S. Paolo, non ha valore l’essere circonciso (Giudei), o incirconciso (Gentili), ma vale la fede operante per mezzo dell’amore ». « Progredite nell’amore, dice ancora l’Apostolo, come Cristo ci ha amati e ha offerto se stesso per noi in oblazione a Dio e in ostia di odore soave » (Ad Gal. 5, 6). – In questa domenica e nei due giorni seguenti, ha luogo in moltissime chiese, una solenne adorazione del SS.mo Sacramento, in espiazione di tutte le colpe che si commettono in questi tre giorni. Questa preghiera di espiazione, conosciuta sotto il nome di « quarant’ore », fu istituita da S. Antonio Maria Zaccaria (5 luglio) nella Congregazione dei Barnabiti, e si generalizzò, venendo riferita particolarmente a questa circostanza, sotto il pontificato di Clemente XIII, il quale nel 1765, l’arricchì di numerose indulgenze.
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.
V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
Introitus
Ps XXX: 3-4
Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me. –
[Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guidami e assistimi.]
Ps XXX:2
In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me. –
[In Te, o Signore, ho sperato, ch’io non resti confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e sàlvami.]
Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me. –
[Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guídami e assistimi.]
Kyrie
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
Gloria
Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.
Orémus.
Preces nostras, quaesumus, Dómine, cleménter exáudi: atque, a peccatórum vínculis absolútos, ab omni nos adversitáte custódi.
[O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le nostre preghiere: e liberati dai ceppi del peccato, preservaci da ogni avversità].
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.
1 Cor XIII: 1-13
“Fratres: Si linguis hóminum loquar et Angelórum, caritátem autem non hábeam, factus sum velut æs sonans aut cýmbalum tínniens. Et si habúero prophétiam, et nóverim mystéria ómnia et omnem sciéntiam: et si habúero omnem fidem, ita ut montes tránsferam, caritátem autem non habúero, nihil sum. Et si distribúero in cibos páuperum omnes facultátes meas, et si tradídero corpus meum, ita ut árdeam, caritátem autem non habuero, nihil mihi prodest. Cáritas patiens est, benígna est: cáritas non æmulátur, non agit pérperam, non inflátur, non est ambitiósa, non quærit quæ sua sunt, non irritátur, non cógitat malum, non gaudet super iniquitáte, congáudet autem veritáti: ómnia suffert, ómnia credit, ómnia sperat, ómnia sústinet. Cáritas numquam éxcidit: sive prophétiæ evacuabúntur, sive linguæ cessábunt, sive sciéntia destruétur. Ex parte enim cognóscimus, et ex parte prophetámus. Cum autem vénerit quod perféctum est, evacuábitur quod ex parte est. Cum essem párvulus, loquébar ut párvulus, sapiébam ut párvulus, cogitábam ut párvulus. Quando autem factus sum vir, evacuávi quæ erant párvuli. Vidémus nunc per spéculum in ænígmate: tunc autem fácie ad fáciem. Nunc cognósco ex parte: tunc autem cognóscam, sicut et cógnitus sum. Nunc autem manent fides, spes, cáritas, tria hæc: major autem horum est cáritas.”
[“Fratelli: Se parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, e non ho carità, sono come un bronzo sonante o un cembalo squillante. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutto lo scibile, e se avessi tutta la fede così da trasportare i monti, e non ho la carità, non sono nulla. E se distribuissi tutte le mie sostanze in nutrimento ai poveri ed offrissi il mio corpo a esser arso, e non ho la carità, nulla mi giova. La carità è paziente, è benigna. La carità non è invidiosa, non è avventata, non si gonfia, non è burbanzosa, non cerca il proprio interesse, non s’irrita, non pensa al male; non si compiace dell’ingiustizia, ma gode della verità: tutto crede, tutto spera, tutta sopporta. La carità non verrà mai meno. Saranno, invece, abolite le profezie, anche le lingue cesseranno, e la scienza pure avrà fine. Perché la nostra conoscenza è imperfetta, e imperfettamente profetiamo; quando, poi, sarà venuto ciò che è perfetto, finirà ciò che è imperfetto. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, giudicavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma diventato uomo, ho smesso ciò che era da bambino. Adesso noi vediamo attraverso uno specchio, in modo oscuro; ma allora, a faccia a faccia. Ora conosco in parte; allora, invece, conoscerò così, come anch’io sono conosciuto. Adesso queste tre cose rimangono: la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di esse è la carità”.
