S. S. GREGORIO XVII:IL MAGISTERO IMPEDITO:
III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (4)
[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]
IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ’ CRISTO
4. La morte
La tabella di marcia degli Esercizi Spirituali prescrive tradizionalmente che, dopo aver fatto la meditazione sul peccato, si faccia la meditazione sulla sua conseguenza che è la morte. Come facciamo questa meditazione? La facciamo così: la morte che noi consideriamo questa sera deve essere per noi la conclusione dell’iter terreno con Gesù Cristo, la conclusione di un cammino fatto con Lui. Certo, è la conclusione di un cammino fatto con Lui, se il cammino è stato fatto con Lui. Perché se il cammino non fosse stato fatto con Gesù Cristo, allora le cose dovrebbero essere poste diversamente. E questo io debbo dire subito a scanso di equivoci e anche di pericolose illusioni. Io suppongo che voi e io intendiamo veramente e fino in fondo camminare con Gesù Cristo. Se non fosse così, la meditazione di questa sera dovrebbe essere cambiata. – Voi sapete che la morte, ontologicamente parlando, è il distacco dell’anima dal corpo, per cui il corpo se ne ritorna alla terra e rientra nel giro delle cose dal quale un giorno Iddio lo ricaverà fuori per restituirlo nuovamente all’anima nella risurrezione finale. L’anima se ne va in un altro ordine ed entra finalmente nello stato di termine, mentre ora è nello stato di via. Entra cioè nello stato che è all’anima abituale, mentre l’essere in questo mondo non è lo stato abituale. Insomma lo stato ordinario è quello là, è quello che viene dopo, non quello che è prima. Quello che è prima è un esperimento, fatto così, a titolo di poter decorare gli uomini del merito personale e che una volta finito si manterrà nel ricordo e nel merito che ha fissato il suo valore. Ma è stato di via, non stato di termine. Questo voi lo sapete. Sapete anche l’altra definizione che può essere data della morte, che non è altro che l’intestazione di una grande tesi teologica: la morte è la fine della prova, o meglio: il tempo della prova finisce con la morte. E questo modo di annunciare, che in altri Esercizi antecedenti abbiamo lungamente meditato, è un modo che mette veramente il segno sulla terribilità della morte, perché se fosse soltanto separazione dell’anima dal corpo, ci sarebbe un distacco, una dolenza, sì, qualche cosa di contrario all’attuale nostro istinto di conservazione. Invece la terribilità della morte sta in questo, che chiude, e si rimane per tutta l’eternità al punto in cui si è al momento della morte. Tempus probationis morte finitur: è la tesi teologica, la formula teologica di porre la questione della morte. – Ma in questa meditazione io parlo a voi in modo più concreto e dico: badate che la morte può essere considerata così, giustamente, specialmente da coloro che hanno intenzione di camminare con Cristo: è la conclusione dell’ iter della vita fatto insieme a Gesù Cristo. Badate bene che la conclusione vuol dire un rapporto di causalità. Non è parte finale, non dico parte finale dell’iter, dico conclusione. La conclusione suppone una premessa, suppone il legame alle premesse e pertanto suppone quella tale rotazione che c’è nel sillogismo delle cose, nella logica delle cose. E dunque a questo modo cercheremo, rimanendo nello spirito e nella linea che vi ho annunciato di questi Esercizi, di studiare l’iter con Cristo. L’iter con Cristo va fatto dove si è messo Lui, e siccome si è messo soprattutto nell’Eucaristia, è chiaro che l’iter cum Christo va fatto soprattutto, primamente e con assoluto carattere sostanziale, con Gesù Cristo nella SS. Eucaristia. Allora facciamo le considerazioni che vengono ovvie quando si tratta di parlare della conclusione di questo iter della vita, di questo viaggio con Gesù Cristo. La prima considerazione che deve metterci estremamente in guardia è questa: della morte a noi interessa la perseveranza finale, la grazia della perseveranza finale. Perché il carattere macabro della morte lasciamolo alla paura, anche opportuna; il carattere drammatico della morte lasciamolo alla suggestione, all’emotività, al sentimento. Intanto guardate: la grazia