CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.
LA PARUSIA (6)
PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE, Rue de Rennes, 117 – 1920
TOUS DROITS RÉSERVÉS
ARTICOLO SESTO
LE PARABOLE CHE FANNO DA EPILOGO AL DISCORSO ESCATOLOGICO. TESTI CONSIDERATI IN CONTROSENSO DAI MODERNISTI
La nostra esegesi del discorso di Gesù sulla fine del mondo e la parusia non sarebbe completa se passassimo sotto silenzio le due parabole delle dieci vergini e dei talenti, che in Matteo (XXV, 1-30) servono da e pilogo. È, infatti, abbastanza evidente che queste parabole sono un tutt’uno con il contenuto del capitolo XXIV, e che non sono altro che una drammatizzazione, sotto immagini e figure appropriate, di ciò che l’oracolo escatologico annunciava come dover accadere in futuro. Ci offrono, quindi, un mezzo sicuro per controllare l’interpretazione dell’oracolo stesso, e allo stesso tempo ci forniscono un mezzo per fare una controprova della verità delle conclusioni a cui siamo arrivati finora. – In primo luogo, ecco la parabola delle dieci vergini. Il materiale è tratto dalla celebrazione delle nozze, come era praticata in Palestina al tempo di Nostro Signore, e così com’è ancora praticata oggi in tutto l’Oriente. Quando la sposa, a causa del suo matrimonio, doveva trasferirsi da una località all’altra, le ragazze della località che stava lasciando, le facevano un corteggio d’onore e la conducevano in gran pompa davanti allo sposo, che a sua volta veniva incontro alla sposa per condurla a casa sua ed introdurla dapprima nella sala del banchetto dove si concludeva la cerimonia nuziale. (Un esempio ne vien dato nel primo libro dei Maccabei, c. IX, vv. 17 ss. « Fu annunciato a Giona e a suo fratello Simone che i figli di Jambri celebravano un matrimonio solenne e che portavano da Madaba, con grande sfarzo, la sposa, figlia di uno dei potenti principi di Chanaan…. Guardando in alto, essi osservarono, ed ecco, si udì un grande rumore ed apparve un grande corteo. Lo sposo, accompagnato dai suoi fratelli ed amici, si fece avanti per incontrarla, con tamburelli, strumenti musicali ed un notevole armamentario. » Solo che questa volta la festa fu terribilmente disturbata, e sappiamo come le nozze si trasformarono in lutto, ed i suoni gioiosi della loro musica in lamenti). Inoltre, era durante le prime ore della notte che l’intera cerimonia veniva solitamente eseguita. Da qui le torce, le fiaccole, le lampade accese nelle mani dei paraninfi. Da qui, anche, la metafora dell’essere gettati nelle tenebre esterne, o, ciò che equivale alla stessa cosa, dell’essere mandati fuori dalla sala del banchetto nelle tenebre esteriori, che è così spesso usata nel Vangelo per significare la dannazione dell’anima, esclusa da quel banchetto celeste che la gloria di Dio illumina, e di cui l’Agnello è la lampada, come dice San Giovanni nella sua Apocalisse (XXI, 23). Il mistero del regno dei cieli ci sarà descritto in termini di parusia, sotto forma di una di quelle solennità nuziali che si tenevano quotidianamente nei villaggi della Giudea e della Galilea. Lo sposo atteso è Gesù Cristo; Gesù Cristo nel Suo Secondo Avvento; Gesù Cristo che ritornerà, come Egli stesso ha annunciato, per risuscitare tutti i morti dalle loro tombe (Gv. V. 28) e, dopo la risurrezione generale, una volta completato il giudizio universale, per portare la Sua sposa, la Chiesa trionfante, ora senza macchia o ruga o contaminazione di qualsiasi tipo, alle nozze eterne. Le dieci vergini che vanno incontro allo sposo (si noti che mentre la Vulgata recita: “per incontrare lo sposo e la sposa“, il greco riporta semplicemente: “per incontrare lo sposo“) sono l’universalità dei fedeli, che, per il fatto stesso di professare il Cristianesimo, professano anche di credere nella seconda venuta di Cristo. Ora, aspettare qualcuno, cos’altro è se non andargli incontro in spirito e in pensiero? Per questo Sant’Agostino dice: Quid est ire obviam sponso? corde ire, exspectare ejus adventum (S. Agostino, Serm. 93 de verbis evang., n. 6.), da cui è chiaro che fare una professione di Cristianesimo è figurare come colui che sta per incontrare il Cristo immortale, nostro grande Dio e Salvatore, autore e consumatore della nostra fede, nel suo glorioso ritorno alla fine dei tempi. – Vediamo, tuttavia, che tra coloro che si definiscono Cristiani, molti non conformano la propria condotta al credo che professano. Da qui la distinzione tra le vergini sagge e le vergini stolte. Le cinque stolte, avendo preso le loro lampade, non presero l’olio con loro, ma le sagge presero l’olio nei loro vasi con le loro lampade. Ciò significa che le stolte trascurarono di fare i preparativi necessari, mentre le sagge ebbero cura di dotarsi, in ogni momento, di tutto ciò che il cerimoniale della festa poteva richiedere. E senza perderci qui nel dettaglio quasi infinito delle molteplici applicazioni del testo evangelico, diciamo in modo generale che mentre le lampade simboleggiano la legge, l’olio di cui furono private le vergini stolte, rappresenta la carità e le buone opere, senza le quali la lampada mistica della fede è come una lampada che fuma, si consuma e si spegne. Ma ancora c’è dell’altro. Il corteo, che era partito all’imbrunire, dovette fermarsi e fare una sosta perché lo sposo tardava ad arrivare. Era in ritardo, anzi, doveva ritardare fino a metà della notte. Certamente, questo era un ritardo straordinario, considerando i costumi dell’epoca; meglio ancora, era un ritardo oltre ogni