I doni che qui enumera S. Paolo sono di grande importanza. Parlar lingue sconosciute; parlar come parlano tra loro gli Angeli in cielo; predire il futuro; intendere i misteri, spiegarli e persuaderli agli altri; avere il dono d’una fede, che all’occorrenza operi prodigi strepitosi, come il trasporto delle montagne; aver l’eroismo di distribuire tutte le proprie sostanze, di gettarsi nel fuoco o di sacrificare, comunque, la propria vita per salvare quella degli altri, non è certamente da tutti. Il possedere uno solo di questi doni, il compiere una sola di queste azioni, basterebbe a formare la grandezza di un uomo. S. Paolo, che doveva conoscer bene tutti questi doni, da quello di parlar lingue straniere a quello di voler sacrificarsi per il prossimo, afferma che. son superati da un altro bene: la carità. È tanto grande la carità, che senza di essa tutti gli altri doni mancano di pregio. È vero che questi doni non sono inutili per coloro, in cui il favore di Dio li concede; ma sono inutili, senza la carità, per il bene spirituale di chi li possiede. Sono come il danaro che uno distribuisce agli altri, non serbando nulla per sé. Arricchisce gli altri, ed egli si trova in miseria. – Nelle relazioni col prossimo la carità ci fa esercitare la mansuetudine, la pazienza, la mortificazione dell’amor proprio, l’umiltà, il disinteresse. Essa ci spinge a toglier disordini, ad allontanare scandali, a sopprimere abusi, a evitar liti, a estinguere odi. Se tutti gli uomini nelle loro relazioni fossero guidati nella carità, non ci sarebbero più tribunali. La carità, insomma, indirizza, perfeziona, innalza, avvalora, santifica tutte le nostre azioni. – L’eccellenza della carità risalta ancor più dal fatto che durerà eternamente. La carità non verrà mai meno. In cielo non ci saranno più profezie, non ci sarà più il dono delle lingue, non essendovi alcuno che abbia bisogno di essere istruito. Ci sarà ancora, invece, la carità. Su questa terra abbiam bisogno della fede, della speranza e della carità, che sono come i tre organi essenziali della vita cristiana, e sono, quindi, indispensabili per la nostra santificazione. Ma la fede e la speranza cesseranno nell’altra vita. – Se quaggiù, non conoscendo Dio che per la fede, lo amiamo; quanto più deve crescere il nostro amore quando lo vedremo svelatamente? Quando contempleremo la sua bellezza che supera la bellezza delle anime più giuste e più sante; che supera la bellezza di tutti gli spiriti celesti più eccelsi; che supera tutto ciò che di bello e di buono si può immaginare, la nostra carità non avrà più limiti. Tutti gli ostacoli che quaggiù si oppongono alla carità, lassù saranno tolti. Tutto, invece, servirà ad accenderla. Se Dio non ci ha dato doni straordinari; se non abbiamo un forte ingegno, un’istruzione profonda: se non possediamo beni di fortuna: se la salute non è di ferro; se il nostro aspetto non è gradevole: non siamo inferiori, davanti a Dio, a tutti quelli che posseggono questi doni, qualora abbiamo la carità. Anzi siamo a essi immensamente superiori, se tutti questi loro doni non sono accompagnati dalla carità. Noi dobbiam curare di essere accetti agli occhi di Dio. In fondo, è un niente tutto quel che non è Dio. « Dio è Carità » (1 Giov. IV, 8). In questa fornace ardente accendiamo i nostri cuori qui in terra, se vogliamo andare un giorno a inebriarci in Dio su nel Cielo.
