A. D. SERTILLANGES, O. P.
CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XII)
[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]
LIBRO SECONDO
I MISTERI
VI. — Il mistero della Redenzione.
D. Tu dici che l’incarnazione ha per ragione di essere la redenzione: è dunque perché vi è un vincolo di necessità tra l’una e l’altra?
R. Non c’è nessun vincolo di necessità. Dio è libero dei suoi benefizi, e l’incarnazione, al pari di ogni altra soluzione, non s’impone alla sua provvidenza. Una sola cosa è certa, ed è che, dopo la caduta, l’iniziativa della riparazione non poteva venire da noi; ci voleva un intervento del cielo. Come si sarebbe prodotto questo intervento: per mezzo di un’offerta accettata senz’altra condizione che il pentimento, o per la grande avventura redentrice? ecco le due soluzioni estreme; ma ce n’era un’infinità d’altre.
D. Perché dunque questa?
E. Perché Dio fece tutto da Dio. Non abbiamo forse detto che la sua religione porta tutto agli estremi, a fine di conciliare tutto? Si trattava qui di conciliare l’estrema giustizia con l’estrema misericordia, con l’estrema sapienza, con l’estrema potenza, con l’estremo amore, affinché tutti gli attributi divini fossero all’opera, e fossero in gioco tutti i valori umani.
D. Come ciò si effettua?
R. La disgrazia del mondo dipendeva dalla rottura del vincolo tra l’anima e Dio, e, per conseguenza, tra l’anima e l’anima, tra l’anima e il corpo, tra la persona e la cosa, tra lo spirito e l’universo: il rimedio era di ristabilire questo vincolo e di riparare la rottura. Essendo il vincolo rotto anzitutto un vincolo morale, bisognava che il riscatto fosse un atto morale, che fosse un merito, un merito riparatore. Questo merito, normalmente. doveva essere un merito umano, perché donde è venuta la colpa deve venire la riparazione, e ancora doveva essere un merito divino, affinché ogni giustizia fosse soddisfatta fino alla sovrabbondanza, come richiediamo; infatti, non occorre forse che la riparazione salga al livello dell’offesa, e per conseguenza dell’offeso, dal quale l’offesa si misura? La riparazione per mezzo dell’Uomo Dio risponde a questa necessità di magnificenza, se così posso dire, ed ecco quello che provoca nei nostri grandi uomini delle estasi di ammirazione. Dall’intimo stesso della massa del peccato Dio fa germogliare la salute introducendovi il lievito che è il suo Verbo. Il Pensiero creatore riprende l’uomo in sottopera, l’incorpora, per il fatto che Egli l’assume, all’idea della sua prima costituzione, e così la salva, perché l’idea della prima costituzione implica il destino primitivo» Prendendo la forma della nostra miseria, Egli la rialza. Lui, infinito, viene a prenderci in quella lontananza infinita in cui siamo, la lontananza del peccato e, se posso dire così, del soprannaturale peccato. – La conversazione iniziale si riprende per il fatto che il Padre parla col Figliuolo divenuto uno di noi, per il fatto che egli riceve da questo Uguale umano una piena soddisfazione, e si celebra sulla croce il rito del pentimento, dell’adorazione filiale e dell’amore. La scrittura della croce è una cambiale su Dio, un testamento; noi siamo degli aventi diritto e Cristo prende il nostro posto, quello che permette a Bossuet di chiamarlo con un po’ di audacia: « il nostro santo, il nostro caritatevole, il nostro misericordioso colpevole ».
D. Se una riparazione «magnifica» era intraveduta, che cosa significa il simbolo dell’Angelo dalla spada fiammeggiante che proibiva l’ingresso del paradiso terrestre?
R. L’angelo era là meno per difendere l’antica porta che per spingere gli sbanditi verso la nuova. D’ora innanzi è Gesù la « Porta », e il paradiso perduto è ritrovato.