di ben morire viene al momento di morire, non prima. E pertanto vi do un consiglio: cercate di procurarvela, e poi lasciate fare, perché non potete pretendere che la grazia della buona morte vi sia data adesso, vi sia anticipata e ve la possiate gustare come se fosse una liquirizia da tenere in bocca per tutta la vita. Adesso c’è da fare dell’altro. La grazia della buona morte verrà allora, e Dio è molto preciso: non arriva né cinque minuti prima né cinque minuti dopo; quando Dio intende fare una cosa, la fa al momento in cui occorre farla. La grazia di sopportare certi dolori Iddio non la manda per esperimento un anno prima, perché non si sentano più i dolori; la grazia di sopportare certi dolori la dà quando arrivano i dolori. E non ci sono ritardi in queste spedizioni dal cielo, non c’è pericolo: tutto arriva a tempo, basta che noi facciamo la nostra parte. La prima considerazione da fare è quella della grazia della perseveranza finale. Voi sapete che la grazia della perseveranza finale, che è veramente il nocciolo della questione di cui dobbiamo preoccuparci a proposito di morte, consiste nel fatto della coincidenza tra il momento della morte e lo stato di grazia santificante. E questa coincidenza tra la morte e la grazia santificante nell’anima nostra si chiama grazia della perseveranza finale. La questione sta qui perché la grazia della perseveranza finale è una grazia speciale. E questo vuol dire che non è una grazia comune. E questo è detto in una proposizione che si studia in teologia dogmatica, nel trattato De gratia actuali. È una proposizione certa, intendiamoci, non è una opinione di qualche spiritello teologale. È una proposizione certa. È una grazia speciale. E chi osserva bene scorge che la divina sapienza sta in questo; perché non ci si può scherzare con la vita, con la creazione e con Dio Autore del dramma. La soluzione della vita di un uomo non è logico lasciarla legata a una specie di macchina che automaticamente si muove, non può essere legata a qualche cosa che si rassomiglia alla Lotteria di Merano che chi tira su il numero buono, lo tiene e chi tira su il numero cattivo, lo tira ugualmente e se lo tiene. Capite? Ecco perché c’è una saggezza divina in questo. È una grazia speciale. Ma se si leggono i testi tolti dalla Sacra Scrittura, dalla divina tradizione e dai documenti della Chiesa e del Magistero, anche del Magistero solenne, se si vanno a guardare i testi, si capisce che esprimono quest’altra verità, che è logica come quella di cui ho parlato ora: che è grazia speciale da chiedersi a Dio instantemente. La grazia della perseveranza finale sta legata con questo instante richiederla, ma sta anche nei modi e nelle proporzioni che ci sfuggono. Non possiamo dire di più: sta legata quindi con l’insieme di quello che ha preceduto nella vita. E questa grazia della perseveranza finale ce la stiamo guadagnando adesso, perché è facendo qualche cosa nella vita che si mette insieme quel quantum per cui Iddio ce la darà. È chiedendola ora che noi possiamo sperare di averla. Noi non possiamo andare avanti nella immobilità, nella insensibilità, nella tiepidezza o addirittura nella freddezza a causa di una volontà che non sa scattare. Non possiamo: il pericolo è troppo grave. La misericordia di Dio è infinita. Quelli che erano qui l’anno scorso si ricorderanno che ho parlato delle tre vie della misericordia di Dio per salvare gli uomini: la prima è quella della pazzia: tanti sono matti, così si salveranno, non hanno responsabilità. La seconda è quella dell’ignoranza, e ce ne passano molti. Non capiscono niente, il buon Dio li piglierà come sono. La terza è quella della santità, per cui passano i meno. La misericordia di Dio si vede dalle tre vie per arrivare in cielo. Ma badate bene che se la misericordia di Dio è infinita, Dio non è scemo. Scusate se uso questa parola: la posso usare perché dico che non lo è. Ma combinare su un modo di guardare verso la nostra vita, verso l’eternità, verso il mistero dell’eternità come se il nostro Creatore e Signore — che i pittori, chissà perché, rappresentano sempre come se fosse vecchio — sia una intelligenza addormentata con la quale si possano fare i più grandi sonnambulismi, questo