28 OTTOBRE: SANTI SIMONE E GIUDA
[Otto Hophan: Gli Apostoli – Ed. Marietti, Torino, 1951)
S. SIMONE
Questo buon Simone è il più sconosciuto di tutti gli Apostoli e dobbiamo quasi farci violenza per non dirlo il più insignificante dei Dodici. L’intera Sacra Scrittura non conserva di lui che il solo nome, e il nome stesso, « Simone », lui lo dovette condividere con un altro; giacché nel gruppo dei Dodici con lui sedeva anche un altro Simone — curiosa la duplicità dei nomi nel Collegio apostolico: due Simone, due Giacomo, due Giuda —, Simone Primo, Simone il Grande, Simone la Roccia; anzi questo Simone compariva ovunque sul proscenio e in prima fila in modo che Simone il Piccolo, Simone l’Ultimo non emergeva affatto; quando il Signore dovette trattare di « Simone » — « Beato te, Simone! », « Io ho pregato per te, Simone », « Simone, Mi ami tu? » —, intese sempre l’altro, il Primo e non lui, l’Ultimo; egli era solo come l’eco lontana, come l’umile ombra e come una fugace ripetizione di quel primo Simone, onusto di dignità; questi gli aveva sottratto tutto in precedenza, per così dire, come il patriarca Giacobbe a suo fratello Esaù! Valgano le poche pagine presenti ad accostare con particolare affetto all’anima cristiana questo dimenticato Simone, poiché anch’egli è uno dei Dodici Grandi nel regno dei Cieli. Come di Giuda Taddeo, anche di Simone abbiamo un chiaro abbozzo già nel Vecchio Testamento, in due uomini, che furono insigniti di questo nome. Il primo di essi, Simeone, il secondo figlio del patriarca Giacobbe, fu dal padre severamente biasimato e punito a causa del suo zelo indiscreto e crudele, con cui vendicò nei Sichemiti l’infamia perpetrata contro sua sorella Dina; nella spartizione della Terra Promessa egli non ricevette un proprio territorio per la sua tribù, ma solo un certo numero di località nella porzione della tribù di Giuda, assegnategli come abitazione. Giacobbe nel suo testamento disse espressamente il motivo della posizione insignificante e di dipendenza, ch’era riservata alle tribù di Simeone e di Levi: era il vile gesto compiuto dal loro zelo eccessivo. « Simeone e Levi: qual coppia di fratelli! Le loro spade sono strumenti della violenza. Uomini uccisero nell’ira. Maledizione al loro furore, che fu violento, alla loro collera, che fu così crudele! Così li spartirò in Giacobbe, li disperderò in Israele ». La tribù di Simeone di fatto emerse ben poco nella storia del popolo eletto in Canaan, non fu mai un valido sostegno del regno. Giuditta, la donna ed eroina della tribù di Simeone, non si fermò certo al lato oscuro dell’anima ultrice del suo capostipite, ma a quello favorevole, quando pregò: « Signore, Iddio di mio padre Simeone! Tu gli hai porta la spada per punizione degli stranieri, che nella loro depravazione deflorarono una vergine ». L’altro Simone, preannunzio del nostro Apostolo, fu Simone Maccabeo, condottiero del popolo eletto negli anni 142-135 prima di Cristo, soprannominato « Thasi », che vuol dire « Zelante ». Anche questi se ne stette a lungo ai secondi posti, perché, sebbene fosse per anzianità il secondo figlio di Matatia, servì nondimeno sotto la direzione dei suoi fratelli Giuda e Gionata; solo quando anche Gionata non poté più reggere la comunità giudaica perché caduto in prigionia, Simone passò avanti e, dopo la morte del fratello, assunse ia direzione del popolo. Questi due Simoni dunque dell’Antico Testamento ci appaiono come una profezia dell’apostolo Simone; anche in lui sono profondamente impressi i loro tratti essenziali, perché è l’Apostolo sconosciuto, quasi dimenticato. Non sappiamo nulla di sicuro intorno alla sua patria. Matteo e Marco veramente, nei loro cataloghi degli Apostoli, gli danno il soprannome: « Il Cananeo » per distinguerlo da altri Simone contemporanei e anzitutto da Simone Pietro; per questo molti e lo stesso Girolamo furono indotti all’ipotesi che Simone fosse originario di Cana; i Greci e i Copti anzi ravvisano in lui quel discepolo, che secondo la testimonianza del Vangelo viene certamente da Cana, e cioè Natanaele; ma Natanaele si deve identificare con l’apostolo Bartolomeo piuttosto che con Simone; altri in « Simone il Cananeo » vide lo sposo delle nozze di Cana, cui il Signore soccorse col vino miracoloso, ma anche questa opinione manca di ogni fondamento. Il termine « Cananeo », derivato dal vocabolo aramaico « quana », infervorarsi, non indica un luogo, ma un partito; Luca esprime esattamente la stessa cosa col termine greco « Zelotes », lo Zelante. Ora l’ambiente evangelico e specialmente il partito dei « Cananei » o Zeloti fanno piuttosto pensare che la patria di Simone fosse la Galilea; non è però possibile dir nulla di più preciso al riguardo. Non sappiamo nulla di certo neppure intorno alla famiglia di Simone; non mancano però dei motivi per avallare l’ipotesi che anch’egli fosse un « fratello del Signore ». Matteo e Marco infatti fra i fratelli di Gesù fanno menzione anche d’un Simone: « Gli uditori (a Nazareth) stupirono della sua (di Gesù) dottrina e chiedevano: “Donde può Egli aver tutto questo?… Non è il fratello di Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simone?»; anche nei cataloghi degli Apostoli tutti e tre i Sinottici ricordano un Simone insieme con Giacomo e Giuda; Marco poi, tanto nel testo in cui enumera i fratelli del Signore, come in quello in cui cataloga gli Apostoli, segue persino il medesimo ordine esatto dei nomi: Giacomo, Giuda, Simone, legittimando così la supposizione che anche il fratello del Signore Simone, come gli altri due fratelli di Gesù, Giacomo e Giuda, appartenesse al Collegio apostolico. Questa interpretazione è appoggiata dall’opinione di Egesippo, il quale attesta che Simone, secondo Vescovo di Gerusalemme, era un figlio di Clopas, fratello di Giuseppe, padre nutrizio del Signore; ora Clopas o Cleofa si deve identificare con Alfeo, ch’era il padre di Giacomo; Giacomo quindi, Giuda e Simone, fatte le debite osservazioni e riserve, erano fratelli fra di loro e cugini corporali del Signore; un sola differenza, che cioè questa determinazione per Simone resta nell’oscurità; ma già nella sua famiglia prima di lui venivano i fratelli più anziani e più in vista, che si muovevano a piacere; a lui, l’ultimo, il più giovane non restava che tenersi piccolo e in silenzio. – Nemmeno della sua vocazione possiamo dire qualche cosa di più preciso. Quando il Signore scelse i Dodici, egli si trovava confuso fra la folla dei discepoli sul monte; i suoi due fratelli più anziani, Giacomo e Giuda, forse s’indignarono internamente quando « il piccolo » li seguì di soppiatto, poiché uno dei tre almeno doveva dare una mano a casa al padre Alfeo, che era agricoltore e come tale non mancava di lavoro in nessun giorno dell’anno. Può essere che anch’essi, irritati come Eliab, il fratello più anziano del giovanetto David, abbiano tuonato contro il giovane Simone: « A che scopo propriamente sei venuto qui? a chi hai lasciato le poche pecore nel deserto? Tu sei venuto solamente per stare a guardare »?. E Simone stette davvero a guardare con occhi spalancati e attoniti quando, alla chiamata del Signore, si staccarono successivamente dalla moltitudine degli uomini per presentarsi innanzi a Lui primo Simone, poi il gentile Andrea, poi l’ardente Giacomo e poi l’ardito Giovanni. E adesso sta in ascolto ed ecco! Il Signore chiama suo fratello Giacomo e, onore inaudito per la famiglia, anche Giuda. I due passarono dinanzi dignitosamente al loro piccolo fratello Simone, il quale risplendeva d’orgoglio e di gioia. Ora dieci uomini ornano Gesù come dieci diamanti una corona. Chiamerà anche degli altri? e chi? E Gesù chiamò: « Simone! ». Questi si guardò d’intorno perplesso, ché dei Simone ce n’erano molti. Gesù ripetè: « Simone! ». Una breve pausa; poi, quasi esitante: « Lo Zelante ». Lo Zelante? Quando il « Cananeo » entrò nel gruppo del Signore, percorse le folle un incredulo stupore. Nei cataloghi degli Apostoli di Matteo e di Marco Simone è l’undicesimo e il penultimo; solo Giuda viene dopo di lui e gli fa ombra; può essere anzi che il Signore chiamasse Giuda prima