D. In che modo Gesù è la porta?
E. A titolo di Mediatore. Egli stabilisce un passaggio; riallaccia e intercede per la sola sua esistenza, a fortiori per la divina accettazione. È chiaro! Dio non può mancar di risparmiare e di considerare sua una stirpe alla quale appartiene, nel tempo, il Suo Figliuolo eterno, e per la quale questo FIgliuolo perora come per se stesso. Ma ciò prende un carattere effettivo per la comunicazione che ci fa il Figliuolo della vita soprannaturale che Egli possiede e che noi abbiamo perduto per la colpa. Con ciò Egli è il nostro Salvatore e ci rialza dalla caduta collettiva come da tutti i suoi effetti individuali. Con ciò è il nostro padre soprannaturale come Adamo il nostro padre secondo la natura. Con ciò è sacerdote, cioè donatore delle cose sante, ed è anche il solo sacerdote, in ciò che gli altri sacerdoti non sono i suoi successori, ma i suoi rappresentanti e i canali delle sue grazie. Per giunta, questo sacerdote è anche vittima, perché appunto per la sua propria immolazione volle egli compiere la mediazione efficace e salutare di cui parlo. Tal è la Redenzione. Essa ha naturalmente una portata infinita, vale per tutti gli uomini, per tutte le colpe che essa ripara dopo o prima, purché ciascuno ripari per suo conto nella misura delle sue forze. Vale altresì per tutte le ascensioni, compresa la vita eterna, della quale Gesù paga il prezzo.
D. Un prezzo pagato per un vantaggio non giustifica l’idea di redenzione.
R. Vi è redenzione o riscatto perché vi è cessazione di uno stato di servitù o sborso di un prezzo questo effetto.
D. Di quale servitù parli tu?
R. Della servitù del male, e specialmente del peccato; perché « chi commette il peccato è schiavo del peccato », dice S. Pietro, servitù che ne trascina un’altra riguardo a quell’agente invisibile del male, di quel fautore del peccato che si chiama satana.
D. Bisognerà dunque pagare satana?
R. No, come non si paga al lupo la pecora che gli viene strappata; si paga un proprietario. Qui si paga Dio.
D. Quest’apparenza di commercio non ti urta?
R. Non si tratta punto di commercio, ma di giustizia e di soddisfazione.
D. Un umile pentimento non è una sufficiente soddisfazione?
R. Il pentimento è certamente la cosa essenziale; ma non è affatto una soddisfazione. Un suddito che ha insultato il suo sovrano forseché soddisfa rendendogli semplicemente omaggio? L’ordine pubblico si può contentare di questa resipiscenza?
D. Qui non c’è ordine pubblico.
R. C’è l’ordine pubblico degli esseri, l’ordine universale, che è un ordine morale. Quest’ordine è offeso dal peccatore, e l’offesa grave ha un carattere in certo modo infinito, secondo che quest’ordine contiene Dio.
D. Tuttavia Iddio non può rimettere, come capo dell’ordine universale?
R. Dio può tutto, e se Egli facesse ciò che dici, noi loderemmo la sua misericordia; ma la stretta giustizia non sarebbe punto soddisfatta, né certamente la divina paternità, perché non sarà forse l’eterno onore dei figli di Dio l’avere, in grazia del loro Cristo e della loro propria cooperazione, soddisfatto tutti i loro debiti morali, riparato ampiamente tutto il male, glorificato tutto il bene, e l’essere così, spiritualmente come in tutti i modi, i figli delle loro opere? Del resto, quanti benefizi speciali ci sono procurati dalla soluzione ammessa! Li abbiamo intraveduti trattando dell’Incarnazione.