no. Perché c’è la divina misericordia di Dio, e c’è il Crocifisso, eccolo il documento, per far capire fin dove è arrivata e far capire fin dove può arrivare; ma la giustizia di Dio non viene rinnegata. Affatto. Il punto a proposito della morte è questo. Quando vado in visita pastorale, il libro che faccio scartabellare di più è quello dei morti. E ho l’abitudine di tirar fuori tutte le statistiche di lì, tra l’una e l’altra visita pastorale, quindi un certo periodo di anni. E generalmente nella predica di chiusura della sacra visita, tra le altre cose che dico al popolo, per trattare, come deve fare un padre di famiglia, delle questioni correnti delle singole comunità cristiane, soprattutto porto le cifre dei morti: quelli che sono morti con tutti i Sacramenti; quelli che sono morti con qualche Sacramento, (e quando c’ è confessione e estrema unzione si può stare tranquilli perché è segno che la Comunione non l’hanno potuta fare per impedimento fisico); quelli che sono morti con la sola estrema unzione (e qui cominciamo le dolenti note, perché la sola estrema unzione generalmente, nella maggior parte dei casi, è un segno di vigliaccheria di quelli che circondano il malato, che non chiamano il prete e te lo lasciano morire nei suoi pasticci. (Lo amano a questo modo!), e allora si comincia a tremare. Poi ci sono quelli che hanno rifiutato i Sacramenti o dei quali nessuno si è curato di dargliene qualcuno. E voi capite che queste cifre mettono davanti a delle dure realtà. Tra una settimana o poco più concluderò la seconda visita pastorale della mia diocesi e posso fare questa conclusione: che il 30% dei fedeli muore senza sufficiente assistenza e senza Sacramenti. – Questi qui dove li mettiamo? Mi capite? Vedete il commento alla grazia della perseveranza finale? Guardate che uno degli impegni più gravi che si deve avere in vita è quello di prepararsi coloro che, al momento in cui ce ne fosse bisogno, ci dicano per tempo che dobbiamo partire e ce lo dicano senza tante storie. È una delle precauzioni più grandi, anzi la più saggia. Perché siamo a questo punto di imbecillità mondiale, che quando uno sta male, è talmente una questione medica, clinica, dite quel che volete, che tutto il resto non si vede più. Mentre la prima cosa è quella. Oh, intanto cominciamo a chiamare il prete e con buon modo, è sempre meglio evitare il malo modo; ma quando è necessario, si deve usare il malo modo perché si tratta poi di non lasciar andare uno con dei pasticci davanti al Padre eterno e non è il caso di usargli dei buoni modi pericolosi di qua che poi se li trovi brutti di là. Badate che è impressionante. Vedete come le cose si fanno brutte quando c’ è un immobilismo. Direte: ma certa povera gente che si vede andare qua e là, che sì e no evita di ammazzare, e anche qualche volta evita di rubare ma, tutti gli altri peccati poi… più o meno, li fanno… rispetto a quelli io sono al sesto piano. Ah cari, ma voi avete avuto delle grazie che quelli non hanno avuto! Tutto è proporzionale. Chi ha avuto un talento, deve rispondere per un talento: chi ne ha avuto due, deve rispondere per due. Noi che siamo qui dentro, che tutti quanti abbiamo avuto, in diversa misura e ordine, una vocazione, noi che siamo stati chiamati da Gesù Cristo, non possiamo credere di essere trattali, canto ad assoluzioni generali, come quelli che non hanno avuto una particolare chiamata da Gesù Cristo. Rispettiamo la giustizia di Dio e non portiamo dei criteri sciocchi in questioni che debbono determinare della nostra eternità. – Ora veniamo a un secondo punto. Perché, in fin dei conti, bisogna essere umani. E la morte non ha mai avuto per nessuno, che non avesse superato certi traguardi di virtù, di serenità, di doni, di eroismi, non ha avuto mai una faccia che si diversificasse dalle occhiaie vuote dei teschi. La morte è la morte. A nessuno è venuto mai in mente di raffigurare la morte come una splendida dama con un bel diadema e un mazzolino di fiori in mano da offrire a chi si fa innanzi. No. La morte è una cosa che violenta la unione naturale tra l’anima e il corpo e pertanto il senso della conservazione nella linea della natura, che è quella di conservazione di tale