di Simone e che solamente il crimine commesso lo abbia ricacciato dietro a Simone. Ci fa compassione il semplice Simone, ricordato così d’un fiato insieme col Traditore; forse lui stesso qualche volta, senza sapere perché, si sentì malsicuro in vicinanza dell’oscuro suo compagno; e probabilmente toccò proprio a lui accompagnarsi al futuro Traditore, quando il Maestro inviò i suoi Apostoli per un primo viaggio missionario « a due a due ». Nell’ultima Cena di Leonardo da Vinci Simone siede all’estrema sinistra, e riportiamo l’impressione che sia stato necessario quasi uno sforzo per arrivare a trovargli un posto: nel Collegio apostolico egli è solamente tollerato. Della sua attività apostolica non sappiamo nulla, affatto nulla; tace il Vangelo, tacciono gli Atti degli Apostoli; suo fratello Giuda ha pure messo insieme alcuni pochi versi per una letterina, ma egli nemmeno questa; a lui non fu mai detta una parola né lui chiese mai una spiegazione, che agli occhi degli Evangelisti sembrasse degna d’essere resa in iscritto, mentre ci tramandarono pure, per esempio, le osservazioni incidentali, che Tommaso, Filippo e Giuda Taddeo fecero nel Cenacolo; nella cerchia degli Apostoli Simone è la comparsa autentica; sembra che non abbia nient’altro da fare che esser là. Quando gli Apostoli, dopo la loro prima missione ritornarono a Gesù e Gli riferirono tutto quello, che avevano fatto e insegnato, si conchiusero racconto e insegnamenti prima che venisse la volta di Simone. Non leggiamo che gli sia stata mai concessa una distinzione, mai affidato un incarico, mai una comparsa di lui in particolare; forse la domenica delle Palme poté sciogliere almeno l’asinello; se neppure questo, egli non ci si fa mai innanzi, non si distingue mai; è sempre nel gruppo, insieme con gli altri, quasi senza propria personalità, è solo Apostolo, solo uno dei Dodici. E questo essere ignorato persevera come suo particolare segno distintivo sino ad oggi: le sue reliquie riposano in Vaticano; ma chi mai, fra le centinaia di migliaia di persone, che a Roma visitano San Pietro, si ricorda ivi dello sconosciuto Simone? L’edificio è sacro al primo Simone, a Simone Pietro; la sua statua è baciata con riverenza e con gratitudine, tanto che il piede è consumato persino; invece Simone l’undecimo può rallegrarsi della sua quiete indisturbata. Simone, lo sconosciuto, è il patrono dei discepoli e delle discepole senza numero di Cristo, che, per così dire, passano la loro vita senza nome; è il patrono degli eserciti di operai dimenticati nella vigna del Signore, che per il regno di Cristo si affaticano nei terzi, quarti e ultimi posti; è il patrono degli ignorati soldati del Signore, che combattono su fronti ingrati e sconosciuti. Nessuno s’avvede, loda o premia questi apostoli nascosti, spesso male interpretati, nessuno, se non… il Padre, che vede nel segreto. Simone, l’ultimo, fu meno degno degli Apostoli primi, perché di lui non si fa mai parola? È uno dei Dodici anche lui, e lo è tanto quanto il potente Pietro e l’aquila dello spirito Giovanni; ebbero valore anche per lui le parole del Signore: « Non vi chiamo più servi, vi ho chiamati amici, perché vi ho comunicato tutto quello, che ho udito dal Padre ». Può darsi che il Signore abbia onorato appunto questo Apostolo sconosciuto e apparentemente poco interessante col dirgli non poche parole in particolare, ma dovette farlo tanto sommessamente, che nessuno degli altri ne percepì qualche cosa né ne scrisse alcunché. E così precisamente quest’Apostolo sconosciuto ebbe con Lui, ch’è il Dio sconosciuto, una somiglianza tutta sua. Ma quale l’atteggiamento di Simone stesso? sdegnato per essere stato cacciato all’ultimo posto, ha forse lavorato meno degli altri? Anche lui invece percorse generosamente le vie del Vangelo, « senza pane, senza bisaccia, senza denaro e predicò: “Il regno dei Cieli è vicino”. Guarì ammalati, risuscitò morti, mondò lebbrosi e cacciò gli spiriti cattivi ». Nella sua opera apostolica non si lasciò paralizzare né dai moti della suscettibilità né dal fatto della sua inferiorità; ora anzi nei cataloghi degli Apostoli precisamente questo sconosciuto Simone porta un titolo, che in lui ci sorprende più che in ogni altro: egli è detto « Simone… lo Zelante ».
SIMONE LO ZELANTE
Il titolo « Zelotes », lo Zelante, direttamente ha un senso politico, non senso ascetico. Gli « Zeloti » erano una fazione giudaica, che con tutti i mezzi, anche i più violenti, aveva di mira la libertà e l’indipendenza dei Giudei dalla dominazione dei Romani. Loro fondatore può ritenersi un certo Giuda della Galilea, il quale aizzò i Galilei a una accanita ribellione, quando, nell’anno 7 dopo Cristo, il governatore romano della Siria, Quirino, introdusse in Palestina il testatico. La ribellione da lui promossa e il suo esito infelice sono ricordati anche negli Atti degli Apostoli: Gamaliele dissuase i sinedristi da una repressione violenta del Cristianesimo da poco spuntato colla motivazione che i movimenti messianici, se non vengono da Dio, finiscono da sé; bastava pensare a « Giuda di Galilea, che nei giorni del censimento si sollevò e istigò molto popolo a defezionare; egli perì e tutti i suoi aderenti furono dispersi ». Gli Zeloti erano vinti, non però le idee, che essi propugnavano; il fuoco della libertà, coperto, continuava ad ardere nascostamente e veniva continuamente attizzato dagli Zeloti, che in gruppi sciolti, costituiti di volontari, conducevano una guerra sorda e continua. Si distinguevano però fra di loro due indirizzi: il gruppo religioso del partito sosteneva che la condizione indispensabile e previa del rinnovamento e della esaltazione nazionali era il fervente ed esatto adempimento della legge mosaica; prima che si fosse soddisfatto a questa condizione, non sarebbe apparso il liberatore promesso da Dio, il Messia. Secondo questo indirizzo, anche Paolo forse apparteneva al partito degli Zeloti, perché confessa di se stesso: « Nello zelo per il Giudaismo oltrepassai molti dei miei coetanei nel mio popolo; ebbi anzi zelo eccessivo per le tradizioni dei miei padri ». L’altro indirizzo invece, il politico, guardava sbrigliato solo all’aspetto politico della situazione e del problema; non intendeva affatto di attendere, in tranquilla rassegnazione, finché albeggiasse, secondo il disegno di Dio, il giorno della libertà e s’adempisse la speranza di Israele; fra loro e gli empi nemici doveva decidere la spada. Siffatte teste calde furono condannate all’impotenza per decenni; il pugno di Roma represse i corpi di volontari, e i partiti ufficiali del paese, i Sadducei cioè e i Farisei, si diedero premura di distanziarsi da loro; alla fine però riuscì agli elementi rivoluzionari di far divampare il fuoco devastatore della guerra giudaica; essi divennero quanto più a lungo tanto più audaci e violenti, e sotto l’etichetta dello zelo religioso perpetrarono crimini politici. I Sadducei, aristocratici, e i Farisei, avveduti, erano contrari a una guerra con i Romani, perché la ritenevano senza speranza; questo timore delle sfere dirigenti appare anche nel Vangelo, in rapporto a Gesù: «Se noi Gli (a Gesù) lasciamo così ampia libertà, tutti crederanno in Lui; vengono allora i Romani e ci prendono (anche gli ultimi resti di diritto sul) paese e popolo… È meglio (quindi) che un uomo muoia per il popolo, piuttosto che tutto il popolo vada in rovina ». Ma gli Zeloti volevano ad ogni costo l’insurrezione e la guerra contro i Romani; s’impossessarono della fortezza Masada e ottennero che a Gerusalemme non si offrissero più i sacrifici consueti per l’autorità romana; e con questo il segnale della guerra giudaica era già dato; ma gli Zeloti dovettero pagarne duramente il fio. Fin da quando Vespasiano, nell’anno 67, assoggettò la Galilea, i Romani li raggiunsero su zattere, mentre essi tentavano di fuggire sul lago di Genezareth; fu ingaggiata la battaglia navale ed essi furono trucidati; così quel lago azzurro e tranquillo, che il Signore aveva tante volte tragittato, fu disseminato di cadaveri. In quella battaglia perdettero la vita 6500 Zeloti; altri 1200 furono fatti