[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]
Graduale:
Ps LXXVI: 15; LXXVI: 16
Tu es Deus qui facis mirabília solus: notam fecísti in géntibus virtútem tuam.
[Tu sei Dio, il solo che operi meraviglie: hai fatto conoscere tra le genti la tua potenza.]
Liberásti in bráchio tuo pópulum tuum, fílios Israel et Joseph
[Liberasti con la tua forza il tuo popolo, i figli di Israele e di Giuseppe.]
Tratto:
Ps XCIX: 1-2
Jubiláte Deo, omnis terra: servíte Dómino in lætítia,
V. Intráte in conspéctu ejus in exsultatióne: scitóte, quod Dóminus ipse est Deus.
V. Ipse fecit nos, et non ipsi nos: nos autem pópulus ejus, et oves páscuæ ejus.
[Acclama a Dio, o terra tutta: servite il Signore in letizia.
V. Entrate alla sua presenza con esultanza: sappiate che il Signore è Dio.
V. Egli stesso ci ha fatti, e non noi stessi: noi siamo il suo popolo e il suo gregge.]
Evangelium
Luc XVIII: 31-43
“In illo témpore: Assúmpsit Jesus duódecim, et ait illis: Ecce, ascéndimus Jerosólymam, et consummabúntur ómnia, quæ scripta sunt per Prophétas de Fílio hominis. Tradátur enim Géntibus, et illudétur, et flagellábitur, et conspuétur: et postquam flagelláverint, occídent eum, et tértia die resúrget. Et ipsi nihil horum intellexérunt, et erat verbum istud abscónditum ab eis, et non intellegébant quæ dicebántur. Factum est autem, cum appropinquáret Jéricho, cæcus quidam sedébat secus viam, mendícans. Et cum audíret turbam prætereúntem, interrogábat, quid hoc esset. Dixérunt autem ei, quod Jesus Nazarénus transíret. Et clamávit, dicens: Jesu, fili David, miserére mei. Et qui præíbant, increpábant eum, ut tacéret. Ipse vero multo magis clamábat: Fili David, miserére mei. Stans autem Jesus, jussit illum addúci ad se. Et cum appropinquásset, interrogávit illum, dicens: Quid tibi vis fáciam? At ille dixit: Dómine, ut vídeam. Et Jesus dixit illi: Réspice, fides tua te salvum fecit. Et conféstim vidit, et sequebátur illum, magníficans Deum. Et omnis plebs ut vidit, dedit laudem Deo.” –
[In quel tempo prese seco Gesù i dodici Apostoli, e disse loro: Ecco che noi andiamo a Gerusalemme, e si adempirà tutto quello che è stato scritto da1 profeti intorno al Figliuolo dell’uomo. Imperocché sarà dato nelle mani de’ Gentili, e sarà schernito e flagellato, e gli sarà sputato in faccia, e dopo che l’avran flagellato, lo uccideranno, ed ei risorgerà il terzo giorno. Ed essi nulla compresero di tutto questo, e un tal parlare era oscuro per essi, e non intendevano quel che loro si diceva. Ed avvicinandosi Egli a Gerico, un cieco se ne stava presso della strada, accattando. E udendo la turba che passava, domandava quel che si fosse. E gli dissero che passava Gesù Nazareno. E sclamò, e disse: Gesù figliuolo di David, abbi pietà di me. E quelli che andavano innanzi lo sgridavano perché si chetasse. Ma egli sempre più esclamava: Figliuolo di David, abbi pietà di me. E Gesù soffermatosi, comandò che gliel menassero dinnanzi: E quando gli fu vicino lo interrogò, dicendo: “Che vuoi tu ch’Io ti faccia? E quegli disse: Signore, ch’io vegga. E Gesù dissegli: Vedi; la tua fede ti ha fatto salvo. E subito quegli vide, e gli andava dietro glorificando Dio. E tutto il popolo, veduto ciò, diede lode a Dio.]
