IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (1)
OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.
NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA
ROMA – COI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862
AL LETTORE
La opportunità, che il soggetto, trattato in questi discorsi, parve avere alle condizioni del nostro tempo e della presente Italia, ha fatto giudicare, che potrebbe riuscire di qualche comune utilità il metterli a stampa. E per questa ragione medesima si è altresì passato per sopra a quella probabilità, che pure vi è non mediocre, che essi, essendo letti, non siano per trovare tutta quella indulgenza, colla quale furono ascoltati. Che poi quel soggetto sia singolarmente appropri alle nostre contrade, potrà intenderlo chiunque conoscendo le condizioni di queste (e chi può ignorarle sotto il peso della terribile lezione, che Iddio sta dando all’Italia?), corra coll’occhio gli argomenti posti in capo a ciascun discorso. Da essi si rileverà leggermente, tutti essere indirizzati a combattere quella non tanto dottrina che pratica, la quale è la radice segreta delle gravi calamità, che affliggono la patria nostra, e sarebbe delle più gravi che la minacciano. Quella fu chiamata Cristianesimo civile, Naturalismo, Razionalismo sociale o individuale, e non si sa come altro. Ma è sempre la super pretensione di ordinare l’uomo privato ed il pubblico coi soli elementi fornitici dalla natura. Ora questa fu proprio la condizione dell’antico Paganesimo; e comincia ad essere ancora del Paganesimo moderno: il quale è tanto più reo ed abbominevole dell’altro, quanto che l’antico pur camminava al Riparatore venturo, laddove il moderno ripudia il Riparatore venuto. Soggetto, come ognun vede, vastissimo, siccome quello che abbraccia tutto l’uomo, come particolare persona e come membro del consorzio domestico e civile; e ciò nel doppio ordine naturale e sovrannaturale. Ma di tanta amplissima svariatezza non si essendo potuto che toccare alcuni capi precipui, si sono scelti quelli che meglio rispondevano al bisogno del tempo moderno ed all’indole sacra di discorsi dovuti dire, non in adunanza accademica, ma nel tempio di Dio. – Questi discorsi sono ora pubblicati in forma forse meno incompiuta, ma certo più piena di quella, onde, nella Chiesa di Sant’Andrea della Valle, furono detti. Essendosi chi li diceva prefissa la legge di non oltrepassare, parlando, lo spazio di un’ora, ogni qualvolta gli avveniva di aggiungere, nel calore del dire, qualche tratto non compreso nella tela divisata, era costretto ad omettere qualche altro presso che uguale. Ma dallo spazio nello stampare non si avendo quel costringimento, che pure si volle avere dal tempo nel favellare, i discorsi si sono potuti dare alla luce nella loro integrità; tanto che, comprendendo fedelmente tutto quello che fu detto. Contengono altresì qualche parte, e non breve, la quale, per la ragione sopra indicata, nel dirli fu preterita. – Da ultimo si vuole notare, che, nel concepire questo piccolo lavoro, non si ebbe alcuna idea che esso dovesse mai essere dato alla stampa. E così nelle varie autorità che vi si citano, bastò che fossero sicure, senza che si vedesse alcune necessità di cercare i luoghi precisi, ove quelle si tenevano; ed il più spesso alcuna necessità di cercare i luoghi precisi, ove quelle si trovano; ed il più spesso furono appuntati dalla memoria. Ora che va sotto degli occhi, sarebbe certo stato uopo di riscontrare e verificare le singole appellazioni. Ma essendo mancato il tempo e l’agio di farlo, se alcuna inesattezza per questo rispetto sarà occorsa, si lascia alla gentilezza del lettore il condonarla; ed egli si accorgerà forse, nel leggere, che quella non è né la sola, né la precipua occasione, che avrà di mostrarsi gentile.
Roma, 5 Febbraio 1862.
DISCORSO PRIMO
ARGOMENTO
La considerazione della Epifania è opportunissima alla Cristianità raccolta dal Paganesimo, alla moderna società che piega ai pensieri ed agli amori pagani, e soprattutto, a Roma che fu il centro dell’antico Paganesimo.
