DOMENICA III DI QUARESIMA (2022)
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Stazione a S. Lorenzo fuori le mura.
Semidoppio, Dom. privil. di I cl. • Paramenti violacei.
L’assemblea liturgica si tiene in questo giorno a S. Lorenzo fuori le mura che è una delle cinque basiliche patriarcali di Roma. In questa chiesa si trovano i corpi di due diaconi Lorenzo e Stefano. L’Orazione del primo (10 agosto) ci fa domandare di estinguere in noi l’ardore dei vizi come questo Santo superò le fiamme dei suoi tormenti; e quella del secondo (26 dicembre) ci esorta ad amare i nostri nemici come questo Santo che pregò per i suoi persecutori. Queste due virtù: la castità e la carità, furono praticate soprattutto dal patriarca Giuseppe, di cui la Chiesa ci fa la narrazione nel Breviario proprio in questa settimana. Giuseppe resistette alle cattive sollecitazioni della moglie di Putifarre e amò i fratelli fino a rendere loro bene per male. (Nel sacramentario Gallicano – Bobbio – , Giuseppe è chiamato il predicatore della misericordia; e la Chiesa, nella solennità di S. Giuseppe, proclama in modo speciale la sua verginità.). Quando Giuseppe raccontò ai fratelli i suoi sogni, presagio della sua futura gloria, essi concepirono contro di lui tanto odio, che presentatasi l’occasione, si sbarazzarono di lui gettandolo in una cisterna senza acqua. Di poi lo vendettero ad alcuni Ismaeliti che lo condussero in Egitto e lo rivendettero ad un nobile egiziano di nome Putifarre. Fu appunto lì che Giuseppe resistette energicamente alle sollecitudini della moglie di Putifarre e divenne per questo il modello della purezza (la Chiesa nel corso di questa settimana, – Epistola e Vangelo di sabato – legge ì brani della donna adultera e di Susanna. I Padri della Chiesa spesso hanno messo in rapporto quest’ultima con Giuseppe). – « Oggi, dice S. Ambrogio, vien offerta alla nostra considerazione la storia del pio Giuseppe. Se egli ebbe numerose virtù, la sua insigne castità risplende in modo del tutto speciale. È giusto quindi che questo santo Patriarca ci venga proposto come lo specchio della castità » (Mattutino). Giuseppe accusato ingiustamente dalla moglie di Putifarre, fu messo in prigione: egli si rivolse a Dio, lo pregò di liberarlo dalle sue catene. L’Introito usa espressioni analoghe a quelle della preghiera di Giuseppe: « I miei occhi sono rivolti senza tregua verso il Signore, poiché Egli mi libererà dagli inganni ». « Come gli occhi dei servi sono fissi verso i padroni, continua il Tratto, cosi io volgo il mio sguardo verso il Signore, mio Dio, fino a quando non avrà compassione di me ». Allora « Dio onnipotente riguarda i voti degli umili, e stendi la tua destra per proteggerli » (Orazione). Faraone difatti fece uscire Giuseppe dalla prigione, lo fece sedere alla sua destra e gli affidò il governo di tutto il suo regno. Giuseppe prevenne la carestia che durò sette anni; il Faraone allora lo chiamò « Salvatore del popolo ». (Il Vangelo dà una sola volta questo titolo a Gesù, quando parla alla Samaritana presso il pozzo di Giacobbe. Questo Vangelo è quello del Venerdì della stessa settimana, consacrato alla storia di Giuseppe). – In questa occasione i fratelli di Giuseppe vennero in Egitto ed egli disse loro: « Io sono Giuseppe che voi avete venduto. Non temete. Dio ha tutto disposto perché io vi salvi da morte ». La felicità di Giacobbe fu immensa allorché poté rivedere il figlio; egli abitò con i suoi figli nella terra di Gessen, che Giuseppe aveva loro data. « La gelosia dei fratelli di Giuseppe, dice S. Ambrogio, è il principio di tutta la storia di Giuseppe ed è ricordata nello stesso tempo per farci apprendere che un uomo perfetto non deve lasciarsi andare alla vendetta di un offesa o a rendere male per male » (Mattutino). È impossibile non riconoscere in tutto questo una figura di Cristo e della sua Chiesa. – Gesù, figlio della Vergine Maria (Vang.), è il modello per eccellenza della purità verginale. Il Vangelo lo mostra in lotta in modo speciale contro lo spirito impuro. Il demonio che egli scaccia col dito di Dio, cioè per virtù dello Spirito Santo, dal muto ossesso, era « un demonio impuro », dicono S. Matteo e San Luca. La Chiesa scaccia dalle anime dei battezzati il medesimo spirito immondo. Si sa che la Quaresima era un tempo di preparazione al Battesimo e in questo Sacramento il Sacerdote soffia per tre volte sul battezzato dicendo: « esci da lui, spirito impuro, e fa luogo allo Spirito Santo ». « Ciò che si fece allora in modo visibile, dice S. Beda nel commento del Vangelo, si compie invisibilmente ogni giorno nella conversione di quelli che divengono credenti, affinché dapprima scacciato il demonio esse scorgano poi il lume della fede, indi la loro bocca, prima muta, si apra per lodare Dio » (Mattutino). « Né gli adulteri, né gli impudichi, dice parimente S. Paolo nell’Epistola di questo giorno, avran parte nel regno di Cristo e di Dio. Non si nomini neppure fra voi la fornicazione ed ogni impurità. Specialmente in questo tempo di lotta contro satana, noi dobbiamo imitare Gesù Cristo di cui Giuseppe era la figura. Questo Patriarca ci dà ancora l’esempio della virtù della carità, come Gesù e la sua Chiesa. Gesù, odiato dai suoi, venduto da uno degli Apostoli, morendo sulla croce, pregò per i suoi nemici. Pregò Dio, ed Egli lo glorificò facendolo sedere alla sua destra nel suo regno. Nella festività di Pasqua, Gesù, per mezzo dei Sacerdoti, distribuirà il frumento eucaristico, come Giuseppe distribuì il frumento. Per ricevere la Santa Comunione, la Chiesa esige questa carità, della quale S. Stefano, le cui reliquie si conservano nella chiesa stazionale, ci diede l’esempio perdonando ai suoi nemici. Gesù esercitò questa carità in grado eroico « allorché offrì se stesso per noi » sulla croce (Ep.), di cui l’Eucaristia è il ricordo. — La figura di Giuseppe e la stazione di questo giorno illustrano in una maniera perfetta, il mistero pasquale al quale la liturgia ci prepara in questo tempo.
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps XXIV: 15-16.
Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam unicus et pauper sum ego.
