TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (53)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (53)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

INDICE DEGLI ARGOMENTI -X-

L. — DIO PREMIANTE E CASTIGANTE.

L 1. 1. Morte dell’uomo.

A morte dell’uomo occorse a causa del peccato, non per necessità di natura 146 222 372 1512 2617.

La fine della sua vita umana è anche la fine della condizione per meritare: non é da mettere in dubbio che le anime nel purgatorio siano fuori dallo stato di meritare 1488; add. il testo circa la sorte dell’uomo dopo la morte L 3 6; l’uomo che differisce la conversione alla fine della vita non trova spazio per la riconciliazione 310.

Cristo a.risorgendo sottomissione l’impero della morte 72 a485 3901.

L 2 2. Il giudizio particolare dell’uomo.

Il giudizio particolare da subirsi, si suppone precedere la destinazione al cielo, al purgatorio, all’inferno (857s 1002 1304-1306): ugualmente indirettamente si distrugge l’asserzione riprovata (ritrattata) di Giovanni XXII [i dannati non andranno alla pena eterna prima dell’ultimo giudizio] 990°.

3. Sorte dell’uomo avviato alla beatitudine: Beatitudine celeste.

L 3a. a. — ESSENZA DELLA BEATITUDINE CELESTE

3aa. Beatitudine essenziale (finale) consiste nella a.fruizione dell’essenza divina, b.nella visione e dilezione di Dio a1000 bc1067 c1316; è chiamato “cielo”, paradiso caeleste, patria sempiterna 839 991 1000.

3ab. Visione dell’essenza divina. I Beati vedono — l’essenza divina 990s 1000 1316; —: Dio uno e trino, e le a.processioni divine 1305 a3815;

— : visione a.intuitiva e b.di faccia b9905 ab1000 b1067; — : l’essenza nuda, chiaramente ed apertamente 1000 1305; —: immediatamente, cioè, senza alcuna mediazione di creatura che sarebbe oggetto di visione; anche le anime separate dai corpi vedono l’essenza nella visione facciale per quanto la loro condizione lo permetta 991.

Riprov. gli errori: [la beatitudine consiste nella visione della sola chiarezza di Dio da Esso emanante] 1009; [Dio può comunicare la sua essenza anche ad entità finite col lume della gloria nel solo modo accomodato di comunicare, cioè in quanto autore di opere ad extra] (3227) 3238-3240.

La visione di Dio evacua l’atto di fede e di speranza in quanto virtù teol. 1001;, non esclude i casto timore 735; riprov. l’asserzione: [nella vita eterna non dobbiamo essere soggetti a Dio come un servo sotto al padrone]; riprov. l’asserzione [nella vita eterna saremo trasformati totalmente in Dio] 960.

3ac. Beatitudine del corpo. Gli uomini davanti al Giudice compaiono con i corpi per ricevere col proprio corpo quanto fanno fatto in vita di bene 574 1002.

3ad. Consorti degli Angeli. Ad essi si aggregano gli uomini beati 443 991 1000. 3ad

L 3b. b. — PROPRIETÀ DELLA BEATITUDINE.

3ba. Soprannaturalità. La beatitudine è dovuta alla grazia di Dio 377 443; il beando manca del lume di gloria elevante 895; reprob.: [l’uomo in questa vita può conseguire la beatitudine finale secondo ogni grado di perfezione] 894.

L’immediata cognizione di Dio all’anima umana non è congenita o essenziale o identica al lume intellettuale 2841 2844s 3237; riprov.: [Dio non può produrre esseri intelligenti senza ordinarli alla visione beatifica] 3891.

3bb. Ineguaglianza della beatitudine. Per la diversità dei meriti c’è un più alto il grado di perfezione 1305 (582);

Si riprov. tuttavia: [le anime liberate dal purgatorio grazie ai suffragi degli altri, sono meno felici che se avessero soddisfatto da soli] 1490.

3bc. Sicurezza della beatitudine. L’uomo è beato senza timore di errare 443; cf. anche il falso presupposto nell’asserzione riprovata [le anime preesistono e stanche della contemplazione divina fecero poi defezione] 403.

3bd. Eternità della beatitudine. I beati vedono Dio in eterno a.senza interruzione 1000 a1001; Cristo fa participi gli uomini della sua immortalità 413; il premio delle opere buone è la perpetua felicità perpetua, la vita eterna 76 377 443 485 802 1545s 1638; add. testo circa la fede nella vita eterna: L 7e; gli uomini buoni risorgono alla gloria sempiterna 801; raggiungono il regno della beatitudine senza fine, la patria sempiterna 574 839.

L 3c. c. — AMMISSIONE ALLA BEATITUDINE.