misura. Non c’è quindi da stupirsi se durante un’attesa così lunga, le dieci vergini furono infine prese dal sonno una dopo l’altra: si assopirono tutte – dice il Vangelo – e si addormentarono. Dormitaverunt omnés et dormierunt. Questa caratteristica è degna di nota. È necessario, in particolare, notare questo “omnes”: tutte, cioè, sia le sagge che le stolte. Questo porta immediatamente alla conclusione che il sonno qui non è messo in cattiva luce, come il sonno della negligenza e della pigrizia, come quando fu detto in San Marco, XIII, 36: « Vegliate, perché il padrone di casa non vi trovi addormentati. » No, non è più il sonno della dimenticanza del dovere, non è più il sonno del peccato, non è più il sonno dell’incuria che si intende questa volta. Questo non può essere – dice Sant’Agostino – perché tra il numero delle vergini che si addormentarono c’erano anche le sagge, quelle che sono date modello, che rappresentano le elette, davanti alle quali, infine, si sarebbero aperte le porte del banchetto nuziale, figura del banchetto della gloria eterna, al quale si è ammessi solo a condizione di aver perseverato fino alla fine, secondo quanto è scritto: « Colui che avrà perseverato fino alla fine, costui sarà salvato. » Ma c’è un altro sonno da cui nessuno può fuggire, ed è il sonno della morte. Infatti, chi non sa che la morte è costantemente presentata come un sonno nelle scritture del Nuovo Testamento? … Che i morti sono comunemente chiamati dormienti, e quelli che muoiono, come quelli che sono dormienti? (Matth., XXVII, 52; Joan, XI, 11; I Cor., VII, 39; XV, 6, 18, 20; I Thess, IV, 12-1.4, ecc.) – Non c’è dunque da ingannarsi: il sonno che prende le dieci vergini che andarono davanti allo sposo rappresenta la morte, la morte che depone nel sepolcro le generazioni cristiane una dopo l’altra, finché l’ora tarda della parusia e la resurrezione non venga a suonare (Omnes dormitaverunt, id est mortuæ sunt, quia sanctorum mors somnus appellatur, – Hieron., in Matth. XXV, 5). – Subindicat mortem esse somnum. Dormierunt, inquit. (S. G. Crisostomo, Hom. 78 in Matth., n. 1). – Infine, nel cuore della notte, un grido risuonò improvvisamente: Ecco, lo Sposo sta arrivando; andate a incontrarlo! Questo è il grido di cui l’Apostolo ha detto: « Al segnale dato, alla voce dell’Arcangelo, al suono della tromba divina, il Signore stesso scenderà dal cielo e i morti risorgeranno. » (I Thess., IV, 15). – Allora le dieci vergini si svegliarono, si alzarono e si misero a preparare e ad accendere le loro lampade per formare un corteo d’onore per seguire colui che, dopo tante ore, stava finalmente arrivando. Ma le donne stolte vedono le loro spegnersi per mancanza di olio. Nella loro angoscia, si rivolgono alle sagge che si ricusano, perché in quel momento ognuno risponderà per se stesso e non potrà dare del suo superfluo agli altri. « Non ne abbiamo abbastanza per noi e per voi » – rispondono – « ma andate piuttosto da chi lo vende e compratelo per voi. » Un’ironia struggente che esprime l’irrimediabile infortunio in cui saranno gettati tutti coloro che non approfittano della vita presente per assicurarsi l’eternità. E conosciamo il resto … Più tardi vennero anche le altre vergini, dicendo: Signore, Signore, apri a noi. Ed egli disse loro: “In verità vi dico che non vi conosco“. E questa è la morale della parabola: Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora. È sempre la stessa raccomandazione ad essere vigili, quella che suona come un serio ritornello nei supremi avvertimenti di Gesù. Se non fosse questa legge tale, potrebbe sembrare a molti abbastanza spropositata, venendo, come abbiamo osservato, dopo l’esempio di quelle vergini che, invece di vegliare, dormivano tutte, comprese le sagge, quando fu dato il segnale dell’arrivo dello sposo. Di fatto, non c’è via d’uscita alla difficoltà nell’esegesi modernista, che può solo offrire al Vangelo le contraddizioni più grossolane ed assurde. Ma la contraddizione scompare non appena ci riferiamo a ciò che abbiamo detto prima, e soprattutto a questi due punti capitali: in primo luogo, che è il sonno della morte, di cui si parla qui; e in secondo luogo, che il Vangelo è solito considerare l’ora della parusia ancora nell’impenetrabile ignoto del futuro, come risuonante per anticipazione per ciascuno in particolare, all’ora, altrettanto inconoscibile in anticipo, in cui la morte, cogliendolo, lo fissa nello stato, o di grazia o di dannazione, in cui lo troverà il giorno del Giudizio universale. Su questi due punti, infatti, una volta che le leggi siano ben stabilite, c’è piena armonia, perfetta corrispondenza, tra la similitudine proposta e la lezione che se ne trae. Infatti, da questo punto in poi, appare che la vigilanza raccomandata nella morale della parabola si riferisce al tempo che precede la venuta del Figlio dell’uomo, considerato, non tanto nella sua realtà di ultima ora del mondo, quanto in quella di ultima ora di ogni individuo: assolutamente come, nella parabola stessa, la lungimiranza richiesta alle dieci vergini morava non al tempo immediatamente precedente l’arrivo del pentimento, ma a quello che precedeva il momento in cui il sonno, cogliendole una dopo l’altra, toglieva loro allo stesso tempo, mentre procedevano, ogni potere di fare ulteriori preparativi, ogni mezzo per compensare ciò che mancava, ogni possibilità di aggiungere qualcosa alle provviste che avevano fatto prima di andare a dormire. Non è dunque ad un senso accommodatizio, ma al