DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2019)
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps LXXXV: 3; 5
Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te. [Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].
Ps LXXXV: 1
Inclína, Dómine, aurem tuam mihi, et exáudi me: quóniam inops, et pauper sum ego. [Porgi l’orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi, perché sono misero e povero].
Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te. [Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].
Oratio
Orémus.
Tua nos, quǽsumus, Dómine, grátia semper et prævéniat et sequátur: ac bonis opéribus júgiter præstet esse inténtos. [O Signore, Te ne preghiamo, che la tua grazia sempre ci prevenga e segua, e faccia che siamo sempre intenti alle opere buone].
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios
Ephes III: 13-21
Fratres: Obsecro vos, ne deficiátis in tribulatiónibus meis pro vobis: quæ est glória vestra. Hujus rei grátia flecto génua mea ad Patrem Dómini nostri Jesu Christi, ex quo omnis patérnitas in cœlis et in terra nominátur, ut det vobis secúndum divítias glóriæ suæ, virtúte corroborári per Spíritum ejus in interiórem hóminem, Christum habitáre per fidem in córdibus vestris: in caritáte radicáti et fundáti, ut póssitis comprehéndere cum ómnibus sanctis, quæ sit latitúdo et longitúdo et sublímitas et profúndum: scire etiam supereminéntem sciéntiæ caritátem Christi, ut impleámini in omnem plenitúdinem Dei. Ei autem, qui potens est ómnia fácere superabundánter, quam pétimus aut intellégimus, secúndum virtútem, quæ operátur in nobis: ipsi glória in Ecclésia et in Christo Jesu, in omnes generatiónes sæculi sæculórum. Amen.
Omelia I
[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,D
IL PROGRESSO DELLA VITA INTERIORE
“Fratelli: Vi scongiuro di non perdervi di coraggio a motivo delle tabulazioni che io soffro per voi. Esse sono la vostra gloria. Perciò io piego i ginocchi davanti al Padre del Nostro Signore Gesù Cristo, dal quale prende nome ogni famiglia, in cielo e in terra, affinché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, d’essere fortemente corroborati, mediante il suo spirito, nell’uomo interiore: che Cristo per mezzo della fede abiti nei vostri cuori, affinché, profondamente radicati e fondati nella carità, possiate comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità; e d’intendere anche quell’amore di Cristo che sorpassa ogni coscienza, di modo che siate ripieni di tutta la pienezza di Dio. A Lui che, secondo la possanza che opera in noi, può tutto infinitamente di là di quanto noi domandiamo e pensiamo: a Lui sia gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni di tutti i secoli”. (Efes. III, 33-21).
L’Epistola è tolta dalla lettera agli Efesini. Quei di Efeso sono stati chiamati alla fede. Per questo, S. Paolo, che si trova in prigionia a Roma, si rivolge a Dio, Padre degli Angeli e degli uomini, pregandolo ardentemente che spanda sugli Efesini la ricchezza della sua gloria, fortificandoli, per mezzo della grazia dello Spirito Santo, nella vita spirituale incominciata con il Battesimo, unendoli, mediante la fede e la carità in Gesù Cristo, con unione così intima, che la vita in Lui sia costante e in tutta la pienezza. E così diventino capaci di comprendere l’amor di Dio, che abbraccia tutta la creazione, che non conosce limiti di tempo, di spazio, di misura; e siano ricolmi di tutti quei doni, la cui piena sorgente si trova in Dio. L’Apostolo domanda molto; ma Dio, nella sua onnipotenza sa far di più di quanto noi possiamo domandare e comprendere. A Lui, dunque, si renda gloria per tutti i secoli. Il desiderio ardente dell’Apostolo per il progresso degli Efesini nella vita spirituale incominciata, si riferisce anche a noi. La nostra vita interiore:
1 Deve progredire,
2 Sostenuta dalla fede,
3 E dalla carità.
1.