sgozzare da Vespasiano nello stadio di Tiberiade, 6000 furono mandati nell’istmo di Corinto e 30.000 furono venduti; nelle città di Galilea caddero complessivamente 80.700 uomini, mentre 36.400 furono venduti. L’eccidio fu ancora più terrificante a Gerusalemme, dove, sotto Giovanni di Ghiscala, gli Zeloti esercitarono durante l’assedio un dominio crudele; con l’aiuto degli Idumei, che s’erano uniti, uccisero 12.000 individui; ma la vendetta di tutto questo fu raccapricciante: secondo la testimonianza, forse un po’ esagerata, dello storico Giuseppe Flavio, durante l’assedio e l’espugnazione di Gerusalemme perirono un milione e centomila giudei; 97.000 furono condotti prigionieri e poi o venduti o destinati a sgozzarsi vicendevolmente nei giochi dei gladiatori. Ora soltanto siamo in grado di valutare la chiamata nel Collegio apostolico di Simone «lo Zelote ». Tutti gli Apostoli certamente, e non solo Simone, erano interessati ai movimenti politici del loro tempo; anch’essi amavano la libertà, anch’essi erano galilei dal sangue caldo, tutti quindi desideravano ardentemente il giorno della liberazione. Per loro l’atteso Messia era il grande figlio di David, che doveva spezzare in aspra lotta il giogo straniero dei Romani e instaurare il grande regno giudaico; lo stesso sacerdote Zaccaria del resto, padre del Battista, persona pur tanto avanti nello spirito, attende il Messia quale « salvezza dai nostri nemici e dalle mani di tutti coloro, che ci odiano ». A una domanda male interpretata di Gesù, gli Apostoli Gli portarono dinanzi, con l’animo concitato per l’allegrezza e gli occhi raggianti, le armi accuratamente custodite: « Signore, ecco due spade! ». È vero che i più di loro avevano compiuto il tirocinio con Giovanni Battista, il quale aveva predicato abbastanza energicamente la necessità di volgere il pensiero dalla politica alla religione: « Cambiate il vostro modo di vedere! Mutate pensiero! », e grazie a quell’educazione e alla ferma istruzione poi del Signore avevano intravvisto che il regno messianico era essenzialmente religioso; frattanto alla nota politico-nazionale non potevano rinunziare; molestarono il Signore persino mentre andavano con Lui nel luogo scelto per l’Ascensione, chiedendoGli: « Signore, restauri nuovamente Israele in questo tempo? »; essi seguirono Gesù con entusiasmo e con generosità e per Lui anzi abbandonarono casa e cortile, la moglie e i figli, speravano però in compenso per sé e per i loro congiunti i primi posti nel regno messianico. Tre evidenti tentativi della gente della libertà per indurre Gesù a farsi condottiero della loro impresa sono indicati anche nel Vangelo, e gli Apostoli vi avrebbero collaborato tanto volentieri ogni volta. Dopo la prima moltiplicazione miracolosa dei pani, le folle cercarono « di farLo re con la forza; ma Egli si ritirò tutto solo sul monte e obbligò i suoi Discepoli ad ascendere nella barca e a precederLo all’altra riva ». Prima della festa dei Tabernacolo. Lo sollecitarono di andare a Gerusalemme in testa a loro e di ivi « mostrarsi pubblicamente al mondo »; ma Gesù differì il viaggio e giunse nella capitale, carica d’alta tensione politica, in ritardo, solo verso la metà della settimana festiva. La terza volta sembrò che gli Zeloti fossero riusciti a guadagnare il Signore per i loro piani: fu il solenne ingresso in Gerusalemme fra le palme e gli osanna; ma anche quella volta Egli seppe prevenire un’interpretazione politica del suo trionfale ingresso, creando una piccola e gaia, quasi, circostanza: non entrò nella capitale, cavalcando su di un alto e superbo destriero, ma… su di un puledrino d’asino; e chi medita rovine, non avanza su d’un asinello! E chissà quanto quell’asinello dispiacque appunto al nostro Simone Zelote! E quale ironia sapiente e amabile insieme avremmo avuto, se avesse dovuto menarlo a Gesù proprio lui, che era febbricitante per la conquista del potere politico più di tutti gli altri Apostoli! – Il Vangelo veramente non ci offre nessuna prova per ritenere che Simone apparteneva alla corrente politica del partito degli Zeloti; forse s’era meritato il suo titolo di « Zelote » con la sua amorosa fedeltà alla legge del Vecchio Testamento, a somiglianza di quei giudeocristiani, che negli Atti degli Apostoli vengono lodati come « ferventi seguaci della Legge »; lo zelotismo religioso nondimeno stava molto vicino al politico; e di fatto furono proprio « i fratelli di Gesù », che in precedenza alla festa dei Tabernacoli Lo volevano spingere a una dimostrazione pubblica di carattere politico. Il posto undecimo di questo Apostolo e l’assoluto silenzio nella Sacra Scrittura a suo riguardo si devono spiegare forse con il suo atteggiamento personale, spiccatamente politico; e il Signore, che si rifiutò costantemente e risolutamente di permettere che il suo regno scivolasse verso il campo puramente terreno e politico — « Il mio regno non è di questo mondo! Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei ministri avrebbero certamente combattuto » —, non poteva permettere che fossero messe a repentaglio la sua persona e la sua opera per uno zelote; Simone quindi dovette essere tenuto piccolo nel Collegio apostolico, affinché, seguendo l’esempio del suo patrono onomastico dell’Antico Testamento, Simeone, capostipite della tribù omonima, non avesse con zelo indiscreto e violento a danneggiare piuttosto che giovare; egli doveva purificare il suo zelo e conservare, anzi rafforzare quanto in esso v’era di buono attraverso un rigido periodo di prova, che, negandogli ogni incarico e attenzione speciale, lo tenne nel nascondimento. Ma qui rifulgono anche gli alti pregi personali del nostro Apostolo. Richiama già la nostra attenzione su di un uomo di intrinseco valore il fatto che il Signore l’abbia chiamato a far parte del Collegio dei Dodici, nonostante il suo fardello o inclinazione politica. Con lui, infatti, Egli corse un rischio simile a quello corso con Matteo, sebbene in senso opposto, indubbiamente: Matteo era pubblicano; Simone, zelote; con la chiamata del pubblicano Gesù si compromise presso le folle, che anelavano alla libertà e alla indipendenza; con la chiamata dello Zelote si rese sospetto agli ambienti dirigenti ufficiali. Come potevano mettersi d’accordo i due, Matteo pubblicano e Simone zelote, nello stesso ristretto Collegio? Provenivano da un mondo spirituale totalmente diverso: il pubblicano prestava servizio al dominio straniero, lo zelote vi si scagliava contro; il pubblicano era esattore delle tasse, lo zelote si rifiutava di pagarle. E Cristo ottenne di unire insieme nel medesimo gruppo, come discepoli, Matteo e Simone; la potenza del suo amore è tanto grande e tanto vasta è la visione della sua sapienza, ch’Egli prende a suo servizio il Pubblicano e lo Zelote, perché ha compiti per tutti e due. Ancor più che nella chiamata, la grandezza morale dell’apostolo Simone appare evidente nella costanza, con la quale seppe tener fede al Signore. A eccezione di Giuda, nessun Apostolo fu da Gesù così amaramente disingannato quanto Simone nelle sue aspettative; di fronte a quella delusione Giuda s’infranse, Simone invece crebbe. Questo Zelote ardeva più degli altri del desiderio veemente che Gesù erigesse un regno terreno; possiamo pensare che le bande della libertà facessero spesso visita a lui, perché traesse finalmente Gesù agli scopi del loro partito; Gesù non accedette mai a simili intimazioni, non mise mai in prospettiva ch’Egli avrebbe sodisfatto anche uno solo di quei desideri; a bella posta Simone fu tenuto undecimo, cui nient’altro restava da fare che tacere. Eppure, nonostante questo inflessibile rifiuto, Simone perseverò accanto al Signore; sacrificò parte a parte il cuore con tutti i suoi desideri piuttosto che… Gesù, al contrario di Giuda, che ricercando se stesso tradì scelleratamente il Maestro. Chi è « zelote » in modo che nel suo zelo si lascia guidare solamente da Gesù, questi e certamente solo questi è un vero e bravo apostolo di Lui; il suo zelo è una forza potente, non dispersa per fini secondi, ma convogliata all’attuazione dei sublimi disegni di Cristo.
