IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (18)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (18)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo settimo

LA MORALE CRISTIANA E LA MORTE.

Celebre tra i fautori del teatro d’eccezione è la tragedia di Leonida Andreieff: La vita dell’uomo. I suoi cinque quadri ci presentano i momenti più significanti della vita: non della vita di uno speciale uomo, che porti sul volto il tormento di passioni sue proprie, ma della vita dell’uomo in genere, che nasce, spera, raggiunge, perde ciò che ha conquistato, e muore..Noi udiamo il grido che manda la sua madre straziata, quando l’uomo nasce. E dall’oscurità emerge allora una figura grigia. Essa regge una torcia, che in quel punto si accende. Dalla notte del non essere è sgorgata una luce: arde la brief candle di Shakespeare. E per tutta la tragedia questa torcia lentamente si consuma. Sfavilla, dapprima, chiara, fra le danze della giovinezza; brilla ancora, in seguito, fulgida, tra le speranze, le disillusioni, i contrasti, la fortuna che giunge, la ricchezza che sfuma, la fama che avvizzisce, l’ingegno che isterilisce, la scomparsa dei parenti. La cera frattanto va consumandosi sempre più. Viene il giorno in cui la torcia dà un guizzo e si spegne: « Silenzio! — grida la figura grigia — l’uomo è morto ». È proprio questa la realtà? Sì e no. – Se il granellino di frumento non cade a terra e non muore, non darà frutto — ha detto Gesù nel Vangelo; — se invece morrà, porterà molto frutto. La morte cristiana non solo insegna a vivere, ma c’insegna anche a morire. E la morte ce la fa contemplare non solo alla luce d’una torcia che si consuma, alla fiammella tenue d’una candela benedetta che proietta il suo pallido raggio sul granello di frumento che marcisce, ma alla luce altresì del sole radioso dell’Amore, che lascia la spiga matura, destinata ad essere transustanziata in Cristo. – Dinanzi alla figura di Socrate, eroicamente bella e dignitosa, che muore in carcere, Platone sussurrava: « La filosofia è la meditazione della morte. Dinanzi alla croce di Cristo, divinamente grande, la morale nostra ripete ancora una volta che bisogna morire per vivere, bisogna saper cristianamente morire per passare ad una vita nuova, beata ed eterna.

I. – Il Cristianesimo e la morte.

Il Cristianesimo considera anche la morte in funzione del concetto di amore. A prima vista, questo pare impossibile ed assurdo. La morte è spaventosa, orribile, terribile, diceva già Aristotele. La distruzione del nostro organismo, la separazione dell’anima dal suo corpo; l’abbandono di quanto ci è caro, delle persone alle quali ci legano vincoli di sangue e d’affetto, della terra che ci ha visti nascere, delle cose tutte che ci circondano; l’incertezza buia dell’al di là; tutto ciò non può a meno di suscitare in noi un fremito di raccapriccio e di repulsione. Come mai si potrà quindi parlare di morte in rapporto all’Amore? Eppure basta riflettere un istante, perché la scena si cambi. Noi non avremmo dovuto morire. L’Amore infinito di Dio non ci aveva destinati agli orrori della morte. Fu la colpa del primo uomo, fu la ribellione all’Amore, che introdusse la morte nel mondo. E se la morte è brutta e orribile, lo è in quanto si ricollega alla negazione dell’Amore. – Ogni volta — anche nell’ordine naturale — che la morte non calpesta l’amore, ma lo afferma in qualsiasi dose, in qualsiasi grado, in qualsiasi modo, essa si trasfigura, assume un nuovo aspetto, diventa spesso « la bella morte ». Se una madre si sacrifica e muore per il figlio; se un soldato cade sul campo dell’onore per la patria; se uno scienziato trova un sepolcro nel laboratorio delle sue ricerche, noi ci accorgiamo che un raggio di amore, sia pure umanamente buono, muta la faccia della triste megèra in un fulgente e luminoso volto di gloria. – Ma è specialmente nell’ordine soprannaturale che ciò si verifica, e dovrebbe verificarsi per ogni credente. È qui che Francesco d’Assisi esprime la verità dell’etica cristiana con una frase sublime: « Sorella Morte », dando alla morte un appellativo di amore. La morale cristiana vissuta e praticata dai santi e dai suoi fedeli seguaci subito ci convince coi fatti della trasformazione che l’Amore infinito di Dio compie della morte. « Erano gli ultimi giorni di santa Teresa — narra il biografo, P. De Riberia. — Quando vide entrare il santo Sacramento nella sua cella, tutto in lei si trasformò. Sebbene già da tempo profondamente abbattuta ed una prostrazione mortale le impedisse di fare il più piccolo movimento, pure si alzò a sedere sul letto senza essere sorretta da alcuno. Parve che volesse slanciarsi incontro all’Ostia che veniva, e fu necessario tenerla. Il viso le divenne bellissimo ed acceso come il viso d’un Angelo; le erano scomparse perfino le rughe e tutti i segni della vecchiaia e della malattia. Uscì allora dal suo cuore quel grido di fede, di speranza, d’amore, uno dei più commossi che siano stati emessi sopra la terra: « Signore! era tempo di vederci ». Poi chiuse gli occhi; spirò e vide il Signore ». – Una figlia della grande mistica santa Teresa, sul letto delle sue agonie esclamava: « O dolce morte, chi ha osato dire che tu sei amara e triste? Non vi è gioia da paragonare a quella che tu porti. O mio Gesù! quale ingiusta calunnia trattare la morte come amara! Essa è la porta per la quale si entra e si viene a godere Voi! Come si capisce, mio caro Maestro, che Voi siete passato per essa e le avete tolto, tutta l’amarezza ». – Santa Gertrude cadde da un’altezza pericolosa ed esultante gridò: « O mio dolce Signore, quale ventura sarebbe stata per me, se questa caduta mi avesse abbreviata la strada per giungere a Voi ». San Giovanni della Croce, prima di morire, fece chiamare nella povera cella del convento ospitale alcuni suonatori, perchè festeggiassero con armonie di giubilo il suo volo a Dio. – Padre Ravignan, al medico che gli parlava di guarigione, rispose: « Oh, perchè non mi discorrete della morte? È così bello morire, per andare a vedere Dio! ». Lacordaire si spense mormorando: « Mio Dio, apritemi, apritemi! ». Camillo Féron-Vrau, prima di chiudere gli occhi alla vita, guardò il Confessore, gli sorrise e gli sussurrò: « Al Cielo! Al Cielo! ».

Il 7 ottobre 1928 moriva a Roma Giulio Salvadori, poeta della bellezza di Dio e professore dell’Università Cattolica del sacro Cuore. Alla vigilia della sua morte disse al fratello che l’assisteva: « Domani mi vestirai con gli abiti più belli, perché incomincia la mia festa». Mille e mille Santi ripetono col Suarez morente: « Non avrei mai pensato che fosse cosa così dolce il morire ». – San Carlo Borromeo passò un giorno davanti ad un quadro, che rappresentava la morte armata d’una falce. La fece cancellare ed ordinò al pittore di dipingerla con una chiave d’oro in mano. Al buon Cristiano la morte non apre forse il Paradiso? « Introibo ad altare Dei », disse salendo i gradini del patibolo una vittima del Terrore, il beato Natale Pinot. Ed in quel 21 febbraio 1794, rivestito degli indumenti sacerdotali, la ghigliottina era il suo altare ed il sacrificio cominciava con le stesse parole della Messa. Non a torto il Curato d’Ars si lamentava spesso: « Perché non si scrive un libro sulle consolazioni della morte? ». – Ecco un voto, che sorge spontaneo leggendo il tramonto placido e sereno dei Santi. Se qualcuno prendesse le loro biografie e ne stralciasse la descrizione della loro morte, comporrebbe un volume che sarebbe per molti una rivelazione. Limitiamoci a due quadri: la morte di San Francesco e quella di santa Teresa di Lisieux. – « All’alba del due ottobre, un venerdì — scrive Maria Sticco in una delle migliori vite moderne che abbiamo del Santo d’Assisi — san Francesco, dopo aver passato una notte di spasimi, sedette sul saccone, si fece portare del pane, lo benedisse, ordinò che lo spezzassero in tante parti quanti erano i presenti e poi ne distribuì con le sue mani un pezzetto a ciascuno, per ricordo dell’ultima cena di Cristo e per significare che anch’egli, come il Maestro, amava i suoi fino alla fine e sarebbe stato pronto a morire per loro e quasi voleva trasmettere qualche cosa di sé, sensibilmente, a loro. Ormai davvero tutto era compiuto. Il sabato peggiorò, e verso sera, sentendosi morire, intonò il salmo che comincia: « Voce mea ad Dominum clamavi… Alzo la mia voce al Signore… » e lo proseguì cantando, finché Sorella Morte non gli spense la voce ». – La piccola santa di Lisieux aveva compreso che la sua « vocazione » era « l’Amore ». Si era offerta vittima d’amore a Dio, invocando « il martirio del cuore e del corpo » ed era stata esaudita. « Non contenta di coprir di rose le piaghe del suo Crocifisso, — disse bene padre Mathéo — essa riuscì perfettamente a nascondere gli strazi della sua anima, le pene torturanti del suo spirito, i lunghi e vivi dolori della sua ultima malattia, sotto il velo grazioso dei suoi sorrisi, della sua dolcezza, della sua gaiezza. Ebbe, cioè, il divino pudore della bellezza del suo martirio di amore ». « Soffre molto?… » le chiedevano le buone Suore. « Sì, ma l’ho tanto desiderato!… Ogni sofferenza m’è dolce ». I mesi passavano e il martirio diveniva sempre più torturante. « La marea del dolore — racconta una Suora del suo Monastero — si sollevava ognor più; la debolezza divenne così eccessiva, che la santa malata si ridusse a non poter far da sè il minimo movimento. L’udire parlare anche a voce bassa le diveniva insopportabile sofferenza; la febbre e l’oppressione non le permettevano di proferire una sola parola senza estrema fatica. Ma anche in quello stato il sorriso non abbandonò le sue labbra. Se una nube le sfiorava la fronte, era il timore di crescere alle nostre sorelle il disagio. Fino all’antivigilia della sua morte, volle star sola di notte; ma l’infermiera che si levava più volte, nonostante le sue istanze di non farlo, in una delle visite la trovò con le mani giunte e con gli occhi sollevati al cielo. — Ma che fa ella mai così? — le domandò. — Dovrebbe provarsi piuttosto a dormire. — Non posso, sorella mia; soffro troppo. Ed allora prego. — E che cosa dice a Gesù? — Non gli dico nulla: io l’amo! Nel luglio 1897 sembrò che la morte fosse imminente. Un giovane sacerdote, recatosi a Lisieux nel Monastero, per celebrarvi piamente la sua prima Messa, ebbe la fortuna di portare il Viatico alla piccola grande Santa. Le buone suore coprirono il pavimento del chiostro, dove doveva passare Gesù, con fiori di campi e con rose sfogliate. Il cuore dell’ammalata ricevette il suo Diletto e volle che Suor Maria dell’Eucaristia — una Suora la cui voce melodiosa aveva delle vibrazioni celesti — cantasse: Deh! compi il sogno mio, dolce Signore: Morir d’amore! Qualche giorno dopo, la piccola vittima di Gesù Si sentì peggio e le venne amministrata l’Estrema Unzione. Ma la morte tardò due mesi ancora. Solo il 30 settembre 1897 doveva spuntare l’aurora del giorno eterno. La mattina, Suor Teresa guardò la statua di Maria, sussurrando: L’aria della terra mi manca; quando mi sarà dato di respirare quella del Cielo? ». Alle quattro e mezzo si manifestarono i sintomi dell’estrema agonia. Come si usa presso le Carmelitane, la comunità si raccolse intorno alla morente. Essa la vide entrare nella cella; e l’accolse e la ringraziò col suo angelico, amabile sorriso. Poi, tutt’assorta nell’Amore e tutta immersa nel suo dolore, intraprese il combattimento supremo, stringendo, come poteva, fra le mani, il Crocefisso. Tremava tutta. Il volto era asperso di sudore copioso. E l’occhio, quando la campana del Monastero sonò l’Ave Maria della sera, si posò sulla Vergine Immacolata. La morte non giungeva ancora. Alle sette e qualche minuto, con voce soave, mormorò: « Ah, no, non vorrei soffrir meno! ». Poi, fissando il tenero sguardo sul suo Crocifisso, esclamò: « Oh, io l’amo!… O mio Signore, io… vi… amo! ». « Furono queste le sue ultime parole. Aveva appena finito di pronunciarle, che, con nostra grande sorpresa, ella si abbandonò d’un tratto, con la testa piegata sulla dritta, nell’attitudine di quelle vergini martiri che si offrivano da se stesse al taglio della spada, o meglio come una vittima d’amore, che aspetta dall’Arciere divino il dardo infiammato di cui essa vuole morire. Improvvisamente si sollevò, come se una voce misteriosa l’avesse chiamata; aprì gli occhi, e il suo sguardo, irradiato di pace celeste e di indicibile felicità, si fissò un poco al di sopra dell’immagine di Maria. Questo sguardo si protrasse per lo spazio d’un Credo, poi la sua anima beata, fatta preda dell’Aquila divina, volò nei cieli..

2. – L’importanza dell’ora suprema.

