DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2020)
Semidoppio. • Paramenti verdi.
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Come Domenica scorsa, la lettura dell’Uffizio divino coincide spesso in questo giorno con quella del libro di Giobbe che si suol fare nella 1a e nella 2a Domenica di Settembre. – Continuiamo quindi a leggere i testi del Messale in corrispondenza con quelli del Breviario. Giobbe è la figura del giusto, che il demonio superbo cerca di umiliare profondamente, affinché si rivolti contro Dio. « Lascia che io lo provi, dichiarò satana all’Altissimo, egli ti bestemmierà ». E Jahvè glielo permise, per fare di Giobbe il modello dell’anima che proclama il supremo dominio di Dio e si sottomette interamente alla sua volontà divina. La gelosia del demonio non conobbe allora più freno e fece piombare sullo sventurato Giobbe, con gradazione sapiente, tutte le calamità che ebbero potuto abbatterlo. Pure, benché privo di tutto e coricato sul letamaio, Giobbe non maledisse la mano onnipotente di Dio, che permetteva al demonio di accanirsi contro di lui, ma la baciò umilmente. Il Salmo dell’Introito rende mirabilmente la sua preghiera. « Abbi pietà di me, o Signore, Porgi, o Signore, il tuo orecchio, poiché sono misero e povero ». Il Salmo del Graduale è anch’esso « la preghiera del povero quando è nell’afflizione », e i Versetti da 3 a 6: «Sono stato colpito come l’erba, a forza di gemere le ossa mi si sono attaccate alla pelle », sembrano l’eco delle parole di Giobbe che dice: « Le mie ossa si sono attaccare alla pelle, non mi restano che le labbra intorno ai denti » (Vers. 19, 20). Il Salmo dell’Offertorio parla anch’esso «del povero e dell’indigente» che supplica Iddio: « Non allontanare da me le tue misericordie, o Signore, poiché mali senza numero mi hanno circondato. Siano svergognati coloro che insidiano la vita mia » (Versetti 12-14). Infine, l’antifona della Comunione dice: « Piega, o Signore, verso di me, il tuo orecchio! Quante numerose e crudeli tribolazioni mi facesti provare! La mia lingua proclamerà dovunque soltanto la tua giustizia, e questa giustizia mi renderai quando coloro che cercano il mio danno saranno coperti di confusione e di vergogna » (Vers. 2, 20 e 24). Iddio, dicono infatti gli amici di Giobbe, esalta coloro che si sono abbassati, rialza e guarisce gli afflitti. La gloria degli empi è breve e la gioia dell’ipocrita non dura che un momento. Quando anche il suo orgoglio si innalzasse fino al cielo e la sua testa toccasse le nuvole, alla fine egli perirà. Tale è il retaggio che Dio serba agli empi. Essi si sono innalzati per un momento e saranno umiliati. – E Giobbe aggiunge: « Iddio ritirerà il povero dall’angoscia. Dio è sublime nella sua potenza. Chi può dirgli: Hai commesso un’ingiustizia? L’uomo che discute con Dio non sarà giustificato ». Infatti, commenta S. Gregorio, chiunque discute con Dio si mette alla pari con l’Autore di ogni bene; attribuisce a se stesso il merito della virtù, che ha ricevuta, e lotta contro Dio con gli stessi beni di Lui.. È quindi giusto che « l’orgoglioso sia abbattuto e l’umile innalzato » (2° Notturno, 2a Domenica di Settembre). « Chiunque si innalza sarà abbassato e chiunque si umilia sarà rialzato », dice anche il Vangelo di questo giorno. Dio, infatti, dopo aver umiliato Giobbe, lo rialzò, rendendogli il doppio di quanto prima possedeva. Giobbe è una figura di Gesù Cristo, che, dopo essersi profondamente abbassato, è stato esaltato meravigliosamente; è anche figura di tutti i Cristiani, ai quali Iddio darà un posto di onore al banchetto celeste se di tutto cuore avranno praticato la virtù dell’umiltà sulla terra. L’orgoglio, dice S. Tommaso, è un vizio per il quale l’uomo cerca, contro la retta ragione, di innalzarsi al disopra di quello che egli è in realtà; l’orgoglio è quindi fondato sull’errore e l’illusione; l’umiltà, ha, al contrario, il suo fondamento nella verità, ed è una virtù che tempera e frena l’anima, affinché questa non si innalzi al disopra, super, di quello che è realmente (donde il nome di superbia dato all’orgoglio). L’anima umile accetta in piena sottomissione il posto che ad essa si conviene; quel qualsiasi posto che da Dio, verità suprema ed infallibile, le è assegnato. Umiltà nelle parole, umiltà nelle azioni, umiltà nel sopportare le prove e le contraddizioni, è la virtù che Giobbe ci insegna durante tutta la sua vita e che Gesù Cristo ci raccomanda nel Vangelo della Messa di oggi. « Dopo aver guarito l’idropico, dice S. Ambrogio, Gesù dà una lezione di umiltà » (3° Notturno). Vedendo come i Farisei scegliessero sempre i posti migliori, Egli volle farli accorti della loro malattia spirituale e spingerli a cercarne la guarigione; a questo scopo guarì dapprima uno sventurato, che la malattia aveva fatto gonfiare, e cercò quindi, velando la lezione sotto una parabola, di guarire la spirituale enfiagione che affliggeva i convitati presenti e che purtroppo affligge anche la maggior parte degli uomini. – Il mondo è in balìa di tutte le esaltazioni e di tutte le infatuazioni dell’orgoglio, mentre l’umiltà è la condizione assoluta per entrar nel regno dei cieli, ed è questa la virtù che la Chiesa ci inculca nell’Orazione ove dice che la grazia di Dio deve sempre prevenire ed accompagnarci, e che S. Paolo insegna con energia ai Cristiani nell’Epistola di questo giorno. Senza merito alcuno da parte nostra, spiega l’Apostolo agli Efesini, ma unicamente perché serviamo di strumento di lode alla sua gloria, Dio ci ha eletti in Cristo. Allorché eravamo figli della collera, l’Onnipotente, che è ricco di misericordia, ci ha reso la vita in Gesù Cristo, per l’amore immenso che ci porta. Noi tutti, pagani ed estranei alle alleanze conchiuse da Dio col popolo di Israele, siamo stati riavvicinati e riuniti nel Sangue del Redentore, poiché Egli è la nostra pace, Egli che di due popoli ne ha fatto uno solo e per il quale abbiamo, gli unì e gli altri accesso presso il Padre, in un medesimo Spirito. Non siamo più dunque degli estranei, ma dei membri della famiglia divina. E questo non è opera nostra, ma di Dio, affinché nessuno glorifichi se stesso. Gettiamoci dunque ai piedi del Padre nostro di nostro Signore Gesù Cristo, che è anche Padre nostro, affinché, attingendo nei tesori della sua divinità, sempre di più ci mandi lo Spirito Santo che ha effuso sulla Chiesa nella festa di Pentecoste e che nella fede e nell’amore ci unisce a Gesù, in modo che noi siamo colmati della pienezza di Dio. E chi potrà mai misurare questa carità sconfinata che iddio ci ha manifestata per mezzo del Figlio Suo? Questo amore del Padre per i suoi figli sorpassa infinitamente tutto quello che noi potremmo concepire e domandare a Dio. – A Lui dunque sia gloria in Gesù Cristo e nella Chiesa per tutti i secoli. « Cantiamo al Signore un cantico nuovo, poiché Egli ha operato prodigi » (Alleluia). « Tutte le nazioni temano il nome del Signore tutti i re della terra annunzino la gloria sua », perché Dio ha stabilito il suo popolo nella celeste Gerusalemme (Graduale). E questo popolo che prenderà parte al gran banchetto della visione beatifica, sarà formato di tutti quelli che, rifuggendo da un’orgogliosa ambizione, saranno sempre stati umili sulla terra: Dio li esalterà nella stessa misura in cui essi si saranno con buon volere sottomessi alla sua santa volontà.