Omelia
(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)
LA PASSIONE DI CRISTO E LA CECITÀ DEGLI UOMINI
Quando Isacco, col fastello di legna, saliva la montagna dell’immolazione, poteva volgersi al padre che lo seguiva e domandargli: « Padre, dov’è la vittima? ». Non sapeva il giovanetto d’esser lui, la vittima. Ma Gesù ascendendo la collina di Sion non ignorava di essere il vero agnello dell’imminente sacrificio. La luna nuova di Nisan era apparsa nel cielo. Sui monti s’accendevano i fuochi. Uomini appositamente incaricati percorrevano il paese annunciando che fra quattordici giorni si sarebbe celebrata la Pasqua. Le carovane cominciavano ad organizzarsi e dai paesi più lontani si mettevano in viaggio per arrivare in tempo a purificarsi prima della festa. Gesù, che allora era in Perea, li vedeva passare allegri e li udiva lontani cantare i salmi più patetici. Per tutti la Pasqua significava la vita, ma per Lui significava morte. Già l’ora scritta nei Libri era scoccata; già l’abbominazione entrava nel luogo santo. – Gesù con i suoi discepoli mosse verso Gerusalemme, camminava avanti a tutti taciturno. Gli Apostoli, dietro, lo seguivano pieni di stupore, e la turba presentendo un’angoscia ignota era piena d’un misterioso sgomento. Gesù prese i Dodici in disparte e disse loro: « Ecco che noi ascendiamo a Gerusalemme, e si compirà tutto quello ch’è nei Profeti. Sarò tradito, schernito, flagellato, coperto di sputi. Sarò ucciso ». Gli Apostoli inorridirono. Or ecco, Cristiani: Gesù ascende ancora verso la città, o meglio, verso ogni città, ogni paese. Perché in tutte le città, in tutti i paesi la settimana del carnevale è la settimana della passione di Cristo. E nuovamente Cristo, per i peccati, verrà tradito, deriso, flagellato, sputacchiato, ucciso. È tradito quegli che è la forza di Dio e che ha pronte al suo cenno dodici legioni di Angeli. È deriso quegli che è la Sapienza increata. È flagellato quegli che è la stessa innocenza e che non conobbe peccato. È sputacchiato quegli che è la gloria di Dio, in cui gli Angeli intendono lo sguardo tremando. È ucciso quegli che è l’autore della vita. Tutto questo per il peccato. Tutto questo perché siam ciechi. 1. LA PASSIONE DI CRISTO È IL PECCATO. Una vecchia biografia di S. Domenico riferisce il seguente fatto: Una donna di costumi dubbi, contrariamente alle sue abitudini, una sera trovasi sola in casa. A un tratto udì bussare alla porta, stranamente. Va ad aprire. Le appare sulla soglia un uomo bellissimo d’aspetto, ma in preda a profonda tristezza: le chiede ospitalità per una notte. La donna lo fa entrare, gentilmente lo prega di sedere, gli offre parte della sua cena. Lo sconosciuto accetta e tace. Ma ecco che, sui panni dell’ospite, sulla sedia dove è seduto, appariscono chiazze di sangue. La donna spaventata gli cambia tovagliolo. Dopo qualche istante, il sangue affiora nuovamente, e la macchia rossa è là davanti a lei, sul petto dello sconosciuto. Allora la misera capisce. – L’uomo seduto alla sua mensa non è un uomo qualunque è l’uomo del Golgotha; e il sangue che gli scorre è il prezzo dei nostri peccati. Noi pecchiamo e il sangue sgorga dal suo cuore squarciato. In questa settimana Gesù passa per le nostre vie, per i ritrovi, per le famiglie: ha sul volto una tristezza mortale; ha sul petto una piaga mortale, che fa sangue. « Ecco – diceva Gesù – il Figliuol dell’uomo sarà tradito… » Ma allora fu tradito da uno solo, nel segreto; oggi invece sono folle deliranti di peccatori che lo tradiscono; non nel segreto e nell’ombra di un orto, ma sfacciatamente nelle piazze, nei pubblici ritrovi, nei balli, nei veglioni. « Ecco – diceva Gesù – il Figliuol dell’uomo sarà schernito. Gli copriranno gli occhi con una benda perché indovini chi lo percuota. Gli porranno, sulle spalle, uno straccio rosso che rassomigli alla porpora dei re, e tra le mani, una canna, che raffiguri lo scettro dei re ». E Gesù fu mascherato da re da burla!