[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]
Ps XXIV: 1-2
Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam,
[A Te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]
Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam únicus et pauper sum ego.
[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]
Oratio
Orémus.
Quæsumus, omnípotens Deus, vota humílium réspice: atque, ad defensiónem nostram, déxteram tuæ majestátis exténde.
[Guarda, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, ai voti degli úmili, e stendi la potente tua destra in nostra difesa.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes. V: 1-9
“Fratres: Estote imitatores Dei, sicut fílii caríssimi: et ambuláte in dilectióne, sicut et Christus dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis oblatiónem, et hostiam Deo in odorem suavitátis. Fornicatio autem et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, sicut decet sanctos: aut turpitudo aut stultiloquium aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet: sed magis gratiárum actio. Hoc enim scitóte intelligentes, quod omnis fornicator aut immundus aut avarus, quod est idolorum servitus, non habet hereditátem in regno Christi et Dei. Nemo vos sedúcat inanibus verbis: propter hæc enim venit ira Dei in filios diffidéntiæ. Nolíte ergo effici participes eórum. Erátis enim aliquando tenebrae: nunc autem lux in Dómino. Ut fílii lucis ambuláte: fructus enim lucis est in omni bonitate et justítia et veritáte.”
[Fratelli: siate dunque imitatori di Dio come figlioli diletti, e vivete nell’amore, come Cristo che ci ha amati e ha dato per noi se stesso a Dio in olocausto come ostia di soave odore. La fornicazione, la impurità di qualsiasi sorta, l’avarizia non si senta neppur nominare fra voi, come a santi si conviene. Non oscenità, non discorsi sciocchi, non buffonerie, tutte cose indecenti; ma piuttosto il rendimento di grazie. Perché, sappiatelo bene, nessuno che sia fornicatore, o impudico, o avaro (che è un idolatra) ha l’eredità del regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi seduca con vani discorsi, perché a causa di questi vien l’ira di Dio sugli increduli. Dunque non vi associate con loro. Una volta eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signore. Vivete come figli della luce. Or frutto della luce è tutto ciò che è buono, giusto e vero.]
PAROLE ALTE E SOAVI.
Se si paragonano queste esortazioni di San Paolo a quelle dei moralisti suoi contemporanei, pagani o giudei, e d’ogni tempo, purché non Cristiani, uno stupore ci invade e ci domina. Quanta altezza fin dalle prime battute dell’odierna epistola: « imitatores Dei estote, » siate imitatori di Dio. Non si può andar più in là, più in su. Specie se si rifletta che il Dio proposto a modello non è la divinità antropomorfica, malamente, fiaccamente antropomorfica del paganesimo, bensì la divinità austeramente, moralmente trascendente del Cristianesimo; non una divinità umanizzata a cui è difficile mostrarsi anche per l’uomo sub-umano, ma la divinità sublime e pura a cui l’uomo non s’accosta se non superando se stesso. Talché la formula pagana « sequere Deum » che altri potrebbe citare come equivalente a questa di San Paolo, per sminuire la nostra meraviglia, sarebbe fuor di proposito. Ma la meraviglia cresce quando noi sentiamo Paolo dir queste cose tanto difficili ed alte in tono d’infinita semplicità e dolcezza. «Imitate Dio, continua l’Apostolo, come figli carissimi voi che siete in Lui ». Vi è già una gran dolcezza nell’idea stessa della Paternità Divina; è, figlioli di Dio; figli, noi piccoli, di Lui che è così grande! Ma San Paolo accentua ancora la dolcezza di quella grande parola e ricorda ai Cristiani per eccitarli ad essere fedeli, eroici emulatori del Padre Celeste, che essi ne sono i figli carissimi, diletti; anzi prediletti. Figli che Dio veramente da Padre ha amati ed ama, ha amati nel giorno della creazione, riamati anche più teneramente e fortemente nel giorno della redenzione. Figli carissimi! Noi rasentiamo il mistero, siamo tuffati nel mistero dell’amore divino. Che Dio possa avere caro l’uomo! « quid est homo (vien fatto di esclamare) quod memor es eius » che cosa è l’uomo, perché occupi un posticino qualsiasi nei Tuoi pensieri! — e più nel Tuo cuore. Eppure è così. Di Dio noi siamo i figli carissimi. Perciò amorevole deve essere il nostro sforzo per accostarci a Dio, per riprodurlo nella nostra vita. « Ambulate in dilectione », camminate nell’amore, nell’atmosfera dell’amore. L’appello del Monarca è pieno di maestà, l’appello del padrone è pieno di forza, l’appello di Dio è appello di Padre al figlio, appello pieno di dolcezza, pieno d’amore. Ma nell’amore c’è il segreto dell’entusiasmo, e pei sentieri dell’amore, additati da Paolo a noi Cristiani, come i sentieri veramente nostri, le anime volano portate dal vento dell’amore. Nessun segreto migliore di questo per vincere l’altezza che si erge formidabile dinanzi a noi quando guardiamo come a nostra meta niente meno che a Dio.
P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. – (Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)
Graduale
Ps IX: 20; IX: 4
Exsúrge, Dómine, non præváleat homo: judicéntur gentes in conspéctu tuo.
[Sorgi, o Signore, non trionfi l’uomo: siano giudicate le genti al tuo cospetto.
In converténdo inimícum meum retrórsum, infirmabúntur, et períbunt a facie tua.
[Voltano le spalle i miei nemici: stramazzano e periscono di fronte a Te.]
Tractus
Ps. CXXII: 1-3
Ad te levávi óculos meos, qui hábitas in cœlis.
[Sollevai i miei occhi a Te, che hai sede in cielo.]
Ecce, sicut óculi servórum in mánibus dominórum suórum.
[Ecco, come gli occhi dei servi sono rivolti verso le mani dei padroni.]
Et sicut óculi ancíllæ in mánibus dóminæ suæ: ita óculi nostri ad Dóminum, Deum nostrum, donec misereátur nostri,
[E gli occhi dell’ancella verso le mani della padrona: così i nostri occhi sono rivolti a Te, Signore Dio nostro, fino a che Tu abbia pietà di noi].
Miserére nobis, Dómine, miserére nobis.