LO ZELANTE SCONOSCIUTO
Le notizie della leggenda intorno al nostro Apostolo sono contraddittorie, quanto quelle intorno al fratello suo e coapostolo Giuda Taddeo. La più probabile dice che, dopo la morte nell’anno 62 di suo fratello più anziano Giacomo, gli succedette sulla cattedra come Vescovo di Gerusalemme; lo storico ecclesiastico Eusebio infatti ci ha conservato una nota di Egesippo, della metà del secondo secolo, secondo la quale un Simone, figlio di Clopas, sarebbe stato secondo Vescovo di Gerusalemme; sia Eusebio poi che Niceforo, nelle loro liste dei vescovi, ricordano questo Simone come secondo Vescovo di Gerusalemme, che avrebbe retto la sua chiesa secondo l’uno per 23 anni, secondo l’altro per 26. Questa notizia è confermata da un’antica tradizione abissina, secondo la quale l’apostolo Simone, lo Zelote, dopo avere svolto un’intensa attività in Samaria, sarebbe divenuto Vescovo di Gerusalemme, ove sarebbe pure morto in croce. Il Breviario romano veramente celebra due feste distinte per l’apostolo Simone e per Simeone, Vescovo di Gerusalemme, la prima il 28 ottobre, l’altra il 18 febbraio. – L’attività episcopale dell’Apostolo in Gerusalemme coincise con gli anni spaventosi dell’assedio, dell’espugnazione e della distruzione della Città Santa; spesso forse sorsero nel suo spirito sentimenti di invidia per il fratello e predecessore Giacomo, ch’era passato alla Patria, cui era stato risparmiato di vedere l’orrore della desolazione nel luogo santo. Memore dell’avvertimento del Signore: « Quando vedrete Gerusalemme circondata dagli eserciti, allora sapete che la sua distruzione è vicina! Allora la gente in Giudea fugga ai monti, quella in città ne esca fuori, quella in campagna non entri in essa », egli se ne fuggì a tempo col suo gregge di fedeli nella città pagana di Pella in Perea, che non era esposta ai pericoli della guerra: sfollamento ed emigrazione dei primi nostri fratelli nella fede, che ordinò il Signore stesso nella sua grande sollecitudine per i suoi fedeli! Quali pensieri avranno occupato l’animo di Simone, lo Zelote, durante quella fuga? Un tempo era stato implicato anche lui nel partito degli Zeloti, che ora aveva procurato alla propria terra e al proprio popolo spettacolo tanto orrendo e raccapricciante; allora sacrificare al Signore i desideri del suo cuore gli era tornato difficile; adesso, mentre Gerusalemme era divorata dagli incendi del divino giudizio, comprendeva quanto fosse buona cosa offrire in sacrificio al Signore anche il proprio cuore; e un’onda di calda riconoscenza gli saliva dal fondo dell’anima, perché il Signore l’aveva strappato allo zelotismo tanto pericoloso per farlo ardere d’un più nobile zelo, dello zelo per la casa del Signore e per il suo gregge. – L’attività episcopale in Gerusalemme non impedisce che egli, prima di essa e forse anche dopo, abbia portato il lieto messaggio anche ad altre terre; un’idea di quanto potesse essere ampio il raggio dell’attività apostolica ce la forniscono le lettere dell’apostolo Paolo; ora non solamente a lui, ma anche agli altri Apostoli premeva di adempiere la parola del Signore: « Andate e istruite tutti i popoli! Sarete miei testimoni in Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e sino ai confini della terra ». Le terre assegnate dalle leggende al nostro silenzioso Simone sono varie e distanti, né è possibile estrarre dal materiale favoloso quello, che forma il nocciolo storico. Secondo gli « Atti di Andrea » apocrifi, egli si portò, come compagno di Andrea, nelle contrade sul Mar Nero, nella città di Bosporos, nel Chersoneso taurico e a Nikopsis, paese dei Zekchen o Zyger, popolazione caucasica. Anche le tradizioni armene e georgiche ci rinviano alle terre del Caucaso; dopo un’attività di Simone con Matteo e Andrea, quest’ultimo lo avrebbe lasciato a Sebastopoli. Non è escluso però che questa leggenda sia sotto l’influsso della omonimia con Simone Pietro, poiché, secondo informazioni molto antiche, in quelle regioni lavorarono insieme i due fratelli Simone Pietro e Andrea, che poi si separarono per andare Andrea verso l’Oriente e Simone Pietro verso l’Occidente; la leggenda forse ha accreditato a Simone lo Zelote quello, che invece in quelle contrade fu opera apostolica di Simone Pietro. Gli « Atti di Simone e Giuda » trasferiscono l’attività apostolica di Simone in Babilonia e in Persia, come hanno messo in evidenza le trattazioni su Giuda Taddeo; egli in Babilonia aveva una sede, donde, insieme con Giuda, percorse le dodici provincie dell’impero persiano. Ma forse in questa leggenda fa capolino di nuovo Simone il Maggiore, Simone Pietro; questi infatti scrisse la sua prima lettera da Babilonia, sotto il qual nome è da intendersi Roma, la città « babilonica » per i vizi e gli errori; può darsi che la leggenda abbia attribuito a Simone lo Zelote, quale campo della sua missione, la Babilonia geografica, perché l’Apostolo dello stesso nome, Simone Pietro, faticò nella Babilonia simbolica. Secondo questa leggenda, Simone muore martire nella «città Suanir»; ma una città persiana di questo nome non è conosciuta; è da pensare piuttosto alla regione dei « Suanen » nella Colchide settentrionale, che ci ricondurrebbe ai paesi sul Mar Nero. Una terza opinione, che ricorre specialmente presso gli autori greci posteriori, menziona quale campo dell’attività apostolica di Simone l’Egitto, la Libia, la Mauritania e persino la Britannia; anche il Breviario romano ricorda un’attività apostolica in Egitto e dice che Simone s’incontrò con Giuda Taddeo in Persia soltanto più tardi. – Secondo una notizia di Egesippo, egli soffrì il martirio sotto l’imperatore Traiano nell’anno 107, nell’avanzata età di 120 anni; se questa attestazione, che per quanto riguarda l’età ci sembra un po’ improbabile, risponde a verità, il nostro Apostolo sarebbe vissuto tre anni anche dopo Giovanni, che dalla tradizione è ritenuto come l’ultimo degli Apostoli. La maggior parte delle relazioni dicono ch’egli morì crocifisso; una piccola ma impressionante immagine dei Monologhi dell’imperatore Basilio II lo rappresenta sulla croce in abiti pontificali, con le spalle verso la città di Gerusalemme e il viso rivolto al vasto mondo. Simone in croce! Simone lo Zelote un giorno non aveva elevate le sue proteste contro la croce, almeno in cuor suo, con minore veemenza dell’altro Simone: «Questo non sia mai! »; le sue propensioni non correvano certo alla croce, ma alla corona; anche lui però si lasciò educare dal Signore, docile e contento, finché Gli divenne conforme… sulla croce. Ma è così: non si possono prevedere i tratti di strada, che un uomo percorre, quando si sia affidato senza riserve a Cristo! Altre tradizioni direbbero che Simone fu segato; l’immagine di Luca Cranak, nella serie dei martiri degli Apostoli, illustra questo orrendo martirio con un realismo non sospetto; la sega fu quindi assegnata allo Zelote come simbolo e, quanto al culto del popolo, gli ha fruttato il patrocinio dei legnaiuoli, che è un po’ meno di quello degli architetti, conciliato all’apostolo Tommaso dalla sua squadra; il buon Simone è e rimane in ogni campo… l’undecimo! Tutte queste informazioni della tradizione sono poco sicure e appena conciliabili; una cosa però è insinuata da tutte, che cioè Simone fu uno zelante e un appassionato anche nella sua attività apostolica. Che abbia lavorato nella terra dei Suanen o in Babilonia, che sia stato crocefisso o segato, lo zelo, col quale questo Apostolo sconosciuto attese agli interessi del Signore e del suo gregge, fu ardente. Sconosciuto e zelante: un connubio strano e meraviglioso! Perché di solito lo zelante cessa di essere sconosciuto, mentre molti, che dovettero lavorare nell’oscurità, perdettero per questo il loro fervore; l’insegnamento quindi di questo semplicissimo fra tutti gli Apostoli è tanto profondo: conserviamo il fervore, anche se sconosciuti e dimenticati, e se ferventi, non lavoriamo per essere visti dagli uomini; « altrimenti non avete nessuna mercede presso il Padre vostro in Cielo »; « la vostra vita sia nascosta con Cristo in Dio ».