senso proprio, letterale e naturale, che San Crisostomo si è attaccato nell’Omelia LXXVIII su San Matteo, quando, in accordo con tutta la Tradizione, ha spiegato la parola alla fine, vigilate itaque, quia nescitis diem neque horam, dicendo: « Vedete come frequentemente termina con queste parole, mostrando che è utile per noi essere inconsapevoli del giorno della nostra partenza da questa vita: κρησίμην δεικνύς τήν ἄγνοιαν τῆς ἐζόδου τῆς ἐντεῠθεν… [kresimen deiknus ten agnoian tes ezodou tes enteuden] » (P. G. t. LVII, col. 713). – Questa, dunque, è la prima delle due parabole che seguono, in San Matteo, al discorso escatologico, e che raffigurano il regno dei cieli sulla terra, nella sua relazione con la seconda venuta di Gesù Cristo. Per essere ben compreso, questo aveva bisogno di qualche chiarimento, ed è per questo che abbiamo dovuto soffermarci un po’ su di esso. – Quanto al secondo, quello dei talenti, è troppo ovvio e troppo trasparente in sé, almeno nel suo senso generale, e dal punto di vista che qui ci interessa, per richiedere una spiegazione dettagliata. Si vede, infatti, che l’uomo che va all’estero per un viaggio è Gesù stesso, che presto sarebbe salito al cielo; che i servi sono gli stessi che prima erano rappresentati dalle dieci vergini; che i talenti loro affidati sono i doni della natura e della grazia, dati a ciascuno per essere usati; che il ritorno del padrone è il ritorno di Gesù alla fine dei secoli, e il resoconto dell’uso dei talenti ricevuti è quello che ci verrà chiesto, per servire da base al giudizio in cui saremo ricompensati secondo le nostre opere. Inoltre, la parabola dei talenti si riferisce allo stesso oggetto della prima, e la sola differenza è che la prima, insistendo sull’incertezza del giorno e dell’ora, concludeva con la necessità della vigilanza, mentre questa, insistendo sul rigore del conto da rendere, conclude con la necessità del lavoro, dello sforzo e di un’attività costante. Tutte queste cose sono evidenti e non soffrono di alcuna difficoltà, e resta solo da mettere in una luce adeguata ciò che le due parabole contengono di particolarmente adatto a distruggere la sciocca pretesa dei modernisti che, nella mente di Gesù, la catastrofe suprema fosse vicina, o che sarebbe venuta imminentemente, o che dovesse avvenire nel corso della generazione contemporanea. E a questo proposito, viene spontaneamente alla mente il già citato verso della parabola dei voti di Gesù. E a questo proposito, viene alla mente la caratteristica sottolineata prima nella parabola delle vergini, del ritardo dello sposo, moram autem faciente sponso. Lo sposo tardava a venire; tardava addirittura, osserviamo, in un modo che si potrebbe dire “esorbitante”, poiché far aspettare fino a mezzanotte una festa di nozze è qualcosa che non si vede, che non si è visto, che probabilmente non si vedrà mai. Era a mezzanotte che iniziava la terza veglia, e la terza veglia, lungi dall’essere considerata come l’ora possibile per l’inizio di una festa di nozze, era al contrario considerata come l’ora estrema in cui si ritornasse. Ne è testimone ciò che si dice del padrone che i servi aspettano al suo ritorno dalle nozze: et si venerit in secunda vigilia, et si in tertia vigilia venerit, et ita invenerit, ecc. (La seconda guardia era dalle nove di sera a mezzanotte, la terza da mezzanotte alle tre del mattino). D’altra parte, non credo che si tratti di una caratteristica puramente accessoria, aggiunta senza alcuna intenzione di significato, come un semplice ornamento alla narrazione della parabola. Non solo nulla autorizza una tale supposizione, ma tutto al contrario contribuisce ad escluderla, poiché se c’è una cosa che è evidente, è che la circostanza di un ritardo così straordinariamente prolungato è qui la circostanza principale; è quella che comanda tutte le altre, a cui viene dato il maggior risalto, e da cui dipende tutto ciò che è proprio, originale e caratteristico nel racconto. Bisogna quindi riconoscere, volenti o nolenti, una caratteristica appartenente alla sostanza stessa del racconto della parabola, e, di conseguenza, alla figura del mistero da rappresentare, formalmente presa come tale; di conseguenza, bisogna cercarne il senso, il significato e la portata. Ma il compito sarà facile, perché dal momento in cui lo sposo atteso rappresenta Gesù Cristo nella sua parusia, va da sé che il notevole ritardo nell’arrivo dello sposo rappresenta un proporzionale ritardo nell’arrivo di questa stessa parusia. Quindi non si discute più dell’imminenza o della vicinanza dell’avvento glorioso. Al contrario, la parabola lo presenta come un ritardo, e un ritardo, va notato, tanto notevole in relazione alla durata del mondo quanto quello dello sposo in relazione alla durata di una cerimonia nuziale. E pensiamo forse che sia una cosa da poco? Sembra piuttosto che la proporzione ben stabilita possa dare solo un periodo di tempo misurato da una lunga serie, non direi di giorni, né di anni, ma di secoli. Anche San Crisostomo, su queste parole, moram autem faciente sponso, dice: « Qui di nuovo mostra un intervallo di tempo non indifferente, dissuadendo i suoi discepoli dall’idea che il suo regno stesse per venire, poiché essi erano in questa speranza, e questa è la ragione per cui spesso li allontana da essa (Hom. 78, in Matth. n. 1.). » E San Girolamo commentando lo stesso passo, « Lo sposo fu lento a venire, perché non è un breve spazio di tempo, quello che si estende dal primo al secondo avvento del