S. Paolo ha ricevuto da Dio la missione di annunziare ai Gentili che essi, ai pari degli Ebrei, sono eletti a far parte del popolo di Dio: elezione gratuita che deve riempirli di un’umile riconoscenza verso il Signore e premunirli contro lo scoraggiamento che è una forma di orgoglio.
Per non lasciare un asino o un bue annegare in fondo ad un pozzo, gli Ebrei non esitavano a fare tutto quello che era necessario per ritirarneli, non ostante il giorno di Sabato in cui ogni opera servile era proibita. Perché dunque il Redentore non doveva poter guarire un ammalato in quel giorno? – « Va, mettiti all’ultimo posto » non vuol dire che il Superiore debba mettersi al di sotto dei suoi subordinati, né esporre la sua dignità al disprezzo; ma Egli deve ricordare queste parole dei Sacri Libri: « Quanto più sei grande, tanto più devi mostrarti umile in tutte le cose e troverai grazia davanti a Dio » (Eccl. III, 20).
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps LXXXV: 3; 5
Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te.
[Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].
Ps LXXXV: 1
Inclína, Dómine, aurem tuam mihi, et exáudi me: quóniam inops, et pauper sum ego.
[Porgi l’orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi, perché sono misero e povero].
Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te.
[Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].
Oratio
Orémus.
Tua nos, quǽsumus, Dómine, grátia semper et prævéniat et sequátur: ac bonis opéribus júgiter præstet esse inténtos.
[O Signore, Te ne preghiamo, che la tua grazia sempre ci prevenga e segua, e faccia che siamo sempre intenti alle opere buone].
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios
Ephes III: 13-21
Fratres: Obsecro vos, ne deficiátis in tribulatiónibus meis pro vobis: quæ est glória vestra. Hujus rei grátia flecto génua mea ad Patrem Dómini nostri Jesu Christi, ex quo omnis patérnitas in cœlis et in terra nominátur, ut det vobis secúndum divítias glóriæ suæ, virtúte corroborári per Spíritum ejus in interiórem hóminem, Christum habitáre per fidem in córdibus vestris: in caritáte radicáti et fundáti, ut póssitis comprehéndere cum ómnibus sanctis, quæ sit latitúdo et longitúdo et sublímitas et profúndum: scire etiam supereminéntem sciéntiæ caritátem Christi, ut impleámini in omnem plenitúdinem Dei. Ei autem, qui potens est ómnia fácere superabundánter, quam pétimus aut intellégimus, secúndum virtútem, quæ operátur in nobis: ipsi glória in Ecclésia et in Christo Jesu, in omnes generatiónes sæculi sæculórum. Amen.
[“Fratelli: Vi scongiuro di non perdervi di coraggio a motivo delle tabulazioni che io soffro per voi. Esse sono la vostra gloria. Perciò io piego i ginocchi davanti al Padre del Nostro Signore Gesù Cristo, dal quale prende nome ogni famiglia, in cielo e in terra, affinché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, d’essere fortemente corroborati, mediante il suo spirito, nell’uomo interiore: che Cristo per mezzo della fede abiti nei vostri cuori, affinché, profondamente radicati e fondati nella carità, possiate comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità; e d’intendere anche quell’amore di Cristo che sorpassa ogni coscienza, di modo che siate ripieni di tutta la pienezza di Dio. A Lui che, secondo la possanza che opera in noi, può tutto infinitamente di là di quanto noi domandiamo e pensiamo: a Lui sia gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni di tutti i secoli”.]
Omelia I
[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]
IL PROGRESSO DELLA VITA INTERIORE
L’Epistola è tolta dalla lettera agli Efesini. Quei di Efeso sono stati chiamati alla fede. Per questo, S. Paolo, che si trova in prigionia a Roma, si rivolge a Dio, Padre degli Angeli e degli uomini, pregandolo ardentemente che spanda sugli Efesini la ricchezza della sua gloria, fortificandoli, per mezzo della grazia dello Spirito Santo, nella vita spirituale incominciata con il Battesimo, unendoli, mediante la fede e la carità in Gesù Cristo, con unione così intima, che la vita in Lui sia costante e in tutta la pienezza. E così diventino capaci di comprendere l’amor di Dio, che abbraccia tutta la creazione, che non conosce limiti di tempo, di spazio, di misura; e siano ricolmi di tutti quei doni, la cui piena sorgente si trova in Dio. L’Apostolo domanda molto; ma Dio, nella sua onnipotenza sa far di più di quanto noi possiamo domandare e comprendere. A Lui, dunque, si renda gloria per tutti i secoli. Il desiderio ardente dell’Apostolo per il progresso degli Efesini nella vita spirituale incominciata, si riferisce anche a noi. La nostra vita interiore:
1 Deve progredire,
2 Sostenuta dalla fede,
3 E dalla carità.
1.
Io piego i ginocchi davanti al Padre del nostro Signore Gesù Cristo… affinché vi conceda… d’essere fortemente corroborati, mediante il suo spirito, nell’uomo interiore. – Con queste parole l’Apostolo assicura agli Efesini che tra le angustie della prigionia non li dimentica, ma prega il Signore che, per mezzo delle grazie dello Spirito Santo, li rassodi e li fortifichi quanto alla vita interiore, cioè quanto alla vita dell’anima rigenerata alla grazia. Il Cristiano, che con il Battesimo è nato alla vita spirituale, sarebbe irragionevole se si accontentasse di vivere una vita spirituale stentata. Nessuno rinuncerebbe a una vita piena di sanità e di vigore per vivere una vita stentata, malaticcia, zoppicante. Il Cristiano che si accontenta di tirare innanzi come si può, di non commettere disordini gravi, di non perdere la grazia di Dio; … e non si dà premura di fortificarsi, rassodarsi nella vita spirituale, più che vivere, sonnecchia, più che camminare, zoppica. E se seguiamo Gesù Cristo zoppicando, resteremo molto indietro, con pericolo di perderlo. – Dirai: quando uno ha lavorato, ha diritto a un riposo. Qualche cosa di buono ho fatto nella vita spirituale. Adesso basta. Ci sono dei lavori in cui non si può dir basta. Chi costruisce un edificio sarebbe burlato da tutti e stimato per pazzo se, arrivato a metà, dicesse: — Adesso basta. Questo edificio non ha più bisogno di altri lavori. Si è fatto abbastanza. — Nella costruzione del nostro edificio spirituale, sarebbe una pazzia fermarsi a metà. «Questa — dice S. Agostino — è la tua perfezione: l’aver superate alcune cose in modo che ti appresti a superarne altre» (En. in Ps. XXXVIII, 14). Col procedere degli anni, dunque, il Cristiano deve procedere anche nel bene. La sua vita spirituale, al contrario di quanto avviene rispetto alla vita fisica, col procedere degli anni, invece di affievolirsi deve ingagliardirsi sempre più. È evidente. Se Dio prolunga la vita all’uomo, lo fa per il suo maggior bene. «Dio non prolunga a nessuno il tempo, perché con il vivere a lungo abbia a cadere, e allontanarsi dalla retta fede nella sua longevità; dovendosi tra i benefici di Dio annoverare appunto la longevità, nella quale l’uomo non deve essere peggiore, ma migliore » (S. Prospero d’Aquit. Sent. sup. cap. Gall. 3.) – «Progredite sempre più», diceva l’Apostolo ai Tessalonicesi (I Tess. IV, 1). E quanto a sé dichiarava: «Dimentico di quel che ho dietro le spalle, e stendendomi verso le cose che mi stanno davanti, mi avanzo verso il segno» (Filipp. III, 13-14). Imitiamolo.