S. GIUDA TADDEO
L’Apostolo Giuda Taddeo porta un nome, che in passato fu tanto onorato quanto è ora esecrando. Si chiamarono Giuda molti e celebri uomini del Vecchio Testamento; i due più eminenti sono Giuda, il padre della tribù di Giuda, uno dei dodici figli di Giacobbe, e Giuda il Maccabeo. Parecchi tratti di questi due grandi del popolo eletto si riflettono anche nell’apostolo Giuda; perché v’è qualche cosa di misterioso nei nomi, si potrebbe quasi pensare ch’essi in qualche modo imprimano negli uomini un’idea preconcepita. Quando nacque Giuda, il figlio di Giacobbe, sua madre Lia esclamò pia e festante insieme: «”Jehfdah”, che vuol dire “loderò il Signore ”, per questo lo chiamò ” Juda ” »; sebbene egli non fosse il più anziano dei figli di Giacobbe, ebbe però un posto di direzione fra i suoi fratelli, grazie al suo carattere deciso e fermo. Nella vicenda di suo fratello, l’egiziano Giuseppe, egli appare una lodevole eccezione: si oppose alle brame degli altri e propose il male minore: invece del fratricidio, la vendita del fratello ai mercanti madianiti per venti denari. Combinazione curiosa! Un altro Giuda, con peggiori intenzioni, richiese trenta denari in una vendita più detestabile. Il patriarca Giacobbe, morendo, designò il suo figlio Giuda quale antenato del Messia con la seguente lode e benedizione: « A te, Giuda, dicono lode i tuoi fratelli. La tua mano pesa sulla cervice dei tuoi nemici. Innanzi a te si piegano i figli di tuo padre. Un leoncello è Giuda. Chi osa stuzzicarlo? Non recederà da Giuda lo scettro, dai suoi piedi il bastone del dominatore finché venga colui, cui esso appartiene e cui i popoli obbediscono ». L’accenno alla potenza e al valore sembra una profezia anche per l’apostolo Giuda Taddeo, perché colgono nel centro del suo essere. – Vigoroso, figura di primo piano è anche l’altro grande Giuda del Vecchio Testamento, il terzo figlio di Matatia; egli fu chiamato il « martellatore », da maqab, perché si distinse con le sue gesta eroiche, compiute nella guerra giudaica per la libertà nel secolo secondo prima di Cristo; di molto inferiore per truppe e armamento, egli riuscì a trionfare, con gloriose battaglie, sui grandi eserciti dell’empio re Antioco IV, ch’erano guidati dai generali Nicanore, Gorgia, Timoteo, Bacchide e Lisania; gli riuscì di espugnare la città santa di Gerusalemme, superando le forze d’occupazione nemiche e pagane, e nel Tempio purificato e riconsacrato furono offerti nuovamente al Dio di Israele i sacrifici prescritti dalla Legge. Gli eroismi di questo Giuda sopravvivevano nel ricordo di tutti; Giuda Taddeo ascoltava con occhi scintillanti il racconto, che gliene facevano in casa il padre e il nonno; molti sabbati si parlava con entusiasmo di quell’eroe della religione e della patria, che in una epoca dura aveva indicata la via col suo fulgido esempio. Il nostro Giuda, quindi, andava orgoglioso del suo nome, che uomini tanto valorosi avevano portato; egli li imiterà; anch’egli vuol divenire nel proprio tempo « leoncello » e « martellatore ». – Purtroppo questo nome ardito e nobile fu così infelicemente macchiato da un altro Giuda, dal Traditore, che non si riuscirà a purificarlo mai più; l’ignominioso gesto di costui è penetrato corrosivo in questo nome, è divenuto anzi con esso una unica cosa; per noi di fatto « Giuda » equivale a « traditore » e non più a « loderò il Signore », come aveva esclamato Lia, la mamma buona e cisposa. Non vi sarà individuo cristiano che porti il nome « Giuda », non si vuole anzi nemmeno ripeterlo; perché si danno nomi, che sono — anche oggi! — così esecrati, che non si possono affatto ripetere. Tutti e due i Giuda, il Taddeo e il Traditore, sedettero in qualità di Apostoli intorno al Signore, anzi nel catalogo degli Apostoli di Luca essi sono l’uno accanto all’altro. Quando il Signore chiamava « Giuda », tutti e due tendevano l’orecchio; forse era solo un leggero tono della voce che li distingueva; il Venerdì Santo, quando come un baleno s’era diffusa la notizia inaudita che Giuda aveva tradito il Maestro e poi s’era impiccato, parecchi pensarono che quel delinquente fosse Giuda Taddeo; il Traditore aveva gettato il disonore anche sul nome del buon Giuda. Quasi in riparazione di questo oltraggio, il popolo cattolico onora d’una singolare fiducia il Santo omonimo dell’infelice Traditore sin dal secolo decimottavo e con un tale sentimento umano e credente insieme, che commuove: Giuda Taddeo è divenuto per esso il protettore nelle « richieste gravi e disperate ».
GIUDA, IL FRATELLO.
L’imbarazzo di fronte al nome « Giuda », carico di colpa e di dolore, appare evidente anche nei Vangeli. Giovanni scrive in un unico testo di Giuda Taddeo, ma s’affretta ad aggiungere subito: « Giuda, non Iscariote! »; ci colpisce ancor di più che Matteo e Marco non designano mai il nostro Apostolo col nome « Giuda », ma solamente col soprannome « Taddeo »; possiamo a buon diritto ritenere che essi sostituirono il nome proprio con questo soprannome per allontanare dal loro buon compagno nel Collegio apostolico l’ombra, che vi proiettava il nome « Giuda ». Soltanto Luca osò chiamare quest’Apostolo col suo proprio nome, ma non senza elevare una luce sull’oscurità di esso; egli lo chiama « Judas Jacobi », Giuda, quello di Giacomo; l’espressione sulle prime fa pensare che Giuda fosse il figlio d’un Giacomo, e non mancano traduzioni cattoliche della Bibbia, che rendono il passo con questo senso; essa però può anche significare « Giuda, il fratello di Giacomo »; la Sacra Scrittura stessa accenna questo secondo senso di « fratello ». Nel Vangelo, infatti, un Giacomo è chiamato esplicitamente fratello d’un Giuda e un Giuda, nella sua lettera, si dice fratello di Giacomo. Questo Giacomo, che Luca nei suoi cataloghi degli Apostoli fa che risplenda su Giuda, doveva essere una personalità conosciuta e tenuta in alta stima dai Cristiani; ma non si può pensare che fosse Giacomo Maggiore, ch’era morto già da vent’anni ed è sempre ricordato come fratello di Giovanni solo e mai come fratello d’un Giuda; Giuda quindi è fratello di Giacomo Minore, del Vescovo di Gerusalemme; si comprende che gli Evangelisti Matteo e Marco, nei loro cataloghi degli Apostoli, collochino i due l’uno accanto all’altro immediatamente. Invece, nei riguardi di questa parentela, non è ancora risolta la questione se Giacomo fosse un fratello in senso stretto di Giuda o soltanto un fratello in senso di cugino. Ma comunque questo celebre Giacomo illumina il fosco nome di Giuda. – Sul nostro buon Giuda però, ch’ebbe l’infausta sorte di dover condividere il nome col Traditore, piove una luce ancor più abbondante: egli non è solo « fratello » dello stimatissimo Giacomo, ma è anche « fratello » del Signore. I Nazzareni domandano di Gesù: « Non è costui il falegname… il fratello di Giacomo… e di Giuda? ». Ci colpisce e ci piace ripensare che quest’Apostolo, nei giorni allegri della sua giovinezza, abbia giocato e pregato insieme col giovane Gesù, che con Lui abbia corso e girato sin lassù a Gerusalemme, in occasione delle grandi feste; è anche possibile che Maria, angosciata nella ricerca del suo Dodicenne, si sia rivolta anzitutto ai giovani cugini di Lui, Giuda e Giacomo, e abbia loro chiesto quando e dove essi erano stati insieme col suo amato Gesù per l’ultima volta. Come Giacomo, anche quest’Apostolo ebbe con Gesù rapporti umanamente molto intimi ed egli pure raggiunse un po’ alla volta la debita distanza; nella sua lettera di fatto egli si chiama « fratello di Giacomo », ma con religiosa riverenza non « fratello », bensì « servo di Gesù Cristo ».
GIUDA, IL CONTADINO
Giuda Taddeo, prima della sua vocazione, era sposato; anzi, secondo una notizia, che leggiamo in Niceforo Callisto e che Eusebio cita nella sua « Storia Ecclesiastica », sarebbe stato lo sposo delle nozze di Cana. Questa deposizione è certo discutibile; essa però spiegherebbe molto bene la presenza di Gesù e di sua Madre a quelle nozze; essi vollero rendere a un cugino l’alto onore della loro partecipazione. Dei due nipoti di Giuda, di nome Zoker e Giacomo, che l’imperatore Domiziano citò a Roma per sottoporli a interrogatorio, abbiamo scritto trattando di Giacomo; essi vivevano nella Palestina quali semplici coloni e quale reddito del loro esiguo podere denunciarono all’imperatore mille denari. Forse anche il loro nonno Giuda s’era affaticato sulle medesime zolle, che lavoravano essi; la sua lettera, come quella di suo fratello Giacomo, è lettera d’un contadino, forte, quasi rude, non delicata e profumata, con similitudini tolte dalla vita dei campi. Egli paragona i maestri di errore ai pastori, « che pascono se stessi », con « le nubi senz’acqua, che son trasportate qua e là dal vento », con « gli alberi nel tardo autunno, senza frutti, morti due volte, divelti ». Giuda contadino! Prima di spargere la semente della parola di Dio nel vasto mondo come apostolo, seminò come contadino orzo e grano nel fondo della sua terra, inciso dall’aratro. Come dovette quindi comprendere bene le parabole del Signore! Quella, per esempio, del seminatore, cui nel seminare il grano cadde parte sulla via, parte su fondo sassoso e parte fra le spine; quella della semente, che di giorno e di notte cresce da sé e l’agricoltore non sa come; e quella della zizzania, che germoglia col grano e al tempo della raccolta viene legata in fastelli per essere bruciata. Tutto questo il Signore l’aveva potuto osservare nei campi dei suoi cugini. In novembre, caduti i primi acquazzoni della pioggia temporanea, Giuda attaccava bue e asino per rivoltare il terreno, nel quale poi seminava orzo e grano; in febbraio badava alle viti, recideva i germogli selvatici e mondava i tralci buoni perché portassero frutto ancor più abbondante; alla fine di marzo sospirava ardentemente la pioggia serotina, che consentiva al grano di spigare; nella primavera, bella come un paradiso ma breve, coltivava l’orto a cocomeri, cetrioli, fagioli, lenticchie, cipolle e aglio, anice, menta e comino; sin dalla fine di maggio cominciava a trebbiare il grano e lo ventilava con grandi pale al vento della sera; terminata la messe dei cereali, seguiva la tosatura delle pecore; sul finire d’agosto si portava nel vigneto a vendemmiare; in settembre maturavano i fichi e infine le olive, l’ultimo frutto, che venivano pigiate nei torchi come i grappoli d’uva. Così ogni giorno aveva la sua fatica e la sua pena. Giuda non se ne arricchì. I suoi nipoti Zoker e Giacomo, nell’interrogatorio subìto dinanzi a Domiziano, confessarono candidamente che i mille denari, che la loro domestica sostanza fruttava, erano esauriti per sostentare la vita e pagare le tasse. Le tasse infatti erano gravose; vi furono periodi, nei quali il contadino doveva consegnare un terzo della sua raccolta di cereali e persino metà dell’olio e del vino; Erode Antipa, al cui servizio era stato Matteo, il compagno d’apostolato di Giuda, dalla sua tetrarchia, che non era poi grande, ricavava ogni anno, come gettito delle tasse, due milioni di franchi, e cioè cinque volte tanto secondo il valore del denaro oggi. Ai Romani dovevano essere pagati la tassa fondiaria e il testatico; dieci anni prima che Gesù desse inizio alla sua vita pubblica, una legazione dei Giudei si portò a Roma per sollecitare un alleggerimento delle imposte, ché il buon popolo era oppresso ab immemorabili e solo perché alcuni pochi grandi potessero crapulare e millantarsi; le sontuose costruzioni dell’ambiziosa famiglia degli Erodi ingoiavano somme, che furono pagate col sangue dei poveri. Quando il Signore scagliò contro i ricchi i suoi « Guai a voi! », il semplice Giuda dovette farGli intendere, con un significativo cenno del capo, tutto il suo consenso. Nonostante però il lavoro e la povertà, Giuda visse contento e beato, chino sulle zolle della sua patria; pellegrinava, come d’obbligo, a Gerusalemme per le tre feste di Pasqua, di Pentecoste e dei Tabernacoli, ma poi se ne tornava di nuovo contento al suo villaggio in Galilea; forse era Cana, se non era la stessa Nazareth; lassù, nella Città Santa, si faceva così strepito e poi quel mercato profano… e il mondo si dilettava di teatri, di progetti per le corse, di piazze per lo sport e per tutta la sua concupiscenza degli occhi, per la concupiscenza della carne e la superbia della vita. Che Iddio non permetta mai ch’egli debba portarsi in mezzo a quel cattivo mondo! Egli vuol vivere e morire laggiù, nella sua terra e in seno alla sua famiglia; quivi fioriscono i suoi campi e la sua donna e giocano i suoi figli. E invece era ormai vicino il giorno, in cui avrebbe preso congedo dalla sua famiglia, avrebbe abbandonata la patria e avrebbe scelto in compenso l’essere senza patria, come chi vaga per le strade, e se ne sarebbe andato in tutto il mondo. Un sacrificio eroico per un contadino! E Giuda fu tanto generoso per sostenerlo; egli rispose il suo « Adsum! », quando il Signore, volendone fare un messaggero del suo regno, lo chiamò via dalla sposa e dai figli e dai campi.