Un drappello di Re, o sapienti che fossero i Magi, i quali, con tutto lo sfoggio della pompa orientale, con salmerie di servi, di cammelli e di dromedari, muovono alla ricerca di un Re neonato; una stella fulgidissima che, di nuovi splendori rallegrando il firmamento, scorge a quelli il cammino; una città regale che all’annunzio di quel nato Re si conturba, ed un altro Re che, punto di sospetti ed agitato da gelosie di Stato, si volge, a fine di assicurarsi in capo la corona, alle più scaltrite arti di volpina politica, e vi resta deluso; sono questi, miei riveriti uditori, altrettanti obbietti degnissimi della vostra considerazione, ed i quali certo potrebbero non mediocremente allettarvi colle attrattive del grandioso, dello straordinario, dell’inaspettato. Ma nei Misteri della nostra Fede, più che le apparenze della corteccia, si debbono considerare le realità del midollo; più che il seguito di fatti, spesso non dissomiglianti dai naturali, si deve tenere l’occhio ai sensi misteriosi, onde quei fatti stessi sono l’indumento e l’involucro; sicché ben meritano il nome di Misteri, in quanto che recano nascosa in grembo alcuna cosa di segreto, di arcano e da sensibili apparenze velato. Certo di questo Mistero appunto della Epifania disse il Magno Leone, non potere essere vuoto di profonde significazioni ciò che accadeva così fuori d’ogni uso naturale ed umano: ut confestim advertatur, non esse otiosum, quod tam in solitum videbatur (Serm . I. in Epiphan.). Non tanto dunque la Epifania per sé medesima, quanto l’arcana significazione, ond’è fecondo quell’alto.
I. Mistero, rende insigne questa splendida solennità, renderà a voi di segnalata utilità spirituale lo assistervi, e rende a me singolarmente caro il potervi, col ministerio della mia voce, in qualche modo contribuire. Né questa utilità spirituale per le vostre anime, la quale io mi prometto dalla considerazione della Epifania, è quella utilità generale, che più o meno può cogliersi da tutti e singoli i Misteri della nostra fede. Questa della Epifania ha un’opportunità tutta speciale al nostro Cristianesimo raccolto dalla Gentilità; ha opportunità più speciale ancora alla condizione della moderna società, nelle cui inclinazioni poco dissimulate ad un assoluto Naturalismo molti lamentano un ritorno ai pensieri ed agli affetti del Gentilesimo; da ultimo ha una opportunità specialissima a questa vostra Roma, la quale di quella Gentilità stessa fu il centro e, per così dire, l’acropoli e il propugnacolo. E questa singolare opportunità credo io essere stata la ragione, perché un tale Mistero volle specialmente prescelto ad essere solennizzato ogni anno, con pompa unica in quest’Ottavario, quell’apostolico e piissimo Sacerdote, che vive ancora nella vostra memoria, o Romani, e che, morendo, vi lasciò, dolcissima eredità di affetto, una famiglia a sé nello zelo e nella pietà somigliante. (L’ab. Vincenzo Pallotti, di pia e venerata memoria, morto nel 1850, fu l’istitutore dell’Ottavario solenne in onore dell’Epifania, nel quale sono stati detti questi Discorsi; e la Congregazione di Sacerdoti, da lui fondata, ne ha ora tutto il pensiero.). Tant’è, Signori miei! Tra tutti i Misteri del Redentore, io mi avviso non esservene alcuno più appropriato ai bisogni presentissimi dei nostri tempi e delle città nostre, di quello che sia il Mistero della Epifania; e se questo fu la cagione precipua dell’essersi istituita in Roma la presente splendidissima solennità, questo può essere altresì la cagione per voi di assistervi con frequenza, con raccoglimento, con verace desiderio del vostro spirituale profitto. Siate pertanto contenti che io mi fermi quest’oggi a mostrarvi appunto la singolare opportunità della Epifania al nostro tempo, ai nostri uomini ed alla vostra città, per quindi alla fine divisarvi il modo, onde intendo ragionarne nei seguenti Discorsi. Non facendo io professione, né avendo esercizio di predicare, e distratto in cure molto lontane da tal ministero, sento pur troppo, e me ne duole, che potrò ben poveramente rispondere allo splendore di tanta solennità ed alla gentilezza della vostra espettazione. Tuttavolta mi conforto al pensare, che quel poco di franchezza nel ragionarvi e quel non poco desiderio del vostro bene, che altre volte vi fè non ingrato al tutto questo mio dire, possa, eziandio nella presente congiuntura, tenervi vece di altri pregi, che sento di non avere. Incomincio.