2.
Io prego ancora — dice S. Paolo rivolto agli Efesini — che Cristo per mezzo della fede abiti nei vostri cuori. Con ferma adesione a tutte le verità rivelate Cristo abiterà nei cuori degli Efesini in modo sempre più perfetto. Una ferma adesione alle verità della fede è più che mai necessaria per una vita spirituale vigorosa. Nel principio della vita spirituale sentiamo molte dolcezze. Dio provvede alla nostra infanzia spirituale con il cibo delicato delle consolazioni. Ma poi a questo cibo ne sostituisce uno più solido: quello delle amarezze. La fede ci sostiene nell’ora della prova, tenendo il luogo delle consolazioni. Quando Gesù, salendo al cielo, si sottrasse alla vista degli Apostoli; questi non sapevano decidersi a discendere dal monte: pareva loro di essere abbandonati. Ma presto si risovvennero delle parole di Gesù: «Ecco, Io sono con voi tutti i giorni fino al compimento del secolo» (Matth. XXVIII, 20). E in queste parole trovano coraggio e spinta a proseguire l’opera loro. Noi pure troviamo forza e vigore a proseguire nella vita spirituale cominciata negli insegnamenti della fede. Siano pochi o tanti gli ostacoli, siano da poco o molto grandi li vinceremo tutti con una fede viva nell’aiuto di Dio. Quando Giuda Maccabeo, con poca gente, si fece incontro al potente esercito di Siria, comandato da Seron, i suoi furono presi da grande scoraggiamento. « Come potremo noi — gli osservarono, — sì poco numerosi, combattere contro una moltitudine tanto grande e potente, spossati come siamo oggi dal digiuno? Giuda rispose: « È cosa facile che molti restino preda di pochi. Per il Dio del cielo non c’è differenza tra il salvar per mano di molti o per mano di pochi. Poiché la vittoria in guerra non dipende dal numero delle schiere: la forza viene dal cielo » (1 Mac. III, 17-19). Animati da tale fede, Giuda e i suoi pochi si gettarono sull’esercito di Seron e lo sconfissero pienamente. Animati da una tale fede nell’aiuto e nelle promesse di Dio, non ci arresteremo e non vacilleremo mai, nella via dello spirito, davanti a ostacoli di qualsiasi genere e di qualsiasi numero: procederemo, anzi più fortificati e invigoriti. Quei che sono deboli nella fede cadono facilmente nei tranelli che tendono i seminatori di errori, o, come dice più avanti l’Apostolo agli Efesini, sono come i « fanciulli vacillanti, portati qua e là da ogni vento di dottrina per gli inganni degli uomini; per le astuzie che rendono seducente l’errore » (Efes. IV, 14). Ma se la fede è ben radicata e fondata nei cuori, non sarà scossa dagli errori che gente superba o dal cuor guasto cerca di seminare ovunque, e che ci tolgono di vivere secondo i precetti di Dio, in stretta unione con Lui. Non deve recar meraviglia se coloro che vivono nell’idolatria, essendo privi del lume della fede, nella loro condotta seguano cecamente la via tracciata dalle passioni. È incomprensibile, invece, che vivano una tale vita i Cristiani, i quali, nelle verità della fede, alla scuola di Gesù Cristo, trovano l’insegnamento della santità e l’impulso a praticarla. « Il sentiero dei giusti è come luce splendente, è come luce che cresce fino a pieno giorno », dice Salomone (Prov. IV, 18). Luce splendente e perfetta sono gli insegnamenti della fede, gli esempi che ci ha lasciati Gesù Cristo. Seguendo questi la nostra vita spirituale si rafforzerà di giorno in giorno.
3.
« La mente del credente assume le ali della fede, affinché, sollevato dalla terra e tutto assorto nello spirito possa comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza e la lunghezza e la profondità della scienza di Dio» (S. Gaudenzio di Brescia. Sermo 14, De div. cap. 4). Il credente, sull’ali della fede animata dalla carità, s’inoltra sempre più, per quanto a mente umana è possibile, nella cognizione di Dio e di quell’amore di Cristo, senza misura, che Egli ci ha dimostrato nell’Incarnazione. La sempre maggior cognizione di Dio, del suo amore immenso servono mirabilmente a far progredire il Cristiano nella sua vita spirituale; poiché quanto più conosciamo Dio, tanto più siamo spinti ad amarlo, con un amore che dia vita a tutte le nostre azioni. Come un albero, per mezzo dalle radici assorbisce l’umore che gli dà vita e incremento; così per mezzo della carità, o amor di Dio, il Cristiano vive e consolida la sua vita interna. L’amor di Dio fa trovar più gusto nella preghiera, nei sacramenti nell’ascoltar la parola del Vangelo, che non nei perditempi e nelle dissipazioni del mondo. L’amor di Dio fa preferire la mortificazione, il distacco dai beni terreni, le opere di misericordia, ai godimenti dei sensi, alla cupidigia, ai divertimenti pericolosi. L’amor di Dio dà il coraggio di mostrarsi pubblicamente Cristiani fra i motteggi e i sarcasmi del mondo; dà la costanza fra le dure prove. L’Apostolo chiede a Dio non solo che gli Efesini abbiano la carità, ma chiede che siano profondamente radicati e fondati nella carità, « affinché — come nota il Crisostomo — non possa essere smossa dai venti, né abbattuta da qualsiasi altra forza » (In Ep. ad Efes. hom. 7, 2). La maggior conoscenza di Dio e del suo amore immenso per noi ci renderà sempre più irremovibili nella buona via intrapresa. Fede viva e carità ardente ci renderanno saldi come quegli alberi che resistono all’infuriare di tutti i venti; e, passata la tempesta, sollevano la cima in atto di tendere sempre più in alto, al cielo. Dio non ci negherà il chiesto aiuto, Egli che può fare tutto infinitamente di là di quanto noi domandiamo o possiamo. Noi da parte nostra ricordiamoci che chi più lavora, più raccoglie.
Graduale
Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.
[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore, e tutti i re della terra la tua gloria.]
V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua.
[Poiché il Signore ha edificato Sion e sarà veduto nella sua maestà.]
Alleluja
Allelúja, allelúja
Ps XCVII: 1
Cantáte Dómino cánticum novum: quia mirabília fecit Dóminus. Allelúja.
[Cantate al Signore un cantico nuovo: perché Egli fece meraviglie. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIV: 1-11
In illo témpore: Cum intráret Jesus in domum cujúsdam príncipis pharisæórum sábbato manducáre panem, et ipsi observábant eum. Et ecce, homo quidam hydrópicus erat ante illum. Et respóndens Jesus dixit ad legisperítos et pharisaeos, dicens: Si licet sábbato curáre? At illi tacuérunt. Ipse vero apprehénsum sanávit eum ac dimísit. Et respóndens ad illos, dixit: Cujus vestrum ásinus aut bos in púteum cadet, et non contínuo éxtrahet illum die sábbati? Et non póterant ad hæc respóndere illi. Dicebat autem et ad invitátos parábolam, inténdens, quómodo primos accúbitus elígerent, dicens ad illos: Cum invitátus fúeris ad núptias, non discúmbas in primo loco, ne forte honorátior te sit invitátus ab illo, et véniens is, qui te et illum vocávit, dicat tibi: Da huic locum: et tunc incípias cum rubóre novíssimum locum tenére. Sed cum vocátus fúeris, vade, recúmbe in novíssimo loco: ut, cum vénerit, qui te invitávit, dicat tibi: Amíce, ascénde supérius. Tunc erit tibi glória coram simul discumbéntibus: quia omnis, qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.