unione tra anima e corpo — l’anima è fatta per il corpo e il corpo è fatto per l’anima — e dà un carattere sempre violento a questo passo estremo. Soltanto un dono preternaturale, che era stato concesso ai nostri progenitori e mai applicato, li avrebbe esentati da questo passaggio, da questo distacco violento e innaturale. Essi sarebbero passati alla gloria senza conoscere la umiliazione della tomba e senza dover abbandonare, per chissà quanto tempo, alla corruzione e al giro degli elementi cosmici quel tanto di materia che aveva formato il loro corpo. Pertanto non si può prescindere da questo aspetto umano nella meditazione della morte. – Il carattere violento, macabro, orripilante della morte, aumentato dal mistero di ciò che viene dopo — perché quel che viene dopo lo conosciamo solo attraverso la fede, non l’abbiamo sperimentato in modo diretto, e pertanto racchiude per noi un ordine di cui sappiamo con certezza assoluta che è totalmente diverso da quello che sperimentiamo ora — fa fremere. Ma la morte che si rappresenta così violenta e così drammatica, ha due grandi lenimenti. E i due grandi lenimenti messi insieme la possono rendere una funzione stupenda, senza che a renderla stupenda c’entri, beninteso, un esistenzialistico e sciocco odio alla vita. Due cose. La prima è la grazia di Dio, di cui ho già parlato ripetutamente, che arriva al momento opportuno. La seconda è — e su di questa seconda scende grande la grazia di Dio — quando il distacco dalla terra è già stato operato prima. Ecco il segreto. Se noi moriamo adesso — e vi dirò in che cosa consiste il morire adesso — è certo che ci troviamo dinanzi alla morte in una forma completamente diversa. Ma bisogna morire durante la vita. Bisogna che quel distacco supremo, violento di allora, sia già stato spiritualmente realizzato prima, con forza ma non senza serenità. Ora mi direte: E che cos’è questo distacco realizzato prima, talché componendosi la morte antecedente, voluta da noi, e la grazia del Signore, si può sperare di avere parte coi santi e si può accogliere l’invito della Chiesa che ha chiamato il giorno della morte il giorno del natale: dies obitus, dies natalis; che ha chiamato dormitori, cæmeteria, i luoghi dove si vanno a seppellire imorti? Cos’è questo distacco per cui spiritualmente,morendo prima, si toglie molto della forza alla falce che dovrà un giorno coglierci? È questo, e lo dico in poche parole, semplici. Vedete, quando tutte le cose che abbiamo e che siamo, noi le consideriamo soltanto strumenti di un bene superiore ed eterno, solo quello, e le usiamo soltanto come strumenti, niente più che strumenti, noi abbiamo operato il distacco per tempo, siamo già morti prima a taluni effetti, mentre saremo stati vivacissimi e vitalissimi a tutti gli altri effetti, beninteso. Questa è la saggezza della morte. Quando già prima si è realizzato il distacco del cuore, allora non rimane altro che la morte positiva e cioè l’unione con Nostro Signore, con l’eterno Amore, con l’eterna Verità, con la infinita Pace: l’ingresso nella Vita.- Ora veniamo un po’ al pratico. Abbiamo queste quattro ossa, quelle alle quali faranno il funerale. Questo corpo noi possiamo considerarlo come una sede di piacere e possiamo considerarlo come uno strumento di un bene superiore. Se io lo considero come una sede di piacere, questo corpo, poveretto, prima è elastico, vivacissimo, poi diventa piuttosto statico, poi diventa greve. Prima fa inorgoglire e poi fa rammaricare. Se lo si considera come una sede di piacere, è tutto un continuo rinnegamento al quale si va incontro, perché se la parte peggiore la si avesse prima e poi si andasse avanti…. allora non si avrebbero le delusioni…. Invece la parte migliore la si ha subito e poi è sempre peggio. Questo corpo che ci ha dato Iddio lo si deve considerare come uno strumento di un bene superiore, come un grappolo d’uva dal quale può essere spremuto il vino per il convito eterno, strumento di fatica, strumento per sopportare le emozioni dell’anima e dare forza, oltre che alle emozioni, all’attività dell’intelletto. Voi sapete che occorre un apporto di salute per la piena attività intellettuale. È strumento. Strumento di qualche cosa. S. Giovanni