Io piego i ginocchi davanti al Padre del nostro Signore Gesù Cristo… affinché vi conceda… d’essere fortemente corroborati, mediante il suo spirito, nell’uomo interiore. – Con queste parole l’Apostolo assicura agli Efesini che trale angustie della prigionia non li dimentica, ma prega il Signore che, per mezzo delle grazie dello Spirito Santo, li rassodi e li fortifichi quanto alla vita interiore, cioè quanto alla vita dell’anima rigenerata alla grazia. Il Cristiano, che con il Battesimo è nato alla vita spirituale, sarebbe irragionevole se si accontentasse di vivere una vita spirituale stentata. Nessuno rinuncerebbe a una vita piena di sanità e di vigore per vivere una vita stentata, malaticcia, zoppicante. Il Cristiano che si accontenta di tirare innanzi come si può, di non commettere disordini gravi, di non perdere la grazia di Dio; … e non si dà premura di fortificarsi, rassodarsi nella vita spirituale, più che vivere, sonnecchia, più che camminare, zoppica. E se seguiamo Gesù Cristozo ppicando, resteremo molto indietro, con pericolo di perderlo. – Dirai: quando uno ha lavorato, ha diritto a un riposo. Qualche cosa di buono ho fatto nella vita spirituale. Adesso basta. Ci sono dei lavori in cui non si può dir basta. Chi costruisce un edificio sarebbe burlato da tutti e stimato per pazzo se, arrivato a metà, dicesse: — Adesso basta. Questo edificio non ha più bisogno di altri lavori. Si è fatto abbastanza. — Nella costruzione del nostro edificio spirituale, sarebbe una pazzia fermarsi a metà. «Questa — dice S. Agostino — è la tua perfezione: l’aver superate alcune cose in modo che ti appresti a superarne altre» (En. in Ps. XXXVIII, 14). Col procedere degli anni, dunque, il Cristiano deve procedere anche nel bene. La sua vita spirituale, al contrario di quanto avviene rispetto alla vita fisica, col procedere degli anni, invece di affievolirsi deve ingagliardirsi sempre più. È evidente. Se Dio prolunga la vita all’uomo, lo fa per il suo maggior bene. «Dio non prolunga a nessuno il tempo, perché con il vivere a lungo abbia a cadere, e allontanarsi dalla retta fede nella sua longevità; dovendosi tra i benefici di Dio annoverare appunto la longevità, nella quale l’uomo non deve essere peggiore, ma migliore» (S. Prospero d’Aquit. Sent. sup. cap. Gall. 3.) – «Progredite sempre più», diceva l’Apostolo ai Tessalonicesi (I Tess. IV, 1). E quanto a sé dichiarava: «Dimentico di quel che ho dietro le spalle, e stendendomi verso le cose che mi stanno davanti, mi avanzo verso il segno» (Filipp. III, 13-14). Imitiamolo.
2.
Io prego ancora — dice S. Paolo rivolto agli Efesini — che Cristo per mezzo della fede abiti nei vostri cuori. Con ferma adesione a tutte le verità rivelate Cristo abiterà nei cuori degli Efesini in modo sempre più perfetto. Una ferma adesione alle verità della fede è più che mai necessaria per una vita spirituale vigorosa. Nel principio della vita spirituale sentiamo molte dolcezze. Dio provvede alla nostra infanzia spirituale con il cibo delicato delle consolazioni. Ma poi a questo cibo ne sostituisce uno più solido: quello delle amarezze. La fede ci sostiene nell’ora della prova, tenendo il luogo delle consolazioni. Quando Gesù, salendo al cielo, si sottrasse alla vista degli Apostoli; questi non sapevano decidersi a discendere dal monte: pareva loro di essere abbandonati. Ma presto si risovvennero delle parole di Gesù: «Ecco, Io sono con voi tutti i giorni fino al compimento del secolo» (Matth. XXVIII, 20). E in queste parole trovano coraggio e spinta a proseguire l’opera loro. Noi pure troviamo forza e vigore a proseguire nella vita spirituale cominciata negli insegnamenti della fede. Siano pochi o tanti gli ostacoli, siano da poco o molto grandi li vinceremo tutti con una fede viva nell’aiuto di Dio. Quando Giuda Maccabeo, con poca gente, si fece incontro al potente esercito di Siria, comandato da Seron, i suoi furono presi da grande scoraggiamento. « Come potremo noi — gli osservarono, — sì poco numerosi, combattere contro una moltitudine tanto grande e potente, spossati come siamo oggi dal digiuno? Giuda rispose: « È cosa facile che molti restino preda di pochi. Per il Dio del cielo non c’è