II. Epifania è greca voce che suona propriamente manifestazione; ed indica e rammemora e solennizza quella pietosa dispensazione, onde il Verbo Incarnato, fino dai primordii della sua infanzia, degnò manifestarsi ai Gentili. Chiamansi poi col nome di Gentili, di Gentes o di Nationes quei popoli che gli Ebrei appellavano גוים (goim) ed i Greci ebraizzanti dicevano Ethnici da Ἐθνῆ [etne]; i quali poscia furono detti ancora Pagani, quando, scacciata dalle città, la idolatria riparò nei luoghi appartati, com’erano i villaggi, detti latinamente Pagi: onde, Pagani, Paganesimo ed altre voci affini si derivarono. Col nome, pertanto, di Pagani o di Gentili intendevansi tutti i popoli diversi dal giudaico; il che vuol dire tutto quasi il genere umano, di cui il popolo giudaico era piccolissima parte, poco conosciuta e meno apprezzata nel mondo, soprattutto dall’Occidente e nel tempo, in cui apparve il Redentore. Ma se la famiglia di Giacobbe era poco considerata dagli altri popoli, gli altri popoli erano spregiati, vilipesi, quasi abbominati dalla famiglia di Giacobbe; la quale avea in conto di barbari i Gentili, e li riputava esclusi dalle promesse divine, come vedeali infatti da se separati nel culto di Dio. Vero è che la vocazione dei Gentili alla Fede era stata in cento luoghi vaticinata nelle Scritture, e specialmente Isaia l’aveva altamente prenunziata e nelle sue più piccole circostanze descritta. Vero è che Noè medesimo, nel maledire alla irriverente petulanza del figliuolo Cham, non pure avea predetto che la stirpe di Giafet saria stata coerede con quella di Sem, che volea dire la Gentilità col popolo giudaico; ma avea di più adombrata la riprovazione di questo e la elezione di quella nella parola simbolica, che Giafet sarebbesi dilatato ed avrebbe abitato nei tabernacoli o nelle tende di Sem: Dilatet Dominus Iaphet et habitet in tabernaculis Sem (Gen IX, 27). Ma non fu questo il solo caso, che la protervia del popolo giudaico o non intese od intese a rovescio gli oracoli divini; e quando esso era stato per grazia eletto ad essere il primo, si arrogò superbamente il privilegio di esser il solo, meritando con questo di non esser neppure l’ultimo, almeno finora e siccome popolo. Intanto quel dilatet noetico si cominciò ad avverare; e le nazioni coprirono la faccia della terra, furono quasi il tutto del genere umano, senza che né esse sospettassero, né altri attribuisse loro quella salute, che pur dovea essere universale, e che con tanti vaticinii era loro stata promessa nelle Scritture. – Ora sapreste voi dirmi quali e dove sono gli eredi legittimi di quella salute manifestata alle genti? Sapreste dirmi qual fu il principio di quella fortunata manifestazione? O signori miei, io non posso pensarvi, senza sentire alta commozione nel cuore, e senza che gli occhi misi gonfino di lacrime! E voi che siete Cristiani e pietosi, se vi porrete mente, sono sicuro ne sentirete simigliantissimi effetti. O si! Gli eredi del Gentilesimo siamo noi; noi popoli giapetici che copriamo la colta Europa, e che travalicando le colonne erculee ed il vasto Atlantico, mandammo insieme col sole tante migrazioni alle plaghe occidue di ambedue le Americhe; noi siamo la stirpe di Giafet, noi i tardi nipoti delle generazioni cieche ed idolatre. Che se da esse non ereditammo la cecità della mente e l’idolatria, lo dobbiamo alla pietosissima vocazione di Cristo. Udirono, sì, udirono gli ave nostri la grande parola di San Leone: « Oh, entri tra i Patriarchi la pienezza delle genti; ed i figliuoli della promessa accolgano quella benedizione nel seno di Abramo, la quale i figli della carne ripudiarono. » Intret, intret in Patriarcharum familiam, gentium plenitudo, et benedictionem in semine Abrahæ, qua se filii carnis abdicant, filii promissionis accipiant (Serm. 33). Signori sì! Signori sì! ed intendetelo bene; chè questo è punto capitalissimo. Se noi, in luogo di adorare stupidamente divinità spietate od impure, conosciamo ed adoriamo in ispirito e verità la Triade sacrosanta in un solo Iddio; se in luogo dell’orgoglio feroce, della lascivia sfrenata e della forza prepotente, noi conosciamo e pratichiamo la serena umiltà, la