Bosco, quando era ragazzo, ha fatto anche il saltimbanco ed era bravissimo. A modo suo e come usava in quei paesi là, che non erano molto esperti in fatto di sport, sapeva fare dell’atletica. Ma la faceva per tenere lì i ragazzi, perché non andassero a fare del male. Quando questo corpo è uno strumento al quale si può domandare e col quale e attraverso il quale si può offrire costantemente a Dio un sacrificio purissimo d’amore nella rinuncia e nella chiarezza; quando questo corpo, con tutti i sentimenti che quasi pare lo travalichino e arrivano alla sfera superiore della psiche e può creare tanti guai e può portare con sé tante storture, è invece reso strumento, e reso anche nei suoi istinti e sentimenti ed emozioni legna da ardere per una fiamma d’amore, allora voi capite che non ci sono più distinzioni, allora non parliamo più di vecchiaia, perché non esiste più: quella barriera è già passata nel trionfo perfetto e vivacissimo dell’anima. Tutte le età sono bellissime, tutte, tutte. Alcuni dicono che di età bella ve n’è una sola; non è vero: le età della vita, come le stagioni dell’anno, sono tutte bellissime. Se fosse sempre primavera, ci annoieremmo mortalmente; se fosse sempre estate, ci annoieremmo mortalmente; se fosse sempre autunno lo stesso; se fosse sempre inverno, lo stesso. L’inverno ha delle bellezze incredibili. Certo, si parla con entusiasmo della primavera, soprattutto perché ha la fortuna di venire dopo l’inverno. Ma tutte le stagioni sono belle. Dio ha fatto bene tutto. E tutte le età della vita possono essere bellissime, quando si serve Iddio. Ma sono certamente migliori quando le potenze, le capacità per le quali si differenziano, soprattutto in base a un procedimento biologico, le diverse età della vita sono superate dal fatto che questo corpo, bello o brutto che sia, che pesi tanto o che pesi poco, che abbia salute o che non ne abbia, che abbia sentimenti degni o che sia invece fautore di sentimenti indegni ma contenuti, viene usato soltanto come strumento di un bene superiore. Allora la vita è un’ altra e anche la morte. – Ricordiamo bene. Quando tutte le cose che fanno ala intorno a noi, tutte, in cielo e in terra, nella natura e nella storia, e tutte quelle altre che dai colori cangiantissimi, stemperati in una gamma infinita, risultano dall’intrecciarsi delle une e delle altre; quando tutte queste cose noi le abbiamo prese e portate al livello di strumenti di beni superiori, allora si può morire in pace. Chiediamo dunque a Dio questa purificazione di ogni giorno, cari; alla morte bisogna pensarci ogni giorno. E bisogna cominciare da giovani a pensare alla morte, perché è la sola strada per rendere strumentali le grandezze e le bellezze della vita, sicché non servano mai a noi, ma a Dio. Direte: E con questo, tutto diventa un chiodo da succhiare! Cosa? Il chiodo da succhiare è se si fa in modo diverso. Credete voi che le cose, diventando strumenti, cioè viste e usate soltanto come strumenti, perdano la loro bellezza? Chi l’ha detto? Se io considero strumenti i miei vestiti, credete che per questo perdano lo splendore purpureo? Non lo perdono affatto. Ma l’importante è che io li consideri strumenti e basta. Credete voi che il canto degli uccelli perderà il suo incanto? No. Serviranno per Iddio, serviranno per elevare, per purificare: non perderanno niente. Non è vero che quando tutte le cose di questo mondo si portano con verità al loro punto, cioè a essere strumentali, perdano qualche cosa. Non perdono niente. Perdono il male, acquistano la destinazione del bene e a noi lasciano la pace, anche in mezzo alle vicissitudini della vita. Mentre a fare diversamente ci si rimette la pace e poi ci si rimettono quelle e si rimane con niente in mano. – Veniamo al terzo punto. Morte. Ritorniamo in tema eucaristico: c’è il Viatico. Il Viatico è l’ultima Comunione. Avete mai riflettuto al fatto che l’ultima o almeno quella che si presume ultima — anche se poi di fatto non lo è, perché uno può anche guarire dopo aver ricevuto il Viatico — ma quella che, giuridicamente parlando, la si considera ultima, avete mai riflettuto perché la si chiama Viatico? E il termine è canonico, consacrato nel Codice di Diritto Canonico, quindi