Signore (Moram autem faciente sponso, darmitaverunt omnes et dormierunt. Non enim parum temporis inter priorem et secundum adventum Domini prætergreditur. in Matth.,XXV, 5, P. L. XXVI, col. 184.) ». Ma c’è di più. La caratteristica del ritardo dello sposo apparirà molto più sorprendente e significativo se lo confrontiamo con quello che abbiamo letto poco prima (Matth., XXIV, 48), a proposito dei due servi, uno dei quali fu trovato, al ritorno del padrone, a compiere fedelmente i doveri del suo ufficio, l’altro, al contrario, a battere i suoi compagni, a mangiare e bere con gente dedita al vino. Infatti, parlando di quest’ultimo, Gesù gli aveva messo in bocca questa ragione della sua vita disordinata e dissoluta: Il mio padrone è lento a venire, moram facit dominus meus venire. Questa ragione è notevole, e non è stata messa qui a caso. Era la ragione di un miscredente che non si preoccupava affatto della parusia, ma la cui incredulità era avvolta dalla constatazione ironica del suo ritardo. Infatti questa parusia, che il fervore della prima epoca attendeva come se fosse vicina, non sarebbe venuta nel breve tempo che si supponeva. Da qui le delusioni contro le quali gli Apostoli dovevano custodire la fede dei fedeli; da qui anche, l’idea del ritardo che non poteva non cogliere l’umore beffardo dei miscredenti. Come quelli di cui parla San Pietro nella sua seconda epistola (III, 3-5): « Sappiate che negli ultimi giorni verranno degli schernitori che vivranno secondo le loro passioni, dicendo: Dov’è la promessa della sua venuta? Perché da quando i nostri padri sono morti, tutte le cose continuano come erano dal principio della creazione. » E tutto questo, insieme al resto, che è facile immaginare, era incluso nell’ironia di questa parola: moram facit dominus meus venire! Ma delle delusioni di alcuni, così come delle beffe di altri, Gesù si mostrò pienamente consapevole nel suo discorso escatologico, e si rivelò anche in pieno possesso della conoscenza del futuro; dico di tutto il futuro, del più vicino come del più remoto, e del tempo del giudizio come dello stato degli spiriti la mattina della sua ascensione al cielo. Perciò denunciò in anticipo il motivo del servo malvagio, con ciò che doveva essere la base del suo pretesto, e nel denunciarlo, diede già a intendere che la parusia avrebbe sì ritardato rispetto alla smania ed all’attesa della prima generazione, ma non sull’ora segnata nei suoi consigli; che il presunto ritardo avrebbe avuto luogo solo in esecuzione delle disposizioni eterne della Sua provvidenza, e che il movimento a ritroso dell’avvento glorioso nelle epoche lontane sarebbe stato il puro e semplice compimento di un disegno precedentemente formato e voluto, e, come tale, predetto e annunciato da Lui. Questo è il significato di moram facit dominus meus venire, come profeticamente messo da Gesù nella bocca del servo miscredente. Questo è lo stesso significato e la stessa portata di moram autem faciente sponso, che riceve così una nuova luce ed una nuova enfasi dal confronto, cosa che è molto importante notare. Eppure non è ancora tutto. Ecco ora la parabola dei talenti che completerà il punto in questione. E a proposito di questa seconda parabola, potremmo osservare prima di tutto che è molto simile a quella delle mine, che San Luca riporta come proposta qualche giorno prima o il giorno prima della Domenica delle Palme, e che ci presenta accompagnandola, o meglio facendola precedere da questa informazione (XIX, II): « Egli (Gesù) aggiunse una parabola, perché era vicino a Gerusalemme e la gente pensava che il regno di Dio sarebbe apparso presto. » Questo per indicarci la falsa opinione che la suddetta parabola intendeva confutare e distruggere. – Ed infatti, Gesù fu presentato in figura di un uomo di alto lignaggio che va in un paese lontano per essere investito della regalità; il quale, avendo chiamato dieci dei suoi servi, diede loro dieci mine, dicendo: “Usatele finché non torni“; e quando tornò, dopo aver ricevuto l’investitura del suo regno, nonostante l’opposizione dei suoi concittadini che lo odiavano e avevano mandato dei deputati a seguirlo per dire: “Non vogliamo che quest’uomo regni su di noi“, fece chiamare i dieci servi per sapere quale guadagno avesse fatto ciascuno di loro. E tutto questo per ribaltare il pregiudizio popolare di cui sopra. No, il regno di Dio, quello che avevano in vista, quello a cui anelavano, il regno della gloria e del trionfo, non stava per giungere. Era necessario che Gesù andasse prima in cielo e poi ritornasse, e che nel frattempo tutte le risorse di salvezza, sia individuali che sociali, che Egli avrebbe lasciato nelle nostre mani, fossero messe in opera. Così, non era una questione di pochi giorni, e giudicando a priori, secondo i calcoli basati sulla natura semplice delle cose, l’intervallo tra la partenza ed il ritorno non poteva essere di durata mediocre. Ma ciò che lasciava indovinare la parabola delle mine, il cui scopo diretto era solo quello di eliminare l’idea che i Giudei sognassero un regno temporale del Messia che stava per essere inaugurato nella città di Gerusalemme, la parabola dei talenti, il cui scopo era più alto e si estendeva a tutta la questione escatologica, avrebbe dato un’indicazione positiva attraverso una caratteristica significativa. Molto tempo dopo – è detto – il padrone che era andato all’estero tornò e chiese ai suoi servi un resoconto dei talenti che aveva affidato loro. Post multum vero temporis, venit