casta temperanza e il santo impero della ragione e del dritto, noi lo dobbiamo alla graziosa vocazione di Dio, qui eripuit nos de potestate tenebrarum, et transtulit in regnum fili dilectionis suæ (Coloss. I, 12). E disse bene l’Apostolo : eripuit « strappò; » perché davvero non fummo noi, no! che ci separammo da quella sozza e sanguinosa orgia di quaranta secoli, che era oggimai il Paganesimo: fu Dio che ce ne trasse di viva forza: eripuit nos. Non fummo noi che, per propria elezione, ci aggiungemmo a questo regno beato di dilezione, di decoro, di pace e di speranza, che è il Cristianesimo: fu Dio che vi ci trasportò, noi neppur consapevoli, e, quasi che non dissi, noi renitenti: transtulit nos. E l’Epifania del Redentore fu appunto il felice istante, in cui quella nostra vocazione ed elezione venne iniziata. Già il Crisostomo aveva detto che Cristo, fin dagli inizi aveva dischiusa la porta ai Gentili, ab ipsi statim initiis ostrium gentibus aperuit (Hom. VI in Matth.); ma San Tommaso, notò appresso, che i Magi furono le vere primizie del Gentilesimo, e che quella manifestazione fatta ad essi fu come un saggio della più piena che dovea venire appresso: quædam praelibatio plenae manifestationis, quæ erat futura (S. Th. III p. q, 36 a 4). Anzi in quel fatto san Leone vede raccolta, come in compendio, tutta la economia della conversione del Gentilesimo, senza che vi mancassero le vestigia della illuminante grazia nella stella, e delle persecuzioni dalla parte dei Pagani nell’empio Erode, del martirio negli uccisi innocenti. Eccovi le espresse sue parole: In stellæ fulgore Dei gratia , et in rege impio crudelitas paganorum, et in occisione infantium cunctorum martyrum forma præcessit (Hom. VIII in Epiph.). Pertanto se noi siamo il Cristianesimo raccolto dalle Genti, ossia dalle nazioni pagane; se ogni nostro bene temporale ed eterno si deriva fontalmente dall’essere noi stati così eletti e chiamati; se di questa elezione e di questa chiamata l’inizio, l’attuazione e l’adombramento si compì nella Epifania; deh! miei amatissimi, con quanta riverenza non dovremmo noi proseguire questa festa di quanto amore prediligerla! con quanto studio non dovremmo applicarci a penetrarne le arcane significazioni, a ponderarne le promesse ineffabili e le speranze immortali che essa ne inspira!
III. E pure (che giova dissimularlo?) mi vien forte a temere, non forse alcuni pretesi sapienti del nostro tempo stentino a capire, come io pregi tanto questa vocazione del Gentilesimo all’Evangelio, e neppure saprebbero intendere, come e perché i Santi Padri l’abbiano tanto magnificata. Usi dalla fanciullezza ad una improvvida ed esagerata ammirazione della grandezza pagana; studiata da giovani una storia, che è cospirazione faziosa contro del vero, ed una filosofia che ripudia ogni autorità ed ogni tradizione; gonfi, non so bene se il capo o il cuore, di superbie smisurate intorno alle forze della umanità ( è questa la propria loro parola), essi non bastano a vedere qual bisogno vi fosse di quella trasformazione del Paganesimo; pare loro che la perfettibilità naturale dell’uomo avrebbe di per sé sola raggiunte le parti accettabili dell’Evangelio; e per poco non dicono, bestemmiando, che Cristo avrebbe fatto miglior senno a lasciare le cose come trovolle, venendo al mondo. Dall’altra parte giudici pregiudicati ed ingiusti della grandezza cristiana, essi non vi trovano nulla che li satisfaccia; e per loro l’eroe pagano sovrasta di gran lunga all’Evangelo, senza che sappiano scorgere, in tutti i fasti Cristiani, cui paragonare al buffone attico, come Arnobio chiamò Socrate, o al soggiogato dal Re di Bitinia, come dalla soldatesca licenziosa fu salutato Giulio Cesare. In somma se per cotesti traviati è molto problematico il benefizio della vocazione della Gentilità alla Fede, essi non debbono avere in gran capitale il Mistero dell’Epifania, il quale appunto quel beneficio rammemora ai Fedeli, per eccitarne in essi la riconoscenza. – Ora tutto questo dimostra appunto, quanto sia appropriata al nostro tempo, la considerazione dell’Epifania e dal significato onde fu essa il simbolo alla stess’ora ed inizio. Perchiocché