[“In quel tempo Gesù entrato in giorno di sabato nella casa di uno de’ principali Farisei per ristorarsi, questi gli tenevano gli occhi addosso. Ed eccoti che un certo uomo idropico se gli pose davanti. E Gesù rispondendo prese a dire ai dottori della legge e ai Farisei: È egli lecito di risanare in giorno di sabato? Ma quelli si tacquero. Ed egli toccandolo lo risanò, e lo rimandoò. E soggiunse, e disse loro: Chi di voi, se gli è caduto l’asino o il bue nel pozzo, non lo trae subito fuori in giorno di sabato? Né a tali cose poterono replicargli. Disse ancora ai convitati una parabola, osservando com’ei si pigliavano i primi posti dicendo loro: Quando sarai invitato a nozze, non ti mettere a sedere nel primo posto, perché a sorte non sia stato invitato da lui qualcheduno più degno di te: e quegli che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedi a questo il luogo; onde allora tu cominci a star con vergogna nell’ultimo posto. Ma quando sarai invitato va a metterti nell’ultimo luogo, affinché venendo chi ti ha invitato, ti dica: Amico, vieni più in su. Ciò allora ti fia d’onore presso tutti i convitati. Imperocché chiunque si innalza, sarà umiliato; e chi si umilia sarà innalzato”.]
Omelia II
[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]
Sopra l’avarizia.
Ecce homo hydropicus erat ante illum
Luc. XIV
Ella è una giudiziosa osservazione dei santi padri che le diverse malattie di coloro che si presentavano al Signor nostro per essere guariti, figuravano le malattie dell’anima, che Egli guariva nello stesso tempo che quelle del corpo. Così l’idropico del nostro Vangelo, che fu guarito da Gesù Cristo è la triste e sensibile figura di un’anima posseduta dall’avarizia, dall’amor dei beni della terra. Infatti siccome l’idropisia è cagionata da una massa di umori, che produce in chi ne è assalito una sete insaziabile, così l’avarizia è ordinariamente l’effetto dell’abbondanza dei beni di fortuna che, a misura che essa cresce, fa nascere e fortifica il desiderio di vederla ancora crescere. Siccome l’idropisia è una malattia difficilissima a guarire ed anche incurabile quando è giunta ad un certo punto, nello stesso modo l’avarizia, una volta radicata nell’anima, è un difetto difficilissimo a correggere. Perciò vediamo noi nel Vangelo che i farisei non volevano ascoltar Gesù Cristo, né profittare della sua dottrina, perché erano avari; Deridebant eum quia avari erant [Luc. XVI) Convien dunque disperare della salute degli avari ed abbandonarli alla loro trista sorte, come degli idropici di cui non si spera più guarigione? No, fratelli miei, lo stesso medico che ha il potere di guarire l’idropico del Vangelo, ha rimedi assai efficaci per guarire questa malattia dell’anima, di cui imprendo quest’oggi a mostrarvi tutta la malignità ed i perniciosi effetti. – Ma convien per questo che tali infermi conoscano le loro piaghe, e che vogliano applicarvi i rimedi. Procuriamo di aprir loro gli occhi sul loro delitto e sulla loro disgrazia. Lo Spirito Santo dichiara che nulla evvi di più scellerato che un avaro: Avaro nihil scelestius (Eccl.X). Ed in vero io osservo che egli è empio verso Dio, duro ed ingiusto a riguardo del prossimo, crudele a se stesso. Sviluppiamo questi tre principi, che ci dipingono al naturale il carattere dell’avaro.
I. Punto. I beni della terra sono doni di Dio: la sua divina provvidenza li accorda agli uomini per usarne nel bisogno; possederli, desiderarne anche per quanto esigono la necessità della vita, non è dunque un misfatto. Ciò che Dio riprova e condanna negli uomini è l’amore sregolato per li beni, il quale li fa ricercare appassionatamente quando non li hanno, o possedere con troppo affetto quando li hanno; ed è questo amore disordinato che chiamasi avarizia, passione cieca, detestabile, che regna in tutte quasi le condizioni. I ricchi, i poveri ne sono egualmente la vittima. Poiché se vi sono dei ricchi poveri di spirito, che possiedono i loro beni senza affetto, vi sono ancora dei poveri ricchi di affezione e di desiderio, i quali non solamente sono più attaccati al poco di bene che hanno che certi ricchi ai loro tesori, ma che desiderano ancora ardentemente le ricchezze, e prendono ogni sorta di mezzi per acquistarne. Or in qualunque stato l’avarizia signoreggi il cuore dell’uomo, ella lo rende colpevole riguardo a Dio, perché porta seco un carattere d’empietà e d’ingratitudine, di cui bisogna farvi conoscere i tratti per farvela abborrire. – Vivere nella dimenticanza di Dio, non conoscere l’Autore de’ suoi beni, preferire a Dio un bene fragile, farne il suo idolo, ad onta di quanto egli deve all’Essere solo degno delle sue adorazioni, non è forse questo un carattere di malizia e d’empietà che merita tutto l’odio vostro? Or tale è quello dell’avarizia. Di che si occupa l’avaro? Su di che s’aggirano tutti i suoi pensieri, i suoi progetti? Sulla roba, sul danaro: se non ne ha, pensa ad accumulare, se ne ha non pensa che a conservarlo, ad accrescerlo. La cupidigia che lo anima, gli fa cercare tutte le occasioni di arricchirsi, e d’ingrandirsi, sia ciò per mezzi leciti o illeciti, poco gl’importa, purché venga a capo dei suoi disegni. Gli si rappresenti che non è già egli sulla terra per fare una fortuna transitoria, che ha un Dio da glorificare, un paradiso da guadagnare, un inferno da evitare; il suono del metallo che riempie le sue orecchie, come dice il Crisostomo, lo rende sordo alla voce della grazia che gli parla; al vederlo tutto occupato nella cura di conservare e di accrescere i suoi beni, si direbbe che egli ha da vivere per sempre quaggiù; passerà dei giorni interi senza pensar a Dio; o se vi pensa qualche momento, si è in qualche breve preghiera in cui ha lo spirito occupato nella cura di far valere il suo denaro: i giorni sono troppo brevi per compiere i suoi progetti: le domeniche e le feste per la maggior parte sono impiegate a fare viaggi per perseguitare un debitore, formar dei contratti, fare dei mercati: appena si riserba egli il tempo di udire una messa in fretta, fugge la parola di Dio o