… Oggi sono gli uomini che si mascherano il volto e tramutano le vesti per offenderlo senza vergogna. – « Ecco — diceva Gesù — e il Figliuol dell’Uomo sarà coperto di sputi ». Il purissimo volto del Signore, quello che nel cielo farà la gioia dei Santi per tutta l’eternità, fu macchiato di lordure!… ma allora erano pochi soldatacci; in questa settimana, moltissimi si credono lecito di gettare il loro insulto immondo, il loro peccato vergognoso contro l’adorabile maestà del Signore. – « Ecco — diceva Gesù — e il Figliuol dell’uomo sarà ucciso ». Morire per gli uomini, immolarsi per la salvezza delle anime nostre, spargere tutto il suo sangue divino per lavare i nostri delitti mentre gli uomini, coi loro peccati, col loro diabolico carnevale, dimostrano di non saperne che fare della redenzione cruenta di Gesù Cristo! Quæ utilitas in sanguine meo! Questo pensiero fu il tormento più atroce d’ogni tormento, e i Cristiani lo rinnovano in questi giorni di pazza allegria.. Bisogna proprio dire che non comprendiamo nulla di ciò che v’è nel Cuore sacro di Gesù, bisogna proprio dire che siamo ciechi. – 2. LA NOSTRA CECITÀ. Intanto la tristissima comitiva era giunta alle porte di Gerico. Gesù taceva ancora e intorno v’era ancora un arcano sgomento. In quel camminar silenzioso e grave, s’udì levarsi dal ciglio della via un grido straziante: « Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me ». Era un povero cieco, che sdraiato nel polverone della strada, s’era accorto che passava il Signore. La folla gli impose di tacere perché non disturbasse la mestizia di quel viaggio estremo. Ma l’infelice gridò più alto di prima: « Gesù, figlio di Davide, pietà di me! ». – «Che vuoi? » gli disse il Maestro che l’aveva udito. « Ch’io veda, perché son cieco ». – « Guarda! » rispose il Signore, semplicemente. E il cieco vide. « Ch’io veda, perché sono cieco! » gridiamo noi pure a Gesù che oggi passa vicino al nostro cuore. « Ch’io veda — diciamogli — l’orribile cosa che è il peccato; ch’io veda come fu per il peccato che tu hai tanto patito; ch’io veda come al mondo non v’è un male peggiore del peccato ». Gesù aprirà gli occhi dell’anima nostra, e noi vedremo il bene e il male. – Allora questi giorni di carnevale per noi non passeranno in peccati, ma in opere buone di riparazione per tanti ciechi peccatori; non passeranno nei divertimenti impuri del mondo, ma nella serena letizia del Signore. – In una parrocchia un grande crocifisso minacciava di staccarsi dal legno. Il curato chiama il fabbro per ribadire i chiodi che sostengono l’immagine del Salvatore morente. Il fabbro appoggia la scala alla parete e sale. Giunto al crocifisso subito sente risvegliarsi quella fede che da molto tempo non aveva praticata e prova una profonda amarezza. Egli aveva tante volte coi suoi peccati ribaditi quei chiodi nella carne viva del Figlio di Dio. Ma il dolore invade il suo cuore: gli occhi son pieni di lacrime: la mano che vibra il martello è inerte. « Signor parroco, non posso! no, veramente non posso… ». Oh se nell’ora delle tentazioni fosse vivo in noi il pensiero delle sofferenze di Gesù, se nelle lusinghe del carnevale, l’immagine del crocifisso ci stesse davanti e noi pensassimo che i dolori del Cristo, e le angosce della sua passione diventano inutili per il peccato!