tutto quel discorso fatto oggimai comune a moltissimi, se non nella teorica, nella pratica, dimostra che la società moderna ritorna a gran passi al Paganesimo; e senza suscitarne la grossiera idolatria, vi torna coi pensieri, cogli amori, colle inclinazioni, colle opere, colle parole, talmente che di sotto a questo immenso sepolcro, che è il suolo romano, si levasse redivivo il popolo il popolo coetaneo già agli Scipioni e ai Coriolani, e senza guardare ai nostri templi ed al nostro culto, attendesse solo ai pensieri, alle aspirazioni, ai parlari di non pochi, ahimè, io non credo io non credo che si accorgerebbe essi devariare gran fatto da loro se non fosse dalla prostrazione degli animi e nella fiacchezza dei propositi. Pertanto, essendosi nel tempo nostro da molti sconosciuto radicalmente l’insigne beneficio della vocazione del Paganesimo alla Fede, fino quasi ad agognare al ritorno di quella bugiarda grandezza defunta; deh, quale migliore opera potrebbe oggi farsi che mostrare e far sentire quello che fosse in realtà il Paganesino, in cui languiva l’antico mondo; quello che sia in realtà il Cristianesimo, e che fu tramutato, per quindi fare giusta stima della vocazione di quello a questo ? Ed a ciò fare donde potremo trarre più opportuna occasione, che dal Mistero della Epifania, il quale appunto di quella vocazione fu l’inizio e, diciamo così, l’inaugurazione fortunata? Oh sì, pur troppo è vero! E per quanto sia doloroso il dirlo bob sarebbe rimedio sufficiente a guarire il male il tacerlo. Il nostro mondo, ed al presente, più di qualunque parte del mondo, la nostra Italia, per la fede debilitata, e pel mal costume ringarglialdito, comincia pur troppo ad avere pensieri, affetti, desideri, poco dissomiglianti dai gentileschi, né vi credereste che a questo sia uopo adorare gli idoli: oh! Niente affatto! Il Paganesimo nella sua parte costitutiva, o vogliamo dire nella sua ragione formale di essere, non importava altro che Naturalismo, come io nei seguenti giorni vi verrò mostrando. Ora se voi mirate la cosa pubblica e la privata, se attendete ai discorsi che si intrecciano, se leggete i libri e le effemeridi che si stampano, se ponete mente alle inclinazioni che si manifestano, voi in quelli ed in queste appena troverete altro, che la natura e la natura sola e la natura sempre. E nella società che professa le idee nuove del secolo, quale è ramo della letteratura e della filosofia, qual parte delle scienze economiche o delle sociali, quale tratto di storia o quale estetica di arti belle, quale appartenenza domestica o civile o politica vi ha oggimai, che serbi un vincolo di attinenza colle Rivelazione? Anzi quale non ha fatto pieno ed assoluto divorzio della Rivelazione stessa, presumendo di tutto trarre da questo povero fondo dell’intelletto umano, il quale allora solo può essere buono a qualche cosa, quando è conscio della sua debolezza ed ha la modestia di confessarlo a sé e ad altrui? Che se alcuna cosa pur si ritiene dalla Fede o nella teorica o nella pratica; ciò è solo quel poco che si acconcia alle nostre disordinate abitudini, che non iscomoda, che favorisce anzi le nostre passioni ed i nostri interessi, e soprattutto che non si leva sopra quello, che alla losca nostra ragione piace tenere per vero. Il qual bisticcio di alcuni pensieri ed affetti tolti dall’Evangelio, commisti e manipolati coi pensieri e cogli affetti. della guasta natura, è propriamente quel Cristianesimo civile, messo in voga, già sono tre lustri, il quale molti dicono di professare, e del quale io non so se e quanto sia civile, ma so di certo che non è cristiano. La mercè di questo nuovo trovato, noi, incapaci e svogliati di levarci alle altezze limpidissime della Fede, pensiamo di aver ottenuto gran cosa, quando abbiamo fatto declinare la Fede alla nostra bassezza, snaturandola e stremandola del più splendido suo carattere, di essere cioè qualche cosa più alta, che noi omicciattoli non possiamo immaginare. Ora cotesto Naturalismo introdotto e dominante nel moderno mondo, è puro e pretto Paganesimo; ma Paganesimo tanto più reo e condannevole, che non era l’antico, quanto che questo moderno è effetto