L 3c. Condizioni da parte dell’anima. La morte nelle stato di grazia o in carità 839 1546

1582; l’accesso è aperto alle anime — di coloro che dopo il battesimo non hanno commesso assolutamente alcun peccato 857 925 1305; —: di coloro che sono state purificate da una a.piena purgazione o soddisfazione (in terra o in purgatorio) 857 925 a990s 1000 1067 a1074 1305; —: i fanciulli morti dopo il battesimo prima dell’uso della ragione (794) 839 a1000 1316.

3cb. Condizioni da parte del tempo. Il Regno della beatitudine era chiuso per tutti fino alla morte di Cristo 780 1000; l’ingresso fu dischiuso all’ascensione di Cristo 1000;

si riprov.: [i santi soggiornavano in paradiso prima del tempo della Redenzione] 337.

La beatitudine finale non può essere acquisita già in questa vita 894.

Le anime purgate a.subito (b.immediatamente) dopo la morte, pervengono alla beatitudine anche c.prima della resurrezione dei corpi e il giudizio universale b857 a925 ac991 ac1000 ac1067 a1305 b1316; riprov. l’asserzione opposta: [Anima separata ha la visione della divinità non prima della resurrezione dei corpi 990° 1009.

L 3d. d. — COMUNICAZIONE TRA CHIESA TRIONFANTE E MILITANTE.

3da. La Comunione dei santi è la mutua comunicazione tra fedeli di ausili, espiazioni, preghiere, benefici, o dei giunti nella patria celeste o ancora immersi nel fuoco espiatorio o ancora peregrinanti in terra, in una unica città 3363; fede dei symbol. della fede nella comunione dei Santi 19 26-30; i Santi offrono orazioni per gli uomini 1821 1867 2187; patrocinio dei Santi 3363.

3db. Culto dei Santi. Vd. K 2dd; ogni culto liturgico prestato agli Angeli e agli uomini ridonda e finisce come culto alla Ss. Trinità (675 1824s) 3325.

4. Sorte dell’uomo purgante: il purgatorio.

L 4a. a. — ESISTENZA ED ESSENZA DEL PURGATORIO.

Purgatorio o catartario è il nome del luogo di purgazione degli uomini 838 856.

Si tivendica l’esistenza del purgatorio 1010 1487 1820 1867 3554.

Al Purgatorio è destinato l’anima degli uomini deceduti in grazia, che non hanno pienamente soddisfatto ai loro peccati 838 856 1066 1304 1398 1580.

Il Purgatorio è concepito come fuoco a.transitorio temporaneo) 8838 a1067 1398 3363.

Si riprovano le asserzioni circa le anime in Purgatorio peccanti e non sicuri della propria salvezza 1488s.

L4b. b. — COMUNICAZIONE TRA LA CHIESA MILITANTE E LA PENITENTE

Le anime purganti partecipano alla comunione dei Santi 3363; da se stessi non possono meritare e quindi hanno bisogno dei suffragi degli altri 1398 1405; ad essi possono essere utili i suffragi dei fedeli viventi: a.il Sacrificio della Messa, b.le orazioni, le c elemosine, d.altri benefici ed esercizi di pietà (a583) a741 acd797 abcd856 abcd1304 bc1405 a1743 a1753 a1820 a1866s a2535 a3363.

Le indulgenze possono applicarsi alle anime purganti per modo di suffragio 1398 1405 1448 CdIC 911; nella misura in cui si giudicano applicate ai bisogni dei defunti 1448 2750; riprov. le ass. neganti applicabilità o l’utilità delle indulgenze per i defunti 1010 1416 1472 1490 2642s;

riprov.: [l’Anima liberata in virtù dei suffragi è meno beata di quanto avesse soddisfatto da sé stessa] 1490.

L 5. 5. Sorte del defunto col solo peccato originale: il limbo.

La pena del peccato originale è la mancata visione di Dio (184 219) 780; add. circa le sequele D 3bd; non esiste un luogo di mezzo della beatitudine tra il regno di Dio e la dannazione, nel senso dell’intelletto pelagiano 0 (184) 224 2626; si riprova.: [L’anima dei bambini nati da genitori cristiani morti senza bpt. vanno nel paradiso terrestre, l’anima dei bambini nati sa genitori non Cristiani, vanno nei luoghi in cui si trovano i loro genitori] 1008.

Le anime decedute col solo peccato originale discendono nell’inferno, dove tuttavia, sono puniti in modo diverso 858 a926 1306; sono puniti con la pena del danno senza la pena del fuoco 2626; il luogo in cui stazionano è chiamato di solito limbo 2626; si riprova: [il picccolo deceduto senza battesimo avrà in odio Dio] 1949.

6. Sorte dell’uomo dannato: inferno.

L 6a. a. — ESISTENZA DELL’INFERNO DI PENE.

L’anima deceduta in peccato attuale mortale discende nell’inferno. (338 342) 839 858 926 1002 1075 1306; Christo (con la sua passione) non distrusse l’inferno inferiore, riprovato: [distrusse totalmente l’inferno] 1011 1077.

L 6b. b. — NATURA DELL’INFERNO.