Questi pallidi e rapidi cenni intorno alla morte dei santi potranno ispirare a qualcuno un dubbio. — Ma come? La morale cristiana non accende forse accanto al letto del morente la face del terrore, degli ultimi giudizi, dell’inferno e del fuoco eterno? Noi non sapevamo che i sudori di morte dovessero essere illuminati dalla luce dell’Amore! Questo dubbio è una stoltezza. Può forse concepire l’etica nostra un terrore che sia scopo a se stesso? Il « timor Domini », che è il principio d’una sapienza spesso trascurata nell’attività giornaliera e fra le dissipazioni della vita, e solo inizialmente appresa al termine di questa, non ha altra aspirazione ed altra finalità, se non l’Amore. Perché il rimorso sul letto delle ultime agonie? Perché il sacro e severo dovere dei parenti e degli amici di non tradire l’anima che sta per presentarsi a Dio, ma di avvertirla del grave pericolo? Perchè il pentimento delle colpe commesse al chiudersi della vita?… Tutto questo è voluto dall’Amore — dall’amore per Dio e dall’amore per il fratello che ci abbandona. La morte è « il momento dal quale dipende l’eternità ». Stolto è chi lo profana e lo sciupa! È l’ora suprema, quella in cui il peccatore più ostinato può riparare un passato di miserie e di fango. È l’ora delle misericordie divine. È l’ora dell’Amore. – Il Crocefisso, che l’agonizzante bacia, gli sussurra: « Figliolo, guarda le mie braccia! Sono aperte per accoglierti, per stringerti al mio Cuore… Guarda questo mio Cuore trafitto: rifugiati nella sua ferita: vieni al bacio del perdono dell’Amore! Abbi pietà di te stesso! Salva l’anima tua! Ama Dio, almeno in questi ultimi istanti che ti sono concessi ». E non è questo il dolce appello dell’Amore? Ma non soffermiamoci alla pecorella smarrita, che il buon Pastore cerca ansiosamente, prima della morte. Vediamo, piuttosto, come la morale cattolica vuole che abbia a morire il buon Cristiano.

3. – Come muore un Cristiano. La morte, innanzi tutto, è in genere preceduta dal dolore. Sarà la malattia, saranno i sacrifici d’una vita di battaglie, saranno indisposizioni di salute, continue e aggravantisi, che annunciano l’avvicinarsi della fine. Il Cristiano, incorporato a Gesù, santifica tutti questi dolori. Non solo si confessa, per essere sicuro della grazia divina del suo cuore; non solo si unisce ripetutamente al Corpo adorabile di Cristo nel suo Sacramento; ma, per dirla col Bossuet, si unisce « anche allo spirito ed al Cuore di Gesù, entrando con umile sottomissione ed adesione in tutti i disegni di Dio, dispone del suo essere e della sua vita come fece il gran Sacerdote (sul Calvario), diviene Sacerdote con Lui nella sua morte, e compie negli ultimi momenti il sacrificio al quale era stato consacrato nel battesimo e che doveva continuare in tutti gli istanti della vita ». Se anche nella stessa esistenza, fra le tenaglie del dolore, talvolta non ha divinizzato le sue lagrime, sul letto di morte compie intero il suo dovere. Egli soffre con Gesù e per Gesù; accetta la volontà del Padre, pur pregando col Maestro: « Padre, se è possibile, passi da me questo calice; tuttavia si faccia non come voglio io, ma come vuoi Tu »; offre la sua vita e le sofferenze in unione ai dolori della Passione e della Croce. – « Quale offerta più completa? — esclama ancora il Bossuet. — L’uomo intero vi prende parte; il corpo e l’anima vi sono immolati dalla fede con un’immolazione penetrante, dolorosa, assolutamente simile a quella di Gesù. Il letto del morente è davvero un altare; e la morte è una Messa, dove il Cristiano offre la sua vita insieme con la Vittima immacolata ». Questo è il modo di soffrire cristianamente, il che è ben più grande della sofferenza subìta come la può subire un bruto, o sopportata come uno stoico. In povere parole:- la sofferenza cristiana deve diventare un atto di amore; per come si vede, questo atto d’amore presuppone la fede nel soprannaturale e nella rivelazione; esige la speranza del Cielo; implica il pentimento delle colpe commesse. La morte, allora, guardata alla luce dell’Amore, perde in parte i suoi rigori; lo sguardo non si posa tanto sulla tomba non lontana che aspetta l’involucro perituro, ma in Cristo che attende lo spirito immortale: l’ultimo respiro è il passaggio non alla regione che Dante chiama inconsolata, ma nell’Amore di Dio; e il giorno della morte, secondo la esatta espressione liturgica, diviene il dies natalis. Inoltre — soggiunge il Bauthier nel suo prezioso libro su “Il sacrificio nel dogma cattolico” — se l’infermo conosce bene le cose di Dio, « allarga le sue intenzioni; e, come Gesù dalla Croce, come il Sacerdote dall’altare, abbraccia col pensiero le anime riscattate, offre la vita per ciascuna di esse, per l’accrescimento e per l’avvento del regno de’ cieli, per l’estensione dei confini della Chiesa, per la glorificazione di Dio e del suo Cristo ». – Così Sorella Morte ci appare rivestita anche con la bellezza dell’amore per i fratelli. Se ogni padre ed ogni madre cristiana offrissero sul letto dell’agonia le loro sofferenze ed il loro olocausto per la famiglia; se ogni cittadino morente pregasse per la patria sua; se chi ha contemplato gli orizzonti dell’apostolato dicesse in segreto al Signore: « Tutto quello che soffro sia per le anime e per il trionfo del tuo Regno »; se ogni Cristiano, insomma, avesse inteso veramente il precetto della carità, anche la morte sarebbe un atto di amore di Dio e di amore del prossimo. E l’incontro con Gesù rappresenterebbe non già una spaventosa incognita, ma un volo fidente verso il Re dell’Amore.

4. – Conclusione.

« Per colui che ha amato per tutta la sua vita, la morte è il bacio e la perfezione della carità ». Sono parole di Severina De Maistre e riassumono tutti gli insegnamenti della morale a proposito della morte. Oggi, purtroppo, non si muore così, perchè non si è Cristiani, e perchè si preferisce meditare la morte di Socrate e non la morte di Cristo. Quella certamente fu la morte di un forte, ma — lo osservò lo stesso Rousseau — d’un uomo; questa è la morte d’un Dio. Il Cristiano nulla disprezza della forza d’animo, che la ragione suggerisce ed impone; solo la eleva e la soprannaturalizza con la grazia, in unione a Cristo; ed oggi anche il più umile contadino, anche la vecchierella analfabeta sa rendere la fine della sua vita divinamente bella.

Se questo Sillabario sarà letto da un Cristiano praticante, io lo invito a preparare l’ora futura della sua dipartita dalla terra. Che se questo piccolo libro dovesse capitare fra le mani di chi da tempo è lontano da Dio, ed ancora non ha ceduto all’invito dell’Amore divino, vorrei che con me meditasse una pagina del prevosto Adalberto Catena, il venerando sacerdote che potè assistere agli ultimi momenti di Alessandro Manzoni. In uno dei suoi memorabili discorsi tenuti nella chiesa di San Fedele a Milano, il Prevosto Catena, con accento commosso, insisteva: « Ricordatelo: non l’avete la libertà di morire come meglio vi piace. Quest’ingannevole libertà ve la siete preclusa, per tacere del resto, tante volte quante avete riconosciuto la società da cui pure vi nominate. Vi hanno veduti genuflessi all’altare di Cristo e sulle vostre palme conserte posare i lembi della stola sacerdotale in un giorno ben lieto per voi; presenziare nei giorni del Signore il Sacrificio; portare alla fronte la mano del vostro bambino, segnarlo col segno della croce… Erano un ripetere da parte vostra: è questa la madre a cui deporrò in grembo un giorno l’afflitto mio capo. Ed ella, appunto, la madre, li vuole per sè quei momenti; ella, che sa il prezzo di un’anima, vede venire tutto il presente davanti all’eterno, non guarda a qualche levità dell’oggi, a qualche stolta negazione, ma interpreta il voto primo, il desiderio vero, della nostra vita.., sia pure come soffocato di poi. Lo sapete: quell’obbligo esisteva sempre, ma si accentua quando scendono le ombre da’ monti, quando cala la notte senza mattino. E la Chiesa v’indica allora con voce ancor più solenne il ravviamento della vita, vi vuole rivestiti della veste nuziale, perché viene lo Sposo… Vuol dire: resta ancora il crepuscolo della giornata; vuol dire: si chiude il tempo del merito; vuol dire: la volontà sta per stabilirsi immutabilmente o nel bene o nel male; vuol dire: non vi sarà luogo che ad una purificazione maggiore; ma la meta sarà raggiunta per sempre. Eccolo il titolo della specialissima obbligazione: un immenso bisogno morale e un infinito da conseguire. – E dunque eccovelo il Cristo ora almeno: e dunque sia almeno l’estremo l’istante di quel dovere che era il dovere di tante occasioni parlanti, di una vita che fioriva un giorno e ora s’incurva e declina. È per questo che la Chiesa divampa della carità di Cristo; non si rassegna facilmente alla perdita de’ suoi, e, arbitra tra i due mondi, riversa in quella ora i suoi tesori, lacera le sue viscere, rimette delle sue pene, abilita, avviva del suo potere anche un indegno, purchè levi benedicente la sua destra: cumulo d’ogni indulgenza quell’effigie che si presenta al bacio del morente…

« Alla cime del Gianicolo donde lo sguardo si protende sulle due Rome, l’antica e l’odierna, alla soglia di un umile chiostro erano accorsi i religiosi alla vista di due che lenti guadagnavan la vetta. Uno era il cantore della Gerusalemme. Sono asceso, diceva, non solo in cerca di quest’aure purissime, ma per cominciare da queste alture e nei colloqui di quei Padri la mia conversazione nel cielo ». Che ne soffre la dignità del Poeta e dell’uomo? Quando il medico dichiara la sua impotenza davanti al male che avanza, Torquato l’abbraccia, leva le palme al cielo, chiama l’altro medico, quello dello spirito. « La vedete questa calma davanti alla morte, questa equabilità? Vi par che questo sia infemminire? Il domani il Tasso scende alla Chiesa del convento, leva lo scarno viso incontro al Cristo Eucaristico ed ivi, presso l’Agnello, che si immola ogni giorno, chiede il suo riposo col nome scolpito su d’una pietra disadorna, e s’immerge in quei pensieri che sono divini. Quando l’ampio perdono gli giunge dal Pontefice Sommo, esclama: « Ecco il carro trionfale ove credevi di essere coronato; non l’alloro di poeta in Campidoglio, ma quello della gloria tra i fortunati del cielo! ». È soverchio questo affidarsi nel tesoro di Cristo? « Il cadente aprile di quell’anno trova Torquato, tra un frate e il Crocefisso, la lentansalmodia dei due orienti: spirava alle parole: In manus tuas. Domine, che non compiva. Meditabile esempio! »,

Riepilogo.

La morale cristiana considera anche la morte in funzione del concetto di amore. Fu la ribellione all’Amore, ossia il peccato dei progenitori, che introdusse la morte nel mondo; con la luce dell’amore Cristo illumina il passaggio nostro all’eternità. La morte segna l’ultimo appello dell’Amore di Dio all’amore nostro; e di conseguenza il peccatore deve sentire più che mai in quei supremi momenti, dai quali dipende l’eternità, il dovere di convertirsi; ed il buon Cristiano santifica i suoi dolori in unione con Cristo, con rassegnazione ai divini voleri, amando così Iddio ed offrendo le sue sofferenze per il bene del prossimo.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (19)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. BENEDETTO XV – “FAUSTO APPETENTE DIE”

Questa è una delle lettere Encicliche che Benedetto XV dedicò alla figura di Santi in occasione di alcune loro ricorrenze. Qui viene tratteggiata quella di San Domenico, maestoso personaggio sagace difensore della fede cattolica, della predicazione evangelica, della Cattedra del Vicario di Cristo e della Madre di Dio. Considerando i meriti del Santo e del suo Ordine, viene da chiedersi come mai uomini così dotti nelle scienze sacre, abbiano potuto seguire ed appoggiare le novità teologiche, morali e liturgiche del concoliabolo del 1963 e le innovazioni sacrileghe del Montini e dei successori suoi antipapi… come è possibile che si predichi con San Tommaso e si sposi la causa della novelle theologie? Da una parte la dottrina di sempre e poi le contraddizioni del modernismo postconciliare? Misteri dell’animo umano o forse demagogia infernale. Incredibile, roba da far rivoltare san Domenico nella tomba….