[Abbi pietà di noi, o Signore, abbi pietà di noi.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam. [Luc XI: 14-28]
“In illo témpore: Erat Jesus ejíciens dæmónium, et illud erat mutum. Et cum ejecísset dæmónium, locútus est mutus, et admirátæ sunt turbæ. Quidam autem ex eis dixérunt: In Beélzebub, príncipe dæmoniórum, éjicit dæmónia. Et alii tentántes, signum de coelo quærébant ab eo. Ipse autem ut vidit cogitatiónes eórum, dixit eis: Omne regnum in seípsum divísum desolábitur, et domus supra domum cadet. Si autem et sátanas in seípsum divísus est, quómodo stabit regnum ejus? quia dícitis, in Beélzebub me ejícere dæmónia. Si autem ego in Beélzebub ejício dæmónia: fílii vestri in quo ejíciunt? Ideo ipsi júdices vestri erunt. Porro si in dígito Dei ejício dæmónia: profécto pervénit in vos regnum Dei. Cum fortis armátus custódit átrium suum, in pace sunt ea, quæ póssidet. Si autem fórtior eo supervéniens vícerit eum, univérsa arma ejus áuferet, in quibus confidébat, et spólia ejus distríbuet. Qui non est mecum, contra me est: et qui non cólligit mecum, dispérgit. Cum immúndus spíritus exíerit de hómine, ámbulat per loca inaquósa, quærens réquiem: et non invéniens, dicit: Revértar in domum meam, unde exivi. Et cum vénerit, invénit eam scopis mundátam, et ornátam. Tunc vadit, et assúmit septem alios spíritus secum nequióres se, et ingréssi hábitant ibi. Et fiunt novíssima hóminis illíus pejóra prióribus. Factum est autem, cum hæc díceret: extóllens vocem quædam múlier de turba, dixit illi: Beátus venter, qui te portávit, et úbera, quæ suxísti. At ille dixit: Quinímmo beáti, qui áudiunt verbum Dei, et custódiunt illud.”
“In quel tempo Gesù stava cacciando un demonio, il quale era mutolo. E cacciato che ebbe il demonio, il mutolo parlò, e le turbe ne restarono meravigliate. Ma certuni di loro dissero: Egli caccia i demoni per virtù di Beelzebub, principe dei demoni. E altri per tentarlo gli chiedevano un segno dal cielo. Ma Egli, avendo scorti i loro pensieri, disse loro: Qualunque regno, in contrari partiti diviso, va in perdizione, e una casa divisa in fazioni va in rovina. Che se anche satana è in discordia seco stesso, come sussisterà il suo regno? conciossiachè voi dite, che in virtù di Beelzebub Io caccio i demoni. Che se Io caccio i demoni per virtù di Beelzebub, per virtù di chi li cacciano i vostri figliuoli? Per questo saranno essi vostri giudici. Che se io col dito di Dio caccio i demoni, certamente è venuto a voi il regno di Dio. Quando il campione armato custodisce la sua casa, è in sicuro tutto quel che egli possiede. Ma se un altro più forte di lui gli va sopra e lo vince, si porta via tutte le sue armi, nelle quali egli poneva sua fidanza, e ne spartisce le spoglie. Chi non è meco, è contro di me; e chi meco non raccoglie, dissipa. Quando lo spirito immondo è uscito da un uomo, cammina per luoghi deserti cercando requie; e non trovandola, dice: Ritornerò alla casa mia, donde sono uscito. E andatovi, la trova spazzata e adorna. Allora va, e seco prende sette altri spiriti peggiori di lui, ed entrano ad abitarvi. E la fine di un tal uomo è peggiore del principio”
Omelia
(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)
LA SEDUZIONE DELLO SPIRITO IMMONDO
Le parole di Gesù, così gravi ed ammonitrici, si rivolgono ad ogni seduzione peccaminosa del demonio; ma principalmente si applicano alla seduzione del demonio impuro. È questi che gira notte e giorno per il mondo, senza pace mai; s’avvicina ai fanciulli ingenui e butta a loro in cuore manate di fango; s’avvicina ai giovani e li allontana dal focolare domestico; entra nelle famiglie e scuote la fedeltà coniugale e dissacra la santità del matrimonio; profana perfino le chiese provocando pensieri torbidi e sguardi cupidi in mezzo ai devoti… È questi che rese imbelle Sansone da gagliardissimo che era; sospinse Davide, uomo dalla coscienza timorata, all’incredibile delitto d’omicidio; che del sapiente Salomone fece un folle adoratore di statue. – Come va allora che quelli che si lasciano sedurre dal demonio impuro si vantano e dicono di non vedervi nulla di male, di non sentirvi nulla di triste; anzi difendono il loro peccato come un bisogno della natura, una forma lieta di sviluppare e di godere più pienamente la vita? Proprio qui, sta il segno più terribile della loro ossessione. Sono dei posseduti ed hanno l’illusione d’essere i soli a goder la libertà; come i pazzi che credono d’esser i soli a ragionar bene. Se s’accorgessero della loro deplorevole condizione, con ogni sforzo cercherebbero d’evaderne: ma perché questo non avvenga, il demonio li illude. Primo rimedio è dunque disilluderli: mostrare loro che lo spirito immondo li ha resi ciechi e muti come il disgraziato che fu condotto in casa a Gesù. – LO SPIRITO IMMONDO RENDE CIECHI. Fra le tante storielle che germogliarono intorno alla figura di Carlo Magno nel buon tempo antico, ne ricordo una che ci può insegnare qualcosa. Il grande imperatore un giorno cominciò a disinteressarsi delle cose del regno, a infastidirsi d’ogni questione seria, con grande meraviglia e sgomento di tutta la corte che l’aveva sempre conosciuto instancabile e provvido reggitore. Si venne a sapere che il suo cuore era stato affascinato da una terribile e impura passione; la notizia si diffuse, tutti facevano nomi e commenti. Solo l’imperatore non s’accorgeva di nulla: né del disonore suo, né delle rovine a cui lasciava andare lo stato. Finalmente, con grande sollievo di tutti, quella donna morì. E fu peggio di prima. L’imperatore la fece rivestire di porpora ricamata d’oro, costellata di gemme, fece spargere profumi e fiori nella funebre stanza, vi fece anche collocare vino e frutta come per un convito di festa. Poi si mise là irremovibile, notte e giorno, parlando e sorridendo con quel cadavere. Venivano costernati i baroni della corte, e tentavano di convincerlo ch’era una vergognosa follìa trascurare un governo glorioso per quell’oscena adorazione. Non riuscirono a farsi capire. Venivano fremendo i paladini ad annunciargli che i Saraceni avevano invaso i confini del santo impero: era suonata l’ora di lasciare