Pena dell’inferno è designata con le parole a.supplizio, b.cruciato, et massimamente c.fuoco (ardore)

c76 c.338 c342 a443 a485 c575 b780 (c2626); questa pena è eterna (a.fuoco inestinguibile) 72 76 212 342 a443 486 574 596 630 780 801 839; riprov. l’asserzione circa la futura crocifissione redentrice di Cristo per i demoni e circa la reintegrazione dei demoni e degli uomini dannati p0409 411.

L 6c. c. — CAUSE DELLA DANNAZIONE.

Gli uomini si dannano per l’arbitrio della propria volontà 443; per peccati capitali 342; per la morte a.senza penitenza nello stato di peccato b.mortale c.attuale c627 c780 ab839 c1002 b1075 bc.1306.

7. La sorte finale del mondo.

L 7a. a. — AVVENTO DI CRISTO GIUDICE.

Fede (nei symbol.) nell’avvento di Cristo a.gloriosa b.nella sua carne a6 10-30 a40-42 a44 ab46 ab48 50s 55 a60 61-64 76 125 a150 b167 325 414 443 485 492 681 b791 801 852; questioni eseget. 3433 3628-3630.

Si riprova l’asserzione del Millenarismo o Chiliasmo: [Cristo prima del giudizio finale verrà visibilmente su questa terra per regnarvi] 3839; si riprova:

[L’avvento0 alla fine dei secoli si può attribuire al Padre] 737.

L 7b. b. — RESURREZIONE DEI MORTI.

Fede (dei symbol.) nella resurrezione della carne (ossia dei morti) 2 5 10-30 36

41//51 55 60 63 76 150 190 200 540 574 684 797 854; tutti risorgono 443 493 540 801 859 1002.

L’uomo riceve col proprio corpo quanto meritato 443 574 1002; l’uomo risorge —: nella medesina carne con cui visse 23 72 76 325 485 684 797 801 854;

—: non in una qualsiasi carne 540 574 797; —: non in a.aerea o b.nell’ombra di una visione fantastica a540 ab574; si riprovano gli errori circa la costituzione dei corpi dopo la resurrezione 407 1046.

La glorificazione del corpo del capo mistico di Cristo è da aspettarsi nell’avvento della futura gloria dei membri (358) 414 (485); Cristo (a.vivificante i morenti) resuscita i morti 72 a369 485; si riprova tuttavia: [la Risurrezione dei morti è da attribuire solo ai meriti di Cristo] 1910.

L 7c. c GIUDIZIO OUNIVERSALE.

Fede (dei Simboli) nel futuro giudizio di Cristo 10-30 40//51 55 60-64 76 125 150 325 414 443 485 492 540 574 681 791 801 852 859 1549; gli uomini rendono ragione dei loro atti 76 859 1002.

il giorno del giudizio è sconosciuto agli Angeli ed agli uomini, anche a.a Paolo Apostolo (non ostante certe espressioni) 474s a3629; solo Cristo conosce questo giorno per potenza divina 474-476.

L 7d. d. FINE DEL MONDO.

Si riprova la spiegazione della fine del mondo materiale. 1361.

L 7e. e. – IL REGNO ETERNO DI DIO E DI CRISTO.

I beati vivono senza fine 443; fede dei symb. nella vita eterna 3s 11° 15 18-30 36 41 //51 60 72 76 150 854; la vita eterna è il frutto della giustificazione, gratuito e mercede delle buone opere 72 443 485 540 1351 1545-1547 (1522) 1576 1582.

la Chiesa transiterà nel regno celeste 493; fede dei Symb. Nel regno dei cieli 3s 44 46 48 60 63; Cristo fa partecipi i fedeli del suo regno 540; la Chiesa, i Santi, i fedeli regneranno con Cristo a.in perpetuo a.550 s575 1821 2187 3363; il regno di Cristo non avrà fine 41s 44 56 48 60 150.

IL MONDIALISMO SATANICO BENEDETTO DALL’ANTIPAPA RONCALLI.

Il mondialismo satanico benedetto dall’antipapa Roncalli

Da un’intervista ad un sedicente arcivescovo (facilmente reperibile in rete) leggiamo:

D. Ritiene (…) che il globalismo sia essenzialmente satanico? 

R. L’essenza del mondialismo è satanica, e l’essenza del satanismo è mondialista. Perché il piano di Satana è di instaurare il regno dell’Anticristo, dandogli modo di parodiare la vita terrena di Cristo, imitare i Suoi miracoli con grotteschi prodigi, trascinare le folle non con la semplicità della Verità ma con l’inganno e la menzogna. Il mondialismo costituisce, per così dire, l’allestimento scenico, il copione e la sceneggiatura che devono preparare l’umanità all’ascesa politica dell’Anticristo, al quale i governanti del mondo – suoi servi – cederanno le sovranità nazionali perché egli diventi una sorta di tiranno mondiale. – Ma il regno dell’Anticristo non si crea dal nulla: prima occorre cancellare quel che rimaneva del regno di Cristo nelle istituzioni, nella cultura e nella quotidianità dei cittadini. La dissoluzione morale è una delle vie più semplici per soggiogare le masse, incoraggiandole al vizio e deridendo la virtù; e ovviamente distruggendo la famiglia naturale, cellula fondamentale della società, eliminata la quale i figli diventano commodity, prodotti che chi ha soldi può ordinare su internet, alimentando una rete criminale vastissima e sempre più fiorente, senza parlare dell’industria della maternità surrogata. Divorzio, aborto, eutanasia, omosessualismo e pansessualismo, mutilazioni per la transizione di genere si sono dimostrati efficaci strumenti per eliminare non solo la Fede rivelata, ma anche i più sacri principi della Legge naturale. – Ed è di fatto una religione, quella che va instaurandosi con l’ideologia woke; una religione che come quella vera, ma con scopi diametralmente opposti, intende imporsi nella società, permeare con i propri dogmi le istituzioni, le leggi, l’istruzione, la cultura, le arti, le attività umane. – I globalisti applicano i principi cattolici della «regalità sociale», ma proclamano satana re delle società: Te nationum præsides honore tollant publico: colant magistri, judices; leges et artes exprimant. Te delle nazioni i Principi manifestino Re con pubblico onore: Te adorino i maestri, i giudici; le leggi e le arti esprimano. Sono le parole dell’inno di Cristo Re, ma le vediamo blasfemamente applicate dai sacerdoti del Nuovo Ordine Mondiale al loro re, il Principe di questo mondo, e all’Anticristo a suo tempo.  – Attenzione, però: il globalismo, come emanazione del pensiero massonico e rivoluzionario, apparentemente proclama la democrazia e condanna i regimi assoluti; ma di fatto sa benissimo che la Monarchia di diritto divino è la migliore forma di governo possibile, perché assoggetta tutti – anche lo stesso Re, che è vicario di Cristo nelle cose temporali – a una legge trascendente cui tutti devono obbedienza.  – La censura delle notizie non allineate alla narrazione ufficiale, compiuta con la complicità delle piattaforme social e dei media, è la stessa censura che i liberali dell’Ottocento condannavano sui loro fogli clandestini, quando veniva però applicata per impedire la diffusione di errori filosofici e dottrine contrarie alla vera Religione cattolica. – E non è un caso se la finzione democratica ricorre a mezzi di repressione violenta delle proteste popolari che in una libera democrazia dovrebbero portare alle barricate, e alla esecrazione internazionale – penso tra gli altri a Macron, allievo dello Young Leaders for Tomorrow del World Economic Forum di Klaus Schwab. – Non basta chiamare «democrazia» una dittatura, perché lo diventi d’incanto, soprattutto quando il consenso dei cittadini per chi interpreta il loro stato d’animo e le loro aspettative costituisce una pericolosa minaccia alla sopravvivenza di questi parassiti eversori. (…). – Il paradosso appare nella sua evidenza quando vediamo accusare di estremismo un partito cattolico francese e allo stesso tempo inviare armi e aiuti al regime di Zelens’kyj, sostenuto da gruppi neonazisti che praticano la pulizia etnica contro i propri cittadini russofoni, perseguitano i ministri della Chiesa Ortodossa Russa (e anche di quella Cattolica di rito orientale, sul versante ungherese), ostentano svastiche e simboli hitleriani, inneggiano al criminale Bandera e celebrano lo sterminio degli ebrei di cui costui fu responsabile in Ucraina. – Ripeto: se la democrazia funzionasse, non lascerebbero i cittadini a baloccarsi con la farsa delle elezioni e con l’illusione di essere rappresentati in Parlamento. Se la permettono, è perché l’oligarchia massonica sa di poterla controllare tramite i suoi emissari, piazzati ovunque. – D’altra parte, l’Anticristo sarà re, non presidente; eserciterà il potere in forma assoluta, totalitaria, dittatoriale. E chi avrà creduto alla favola della democrazia scoprirà troppo tardi di essere stato ingannato. …