D. Tuttavia, in questa ipotesi, Iddio non fa la figura di gran signore toccato sul vivo?
R. Egli fa figura di Essere universale, sollecito a un tempo di tutti gli attributi del suo regno, di tutti quelli della sua paternità e dei molteplici bisogni delle sue creature. La Redenzione è un’opera d’armonia in cui la giustizia, la misericordia e la sapienza si abbracciano, come l’Incarnazione è un’opera d’armonia in cui il divino e il creato uniscono tutte le loro frontiere. – Gesù Cristo fa da parte sua ciò che non possiamo fare noi, e ci porta a ciò che noi possiamo fare, aiutandoci per giunta a compirlo. Ci fornisce l’insegnamento e l’esempio. L’egoismo orgoglioso e gaudente erano la sorgente di ogni male: Egli non solo li denunzia, ma ancora reagisce sposando i loro contrari. «Egli bevette la medicina amara che l’uomo non poteva bere, dice S. Caterina da Siena, come la madre che allatta prende un rimedio con l’intenzione che faccia bene al bambino ». Noi rigettiamo tutto sopra gli altri: Egli prende tutto sopra di sé. Noi non amiamo che noi stessi contro tutti gli altri: Egli non amerà che gli altri contro di sé. Noi odiamo i patimenti e gli abbassamenti più necessari: Egli vi ci incoraggia con l’amore umiliato e dolorante. La morte ci fa orrore, fosse pure giusta e buona, e indispensabile: Egli la chiama suo calice, che ha fretta di bere, perché Egli venne per quest’ora.
D. Perché questo dramma, quando dici che il minimo atto di Cristo, d’un valore infinito, poteva bastare a ogni cosa?
R. Dio non crede bene di salvarci con un colpo di bacchetta. Dio fa tutto all’eccesso, ancora una volta: eccesso di giustizia, eccesso di misericordia, eccesso di mistero, eccesso di chiarezza, eccesso di abbassamento, eccesso di grandezza, eccesso di tenerezza, eccesso di dolore e di gloria. Organizzata diversamente, l’opera non sarebbe sufficientemente divina; gli attributi sovrani non sarebbero abbastanza manifestati; la lezione sarebbe debole; l’avvenire morale non avrebbe sufficienti garanzie; il bene e il male non avrebbero mostrato tutto il loro peso, e l’amore, principalmente, non avrebbe sufficienti testimonianze.
D. Tu perori per l’amore e per la morte?
R. Vi è certamente un vincolo misterioso e intimo, tra l’amore, il patire e la morte. Dio vuole sottomettersi a questa legge della testimonianza irrecusabile, e consente che vi siano sottomessi con Lui tutti quelli che l’amore travaglia. La salute collettiva per mezzo del sacrifizio non è forse la più grande bellezza della storia? Ricorda Leonida, Regolo, il cavaliere d’Assas, Giovanna d’Arco. Il mistero della Redenzione ricollega la salute della collettività umana a un sacrifizio supremo che ne suscita una infinità d’altri, e ogni cuore generoso lo comprende.
D. Intanto parli della « follia » della croce.
R. Ma aggiungendo: « Quello che sarebbe follia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini » (Epistola I ai Corinzi, I, 25). Questo caso di un Dio che per amore si mette nelle mani della sua creatura per morire è l’originalità più profonda del Cristianesimo, quella che adatta questa religione all’anima umana in ciò che essa ha di più intimo e di più forte. Lì sta il segreto della sua impresa, e, di gran lunga, la sua più potente leva.
D. Avevi detto sopra che l’universo fisico aveva partecipato alla caduta, ebbene partecipa anche alla redenzione?
R. Sì; perché Cristo, rinforzando il vincolo che lega l’anima a Dio, rafforzò nello stesso tempo il vincolo che lega il corpo all’anima e l’ambiente naturale al corpo. L’anarchia esteriore del mondo è vinta di diritto, come l’anarchia interiore del nostro essere, come l’anarchia iniziale del peccato, e lo spirito riprende, ufficialmente, il governo delle cose.
D. Non sì capisce bene come dopo tali fatti, la situazione sia così poco cambiata. Se Cristo ha riparato tutto, come mai le conseguenze del peccato originale non sono abolite?