i morti ai morti, e d’accorrere con le lance e con le spade. E non si mosse. Al quarto o al quinto giorno di questa macabra pazzia, si squarciò la coltre di nuvole che da tempo copriva il cielo d’Aquisgrana, e un raggio vivissimo di sole penetrò nella stanza e illuminò la faccia della morta. L’imperatore esterrefatto mandò un grido. In quel momento per la prima volta vide che quel viso era disfatto orridamente, vide le chiazze che indicavano la putrefazione già avanzata, e sentì l’irrespirabile fetore di cui era invaso quel posto. Per la prima volta in quel momento vide anche se stesso nella miseranda abbiezione in cui aveva avvilito la dignità imperiale, vide il disprezzo e lo scherno che tutti gli rivolgevano; avrebbe voluto sparire sotterra, svanire nel nulla; si coperse gli occhi con le mani e singhiozzò disperatamente (Cfr.: F. PETRARCA; Fam. I, 3). – La leggenda contiene una profonda verità: che qualche re della terra sia diventato cieco fino alla follia per una passione impura, a noi è facile crederlo. Ma le leggenda è anche vera per ogni uomo che si lascia sedurre dallo spirito immondo, diventa cieco negli occhi dell’anima. Infatti, la sua anima, ebete e pigra, non capisce più le cose della Religione, non vede più il Regno di Dio: parlategli del Salvatore che è morto per noi, della Vergine Maria, della grazia e dei sacramenti, della virtù e del paradiso, e vi guarderà annoiato e stupidito. Non sa gustare più la dolcezza d’un casto amor coniugale e perfino gli si attutisce l’amore per i figli innocenti. Egli non può interessarsi che del suo fangoso piacere; I suoi pensieri e i suoi desideri come uccellacci volano sempre là. – Vanno i sacerdoti dall’uomo sedotto dallo spirito immondo con le prediche, con gli avvisi, con la buona stampa si sforzano di fargli capire ch’egli ha dimenticato la vita eterna e oltraggia la sua famiglia e la propria dignità di figlio di Dio per un corpo che sarà pasto ai vermi del sepolcro. Gli annunciano che lo spirito immondo con sette altri invade la sua anima, che bisogna combattere aspramente e discacciarli. Ma l’uomo sedotto dalla passione impura non capisce nessun ragionamento anzi odia e detesta i preti perché lo disturbano nel suo piacere: li chiama corvi perché gracidano contro di lui importuni richiami. Affogata la mente nei luridi fantasmi, ingolfato il cuore in turpi affetti, egli sente che, se un paradiso c’è, non è per lui. Ed allora, impotente a raggiungerlo, lo nega e nega tutta la religione. L’ordinaria spiegazione della miscredenza è qui: se non ci fosse l’impurità nei cuori, non ci sarebbe tanta incredulità nelle menti. Invece per questa passione Gesù deve sentirsi ripetere assai spesso le tristi parole con cui fu congedato da quei di Gerasa: « Vattene via da noi, lasciaci in pace coi nostri porci » (Mc., V, 17). Ciò che più impressiona è che nessun ragionamento vale a disincantare i sedotti dallo spirito immondo: potete dir loro che si abbrutiscono, che perdono l’anima, che i loro piaceri sono stordimenti fuggitivi, che la morte ridurrà quella creatura in un sacco di vermi, ma essi vedono tutto diverso, presi come sono dal demoniaco affascinamento. – Solo un raggio che venga dal cielo può rivelare a costoro, come già a Carlo Magno imperatore, che adorano un cadavere in putrefazione e che sono precipitati in una miseria vergognosa. Gesù, Figlio di Davide, manda questo raggio a tante anime accecate dallo spirito immondo! – LO SPIRITO IMMONDO RENDE MUTI. Tacciono le preghiere. Dapprima l’impuro perde il gusto di parlare col Signore: non lo vede più, non lo sente più, e perciò pregare gli par che sia un soliloquio vano. Allora recita le sue orazioni da svogliato, poi le tralascia in parte; poi le tralascia del tutto. Se pregasse, Dio sarebbe costretto ad esaudirlo: ma non merita d’essere udito e per questo lo lascia senza più voce. Tacciono le confessioni. Dapprima sono confessioni confuse con peccati confessati in fretta, a mezzo, barbugliandoli nella gola; poi sono confessioni sacrileghe, perché la vergogna ha chiuso la bocca proprio al momento più trepido; infine, l’impuro non si confessa più. Se si confessasse bene Dio sarebbe costretto a perdonargli: ma non merita d’essere perdonato e per questo lascia che rifiuti il gran mezzo di salvezza che è la Confessione. Tacciono i rimorsi. Osservate un ammalato: quando sopporta con piena apatia sino le mosche s’attacchino al suo volto, è segno che la sua fine è irrimediabile. Così quando troverete un peccatore che si lascia coprire dai peccati senza un moto di reazione, senza un brivido di rimorso, dite pure che la sua morte eterna è irrimediabile. A forza d’essere irritato, Dio chiude in se stesso la sua collera e abbandona l’impuro alla sua perniciosa tranquillità. Questi stupisce di non sentir più nessun turbamento di coscienza e s’immagina di non avere nulla da temere. Non s’accorge che il suo è un sopore simile a quello stato d’incoscienza che nei moribondi precede l’inevitabile morte. È questa la massima disgrazia: vivere in perfetto accordo col demonio che pacificamente occupa gli atrii del nostro spirito; rovesciare in noi l’augusto tribunale di coscienza; infrangere ogni sigillo della divina giustizia; spegnere ogni luce della santa verità di Dio. – A chi col peccato si è allontanato dalla propria felicità che consiste nel servire ed amare Dio, il più grande dono è il rimorso: ma guai a quelli che si rendono indegni anche di questo dono! Al loro male non resta più rimedio. – Isaia il profeta li ha visti come uomini « caduti nella notte agli angoli delle strade, così profondamente addormentati da sembrare morti » (Is., 51, 20). Inebriatisi a lungo nel vino dei loro piaceri, perdono ogni cognizione di Dio e ogni sentimento del loro male. – Come faremo a scampare da questa orrenda fine? Il cammino è tanto lubrico ed inclinato che bisogna badare molto seriamente ai primi passi. Chi non vigila su questi, s’abbandona all’impeto d’una irrefrenabile corsa. Attenti ai pensieri, attenti agli sguardi! Il maestro divino ha detto: « Chi avrà guardato con occhio torbido, con cuore cupido, già ha commesso peccato ».