Fin qui le “giuste” e condivisibili parole del sedicente “arcivescovo”, (falsamente ed invalidamente ordinato dall’antipapa e teatrante teosofo comunista Woitiła) il 3 aprile del 1992 con il blasfemo ed eretico rito montiniano (inventato dal sedicente Paolo VI) totalmente invalido ed atto a consacrare al demonio un “eletto manicheo”, parole che hanno un fondo di verità mutuato dalle dichiarazioni di ben documentati “antisistemisti”. Apprezziamo le dichiarazioni del sedicente arcivescovo con tutte le riserve del caso circa un aderente alla “chiesa dell’uomo” di cui è stato esponente non di secondo piano con gli importanti ruoli ricoperti presso organizzazioni mondialiste, oggi apparentemente recitante il ruolo di “pentito”, in realtà scismatico dalla “vera” Chiesa eclissata e dal suo “legittimo” capo, il Vicario in terra di Cristo, quindi fuori dalla Chiesa Cattolica, oltretutto aderente a colui che egli considera il Papa e nei cui confronti rilascia dichiarazioni infamanti che nessun vero Cattolico potrebbe mai rivolgere ad un legittimo Vicario di Cristo. Ma l’evidente ipocrisia si manifesta nell’occultare la “benedizione” che al pensiero ed all’azione mondialista diede a suo tempo il primo antipapa dell’era moderna della sinagoga di satana insediata in Vaticano il 26 ottobre del 1958, il Cardinale della quinta colonna massonica Angelo Roncalli, (sedicente Giovanni XXIII, stesso nome di B. Cossa, ugualmente antipapa del quattrocentesco scisma d’Occidente). Senza volerci inoltrare in considerazioni personali di scarsa importanza e che potrebbero portarci ad una mancanza di carità, passiamo direttamente a citare alcune parti della pseudo-enciclica mondialista dell’usurpante antipapa (Papa dell’epoca era S.S. Gregorio XVII, G. Siri), la Pacem in terris, dell’aprile 1963, due mesi prima della sua morte (grassetti e sottolineature sono nostre):

…. Segni dei tempi

75. Come è noto, il 26 giugno 1945, venne costituita l’Organizzazione delle Nazione Unite (ONU); alla quale, in seguito, si collegarono gli istituti intergovernativi aventi vasti compiti internazionali in campo economico, sociale, culturale, educativo, sanitario. Le Nazioni Unite si proposero come fine essenziale di mantenere e consolidare la pace fra i popoli, sviluppando fra essi le amichevoli relazioni, fondate sui principi della uguaglianza, del vicendevole rispetto, della multiforme cooperazione in tutti i settori della convivenza. – Un atto della più alta importanza compiuto dalle Nazioni Unite è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata in assemblea generale il 10 dicembre 1948. Nel preambolo della stessa dichiarazione si proclama come un ideale da perseguirsi da tutti i popoli e da tutte le nazioni l’effettivo riconoscimento e rispetto di quei diritti e delle rispettive libertà. – Su qualche punto particolare della dichiarazione sono state sollevate obiezioni e fondate riserve. Non è dubbio però che il documento segni un passo importante nel cammino verso l’organizzazione giuridico-politica della comunità mondiale. In esso infatti viene riconosciuta, nella forma più solenne, la dignità di persona a tutti gli esseri umani; e viene di conseguenza proclamato come loro fondamentale diritto quello di muoversi liberamente nella ricerca del nell’attuazione del bene morale e della giustizia; e il diritto a una vita dignitosa; e vengono pure proclamati altri diritti connessi con quelli accennati.

Auspichiamo pertanto che l’Organizzazione delle Nazioni Unite — nelle strutture e nei mezzi — si adegui sempre più alla vastità e nobiltà dei suoi compiti; e che arrivi il giorno nel quale i singoli esseri umani trovino in essa una tutela efficace in ordine ai diritti che scaturiscono immediatamente dalla loro dignità di persone; e che perciò sono diritti universali, inviolabili, inalienabili. Tanto più che i singoli esseri umani, mentre partecipano sempre più attivamente alla vita pubblica delle proprie comunità politiche, mostrano un crescente interessamento alle vicende di tutti i popoli, e avvertono con maggiore consapevolezza di “essere membra vive di una comunità mondiale.” …

Ovviamente, non troviamo nessun accenno a Dio o a Cristo, o alla vera unica Religione divina o alla retta morale del Cristianesimo, ma un auspicio a che il mondo intero sia governato da un’autorità unica come si sta palesando oggi in tutta la sua mostruosa identità. Il diritto di Dio e della Chiesa sono totalmente obliati, come anche quelli della salvezza eterna dell’uomo, mentre si applaude ai diritti laici dell’uomo sganciati dalle fede e dal soprannaturale; tante altre considerazioni potrebbero farsi, ma le lasciamo alla sensibilità dei lettori. Come mai il (canonicamente falso arcivescovo e fallibilista circa l’operato di colui che riconosce essere “papa” – quindi scomunicato ipso facto secondo il codice canonico -) non ricorda ai suoi accoliti questo documento in cui è sdoganato senza remore il mondialismo che oggi è sulla bocca e nella penna di tutti? Non vogliamo infierire ulteriormente, lasciamo a chi possieda ancora un criterio morale retto ed una sana attività intellettuale, il compito di prendere atto ed agire – almeno spiritualmente – di conseguenza. Il Fabianesimo in atto, agisce con lentezza, ma da “buona tartaruga” va avanti come un lupo travestito da agnello. Gesù Cristo ce lo ha detto fin dall’inizio della sua predicazione evangelica. Crediamogli, finché siamo in vita.