differenza tra il salvar per mano di molti o per mano di pochi. Poiché la vittoria in guerra non dipende dal numero delle schiere: la forza viene dal cielo » (1 Mac. III, 17-19). Animati da tale fede, Giuda e i suoi pochi si gettarono sull’esercito di Seron e lo sconfissero pienamente. Animati da una tale fede nell’aiuto e nelle promesse di Dio, non ci arresteremo e non vacilleremo mai, nella via dello spirito, davanti a ostacoli di qualsiasi genere e di qualsiasi numero: procederemo, anzi più fortificati e invigoriti. Quei che sono deboli nella fede cadono facilmente neitranelli che tendono i seminatori di errori, o, come dice più avanti l’Apostolo agli Efesini, sono come i « fanciulli vacillanti, portati qua e là da ogni vento di dottrina per gli inganni degli uomini; per le astuzie che rendono seducente l’errore » (Efes. IV, 14). Ma se la fede è ben radicata e fondata nei cuori, non sarà scossa dagli errori che gente superba o dal cuor guasto cerca di seminare ovunque, e che ci tolgono di vivere secondo i precetti di Dio, in stretta unione con Lui. Non deve recar meraviglia se coloro che vivono nell’idolatria, essendo privi del lume della fede, nella loro condotta seguano cecamente la via tracciata dalle passioni. È incomprensibile, invece, che vivano una tale vita i Cristiani, i quali, nelle verità della fede, alla scuola di Gesù Cristo, trovano l’insegnamento della santità e l’impulso a praticarla. « Il sentiero dei giusti è come luce splendente, è come luce che cresce fino a pieno giorno », dice Salomone (Prov. IV, 18). Luce splendente e perfetta sono gli insegnamenti della fede, gli esempi che ci ha lasciati Gesù Cristo. Seguendo questi la nostra vita spirituale si rafforzerà di giorno in giorno.
3.
« La mente del credente assume le ali della fede, affinché, sollevato dalla terra e tutto assorto nello spirito possa comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza e la lunghezza e la profondità della scienza di Dio» (S. Gaudenzio di Brescia. Sermo 14, De div. cap. 4). Il credente, sull’ali della fede animata dalla carità, s’inoltra sempre più, per quanto a mente umana è possibile, nella cognizione di Dio e di quell’amore di Cristo, senza misura, che Egli ci ha dimostrato nell’Incarnazione. La sempre maggior cognizione di Dio, del suo amore immenso servono mirabilmente a far progredire il Cristiano nella sua vita spirituale; poiché quanto più conosciamo Dio, tanto più siamo spinti ad amarlo, con un amore che dia vita a tutte le nostre azioni. Come un albero, per mezzo dalle radici assorbisce l’umore che gli dà vita e incremento; così per mezzo della carità, o amor di Dio, il Cristiano vive e consolida la sua vita interna. L’amor di Dio fa trovar più gusto nella preghiera, nei sacramenti nell’ascoltar la parola del Vangelo, che non nei perditempi e nelle dissipazioni del mondo. L’amor di Dio fa preferire la mortificazione, il distacco dai beni terreni, le opere di misericordia, ai godimenti dei sensi, alla cupidigia, ai divertimenti pericolosi. L’amor di Dio dà il coraggio di mostrarsi pubblicamente Cristiani fra i motteggi e i sarcasmi del mondo; dà la costanza fra le dure prove. L’Apostolo chiede a Dio non solo che gli Efesini abbiano la carità, ma chiede che siano profondamente radicati e fondati nella carità, « affinché — come nota il Crisostomo — non possa essere smossa dai venti, né abbattuta da qualsiasi altra forza » (In Ep. ad Efes. hom. 7, 2). La maggior conoscenza di Dio e del suo amore immenso per noi ci renderà sempre più irremovibili nella buona via intrapresa. Fede viva e carità ardente ci renderanno saldi come quegli alberi che resistono all’infuriare di tutti i venti; e, passata la tempesta, sollevano la cima in atto di tendere sempre più in alto, al cielo. Dio non ci negherà il chiesto aiuto, Egli che può fare tutto infinitamente di là di quanto noi domandiamo o possiamo. Noi da parte nostra ricordiamoci che chi più lavora, più raccoglie.
Graduale
Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore, e tutti i re della terra la tua gloria.]
V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua. [Poiché il Signore ha edificato Sion e sarà veduto nella sua maestà.]