dominus servorum Moram, et posuit rationem cum eis. Ovviamente, anche questo post multum temporis, μετά πολύν χρόνον [meta polun cronon], non è stato messo lì senza motivo. D’altra parte, non ne vediamo molto bene la ragione, se ci poniamo esclusivamente dal punto di vista della lezione morale che Nostro Signore intendeva dare. Infatti, dal punto di vista della lezione morale, bastava dire che il padrone tornava dal suo viaggio, che al suo ritorno chiedeva conto, e che poi rendeva a ciascuno dei servi secondo il lavoro svolto e l’attività da lui profusa. Inoltre, che il ritorno avvenisse o meno molto tempo dopo la partenza, dopo uno, due, dieci o cinquant’anni, era la cosa più indifferente del mondo e la meno degna di nota. Non dovremmo quindi trovare il significato del post multum temporis nell’aspetto profetico e figurativo della parabola, e riconoscere che se la partenza ed il ritorno del Maestro rappresentavano l’ascensione e la parusia del Signore, il lungo tempo trascorso prima del ritorno rappresentava anche una lunghezza proporzionale di tempo, che dovrebbe separare la grande scena sul Monte degli Ulivi quaranta giorni dopo la resurrezione, dalla scena ancora più grande nella valle di Giosafat alla fine dei tempi? Tutto farebbe pensare a questo, ed è così che San Girolamo lo ha giustamente inteso nel suo commento a San Matteo: «Molto tempo dopo – dice – il padrone di questi servi tornò… (per significare che) grande è il tempo tra l’ascensione del Salvatore e la sua seconda venuta. Grande tempus est inter ascensionem Salvatoris et secundum ejus adventum (P. L., vol. XXVI, col. 187) » Ecco, dunque, tre dei tratti più sorprendenti in cui si rivela il pensiero di Gesù sulla durata del mondo; tre tratti che, uno dopo l’altro, danno la più assoluta smentita alla tesi modernista. Il mio padrone tarda a venire, fa dire Gesù al servo cattivo. Siccome lo sposo tardava a venire, disse poco dopo, parlando di se stesso nella parabola delle vergini. Dopo molto tempo, il padrone tornò, dice poche righe dopo, nella parabola dei talenti. Questo porta alla mente il famoso passaggio del Salmo XXI, che promette alla Chiesa di Gesù Cristo un’ampia diffusione tra tutti i popoli della terra, che Sant’Agostino opponeva ai Donatisti, i quali, sebbene ridotti ad un piccolo canto dell’Africa, nondimeno avevano la pretesa di essere la vera Chiesa. « Pensate – diceva egli a questo riguardo un giorno di Venerdì santo – che abbiano ascoltato il loro lettore questa mattina quando ha letto dall’ambone questo annuncio profetico dei frutti della redenzione: Le estremità della terra si sovverranno e si convertiranno al Signore? Ma abbiate pazienza, è ancora solo un verso. Suvvia, avrete pensato a qualcos’altro, o stavate chiacchierando con il vostro vicino; ma ora fate attenzione, perché egli dice di nuovo, e colpisce le orecchie dei sordi: “E tutte le famiglie dei gentili si prostreranno davanti alla sua faccia“. Non avete ancora sentito? Poi si ripete una terza volta: Al Signore appartiene il dominio, ed egli dominerà su tutte le nazioni. Ricordatevi di questi tre versi, fratelli miei (Enarr. in Salmo XXI, 28-29, P. L., t. XXXVI, col. 179). Così dirò, a mia volta, dei tre incisi menzionati sopra, relativi a ciò che è stato chiamato la “mora finis“: Il mio padrone tarda a venire – Lo sposo tardava ad arrivare, – Dopo molto tempo, il padrone è tornato! Quale mente irata e prevenuta, a tale insistenza, proprio nella pagina in cui si tratta ex professo la questione del secondo avvento di Gesù Cristo, non rovescerebbe i pregiudizi e forzerebbe il suo ingresso? A meno che non si pretenda che la parusia sia stata ritardata, che sarebbe giunta dopo un lungo ritardo, dopo un tempo considerevole, dovendo arrivare, secondo quanto i modernisti vogliono trovarne la predizione nel Vangelo, durante la stessa generazione che aveva visto nascere e morire Gesù! Certamente, queste ragioni sembrano perentorie. Ma sorge subito una difficoltà. Si porrà di nuovo la questione di come conciliare quanto appena detto con l’opinione, così diffusa nel primo secolo, di un rapido ritorno del Signore, e l’obiezione viene a porsi da sola sulle labbra. I primi Cristiani non avevano letto il Vangelo? O forse non erano in grado di comprenderlo, essi che l’avevano ricevuto dalle mani degli Apostoli, e si trovavano presso la fonte originale da cui scaturisce tutta la tradizione cristiana? E quello che noi vediamo lì, o crediamo di vedere lì, inculcato con tanta insistenza, essi non l’avrebbero visto! Anzi, cosa dico? Essi avrebbero visto tutto il contrario, come attestano molti documenti dell’epoca apostolica, ai quali abbiamo già accennato sopra. E si contristavano per quelli del loro stesso numero che si addormentavano nell’ultimo loro sonno, come se questi cari morti fossero stati in tal modo privati dal partecipare, come essi avevano ardentemente desiderato, alla gloria ed al trionfo del giorno del Signore; e San Paolo fu costretto a consolarli, assicurando loro che la partecipazione a questo trionfo non sarebbe stato il privilegio esclusivo di coloro che il grande giorno avrebbe trovato ancora vivi sulla terra; (I Tess., IV, 13-18). Anche essi erano turbati dal ritardo, e San Pietro doveva rafforzarli con questa considerazione, che per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni come un giorno; che, inoltre, Gesù non ritardò l’adempimento della sua promessa, ma fu paziente, non volendo che qualcuno perisse, ma che tutti venissero a