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (X)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (X)

CATECHISMO POPOLARE O CATTOLICO SCRITTO SECONDO LE REGOLE DELLA PEDAGOGIA PER LE ESIGENZE DELL’ETÀ MODERNA

DI

FRANCESCO SPIRAGO

Professore presso il Seminario Imperiale e Reale di Praga.

Trad. fatta sulla quinta edizione tedesca da Don. Pio FRANCH Sacerdote trentino.

Trento, Tip. Del Comitato diocesano.

N. H. Trento, 24 ott. 1909, B. Bazzoli, cens. Eccl.

Imprimatur Trento 22 ott. 1909, Fr. Oberauzer Vic. G.le.

PRIMA PARTE DEL CATECHISMO:

FEDE (6).

2-7 Art. del Simbolo: Gesù Cristo.(1)

I. La redenzione.

GESÙ CRISTO, NOSTRO SALVATORE, CI HA LIBERATO DELLE CONSEGUENZE DEL PECCATO ORIGINALE.

L’uomo decaduto era incapace da solo di riacquistare la santità e la giustizia primitive, così come i beni che ne dipendevano. Un uomo morto non può risorgere il suo corpo, ed un’anima morta spiritualmente non può tornare di sua spontanea volontà alla vita. “Se già l’uomo con la grazia di Dio, non ha potuto mantenere se stesso nello stato di rettitudine in cui è stato creato, quanto più non può tornare ad esserlo senza la grazia di Dio (S. Aug.). L’uomo, dopo il peccato originale, assomiglia ad un malato che può muovere le braccia e le gambe, ma non può alzarsi dal letto senza un aiuto esterno, né trasportarsi verso il luogo della sua destinazione. (S. Th. Aq.). Ciò che il Buon Samaritano fu per l’ebreo caduto nelle mani dei ladri, Cristo è è per l’umanità ferita dalle astuzie del diavolo e spogliata dei suoi doni soprannaturali. Cristo è perciò chiamato il Salvatore (guaritore) dell’umanità, perché ha portato il rimedio a questa umanità rovinata dal peccato (Sailer – gesuita bavarese, poi secolarizzato, professore di teologia ad Ingolstadt e Landshut, poi Vescovo a Ratisbona, 1751-1832).

Prima di tutto, Cristo ha liberato la nostra anima dalle conseguenze del peccato originale: ha illuminato la nostra ragione con la sua dottrina, ha inclinato la nostra volontà al bene con i suoi comandamenti e le sue promesse, ha preparato per noi con il suo sacrificio sulla croce le grazie (i soccorsi) di cui abbiamo bisogno per ottenere la grazia santificante, per tornare ad essere figli di Dio ed eredi del cielo.

Cristo ha quindi svolto una triplice funzione: quella di Profeta o di magistero dottrinale; quella di Re o di governo pastorale; quella di Pontefice o di ministero sacerdotale. Cristo è dunque il nostro Maestro, il nostro Re ed il nostro Pontefice. A queste funzioni corrispondono le tre parti del catechismo: nella prima, Cristo ci insegna, nella seconda ci governa, nella terza si sacrifica per noi. – Il Cristo usa diverse figure per designare questa triplice funzione. Egli si definisce la luce del mondo, perché illumina la nostra comprensione con il suo insegnamento. (S. Giovanni XII, 46). Una torcia nell’oscurità illumina e fa vedere gli oggetti lontani, così Gesù Cristo ci fa vedere ciò che è più lontano: l’aldilà e l’eternità. – Davanti a Pilato Egli si dichiara re di un regno che non è di questo mondo (S. Giovanni XVIII, 36); si definisce anche il buon pastore che dà la vita per le sue pecore (id. X, 11); si paragona spesso ad una guida e ci esorta a seguirlo (id. XIV, 6; S. Matth. X, 38). “Noi siamo viaggiatori su questa terra che non hanno una dimora fissa, ma che cercano la dimora del futuro. Il cammino è accidentato, ripido, fiancheggiato da precipizi, e ci sono molti che per ignoranza si smarriscono e periscono. Ma abbiamo una guida che dice di sé: “Io sono la via, la verità e la vita”. (San Giovanni XIII). Se seguiamo questa guida e non abbandoniamo i suoi passi, non possiamo smarrirci. (L. de Gren.) – S. Paolo chiama Cristo il grande Pontefice (Eb. II, 17), che non ha dovuto sacrificarsi prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo (id. VII, 27), che non offrì il sangue di animali, ma il proprio corpo una volta per tutte (id. Xi), e che è entrato nei cieli (id. IV, lô). Con la sua obbedienza ha espiato la disobbedienza di Adamo (Rom. V, 19), poiché è stato obbediente fino alla morte di croce (Fil. II, 8). – Poiché Cristo ha dischiuso con il suo sacrificio le fonti della grazia, la Messa e i sacramenti, attraverso i quali possiamo recuperare la santità e la filiazione divina (Gai. IV, 5) e i nostri diritti al cielo (ibid.), diciamo che il Salvatore ci ha riaperto il paradiso. È proprio per questo che alla sua morte si è squarciato il velo del tempio che chiudeva il Santo dei Santi. (S. Matth. XXVII, 51). Abbiamo la speranza certa di entrare nel Santo dei Santi, cioè in cielo, attraverso il sangue di Gesù Cristo (Eb. X, 19). La croce è la chiave del cielo. (S. G. Cris.).