s’annoia in udirla; non assiste ai divini uffizi che per quanto i suoi pretesi affari glielo permettono. Egli punto non teme di prescrivere ai suoi domestici le opere servili, che la legge condanna in quei giorni, e che la sua cupidigia, ricopre sempre col pretesto della necessità. Gli si parli di accostarsi ai Sacramenti, egli non ha tempo. Gli si proponga qualche buon acquisto, qualche profitto considerabile a fare; il tempo non gli manca giammai. In una parola, l’avaro vive in una intera dimenticanza di Dio e della sua salute; sempre rivolto verso la terra, egli non pensa che alla terra, egli non parla che della terra, perché è affatto terreno: Qui de terra est, de terra loquitur (Giov. III). – Tutti i beni che noi possediamo li abbiamo dalla mano liberale di Dio; ben lungi dal riconoscerlo e ringrarziarnelo, come deve, l’avaro li attribuisce a se stesso, alle sue fatiche, alla sua industria. Invece di rimettere la sua speranza in Dio, egli vive in una totale diffidenza della sua provvidenza: al vederlo risparmiare, accumulare, si direbbe che nulla spera da Lui, che Dio non ha più cura degli uomini; che esso li abbandona alla loro malvagia sorte. Gesù Cristo ci avvisa di non metterci in pena ove prenderemo di che cibarci, di che vestirci; ma l’avaro è sempre inquieto, su quello che egli diverrà; conta più sul suo risparmio che sulla bontà di Dio: quale ingiuria non gli fa egli? E non abbiamo noi ragione di dire che esso non riconosce l’Autore de’ suoi beni? L’empietà dell’avaro va ancora più lungi, egli preferisce a Dio un bene fragile, ne fa il suo idolo, glielo sacrifica. Investighiamo per un momento il suo cuore, esaminiamo i suoi passi. Bisogna, per assicurar le sue imprese, impiegar la menzogna, l’ingiustizia, lo spergiuro, la trufferia, le vessazioni e mille altri delitti che l’avarizia strascina seco? Nulla lo trattiene: purché egli si arricchisca, purché accumuli dei beni egli non si mette in pena di essere scellerato; e nell’impossibilità in cui è di servire a due padroni, preferisce le lusinghe ingannatrici della cupidigia ai reali vantaggi di una vita santa ed irreprensibile. Rinuncia al possesso di Dio per quello del danaro; non si può forse questo chiamare una specie d’idolatria? E perché non gli si darà questo nome, giacché l’Apostolo s. Paolo non ha difficoltà di dire che l’avaro è un idolatra? Quod est idolorum servitus (Eph V).- Quindi lo Spirito Santo fa parlare l’avaro in questi termini: Sono divenuto ricco, ho ritrovato un idolo; dives effectus sum, inverni idolum mihi (Oseæ XII). Qual rassomiglianza d’altra parte non evvi tra un avaro ed un idolatra? I Dei degli idolatri sono d’oro e d’argento, come dice il profeta; questi ciechi popoli porgevano incenso a statue composte di questi metalli, e l’avaro non dà egli, il suo cuore all’oro ed all’argento? Gl’idolatri non ardivano toccare i loro idoli, che riguardano come Sacri? Nello stesso modo, dice il Crisostomo, l’avaro non osa toccare il suo danaro, lo rinchiude in casse, lo rispetta, per cosi dire, poco manca che non l’adori. Quale accecamento? qual follia? rendersi vile schiavo di un poco di fango e dispregiare l’Essere Supremo per non amare che le ricchezze; ecco a qual punto d’empietà l’avaro non teme di giungere. – Voi non potete, fratelli miei, pensare senza orrore all’indegno tradimento di Giuda; questo perfido apostolo giunse sino a vendere ai Giudei per il prezzo, di trenta danari il padrone più degno del suo rispetto, e del suo amore.. Ma, qual fu il principio di un sì nero attentato? Aveva egli forse provato qualche disgusto dalla parte del Salvatore? No, anzi non ne ricevette mai che del bene; era egli stato messo nel numero dei suoi Apostoli testimonio dei suoi miracoli, non poteva dubitare che non fosse Dio; egli aveva in mille occasioni provata la sua tenerezza, ma Giuda amava il danaro, trovò l’occasione di accumularne vendendo il suo maestro ai suoi nemici. Quanto, disse loro, volete voi darmi, ed io vi darò nelle mani Gesù Nazareno? Quid vultìs mihi dare, et ego vobis eum tradam (Matth. XXVI). I Giudei che non domandavano che di saziare il loro furore sulla persona di Gesù Cristo, profittano dell’iniqua disposizione in cui si trova Giuda: trenta danari gli sono offerti in ricompensa. Questo perfido non esita, e per una somma così modica, Gesù Cristo il re del cielo e della terra, il migliore di tutti i padroni, è consegnato nelle mani dei suoi nemici. Oh detestabile passione! Di che non sei tu capace? E quanto è vero che chi se ne lascia accecare cade ben tosto nei lacci del demonio, che non evvi tentazione alcuna di cui non sia egli capace, come dice l’Apostolo, verun delitto che non commetta per soddisfare la sua cupidigia. – Eh! quanti non ne avete voi già commessi, voi che vi lasciate dalla cupidigia tiranneggiare? Quante infedeltà alla legge del vostro Dio per contentarla? Quante volte non avete voi tradito Gesù Cristo vostro padrone, come il perfido Giuda, forse per una minor somma di quella che egli ricevette dai Giudei? Quanto volete voi darmi, dirà quell’uomo avido di danaro, e vi vendicherò di quel nemico? Quanto volete voi darmi, dice quell’uomo di giustizia, ed io vi sacrificherò il diritto del vostro avversario? Quid vultis mihi dare? Ah! quanti peccati lo spirito di interesse non fa egli commettere in tutti gli stati della vita? Per una bagattella, per un leggerissimo profitto uno oltrepassa tutti i limiti della giustizia e dell’onestà: per una leggiera perdita, per un piccolo accidente prorompe un altro in doglianze contro la provvidenza, si abbandona ai trasporti dell’ira, vomita imprecazioni contro coloro che ne crede gli autori. Questo è quanto si vede tutti i giorni tra le persone interessate; questo è quello che si chiama sacrificar Dio al suo interesse. Poiché l’interesse la vince sopra l’ubbidienza che si deve a Dio, egli bandisce dal cuore dell’uomo l’amore e la fedeltà che deve al Creatore. L’avaro è dunque un mostro d’empietà riguardo a Dio; egli è ancora duro ed ingiusto riguardo al prossimo; Avaro nihil est scelestius.