pentimento; (II Petr., III, 8-9). No n si sapeva quindi nulla né del moram faciente sponso, né del post multum temporis venit dominus servorum illorum, né di nessuna delle caratteristiche che abbiamo menzionato prima, di natura tale da far entrare l’idea del ritardo nelle menti più ribelli. Questa è la ragione più plausibile che possano darci, e tuttavia non pensiamo di uscire dai limiti della più completa moderazione nel dire che essa non vale assolutamente nulla. È inutile, in primo luogo, perché qui si applica il principio così spesso invocato riguardo alle profezie, che, in generale, sono comprese correttamente solo dopo che l’evento ne abbia fornito la chiave. Invano, quindi, si sosterrà che i Cristiani dell’epoca apostolica, essendo più vicini alle fonti della rivelazione, erano anche in una posizione migliore della nostra per leggere e interpretare le profezie del Vangelo. È proprio il contrario, proprio l’opposto della verità. Potremmo infatti dire, per esempio, che le profezie di Daniele sui re di Siria e d’Egitto (Dan, XI, 2 segg.) – respinte come apocrife dai razionalisti, solo per la sorprendente precisione con cui vediamo ora designati, anche nei minimi dettagli, tutti gli eventi dei loro regni – che queste profezie, dico, erano più comprensibili ai contemporanei di Daniele stesso, che a noi che le decifriamo così facilmente con l’aiuto dei documenti forniti dai libri dei Maccabei e dagli altri monumenti della storia. – Essa non vale nulla, poi e soprattutto, perché la predizione del lungo tempo che doveva trascorrere fino al secondo avvento del Signore, non è presentata da nessuna parte ex professo, né in termini espliciti e formali, ma solo accidentalmente, e come per caso, in righe sparse, che a prima vista sembrano essere cadute qua e là per caso dal discorso, e tanto più indegne di attenzione, in quanto sono come perse nelle ombre delle parabole, e nascoste sotto i veli dell’allegoria. Quale meraviglia, allora, che siano passati inosservati alla prima generazione, le cui preoccupazioni erano ben altre? Quale meraviglia, inoltre, che quando gli eventi avevano una volta smentito le speranze di alcuni, gli allarmi di altri e le aspettative dei più, e avevano così costretto le menti a soffermarsi sull’idea di una parusia che era ancora lontana, ciò che era sfuggito ai lettori disinformati delle epoche precedenti fu scoperto in uno studio più profondo del Vangelo? E questo è precisamente ciò che Gesù aveva in mente; è stato in vista di questo risultato che Egli ha misurato le sue parole e, se posso usare l’espressione, ha misurato luci e ombre nella sua risposta alla domanda degli Apostoli: « Dicci quando avverranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo? » Senza dubbio il giorno del giudizio doveva rimanere completamente nascosto per quanto riguarda la sua data precisa né si doveva sapere in anticipo se fosse vicino o lontano. Tuttavia, ciò non poteva impedire che alcune indicazioni profetiche venissero discretamente inserite nella moratoria concessa al mondo: indicazioni che, portate alla luce col passare del tempo, sarebbero servite a rassicurare la fede delle epoche successive, che altrimenti sarebbe stata scoraggiata da un’attesa indefinitamente prolungata, non supportata dai dati concordanti della rivelazione. Li troviamo, come abbiamo appena detto, con la loro razione di ombra per i primi tempi, e di luce per quelli successivi, nelle due parabole in cui ha rappresentato, sotto immagini semplici e popolari, tutto il mistero della sua parusia. Questo è già stato sufficientemente dimostrato, senza che ci sia bisogno di ritornarci sopra. Aggiungerò solo ora, a titolo di epilogo, che la parabola delle dieci vergini, indipendentemente dall’indicazione data dalla circostanza precedentemente spiegata, ne contiene un’altra, ancora più velata e misteriosa, ma anche tanto più significativa perché emerge dall’intero quadro della narrazione allegorica, e sempre, sempre più, in una direzione diametralmente opposta al significato ed all’idea modernista. Ed infatti, è evidente che quando Gesù disse che il regno dei cieli sarebbe stato come (simile erit) dieci vergini che, prese le loro lampade, andarono incontro allo sposo: sotto il nome di “regno dei cieli”, Egli intendesse il regno di Dio che era venuto a fondare sulla terra, il regno alla cui instaurazione aveva dedicato i tre anni della sua predicazione, il regno che doveva essere costituito dalla moltitudine del popolo cristiano, dalla prima pubblicazione del Vangelo fino alla consumazione dei secoli. È dunque l’insieme dei fedeli del futuro che la parabola ci presenta. Ma perché ora, sotto l’immagine di queste vergini che, una dopo l’altra, si addormentano durante le lunghe ore di attesa dello sposo che tarda ad arrivare? Voleva forse significare che anche questi fedeli del futuro si addormenteranno, ma con il sonno della morte, prima che venga il giorno della parusia? … e che dormiranno nelle loro tombe nel momento in cui risuonerà il grido: “Ecco, lo sposo viene!” Forse. Una restrizione è tuttavia necessaria, e, per quanto fondato sia il senso che abbiamo appena esposto, sarà sempre necessario escludere coloro che saranno sorpresi dall’ultimo giorno del mondo, proprio come la catastrofe del diluvio sorprese gli uomini del tempo di Noè. (Matt. XXIV, 37 ss.; Luca, XXI, 35.) C’è ancora un problema da risolvere, se questi Cristiani dell’ultima generazione dovranno anch’essi pagare il loro tributo alla morte. – Diversi