Cristo ha liberato il nostro corpo dalle conseguenze dannose del peccato.: morendo per noi, ci ha fatto guadagnare la risurrezione, ci ha insegnato con i suoi insegnamenti e il suo esempio come vivere felicemente in questo mondo come in cielo, e come dominare il mondo; infine, ci ha mostrato i mezzi per tenere il diavolo lontano da noi e per vincerlo.

Cristo era libero da ogni peccato, anche dal peccato originale. Per questo Egli non era soggetto alla morte che è la punizione per quel peccato. È morto liberamente per noi. Perciò è giusto che ci venga restituita la vita e che risorgiamo. Un paragone ci aiuterà a comprendere questa verità. Se dobbiamo una somma di denaro e un amico paga questo debito nello stesso momento in cui noi lo paghiamo, è giusto che ci vengaa restituito il danaro. Il Cristo è la risurrezione e la vita; (S. Giovanni XI, 2) e con la sua stessa risurrezione ha voluto darci un pegno della nostra. (I Cor. XV). La morte è venuta attraverso un uomo, la risurrezione dei morti deve venire se osserviamo la dottrina di Cristo, otterremo la vera felicità (si vedano le parole di Cristo alla Samaritana – S. Giov. IV) e godremo del paradiso terreno già in questa vita. – Praticando le virtù che Gesù Cristo ha insegnato e praticato, in particolare l’umiltà, la mitezza, la liberalità, la castità, praticando i consigli evangelici, possiamo respingere gli assalti del diavolo, nella misura in cui sono dannosi per la nostra salvezza. Cristo ha solo spezzato il potere di satana (Apoc. XII, 8), non lo distruggerà completamente se non all’ultimo giorno. (I Cor. XV, 24). – È per aver gettato satana dall’alto del suo potere che Gesù Cristo disse: “Ho visto Satana cadere come un fulmine dal cielo” (S. Luc. X, 18). – Con Gesù Cristo, nostro Salvatore, abbiamo più o meno riacquistato tutti i doni persi a causa del peccato. Senza dubbio, rimanevano molte conseguenze: concupiscenza, malattie, morte. Ma grazie ai meriti di Gesù Cristo, siamo stati compensati con doni più grandi e più numerosi di quelli che ci sono stati tolti dalla gelosia del diavolo. (S. Leone M.) Dove c’era abbondanza di peccato” c’era allora una sovrabbondanza di grazia. (Rom. V, 20). O colpa felice – esclama S. Agostino – che ci ha portato un Salvatore così grande e glorioso!

2. LA PROMESSA DEL REDENTORE.

Dio, che non aveva perdonato gli angeli caduti, perdonò i nostri primi avi perché erano meno colpevoli. Essi non lo conoscevano molto bene e sono stati sedotti dal diavolo. Inoltre, gli uomini avevano, almeno in parte confessato e si erano pentiti del loro peccato (non avrebbero dovuto però dare la colpa agli altri). Infine, Dio non voleva per la colpa di uno solo far sprofondare l’intera umanità in una disgrazia irreparabile.

1. SUBITO DOPO LA CADUTA, DIO HA PROMESSO ALL’UMANITÀ UN SALVATORE. DIO DISSE AL SERPENTE INFERNALE:

Porrò inimicizia tra te e la donna, e tra il tuo seme e il suo; ella ti schiaccerà la testa“. (Gen. ni, 15).

Questo è il significato di queste parole: porrò inimicizia tra satana e la Vergine Maria, tra i settari di satana e Cristo, il figlio della Vergine (Gal, III, 16); la Vergine Maria darà alla luce Colui che annienterà il potere del demonio, cioè Colui che libererà la razza umana che si è sottomessa alla sua influenza a causa del peccato originale. È un errore credere che con queste parole Dio abbia voluto solo ispirare all’uomo l’avversione, l’orrore del serpente; Dio le pronunciò contro il seduttore e non contro il suo semplice strumento. – Queste parole sono comunemente considerate il Provangelo, (primo) Vangelo, cioè la prima buona notizia del Redentore.. – Tuttavia, il Redentore non venne subito, perché gli uomini diventarono troppo sensuali e quindi incapaci di ricevere una grazia così grande. Egli fu invece costretto a punirli molto severamente con il diluvio, la distruzione di Sodoma e Gomorra e la dispersione presso la Torre di Babele.