di una pratica apostasia da quella Fede, a cui l’antico era ordinato, e la quale esso abbracciò con tanta alacrità e devozione. Paganesimo redivivo che dello spento ha tutte le servilità e tutte le abbominazioni, senza la originalità e la grandezza; non essendo la grandezza pagana cosa possibile; a risuscitare, e chi lo ha tentato, non è riuscito che a scimmiature sguaiate, che sarebbon ridicole, se troppo spesso non fossero state atroci. Paganesimo disperato, perché nessun Balaam gli ha promessa una stella di Giacobbe, come all’antico, il quale pure aspettava una chiamata; laddove il nostro, nato dalla corruzione del Cristianesimo, o piuttosto da una civiltà decrepita ed ingancrenita, non aspetta altra chiamata, che quella dell’eterno Giudice, che lo condanni di tante abusate misericordie. Di questo Paganesimo se qualche alito, miei dilettissimi, vi avesse mai offeso, e permettete all’amor che vi porto, il dubitarne od anche solo il temerne, voi non potrete trovarvi migliore rimedio, che la considerazione devota e ragionata dell’Epifania.
IV. Ma oltre a quella ragione generale e comune a tutta la Gentilità convertita, che vuol dire a tutto il Cristianesimo; oltre a questo meno comune ed attenentesi alle inclinazioni della moderna società, egli vi ha nelle condizioni speciali delle città, in cui vi parlo, una peculiarissima ragione di tributare ossequio tutto singolare a questo Mistero della Epifania. E chi siete voi, o ascoltatori? Voi, sì! Voi siete gli eredi ed i discendenti di quei prischi Romani, i quali avendo incentrata in loro tutta la grandezza e la potenza pagana, parve che tutto il Paganesimo fosse trionfato dalla Croce, quando quei vostri maggiori furono conquisi alla Croce. Noi ci troviamo sopra le ruine di quella Roma che, fatta rocca e propugnacolo della Idolatria, come parlò il Magno Leone, s’immaginava di possedere una splendida Religione, perché nessuna superstiziosa insania avea rifiutata: Magnam sibi videbatur assumpsisse religionem, quia nullam respuerat falsitatem (Serm . I. in Nat. App . Petri et Pauli.). Sopra quella Roma che a tutte le più nefande deità innalzò are e delubri, sgozzò vittime e bruciò incenso, meno a quel Dio Ottimo, Massimo, che solo n’era degno, come Arnobio le gettò in viso. – Ora come foste voi cangiati in un’altra cosa da quel che furono i vostri antichi? Come per questa Roma fu fatale l’essere, non capitale di di non so che regno sgangherato e fallito prima di nascere, ma reina e reina sempre del mondo; sì che non dovendo più imperiare sui popoli per la prepotenza delle armi, cominciasse a reggere l’orbe tanto più nobilmente per la santità augusta della Religione! Quisquid non possidet armis religione tenet (Prudenzio, Carmina). Chi non ravvisa il dito di Dio in questa portentosa trasformazione d’una in altra grandezza, per forma nondimeno che la profana grandezza, dovendo pur essere per sé medesima ostacolo insormontabile alla sacra, riuscì tuttavolta ad esserne fondamento provvidenziale ed apparecchio? Chi non vede come l’unità del mondo romano, opera di otto secoli e tra le umane la più stupenda, fu ordinata a fare da substrato alla unità più vasta e più duratura del mondo cristiano? O miei fratelli! fate di entrar bene in questo pensiero; ché nessun altro per avventura al pari di questo può farvi intendere gran cosa che per voi è, o Romani, l’Epifania: nessun altro meglio di questo può premunirvi contro certe scaltre seduzioni, che vorrebbero passare per italiane, e sono pagane. – Guardate! Noi ci aggiriamo per questi fori, dove assembravano i figliuoli di Quirino, a sentirvi arringare dai vostri magni oratori, ed a deliberarvi gli assassini dei popoli, che si chiamavano, e dai pagani redivivi si chiamano tuttavia conquiste. Noi calpestiamo le zolle di quei circhi ed anfiteatri che rimbombavano altra volta da inverecondi e tempestosi tripudi di una plebe ubriaca di sangue, che era beata di bere gli cogli occhi le agonie e gli spasimi di uomini, perciò, solo devoti alla morte. Noi camminiamo accanto alla ruine di queste terme, di questi templi, di questi fornici; e templi e fornici, in opera di prepotente libidine, erano tutt’uno; tanto