II. Punto. La giustizia ci obbliga a rendere a ciascuno quel che gli è dovuto, ci proibisce di prenderne la roba: e la carità ci porta a fargli parte del nostro, come vorremmo che si facesse a nostro riguardo. Or l’avarizia scaccia queste due virtù dal cuore dell’uomo; l’avaro non conosce carità alcuna pel prossimo; egli viola a suo riguardo anche i diritti della giustizia prendendosi quel che non gli appartiene; è dunque un cuor duro ed ingiusto, indegno della società degli uomini. La carità ci obbliga a far parte al prossimo dei nostri beni; ma l’avaro, che è tutto rinserrato in sé stesso, nulla vuole che per sé. Egli non ha per gli altri che viscere di bronzo e di ferro. – Egli vede il suo prossimo nell’indigenza, e non ne è commosso; se gli si chiede qualche soccorso, barbaramente lo ricusa o al più non dà che alcuni segni superficiali di sterile compassione; nel timore di mancare del necessario, egli non vuole neppure spogliarsi del minimo superfluo. Il bisogno sforzi l’infelice a ricorrere alla sua abbondanza; egli non può sperarne che un rifiuto, o se lo ritrova disposto, si è a certe condizioni che finiscono di manifestare l’iniquità della sua avarizia. I poveri si presentino alla sua porta per domandargli sollievo nelle loro miserie, essi sono rimandati senza pietà, e sovente anche con incivili dispregi, con parole oltraggianti. Mirate il ritratto dell’avaro nel malvagio ricco del Vangelo. Era egli un uomo che nuotava nell’abbondanza e nelle delizie: ricchi appartamenti, vesti magnifiche, banchetti deliziosi, tutto aveva a sua voglia; mentre il povero Lazzaro era alla porta ricoperto di piaghe, mancante di tutto, e domandava soltanto le briciole che cadevano dalla sua mensa. Questo sì tenue soccorso gli era inumanamente negato; il cuore duro di quel ricco era insensibile ai gridi dell’indigente, di cui poteva qui raddolcire la sorte senza incomodarsi. – Non vi riconoscete voi a questi tratti, ricchi avari, che mirate tutti i giorni i poveri chiedervi soccorso, contro la fame che li tormenta, contro il rigore delle stagioni che li riduce all’ultima estremità? Voi udite i loro gemiti e le loro doglianze, e non ne siete punto inteneriti, voi li rimandate senza dar loro il minimo sollievo. Qual durezza! Quale insensibilità! Ove è quella carità che vorreste si avesse per voi, se foste nelle medesime circostanze? Voi non siete più i figliuoli del medesimo padre, siete fratricidi crudeli, che con la vostra durezza date la morte a quell’uomo, che soccombe sotto il peso della sua miseria: Non pavisti? occidistì. – Noi vogliamo, dite voi, godere della nostra fortuna! Ma pensate voi che Dio vi abbia dato del bene per voi soli? Che cosa avete voi fatto di più per averlo che colui il quale non ne ha? La provvidenza, che ha messo quel povero al mondo, seppe provveder ai suoi bisogni; voi siete appunto coloro, che ella ha scelti per l’esecuzione dei suoi disegni a questo riguardo. E perciò è stata essa prodiga verso di voi delle sue liberalità, a fine di darvi occasione di meritare il cielo; quel bene è dunque tanto dei poveri che vostro, ella è dunque una durezza ed una specie di ingiustizia il ricusarlo loro. Noi temiamo, dite voi, d’impoverirci? Ma non vi si dice già di dare tutto quello che avete; l’indigente non richiede che il vostro superfluo: ma la vostra cupidigia insaziabile non crede giammai avere abbastanza. Si è appunto ciò che fa che conserviate con tanta cura cose inutili, che periscono nelle vostre mani, piuttosto che darle ai poveri. Non è forse ancora per questo che ricusate a voi medesimi quel che vi è necessario? Or è forse cosa sorprendente che voi siate duri verso gli altri, quando lo siete per voi? Qui sibi nequam est, cui bonus erit? La vostra durezza è un effetto della vostra avarizia, e del vostro sordido attaccamento ai beni del mondo; essa vi fa desiderare i beni altrui, essa vi fa rallegrare delle loro disgrazie. Voi ne profittate in quel tempo di pubblica calamità in cui chiudete i vostri granai per vendere ad un prezzo eccessivo quei grani onde ridondano; massima vietata dallo Spirito Santo nelle Divine Scritture. Væ qui congregat in horrea. Sono questi forse i sentimenti della carità cristiana? Ah! voi l’avete interamente sbandita dal vostro cuore. Se la vostra passione almeno fosse di ciò paga, e non oltrepassasse i limiti della più stretta giustizia, che vi prescrive doveri indispensabili a riguardo dei vostri fratelli: ma l’avarizia porta troppo spesso a questi eccessi coloro che ne sono attaccati. Secondo tratto di crudeltà verso il prossimo. – Qual è la cagione infatti delle ingiustizie nel mondo? L’avidità che si ha per li beni. L’avaro s’impadronisce indifferentemente defila roba altrui, non può risolversi a restituirla quando giunga a goderne; nulla evvi che un avaro non metta in uso per arricchirsi, ingrandirsi a spese altrui. L’inganno, la violenza, la concussione, che sono, come dice s. Tommaso, le figliuole dell’avarizia, gli servono di mezzi alla riuscita dei suoi disegni. Or è una vendita o una compra onde profitta, sia per la qualità della cosa che deve rimettere, sia per lo prezzo che deve darne, e di cui riterrà una parte, se può farlo, senza che altri se ne accorga: ora sono contratti usurai per trarre profitto del suo danaro; ma, per evitare la vergogna annessa a questo delitto, o non fa comparire alcun contratto, o li pallia sotto il nome d’altri atti usitati tra gli uomini. Qui egli frustra un creditore del suo debito, o ne differisce più che può il pagamento con false allegazioni; e se finalmente risolve di liberarsi, ama meglio farsi debitore di qualche d’un’altro, cui farà ancora soffrire, che servirsi del suo danaro. Là esige da un debitore più che non gli è dovuto, sotto pretesto di aver aspettato qualche tempo. Voi lo vedrete disputare con un operaio, con un servo per ritenere qualche cosa del loro salario su false ragioni che la sua avarizia mai non manca di ritrovare; e chi sa se ciò non è per ricusare interamente quanto è loro dovuto? Voi lo vedrete ancora quest’avaro non curare i bisogni di una moglie, dei figliuoli, dei servi; egli disputa su tutto, trova a censurar tutto, si duole sempre della spesa, si è strappargli la pupilla dell’occhio il presentargli dei conti di cui non può evitare il pagamento: ed ecco ciò che disturba sì sovente la pace nelle famiglie, e che ne cagiona o il libertinaggio o la divisione. Se la menzogna e l’inganno non sono per l’avaro mezzi abbastanza efficaci per impadronirsi della roba altrui, egli impiegherà la violenza, la vessazione, la concussione; farà darsi per minaccia e per forza quello che non potrà guadagnare per persuasione; opprimerà la vedova ed il pupillo per avere le loro sostanze; opprimerà chi si trova fuori di stato di resistergli, lo rovinerà con una lite ingiusta; userà ogni sorta di rigore per forzarlo a cedergli un’eredità che eccita il suo desiderio. Così diportossi altre volte Acab per avere la vigna del povero Nabot, che non voleva cederla perché era l’eredità dei suoi antenati; egli fece togliergli la vita e s’impadronì del podere di lui. Profitteranno gli avari della necessità di un uomo per fargli dare la sua roba a vil prezzo; e come ancora la pagheranno? Oimè! sovente il valore n’è già tutto ricevuto con anticipazioni che si sono fatte, e che si fanno pagare a molto caro prezzo: se egli ricusa di arrendersi ai voleri di quell’uomo avido, bisogna aspettarsi, se non di perdere la vita, almeno di non riceverne più soccorso, di vedersi oppresso di spese, rovinato da dilazioni che non è in istato di sopportare. Mentre questo si è uno dei sotterfugi dell’avaro; in certi casi egli risparmia il suo danaro, in altri sa benissimo trovarlo per sostener una lite, corrompere giudici, comprare, se si può, non già il buon diritto, ma una sentenza favorevole alle sue ingiuste pretensioni: ecco di che sono capaci gli avari. Mezzo funesto che non riesce, oimè! che troppo presso di coloro cui il danaro fa piegare la bilancia dalla parte di colui che dà più abbondantemente, o da cui si spera di più. Oh passione detestabile! di che non sei tu capace? Ed oh con quanta ragione possiamo noi chiamarti coll’Apostolo la radice di tutti i mali! Radix omnium malorum cupìditas ( Tim. VI): Tu metti la dissensione dappertutto, tu separi l’amico dall’amico, il figliuolo dal padre, i congiunti gli uni dagli altri. Tutte le contese, le gare, i contrasti che regnano tra gli uomini non vengono la maggior parte, dice s. Giacomo, che da un sordido attacco che si ha per il danaro, da uno spirito d’interesse che non si vuole abbandonare. Possiate voi, fratelli miei, bandirlo dai vostri cuori, questo spirito d’interesse! Possiate voi domare questa maledetta concupiscenza per le ricchezze, che rende l’uomo duro ed ingiusto contro il prossimo; aggiungo crudele a se stesso: Avaro nihil scelestius.