… – I veri carnefici di Gesù non furono i soldati Romani, dalle maniche rovesciate, che nel corpo di guardia della cittadella Antonia flagellarono le spalle del Signore: i veri carnefici di Gesù siamo noi. – – FIGLI DELLA TENEBRA E FIGLI DELLA LUCE. In piena assemblea, Caifa, il gran sacerdote di quell’anno, s’era alzato a dire la sua proposta terribile: « Per conto mio, è necessario che uno muoia per tutti ». Quell’uno, tutti capirono, era Gesù di Nazareth. Ma Gesù era lontano venti miglia da Gerusalemme, in una borgata nominata Efraim, ove si tratteneva co’ suoi discepoli in conversazioni intime e in preghiera. Tuttavia, Egli non ignorava le risoluzioni minacciose del Sinedrio contro di Lui, e quando la festa di Pasqua fu vicina, si pose in viaggio verso la città della sua morte. Giunsero in vista della città di Gerico. Quando Gesù stava per entrarvi, una gran folla lo accompagnava. Il suo Nome passava altamente sulla bocca di tutti. Anche un cieco si mise a gridare: « Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me ». Bartimeo era il suo nome ed invano gli si voleva imporre di zittire, ché egli sempre più forte gridava: « Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me ». E Gesù, che già era passato oltre, intenerito da quelle pietose voci, si fermò e: « Chiamatelo », soggiunse. « Coraggio, alzati! — adesso tutti gli dicevano, — egli ti chiama ». Ma l’uomo già si era gettato via il mantello e d’un salto si portò davanti al Signore che gli disse: « Che cosa desideri da me? ». « Maestro buono, e che cosa può desiderare un cieco se non di vedere? ». « Ebbene, che tu veda! ». E da quel momento Bartimeo cessò di essere cieco. Dal brano evangelico, si presenta da sé alla nostra anima il contrasto tra Caifa e Bartimeo, tra il Sinedrio e i discepoli del Signore. Caifa ha gli occhi, ma non vede la luce vera venuta in questo mondo: egli è figlio della tenebra; Bartimeo è un povero cieco, eppure egli vede la luce vera che passa davanti a sé: egli è figlio della luce. Il Sinedrio per festeggiare la Pasqua brama la morte del Redentore, i discepoli invece lo accompagnano con affetto e con mestizia. Cristiani, quello che fu una volta si rinnova ancora nei secoli; si rinnova ancora in questa settimana. Il mondo, come un novello Caifa, s’alza a proclamare la morte di Gesù; e le turbe lo seguono per mettere in croce un’altra volta il Redentore divino. « Ecco, — ripete Egli tristemente — mi flagelleranno di nuovo con le loro orge, coi loro balli inverecondi, con i loro spettacoli impudichi; mi sputeranno di nuovo sul volto con le bestemmie, con le parole oscene; mi uccideranno coi loro peccati ». – Soltanto qualche anima, in questa settimana, innalzerà a Lui che passa la preghiera di Bartimeo: « Signore, che io veda! che io veda come il carnevale mondano altro non è che un resto di paganesimo, che io veda che in fondo a questi piaceri c’è il veleno mortale, ch’io veda che lontano da te non c’è allegria né salvezza ». – Soltanto pochi, in questa settimana, accompagneranno Gesù, consolandolo con la loro compagnia e col loro affetto. Ma queste anime, ma questi pochi sono i figli della luce. – 1. FIGLI DELLA TENEBRA. Per quale strada camminasse Dante non ce l’ha detto, quando vide uno spettacolo strano e pietoso. Un pastorello, sospingendo un suo branco di pecore, s’era trovato a passare non lungi da un pozzo circondato da un muricciolo. Ed ecco una pecora imprudente correre da quella parte, e, credendo di saltare un ostacolo, precipita nel pozzo. Allora, dietro alla sventata, due altre pecore presero la rincorsa, e poi tre e poi tutte. Inutilmente il pastore, piangendo e gridando, con le braccia e col petto cercava di frenarle nel folle impeto; giacché una dopo l’altra, tutte caddero nel pozzo. Forse aveva davanti alla mente questa scena quando il Poeta nella sua Divina Commedia scrisse quel verso proverbiale: « Uomini siate e non pecore matte! ché se una pecora si gettasse da una ripa di mille passi, tutte l’altre l’andrebbero dietro; e se una pecora per alcuna cagione al passare d’una strada salta, tutte l’altre saltano, eziandio