LETTERA ENCICLICA

FAUSTO APPETENTE DIE

DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XV
I PATRIARCHI, PRIMATI,
ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA
IN OCCASIONE DEL VII CENTENARIO DELLA MORTE
DI SAN DOMENICO DI GUZMÀN

Mentre si avvicina il lieto giorno nel quale, settecento anni fa, Domenico, grande astro di santità, passò dalle miserie terrene alle sedi dei beati, a Noi, che da tempo siamo fra i suoi più ferventi devoti, soprattutto da quando cominciammo a reggere la Chiesa di Bologna, che custodisce con religiosissima pietà le sue ceneri, a Noi — diciamo — giunge la grande gioia di poter esortare da questa Cattedra Apostolica il popolo cristiano a celebrare la memoria di un Santo così illustre. Così facendo, non solo intendiamo soddisfare la Nostra devozione, ma riteniamo anche di adempiere ad un grande dovere di gratitudine verso quel Santo legislatore e l’illustre Ordine da lui fondato. – Infatti, come egli fu del tutto uomo di Dio e veramente Dominicus [cioè: uomo del Signore], così fu tutto della santa Chiesa, la quale ha in lui un invincibile campione della Fede. L’Ordine dei Predicatori da lui istituito fu sempre valido baluardo in difesa della Chiesa Romana. Pertanto, non solo può dirsi che Domenico « fu ai suoi giorni ristoratore del tempio », ma che provvide alla difesa di esso anche per il futuro, avverandosi le parole profetiche che Onorio III scrisse nel confermare l’Ordine nascente: «… i frati del tuo Ordine saranno gli atleti della Fede e veri luminari del mondo ». – Certamente, come tutti sanno, per propagare il regno di Dio, Gesù Cristo non si è servito di nessun altro mezzo all’infuori della predicazione del Vangelo, cioè della viva voce dei suoi araldi che avevano il compito di diffondere ovunque la celeste dottrina. Egli disse: « Insegnate a tutte le genti ». « Predicate il Vangelo ad ogni creatura ». Perciò, mediante la predicazione degli Apostoli e soprattutto di San Paolo, alla quale seguì successivamente l’insegnamento dei Padri e dei Dottori, fu possibile illuminare le menti degli uomini con la luce della verità e infiammare gli animi all’amore di tutte le virtù. Utilizzando in pieno tale sistema per la santificazione delle anime, Domenico propose a se stesso e ai suoi discepoli « di partecipare agli altri il frutto delle proprie meditazioni »; perciò, oltre alla povertà, alla purezza dei costumi e all’obbedienza religiosa, impose agli appartenenti al suo Ordine il santo e solenne dovere di attendere allo studio indefesso della dottrina e alla predicazione della verità. – In realtà, tre sono i caratteri della predicazione domenicana: una grande solidità di dottrina, una fedeltà assoluta alla Sede Apostolica ed una singolare devozione verso la Vergine Madre. -Infatti, quantunque Domenico si sentisse chiamato alla predicazione fin dai suoi teneri anni, tuttavia egli non si accinse a questa missione se non dopo avere arricchito nell’Università di Palencia il suo intelletto nelle scienze filosofiche e teologiche, e, sotto la guida dei santi Padri, dopo avere largamente bevuto alle fonti della Sacra Scrittura e specialmente di Paolo. Ben presto si vide quanto fosse profonda la sua dottrina quando egli iniziò le sue dispute contro gli eretici: quantunque questi facessero ricorso a tutti i mezzi e alle più ardite sottigliezze dottrinali per combattere i dogmi della Fede, tuttavia era meraviglioso vedere come egli li confutasse e li respingesse. Ciò si verificò soprattutto a Tolosa, nella città considerata allora il centro e la capitale dell’eresia, dove erano convenuti i più dotti avversari. È concorde la testimonianza degli storici che egli, insieme con i suoi principali compagni, potenti in opere ed in parole, tenne fronte all’insolenza dell’eresia; e non solo impedì che essa si propagasse, ma con la sua eloquente carità addolcì così gli animi che ricondusse migliaia di eretici al seno della Madre Chiesa. Iddio stesso gli venne visibilmente in aiuto mentre combatteva per la Fede; come quando, avendo raccolto la sfida lanciatagli dagli eretici di gettare ciascuno nel fuoco il proprio libro, solo il suo non fu toccato dalle fiamme, restandone inceneriti tutti gli altri. Così, per opera di Domenico, l’Europa fu liberata dal pericolo dell’eresia Albigese. – Egli volle pure che i suoi figli fossero dotati ampiamente di solida dottrina. Infatti, appena ottenuta dalla Sede Apostolica l’approvazione del suo Ordine e la conferma del nobile titolo di Predicatori, egli fondò i suoi conventi il più vicino possibile alle più celebri Università, affinché più facilmente i suoi alunni potessero dedicarsi ad ogni genere di studi, e un maggior numero di studiosi si aggiungesse a questa nuova famiglia. In tal modo l’Istituto Domenicano ebbe fin da principio la caratteristica di Ordine dotto, e fu costantemente sua cura precipua di risanare i guasti profondi causati dai vari errori e di diffondere la luce della Fede cristiana, dato che nessuna cosa riesce di maggiore ostacolo alla eterna salvezza quanto l’ignoranza della verità e il pervertimento delle opinioni. Non deve pertanto stupire se tutti restarono colpiti e conquistati da questa nuova forma di apostolato, la quale, mentre si basava saldamente sul Vangelo e sulle dottrine dei Padri, tuttavia si faceva apprezzare per la vastità delle cognizioni in ogni disciplina. Sembrò addirittura che la stessa sapienza di Dio si manifestasse attraverso la parola dei frati domenicani, quando il nuovo Ordine ebbe predicatori ed assertori della Fede Giacinto di Polonia, Pietro Martire, Vincenzo Ferreri, e uomini prestigiosi per ingegno e dottrina come Alberto Magno, Raimondo da Pennafort e Tommaso d’Aquino, quel gran figlio di Domenico, per mezzo del quale specialmente si può dire che « Dio illuminò la sua Chiesa » -Perciò quest’Ordine fu sempre tenuto in grandissimo conto per il suo insegnamento della verità, e conseguì un altissimo onore quando la Chiesa fece sua la dottrina di Tommaso, salutando questo Dottore con i più insigni elogi dei Pontefici, e lo assegnò alle scuole cattoliche come maestro e patrono. Insieme a sì fervido zelo nel custodire e difendere la Fede, Domenico nutriva un profondo ossequio verso la Sede Apostolica. È noto infatti che essendosi egli inginocchiato dinanzi a Innocenzo III per consacrare tutte le sue energie alla difesa del Romano Pontificato, nella susseguente notte quel Nostro Antecessore vide in sogno Domenico sostenere vigorosamente coi suoi omeri la Basilica del Laterano vacillante. È altresì conformato dalla storia che mentre Domenico attendeva alla formazione dei suoi primi religiosi, pensò di raccogliere intorno a sé dei laici pii e devoti per creare una santa milizia che lavorasse alla difesa dei diritti della Chiesa e contemporaneamente resistesse validamente all’eresia. Da qui ebbe origine il Terz’Ordine Domenicano, il quale, diffondendo la pratica della perfezione cristiana in mezzo ai secolari, veniva a dare alla madre Chiesa un appoggio e un valido aiuto. – Tramandato dal Fondatore, l’attaccamento a questa Cattedra passò in eredità ai discepoli. Perciò, ogni volta in cui per il dilagare degli errori le menti umane erano smarrite o la Chiesa fu travagliata da rivolgimenti popolari o da prepotenze di prìncipi, questa Sede Apostolica trovò nei Domenicani dei validi patrocinatori della verità e della giustizia che l’aiutarono a conservare il prestigio della sua autorità. E chi non sa quanto sia stato ammirevole a questo riguardo la condotta di quella discepola di Domenico, Caterina da Siena, la quale, animata dalla carità di Gesù Cristo, superando incredibili difficoltà, ottenne quello che nessuno aveva potuto conseguire: persuadere cioè il Sommo Pontefice a far ritorno, dopo 70 anni, alla sua sede di Roma; e, lavorando successivamente, mentre la Chiesa d’Occidente era lacerata da un funesto scisma, a mantenere nella fede un gran numero di Cristiani, obbedienti al legittimo Pontefice? – Infine, pur tacendo di altri fatti gloriosi, non si può ignorare che dalla famiglia Domenicana sono usciti quattro Pontefici Romani di grande fama, l’ultimo dei quali, San Pio V, rese immortali servizi alla cristianità e alla società civile quando, dopo insistenti esortazioni, unì in alleanza le forze militari dei prìncipi cattolici alle proprie, e sconfisse per sempre, presso le isole Curzolari, le forze dei Turchi con l’auspicio e l’aiuto della Vergine Madre di Dio, che, a seguito di quell’avvenimento, ordinò fosse invocata quale « Aiuto dei Cristiani ». Questo episodio mette in splendida luce il terzo elemento che, come dicemmo, caratterizza la predicazione dei Domenicani: la particolarissima devozione verso la grande Madre di Dio. In proposito si narra che il Pontefice apprese per divina visione la vittoria di Lepanto nello stesso momento in cui avveniva, e mentre in tutto il mondo cattolico le pie confraternite invocavano Maria con la preghiera del santissimo Rosario, che il Fondatore dei Predicatori aveva istituita e che in seguito aveva diffuso in tutto il mondo attraverso i suoi discepoli. Infatti, amando la beatissima Vergine con affetto filiale e confidando al massimo grado nel suo patrocinio, Domenico si accinse a sostenere la causa della Fede. Pertanto, nella lotta contro gli eretici Albigesi, i quali, tra le altre verità della Fede, negavano la divina maternità e la verginità di Maria con tantissime ingiurie, egli, nel difendere strenuamente questi dogmi, invocava spessissimo il soccorso della stessa Vergine Madre con queste parole: « Considerami degno che io ti possa lodare, o santissima Vergine; dammi la forza contro i tuoi nemici ». Con quanta benevolenza la Regina dei cieli corrispondesse alla pietà del suo servo, lo si può facilmente comprendere dal fatto che Ella si servì di lui per insegnare alla Chiesa, sposa di suo Figlio, il suo santo Rosario; cioè quella preghiera che essendo contemporaneamente vocale e mentale — per l’intreccio della meditazione sui principali misteri della Religione accompagnata dalla recitazione di quindici Pater e di altrettante decine di Ave Maria — è adattissima ad eccitare e a mantenere nel popolo la carità ed ogni virtù. Quindi giustamente Domenico prescrisse ai suoi discepoli, quando predicavano la parola di Dio, di inculcare spesso e con impegno negli animi degli uditori questa forma di preghiera, della quale conosceva pienamente l’utilità. Sapeva infatti che Maria, per una parte, aveva tanto potere presso il suo Figlio divino che questi concede grazie all’umanità se non attraverso la mediazione e la decisione di Lei, e dall’altra che Ella è per natura così benigna e clemente che, essendo solita a soccorrere spontaneamente gl’infelici, non può assolutamente rifiutare il suo aiuto a coloro che lo chiedono. Pertanto, Colei che la Chiesa saluta abitualmente quale « madre di grazia e madre di misericordia », si è sempre rivelata tale, soprattutto quando si è pregato tramite il Rosario. Conseguentemente, i Pontefici Romani non tralasciarono alcuna occasione per esaltare con somme lodi il Rosario Mariano e per arricchirlo con i tesori dell’Indulgenza Apostolica. – Per la verità — come voi stessi comprendete, Venerabili Fratelli — l’Ordine Domenicano non è attualmente meno opportuno di quanto lo fosse ai tempi del suo Fondatore. Quanti sono, anche oggi, coloro che per mancanza del pane della vita, che è la celeste dottrina, periscono d’inedia; quanti, in mezzo a tanti errori, ingannati da una parvenza di vero, si allontanano dalla Fede! E come potrebbero i Sacerdoti, col ministero della divina parola, provvedere come si conviene a tutti questi bisogni, se non fossero pieni di zelo per la salute delle anime e ben preparati nelle scienze divine? Senza dire che non pochi sono gli ingrati e gli immemori fra i figli della Chiesa, i quali per ignoranza o per cattiva volontà, avversando il Vicario di Gesù Cristo, devono essere ricondotti all’amplesso del Padre comune! A sanare pertanto codesti ed altri mali di ogni genere di questo secolo, abbiamo bisogno della materna protezione di Maria! Perciò i Domenicani hanno dischiuso davanti a sé un campo d’azione quasi infinito, dove possono operare in modo assai utile per il bene comune. Conseguentemente Noi esortiamo quanti appartengono a tale Ordine a rinnovarsi in queste feste centenarie sul modello del loro santo Fondatore, e a diventare sempre più degni del loro grande Padre. Ovviamente, coloro che appartengono al primo Ordine daranno l’esempio, in proposito, agli altri, applicandosi con sempre maggior zelo alla predicazione della parola di Dio al fine di aumentare l’ossequio al successore di San Pietro, la devozione alla Vergine Madre e la conoscenza della verità. Ma anche dai Terziari Domenicani molto si aspetta la Chiesa se, conformandosi sempre più allo spirito del loro Patriarca, cercheranno d’istruire i figli del popolo nella dottrina cristiana. Noi desideriamo e Ci auguriamo che molti di loro si dedichino con assiduità a tale apostolato: si tratta infatti di cosa della massima importanza per la salvezza delle anime. Infine vogliamo che tutti i seguaci di Padre Domenico si prendano una cura speciale affinché il popolo cristiano renda abituale, ovunque, la pratica del Rosario Mariano, che Noi stessi, seguendo l’esempio dei Nostri Predecessori, e specialmente di Leone XIII di felice memoria, per l’occasione raccomandiamo vivamente in questi tempi calamitosi. Se ciò avverrà, riterremo assai fruttuosa la celebrazione di questa ricorrenza centenaria.- Frattanto, in auspicio delle grazie divine e quale testimonianza della Nostra benevolenza, impartiamo, Venerabili Fratelli, con tanto affetto nel Signore, l’Apostolica Benedizione a voi, al vostro clero e al popolo.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 29 giugno 1921, festa dei Prìncipi degli Apostoli, nell’anno settimo del Nostro Pontificato.