GIUDA, IL CORAGGIOSO
Sulle prime si direbbe che la Sacra Scrittura non ci fornisca intorno al nostro Apostolo nessuna notizia; e infatti, se si eccettui una breve espressione nel Vangelo di Giovanni, né gli altri Evangelisti né gli Atti degli Apostoli ci ricordano di lui più del suo nome. Ma precisamente questo nome è significativo e ricco di luce; perché Matteo e Marco aggiungono a Giuda un soprannome, ch’egli non dovette ricevere, come ad esempio Pietro e i Boanerges, solo al momento della chiamata del Signore; l’opinione pubblica, è evidente, glielo aveva accordato in precedenza. Giuda è chiamato « Taddeo » o, secondo parecchi manoscritti antichi, « Lebbeo »; ma Taddeo e Lebbeo significano in realtà la stessa cosa; Taddeo, dall’aramaico «thad » = petto, e Lebbeo da «leb » = cuore, significano l’intrepido, l’impavido, l’ardito; in certi testi del Vangelo si leggono tutti e tre i nomi: Giuda Taddeo Lebbeo, tanto che già Girolamo chiamava quest’Apostolo « trinomico », quello dai tre nomi”. – Questo soprannome doveva distinguere anzitutto il buon Giuda dal Giuda traditore; esso però voleva pure esprimere la natura propria di questo Apostolo, perché non senza un motivo doveva toccargli d’essere designato col nome onorifico di « Taddeo », l’audace. L’audacia, che confina con la temerarietà, era certamente una caratteristica comune ai Galilei; un filosofo romano era ammirato del loro coraggio; per difendere la loro fede sfidavano persino i tiranni; un vecchio proverbio diceva che per i Giudei il denaro la vinceva sull’onore, ma per i Galilei l’onore andava sopra il denaro. E questo proverbio getta luce sui due Giuda del Collegio apostolico, sì che ne possiamo scorgere più chiaramente la profonda differenza: Giuda il traditore, che proveniva dalla Giudea, riservato e calcolatore già per la sua origine, metteva il denaro al di sopra degli ideali; Giuda invece l’audace stimava la fedeltà e l’onore più dei denari. Tutto questo è vero; nondimeno Taddeo dovette essere d’un’arditezza, che faceva stupire gli stessi Galilei, se lo chiamarono semplicemente « l’ardito »; e come tale egli è entrato anche nei cataloghi degli Apostoli. E ch’egli fosse quale il nome io diceva, un tipo cioè energico, coraggioso, robusto da fare onore ai suoi patroni, Giuda capostipite della tribù e Giuda Maccabeo, lo dimostra in tutti i secoli la sua lettera. Nel battistero di Ravenna si conserva un’immagine in mosaico del quinto secolo, che traduce felicemente quello, che la prima età cristiana pensava di quest’Apostolo: egli ha un volto allungato, teso, tendineo, che rivela energia e decisione. Chissà come avranno lampeggiato gli occhi di Taddeo, quando il Signore parlava a lui e ai compagni di coraggio e di forza! « Non abbiate paura di loro. Quello che Io dico nelle tenebre, voi annunziatelo nella luce! Quello ch’Io vi ho sussurrato nell’orecchio, predicatelo sui tetti! Non temete coloro, che possono ben uccidere il corpo, non però l’anima! Neppure crediate ch’Io sia venuto a portare pace sulla terra! Non sono venuto a portare la pace, ma la spada. Chi cerca di guadagnare la sua vita, la perderà; chi invece perde la sua vita per amor mio, la guadagnerà ». – Basta quest’unico Apostolo, Giuda Taddeo, per rovesciare dalla base tutte le denigrazioni contro il Cristianesimo, quasi sia un affare per indoli frolle e leziose o per individui inabili alla vita e indegni di essa. Cristo chiamò a far parte della sua ridottissima compagnia un uomo, ch’era senz’altro proverbiale per il suo ardire. E Taddeo non era l’unico di questa tempra; Gesù stesso designò Giacomo e Giovanni col titolo « Boanerges », figli del tuono, e d’un Simone fece la roccia; l’altro Simone era uno Zelote; tutti poi erano uomini completi e sicuri, che offrirono e compirono cose sovrumane. Cristo esige nature forti; si noti però quello ch’è ancor di più: Egli può educare alla fortezza anche le nature deboli; il forte è richiesto da Cristo, il debole ne è attratto; poiché la virtù di Cristo è tanto esimia, che in essa si perfeziona il forte e il debole. I Libri Sacri non ci forniscono nessuna spiegazione in ordine al come Taddeo abbia meritato il suo nome glorioso, quali fossero le gesta eroiche compiute, quali difficoltà sfidasse con cuore ardito, a quali tempeste e pericoli esponesse il petto e la fronte; si inclina a ritenere ch’egli si sia procurato il titolo « l’audace » nel « movimento di resistenza » della sua terra. Al tempo infatti di Gesù la Galilea era febbricitante per le agitazioni politiche; sopportava il giogo della brutale forza d’occupazione romana digrignando i denti; dei fanatici giudei, gli « Zeloti », i « Maquis » = partigiani di quel tempo, accaniti e santamente sdegnati, cercavano di aiutarsi nell’impresa con la violenza; molestavano i Romani dove potevano e facevano le loro vendette sui rinnegati e traditori in seno al popolo proprio; valendosi di corpi volontari, conducevano una guerriglia continuata; erano in ogni luogo e in nessun luogo, e quindi difficilmente potevano venire assaliti. Simone, ch’era probabilmente un fratello di Giuda Taddeo, uno dei dodici Apostoli, porta espressamente il soprannome «lo Zelote ». È permesso pensare che anche Giuda prendesse parte a quel movimento patriottico e si sia guadagnato l’appellativo « Taddeo », l’ardito, con non pochi colpi di mano audaci, che gli sarebbero costati la vita, qualora fosse stato acciuffato; anch’egli del resto porta spesso, specialmente negli autori latini, la designazione propria del partito: « lo Zelote »; è vero che può trattarsi d’uno scambio con Simone, sarebbe però uno scambio, che non manca di qualche motivo intrinseco. Non ci sfugge certo il grande rischio corso da Gesù, chiamando nella cerchia dei suoi Dodici simili individui, che, come un Giuda Taddeo e un Simone Zelote, erano carichi di dinamite; ma Egli per l’erezione del suo regno sulla terra abbisogna anche di caratteri tali, si direbbe anzi proprio di questi, eroi arditi, santi avventurieri, che sappiano maneggiare la spada per Iddio. Taddeo e Simone avevano certamente, riguardo al futuro regno messianico, delle concezioni false, come tutti gli Apostoli e anche più degli altri loro due; per loro il Messia era l’attesissimo liberatore del popolo oppresso, il glorioso trionfatore del dominio straniero dei Romani; ma il Signore non respinse i suoi discepoli perché avevano la testa piena di queste fantasie e speranze inesatte e contaminate, procurò invece di nobilitarli; e questa tattica del Signore ci è indicata chiaramente dall’unico passo, in cui nel Vangelo si fa parola di Giuda e a Giuda. Il testo ricorre nel discorso di congedo, tenuto da Gesù nel Cenacolo la sera del Giovedì Santo; nello strazio della separazione. Egli fece dono ai suoi Discepoli anche della consolazione d’una misteriosa e permanente unità con Lui: « Non vi lascio orfani; Io vengo a voi. Ancor poco tempo e il mondo non Mi vede più; voi però Mi vedete, perch’Io vivo e anche voi vivrete… ». Il mondo… voi! L’onda del dire del Signore mormorava ormai più avanti, ma Giuda Taddeo restò a pensare a quelle parole e dopo alcuni versetti troncò in bocca al Maestro le preziose sentenze, proponendogli la questione che non sapeva sciogliere: « Signore, che è avvenuto che Ti manifesterai a noi e non al mondo? ». È l’unica parola che ascoltiamo da Giuda Taddeo, il Vangelo non ce ne ha conservate altre; ma essa guizza dall’intimo del suo essere e illumina per un istante quest’Apostolo, quasi sconosciuto. Giuda è entusiasta di Cristo; egli desidera e vuole con passione le sue « manifestazioni »; per lui quindi è un enigma tormentoso, anzi un’amara delusione che il Signore voglia manifestarsi soltanto al ristretto gruppo dei Dodici — « solo a noi! » —, e non anche alle moltitudini — « al mondo » —. Così cinque giorni prima, la domenica delle Palme, egli aveva trovato incomprensibile e inaudito che Gesù avesse fatto sì il solenne ingresso, ma non avesse poi preso possesso della Città; precisamente lui, Giuda del Nuovo Testamento, si struggeva dal desiderio che « la sua mano pesasse sulla cervice dei nemici », come il patriarca Giacobbe aveva profetizzato di Giuda, padre della tribù, e potesse ripulire la Città Santa dal nemico pagano, come un tempo Giuda Maccabeo, per restituirla al Dio di Israele e al suo inviato. « Perché non Ti manifesti anche al mondo? ». Questa domanda, dettata dall’ardore impaziente, si connetteva, e sino a fondersi in una sola, con quella richiesta che i fratelli di Gesù, scontenti, Gli avevano presentata già prima della festa dei Tabernacoli; e il nostro Giuda