R. Esse sono abolite di diritto; noi non vi siamo più soggetti come a una legge opprimente, ma legati oramai come a mezzi. In quanto ad eliminarle tutt’a un tratto, come lo immagina una corta sapienza, è ciò che non sarebbe stato degno di Dio. L’azione di Dio è armonia e ignora le catastrofi. Dio è abbastanza potente da trarre partito da una situazione senza sconvolgerla e trarre anche da una rovina una fabbrica migliore. Il nostro mondo è quello che è: Dio lo conserva; dobbiamo dire: tutte le sue apparenze restano; ma il segno de’ suoi valori è cambiato. Moralmente questo mondo è tutt’altro: ieri una specie d’inferno, oggi, per chi consente a ben vivere, il vestibolo del cielo, o per dir meglio un cielo.
D. Tu vuoi che sì faccia di necessità virtù.
E. Sì, nel gran senso del termine, e di una fatalità un caso di libertà, di una condanna una scelta, d’un costringimento un amore. È un bel rovesciamento, e si compiangerebbe colui che volesse dare la preferenza a un volgare colpo di spugna. Dio ha dei gesti più alti e che ci onorano meglio. Relativamente al piano nuovo, improntato della croce, il piano originale non era che un piano volgare, come di fronte a Socrate con la coppa di cicuta in mano, un qualsiasi bevitore.
D. Ti congratuleresti del peccato originale?
E. Sarei con la liturgia, che dice: « Felice colpa! ». Non ci si rallegra del male, ma della sua riparazione gloriosa e del fatto che «là dove era abbondato il peccato sovrabbondi la grazia », come dice S. Paolo. Ma per noi e per altri, come per Cristo nella sua propria condizione temporale, i più alti valori sono legati al sacrifizio volontario, e per conseguenza a uno stato di prova, di dolore e di morte temperato da qualche gioia, anzi, meglio da un’intima pace.
D. Insomma, dolore dopo dolore.
R. Noi avevamo il dolore peccaminoso o il dolore gratuito; ora è il dolore generoso e il dolore che paga.
D. È questa la porta verso la quale ci spingeva l’Angelo?
R. Lo stato di peccatore trova la sua porta di uscita dal lato della sofferenza, perché la trova dal lato del sacrifizio volontario. Gesù ci mostrò questa porta passando Egli per primo.
D. Il passarvi era cosa grande; ma ciò avrebbe dovuto bastare.
R. Non si vede un capo lottare da solo; spesso anzi egli non si espone; egli assume le parti principali; ma lascia posto alle imprese gloriose della sua milizia.
D. Potendo tutto, si sarebbe dovuto riserbare tutto.
R. Anche l’onore delle grandi cose? Riconquistare un mondo e ristabilirlo nella gloria di Dio, è forse un’opera da serbare per sé?
D. L’opera è penosa e piena di rischi.
R. Ma è anche gloriosa. Patetica al più alto segno, l’avventura è al più alto segno desiderabile all’eroe, e l’eroe l’affronta.
D. Non tutto il mondo è un eroe.
R. Tutti possono essere degli eroi nel grado che bisogna, muniti dei soccorsi che sovrabbondano. « L’eroismo è il vero senso della vita » (WILLIAM JAMES): Cristo vi ci invita. Che riduzione di benefizio sarebbe stata da parte di Cristo la sua volontà di soffrire da solo, di nascondere nelle sue sole piaghe i gioielli del dolore redentore! La croce è un dono regale. Essere ammessi a partecipare con Cristo, a rassomigliargli in tutto, gioia e pene, a non salire le cime che Egli ha conquistato se non coi passi ne’ suoi passi e carichi dello stesso peso: che felice sorte, per chi sa comprendere! L’anima cristiana non desidera altro; interiormente libera, essa si attacca al sublime Amico mediante una squisita e utile servitù « come uno schiavo affrancato che segue per amore il suo padrone » (LACORDAIRE).
D. È quest’amore che poc’anzi chiamavi un cielo?
R. È quest’amore unito alla speranza d’un amore più sviluppato, più ricco di effetti, sciolto da timori e da rimpianti, ebbro di gioie senza fine a prezzo di rapide sofferenze. Il cielo si apre all’anima nostra prima che la terra si apra alla nostra spoglia, e questo stesso seppellimento della nostra spoglia non è per sempre.