BENEDICTUS PP. XV 

DOMENICA XIV DOPO PENTECOSTE (2023)

XIV DOMENICA DOPO PENTECOSTE (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani,

comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Le Lezioni dell’Officio di questa Domenica sono spesso prese dal Libro dell’Ecclesiastico (Agosto) o da quello di Giobbe (Settembre). Commentando il primo, S. Gregorio dice: «Vi sono uomini così appassionati per i beni caduchi, da ignorare i beni eterni, o esserne insensibili. Senza rimpiangere i beni celesti perduti, i disgraziati si credono felici di possedere i beni terreni: per la luce della verità, non innalzano mai i loro sguardi e mai provano uno slancio, un desiderio verso l’eterna patria. Abbandonandosi ai godimenti nei quali si sono gettati si attaccano e si affezionano, come se fosse la loro patria, a un triste luogo d’esilio; e in mezzo alle tenebre sono felici come se una luce sfolgorante li illuminasse. Gli eletti, invece, per cui i beni passeggeri non hanno valore, vanno in cerca di quei beni per i quali la loro anima è stata creata. Trattenuti in questo mondo dai legami della carne, si trasportano con lo spirito al di là di questo mondo e prendono la salutare decisione di disprezzare quello che passa col tempo e di desiderare le cose eterne ». — Quanto a Giobbe viene rappresentato nelle Sacre Scritture come l’uomo staccato dai beni di questa terra: « Giobbe soffriva con pazienza e diceva: Se abbiamo ricevuti i beni da Dio, perché non ne riceveremo anche i mali? Dio mi ha donato i beni, Dio me li ha tolti, che il nome del Signore sia benedetto ». — La Messa di questo giorno si ispira a questo concetto. Lo Spirito Santo che la Chiesa ha ricevuto nel giorno di Pentecoste, ha formato in noi un uomo nuovo, che si oppone alle manifestazioni del vecchio uomo, cioè alla cupidigia della carne e alla ricerca delle ricchezze, mediante le quali può soddisfare la prima. Lo Spirito di Dio è uno spirito di libertà che rendendoci figli di Dio, nostro Padre, e fratelli di Gesù, nostro Signore, ci affranca dalla servitù del peccato e dalla tirannia dell’avarizia. « Quelli che vivono in Cristo, scrive S. Paolo, hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e bramosie. Camminate, dunque, secondo lo Spirito e voi non compirete mai i desideri della carne, poiché la carne ha brame contro lo Spirito e lo Spirito contro la carne: essi sono opposti l’uno all’altra » (Ep.).  Nessuno può servire a due padroni, dice pure Gesù, perchè o odierà l’uno e amerà l’altro, ovvero aderirà all’uno e disprezzerà l’altro. Voi non potete servire a Dio e alle ricchezze ». « Chiunque è schiavo delle ricchezze – spiega S. Agostino – e si sa che sono spesso fonte di orgoglio, avarizia, ingiustizia e lussuria –  è sottomesso ad un padrone duro e cattivo. (« Forse che questi festini giornalieri, questi banchetti, questi piaceri, questi teatri, queste ricchezze, si domanda S. Giovanni Crisostomo, non attestano l’insaziabile esigenza delle tue cattive passioni? » – 2° Nott.. La V Domenica di Agosto che coincide qualche volta con questa Domenica). Dio non condanna la ricchezza ma l’attaccamento ai beni di questa terra e il loro cattivo impiego). Tutto dedito alle sue bramosie, subisce però la tirannia del demonio: certamente non l’ama perché chi può amare il demonio? ma lo sopporta. D’altra parte non odia Dio, poiché nessuna coscienza può odiare Dio, ma lo disprezza, cioè non lo teme, come se fosse sicuro della sua bontà. Lo Spirito Santo mette in guardia contro questa negligenza e questa sicurezza dannosa, quando dice, mediante il Profeta: Figlio mio, la misericordia di Dio è grande » (Eccl., V, 5 ),— (Queste parole sono prese dal 1° Notturno della V Domenica di Agosto, che coincide qualche volta con questa Domenica): « Non dire: la misericordia di Dio è grande, egli avrà pietà della moltitudine dei miei peccati. Poiché la misericordia e la collera che vengono da Lui si avvicinano rapidamente, e la sua collera guarda attentamente i peccatori. Non tardare a convertirti al Signore e non differirlo di giorno in giorno: poiché la sua collera verrà improvvisamente e ti perderà interamente. Non essere inquieto per l’acquisto delle ricchezze, poiché non ti sopravviveranno nel giorno della vendetta ») – … ma sappi che « la pazienza di Dio t’invita alla penitenza » (Rom., II, 4). Perché chi è più misericordioso di Colui che perdona tutti i peccati a quelli che si convertono e dona la fertilità dell’ulivo al pollone selvatico? E chi è più severo di colui che non ha risparmiati i rami naturali, ma li ha tagliati per la loro infedeltà? Chi dunque vuole amare Dio e non offenderlo, pensi che non può servire due padroni; abbia egli un’intenzione retta senza alcuna doppiezza. Ed e così che tu devi pensare alla bontà del Signore e cercarlo nella semplicità del cuore. Per questo, continua egli, io vi dico di non avere sollecitudini superflue di ciò che mangerete e del come vi vestirete; per paura che forse, senza cercare il superfluo, il cuore non si preoccupi, e che cercando il necessario, la vostra intenzione non si volga alla ricerca dei vostri interessi piuttosto che al bene degli altri » (3° Nott.). Cerchiamo dunque, prima di tutto il regno di Dio, la sua giustizia, la sua gloria (Vang., Com.); mettiamo nel Signore ogni nostra speranza (Grad.), poiché è il nostro protettore (Intr.); è Lui che manda il suo Angelo per liberare quelli che lo servono (Off.) e che preserva la nostra debole natura umana, poiché senza questo aiuto divino essa non potrebbe che soccombere (Oraz.). L’Eucarestia ci rende Dio amico (Secr.) e, fortificandoci, ci dà la salvezza (Postcom.). Cerchiamo, dunque, prima di tutto di pregare nel luogo del Signore (Vers. dell’Intr.) e di cantarvi le lodi di Dio, nostro Salvatore (All.); poi occupiamoci dei nostri interessi temporali, ma senza preoccupazione.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam,
absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXXXIII: 10-11.

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice in fáciem Christi tui: quia mélior est dies una in átriis tuis super mília.

[Sei il nostro scudo, o Dio, guarda e rimira il tuo Consacrato: poiché un giorno passato nel tuo luogo santo vale più di mille altri].

Ps LXXXIII: 2-3

V. Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit, et déficit ánima mea in átria Dómini.

[O Dio degli eserciti, quanto amabili sono le tue dimore! L’ànima mia anela e spàsima verso gli atrii del Signore].

Gloria…

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice in fáciem Christi tui: quia mélior est dies una in átriis tuis super mília.

[Sei il nostro scudo, o Dio, guarda e rimira il tuo Consacrato: poiché un giorno passato nel tuo luogo santo vale più di mille altri].

Kyrie
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Custódi, Dómine, quǽsumus, Ecclésiam tuam propitiatióne perpétua: et quia sine te lábitur humána mortálitas; tuis semper auxíliis et abstrahátur a nóxiis et ad salutária dirigátur.

[O Signore, Te ne preghiamo, custodisci propizio costantemente la tua Chiesa, e poiché senza di Te viene meno l’umana debolezza, dal tuo continuo aiuto sia liberata da quanto le nuoce, e guidata verso quanto le giova a salvezza.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal V: 16-24

“Fratres: Spíritu ambuláte, et desidéria carnis non perficiétis. Caro enim concupíscit advérsus spíritum, spíritus autem advérsus carnem: hæc enim sibi ínvicem adversántur, ut non quæcúmque vultis, illa faciátis. Quod si spíritu ducímini, non estis sub lege. Manifésta sunt autem ópera carnis, quæ sunt fornicátio, immundítia, impudicítia, luxúria, idolórum sérvitus, venefícia, inimicítiæ, contentiónes, æmulatiónes, iræ, rixæ, dissensiónes, sectæ, invídiæ, homicídia, ebrietátes, comessatiónes, et his simília: quæ prædíco vobis, sicut prædíxi: quóniam, qui talia agunt, regnum Dei non consequántur. Fructus autem Spíritus est: cáritas, gáudium, pax, patiéntia, benígnitas, bónitas, longanímitas, mansuetúdo, fides, modéstia, continéntia, cástitas. Advérsus hujúsmodi non est lex. Qui autem sunt Christi, carnem suam crucifixérunt cum vítiis et concupiscéntiis.”

[“Fratelli: Camminate secondo lo spirito e non soddisferete ai desideri della carne. Perché la carne ha desideri contrari allo spirito, e lo spirito contrari alla carne: essi, infatti, contrastano tra loro, così che non potete fare ciò che vorreste. Che se voi vi lasciate guidare dallo spirito non siete sotto la legge. Sono poi manifeste le opere della carne: esse sono: la fornicazione, l’impurità, la dissolutezza, la lussuria, l’idolatria, i malefici, le inimicizie, le gelosie, le ire, le risse, le discordie, le sette, le invidie, gli omicidi ecc. le ubriachezze, le gozzoviglie e altre cose simili; di cui vi prevengo, come v’ho già detto, che coloro che le fanno, non conseguiranno il seguiranno il regno di Dio. Frutto invece dello Spirito è: la carità, il gaudio, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la mansuetudine, la fedeltà, la modestia, la continenza, la castità. Contro tali cose non c’è logge. Or quei che son di Cristo han crocifisso la loro carne con le sue passioni e le sue brame”].

C’è una lotta, una guerra formidabile, una battaglia che si combatte fieramente e dappertutto e sempre: si combatte in ciascuno di noi. Per un misterioso congegno, noi, siamo due in uno e uno in due. Siamo, lo sanno tutti, anima e corpo, ma corpo e anima pur insieme uniti come sono a formare un sol uomo, rappresentano ciascuno tendenze diverse, addirittura contrastanti. La materia ci trascina nel torbido mondo dei piaceri più bassi: mollezza, ozio, dissipazione, egoismo e poi crudeltà se occorre. La materia ci trascina verso il mondo animale, anzi un mondo animale degenere e corrotto. È un fatto che noi possiamo sperimentare, che sperimentiamo anzi, senza volerlo, in noi stessi. Lo sperimentiamo con un altro fatto, del pari innegabile. Ed è che dentro di noi, contro di noi, contro questi travolgimenti passionali, queste degenerazioni brutali, qualche cosa, qualcheduno protesta; come se si trovasse, perché si trova, a disagio, nel trionfare di queste basse voglie. Questo qualcuno è lo spirito che, dice San Paolo: « concupiscit adversus carnem ». Veramente, questa concupiscenza dello spirito, è una frase ardita. La realtà si è che lo spirito ha delle sue voglie, delle sue tendenze, che non sono quelle della carne. E noi sentiamo in noi, nelle ore migliori della vita, una sete di purezza, di sobrietà, di laboriosità, di sacrificio, di dominio della bestia: sogni angelici ci traversano l’anima e ce la attirano verso il cielo. Istinti angelici da quanto sono brutali quegli altri. Istinti che si rafforzano dentro di noi, colla educazione, coll’altrui buon esempio, colla saturità cristiana dell’ambiente in cui siamo chiamati a vivere. Ma istinti ai quali contrasta e maledice il corpo, proprio come contro quelli del corpo eleva l’anima l’istintivo suo veto. In questa lotta è la tragedia della nostra vita morale. È il segreto della nostra debolezza. È per questo che facciamo spesso quello che non vorremmo, che quasi non vogliamo e non facciamo quello che vorremmo. Quanti uomini vorrebbero essere fedeli alle loro mogli, vorrebbero dare esempi luminosi di buon costume ai loro figli… vorrebbero; e intanto, pur riconoscendo che fanno male, che amareggiano il cuore di una povera donna, che dànno cattivo esempio ai figlioli, profanano il santuario domestico e cercano fuori di esso illecite gioie. Quanti giovani si vergognano, si pentono della vita materiale, animalesca che conducono, e intanto non hanno forza di troncarla: « vident meliora, probantque, deteriora sequuntur ». Ma se in questo congegno di lotta interna è il segreto della nostra debolezza, v’è anche quello della nostra gloria. Abbiamo una bella battaglia da vincere. Essere un po’ sulla terra, ancora sulla terra « sicut angeli Dei in cœlo.» Andare verso l’alto, verso il cielo malgrado questa palla di piombo, che, ahimè, portiamo al piede. Gli Angeli nascono Angeli, lo sono: noi dobbiamo diventarlo. – Il Cristianesimo è stato e rimane il grande alleato dello spirito nella lotta contro la carne, Gesù è venuto apposta tra noi per dare man forte allo spirito. E da Lui in poi, e grazie a Lui, la vittoria nonché possibile, è diventata frequente tra i suoi discepoli. L’umanità vede oggi a frotte i cavalieri autentici dello spirito, gli uomini che collo spirito hanno mortificato, compresso i fasti della carne, e si rivelano in questa trionfale spiritualità di vita, si rivelano guidati dallo Spirito di Dio. Aggreghiamoci alla falange dei vincitori, non accodiamoci, codardi, alle orde dei vinti.

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)]

 Graduale

Ps CXVII:8-9
Bonum est confidére in Dómino, quam confidére in hómine.
[È meglio confidare nel Signore che confidare nell’uomo].

V. Bonum est speráre in Dómino, quam speráre in princípibus. Allelúja, allelúja
 

[È meglio sperare nel Signore che sperare nei príncipi. Allelúia, allelúia].

Alleluja

XCIV: 1.
Veníte, exsultémus Dómino, jubilémus Deo, salutári nostro. Allelúja.

[Venite, esultiamo nel Signore, rallegriamoci in Dio nostra salvezza. Allelúia.]

 Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.
Matt VI: 24-33

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Nemo potest duóbus dóminis servíre: aut enim unum ódio habébit, et álterum díliget: aut unum sustinébit, et álterum contémnet. Non potéstis Deo servíre et mammónæ. Ideo dico vobis, ne sollíciti sitis ánimæ vestræ, quid manducétis, neque córpori vestro, quid induámini. Nonne ánima plus est quam esca: et corpus plus quam vestiméntum? Respícite volatília coeli, quóniam non serunt neque metunt neque cóngregant in hórrea: et Pater vester coeléstis pascit illa. Nonne vos magis pluris estis illis? Quis autem vestrum cógitans potest adjícere ad statúram suam cúbitum unum? Et de vestiménto quid sollíciti estis? Consideráte lília agri, quómodo crescunt: non labórant neque nent. Dico autem vobis, quóniam nec Sálomon in omni glória sua coopértus est sicut unum ex istis. Si autem fænum agri, quod hódie est et cras in clíbanum míttitur, Deus sic vestit: quanto magis vos módicæ fídei? Nolíte ergo sollíciti esse, dicéntes: Quid manducábimus aut quid bibémus aut quo operiémur? Hæc enim ómnia gentes inquírunt. Scit enim Pater vester, quia his ómnibus indigétis. Quaerite ergo primum regnum Dei et justítiam ejus: et hæc ómnia adjiciéntur vobis”.