Alleluja
Allelúja, allelúja
Ps XCVII: 1
Cantáte Dómino cánticum novum: quia mirabília fecit Dóminus. Allelúja. [Cantate al Signore un cantico nuovo: perché Egli fece meraviglie. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIV: 1-11
In illo témpore: Cum intráret Jesus in domum cujúsdam príncipis pharisæórum sábbato manducáre panem, et ipsi observábant eum. Et ecce, homo quidam hydrópicus erat ante illum. Et respóndens Jesus dixit ad legisperítos et pharisaeos, dicens: Si licet sábbato curáre? At illi tacuérunt. Ipse vero apprehénsum sanávit eum ac dimísit. Et respóndens ad illos, dixit: Cujus vestrum ásinus aut bos in púteum cadet, et non contínuo éxtrahet illum die sábbati? Et non póterant ad hæc respóndere illi. Dicebat autem et ad invitátos parábolam, inténdens, quómodo primos accúbitus elígerent, dicens ad illos: Cum invitátus fúeris ad núptias, non discúmbas in primo loco, ne forte honorátior te sit invitátus ab illo, et véniens is, qui te et illum vocávit, dicat tibi: Da huic locum: et tunc incípias cum rubóre novíssimum locum tenére. Sed cum vocátus fúeris, vade, recúmbe in novíssimo loco: ut, cum vénerit, qui te invitávit, dicat tibi: Amíce, ascénde supérius. Tunc erit tibi glória coram simul discumbéntibus: quia omnis, qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.
Omelia II
[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino, 1921]
SPIEGAZIONE XLIV.
“In quel tempo Gesù entrato in giorno di sabato nella casa di uno de’ principali Farisei per ristorarsi, questi gli tenevano gli occhi addosso. Ed eccoti che un certo uomo idropico se gli pose davanti. E Gesù rispondendo prese a dire ai dottori della legge e ai Farisei: È egli lecito di risanare in giorno di sabato? Ma quelli si tacquero. Ed egli toccandolo lo risanò, e rimandollo. E soggiunse, e disse loro: Chi di voi, se gli è caduto l’asino o il bue nel pozzo, non lo trae subito fuori in giorno di sabato? Né a tali cose poterono replicargli. Disse ancora ai convitati una parabola, osservando com’ei si pigliavano i primi posti dicendo loro: Quando sarai invitato a nozze, non ti mettere a sedere nel primo posto, perché a sorte non sia stato invitato da lui qualcheduno più degno di te: e quegli che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedi a questo il luogo; onde allora tu cominci a star con vergogna nell’ultimo posto. Ma quando sarai invitato va a metterti nell’ultimo luogo, affinché venendo chi ti ha invitato, ti dica: Amico, vieni più in su. Ciò allora ti fia d’onore presso tutti i convitati. Imperocché chiunque si innalza, sarà umiliato; e chi si umilia sarà innalzato”.
Chi per poco considera la vita pubblica di nostro Signor Gesù Cristo, riconosce tosto, che la maggior parte dei suoi miracoli furono da Lui operati in giorno di sabbato. E il giorno di sabbato nell’antica legge, presso gli Ebrei, era il giorno festivo, al quale nella legge nuova dagli Apostoli, a ricordare i grandi misteri della Risurrezione di Gesù Cristo e della Pentecoste, fu sostituito il giorno di Domenica, che vuol dire appunto giorno del Signore. E perché mai il Salvatore fece preferibilmente i suoi miracoli in giorno di sabato? Soprattutto per due ragioni. La prima: per reagire contro i pregiudizi degli Ebrei, i quali dell’osservanza del sabbato erano andati a tale eccesso da contare sino a 39 i lavori interdetti in quel giorno e di aver formulate sino a 1279 regole in proposito! Così ogni miracolo operato da Gesù Cristo in giorno di sabbato faceva sentire agli Ebrei che il rigorismo dei loro Dottori della legge era un’esagerazione, e che l’amor di Dio e l’amor del prossimo debbono vincerla sulla legge del riposo, che è puramente positiva. La seconda poi, perché nel giorno di sabbato, in cui il popolo si asteneva dal lavoro, più facilmente poteva vedere ancor esso quei miracoli ed ascoltare le istruzioni, con cui li accompagnava. Imperciocché, dice San Giovanni Grisostomo, per quanto grande fosse la modestia del Salvatore, pure non tralasciava di provvedere a che i suoi miracoli non passassero inosservati, né potessero essere invocati in dubbio, onde confermare così sempre più efficacemente la dottrina, che andava predicando. Or bene il miracolo, che ci racconta il Vangelo di questa domenica, sebbene da Gesù Cristo operato in una casa privata, fu tuttavia operato in giorno di sabbato, e specialmente per la prima delle ragioni sopradette.