Padri, basandosi su vari passi della Scrittura, opinano in negativo, e pensano che saranno un’eccezione alla legge comune, passando immediatamente dallo stato di mortalità presente, alla vita incorruttibile del secolo avvenire (tra questi, San Crisostomo nella sua omelia 48° sulla prima ai Corinzi, n, 2; e San Girolamo nella sua lettera 59° ad Marcella. n. 3). Non importa per il momento, perché qualunque sia il caso di questa opinione, respinta peraltro, e con ragione, sembra, dal maggior numero di teologi (« È un’opinione più comune e più certa – dice San Tommaso – che tutti moriranno, e risorgeranno dai morti, e questo per tre ragioni, ecc. » – Suppl., q. 79, a. 1), una cosa è assolutamente certa, cioè che se passeranno attraverso la morte, la attraverseranno come se non la attraversassero, perché la attraverseranno senza rimanervi, senza fermarsi, in un pronto e rapido passaggio dalla vita alla morte, e dalla morte alla resurrezione (Sant’Agostino, 1. II Retract., c. 33, dice: De vita ista in mortem et de morte in aeternam vitam celerrima commutatione). – E questo è ciò che, in ogni caso, li metterà in una categoria del tutto diversa dagli altri morti che scendono nel sepolcro per rimanervi a dormire fino a quando suonerà l’ora del risveglio generale. Questo è anche ciò che basta a spiegare come e perché San Paolo, quando tratta della venuta del Signore nella sua prima Epistola ai Tessalonicesi (IV, 12-18), li distingue dai dormienti (vs. 12), da quelli che si sono addormentati in Gesù, (versetto 13); inoltre, li designa costantemente come viventi, in opposizione a quelli che chiama morti (vers. 15, 17), in conformità con l’articolo del Simbolo dove si dice che Gesù è seduto alla destra del Padre suo, da dove verrà a giudicare vivos et mortuos (« Questa distinzione tra i vivi e i morti non si riferisce al momento stesso del giudizio, quando tutti saranno vivi; né a tutto il tempo che precede il giudizio, poiché tutti saranno stati per un tempo vivi e per un tempo morti; ma si riferisce al tempo definito che precederà immediatamente la prima comparsa dei segni del giudizio. » San Tommaso, loc. cit. ad l). Qui, dunque, siamo in presenza di due categorie ben distinte. Da un lato, i fedeli che devono addormentarsi, cioè morire prima del giorno della parusia, e dall’altro, quelli che il giorno supremo troverà vivi sulla terra: i primi, che la parabola ci presenta sotto la figura delle dieci vergini addormentate; i secondi, di cui la parabola non dice nulla, che passa sotto silenzio e ignora completamente. E subito sorge una domanda: da che parte stava, nella mente di Gesù, la generalità, la massa, il gran numero? Dico il gran numero di fedeli che compongono il regno dei due che sono qui in questione? Dalla parte dei primi o dalla parte dei secondi? Ma non è necessario formulare la risposta. Evidentemente, Gesù vedeva la generalità nella categoria che la sua parabola ritraeva. Quanto all’altra categoria che ha lasciato all’oscuro, quella dei contemporanei dell’ultimo giorno, di cui San Paolo, nel passo citato sopra, parla solo di un resto, una reliquia (Nos qui résidui sumus. Qui relinquimur, περιλειπόμενοι [perileipomenoi], egli dice, I Tess., iv, 11-13, parlando nella persona di coloro che l’ultimo giorno troveranno ancora vivi), evidentemente vedeva in essa solo una categoria di eccezione, una minuscola minoranza, che per questo non entrava nel quadro complessivo del regno dei cieli che la parabola aveva in vista. Ora, supponiamo con i modernisti che Gesù credesse che la parusia stesse per essere realizzata. Sarebbe stato proprio il contrario che si sarebbe presentato alla sua mente: la generalità, il grande numero, dalla parte dei fedeli che la parusia avrebbe trovato vivi; l’eccezione, il piccolo numero, dalla parte di coloro che la morte avrebbe già deposto nella tomba. Non è dunque da questi, ma da quelli che avrebbe preso la similitudine di quel regno dei cieli di cui ha detto: Simile erit regnum cæloram decem virginibus quæ, acceptes lampadibus, exierunt obviant sponso, e se la caratteristica del ritardo dello sposo non aveva più alcun tipo di ragione d’essere, come si è già detto, quella della sonnolenza e del sonno che coglie le dieci vergini, divenne più incoerente e più incomprensibile ancora. Da ogni parte, dunque, non vediamo altro che solenni smentite date dal Vangelo all’idea modernista, ed è un fatto che, giunti alla fine del nostro studio del discorso in cui tutta la questione della parusia è trattata ex professo e in modo approfondito, possiamo vedere che non c’è una sola delle loro interpretazioni che regga al vaglio, non uno solo dei testi di cui abusano che non li condanni, non uno solo dei loro tratti che non si rivolti contro di loro; è la piena verifica della parola del salmista: Et infirmatæ sunt contra eos linguæ eorum . Ma forse saranno in grado, rispetto all’errore del punto principale, di rivalersi con passaggi tratti da altre parti del Vangelo? Molto meno ancora, perché, per quelli, non sono più nemmeno ad rem, portano a falsità, sono fuori dal soggetto, non hanno alcun rapporto con la questione. Tale è il passaggio che leggiamo in San Matteo, XVI, 28, in San Marco, VIII, 39, e in San Luca, IX, 27, dove Gesù dice: « Io vi dico in verità, molti di quelli che sono qui presenti non gusteranno la morte senza aver visto il Figlio dell’Uomo venire nella sua regalità. » È vero che a prima vista, così separato dal corpo della narrazione, questo testo sembrerebbe stabilire in