– Raccogliamo per l’anima nostra, questa volta, una sola sentenza del Signore. « Omne regnum in seipsum divisum desolabitur ». È proverbio che sanno bene i demoni, i quali tra di loro non si fanno guerra né discordia. Lo sapevano anche gli antichi Romani quando nei loro libri scrivevano che perfino « le minime cose con la unione prosperano, mentre anche le massime con la divisione si sfasciano ». Ogni regno diviso sarà desolato: sia esso il regno di Dio interiore nell’anime nostre, sia esso il regno di Dio esteriore della santa Chiesa Cattolica. – DESOLAZIONE DEL REGNO DI DIO IN NOI. A farvi comprendere questo pensiero, permettete che mi rifaccia un po’ da lontano. Tutti conoscete, e molti per pratica, che cosa sia l’innesto, e che significhi innestare la pianta. Ecco un albero sterile selvatico: l’agricoltore vi innesta un rametto fruttifero: attecchisce, frondeggia e tutto l’albero fruttifica copiosamente. Ora immaginate un nuovo innesto: ecco un albero meraviglioso, unico al mondo per la bellezza de’ suoi frutti paradisiaci; ed ecco infiniti rametti di alberi incolti, spinosi, selvatici, sterili. C’è qualcuno che li prende e li innesta nell’albero prodigioso: una nuova linfa scorre in quei ramoscelli, una nuova vita li investe, gettano foglie, fiori, frutti bellissimi, come quelli dell’albero in cui furono innestati. Comprendete: quest’albero di vita è Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne per la nostra salvezza. Quando noi ricevemmo il Battesimo, siamo stati innestati in Lui: in quel momento cessammo d’essere rami sterili e selvatici e noi pure vivemmo della sua vita divina, diventammo noi pure figli di Dio, come Lui capaci di compiere opere divine meritevoli di premio eterno. Come il ramo è una cosa sola col tronco, noi siamo con Cristo una cosa sola; così che il Padre Celeste può chiamare ancora noi figli, costituire ancora noi eredi de’ suoi possessi eterni; così che guardando al cielo noi, come Gesù Cristo, possiamo chiamare Dio col dolce nome di Padre. – S. Paolo desiderava tanto che i Cristiani tutti comprendessero questa verità, che intendessero d’essere innestati in Cristo, che sentissero in loro palpitare la vita di Cristo; ne parla in ogni lettera, e per esprimersi non sa più quali parole escogitare: « noi siamo indissolubilmente uniti a Cristo: dobbiamo soffrire con Lui; essere crocifissi con Lui; morire con Lui; risuscitare con Lui; partecipare alla sua divinità; partecipare alla sua gloria; sedere con Lui alla destra di Dio Padre; regnare con Lui; ereditare con Lui la vita eterna ». – Il regno di Dio dentro di noi è questo: essere uniti al Figlio di Dio come membra al corpo, diventare divini, vivere e operare divinamente. Se lo Spirito Santo vi fa la grazia d’intendere almeno un poco il mistero della vita cristiana, potrete misurare la desolazione della nostra anima se il peccato mortale la divide da Cristo. Regnum divisum desolabitur. – Recidete un tralcio della vite: i pampini avvizziscono, i grappoli non maturano più, ma disseccano. Quando il peccato ci distacca da Cristo, ognuno diventa secco e inutile, ramo maledetto e condannato alle fiamme. Recidete una mano dal corpo; quella mano resta inerte, annerisce, imputridisce, pasto dei vermi. Così è l’anima staccata da Cristo sua vita: non può operare più per la vita eterna, annerisce di bruttezza senza più un raggio del primiero fulgore, imputridisce divorata dal verme che non muore e dal fuoco che non s’estingue. Potessimo vedere le persone come le vedono gli Angeli, quanti ci farebbero pietà e ribrezzo; rami secchi, membri putrefatti. Respirano, camminano, si divertono, e non si accorgono della loro stessa desolazione interiore. DESOLAZIONE DEL REGNO DI DIO NEL MONDO. Allarghiamo la nostra considerazione. Innestati nel Cristo non siamo appena noi, ma tutti quelli che nei secoli passati morirono nella grazia di Dio, tutti quelli che nel presente siamo nella grazia di Dio, tutti quelli che nei secoli dell’avvenire riceveranno la grazia di Dio. Questa è la Chiesa dove ciascun fedele è membro vivo nel Corpo di Cristo, Corpo mistico che va man mano crescendo fino alla fine del mondo, quando avrà raggiunto la sua statura perfetta. Come il Salvatore nostro ha voluto che la sua divinità si manifestasse sensibilmente attraverso la umanità, così ha stabilito che questo suo Corpo divino e mistico si rendesse visibile. Per ciò ha stabilito che la Chiesa avesse una gerarchia: in capo a tutto e a tutti sta il sovrano Pontefice, il successore di S. Pietro; poi vengono i Vescovi che devono tenersi ben uniti al Papa; poi vengono. i sacerdoti i quali devono tenersi ben uniti al loro Vescovo; poi vengono tutti i fedeli i quali devono tenersi ben uniti al loro parroco e ai loro sacerdoti. Guai a chi si strappa fuori da questa misteriosa catena! la desolazione lo attende. Omne regnum divisum desolabitur. – Guardate i protestanti che, da Lutero in poi, si sono staccati dal Papa: in fatto di religione sono diventati più disgraziati degli stessi pagani dell’Asia e dell’Africa. Non sanno neppur essi quello che credono e aspettano. Ma senza arrivare a questi eccessi di apostasia, ci sono altri modi in cui dagli stessi fedeli, talvolta, si tenta di desolare il Regno di Dio. Quando si parla male del Papa, si pretende di criticarlo, si ascoltano le calunnie che uomini e giornali cattivi lanciano contro di lui, si disubbidisce al suo comando, non è un voler dividersi da lui? Ma chi si stacca dal Papa, muore alla grazia. Regnum divisum desolabitur. Quando non ascoltiamo le parole del nostro Vescovo e gli avvertimenti del nostro parroco, quando non partecipiamo ai loro dolori e alle loro gioie di ministero, quando non li aiutiamo — per quello che ciascuno può — nelle opere di bene, non è un volerci staccare dal Regno di Dio, che è la Chiesa? Regnum divisum desolabitur. Quando non ci preoccupiamo che i nostri figli crescano nella santa religione e nel timore di Dio, quando non ci sentiamo viscere di carità per i figli di tanti infedeli che aspettano d’entrare nella Chiesa, non è già forse un segno di apatia, di ignoranza verso il Regno di Dio? Regnum divisum desolabitur. La Chiesa è una grande barca che unica galleggia sulla inondazione del mondo: ognuno che è dentro è salvo. Ma chiunque da quella barca si stacca, sia esso Un Vescovo, o un. prete, o un semplice cristiano, precipita nell’acqua e muore. – La nave che portava S. Francesco Saverio in India, s’era fermata per provvigioni all’isola di Socotera. Quegli isolani erano già stati evangelizzati, ma da moltissimi anni non avevano rivisto sacerdoti. Il Santo approfittò di quell’indugio per battezzare e predicare il Regno di Dio a quei cuori aperti alla grazia. Ma dopo qualche giornata la nave levò l’ancora. Tutta la folla, che invano aveva tentato di trattenere Francesco, piangeva sulla spiaggia; e le donne alzavano i loro piccoli e li protendevano verso il battello che s’allontanava, gridando: « Chi li istruirà ora nella fede, chi li conforterà nell’osservanza della legge del Signore? ». E i vecchi singhiozzavano dicendo amaramente: « E noi, chi ci assisterà alla morte? quale viatico avremo in quell’ora? chi ci potrà purificare prima di arrivare al cospetto di Dio?». Povera gente sperduta nell’oceano! Essi avevano compreso la bellezza del Regno di Dio, che moltissimi Cristiani oggi ignorano o trascurano.