1. In quei tempi adunque, – dice il Vangelo – Gesù Cristo entrato in giorno di sabbato nella casa di uno dei principali Farisei per ristorarsi, questi gli tenevano gli occhi addosso. Or bene, che i Farisei, nemici dichiarati del Redentore, attentamente lo spiassero non ci deve recar meraviglia: già molte volte nel Vangelo abbiamo potuto conoscere la perfida condotta di questi maligni ipocriti contro di Gesù. Ciò che può far meraviglia sono queste due cose: la prima, che Gesù accetti di andar a pranzo; la seconda accetti di andarvi presso uno dei principali Farisei. Riguardo a quest’ultima osserva tosto San Cirillo, che Gesù accettò l’invito in quella casa allo scopo di essere utile a quei che vi erano presenti e con le parole e con i miracoli. Riguardo poi alla prima, Gesù ha voluto farci intendere che non è proibito anche ad un buon Cristiano il prender parte a qualche onesta allegria. Adunque sull’esempio del Figliuol di Dio un Cristiano può accettare qualche invito, che gli venga fatto, e sedere ad un banchetto. Simili adunanze non sono in se stesse cattive, e possono contribuire a stringere i vincoli, che uniscono le famiglie, ed a perpetuare fra parenti e vicini una dolce ed edificante armonia. I primi Cristiani avevano le loro agapi, ossia sacri banchetti, in cui i ricchi alimentava i poveri e con essi sedevano a mensa facendo per tal modo scomparire ogni distinzione sociale, e guardandosi davvero come fratelli e figliuoli d’un medesimo Padre, che è nei cieli. Ciò che tuttavia Gesù Cristo non intende assolutamente di approvare col suo esempio sono quei banchetti, in cui regna la prodigalità e la gozzoviglia, quei pasti in cui non si cerca altro che d’accontentare la gola. Difatti nel sacro testo del Vangelo è detto, che Gesù Cristo accettò di andare dal Fariseo manducare panem, per mangiare il pane, ossia quasi per prendere soltanto quel cibo, che da tutti è stimato di prima necessità. Quanti invece vi hanno fra i ricchi, i quali in un banchetto spendono e sprecano centinaia e migliaia di lire, che con tanta utilità potrebbero impiegare a soccorrere i poveri! Quanti poi vi sono tra i Cristiani, i quali dominati dallo sregolato amore al mangiare ed al bere si danno agli eccessi, ai disordini, alle ingordigie, a servire insomma, a contentare la gola. Eppure quanto detestabile è questo vizio! Ha detto molto bene un antico, che la gola uccide uomini più della spada; ed in vero questo vizio trae all’ubriachezza, all’intemperanza, alla disonestà, cose tutte che logorano il corpo, lo rendono infermo, e lo spingono precocemente alla tomba. E non è dunque una vergogna per un uomo ragionevole lasciarsi vincere dalla gola, anziché reprimerne gli stimoli? La gola inoltre porta al disprezzo delle leggi della Chiesa. Quando si ha questo vizio, non si è disposti gran fatto a praticare il digiuno e le altre astinenze ordinate dalla Chiesa; s’ignora che cosa voglia dire mortificazione, sembrano giogo insopportabile le leggi, che ordinano certe privazioni, si cercano pretesti per dispensarsene, e si viene non solo a violare il precetto del digiuno, ma anche a mangiare senza scrupoli cibi vietati. Da ultimo, la gola è cagione di contese. Dall’intemperanza nascono le querele, i risentimenti e le violenze. Ce ne fa fede lo Spirito Santo nella Scrittura dicendo: A chi dirassi misero? per chi i precipizi, le querele e le cadute? per chi le ferite? se non per coloro che passano il tempo a bere? e pongono il loro piacere nel vuotare tazze? – Bisogna adunque abborrire un vizio sì indegno dell’uomo e molto più del Cristiano. Nel mangiare pratichiamo la cristiana sobrietà, la virtù che ci regola nel bere e nel mangiare secondo il bisogno, la virtù che rende più robusto il corpo e più lunga la vita. Vigiliamo su noi stessi per non sorpassare i limiti del bisogno in un’azione, che di per sé tende ad assecondare la natura. Un Cristiano considera il cibo come una necessità, non pensa quindi all’avidità o alla sensualità, sfugge la delicatezza e lo squisito di ciò che solletica i sensi: a dir breve pensa ad imitare Gesù Cristo, che ha voluto assoggettarsi a quest’azione per esserci modello, ed ha sempre presente l’avviso salutare che Egli dà nel Santo Vangelo: « Vigilate attentamente su voi stessi, perché i vostri cuori non diventino pesanti a cagione delle troppe carni e del troppo vino, ed improvvisamente non vi colga il giorno del Signore ». (Luc. XXI, 34). – E il miglior mezzo per farci ricordare le regole della sobrietà, e darci forza di seguirle, si è dire bene l’orazione prima e dopo il pranzo o la cena. Se alcuno non avesse ancora questa santa pratica, la prenda tosto, imperciocché con siffatto modo trarremo su noi la benedizione di Dio ed otterremo la grazia di non offenderlo.