[“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Nessuno può servire due padroni: imperocché od odierà l’uno, e amerà l’altro; o sarà affezionato al primo, e disprezzerà il secondo. Non potete servire a Dio e alle ricchezze. Per questo vi dico: non vi prendete affanno né di quello onde alimentare la vostra vita, né di quello onde vestire il vostro corpo. La vita non vale ella più dell’alimento, e il corpo più del vestito! Gettate lo sguardo sopra gli uccelli dell’aria, i quali non seminano, né mietono, né empiono granai; e il vostro Padre celeste li pasce. Non siete voi assai da più di essi? Ma chi è di voi che con tutto il suo pensare possa aggiuntare alla sua statura un cubito? E perché vi prendete cura pel vestito? Pensate come crescono i gigli del campo; essi non lavorano e non filano. Or io vi dico, che nemmeno Salomone con tutta la sua splendidezza fu mai vestito come uno di questi. Se adunque in tal modo riveste Dio un’erba del campo, che oggi è e domani vien gittata nel forno; quanto più voi gente di poca fede? Non vogliate adunque angustiarvi, dicendo: Cosa mangeremo, o cosa berremo, o di che ci vestiremo? Imperocché tali sono le cure dei Gentili. Ora il vostro Padre sa che di tutte queste cose avete bisogno. Cercate adunque in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia; e avrete di soprappiù tutte queste cose”].

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

I SERVI DEI DUE REGNI

Erano in un ampio prato erboso, che pareva adattato apposta per un’accolta quieta di uomini. Era iniziato il gran Regno ed ora il re dava la sua legge, seduto su un piccolo masso sporgente, che si stendeva su tutto il creato. I Cittadini del regno erano figli, figli della grazia, figli adottivi del Padre: nel regno la prima cosa che debbon fare i figli è obbedire: obbedire seriamente e solo a Dio, non assieme alle proprie passioni, alle ricchezze, agli onori: no, bisogna scegliere. « Nessuno può servire a due padroni, perché odierà l’uno e amerà l’altro: o sarà affezionato al primo e disprezzerà il secondo ». Perché sia dolce obbedire nel regno di Dio, Gesù ha le più tenere espressioni dell’immensa bontà del Padre. « Le ricchezze e le passioni sono padroni troppo esigenti e vi fanno schiavi: non servite loro, servite il Padre che ve le darà Lui le ricchezze, Lui che al rigore dell’inverno fa succedere la primavera, Lui che fa rifiorire la messe, e i ceppi, i gigli, e i tralci delle viti; Lui che nutre gli uccelli dell’aria e i pesci dell’acqua. « Non vogliate dunque angustiarvi, dicendo: cosa mangeremo e cosa berremo o di che ci vestiremo. Poiché tali sono le cure dei gentili. Ora il vostro Padre sa che di tutte queste cose avete bisogno ». « Cercate dunque in primo luogo il Regno di Dio e la sua giustizia; e di sopra più avrete tutte le altre cose ». Noi sappiamo che il regno di Dio è la sua Chiesa, ove vi è la vita vera, la vita soprannaturale, dove vivono le anime; noi sappiamo che la giustizia del regno sono le virtù e i doveri dei sudditi del buon Dio; noi sappiamo che fuori c’è l’altro regno, quello che Gesù chiamò mondo, col suo re, con le sue leggi. Nella storia degli uomini ci furono quelli che scelsero di servire il mondo; altri rimasero perplessi tra Dio e il mondo, non contentando l’uno e disgustando l’altro; altri, infine, decisamente si posero al servizio di Dio Padre, secondo il dolce invito di Gesù. Fra questi vogliamo collocare anche noi e per assicurarcelo vediamo chi sono gli altri servi infedeli. – 1. I SERVI DEL MONDO. Deve esser bello vedere uno di questi servitori, quando arrivano al tribunale di Dio! Uno di essi, il re dei diamanti, meglio detto il servo delle ricchezze, morì anni or sono e comparì dinanzi a Dio. « Chi siete voi? » domandò l’Angelo del giudizio. Mi conoscono tutti, rispose, sono l’uomo più ricco d’Inghilterra, sono un finanziere famoso: ho una scuderia di cavalli puro sangue che fa invidia a tutta la terra e sono proprietario delle miniere del Sud-Africa… con le mie ricchezze, potrei comprarmi l’Italia intera, i suoi laghi, i suoi monti ». Ma non potrete comprarvi — rispose l’Angelo, — neppure lo spazio per mettere un sol piede nel paradiso. Questo non è il vostro regno: voi avete servito ottimamente nell’altro, là siete ben conosciuto, addio ». Un brivido di terrore entrò nelle ossa del signore: aveva sbagliato padrone. Costui fu uno dei tanti illusi che hanno sentito il proclama del principe del mondo: Venite et fruamur bonis… coronemur rosis… nullum pratum sit quo non pertranseat luxuria nostra. [Su, godiamoci i beni presenti, non vi sia prato che non conosca la nostra lussuria] (Sap. II, 6). Voi non l’avete mai visto questo mondo perché non è una determinata persona, ma voi vivete in mezzo, ne respirate l’aria, lo toccate, tante volte siete caduti nei suoi lacci. Esso è un gran regno.Ha i suoi templi; i suoi teatri sporchi, le sale da giuoco, le case notturne, i covi della corruzione; e sono rigurgiti di gente che vive in questo fango e serve in gran livrea. Ha i suoi apostoli; nella città e nella borgata, con la parola e con la penna, della levatura di un ciabattino e della boria di un dottore: scrittori immorali, maestri elementari atei, giornalisti venduti ad un pezzo di carta sporca: per quattro soldi. Ha i suoi idoli: le ricchezze acquistate con ogni mezzo, la gloria conquistata con la sofferenza d’altri, il piacere ottenuto col vizio, bevuto a goccia a goccia, con voluttà tremenda… Guai al mondo! Un dì uscì questa invettiva amara dalla bocca dolce del divino Gesù: era la voce accorata del padre per i figli venduti al mondo e illusi; per il mondo non pregava, per loro sì pregava, perché si togliessero dal mondo, entrassero nel regno suo, regno di giustizia, di pace.« Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia ». – 2. SERVI PERPLESSI TRA DIO E IL MONDO. Dio aveva mandato il profeta, perché ripetesse al popolo il suo aspro lamento. Quando Elia vide il mare delle teste ondeggiante nel piano, fece cenno di silenzio e solennemente parlò a nome di Dio così: « E fino a quando zoppicherete voi or di qua or di là? Se credete a Dio, ubbiditegli; se credete a Baal, seguitelo ». Ammutolì il popolo, e pensò che il profeta avesse ragione. Gesù riprese il medesimo lamento e disse: « Non si può servire a due padroni. » Lo disse ai farisei, lo dice a molti Cristiani di oggi, i quali, direbbe il Santo Curato d’Ars, assomigliano a quei cani che vanno dietro al primo che li chiami. a) Sono quei Cristiani che ancora non hanno perduto interamente la fede, che stanno in qualche modo attaccati a qualche pratica di pietà, che non vogliono abbandonare del tutto Dio: ma non hanno sufficiente coraggio di lasciare un’occasione di peccato, di troncare una relazione, di abbandonare una buona volta una pessima abitudine; costoro non vorrebbero dannarsi, ma neppure scomodarsi; sperano di arrivare al paradiso senza faticare e senza far violenza a se stessi; si cullano nella lusinga di darsi poi, col tempo, al buon Dio. b) Vi sono poi dei servi ancora più spigliati a cambiare padrone. Li vedete in chiesa a pregare Dio e poi a mezzodì in piazza li sentite bestemmiare: alla Messa della Domenica cantano le lodi di Dio e all’osteria tengono laidi discorsi. Le mani che hanno toccato l’acqua santa le fanno servire alle più ignominiose passioni, gli occhi che hanno visto l’Ostia consacrata li volgono volontariamente attorno su oggetti disonesti. Ieri quel mercante ha fatto l’elemosina ad un povero, oggi ha concluso un affare con imbrogli e con inganni; ieri quella mamma augurava ogni benedizione ai figli, oggi li colma di imprecazioni, ieri li mandava a confessarsi, oggi a ballare, ieri diceva alla figliola di esser seria e riservata, oggi la lascia in compagnia di giovani per tante ore, senza nulla dire… c) Vi sono anche di quelli che vorrebbero aggiustare le cose a loro modo, fare i propri comodi e poi trovare un confessore di loro gusto; e guai se il confessore si trova costretto a negare l’assoluzione, son fulmini e pettegolezzi senza fine: e guai se il predicatore dal pulpito grida contro il vizio, contro il danaro, mammona di iniquità! il meno che possano fare costoro è di borbottare che il prete ha del buon tempo, fa il suo mestiere, dovrebbe badare ai fatti suoi, non interessarsi di politica. No, no, ha ragione il Signore: a meno di voler essere banderuole, di voler usare due misure, di tener il piede in due scarpe, non si può dividere il cuore, non si può servire due padroni. Bisogna scegliere. Chi? – 3. I SERVI DI DIO. Proprio nell’ora in cui arrivava il re dei diamanti al tribunale di Dio, arrivò da Hyderabad l’anima di un umile missionario. « Chi sei tu? » chiese l’Angelo del giudizio. « Io, rispose l’anima, non ho nulla. Avevo casa, genitori, patria, ed ho lasciato tutto: da due anni mi trovavo in India, solo con un crocifisso di legno e ventinove anni di vita. Ieri sera mi hanno chiamato al villaggio di Avanigadda per un coleroso, e gli ho salvato l’anima. Ma il colera mi ha ghermito e in poche ore mi ha portato quassù. Ora non ho proprio più nulla, neppure il mio crocifisso di legno, neppure la mia giovinezza di ventinove anni. Sono solo un missionario, un umile servo del regno di Dio ». « Ora tu hai proprio tutto, esclamò l’Angelo gaudioso, tu hai proprio tutto. Il Regno senza confine di Dio è tutto per te ». Così ai buoni servi verrà detto in quel dì: orsù dunque, servo buono e fedele, entra nel gaudio del tuo Signore. Il Re di questo regno è Cristo Gesù. « Non è salute che in Lui ». « Tutto da Lui procede, tutto mette capo a Lui ». « Chi non crede in Lui, è già giudicato ». Il Re di questo regno ha dato questa legge: « Colui che mi vuol seguire, rinneghi se stesso »: mortifichi la carne che si ribella allo spirito, soffochi gli istinti cattivi e le passioni che tentano di sopprimere i germi della virtù. « Prenda la sua croce »; la Croce che Lui ha portato, pesante, diurna, e notturna: a cui sono appese tutte le angustie, le tribolazioni, i gemiti, le lacrime, .il sangue dell’umanità, la croce di questa vita, di questo pellegrinaggio che conta tanti giorni cattivi e dolorosi: questa croce tutti devono portare. « E mi segua »: portala la croce, come ha fatto Lui e Lui ha fatto la volontà del Padre, l’ha portata con rassegnazione, con amore. Così ha parlato il Re. Ma non tutti risposero così. Molti dissero e dicono continuamente, domani, domani, quando le passioni avranno spento il loro fuoco, quando gli anni si saranno accumulati, quando sentiremo l’appressarsi dell’eternità! Ma il Re ha parlato e disse: oggi, oggi, non domani perché allora « Voi mi cercherete e non mi troverete ». Quando? Nel dì del giudizio apparirà nello splendore della gloria, a riconoscere i suoi servi: ai fedeli dirà: « Vi conosco; entrate nel Regno preparato per voi »; agli infedeli dirà: « Non vi conosco; andate nel fuoco eterno » – « Miei fratelli, scrive l’Apostolo Pietro, andate crescendo nella grazia e nella cognizione del Signor nostro e Salvatore Gesù »: questo vuol dire servire nel regno di Dio, sforzarsi di diventar migliori, crescendo in grazia, in cognizione, in amore di Gesù. Fuori di Lui non dobbiamo cercare nulla. Sentite S. Bernardo: « Siete voi ammalati? Egli è il vostro medico. Avete smarrito la via? Egli è la vostra guida. Siete voi assaliti? Egli è il vostro difensore. Avete sete? Egli è la vostra bevanda. Avete freddo? Egli è il vostro vestimento. Siete voi circondati dalle tenebre? Egli è la vostra luce. Siete orfani? Egli è vostro padre. » Tutto ciò che volete troverete in Lui, nell’immensa bontà del Padre: il cibo, le vesti, la sanità anche troverete. Allora non angustiatevi a cercar queste cose al mondo, coi mezzi del mondo; no; cercate prima il regno di Dio, Gesù e la sua grazia; il resto non vi mancherà. — LA PROVVIDENZA. La parola di Gesù, nel S. Vangelo, è sempre improntata di una sapienza divina ma nel discorso del monte assume una bellezza che è senza confronti. Ancora all’inizio della vita pubblica, il Maestro vuol tracciare il programma della religione nuova. Per questo sale sui monti, sale in alto, quasi a dirci che se vogliamo capirlo ci dobbiamo staccare dalle bassure del mondo. Oggi la Chiesa ci fa leggere un tratto di quelle parole sublimi. Dopo averci parlato del Padre che è ne’ cieli, a cui va rivolta la nostra preghiera, soggiunge che Lui solo dev’essere il nostro Padrone, perché nessuno può servine a due padroni: o amare il primo e odiare il secondo; o seguire il secondo e abbandonare il primo. È impossibile servire a Dio e al mondo assieme. Ma il Signore sa che la roba di quaggiù esercita un fascino spesse volte potente, sa che il pensiero delle cose terrene può far dimenticare le cose celesti; ed allora « Non crucciatevi — soggiunge — per il pane che dovete mangiare! Tenete a mente che l’anima vale più del cibo. Del resto, guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono e non hanno granai: eppure il Padre vostro li tiene in vita. E voi non siete forse qualche cosa di più degli uccelli? Non vi angustiate per l’abito che dovete indossare. I gigli del campo come crescono belli! Eppure non filano e non si affaticano. Vi dico che neanche Salomone, nello splendore della sua gloria, si è vestito come uno di essi. Se dunque Iddio veste con sì vivi colori le erbe del campo che domani saranno tagliate, quanta cura non avrà di voi, uomini di poca fede! ». Con simili accenti, Gesù ci solleva in un’altra atmosfera; non ci accorgiamo di far parte di una famiglia dove le preoccupazioni non hanno ragione di essere: nei cieli vi è un Padre che pensa a tutti. Mi sembra che in questa luce anche la vita diventi più bella! Davvero che il Cristiano è l’uomo felice, è l’uomo della vera allegria perché crede che c’è la Provvidenza verso la quale egli ha dei doveri. – 1. C’È LA PROVVIDENZA. La vita di ogni Santo è un argomento per l’esistenza della Divina Provvidenza. Ricordiamo, ad esempio, la storia di S. Vincenzo de’ Paoli fatto schiavo dei musulmani. Sacerdote di fresco ordinato, s’’accingeva a tornare da Marsiglia dove si era recato per un’opera d’apostolato. Un ricco e buon signore gli propose di prendere la via di mare invece che la via di terra per la quale s’era già deciso. Le condizioni erano lusinghiere: risparmio di tempo, di fatica, di denaro; ottima compagnia. Accettò la proposta, credendo d’accondiscendere al suggerimento d’un uomo mentre era la Provvidenza che lo attirava nel suo piano. Infatti, la nave fu assalita dai pirati turchi, e dopo una lotta disperata, tutti i passeggeri furono imprigionati e portati barbaramente a Tunisi. Qui S. Vincenzo fu venduto, come una bestia, sul mercato. Lo comprò un pescatore, ma trovatolo, incapace e inesperto per la caccia, lo vendette a un vecchio medico il quale lo occupava a mantenere il fuoco nei fornelli su cui preparava certe strane medicine. Dov’era in quei momenti la Provvidenza? Che aiuto gli dava, se tutto il giorno era angariato senza un momento di sosta, senza che fosse mai consentita a lui sacerdote novello la consolazione di celebrare Messa e di recitare il Breviario? Un altro al suo posto si sarebbe perso di fede e scoraggiato. Lui invece pregava incessantemente e confidava. Dov’era dunque in quei momenti la Provvidenza? Era là, vicina a lui, che vigilava e disponeva tutto secondo un amoroso e misterioso disegno che gli occhi degli uomini spesso non possono neppure intravvedere. Effettivamente le cose parevano volgere in peggio. Il vecchio medico musulmano l’aveva rivenduto a un Cristiano rinnegato che s’era accasato con una donna turca, e questi lo maltrattava e gli faceva lavorare tutto il giorno la terra. La padrona però, qualche volta, mentre egli zappava nel campo, scambiava con lui qualche parola sulla fede cristiana, e ascoltava volentieri il canto delle lodi di Dio. Passarono alcuni mesi e la grazia, a poco a poco segretamente penetrando, trionfò: non solo la padrona si convertì, ma seppe indurre il marito a riabbracciare la fede ripudiata. E dopo che entrambi furono illuminati dalla verità e accesi dalla carità di Cristo, di comune accordo diedero la libertà allo schiavo loro Vincenzo. Anzi consapevoli che proprio da quello schiavo paziente e umile avevano ricevuto una libertà più grande e più preziosa di quella che gli donavano, la libertà dalla schiavitù dell’errore e di satana, come segno di riconoscenza lo vollero accompagnare nella via del ritorno. Due anni, due lunghi anni erano passati dal giorno in cui era caduto in mano dei pirati, durante i quali non aveva avuto nessuna notizia dei suoi cari, e del suo sacerdozio non aveva potuto vivere che il carattere scolpito indelebilmente nell’anima. Parrebbero anni perduti, anni di rovina. Eppure, senza di essi non avremmo avuto un Santo dal cui cuore sgorgò un fuoco di carità immenso. C’è dunque la Provvidenza di Dio; c’è il Signore « che ha disposto quanto esiste, in peso, numero e misura » (Sap., XI, 21). « Che governa con forza le cose dal principio alla fine e tutto dispone con soavità » (Sap., VIII, 1). « Il piccolo ed il grande è Lui che li ha fatti, ed ha cura egualmente dell’uno e dell’altro » (Sap., VI, 8). « Come l’aquila stimola i suoi piccoli al volo e stendendo le sue ali li protegge, li aiuta e nel pericolo li soccorre » (Deut., XXXII, 11) così il Signore, dopo che ci ha messi nel gran mare della vita, non cessa di vegliare sulla nostra coscienza. Se non che i pensieri e le vie della Provvidenza non sono come i nostri pensieri e i nostri disegni, ma più belli e più grandi. Bisogna credere e fidarsi. – 2. DOVERI VERSO LA PROVVIDENZA. A Torino, se passate per via Cottolengo, vi trovate davanti ad una porta stretta, con sopra un umile cartello che dice: « Piccola Casa della Divina Provvidenza ». Sia pure per curiosità, entrate dentro perché tutti dicono che è la casa dei miracoli. Non lasciatevi però ingannare dal nome perché non è una semplice casa ma una città, la cittadella del dolore. « Quelli che hanno trovato chiuse le porte di tutti gli ospedali, i veri rifiuti dell’umanità soltanto lì possono trovare un po’ di riposo. L’ha fondata un sacerdote, San Giuseppe Benedetto Cottolengo, che non teneva mai un centesimo in tasca: anzi, una volta che gli era avanzato un po’ di denaro, lo buttò dalla finestra. E la Provvidenza non gli è mai mancata perché la sua fiducia non aveva un limite. Se all’ora del pranzo non si trovava neppure un po’ di farina: il Santo non se ne angustiava: stavolta toccava al Signore! Chiamava tutti in chiesa, cominciava il Rosario, cantava il Magnificat od il Te Deum finché non si fosse sentito bussare alla porta: c’erano uomini con carri di farina, di frumento, di pasta. Chi mai aveva mandato quegli uomini con tanta grazia di Dio? Qualcuno certamente, ma i nomi non si seppero mai. Quanti, oggi, i ricoverati? Dicono che siano ottomila, ma il numero preciso non lo si vuol sapere: a contarli e a mantenerli tocca alla Provvidenza a cui dai dormitori, dalle corsie, dai corridoi, nel lavoro, nel riposo, nel dolore, sale la voce del ringraziamento e della fiducia. In tutte le ore, di giorno e di notte, davanti al Tabernacolo ci sono sempre suore raccolte in preghiera. Cristiani, se vogliamo che Dio pensi a noi, noi dobbiamo pensare a Lui. Confidenza e fiducia! Se il Signore ha cura dei suoi nemici, vorrà abbandonare i suoi amici? Siam forse meno degli uccelli dell’aria e dei gigli del campo? « Se gli occhi del Signore sono sopra i giusti e le sue orecchie nella loro preghiera » (Salmo, XXXIII, 16). « Speri in Lui chi lo ha conosciuto » (Salmo, XI, 11). Quando sembra che il cielo sia chiuso e nessuno più si ricordi di noi, è proprio il momento di raddoppiar la preghiera. Ringraziamento. Se non casca foglia che Dio non voglia, quel che Dio vuole non è mai troppo. Sia che ci mandi la gioia, sia che permetta il dolore, sempre diciamogli grazie. « Se abbiamo goduto — esclama Giobbe — quando ricevemmo del bene, perché mai non accettiamo anche il dolore? Il Signore ha dato ed il Signore ha tolto: sia benedetto il suo nome nei secoli ». – In un suo viaggio verso Roma S. Ambrogio fu ospite nella magnifica villa di un gran signore. Ma quando seppe che in quella casa la sofferenza non era mai entrata: « Raccogli subito — disse al servo — raccogli subito le nostre cose e andiamo via. Non voglio stare in questa casa! Se non c’è nessun dolore è segno evidente che non c’è Iddio ». Così la pensavano i Santi! Ricordiamo queste parole quando le avversità ci vorrebbero far sospettare che Iddio ci abbia dimenticati. E proprio allora che ci è vicino.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXXIII:8-9