III. Punto. Se Dio ci dà dei beni in questo mondo, si è per servircene ed aiutarci a guadagnare quelli dell’eternità. Ma i tesori dell’avaro non servono che a renderlo infelice in questo mondo ed infelice per l’eternità. Si può essere più crudele a se stesso che lasciarsi predominare dall’avarizia? In che consiste, fratelli miei, la felicità dell’uomo sopra la terra, per quanto se ne può trovare? Nel vivere contento della sua sorte, nel godere pacificamente di quel che si possiede. Ma l’avaro non è contento, egli non trae alcun profitto dai suoi beni, egli è in qualche modo più infelice che se punto non ne avesse. Per esser contento della sua sorte, non bisogna né desiderare né temere; perché il desiderio ed il timore tolgono la tranquillità dal cuore dell’uomo. Or l’avaro è sempre agitato da queste due passioni; egli desidera quel che non ha; egli teme di perdere quello che ha. Desidera quel che non ha, perché la sua insaziabile cupidigia non è mai soddisfatta: Insatiabilis oculus cupidi (Eccli. XIV). Benché immensi siano i suoi possessi, egli vorrebbe ancora estenderli, perché riguarda tutto quello che ha come se nulla avesse, e tutto quel che gli manca non fa che irritare i suoi desideri. Tutto quel che vede negli altri gli suscita invidia in cuore; e siccome non gli è possibile di riempiere tutte le sue mire, egli è sempre inquieto, sempre mesto, sempre malcontento. La sua passione è una malattia che lo tormenta, e che non può guarire. Laonde si paragona l’avaro ad un idropico la cui sete cresce a proporzione che vuol calmarla. Egli soffre dentro di lui un fuoco, che nulla può ammorzare; si è un abisso, che non si può riempiere: egli domanda continuamente, e non dice giammai, basta. Egli grida incessantemente che sempre gli si apporti, sempre: Nunquam dicit sufficit, affer, affer (Prov. XXX). Si è forse mai veduto un avaro contento di quel che ha? Dategli del danaro, il suo amore per quel metallo non ne diviene che più ardente; faccia egli un acquisto, non gli basta: bisogna ancora quell’eredità, quella casa, quel campo, quel prato, che appartiene ad un altro: Affer, affer. Or se la felicità consiste nell’adempimento dei desideri che noi formiamo, l’avaro può forse esser felice tra tante brame ed inquietudini? Se all’ambizione da cui l’avaro è divorato noi aggiungiamo i movimenti che si dà per soddisfarla,, qual vita più miserabile della sua? Mille progetti girano incessantemente nel suo spirito, che non gli lasciano riposo alcuno. Come farò io, esclama egli, per avere quel bene che mi lusinga, per riuscire in quell’affare, in quella lite che ho intrapresa? Quid faciam? Convien fare viaggi nelle stagioni più aspre ed incomode, conviene sollecitar protezioni, bisogna soffrire rifiuti; rovinare spesso la sanità coi pericoli cui si espone: qual trista vita si è mai quella di un avaro! Sempre desiderare quel che non si ha, e dopo molto adoperarsi veder frustrate le proprie speranze; ecco la sua ordinaria situazione. – Almeno sapesse egli godere dei beni che possiede! Ma il timore che ha di perderli lo tormenta altrettanto, che il desiderio di acquistar quella che non ha. Si è in casa, teme che ingiusti usurpatori non vengano ad attentare alla sua vita per avere il suo danaro; se lo abbandona, è in agitazioni continue che qualche mano avida non rompa tutte le misure che ha prese per involare il suo tesoro agli occhi dei più chiaroveggenti; diffida de’ suoi amici e dei suoi vicini; è sempre in guardia affinché non gli si faccia alcun torto. Se soffre la minima perdita il danno più leggiero, si abbandona alla disperazione; e non è questo fare del suo tesoro il suo supplizio? Se si ascolta l’avaro, egli è di tutti i mortali il più da compatire. Egli ha ragione; mentre non è forse essere il più miserabile degli uomini l’avere del bene e non servirsene; potersi dare i comodi della vita e ricusarsi sino il più necessario? Questo è un esser povero in mezzo delle ricchezze, aver fame nell’abbondanza: Divites egerunt et esurierunt (Psal. XXXIII). I tempi sono calamitosi? Si provano gli effetti della sterilità? Egli non osa toccare quel che ha pel timore di mancarne in avvenire. Se la terra con meravigliosa fecondità sparge con profusione sopra i suoi abitatori i frutti, che rinchiude nel suo seno, l’avaro geme di non poter profittare della miseria altrui per arricchirsi; egli conserva le sue derrate per giorni meno sereni, ove spera mettere a contribuzione le calamità dei suoi vassalli o dei suoi fratelli; vive come se fosse nell’indigenza; nulla teme cotanto come lo spendere; si veste ruvidamente, cibasi meschinamente, risparmia su tutto, e da tutto cava vantaggio. Confessiamo dunque che l’avaro nulla possiede, che di nulla gode; ma che i beni possiedono il suo cuore , e lo riducono alla più dura schiavitù. È un uomo in mezzo delle acque bruciato da una sete ardente che non vuole estinguere, è un uomo che si avvolga tra le spine da cui riceve le più mortali ferite. Si è a questo proposito, dice s. Agostino, che Gesù Cristo paragona le ricchezze alle spine; perché siccome le spine pungono e lacerano coloro che esse attaccano, così le ricchezze producono il medesimo affetto nel cuore di quelli che vi si affezionano; esse li pungono e li lacerano or col desiderio di averne, or col timore di perderle, sovente col rammarico di averle perdute, finalmente con la miseria cui riducono coloro che le posseggono con troppo affetto. – Quindi noi vediamo alcuni in uno stato di mediocrità ed anche di povertà più felici e più contenti di quelli che hanno dei gran beni; essi profittano del poco, che hanno senza darsi tanti movimenti né tante inquietudini, melius est modicum iusto super divitias multas (Psal. XXXVI). Ma la più gran miseria degli avari non è in questa vita; i beni servono loro ancora a renderli più infelici per l’eternità. Guai a voi, ricchi del secolo, diceva altre volte il Salvatore: Væ vobìs divitibus (Luc. VI). Ma perché questo terribile anatema? Uditene la ragione che deve farvi tremare, per poco che vi resti di fede: perché, dice il Salvatore, è più difficile ad un ricco di entrare nel regno de cieli che ad un cammello di passare per la cruna di un’ago: Facilius est camelum per foramen acus transire quam divitem intrare in regnum Dei (Matth. XIX). Che dunque? Forse che lo stato di opulenza è assolutamente incompatibile, con la salute? No, fratelli miei, le ricchezze non sono da se stesse un ostacolo alla salute, esse possono anche essere un mezzo col buon uso che se ne fa. Vi saranno dunque dei ricchi nel cielo, come vi saranno dei poveri nell’inferno; ma questi saranno stati ricchi staccati dalle loro ricchezze, e che ne avranno fatto un santo uso con le loro liberalità verso i poveri. Qual sono dunque i ricchi cui Gesù Cristo chiude l’entrata del suo regno? Sono i ricchi avari; questi, dice l’Apostolo, non avranno giammai parte nel regno di Dio: Avarus non habet hæreditatem in regno Dei (Eph. V). Miratelo nell’esempio del malvagio ricco che’vi ho già citato. Non è detto, osserva s. Gregorio, che quest’uomo abbia usurpato i beni altrui; ma perché il suo cuore vi era attaccato, perché non ne faceva un buon uso, perché non soccorreva i poveri, questo ricco dopo sua morte è stato sepolto nell’inferno: Sepultus est in inferno ( Luc. XVI). Tale sarà la vostra sorte, ricchi avari, che, insensibili alle miserie dei vostri simili, misurate i vostri desideri sui beni che possono