2. Dice in seguito il Vangelo: « Ed eccoti che un certo uomo idropico se gli pose davanti ». Non dice adunque in che modo fosse là entrato, quindi è che molti commentatori della Sacra Scrittura pensano che esso fosse stato posto maliziosamente in presenza del Salvatore dagli stessi Farisei, per vedere se lo guarisse ad onta del giorno di sabbato. In questo caso non avrebbero mancato di fargliene un delitto. E quanto allo stesso infermo, S. Cirillo pensa ch’egli non osò chiedere al Salvatore la sua guarigione, rattenuto come era dal timore dei Farisei, ma che essendo a Lui innanzi sperava muoverlo a compassione e riceverne la sanità. Ma il divin Salvatore, a cui nulla è occulto, e che scruta le reni e i cuori, vide quel che nell’animo loro pensavano i Farisei, là convenuti; epperò ancorché essi non gli avessero mossa alcuna domanda « … rispondendo prese a dir loro: È egli lecito di risanare in giorno di sabbato? Bastò questa interrogazione per metterli nel massimo imbarazzo. Se rispondono: No, non è permesso sanare in giorno di sabbato, e il Salvatore se ne astiene, eglino niente hanno a rimproverargli; se all’opposto dicono: È permesso, non possono più accusarlo d’essere un prevaricatore e di calpestare indegnamente la legge di Mosè. Eccoli dunque ridotti al silenzio. Nell’odio del loro cuore, nella gelosia che li rodeva, volevano tendere un laccio al Salvatore, fargli commettere ciò che avrebbero chiamato una colpa, un delitto. Ed il Salvatore con una sola parola li sconcerta; niente sanno rispondere alla divina interrogazione. Ma quelli tacquero, dice il Vangelo. – Allora il Salvatore interpretando il loro silenzio in un senso affermativo, « … toccando il poverello, lo risanò e lo rimandò a casa. » E così nostro Signor Gesù Cristo fece chiaramente intendere quale sia lo spirito del precetto del riposo festivo, che cioè se Iddio nel giorno di festa proibisce le opere servili, non intende proibire la pratica del bene e l’esercizio della carità, che anzi per ciò appunto sono proibite le opere servili, affinché l’uomo più liberamente possa consacrare i suoi pensieri, le sue parole, le sue opere nell’amor di Dio e del prossimo. Difatti, operato che ebbe il miracolo, Gesù Cristo rivoltosi a quei Farisei, che là erano presenti « soggiunse: Chi di voi, se gli è caduto l’asino o il bue nel pozzo, non lo trae subito fuori anche in giorno di sabbato? » Né crediate, o miei cari, che Gesù Cristo rivolgesse qui una domanda strana. In oriente è assai facile che un asino od un bue possa cader nel pozzo, perché i pozzi sono larghi assai e senza riparo di sorta, e ben sovente l’asino e il bue sono impiegati a far girare l’apposito meccanismo per attinger l’acqua. La domanda adunque del Redentore era assai a proposito, ed era di tal forza « … che non potevano replicargli ». Imperciocché era un dir loro: Come! o Farisei ingiusti, voi vi credete autorizzati ad interrompere il riposo del giorno festivo per salvare la vita ad un animale senza intelligenza, ed oserete condannar me, perché pratico la carità a riguardo di un uomo? Ed un uomo sarebbe dunque meno di una bestia? Ecco dunque perché a questo ragionamento non sapevano rispondere parola. Non dimentichiamo adunque il vero spirito del precetto, che riguarda il giorno del Signore. – In questo giorno dobbiamo fare ancor maggior bene che negli altri, e dare a Dio dei segni più numerosi della nostra riconoscenza ed amore. Il giorno festivo appartiene a Dio, perché accordandoci gli altri giorni pei nostri affari materiali si è riservato questo. Ma Egli vuole che nel giorno festivo, lasciando da banda ogni opera servile, ci occupiamo soprattutto in ciò che spetta alla sua gloria, agli interessi dell’anima nostra ed all’adempimento delle opere di carità cristiana. Perciò oltre l’ascoltar bene la santa Messa e la parola di Dio, oltre al pregare con maggior fervore del solito ed al far buone letture, il visitare ed assistere gli infermi, il consolare gli afflitti, il far elemosine ai poveri, il prestar qualche soccorso a chi ne avesse bisogno sono pure opere bellissime, con le quali possiamo decorare dinanzi a Dio ed agli uomini il giorno festivo: epperò presentandocene l’occasione non ce la lasciamo sfuggire.