che , se ogninume pagano dai nostri tribunali avrebbe meritato per lo meno la galea, pgni tempio non poteva guardarsi altrimenti, che come un pubblico lupanare avendo detto per Minucio Felice, che frequentius in ædituorum cellulis, quam in ipsis lupanaribus, flagrans libido defungitur (Octavius, cap. XXV). E sopra questo indistinto osceno di prepotenza calpestatrice di ogni diritto, di derocia gavazzante nel sangue, di mostruosa lascivia che fa a fidanza con divinità prostitute,; sopra questo indistinto, io dico, che fu come la torre munita di tutto il Paganesimo nell’antica Roma, che vedete voi al presente? Voi non vedete oggimai trionfare altro sopra quelle ruine che la Croce,; e la Croce coi casti suoi pensieri, e la Croce colla sua umiltà rassegnata e con le sue speranze. Sulle arene silenziose dell’anfiteatro Flavio, inzuppate già del sangue di tanti mancipii, e di tanti martiri, grave e devoto incede al presente ai posti giorni un pio drappello; e quale velato il capo, quale scalzo il piede, tutti col cuore compunto, con innanzi inalberata la Croce. Riandano i dolori dell’Uomo-Dio ivi medesimo, ove tanti dolori incompianti furono divorati dalle generazioni che passarono, ove sedeva già il Campidoglio, smisurata e superstiziosa ambizione di un popolo padrone della terra, siede oggi numerosa famiglia del poverello d’Assisi, che, nell’umile povertà della Croce, seppe e sa educare pel cielo la terra i serafini, sul palazzo dei Cesari, ricetto infame che fu d’ogni più impura nequizia, un coro eletto di vergini sacre a Dio fa oggi fiorire come in giardino di paradiso, i gigli della illibatezza più pura; e mentre il mondo assonnato riposa, deste esse alla nota squilla, levansi notturne a mattinare il celeste loro sposo, perché le ami. Che più? Quel tempio, cui Agrippa dicava a tutti le infami divinità del Paganesimo, eccovelo già espiato dai riti cristiani, già sacro alla Reina del cielo e a tutti i Santi: anzi, quasi ciò fosse poco, quel tempio medesimo, riprodotto nelle vaste sue proporzioni, voi scorgete dall’audacia dell’arte cristiana, fatto sol parte d’immenso tutto, e campato nella regione delle tempeste, servire di coperchio alla tomba dello scalzo e spregiato Pescator galileo. Né queste trasformazioni ricordai quasi fossero sole; le ricordai più veramente, come ad esempio, perché sono precipue. Nel resto in questa vostra città non vi è sasso per avventura, non vi è zolla, non vi è rudero di vetusto monumento, che non vi narri in sua favella la smisurata ambizione e la bugiarda grandezza del popolo che foste un tempo; è narrandovi questo, vi deve far sentire l’immenso benefizio del Redentore, che chiamovvi ad essere quel tutt’altro popolo che al presente voi siete. – E (sia detto ad onor del vero) voi, o Romani, deste in questi ultimi tempi, e state dando tuttavia segni risplendidissimi di averlo inteso! Voi, a confusione di chi aveva interesse a supporvi e dipingervi tutt’altro da quello che siete, mostraste al mondo ammirato, e dico ancora alla Cattolicità rinfrancata, come qui la fedeltà dei sudditi, accoppiata in bell’accordo alla pietà dei cattolici, vi facea non che satisfatti, ma lieti, ma nobilmente alteri di sapere i vostri destini civili immedesimati ai destini della Roma Cristiana, in quanto avete a vostro Principe il Vicario stesso di Cristo. Io non so se altra età vi sia stata, in cui fossero i Romani più devoti ai loro Pontefici; ma è indubitato, che in nessun’altra età ne diedero, mai prove così affettuose, così splendide, così universali, come sono quelle che voi, da oggimai due anni ne state dando. E ne avete ragione! Per una Roma, sotto ai cui piedi Iddio volle poste, quasi sgabello, le ruine maestose del massimo Imperio che vedessero le stelle, ogni altra corona saria minore della sua grandezza! Sul capo augusto di lei solo sta bene e si addice quella che sta portando da dodici secoli, lungo i quali tanti troni crollarono, sparirono tante dinastie e tanti scettri fur fatti polvere! quella corona per cui, guardata Roma siccome patria spirituale di quanti sono credenti, è salutata Capo dell’Orbe, Reina, madre, maestra ed altrice dell’universo mondo! Riposiamo.