nulla veggendo da saltare ». Ma a me pare, e parrebbe così anche a Dante se ancor fosse vivo, che moltissimi Cristiani sono più matti delle pecore matte. Vedono un compagno, un amico, un parente che in questi giorni salta nell’abisso della corruzione e del peccato, ed essi irresistibilmente vanno dietro. Vedono che il mondo si disbattezza per tornare pagano e adoratore del demonio e della carne, ed essi pure dimenticano la loro dignità di Cristiani e corrono ad adorare il demonio e la carne. Inutilmente i Sacerdoti, come quel pastorello veduto da Dante, piangono e gridano dall’altare; inutilmente con le braccia e col petto sbarrano la strada e dicono: « Guardate che il Paradiso si chiude dietro alle vostre spalle! Guardate l’abisso dell’inferno che si spalanca sotto i vostri piedi! ». Essi non odono, essi non capiscono: sono veramente figli della tenebra, veramente sono ciechi. Quando i Filistei poterono piombare addosso a Sansone addormentato, prima cosa fu quella di cavargli gli occhi: statim eruerunt oculos eius. Poi tutto riuscì facile: legarlo con più giri di catene, trascinarlo in prigione, condannarlo a girare una macina enorme di mulino (Iudic., XVI, 21). La medesima tattica è quella che il mondo ancora adopera per la rovina dei Cristiani. Prima cosa è quella di accecarli. Essi non vedono più la buona famiglia in cui crebbero e da cui furono educati; né vedono lo scandalo dei figli o dei fratelli che da quel malo esempio saranno attirati sulla via della perdizione. Essi non vedono più la loro anima, fatta divina per mezzo del Battesimo, nutrita già tante volte con l’Eucaristia. Essi non vedono il demonio, il nemico nostro, che li aspetta per fare strazio e abbominio della loro vita; né vedono la bruttezza del peccato, né il fango della disonestà. Essi non vedono più il Figlio di Dio, crocifisso e grondante sangue da ogni piaga per la loro salvezza, né vedono gli Angeli che tremano d’orrore per loro. – 2. I FIGLI DELLA LUCE. Da tre cose noi potremo ora distinguere i figli della luce: dalla risolutezza con cui respingono i piaceri mondani e pericolosi all’anima; dalla franchezza con cui sanno vincere il rispetto umano; dalla gentilezza con cui sapranno consolare il Signore di tante offese, e riparare i peccati del prossimo. – a) Risolutezza a respingere le gioie mondane. Di santa Giovanna Francesca di Chantal si racconta che, fanciulletta di cinque anni, fu accarezzata da un uomo che aveva rinunziato alla fede cattolica, il quale ad ogni costo voleva offrirle alcuni dolci. Ma la piccola, certamente mossa dallo Spirito Santo che era in lei, disse parole più assennate e belle di quanto non comportasse la sua età: « Da un uomo che non ha fede, nulla vorrò giammai accettare, neppure i dolci ». Così i figli della luce devono comportarsi col mondo e coi mondani, i quali non possono capire le cose che sono dello Spirito di Dio. Vi sentirete dire: « Che c’è di cattivo in una serata di divertimento? Dopo lunghi mesi di travaglio, che male c’è concederci uno spettacolo, un ballo, una mascherata, un veglione? ». Cristiani, figli della luce, non accettate le dolcezze del mondo e dei mondani: nascondono sempre veleno e morte spirituale. – b) Franchezza a superare il rispetto umano. — So bene che a reagire contro l’usanza cattiva di molti si rischia d’essere beffato e stimato per un bigotto; so bene che nel tempo in cui molti impazziscono, i pochi che restano sani rischiano di essere creduti pazzi. Ma non abbiate paura degli scherni dei folli, non lasciate demolire la vostra virtù da una parola, da un riso, da un cenno ironico. S. Luigi, re di Francia, si levava ogni notte a pregare, ogni giorno ascoltava l’intera l’Ufficiatura della Chiesa, una volta la settimana si confessava, leggeva poi la Bibbia e la spiegava a’ suoi cortigiani, e disputava volentieri con loro sulle verità del Catechismo. Perciò qualcuno lo derideva e lo rimproverava. « Ecco — rispose — se questo tempo, e più ancora, lo gettassi ai dadi, alla caccia, al divertimento, ai festini, essi di nulla mi appunterebbero; anzi troverebbero di che lodarmi. E allora questi scherni e queste mormorazioni, io me li tengo con orgoglio ». – c) Gentilezza nel consolare il Cuore di Gesù offeso; carità nel riparare i peccati del prossimo. — In questi giorni di peccato, sembra che dal santo altare il Signore ripeta il suo lamento: « Ho aspettato qualcuno che con me si condolesse, ma invano; ho aspettato qualcuno che mi consolasse ma invano ». A noi tocca raccogliere ora il gemito divino e circondare di affetto e adorazione maggiore l’Eucaristia. Se molti se ne allontanano in questo tempo, noi raddoppieremo le visite e le Sante Messe bene ascoltate; se molti dimenticano i Sacramenti in questi giorni, noi ci accosteremo con maggior frequenza; se molti nella Chiesa tengono un contegno distratto e irriverente, noi desteremo la nostra fede e la manifesteremo con devoto contegno. – In fine ricordiamoci che gli oltraggi fatti a Dio esigono una riparazione, altrimenti potrebbero attirare sul mondo ingrato nuove maledizioni e nuovi castighi. – Una volta il popolo d’Israele si preparava a grande festa per una recente vittoria. Ma ecco diffondersi questa notizia: « Il re Davide piange, si duole per la morte del suo figliuolo Assalonne ». Subito l’allegria tacque; le arie di musica si cangiarono in sospiro di dolore, e tutti evitarono d’entrare in Gerusalemme dove il re lagrimava (II Reg., XIX, 1-2). Volesse Iddio che anche il popolo cristiano avesse la medesima disposizione di mente e di cuore! Il popolo cristiano, che vede la Chiesa occupata in questi giorni a piangere anticipatamente la morte tragica del più amabile, del più innocente figlio, del Figlio di Dio; il popolo cristiano che sente la Chiesa ripetere con angoscia quelle parole che il Redentore disse andando alla morte: « Ecco: e noi ascendiamo a Gerusalemme dove s’adempiranno tutte le profezie: mi getteranno in balìa dei Gentili, mi scherniranno, mi flagelleranno, mi sputeranno in faccia, mi uccideranno… », con che cuore potrà abbandonarsi a peccaminose follie?
Offertorium
Orémus Ps CXVIII: 12-13
Benedíctus es, Dómine, doce me justificatiónes tuas: in lábiis meis pronuntiávi ómnia judícia oris tui.
[Benedetto sei Tu, o Signore, insegnami i tuoi comandamenti: le mie labbra pronunciarono tutti i decreti della tua bocca.]
Secreta
Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet.
[O Signore, Te ne preghiamo, quest’ostia ci purifichi dai nostri peccati: e, santificando i corpi e le anime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]
Præfatio
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.
de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:
[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.
Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:
Pater noster
qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.
Agnus Dei
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.
Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
Communio
Ps LXXVII: 29-30
Manducavérunt, et saturári sunt nimis, et desidérium eórum áttulit eis Dóminus: non sunt fraudáti a desidério suo.
[Mangiarono e si saziarono, e il Signore appagò i loro desiderii: non furono delusi nelle loro speranze.]
Postcommunio
Orémus. Quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui coeléstia aliménta percépimus, per hæc contra ómnia adversa muniámur. Per eundem …
[Ti preghiamo, o Dio onnipotente, affinché, ricevuti i celesti alimenti, siamo muniti da questi contro ogni avversità.]
PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)