Taddeo era appunto uno di quelli. « Va via di qui (da quest’angolo sperduto della Galilea) e portati in Giudea, affinché anche i tuoi discepoli veggano le opere, che Tu compi. Nessuno. infatti, che voglia essere riconosciuto pubblicamente, opera di nascosto. Se Tu puoi fare tali cose, mostraTi apertamente al mondo! ». Che quindi Gesù non voglia manifestare la sua dignità, annientare i suoi nemici ed erigere il suo regno con potenza e splendore cozza contro tutte le idee dell’audace Giuda. « Perché solo a noi? Perché non al mondo? ». Ecco la domanda, l’unica di Giuda Taddeo. Il seguito del discorso di Gesù non sembra riferirsi affatto alla sua meschina obiezione, perché « Gesù gli replicò: “Se uno Mi ama, osserva la mia parola, e mio Padre lo amerà, e verremo a lui e metteremo dimora presso di lui. Chi non Mi ama, non osserva neppure le mie parole ». E nondimeno nelle profondità di questa risposta c’era la soluzione del problema, che tormentava Taddeo: Giuda, l’intrepido, chiedeva le manifestazioni della potenza e della gloria di Gesù; Gesù promette le manifestazioni del Padre e del Figlio nelle profondità delle anime; ma l’intima esperienza di Dio e l’unità con Lui è riservata esclusivamente agli amanti; il mondo quindi, che non ama, non può neppure godere di queste manifestazioni. « V’è dunque una certa rivelazione interiore di Dio, che gli empi non conoscono affatto, perché non hanno parte alla rivelazione del Padre e dello Spirito Santo. Fu loro possibile avere la rivelazione del Figlio, ma solo quella nella carne, la quale né è della natura di quella, né può rimanere sempre con loro, qualunque sia in realtà, ma solo per breve tempo e a dir vero per il giudizio e non per la gioia, per il castigo e non per il premio ». Queste sublimi parole segnano la strada che lo stesso Taddeo dovrà seguire in avvenire, Egli è un apostolo intrepido; e il Signore non scorcia l’eroe, nessuno anzi meno del Signore lo mutila, invece lo eleva e nobilita; Taddeo deve restare audace e operare cose audaci; non però con colpi arditi per un regno del mondo, bensì impegnando il suo ardimento per il regno di Dio nel mondo; compito degno del suo cuore generoso non è la politica, ma l’avvento del Padre e del Figlio e della carità dello Spirito nelle anime degli uomini.
LA LETTERA DI GIUDA
Fra i Libri Sacri del Nuovo Testamento troviamo una lettera, che ha per autore un Giuda e che fin dai primi tempi fu attribuita all’apostolo Giuda. E per buone ragioni. La lettera infatti è audace e forte, come solo un « Taddeo », un ardito, poteva scrivere. È un breve brano di appena 25 versetti; già Origene, lodandola, scriveva: « Giuda scrisse una lettera breve, ma ricca di parole di celeste sapienza »; è indirizzata « ai chiamati, che sono diletti in Dio Padre e per Gesù Cristo conservati ». Da essa veniamo a conoscere anche i suoi destinatari, ch’erano i giudeocristiani della Palestina e della Siria, poiché le poche righe rigurgitano di prove e di allusioni dal Vecchio Testamento e adducono anche dei libri extrabiblici, scritti per edificazione dei lettori, che erano noti ai Giudei, quali « il libro di Henok » e « L’Assunzione di Mosè ». Nella lettera leggiamo pure il motivo, che indusse Giuda a scriverla: « Si sono intrusi degli individui, che da lungo tempo sono segnati per la condanna, empi, che cambiano la grazia del nostro Dio in lussuria e negano l’unico nostro dominatore e Signore Gesù Cristo ». Questi maestri d’errore, che erano certamente i così detti « Nicolaiti », travisando la cristiana libertà, che affrancava dalla legge dell’Antico ‘Testamento, richiesta da Paolo e da tutti gli Apostoli decisa, respingevano totalmente ogni legame di coscienza e predicavano che il nuovo e vero « vangelo » era il vivere sbrigliato degli istinti. Già Paolo s’era acremente avventato contro quella genia, « il dio della quale è il ventre e la gloria è l’obbrobrio »; anche Pietro, nella sua seconda lettera, scagliò il suo supremo anatema contro quella sfrenatezza morale, che voleva camuffare impudentemente i suoi vizi, valendosi ipocritamente del motto tanto efficace, proprio della « cristiana libertà »: « Per i puri tutto è puro! ». Nella sua lettera Pietro si servì molto dello scritto di Giuda; confrontando anche solo il secondo capitolo, ad esempio, con la lettera di quest’ultimo, si ha l’impressione quasi di una rielaborazione della lettera allo scopo di migliorarla e anche di mitigarla un po’. Il fatto che Pietro abbia quasi inserito semplicemente, così com’era, la lettera del collega nel proprio scritto attesta la stima che aveva di lui. Essa dovette essere scritta fra l’anno 62, primo anno dalla morte di Giacomo Minore, e l’anno 67, epoca di composizione della seconda lettera di Pietro. Possiamo di qui dedurre che per tutto il tempo, in cui Giacomo resse la Chiesa di Palestina, questa non fu tocca da false dottrine, come del resto sappiamo da una testimonianza di Egesippo. L’inizio della lettera di Giuda si può dire un nutrito squillo di tromba, che annuncia il tema: « Lottate per la fede, che una volta per tutte fu trasmessa ai Santi! ». L’intera lettera poi è un severissimo monito contro i maestri dell’eresia, cui vengono comminati i giudizi di Dio con riferimento a esempi dell’Antico Testamento. Impressiona la lingua usata; è realmente ardita, energica, cruda quasi, richiama il grido infuocato e irato dei Profeti dell’Antico Patto: « Questi sognatori (gli eretici) contaminano la carne, disprezzano l’autorità e bestemmiano gli insigniti della maestà… Bestemmiano tutto quello che non comprendono; ma trovano la loro rovina in tutto quello, che, come animali irragionevoli — Giuda, il contadino! —, intendono per naturale istinto. Guai a loro! Son macchie d’ignominia, che nelle vostre agapi gozzovigliano impudici e ingrassano se stessi; furiosi flutti marini, che spumano la loro turpitudine; stelle erranti, cui è riservata in eterno l’oscurità delle tenebre; mormoratori che lamentano la loro sorte e in aggiunta però soddisfano le loro passioni ». Questa lingua ci rivela il nostro « Taddeo », l’audace; non è un uomo servile, un tipo avveduto sette volte, un cappellano di corte; pesta anche sul gregge del Signore col suo pesante passo di contadino e mette le cose a posto. Non gli interessa di essere amato od onorato, ma « mi sta molto a cuore di scrivere a voi intorno alla comune nostra salvezza »; dove questa salvezza è in pericolo, egli mette la sua mano energica, taglia sul vivo imperterrito, predica senza paura e senza timidi riguardi quello che lo Spirito di Dio gli comanda, riesca opportuno o importuno. Ma appunto in questo procedere appare pure che l’arditezza dell’apostolo Giuda è un’altra, è spiritualizzata: l’insegnamento del Signore nel Cenacolo aveva fruttato. Egli non si accinse a scrivere la sua lettera, stimolato da un bisogno naturale di lottare e di; essa non è un’esplosione di temperamento violento; nell’introduzione vi leggiamo persino una scusa: « Mi vedo necessitato ad ammonirvi con uno scritto »; non gli sta a cuore la lotta, ma « la comune salvezza », per assicurare la quale non paventa certo neppure la lotta. Dopo aver respinto i maestri della falsità con espressioni pungenti e decisive, aggiunge i suoi mirabili avvisi sul modo di condursi praticamente con loro, perché anche la loro salvezza sta a cuore al nostro ardito. « Mettete sulla buona via quelli, che ancora vacillano! Altri salvate, strappandoli dal fuoco; dei terzi abbiate compassione con… timore! Guardatevi però persino dalla veste, che sia macchiata di carne! ». La lettera di Giuda, tanto vecchia per il nostro tempo, ha nondimeno una particolare importanza, perché il culto della carne è stato nuovamente eretto a sistema di falsa dottrina; essa potrebbe servire di spunto scritturistico per molte prediche contro gli abusi morali dell’epoca nostra. – La finale della lettera sembra volerci trasportare d’improvviso dalla severa predica, potremmo dire, « da spiaggia balneare » in un coro di monaci benedettini, ove si eleva solenne il canto del « Gloria Patri ». La meravigliosa dossologia finale è l’eco riconoscente delle parole, che il Signore un giorno aveva detto nel Cenacolo al suo audace apostolo Giuda circa la venuta del Padre e del Figlio nell’anima di chi è in grazia: «A Lui, che può preservarvi dalla caduta e presentarvi senza macchia e ripieni d’esultanza dinanzi alla sua gloria, a Lui, all’unico Iddio, nostro Salvatore, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, sia onore e gloria, dominio e potenza innanzi a tutti i tempi e adesso e per tutta l’eternità! Amen ».