contentarli. Voi li lascerete un giorno, questi beni, malgrado vostro; voi li lascerete ad eredi ingrati che non vi daranno alcun soccorso nei tormenti che soffrirete. Vi si dirà, come al malvagio ricco: Avete ricevuto dei beni in vostra vita: Recepisti bona; non ne avete fatto buon uso, voi sarete per tutta l’eternità nella più orribile miseria, in preda alle fiamme divoratrici, ai dolori più ardenti, senza speranza di vederne il fine né di ricevere giammai alcuna consolazione, neppure una gocciola d’acqua per calmare la sete divorante che vi brucerà. Ah insensati! A che dunque tanto inquietarvi per beni che non porterete con voi? Forse in questa notte vi domanderanno la vostr’anima, e per chi sarà quel che avete accumulato? Stulte, ha nocte animam tuam repetent a te, et quæ parasti cuius erunt (Luc. XII)? I vostri beni resteranno ad altri, e voi avrete l’inferno per vostro retaggio. Ma l’avaro non vuol intendere questo linguaggio, e ciò che sembra mettere il sigillo alla sua riprovazione si è che la sua passione diventa un ostacolo quasi insuperabile al suo correggimento. Si, fratelli miei, l’avarizia è uno dei vizi più incorreggibili, perché accieca ed indura colui che essa tiranneggia: l’avaro è sempre l’ultimo a scorgere un difetto che ognuno gli rimprovera. Siccome è un disonore esser tenuto avaro, niuno vuole confessare di esserlo, niuno se ne accusa nel tribunale della penitenza. All’udir costui, si è un’economia saggia, prudenza illuminata, precauzione necessaria; esso non crede giammai aver troppo. Bisogna, dice egli, prender delle misure per l’avvenire perché non si sa quello che può accadere; e sotto pretesto di un bisogno che non avverrà giammai, egli ammassa, accumula beni sopra beni, danaro sopra danaro. Egli si procura una abbondanza superflua. Quindi quella durezza di cuore in cui cade; siccome egli non ama che la terra, e poiché, secondo s. Agostino, si diventa simile a quel che si ama, l’avaro è tutto terreno, non cura i beni del cielo, è insensibile ai movimenti della grazia, non ascolta né i rimorsi della coscienza né i consigli degli amici: egli frequenta i sacramenti e rimane soggetto alle medesime debolezze, perché non scopre il suo male al medico che può guarirlo; ascolta la parola di Dio, e non ne profitta, ne fa ad altri l’applicazione; o se si riconosce colpevole, non può risolversi a lasciare il suo idolo; l’età medesima, che serve a guarire, o ad indebolire le altre passioni, non serve che ad accrescere questa: più uno invecchia, più è interessato, e si può dire che l’avarizia è la passione dei vecchi. Più s’avvicinano al sepolcro, più si affezionano alla terra. Perché questa passione, allora quando ha gettate profonde radici nel cuore, è molto difficile a sradicare; essa conduce all’impenitenza finale. Testimonio il perfido Giuda, il quale, dopo aver tradito il suo divin Maestro, non vuole riconoscere il suo mancamento, di cui non dipendeva ancora che da lui l’ottenere il perdono; si impiccò per disperazione e diede la sua anima al demonio. – Tremate, avari che mi ascoltate, se non scacciate dal vostro cuore quella cupidigia, che vi attacca ai beni della terra, che vi fa dimenticar Dio e la vostra salute, che vi rende insensibili alle miserie dei poveri, e che vi ha di già forse fatto commettere tante ingiustizie. Voi lascerete un giorno i vostri beni, il vostro danaro; voi renderete il vostro corpo alla terra, e la vostr’anima scenderà nell’inferno. Ecco l’orribile sepoltura che vi aspetta; ecco il termine fatale ove finir debbono tutti i movimenti che fate per arricchirvi. La vita infelice che voi menate sulla terra vi condurrà ad una vita ancora più infelice nell’eternità. Ah! Insensati che siete, non siete voi più sensibili ai vostri veri interessi? Ammassate dunque altri tesori che quelli che sono stati sinora l’oggetto delle vostre sollecitudini. Ma quali tesori? Tesori di virtù, di meriti pel cielo, ove i ladri, i vermi, la ruggine non possono avere accesso. Fate sovente questa riflessione quando l’avarizia vi ritiene e v’impedisce di fare limosina. A me stesso, dovete voi dire, io faccio questa limosina, poiché io son sicuro di trovarla nel cielo; di tutti i beni il meglio impiegato si è quello che io spargo nel seno dell’indigente. Allora non a goccia a goccia, ma con abbondanza voi spargerete le vostre liberalità. Date dunque ai poveri tutti gli aiuti che da voi dipendono: se hanno fame, date loro da mangiare, e da bere se hanno sete; se mancano di vestimenta, vestiteli; se sono infermi, visitateli e procurate la loro guarigione con qualche spesa che farete a questo fine. Per distaccarvi ancora più dai beni del mondo, pensate sovente che nulla porterete con voi, che la morte vi rapirà tutto. Io sono entrato ignudo in questo mondo, diceva Giobbe, ed ignudo ne uscirò: pensate alla sorte del malvagio ricco, che è ora nell’inferno, e che vorrebbe poter riscattarsi con una limosina. Quanto a voi che vivete nella povertà, benedite la provvidenza di avervi messi in uno stato che Gesù Cristo ha consacrato con la sua scelta, e che è senza dubbio il più sicuro per andare al cielo. Considerate che i beni sono sovente la causa della riprovazione di coloro che li posseggono, che forse vi dannereste nell’opulenza, mentre vi salverete nella povertà. Vivete dunque in una perfetta rassegnazione alla volontà di Dio, e troverete nelle tribolazioni del vostro stato una contentezza di spirito e di cuore, che sarà il preludio della vostra felicità avvenire. Quanto a voi, potenti del secolo, non passate alcun giorno senza esercitarvi nelle opere di misericordia; non vi contentate delle occasioni che si presentano, ricercate ancora quelle che sembrano allontanarsi; e Dio, il quale non lascia senza ricompensa un bicchiere d’acqua dato nel suo nome, vedendovi ricolmi di meriti, vi coronerà di una gloria immortale. Così sia.
Credo…
https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/
Offertorium
Orémus
Ps XXXIX: 14; 15
Dómine, in auxílium meum réspice: confundántur et revereántur, qui quærunt ánimam meam, ut áuferant eam: Dómine, in auxílium meum réspice.
[Signore, vieni in mio aiuto: siano confusi e svergognati quelli che insidiano la mia vita per rovinarla: Signore, vieni in mio aiuto.]
Secreta
Munda nos, quǽsumus, Dómine, sacrifícii præséntis efféctu: et pérfice miserátus in nobis; ut ejus mereámur esse partícipes.
[Purificaci, Te ne preghiamo, o Signore, in virtù del presente Sacrificio, e, nella tua misericordia, fa sì che meritiamo di esserne partecipi].
https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/
Communio
Ps LXX: 16-17;18
Dómine, memorábor justítiæ tuæ solíus: Deus, docuísti me a juventúte mea: et usque in senéctam et sénium, Deus, ne derelínquas me.
[O Signore, celebrerò la giustizia che è propria solo a Te. O Dio, che mi hai istruito fin dalla giovinezza, non mi abbandonare nell’estrema vecchiaia.]
Postcommunio
Orémus.
Purífica, quǽsumus, Dómine, mentes nostras benígnus, et rénova coeléstibus sacraméntis: ut consequénter et córporum præsens páriter et futúrum capiámus auxílium.
[O Signore, Te ne preghiamo, purifica benigno le nostre anime con questi sacramenti, affinché, di conseguenza, anche i nostri corpi ne traggano aiuto per il presente e per il futuro].
https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/
https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/
https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/