nella legge della Chiesa: ha la maestà di una verità infallibile che si protende. Non ci avete mai pensato? E perché la legislazione canonica della Comunione è diversa dalla legislazione canonica del Viatico? Pensate che, se vi fosse necessità, potrebbe amministrare il Viatico anche un uomo non sacerdote. In certi casi potrebbe arrivare a darlo una donna, in certi casi soltanto! La disciplina canonica del Viatico è diversa da quella della S. Comunione. Perché? Non ve lo siete mai domandato? Se da sempre la Chiesa ha considerato in modo tutto speciale, diverso, la Comunione ultima e ha dato ad essa un nome speciale, così chiaro, così significativo, ci deve essere evidentemente una ragione. Questa Madre nostra, che ha con sé e sopra di sé lo Spirito Santo e che nelle sue persistenze secolari, anche quando i singoli uomini che la incarnano non se ne accorgono, traduce sempre una indicazione divina, questa Madre nostra ha veduto nel Viatico qualche cosa di diverso dalle altre Comunioni. L’ha chiamato rifornimento per la via, per l’ultimo tratto della via: Viatico. Vuol dire che ha visto in questa ultima Comunione qualche cosa che è proprio dell’ultimo passo e del passo estremo. Qualcosa che è collegato alla possibile sfiducia di quel momento e alla tranquillità d’abbandono non meno desiderata allora. La diversità del nome, così tradizionale nella Chiesa, la diversità della disciplina canonica, la indicazione costantemente tenuta parlano. Dio ha fatto cose mirabili coi suoi santi. Riempie l’anima di commozione quando si legge del santo Padre Benedetto che si fa portare nella piccola basilica di S. Giovanni Battista, da lui eretta e di cui i bombardamenti hanno avuto il merito di mettere nuovamente in vista le fondazioni che non si conoscevano. Nel centro aveva fatto scavare la sua tomba, anzi una duplice tomba: in una stava già la salma della sorella Scolastica che 1’aveva preceduto, l’altra era per sé. La fece scoperchiare, si fece portare lì, e lì ricevette il Corpo del Signore. Se lo fece posare sul petto e poi dormì in Dio. – Ricordiamo anche la morte dei più grandi abati benedettini: Ugo, che fu il più grande degli Abati di Cluny, istituzione che parve miracolo ai suoi tempi. Lui pure, un giovedì santo, ed era morente, si fece portare in chiesa, volle che si facesse la grande funzione del giovedì santo mentre era morente, si comunicò solennemente al momento in cui la liturgia lo portava, e dopo, stando steso accanto alla sua fossa aperta, s’addormentò in Domino. Grande anche in quel momento. S. Raimondo, detto il non nato, di cui si fa la festa il 31 di agosto, al principio del XIII secolo morì per la strada mentre faceva un viaggio in Catalogna. In quel momento non c’era possibilità di dargli l’Eucaristia, la chiesa che custodiva la Eucaristia era lontana. E allora furono gli Angeli che portarono il Viatico a questo santo cardinale. Quando a S. Giuliana de’ Falconieri, fiorentina, portarono il Viatico, ma essa non poteva riceverlo perché il suo stato fisico impediva la deglutizione di qualunque cosa, disse : « Posatelo qui, sul cuore ». E la particola scomparve. La Comunione la fece senza deglutire. Quando sistemarono il sacro corpo di questa vergine, s’accorsero che sul cuore era rimasta incisa nella carne la forma dell’ostia. Per il Viatico Dio ha una provvidenza speciale. Ma lo volete ricevere? Preparatevelo per tutta la vita. Noi non sappiamo chi avremo intorno allora. Ma se il Viatico lo si prepara per tutta la vita, si fa sempre in modo che l’ambiente che è intorno a noi sia favorevole e propizio allo splendore del nostro Viatico. Ed è opportuno che tutti noi impariamo, quando ci viene anche solo un mal di testa, a non far subito mirabolanti esercizi di allucinazione. Per prima cosa cominciamo sempre a dire: ora mettiamo a posto l’anima. Poi, se rimarremo di qua, ci staremo. Ma per prima cosa, non cominciamo dalle mirabolanti esercitazioni di inganno di sé stessi; per prima cosa quello. La meditazione della morte non sta nel far venir fredda la schiena. Avete visto. Abbiamo potuto anche sorridere, e più d’una volta, durante la meditazione della morte. È questione che, da questo momento, ci si prepari a morir bene.