GIUDA, L’APOSTOLO
L’attività apostolica di Giuda Taddeo è velata dall’oscurità, come quella della maggior parte degli Apostoli, le notizie anzi intorno alla sua sono tanto più confuse in quanto i suoi tre nomi hanno dato occasione a molti scambi; le più sicure sono ancora le conclusioni, che possiamo dedurre dalla sua stessa lettera. Così come a campo principale della sua missione siamo rinviati alla Palestina; quivi i due fratelli e contadini Giacomo Minore e Giuda Taddeo, con la fatica e nel sudore della fronte, riposero nei granai di Cristo la messe raccolta fra il loro popolo, prima che, come temporale ormai imminente, lo raggiungesse la minacciosa catastrofe della rovina. S’accorda con la nostra supposizione una notizia fornitaci da Niceforo, secondo la quale l’apostolo Giuda Taddeo sarebbe stato missionario della Giudea, Galilea, Samaria e Idumea. Anche della Galilea! Ivi viveva la sua buona sposa, ormai attempata, vivevano i suoi figli, intenti alla coltivazione dei campi, che un giorno appartenevano a lui, vivevano pure i suoi nipoti Zoker e il piccolo Giacomo, i quali, quando il nonno stanco e polveroso ritornava dai suoi giri apostolici per far loro qualche rara visita, si stringevano a lui dintorno e lo accarezzavano; il giorno seguente s’allontanava di nuovo da quella amata tranquillità della patria per portarsi in terre lontane, urgendolo l’amore di Cristo: il sacrificio dell’Apostolo! Secondo le informazioni, che ci forniscono degli autori siriaci, l’attività apostolica di Giuda Taddeo resterebbe trasferita a Edessa, l’odierna Urfa nella Turchia orientale; infatti in un Innario armeno — l’anno 90 prima di Cristo il grande regno degli Armeni si estendeva ancora giù fino a Edessa — del secolo decimoterzo gli Apostoli Giuda Taddeo e Bartolomeo sono chiamati « i nostri primi illuminatori ». Un documento ufficiale assai strano dell’archivio di Edessa, che Eusebio cita nella sua « Storia Ecclesiastica », presenta uno scambio di lettere fra Cristo e il principe Abgar V di Edessa: Abgar prega il Signore di recarsi da lui in Edessa per guarirlo dalla sua malattia; Cristo risponde che dal Padre non ha ricevuto la missione che per Israele; ma dopo la sua ascensione manderà a Edessa uno dei suoi discepoli; più tardi dunque, secondo quanto riferisce Eusebio, l’apostolo Tommaso avrebbe inviato ad Abgar uno dei 72 discepoli, di nome Taddeo, chiamato anche Addeo; a questo punto la « Dottrina di Addeo », uno sviluppo dell’antica leggenda risalente all’anno 400 circa, inserisce pure la notizia che il messo inviato ad Abgar dipinse l’immagine di Cristo. Evidente che la lettera non è autentica; anche Eusebio ha qui confuso l’apostolo Taddeo, uno dei Dodici, con Addeo, uno dei 72 discepoli, il fondatore della chiesa di Edessa. Maggiore probabilità ha un’altra leggenda, secondo la quale Giuda Taddeo, dopo l’attività svolta presso i suoi compatriotti, si sarebbe portato nelle regioni limitrofe della Palestina, nell’Arabia, Siria e Mesopotamia; avrebbe sofferto la morte del martire a Berytus (Beirut) o ad Aradus in Fenicia, mentre invece la maggior parte degli autori greci afferma che Taddeo morì di morte naturale. Uno scritto del principio forse del quarto secolo, attribuito a Craton, un preteso alunno degli Apostoli, risultante di dieci libri, fa che Taddeo s’incontri col fratello suo Simone in Persia, insieme al quale evangelizza quel regno potente; nonostante la continua ostilità dei due maghi Zaroes e Arfaxat, i successi dei due Apostoli furono incredibili; nel giro di quindici mesi battezzarono in Babilonia. 60.000 uomini, senza contare le donne e i fanciulli, e in tredici anni percorsero le dodici provincie dell’impero persiano. Giunti nella città di Suanir, i due Apostoli furono richiesti di sacrificare nel tempio del sole al sole e alla luna, ma essi risposero che il sole e la luna erano solamente creature di quel grande Iddio, che essi annunziavano; cacciarono dagli idoli i demoni, che vi soggiornavano, e fra ululati e orrende bestemmie se ne scapparono due figure nere e terrificanti; allora i sacerdoti e il popolo si precipitarono sui due Apostoli; Giuda disse a Simone: « Vedo il mio Signore Gesù Cristo, che ci chiama »; furono uccisi da una grandine di sassi e a colpi di mazza, e per questo l’arte mette in mano all’apostolo Giuda una pesante mazza. Il re Serse avrebbe fatto trasportare i corpi dei santi Apostoli nella sua città residenziale, dove avrebbe edificato una splendida chiesa marmorea in forma di ottagono e avrebbe composte le salme in una stanza rivestita di lamine d’oro, entro a un sarcofago d’argento; la costruzione sarebbe stata ultimata e consacrata dopo tre anni, il primo giorno di luglio, nel giorno cioè della morte degli Apostoli. Tutto questo lo troviamo nella leggenda latina, che si richiama all’antico scritto di Craton ed è penetrata, nelle sue linee essenziali, come lezione nel Breviario romano per il giorno della festa in onore dei due Apostoli. Nella Chiesa occidentale essi vengono festeggiati nel medesimo giorno, come Filippo e Giacomo, come Pietro e Paolo, da tempo antichissimo; il motivo vero, oggettivo della loro festa in comune può essere la parentela di Simone e Giuda, accennata dal Vangelo, e la loro attività e morte insieme, affermata dalla leggenda. Come giorno per la festa è stato scelto il 28 ottobre, giorno del tardo autunno, che ci richiama, e richiamandolo ci ammonisce, il grave testo della lettera di Giuda, che dice « degli alberi spogli nel tardo autunno » e « delle nubi, che il vento caccia qua e là ». – La conclusione della vita degli Apostoli lascia quasi sempre un po’ insoddisfatti, perché sul loro conto, come per un padre che se ne va, desidereremmo avere notizie più sicure e più precise. Iddio solo sa quant’altre e grandi cose avrà compiute anche Giuda Taddeo, l’audace avventuriero di Cristo! Ma le sue gesta pure stanno dinanzi al Signore e non sono manifeste al mondo. Si spiega forse così che il nascondimento apostolico sia tanto importante? Dopo la parola, che il Signore rivolse a Giuda Taddeo di « non manifestarsi al mondo », ma di scorgere l’essenziale nel fatto che il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo « prendono dimora presso di noi », quel nascondimento ci è di monito e conforto insieme.