V. Vedete dunque per quali e quanți titoli la solennità e la considerazione dell’Epifania è opportunissima a noi tutti Cristiani, i quali fummo, nelle generazioni che ci precedettero, chiamati e raccolti dalla Gentilità; è opportunissima alla condizione presente della società che, in mezzo a tante superbie di progresso, rinverte miseramente ai pensieri, agli amori, alle tendenze del Paganesimo, già trionfato dalla Croce; è opportunissima da ultimo a voi, o Romani, i quali, dall’essere il centro e la viva espressione del Paganesimo dominante, passaste a vedere locato nel vostro mezzo il centro e come il cuore di questo gran corpo, che è la Chiesa universale. – Dissi poi solennità e considerazione della Epifania, parendomi che in queste due parti possa dividersi tutto ciò, che è per farsi in questo splendido ottavario. E la solennità, che attesta la riconoscenza, è raccomandata agli zelanti che coll’opera o colle largizioni vi prendono parte. Quanto alla considerazione, ordinata ad eccitare la riconoscenza, essa sarà frutto della divina parola, che sì copiosa ed in tante svariate forme, sarà amministrata nei correnti giorni in questo tempio. E, nella piccola parte, che ne è a me raccomandata, io non mi dipartirò dal soggetto indicatovi oggi; e vi discorrerò l’antico ed il moderno Paganesimo: quello da cui Dio ci trasse per sua misericordia; questo a cui il mondo presente è incamminato per sua colpa e per sua sventura. – Ora né questa colpa, né questa sventura potrà intendersi , né la grazia della vocazione dei Gentili, se non si fa giusta stima di quello che fosse veramente la Gentilità. Oh, sì! A quella società così ammirata pei suoi poeti, pei suoi oratori, pei suoi artisti, e più ancora per i suoi uomini di stato in pace ed in guerra, a quella società, io dico, conviene strappare d’attorno lo splendido velo che l’ammanta, per tutta vedernel’orribile abbominazione e la schifosità snaturata. Senza ciò, non è possibile intendere abbastanza bene l’immensa trasformazione compiuta dall’Evangelo; e noi, senza il concetto di quello che fummo, non intenderemo mai la grazia ed il pregio di essere stati fatti quello che siamo. – Ed a farlovi intendere, secondo la mia piccola facoltà, io vi discorrerò domani la radice del Paganesimo, la quale mi pare di ravvisare principalmente nell’assoluta separazione dell’uomo da Dio. Da questa málaugurata radice pullularono due funesti germogli: l’avere cioè l’uomo sconosciuto sé medesimo, e l’essersi alterato nelle sue relazioni coll’universo esteriore; e questi saranno i suggetti del terzo e del quarto discorso. Quell’alterazione poi, che nella intenzione di chi la volle dovea fruttare all’uomo piena indipendenza da tutto che non fosse lui; per contrario importò nell’uomo pagano una triplice schiavitudine: schiavitudine alle forze della natura, schiavitudine alle seduzioni del senso, schiavitudine alla prepotenza dello Stato; e questi tre saranno gli altrettanti suggetti dei seguenti. L’ultimo o l’ottavo sarà una conchiusione pratica di tutti gli altri, tolta dal mezzo stupendo, di che si valse la Provvidenza per compiere quella trasformazione; quantunque in tutti mi studierò di non farvi desiderare applicazioni morali ai nostri tempi ed alle nostre condizioni.