Immíttet Angelus Dómini in circúitu timéntium eum, et erípiet eos: gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus.

[L’Angelo del Signore scenderà su quelli che Lo temono e li libererà: gustate e vedete quanto soave è il Signore].

Secreta

Concéde nobis, Dómine, quǽsumus, ut hæc hóstia salutáris et nostrórum fiat purgátio delictórum, et tuæ propitiátio potestátis.

[Concédici, o Signore, Te ne preghiamo, che quest’ostia salutare ci purifichi dai nostri peccati e ci renda propizia la tua maestà].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

… de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola Persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Così che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle Persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt VI:33
Primum quærite regnum Dei, et ómnia adjiciéntur vobis, dicit Dóminus.

[Cercate prima il regno di Dio, e ogni cosa vi sarà data in più, dice il Signore.]

 Postcommunio

Orémus.
Puríficent semper et múniant tua sacraménta nos, Deus: et ad perpétuæ ducant salvatiónis efféctum.

[Ci purífichino sempre e ci difendano i tuoi sacramenti, o Dio, e ci conducano al porto dell’eterna salvezza].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA.

LO SCUDO DELLA FEDE (267)

LO SCUDO DELLA FEDE (267)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (10)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO X.

RELIGIONE

I. La religione è buona pel popolo; II. per le donne che abbisognano di emozioni religiose.

Sulla religione in genere non sono finiti ancora gli assiomi che vanno attorno; perocché l’odio che le si porta, ne ha messo in credito un numero sterminato. Vedendo di non poter al tutto atterrare la religione, i libertini si sforzano di liberarne almeno sé stessi, confinandola ai tuguri ed alle gonne. La religione, dicono essi, è buona pel popolo, che ha bisogno d’ essere trattenuto perché non prorompa ad eccessi, e conservi una certa moralità; È buona eziandio, se volete, per, le donne, le quali abbisognano di emozioni religiose; ma per li uomini nel secolo decimonono….è un disconoscere tutte le conquiste del tempo e della civiltà. È egli vero tutto ciò? Vediamolo.