– Diceva una volta un signore ad un santo parroco di campagna, nella cui parrocchia teneva una casa di villeggiatura estiva: «Ma signor Curato, ella ci predica ancora del demonio come se volesse intimorire dei bambini capricciosi e disobbedienti. Le sue parole andavano bene secoli or sono, quando gli uomini rapaci e feroci avevano bisogno di essere spaventati e rattenuti dal fuoco dell’inferno e dalla forma di satana; ma adesso che sappiamo trasvolare l’Atlantico, che abbiamo la radio, che siamo civili, possiamo farne a meno della favola del demonio ». Il vecchio ministro di Dio mormorò subito una preghiera, e guardando quel signore con lunghi occhi di compassione se ne allontanò dicendo così: «Tanto è vero che il demonio esiste, che costui è della sua ». – Cristiani, tutti coloro che dicono di non credere più all’esistenza del demonio sono suoi partigiani e vanno d’accordo con lui, spirito di tenebre e di menzogna: già lo dice anche Gesù nel Vangelo: «Se il demonio non fosse d’accordo coi suoi, come potrebbe durare il suo regno? Ogni regno diviso contro se stesso si sfascia, ogni città ed ogni famiglia discorde in se stessa non regge ». – Dunque, se il Vangelo è Vangelo anche per noi, bisogna credere che i demoni ci sono. La Sacra Scrittura li chiama con nomi terribili: volpe per la loro astuzia, serpe per il loro veleno, cane per la loro rabbia, drago per il loro incantesimo, leone per da loro voracità. E nel brano di oggi lo avete sentito chiamare Beelzebub, che — seconda della pronuncia — può voler dire: signore delle mosche, o, signore del concime, nomi che indicano entrambi che il suo regno è nei cuori marciti dal vizio. Se il suo nome è terribile, il giogo della sua schiavitù è più terribile ancora. Guardate l’ossesso guarito da Gesù com’era angariato in cecità e mutolezza! Ed io ricordo d’aver letto che in un esorcismo; il demonio interrogato del suo nome, rispose: siamo in tre e ci chiamiamo: Claudens mentem, Claudens cor, Claudens os ». Questa risposta ci può fornire tre pensieri. – CLAUDENS MENTEM. Io non so se quel signore, che ho ricordato in principio, tanto saputo da non credere più nemmeno al demonio, fosse superstizioso; ma indovinerei, credendo di sì. Ci è che il principe delle tenebre, ambiziosissimo di farsi tenere per quello che non è, brama acquistarsi onori divini. Che altro erano gli idoli degli antichi pagani, se non immagini del demonio? E che altro sono le superstizioni, così numerose anche ai nostri giorni, se non atti di culto al demonio? Così l’astuto serpente riesce a carpire adorazioni da quegli ingenui che non credono più alla sua esistenza. Parrebbe impossibile, eppure è vero. C’è della gente che non osa muovere un passo se alla catena d’oro dell’orologio manca il cornetto; che non si arrischia salire su un’automobile la quale non abbia spenzolante sul cristallo posteriore la mascherina porta-fortuna. C’è della gente che trema e tocca il ferro, se incontra un prete; che cambia strada, per non vedere uno zoppo; che smania di spavento se si rovescia il sale; che licenzia la serva, se sbadatamente ha messo sulla tavola le posate in croce. C’è della gente cui sussulta il cuore, se la gallina canta in gallesco, se i fanciulli giocano ai funerali, se un calabrone ronza per casa, se la legna cigola sul focolare… Ah, infedeli adoratori di satana! e lo adorano spaventati di mille sciocchezze, a costo di rendersi la vita noiosa e ridicola. Essi senza timore di Dio mangeranno di grasso al venerdì, ma non li indurrete mai a farvi una visita in quel giorno. Essi senza timore di Dio lavoreranno tutta la festa di precetto, ma non passeranno mai per una strada dove hanno visto un ago smarrito per terra. Si tratta d’ignoranza, — penserete forse, — ma non è appena questa. Ci sono anche persone istruite che credono ai sogni; eppure si vantano di non credere più al Catechismo. Ci sono persino professori, avvocati, che credono alle zingare luride: e sguaiate che indovinano il futuro e il passato; eppure non credono alla dottrina cristiana che predice il paradiso per i buoni e l’inferno per i cattivi. Ma come mai? il demonio con una tenebrosa siepe ha chiuso la loro mente alla luce di Dio. – CLAUDENS COR. A S. Clemente d’Ancira offrirono un vassoio colmo d’oro e di gemme, all’unica condizione che egli rinunciasse a Gesù. Ma il santo scrollò lentamente la testa e levando gli occhi al cielo disse « Signore, è mai possibile che il mio cuore si sazi di un piatto di metalli e di pietre? ». Eppure, quanti cuori d’uomini, creati per la beatitudine di Dio, si sono contentati anche molto di meno. Il demonio li ha chiusi ad ogni vera ricchezza, ad ogni vera bellezza, ad ogni vero amore. Claudens cor. a) Trovate delle persone che altra cura non sentono se non quella materiale, far danaro, far roba. Non capiscono altro ragionamento se non quello delle cifre: crediti, debiti. Non hanno altra gioia se non il guadagno, altro dolore se non la perdita. «Buona gente, — dite loro — ricordatevi che di tutti i vostri beni, fra dieci, vent’anni, al sopravvenir della morte, neppure una pagliuzza vi resterà. Procurate un tesoro di opere buone che vi segua per i bisogni dell’altro mondo ». Essi vi guarderanno senza capirvi… Il loro cuore è chiuso alla vera ricchezza. b) Trovetere della gente che altra esca non brama se non il cibo dei porci. I pensieri d’ogni ora, i discorsi d’ogni giorno, le azioni di tutta la loro vita sono impure. Da soli, in famiglia, nella società, sono divorati dalla cupa fiamma del piacere disonesto. Non c’è più legge, non c’è più pudore. « Buona gente, dite loro, voi siete diventati come bruti schifosi e fetidi: alzate gli occhi al cielo e vedete come è bello! uscite dalla palude livida e provate la gioia d’aver l’anima pura! ». Essì vi guarderanno con le pupille nebbiose, e non vi crederanno. Il loro cuore in putrefazione è chiuso ad ogni vera bellezza. c) Ma il cuore ove regna satana è chiuso anche