termini espliciti e formali la tesi degli avversari. Ma un momento … Ricorriamo al contesto, e vedremo con piena evidenza che abbiamo a che fare qui, non con la parusia stessa, ma con un esempio della gloria della parusia, che Gesù si propose di dare a tre dei suoi discepoli nella sua trasfigurazione. « E dopo sei giorni – continua San Matteo – Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, li condusse su un alto monte e si trasfigurò davanti a loro. » La stessa cosa è detta in San Marco; stessa cosa è detta in San Luca, che è ancora più esplicito: E circa otto giorni dopo aver detto queste parole (quelle del testo in questione), Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, ecc. Factum est autem post hæc verba fere dies octo (San Matteo e San Mare dicono sei giorni; San Luca dice: circa otto giorni dopo. I primi due includono solo i giorni intermedi, mentre il terzo include il giorno della promessa e il giorno del compimento). Era impossibile sottolineare più chiaramente la connessione tra la promessa precedente e la visione dei tre apostoli sul Tabor. Perché Gesù aveva detto: « Chi vuole salvare la propria vita la perderà, e chi perderà la propria vita per causa mia la troverà. E che profitto ha l’uomo se guadagna il mondo intero e perde la sua anima? Perché il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo con i suoi angeli, e allora renderà a ogni uomo secondo le sue opere. » Si appellava dunque all’avvento glorioso in cui presiederà alla distribuzione dei premi e delle punizioni eterne. Ma questa gloria del Padre suo, nella quale diceva che sarebbe ritornato, doveva apparire solo nella vita futura, al momento della risurrezione generale! E nel frattempo, chi lo testimonierà, chi lo renderà credibile soprattutto a coloro che lo scandalo della croce disturberebbe così profondamente? È per questo che Gesù promise subito di mostrarne ai testimoni privilegiati un esempio nella vita presente: promessa che adempì in questa meravigliosa trasfigurazione, di cui San Pietro, alla fine della sua carriera, proprio alla vigilia del suo martirio, fece il commovente ricordo nelle supreme raccomandazioni che lasciò alla Chiesa (II Petr., I, 16): « Non vi abbiamo fatto conoscere la potenza e l’avvento (parousia, παρουσίαν) del nostro Signore Gesù Cristo sulla base di favole ingegnose – scrisse – ma come testimoni oculari della sua maestà, quando ricevette onore e gloria da Dio Padre, e che d’una gloria magnifica, una voce dal cielo disse: Questi è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto. E abbiamo sentito questa voce dal cielo quando eravamo con Lui sul santo monte. » – Da tutto questo risulta apertamente, che il testo invocato dai nostri avversari (sunt quidam de hic stantibus, qui non gustabunt mortem donec videant Filium hominis venientem in regno suo), non è in alcun modo ad rem, che è falso, che è del tutto estraneo e fuori dal punto in discussione. A fortiori lo stesso deve essere detto di quello di quello che Renan ha portato fino all’estremo, per dimostrare che le affermazioni di Gesù sulla prossimità della catastrofe finale non lasciavano spazio ad equivoci: Quando si vede il rosso di sera, si prevedete che sarà bel tempo; quando si vede il rosso ombroso del mattino, si annuncia la tempesta. Come mai voi che giudicate l’aspetto del cielo non conoscete i segni dei tempi? Infatti, sarebbe impossibile per noi che abbiamo ricevuto la comprensione delle Scritture dalla Chiesa, vedere in questa risposta del Salvatore a coloro che, per tentarlo, gli chiedevano di mostrare loro un segno dal cielo, una qualsiasi allusione, anche remota, anche solo apparente, all’arrivo dei tempi segnati per la fine del mondo. Possiamo vedere, senza difficoltà, che Gesù rimprovera i giudei di non saper riconoscere i segni dati nelle profezie per questa venuta del Messia, che doveva compiersi in grande povertà ed umiltà per la redenzione del genere umano e l’espiazione del peccato. Ma non ci sarebbe mai venuto in mente di sminuire questo testo nel senso dell’ultimo avvento, che si riconoscerà da solo, senza bisogno di segni di alcun tipo. E se qualcuno vi dice: « Ecco, è nel deserto, ecco, è nei luoghi più interni della casa, non lo credete. » Non è più il tempo che Egli verrà in questo modo, in una casa particolare, una città oscura, un deserto, ma apparirà improvvisamente con una brillantezza sorprendente, come un lampo che si vede rapidamente andare da levante a ponente, da una parte all’altra del cielo, così il Figlio dell’uomo apparirà in tutta la terra. La causa dell’incomprensione dei razionalisti è, dunque, che essi hanno supposto che l’avvento messianico e la Parusia siano una stessa cosa, così che riferiscono indistintamente a quest’ultima tutto ciò che è detto nel Vangelo riguardo al primo. Inutile aggiungere che essi si guardano bene dal dimostrare il principio stesso, preferendo, piuttosto che tentare una tale impresa, assumerlo come una verità primaria che non richiede alcuna dimostrazione. Noi non li seguiremo su questo terreno, e li lasceremo in possesso della loro incrollabile certezza; però è certo che pregheremo il Padre delle luci di togliere il velo che è steso sui loro cuori, affinché possano finalmente riconoscere questo avvento di grazia e di misericordia, che li metterebbe sotto la copertura del futuro avvento della giustizia, secondo il voto della Chiesa nelle solennità del Natale: Ut quem Redemptorem læti suscipimus, venientem quoque Judicem securi videamus.