D. È una bozza; ma, secondo te, molti uomini sfuggono a quest’azione redentrice, di modo che il primitivo stato dell’uomo non è interamente restaurato; vi è della perdita.
R. Noi crediamo che vi è del guadagno; perché per Cristo l’uomo è sollevato più in alto, se vuole, partendo da più basso. E nulla assicura che nel primitivo stato non ci sarebbe parimenti stata della perdita. La giustizia originale non era inammissibile; si era tenuti servirsene; si poteva sempre perdere. Certo solamente il primo uomo poteva privarne la stirpe; ma ciascuno de’ suoi discendenti poteva personalmente decaderne, e noi non sappiamo se Egli avesse potuto ricuperarla così sovente e così facilmente come noi stessi.
D. Noi non possiamo ricuperarla se non a condizione di riconoscere Cristo: che cosa diventano allora quei che non lo conoscono, o ancora, non colpevolmente, lo disconoscono?
R. Non tutti i rapporti con Cristo sono visibili; neppure sono coscienti. Gesù ha dei discepoli segreti, dei discepoli che si ignorano o anche si credono suoi avversari.
D. Che cosa è che caratterizza questi discepoli segreti?
R. Gesù disse: « Mio discepolo è colui che fa la volontà di mio Padre ». Colui che aderisce alla volontà del Padre, vale a dire a tutto il vero, a tutto il bene tal quale apparisce alla sua coscienza vigilante, senza che egli vi opponga alcun ostacolo essenziale, costui è con Cristo, e Cristo lo salva.
D. Bisogna ancora che Cristo sia venuto, e quanti uomini prima di Cristo!
R. «Cristo viene sempre » (THOMASSIN). « Cristo è sempre stato presso quelli che ebbero un cuore e che, verso l’origine o la fine del mondo, si sono sottomessi alla giustizia che viene da lui » (Idem). S. Paolo non dice forse lo stesso: « Cristo è ieri, oggi e in tutti i secoli »? Noi abbiamo già veduta questa dottrina del Cristo centro dei tempi e raggiante sopra tutti i loro spazi. La «linea d’universo » che lo congiunge a ciascun’anima può sempre essere tracciata e aprire una via di scambi.
D. La Redenzione è dunque cominciata prima della nascita di Cristo?
R. Cominciò da Adamo, e si può dire prima della colpa stessa. Il Creatore non pensava forse al suo Figliuolo, modellando la forma adamitica e soffiando in lui la vita?
D. È bello; ma…
R. È pura teologia cattolica, e ne hai il simbolo in ciò che noi chiamiamo la Discesa di Gesù Cristo all’inferno, cioè l’apparizione, la manifestazione di Cristo alle anime de’ suoi figli del passato, de’ suoi riscattati per anticipazione, de’ suoi prossimi fratelli di gloria. Abbiamo qui veramente una consacrazione dogmatica di quest’affermazione che Cristo è di tutti i tempi e che il punto della storia in cui Egli apparisce irradia sopra tutte le età.
D. Ora comprendo perché tu chiami la Redenzione un mistero.
R. Noi chiamiamo la Redenzione un mistero, non solo perché essa suppone l’Incarnazione e la Trinità; ma anche perché contiene il segreto della volontà divina riflettente la salute degli uomini, riflettente la giustizia, la misericordia e la loro conciliazione; perché essa ci presenta un Dio sofferente, un Dio di sangue e di lacrime, un Dio che, non avendo fatta la morte, volle soffrirla per liberarne quelli che l’avevano fatta; perché il prezzo di questa Redenzione rischiara di una tragica luce il mistero del male, e, correlativamente, innalza il bene, potenza a cui si accorda il trionfo. Ma il mistero proposto è qui soprattutto l’abisso dell’amore divino. La croce che congiunge il cielo alla terra e tende le sue braccia verso tutti gli spazi, è il simbolo misterioso dell’unità universale, che, per una sofferenza infinitamente generosa e una stretta giustizia, stabilisce l’amor divino.