al vero amore. Il demonio, ladro ed assassino, è principe dell’odio, e non sa che sia la dolcezza del santo amore. Anticamente costringeva le madri a sacrificargli i loro bambini: immolaverunt filios suos et filias suas demoniis; oggi non è meno crudele. Perché tante sanguinose guerre in tempi di vantata civiltà? perché tante ingiustizie contro i deboli? Perché tante insanabili discordie nelle famiglie? È tutta opera del demonio che chiude i cuori al vero amore che Gesù ha portato sulla terra. Claudens cor. – CLAUDENS OS. Chiude la bocca, perché in quelle anime dove egli regna, non escano i peccati nella Confessione, non entri Gesù nella Comunione. Nei casi d’ossessione incontrati dal P. Chevrier ve ne sono due assai caratteristici (VILLEFRANCHE, Vita del P. Chevrier, trad. Codaghengo, pag. 206 ss.). Nel primo si racconta di una giovane di nome Margherita che, agitata dallo spirito maligno, si era a lui consacrata ed aveva firmato col proprio sangue la promessa di non confessarsi mai. – Nel secondo, d’un infelice carcerato. Il P. Chevrier entrò nella sua prigione per gli esorcismi. Ma l’ossesso inquietissimo urlava: « Non toccatemi! ». Senza far caso alle sue minacce, il Padre lo fa legare con un cordone turchino benedetto: ed egli spezza il cordone. Lo fa legare con una fune ugualmente benedetta: egli rompe la fune. Gli si legano le mani ed i piedi con una catena di ferro ed egli infrange la catena. Ma quando, dopo non poca esitazione, fu deposta sul suo petto la santa Eucarestia, rimase immobile ed annientato. Si compirono allora gli esorcismi, ed il demonio abbandonò la sua vittima. – La Confessione e la Comunione sono le due spade della nostra vittoria contro il nemico infernale: la prima per scacciarlo, la seconda per tenerlo lontano. Ecco perché il demonio con ogni astuzia cerca di chiudere la bocca agli uomini che vuol tenere per suoi. E son molti quelli che, cedendo alla sua tirannia, vengono troppo di raro o mai, a ricevere questi due sacramenti. – Ricordate la leggenda di S. Giorgio. Una gentile fanciulla, figlia del re, era destinata come vittima del dragone. Relegata in un’isola, con grande tremito di paura, aspettava la sua morte certa. Ed ecco arrivare un cavaliere su fiero cavallo. « Gentile fanciulla — disse — perché piangi qui sola? ». Ed ella rispose: « Nobile giovane, fuggi! io sono destinata alla bocca ingorda del dragone ». Ed ecco la bestia feroce mise il capo un po’ fuori dall’acqua del mare e cominciò forte a sibilare. Ma il cavaliere alzò il segno della croce, e d’un balzo diede un gran colpo con la lancia che teneva in mano, e l’abbatté! L’anima nostra figlia di Dio, o Cristiani, simile alla gentile fanciulla, era caduta per il peccato d’Adamo preda al dragone infernale. Ma venne Gesù Cristo, il cavaliere mobile e divino, e con la sua croce ha vinto il demonio. Si autem fortior eo superveniens vicerit eum, universa arma eius auferet. – Noi siamo deboli, ma il nostro Salvatore è invincibile: apriamo a Lui la nostra mente, il nostro cuore, la nostra bocca. Allora potremo elevare il grido del trionfo: « potenze avverse, fuggite! vince il leone della tribù di Giuda ».
– Quaggiù sulla terra — lo dice il Signore — ci sono due regni che si combattono senza mai aver pace: il regno di Beelzebub che tien schiave le anime e le rende mute; il regno di Dio che porta la libertà. C’è dunque da scegliere se vogliamo seguire Colui che è il nostro Salvatore oppure andar dietro ai vessilli di satana. Gesù è stato mandato dal Padre a ricondurre la umanità dalla schiavitù, in cui la teneva il demonio, alla libertà dei figli di Dio. E questa figliolanza divina, che è tutta un favore di Dio, Gesù ce l’ha procurata per mezzo della grazia. È la grazia che ci rende fratelli di Cristo e per ciò figlioli di Dio. Se dunque ci manca la grazia noi non siamo di Cristo e di Dio, ma siamo contro Cristo. contro Dio. Questa stessa figliolanza divina, che la grazia ci ha saputo portare, deve sempre manifestarsi nei fatti: le azioni che andiamo compiendo devono essere azioni di un figlio di Dio, devono essere azioni di un fratello di Cristo. Se dunque mancasse la retta intenzione che al nostro operare dia questo indirizzo, invece di raccogliere tanti frutti di bene noi disperderemmo le energie. Sono due pensieri che dobbiamo fissare. – È CONTRO GESÙ CHI HA PERDUTO LA GRAZIA.. La storia d’Italia, al sec. VIII, ricorda le vicende dei re Longobardi. Barbari ancora, alternano, con facilità che sorprende, la guerra e la pace, le ostilità e l’alleanza. Astolfo, divenuto re nel 749, ruppe subito col Papa la tregua giurata dai suoi predecessori, e colle truppe focose dei suoi uomini mosse contro la città di Roma prendendola d’assalto. Il Papa Stefano II va ad incontrarlo alle porte dell’urbe, gli si avvicina, lo prega di ritirarsi. Il re, sconfitto da quella maestà, così debole e pur così potente, domanda perdono e giura una tregua che doveva durare tre anni. Il suo proposito, perché non fosse di sole parole, volle scritto con atto solenne. Non era passato un anno ed Astolfo, violando la parola giurata, assale la città, la mette al saccheggio e, quasi fosse l’assoluto padrone, la costringe ad un grave tributo. Fu allora che il Romano Pontefice, per sollevare le calamità del suo popolo, ordinò preghiere e digiuni. Anzi il Papa in persona, nudi i piedi, con una grave croce sopra le spalle, effondendosi in lagrime, percorre in processione le vie di Roma, seguito dal Clero e dal popolo asperso di cenere. Davanti a tutto il corteo di penitenza e di pianto, su una croce, veniva portata la pergamena della tregua infranta dal re. Cristiani, quante tregue infrante, quante volte anche noi abbiamo rotto l’amicizia di Dio. Losca figura quella di Astolfo, ma forse qualche volta gli siamo assomigliati. Nel giorno del nostro Battesimo noi fummo portati alla Chiesa. Di fronte a Dio eravamo… dei barbari, degli stranieri che non vantavano diritto