I. La religione è buona pel popolo, vogliamo dire con questa proposizione che è buona solo pel popolo; e che però per quelli che all’ingegno, alla coltura, alla condizione, alla filosofia son tutt’altro che popolo, non è punto fatta. Or, di grazia, la religione è cosa vera, oppure una finzione? Qui non vi è mezzo: o esiste il debito di riconoscere la divinità, di ossequiarla, riverirla, onorarla con atti di culto e di sommissione; oppure non esiste questo debito, sia perché non vi è un Dio, oppure perché, essendovi, non si cura dei nostri ossequi e delle nostre dimostrazioni. L’una delle due è innegabile. Ma se è vero il primo, perché non avrà, anche chi non è popolo, il debito di prestare a Dio il culto di religione? Molto più anzi il dovrà, perché avendo da Dio ricevuta maggior capacità di riconoscerlo, miglior educazione, una condizione più avvantaggiata, e tutti quei doni che dal popolo lo distinguono, sarà reo di maggiore ingratitudine se non riconosce la fonte da cui provengono quei beni; di maggiore empietà, se conoscendo più intimamente la malizia dell’atto che commette, pur vi si abbandona, mentre non potrà in iscusa allegare l’ignoranza, come farebbero le persone più rozze del popolo. Che se stimano la religione una finzione, che Dio non curi, o non accetti, perché allora sarà buona pel popolo? Dunque, il popolo non avrà più, diritto alla verità? Si potrà dargli a credere finzioni, chimere, falsità, perché torna utile? E questo è poi l’amore che portano costoro al povero popolo, che il vogliono aggirare come un bufalo, perché così torna loro a conto? Gli è un pezzo che si conosce la stima che fanno del popolo e l’amore che gli portano certuni, che pur si fingono così teneri e appassionati di lui e così solleciti a spezzargli le catene, onde i tiranni, i despoti, i barbari l’hanno aggravato, i quali poi non hanno una difficoltà al mondo ad incatenarlo colla superstizione, colla idolatria, coll’errore quando fa loro comodo. Ah ipocriti! E fino a quando il vero popolo non aprirà gli occhi sul conto vostro? –  Del resto, il debito universale di religione non è cosa che possa venire in controversia con costoro. Prima del nostro secolo ne passarono un presso a sessanta. Il mondo ha avuto in tutti quegli anni anche degli uomini, i quali avevano un capo sul collo ed un cuore dentro il petto. Sia pure il secolo nostro beatissimo fra tutti i secoli, la perla, la gemma più fulgida, anzi il sole che tutti li vince ed oscura; tuttavia dai monumenti, che rimangono d’ogni genere nel mondo, si comprende che non si possono rilegare al novero delle oche tutte le generazioni passate. Ora in tutti i tempi, e perfino fra le nazioni più barbare, fu sempre in pregio il culto della divinità; poniamo pure che errassero talora quanto alle proprietà che in essa riconoscevano, o quanto agli atti con cui pensavano doverla onorare. Le prove poi che in suo favore adduce il Cristianesimo son tante e tali e solenni e sì confermate che, come osservano i dotti, bisogna prima rinunziare alla ragione, per poter poi dopo rinunziare al Cristianesimo. Ciò presupposto, che significato ha quella espressione: la religione è buona solo pel popolo? Ella potrebbe tradursi in altre parole così: Che solamente il popolo ha debito di non mostrarsi empio con Dio, e che gli altri; che non son popolo, possono insultare quanto vogliono la divinità. Che creature possono rinnegare il Creatore, che figliuoli possono disonorare il Padre, che redenti possono disconoscere il Redentore, poiché non son popolo. – Che solamente il popolo ha debito di non avvilirsi sotto la condizione delle bestie, le quali per alta loro sventura, non conoscendo Dio, non possono onorarlo; mentre quelli che non son popolo, possono per elezione farsi quello che le bestie son per natura, ed inchiodando per sempre gli occhi alla terra come animali nel truogolo, mai non levarli al cielo da cui lor provengono tutti i beni. – Che solamente il popolo ha bisogno di giungere al suo ultimo fine, che è la suprema beatitudine; laddove chi non è popolo, può operare da insensato, senza darsi pensiero né dell’oggetto, per cui fu collocato sulla terra, né del fine, a cui gli fu proposto di tendere. – Che solamente il popolo ha bisogno di evitare i mali eterni, che la stessa ragione e prove infinite di ogni genere dimostrano inevitabili a chi non onora la divinità; mentre chi non è popolo può gettarsi alla ventura in un mar di pene per tutta un’eternità, come non farebbe un forsennato. – Che solamente il popolo ha bisogno di dimostrare riconoscenza al Signore, d’impetrar grazie, di rimuover pericoli, di essere aiutato dalla divinità; laddove chi non è popolo può mostrarsi indifferente a qualunque favore Iddio gli faccia, e può burlarsi degli aiuti e della protezione dell’onnipotente divina Maestà. – Che solamente il popolo ha la sventura di commettere peccati, e quindi il debito di umiliarsi davanti a Dio e chiedergli perdono ed impetrarne mercè; ma che chi non è popolo, facendo una vita perpetuamente immacolata, non sa neppure quel che sia il bisogno d’inchinarsi davanti al trono divino, e supplicare ed impetrare misericordia. – Queste e molte altre cose simili a queste vuol significare la bella espressione che la religione è buona solo pel popolo. Epperò chi ha cuore di ripeterla, faccia almeno di comprenderne prima il senso, e poi, se gli basta l’ animo, ne accetti tutta la significazione. Che se per ventura anche a lui sembrasse un po’ troppo ardita, allora ascolti pienamente la verità. –  È vero che è buona pel popolo la religione, ed oh quanto buona, quanto, quanto è buona pel popolo, poiché il popolo è composto di uomini che sono creature di Dio, destinate da Lui alla patria del cielo e bisognevoli di essa, perché essa è l’unico mezzo per arrivarvi. È buona pel popolo, poiché il popolo ha passioni da vincere, le quali non cedono se non in faccia ai motivi passenti della religione. È buona pel popolo, poiché esso ha da tollerare le pene inseparabili dal suo stato, perché spesso gli manca il pane, spesso l’abito, spesso il tetto, spesso è stanco e travagliato, ed ha bisogno colla speranza del futuro, consolare il presente, colla vista del cielo dimenticare la terra. – È buona pel popolo, poiché esso ha da sopportare pazientemente gli strapazzi, i soprusi, le concussioni dei suoi amici e protettori, che ne mettono tutta la sofferenza alla prova. È buona per tutto ciò, ed oh quanto buona! Così non facessero ogni sforzo per rapirgliela certi scellerati, i quali, mentre si fingono suoi amici, ne sono verissimi traditori! Così comprendessero che è anche loro interesse, se già non li muove la giustizia e la verità; ma poi dopo tutto ciò è bene a sapere che non è meno necessaria per quelli che non sono popolo, anzi per questi è necessaria anche più. Perocché, lasciando stare che questi hanno lo stesso fine e da conseguirsi per gli stessi mezzi che il popolo, hanno poi cento altre ragioni di speciali necessità. Hanno da moderare la vanità che va quasi sempre congiunta colla scienza, hanno da infrenare la superbia che facilmente s’insinua nei palazzi che nei tuguri, hanno da reprimere l’avarizia che più spazia dove trova maggior materia, hanno soprattutto da frenare la concupiscenza, che molto maggiore eccitamento ritrova dove è maggiore l’ozio, più squisita la mensa, più copiosi i liquori, più gaie le compagnie, più sfoggiati i balli, i teatri, le allegrie, le mondanità. Tutti costoro hanno maggior bisogno di religione, perché d’ordinario hanno tentazioni più gagliarde, cadute più frequenti, colpe più gravi che non ha il popolo. Il perché se credono che al popolo sia necessaria la religione, sia in buon’ ora; ma si persuadano poi che anche a loro non istà male un po’ di religione, e non disdegnino di fare col popolo almeno almeno a metà. . .

II. La religione è buona per le donne. Qui quadra il ragionamento fatto di sopra: se la religione è vera, essa è fatta per tutti; se è doverosa, niun se ne può esimere; e se non è vera e non è doverosa, non è punto più buona per le donne che per gli uomini: poiché la finzione e l’inganno non è buono per nessuno. – Ma io farò qui una domanda a quei che confinano alle donne la religione. E perché mai è buona solo per le donne la religione? Esse abbisognano di emozioni religiose, rispondono, poiché avendo il cuore più tenero, non possono fare senza sfogarlo in qualche modo. E dunque voi perché siete uomo, avete il bel dono di essere senza cuore verso il Signore? Non saprei veramente farvene congratulazioni molto sentite. – Del resto eccovi la verità su questo proposito. Se le donne hanno bisogno di religione, è non solo per la ragione comune, che quanti hanno essere, vita, intelligenza, tutti debbono rivolgersi al Signore, ma anche per ragioni speciali al loro stato. La debolezza e fiacchezza naturale fa sentire alla donna più al vivo la necessità del divino sostegno, e più a Dio la stringe. L’abbondare in essa l’affetto a preferenza del discorso, fa che la religione le sia richiesta anche sensibilmente dal cuore, il quale, se non è in lei al tutto guasto e corrotto, non può farne a meno; ma soprattutto ne abbisogna specialmente per un consiglio amorosissimo della divina provvidenza. Iddio ha destinato per man di natura a due nobilissimi uffici la donna: all’arduo e lungo ministero di allevare la prole in quei primi anni, in cui le sollecitudini possono immaginarsi ma non descriversi, e poi ad essere la naturale maestra della medesima per gittare i primi semi della virtù e della religione in quei cuori innocenti. Ad agevolarle quest’alto incarico, la divina provvidenza la rifornì di un cuore più tenero, più affettuoso, perché più facilmente vi si piegasse e vi durasse costantemente. Di che trasportando la donna quel medesimo cuore agli esercizi di pietà verso Dio, ne avviene che senta più affettuosamente di Lui, e più sensibilmente lo ami, e quindi con più foga sia trasportata verso tutto quello che onora la divinità. Laonde è verissimo che essa ha un bisogno tutto speciale della religione. – Che anzi di qua si trae quella specie d’orrore che cagiona il vedere una donna mettersi in greggia coi libertini e burlare le cose di Dio e della pietà. Deve essa, per giungere a questa infamia, non solo perdere ogni timore della divinità, ogni riverenza, ogni amore, il che pure le ha da costare un’estrema violenza; ma anche gittare ogni verecondia che pure è l’onore del sesso, e trasformare, dirò così, la sua indole, il suo cuore, e dopo di aver disprezzati tutti i rimorsi della coscienza, calpestare anche gli affetti più puri che le suggerisca la stessa natura. Che un serpente fischi ed avveleni fa orrore ma non maraviglia, poiché è nella natura del serpente; ma chi vedesse fare altrettanto una colomba, all’orrore aggiungerebbe una meraviglia non più intesa, poiché vedrebbe una violazione in lei della natura della colomba. E ciò è sì vero che il bestemmiatore più solenne che a memoria dei secoli si sia veduto, il Proudhon stesso, avendo scorto certe donne cadute fino in quell’abisso di vantarsi d’irreligione, in un suo empio giornale pubblicamente le avvertì a trattenersene, poiché anche gli uomini più perduti se ne sdegnavano e ne sentivano stomaco. Gli è dunque verissima che la religione è buona, anzi ottima per le donne. – Che però? Avranno gli uomini ragione di esentarsene? Tutto l’opposto. Come nella donna prevale l’affetto, così nell’uomo dovrebbe  prevalere il discorso. Epperò se la donna è portata alla religione più soavemente dall’affetto, l’uomo dovrebbe esservi portato più fortemente dalla convinzione; se già non si tratti d’uomini i quali mentre cedono alla donna nel cuore, le cedano anche nel capo. –  Inoltre 1’uomo ne ha anche maggior necessità. La religione ritrae il nome da ciò che essa lega l’uomo salutarmente: ora chi ha maggior bisogno di vincolo che chi naturalmente è più sfrenato? Se è vero che l’uomo sia meno rattenuto della donna da motivi umani, quali sono la debolezza naturale, la verecondia, il pudore, il timore, qual dubbio vi ha che abbia maggior bisogno dei motivi religiosi? Inoltre, l’uomo ha il primato d’autorità nella famiglia, ha il maneggio degli affari sociali, ha il governo, dirò così, del mondo, epperò abbisogna di maggiori aiuti dal Signore, di maggior lume, e poi di chiedere più spesso al Signore perdono delle sue prevaricazioni. –  Tutto ciò dovrebbe aver luogo almeno presso quegli uomini, che non credono le cose procedere a caso, e che non si reputano senza destino ulteriore al terreno. Che se tutto è finzione quel che s’insegna di Dio, dell’anima, della vita avvenire, dell’eternità, allora hanno ragione gli uomini di non curare la religione. Resta solo alla donna che non invidi all’uomo di essere giunto al vanto di reputarsi in dignità pari agli armenti del campo ed alle fiere della foresta.

IL SACRO CUORE (68)

IL SACRO CUORE (68)

P. SECONDO FRANCO

SACRO CUORE DI GESÙ (5)

TORINO – Tipografia di Giulio Speirani e fligli – 1875

V° per delegazione di Mons. Arciv. Torino, 1 maggio 1875, Can. Ferdinando Zanotti.

Cuore di Gesù, delizia di Maria.

Maria è detta da S. Chiesa, per molte ragioni, Madre del bello amore. Infatti chi meglio di Lei seppe dove collocare il suo Cuore, chi amò Gesù con maggior fervore? Chi sa ispirarlo anche agli altri sia coll’esempio, sia coll’intercessione più di Maria? Che però i Santi che aspirano all’amore di Gesù si volgono di preferenza a Lei per impetrarlo. Sarebbe però buono il sapere come Ella si accendesse di tanta fiamma, come la disfogasse. Lasciando stare le varie fonti da cui lo trasse, non temo di affermare che nel Cuore di Gesù Cristo principalmente le avvivasse, poiché di quel dolcissimo Cuore: 1° niuno meglio ne conobbe i segreti; 2° niuno sopra di lei ne sperimentò la dolcezza; niuno più di Lei gli si rese conforme.

I. Niuno meglio di Maria ne conobbe i segreti. Il cuore umano è sempre difficile a conoscere, poiché si avvolge per ordinario in tanti seni e nascondigli che sfuggono ad ogni investigazione. Ma quello di Gesù non per questa ragione è investigabile, si per la profondità dei tesori che accoglie e per la dignità a cui è innalzato. Chi però lo conobbe meglio e più da vicino della Vergine madre? Essa trattò con Gesù lunghi anni alla dimestica ed ebbe campo a penetrarne sempre più gli ineffabili segreti. L’Apostolo S. Giovanni s’innalzò come aquila sopra gli altri Evangelisti nella cognizione di Gesù, siccome è noto. Ora i Padri di S. Chiesa recano quella stupenda cognizione al posare che egli fece il capo sul Cuore SS. di Gesù nell’ultima cena, ed ai misteri dei quali fu allora messo a parte. Ma deh! che cosa è quel favore del quale fu egli degnato, rispetto a quello che per tanti anni godè la SS. Vergine? Ella strinse migliaia di volte il Cuore SS. di Gesù sopra del suo Cuore, allora che lo abbracciava, allora che lo vestiva, allora che lo addormentava sul suo petto immacolato. Ebbe dunque un vasto campo a ritrarne cognizioni sempre più intime e più sublimi. Molto più che ben più vasta era la disposizione che aveva la Vergine per favori così soprumani. S. Giovanni era l’Apostolo prediletto, Maria era la Madre di predilezione: e di tanto Gesù prediligeva questa, quanto era stata a più alta dignità sollevata. La cognizione di Dio si attinge, dice la Sapienza, in proporzione della parità del cuore. A questo dire come niuna pura creatura ebbe mai purezza maggiore di Maria, così niuna fu mai meglio disposta alle celesti comunicazioni. – Non è dunque immaginazione il dire che la Vergine dal contatto continuo con Gesù penetrasse le ragioni profonde della divina Incarnazione, i misteri che in Lei si erano compiuti, quelli di Gesù che dovevano ancora compiersi, che la sua mente fosse già fin d’allora quel che la Chiesa ebbe poi a cantare di Lei, sede della sapienza. Accostiamoci a somiglianza di Maria al buon Cuore di Gesù e non ci fallirà luce sì preziosa. Accedite ad eum et illuminamini. (Ps. 33, 6).