3. Osserva poi S. Gregorio che con ragione il Figliuol di Dio guarì quell’idropico in presenza dei Farisei, giacché dalla corporale malattia dell’uno era figurata la malattia della mente e del cuore degli altri. Ed in vero la terribile malattia dell’idropisia, che consiste in una enfiagione del corpo per radunamento di cattivi umori in qualche parte del corpo medesimo, è l’immagine dell’enfiagione spirituale, da cui erano travagliati i Farisei a cagione soprattutto di tre umori maligni che in misura sovrabbondante si adunavano nella loro mente e nel loro cuore, vale a dire l’invidia, l’interesse e la superbia. Di fatti quei maligni, ancorché alla presenza di Gesù si rimanessero muti, non lasciavano poi, Lui assente od in mezzo al popolo, di fargli continui rimproveri, perché operasse miracoli e guarisse infermi in giorno di sabbato. E perché tenevano riguardo a Gesù tale condotta? Perché anzitutto erano divorati dall’invidia. Essi vedevano i felici successi del divin Salvatore, come il popolo sempre più gli si stringeva dappresso per i grandi miracoli che andava operando, epperò non vi voleva di più per rinfiammare del continuo la loro invidia contro di Lui, e per seguire il partito che avevano preso, di biasimare tutto quel che faceva nostro Signore. Oh qual trista consigliera è adunque l’invidia! Guardiamoci bene dal porgere orecchi alla perfida sua voce: essa ci renderebbe veramente ingiusti, guasterebbe il nostro intelletto, e falserebbe il nostro giudizio. Allontaniamo con grande premura codeste nubi dell’invidia, per timore, come dice il profeta Isaia (V, 12), che non pigliamo il bene per il male e il male per bene, che diamo alle tenebre il nome di luce, e alla luce quello di tenebre; che facciam passar per dolce ciò ch’è amaro e per amaro quello ch’è dolce. Se troviamo in noi questo vizio orribile, affrettiamoci a respingerlo, come respingeremmo il serpe che assalisse il nostro seno per roderlo. – In secondo luogo i Farisei oltre all’essere invidiosi, erano anche interessati ed avidi, poiché se in giorno di sabbato si sarebbero adoperati a salvare la loro bestia da soma, mentre invece acconsentivano di lasciare un povero infermo in preda ai cocenti suoi dolori, si è che in essi l’interesse, l’amor del denaro, l’avarizia la vinceva sulla carità. E così, o miei cari, si ha da dire lo stesso di tanti ricchi ai giorni nostri. Essi hanno una cura straordinaria, e direi pazza, pei loro cavalli e pei loro cani; impiegano delle somme vistosissime per ben nutrirli; se osassero li metterebbero a tavola con loro, come fece appunto Caligola col suo cavallo di nome Incitato; ma che cosa fanno a prò di tanti poveri, che soffrono nell’indigenza e nelle infermità? Che gran conto dovranno rendere a Dio questi signori! Ma quanti altri vi sono ancora, i quali sebbene non tanto ricchi, potrebbero tuttavia fare qualche elemosina, eppur non la fanno per amor del denaro, che talvolta vanno accumulando, anche facendo una vita stentata e misera! Anche costoro non devono temer meno i giudizi di Dio. Finalmente ciò che travagliava in modo speciale i Farisei era la superbia. Fieri della loro vana scienza, pieni di pretensione e di sdegno pei loro fratelli, orgogliosi al sommo, essi dappertutto cercavano i primi posti e segni di particolare rispetto. Anche in questa circostanza ne avevano dato prova e lo stesso divin Redentore aveva osservato come entrando nella sala del convito taluni si erano affannati per avere i primi posti. Così che voltosi ai convitati diceva ancor loro come per parabola: Quando sarai invitato a nozze, non ti mettere a sedere nel primo posto, perché potrebbe darsi che fosse stato invitato dal padrone di casa qualcheduno più ragguardevole di te, e in