alcuno. Ma il Signore ci ha voluto bene, ci ha accolto nella sua terra ed ha stretto con noi non solo un patto di alleanza ma un vincolo di vera parentela. In quel giorno gli siamo divenuti figli adottivi. Il patto fu scritto non su un foglio di carta, ma nell’intimo dell’anima nostra, non in inchiostro ma col Sangue del Figlio di Dio, non con una penna qualunque ma col legno della Croce di Cristo. Eppure, noi col peccato mortale abbiamo dimenticato quel giorno così bello. Coll’esercito scomposto e barbaro delle nostre passioni abbiamo dato l’assalto alla città santa di Dio che era il nostro cuore adorno di grazia; in un momento di pazzia abbiamo infranto lo splendore dell’anima nostra, abbiamo distrutto le tracce del Sangue di Cristo, abbiamo resa inutile la morte stessa di Lui. Gesù fu obbligato a porre su la nuda sua croce la nostra amicizia infranta e mostrarla agli Angeli che avranno pianto il nostro spergiuro. Proprio sul legno benedetto della Croce, che ricorda la misericordia di Dio infinita, Gesù ha dovuto appendere, come Papa Stefano II, la prova vergognosa della nostra ingratitudine e della nostra cattiveria. Ma, se noi vogliamo, Gesù è ancora pronto a perdonare e per un atto di sincero dolore, scriverebbe ancora col suo sangue un’amicizia più bella. – NON RACCOGLIE CON GESÙ CHI NON HA RETTA INTENZIONE. S. Agostino, nelle sue Confessioni, racconta questo episodio. Mentre l’imperatore Teodosio era a Treviri a vedere i giochi del Circo, due dei suoi cortigiani vollero rinunciare a quei divertimenti per godersi qualche ora di libertà nei campi. Attraverso un bosco, giunsero ad una rozza capanna solitaria. Entrarono, ma non c’era nessuno. Squallide pareti, poche masserizie, una grande croce. Sopra una tavola tarlata, stava aperto un libro, logoro dall’uso continuo. Uno di loro lo prese in mano e si mise a leggere forte: era la vita di S. Antonio Abate. Intanto la grazia lavorava in quelle anime, e colui che leggeva deponendo il libro, cominciò: « Noi allora siamo su una strada sbagliata! Dove vanno a finire le nostre azioni? Che facciamo al servizio dell’imperatore? Sopportiamo fatiche, accettiamo umiliazioni, affrontiamo contrasti per divenire suoi favoriti: e poi… ci attiriamo invidie, calunnie e nulla più. Teodosio è un uomo mortale… potrà essere immortale la sua mercede? Lasciamo un padrone che dovrà morire, per servire Iddio che non muore mai! ». E tutti e due si fecero eremiti (Confessioni, lib. VIII, c. 6). – Anche noi, o Cristiani, abbiamo spesso bisogno di staccarci dalle cose del mondo per raccoglierci un poco nel fecondo silenzio di una meditazione severa. Se in questa solitudine dell’anima noi leggessimo gli esempi dei Santi e facessimo passare almeno qualche pagina della nostra vita, vedremmo, come quei cortigiani, quanti passi sono davvero perduti, quante azioni rimangono senza frutto, quanto tempo è miseramente sciupato. Manca la retta intenzione, manca l’offerta a Dio delle opere nostre ed allora rimane il vuoto. « Chi non raccoglie con me, disperde », dice Gesù nel Vangelo di oggi. Che direste voi di un contadino che lavora tutto l’anno il suo campicello e poi, quando giunge il tempo della messe, si vede disperso dalla bufera e dal vento tutto quanto il raccolto? È quello che capita all’anima di colui che non ha la retta intenzione. – Quando andiamo alla Chiesa soltanto per farci vedere o per una intenzione tutt’altro che santa, noi disperdiamo ogni cosa: non è con Gesù che facciamo il raccolto. Quando il lavoro di ogni giorno è compiuto unicamente per fare danaro, la nostra mercede l’abbiamo già ricevuta. Il padrone che abbiamo servito non è il Dio che non muore, ma è un tesoro che la ruggine può sempre corrompere ed i ladri possono rapirci. – Dovessimo fare le grandi elemosine di S. Carlo Borromeo, se ci manca la intenzione giusta, diventeremmo poveri anche davanti a Dio; facessimo pure le grandi penitenze dei padri del deserto, se non ci muove la gloria di Dio saremmo degli stolti: perdiamo i piaceri della terra e non acquistiamo quelli del cielo. – Supponete che un uomo abbia impiegato parecchi giorni e parecchie notti a comporre una lunga lettera da cui dipende un affare di capitale importanza, ma, dopo averla ben descritta, la consegnasse alla posta con l’indirizzo sbagliato. Poveretto! Ha sciupato tutto il suo tempo e ha concluso nulla! Cristiani, se le nostre azioni, da cui dipende la nostra salvezza eterna, le cominciamo senza la grazia di Dio o con una intenzione che non riguarda il Signore, noi sbagliamo indirizzo. O siamo andati contro Gesù o non abbiamo raccolto con Lui: le nostre mani rimangono vuote.
Offertorium
Orémus
Ps XVIII: 9, 10, 11, 12
Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulci ora super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea.
[I comandamenti del Signore sono retti, rallegrano i cuori: i suoi giudizii sono più dolci del miele: perciò il tuo servo li adempie.]
Secreta
Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet.
[Ti preghiamo, o Signore, affinché questa offerta ci mondi dai peccati, e santifichi i corpi e le anime dei tuoi servi, onde possano degnamente celebrare il sacrificio.]
Communio
Ps LXXXIII: 4-5 – Passer invénit sibi domum, et turtur nidum, ubi repónat pullos suos: altária tua, Dómine virtútum, Rex meus, et Deus meus: beáti, qui hábitant in domo tua, in sæculum sæculi laudábunt te.
[Il passero si è trovata una casa, e la tortora un nido, ove riporre i suoi nati: i tuoi altari, o Signore degli eserciti, o mio Re e mio Dio: beati coloro che abitano nella tua casa, essi Ti loderanno nei secoli dei secoli.]
Postcommunio
Orémus.
A cunctis nos, quaesumus, Dómine, reátibus et perículis propitiátus absólve: quos tanti mystérii tríbuis esse partícipes.
[Líberaci, o Signore, Te ne preghiamo, da tutti i peccati e i perícoli: Tu che ci rendesti partécipi di un così grande mistero.]
PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)