II. Niuno più di Maria ne sperimentò la dolcezza. Senonché più che la sapienza ancora è pregevole l’amore, mentre quella ci dà a conoscere Iddio, questo a Lui ci congiunge. E questa è un’altra ampia fonte delle delizie che ebbe Maria nel Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo. Imperocché questo fu per Lei una sorgente inesausta di santo amore. Dal momento in cui Maria ebbe concepito nel seno il Figliuolo di Dio sino all’ultimo istante in cui l’ebbe già morto sopra le braccia, quale dovette essere la sua vita? Gesù saettava il Cuore dolcissimo di Maria: Maria ricambiava quelle saette con altrettanti strati di amore. Gesù ancora nel seno verginale di Maria santificava il Battista; come sarà stata santificata Essa medesima da Gesù? I cari anni dell’infanzia, della puerizia di Gesù, non poterono essere altro per Maria che una sequela non interrotta di atti di amore. La natura, la grazia concorrevano ugualmente a stimolare il suo Cuore. Essa sel vedeva bambino, fanciullo, giovinetto dintorno, sel vedeva pieno di grazie e di verità: dalla contemplazione dell’esterno passando all’interiore, sotto quella forma riconosceva il suo Dio e le sue divine bellezze. Quali atti intensi di amore nel Cuore della Vergine? L’amore che unisce coll’amore che trasforma, l’amore di preferenza coll’amore di tenerezza, l’amor di compassione coll’amor che rallegra dovevano tutti confondersi nel suo Cuore e tutti versarsi in quello di Gesù Cristo. E di rincontro Gesù che da un cuore così puro, così ardente, si vedeva amato tanto focosamente, come doveva di ognuno di quegli atti dargliene il compenso, che solo essa bramava, in sempre nuovi accrescimenti di carità! Dagli occhi, dalle parole, dai gesti, dai sospiri, da tutto sé Gesù le palesava quel Cuore dolce, benigno, riconoscente, amoroso che è tutto suo proprio, e Maria in quello si riposava, si deliziava, saggiando anticipatamente le delizie del cielo. Oh anima devota, ecco come si giunge a godere di Gesù Cristo. Collo stargli intorno incessantemente, col rendergli tutti i servigi immaginabili ad imitazione di Maria, col ferirlo senza posa con istrali di amore.

III. Niuno più, di Maria gli si rese conforme. Ma non si contentò Maria di godere le delizie di Gesù Cristo. Il Figliuolo suo era venuto Maestro del mondo, e prima che dirozzasse le genti colle parole già le ammaestrava cogli esempi. Egli voleva cambiare lo stato dell’universo, ma per cambiarlo utilmente voleva cambiare i cuori. Perocché come tutti i vizi han radice nel cuore, come tutte le virtù hanno nel cuore il loro principio, cosi risanato questo, è risanato il mondo. Che cosa fece adunque? Mostrò il suo, lo diede a conoscere: perché a quello come sopra esemplare divino si conformassero. La Vergine benedetta per alta sua ventura non ebbe piaghe da risanare, ma potè accrescere sempre più le perfezioni del Cuore suo e fu alla scuola di Gesù che rese il suo così conforme al Cuore divino che ne rimase alla Chiesa per sempre lo specchio più fedele. Né è difficile il concepire come ciò avvenisse. Tutto in Gesù palesava i sentimenti suoi interiori. Col solo entrare nel mondo dava a conoscere quel che Egli stimasse i beni della terra, gli onori, le grandezze dietro a cui vanne perduti i miseri mortali; colla grotta scelta alla sua nascita diè a conoscere qual bene fosse l’umiltà, la povertà, l’annientamento. In tutta la sua infanzia e gioventù mostrò di qual pregio fosse la fatica, la soggezione, il compimento dei voleri divini. Tutti questi gran fatti svelavano la tendenza, la virtù, l’amore del Cuor divino. Or Maria non poté non contemplare a lungo tutti questi esempli, e nel suo cuore così ben disposto non sentirne tutto il valore e non ricopiarli con ogni fedeltà, discepola e Madre nello stesso tempo. Più tardi Gesù messosi ad annunziare la verità per cui era venuto al mondo.. ebbe discepoli ed ascoltatori: ma niuno più fedele di Maria. Gesù disvelò allora tutte le ricchezze del suo Cuore sacrosanto. Mostrò qual fosse verso del Padre, quanto riverente, quanto acceso, quanto infiammato di zelo, e mostrò qual fosse la carità del suo Cuore verso degli uomini, ammaestrandoli senza posa e dando poi per loro la vita. Mostrò qual fosse il disprezzo di se medesimo nella scelta che fece di tormenti così aspri, di agonie sì lunghe, di morte sì amara. E Maria da quella dottrina riconfortata conformò il suo Cuore a quello di Gesù così fattamente che congiuntasi a Lui pienamente di affetto, volle essergli compagna nella umiliazione del Calvario, negli insulti della crocifissione e se non poté nel corpo essere confitta insieme con Lui sulla Croce, volle per la gloria divina e per la nostra salute con piena conformità di volere e di affetto tutte nel suo Cuore risentire le pene del suo caro Gesù. Maggior conformità di questa, niuno mai ebbe con Gesù: e forse anche per questa la pietà cristiana trovò che a Maria compete pressoché un diritto sul Cuor divino, che espresse col chiamarla la Madonna del S. Cuore, quasi volendo significare che avendolo si intimamente conosciuto, tanto accarezzato, tanto imitato, si è come acquistato un diritto ad introdurvi le anime che ne la supplicano. Oh Vergine benedetta, come dispensiera che siete di tutte le grazie, non ci negate questa d’introdurci nel Cuore divino, ché ci varrebbe per tutte le altre.

G1ac. Maria, Mater Iesu, ora pro nobis.


Cuore di Gesù, Cuore di un Dio.


Dopo di aver considerato quel che sia in se medesimo il Cuore SS. di Gesù, passiamo a considerare gli uffici che per mezzo del suo Cuore Gesù esercita verso di noi i quali tanti sono quante sono le necessità de’ fedeli a cui provvedere: e queste sono le misericordie onde ci solleva e ci arricchisce. Quindi per non andare in infinito quelli accenneremo che nella divina Scrittura sono più solenni ed a cui possono agevolmente richiamarsi gli altri. Il primo però che tutti gli accoglie, è che il Cuore di Gesù, essendo il Cuore del divin Verbo incarnato, è il Cuore di Dio e quindi a sua gloria ed a nostro vantaggio può disporre della potenza di Dio, della sapienza di Dio, della divina bontà. Fate di comprenderle alquanto che penetrerete così la ricchezza inesausta del Cuor divino.
I. Potenza. Il cuore di Gesù dispone di tutta la potenza di cui è ricco il Verbo divino a cui è unito sostanzialmente.-Fin dove si stenderà adunque la sua efficacia? Non ne cercate i limiti perchè non li troverete. Consolatevi solo in questo: che esso si stende a tutti gl’immaginabili effetti a cui si stende il suo ineffabile amore. Come in passato si distese all’opera immensa della Redenzione dell’uomo pagando alla giustizia divina con ogni rigore tutti i debiti da noi contratti, come ci meritò la grazia e la gloria la quale di sua natura è un bene infinito, così può stendersi a qualsivoglia sorta di applicazione che Egli ce ne voglia fare, per quanto essa possa parere smisurata. Può salvare gli uomini anche più perduti e non solo salvarli, ma condurli ad un’eroica santità, come fece di Paolo cambiandolo di persecutore in Apostolo. Può ritrarci di mezzo alle più gravi tribolazioni e metterci d’improvviso in seno alla pace ed alla gioia più serena, come ha fatto tante volte colle Terese colle Margarite ed altre anime innumerevoli. – Può renderci insensibili, anzi farci giubilare in mezzo alle carneficine più spietate come tante volte ha fatto coi santi suoi martiri. Può sostenere anime deboli, fiacche, incostanti, leggere nei più ardui e lunghi sacrifici: perocché è il Cuore del Dio della potenza, della forza, della virtù. Né vi ha ostacolo che dinanzi a Lui non ceda. Non vale a strappare da Gesù le anime il demonio colle sue suggestioni più fiere ed ostinate, non vale la carne colle sue più lubriche seduzioni, non vale il mondo colle sue minacce più spaventose, coi terrori de’ suoi tormenti, nè colle lusinghe delle sue promesse e de’ suoi favori. – Gesù ha forza per vincere tutto con facilità, con coraggio, con perseveranza sino alla fine. Qual giubilo per un’anima che si rifugga in quel Cuore: essere assicurato che niuna forza lo può espugnare, niuna insidia lo può sorprendere perché sta nel Cuore d’un Dio onnipotente!
Il. Sapienza. Nè quella potenza infinita si trova punto all’oscuro di quello che ha da fare: perocchè è rischiarata da una infinita sapienza; Il Cuore di Gesù, non sarà mai abbastanza meditato, è il Cuore del Verbo: è quel Cuore in Cui sono riposti, secondo l’Apostolo, omnes thesauri scientiae et sapientiae, e ne dispone i tesori. Quali sieno poi le ricchezze che Egli possiede per ragione della divinità, non è possibile lo spiegarlo. Coi Teologi balbettando noi diciamo che ci conosce non solo tutte le cose che ha creato in tutte le loro essenze ed immaginabili relazioni, tutti i pensieri, tutti i moti liberi delle creature umane ed angeliche, ma tutti i possibili che sono per ogni parte incomprensibili a menti create e tutte queste cose con un guardo semplice e tranquillo tutte le ha sempre presenti: ma oltre Ciò la divinità ha comunicato alla natura umana di Gesù Cristo fino dal primo momento dell’Incarnazione la visione beatifica, per cui nel Verbo ci conosceva intimamente tutto quello che alla grande opera per cui era venuto si apparteneva. Le ha comunicata la scienza infusa ed in quell’altissimo grado che conveniva ad un’anima degnata della congiunzione ipostatica col Verbo: la scienza acquisita che corrispondeva alla grandezza della perfezione in cui la sua anima fu creata. – Di che quel Cuore sacrosanto è vissuto sempre in una luce si sfolgorata, che la luce delle più eccelse Gerarchie degli Angeli sono tenebre al paragone. Per ciò egli conosce a nostro riguardo tutte le vie per cui è possibile la nostra salute, tutte le condizioni che a quella son necessarie, vede tutti i mezzi per promuoverla con ogni efficacia, conosce tutte le vie per rassicurarci contro ogni pericolo, ha manifeste le strade per ritrarci da qualsivoglia estremo di mali in cui per circostanze estrinseche, per insidie diaboliche, per debolezza naturale, per malizia umana ed infernale, possiamo cadere. Epperò solo che il voglia, ci può assicurare la mia salute, né vi è ora, o momento in cui Egli non valga a provvedere a’ miei mali. Oh sapienza di Gesù che può compensare tutta la mia ignoranza, che può confortare tutti i miei dubbi, rischiarare tutti i miei errori, riparare tutte le mie cadute, oh sapienza infinita voi mi date piena fiducia perché io al tutto mi riposi in voi.

III. Bontà. Resta solo a sapere se Gesù vorrà impiegare la sua potenza, la sua sapienza a mio vantaggio: ma il suo Cuore divino oltre l’una e l’altra, dispone
eziandio di un’infinita bontà. Ora che cosa è la bontà? Bontà si dice quella cui tutti appetiscono: e che di sua natura tende a diffondersi e comunicarsi. Iddio essendo bontà infinita è da tutti gli esseri ricercato, benché molti esseri razionali noi cerchino debitamente, e tende a diffondersi senza limiti. Parlando solo della diffusione libera che fa Iddio fuori di sè, essa si è comunicata in tre grandi ordini, nell’ordine della natura, in quello della grazia e finalmente in quello della gloria, comunicazioni e diffusioni che hanno svariatissimi gradi, siccome è noto. Ora di tutte queste comunicazioni il segreto è riposto nel divin Cuore. Non solo perché esso è il Cuore del Verbo, il Cuore di Dio, ché questa ragione basterebbe per tutto: ma eziandio per ragioni più particolari a Gesù. I beni della natura essendo anch’essi mezzo per la salute eterna degli uomini non possono non dipendere anch’essi da Gesù che è il capo di tutti i predestinati. Quindi anche la povertà e la ricchezza, la grandezza e l’abbiezione dello stato, gli onori e le umiliazioni, le infermità e la sanità, la vita e la morte sono nelle sue mani. Molto più poi dipendono da lui tutti i beni della grazia, imperócché essi sono meriti del suo sangue, frutti della Redenzione. da sè fatta, ed Egli fu costituito capo degli uomini, come loro Redentore e loro Salvatore, acciocché distribuisca secondo la sua sapienza tutti i doni di grazia ed alla grazia appartenenti. Di che Egli ha in mano tutti gli aiuti che preparano la grazia abituale, tutti quelli che ne promuovono l’accrescimento e la conservazione, tutti quelli che servono alla perseveranza finale. Finalmente Egli ha in sua mano l’introdurre gli uomini nel regno della beatitudine, distribuire loro i seggi in quella patria dei sempre viventi, ed inghirlandarli dell’immarcescibile corona di gloria che dovrà durare perpetuamente. Quale sorgente inesauribile di bontà è racchiusa in quel Cuore! Ma anche quale speranza per chiunque aspiri a riportarne quelle grazie! Imperocchè essendo esse a disposizione di un Cuore che tanto ci ama, che ci ha dato tante prove di amore, chi sarà che non si faccia ardito a sperarle? In breve noi siamo certi di queste verità che il buon Cuore di Gesù tutti conosce i nostri bisogni ed i nostri mali, che ha potere che si stende ad ogni sorta di soccorso e rimedio, che ha bontà per volere tutto quello che noi gli chiederemo. Ecco le fonti della nostra fiducia nel Cuore SS. di Gesù. Sarà possibile non ammirare una volta la grandezza smisurata del divin Cuore e non gettarsi in Lui con pietna fiducia?

GIAC. Cor Iesu Filii Dei miserere nobis.

OSSEQUIO. Riponete con un atto di viva speranza la vostra salvezza nel Cuore di Gesù.