tal caso il padrone verrebbe a dirti: Cedi a questo il tuo luogo; e tu allora cominceresti a star con vergogna nell’ultimo posto. Quando adunque sarai invitato, va a metterti nell’ultimo posto, affinché venendo colui che ti ha invitato, ti dica: Amico, vieni più in su. Ciò allora ti sarà di onore presso tutti i convitati. Imperocché chiunque si innalza, sarà umiliato, e chi si umilia, sarà esaltato. Per tal guisa il divin Redentore condannava la superba condotta dei Farisei e faceva comprendere come la superbia sia ordinariamente punita anche quaggiù con la confusione e con la vergogna. Ed in vero colui che sopra di questa terra va in cerca di onori con tanta avidità, oltre al dispetto che prova nell’incontrare dei rivali o degli ostacoli, che costringono la sua ambizione a fermarsi, quando pure egli è arrivato a conseguire l’onore ambito, con molta facilità lo perderà, e con tanta maggior vergogna e confusione, quanto più alto era l’onore che aveva conseguito. Ad ogni modo quand’anche il Signore permetta, che il superbo goda su questa terra sino all’ultimo la soddisfazione del suo orgoglio, egli è certo che immensa ed eterna sarà la vergogna e la confusione a cui condannerà il superbo nel giorno dell’universale giudizio. Il superbo, che nel mondo si tenne dappiù degli altri, che gli altri guardò con disprezzo, che agli altri volle sempre andar innanzi, allora separato da coloro che in vita furono veramente umili, si vedrà e sarà veduto da tutti in tutta quanta la sua nullità e miseria, perciocché invano chiamerà i monti a riversarsi sopra di lui e a ricoprire la sua ignominia. Iddio vorrà allora nella sua giustizia far pubblicamente conoscere e castigare la stoltezza del superbo, adempiendo la sua parola: Chi si innalza sarà umiliato. Miei cari giovani e cari Cristiani, guardiamoci adunque da questo detestabile vizio. Non cerchiamo, no, di comparire in faccia agli uomini, di metterci innanzi, di far sapere e valere i nostri meriti, che con tutto ciò noi lavoreremmo a nostro danno. Amiamo invece la vita nascosta, amiamo sinceramente di essere creduti capaci a poco, di non essere presi in considerazione, e per tal modo ci prenderà in considerazione Iddio, e facendoci un dì risplendere della sua luce celeste al cospetto dell’universo, adempirà anche per noi l’altra parte della sentenza: chi si umilia, sarà innalzato.
Credo…
Offertorium
Orémus
Ps XXXIX: 14; 15
Dómine, in auxílium meum réspice: confundántur et revereántur, qui quærunt ánimam meam, ut áuferant eam: Dómine, in auxílium meum réspice. [Signore, vieni in mio aiuto: siano confusi e svergognati quelli che insidiano la mia vita per rovinarla: Signore, vieni in mio aiuto.]
Secreta
Munda nos, quǽsumus, Dómine, sacrifícii præséntis efféctu: et pérfice miserátus in nobis; ut ejus mereámur esse partícipes. [Puríficaci, Te ne preghiamo, o Signore, in virtù del presente Sacrificio, e, nella tua misericordia, fa sí che meritiamo di esserne partecipi].
Communio
Ps LXX: 16-17;18
Dómine, memorábor justítiæ tuæ solíus: Deus, docuísti me a juventúte mea: et usque in senéctam et sénium, Deus, ne derelínquas me. [O Signore, celebrerò la giustizia che è propria solo a Te. O Dio, che mi hai istruito fin dalla giovinezza, non mi abbandonare nell’estrema vecchiaia.]
Postcommunio
Orémus.
Purífica, quǽsumus, Dómine, mentes nostras benígnus, et rénova coeléstibus sacraméntis: ut consequénter et córporum præsens páriter et futúrum capiámus auxílium. [O Signore, Te ne preghiamo, purifica benigno le nostre anime con questi sacramenti, affinché, di conseguenza, anche i nostri corpi ne traggano aiuto per il presente e per il futuro].
Per l’Ordinario della Messa vedi:
https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/