2. 2000 ANNI DOPO, DIO PROMISE AD ABRAMO CHE IL REDENTORE SAREBBE STATO UNO DEI SUOI DISCENDENTI.

All’inizio Abramo viveva a Ur (città del fuoco) in Caldea, poi ad Haran in Mesopotamia; circondato da idolatri, aveva mantenuto la sua fede nel vero Dio. Il Signore allora gli ordinò di lasciare la sua famiglia e di andare in Chanaan o Palestina. Come ricompensa per questa obbedienza, Dio gli promise che in lui sarebbero state benedette tutte le generazioni della terra. (Gen. XlI, 23). Gli promise anche una numerosa discendenza. (Abramo è il padre spirituale di tutti i credenti. Rom. IV, 11). e diede a lui e ai suoi discendenti la fertile terra di Palestina (Gen. XII, 7). – Dio rinnovò questa promessa quando venne con due angeli a fargli visita nella sua tenda. (Gen. XVIII) e quando, per obbedienza, Abramo si preparò a sacrificare suo figlio Isacco. (Gen. XXII).

Questa promessa fatta ad Abramo, Dio la rinnovò ad Isacco, Giacobbe e circa 1000 anni dopo al re Davide.

Dio apparve a Isacco quando, spinto dalla carestia, volle attraversare la Palestina (Gen. XXVI, 2); a Giacobbe, quando fuggì dalla casa paterna e vide la visione della scala misteriosa (id. XXVIII, 12). Davide (re dal 1055 al 1015) ricevette da Dio, attraverso il profeta Natan, che uno dei suoi discendenti sarebbe stato il Figlio di Dio e avrebbe fondato un regno eterno. (II Re VII, 12). – Gli uomini dalla cui stirpe è nato il Salvatore sono chiamati Patriarchi. Ci furono 10 patriarchi prima del diluvio, da Adamo a Noè, e 12 da Shem ad Abramo, Isacco e Giacobbe.

Tutti i patriarchi vissero fino all’età matura: prima del diluvio raggiunsero un’età di quasi 1000 anni, dopo il diluvio, da 400 a 450 anni. Questa longevità può essere spiegata in parte dalla semplicità dei loro costumi, dalla loro vita all’aria aperta, dalle condizioni atmosferiche più favorevoli prima del diluvio, ma soprattutto dai disegni della Provvidenza, che attraverso questa ininterrotta tradizione ha voluto educare il genere umano; ciò che la Sacra Scrittura e l’insegnamento della Chiesa sono per noi, i Patriarchi lo furono per le generazioni primitive.

3. IN SEGUITO DIO INVIÒ I PROFETI E FECE LORO PREDIRE MOLTE E DETTAGLIATE COSE SULLA VENUTA, LA PERSONA, LE SOFFERENZE E LA GLORICIZIONE DEL MESSIA.

I Profeti erano uomini illuminati da Dio (uomini di Dio) che erano stati incaricati da Lui di parlare agli israeliti in suo nome. Il ruolo principale dei Profeti era quello di impedire a Israele di peccare (di rimproverarli quando avevano peccato) e di prepararli alla venuta del Messia (cioè di profetizzare su di Lui). – Dio scelse profeti di diversa estrazione (Isaia era di stirpe reale; Amos era un pastore; Eliseo era stato chiamato dall’aratro) e concesse loro il dono dei miracoli e della profezia (predire le punizioni e gli eventi futuri della vita del Messia), cosicché furono immediatamente considerati come inviati di Dio. La maggior parte di loro conduceva una vita molto penitente; alcuni rimasero celibi (Elia, Eliseo, Geremia). – I Profeti parlavano con grande audacia ed erano molto stimati dal popolo. Tuttavia, tutti furono perseguitati e alcuni messi a morte (S. Matth. XXIII, 20). In tutto, i profeti furono circa 70. Mosè stesso era un grande profeta (Dent. XXXIV3 10); il più grande fu Isaia, che parlò così chiaramente del Salvatore, che noi potremmo – dice San Girolamo – chiamarlo evangelista. L’ultimo Profeta fu Malachia (intorno al 450 a.C.). Diversi profeti hanno lasciato degli scritti (4 grandi e 12 piccoli Profeti).

I. SULLA VENUTA DEL MESSIA I PROFETI HANNO PREDETTO:

1. Che sarebbe nato a Betlemme.

“E tu, Betlemme chiamata Efrata, dice Michea, sei piccola tra le città di Giuda; ma da te uscirà Colui che dovrà regnare in Israele, la cui generazione è fin dal principio, da tutta l’eternità. “(Michea V, 2). – Così i re Magi furono informati che il Salvatore dovesse nascere a Betlemme. (S. Matth. II, 5).

2. Che il Messia sarebbe venuto finché fosse rimasto il 2° tempio.

Quando i Giudei, al ritorno dalla cattività, cominciarono a ricostruire il tempio, gli anziani che avevano visto l’antico tempio piansero amaramente, perché videro fin dall’inizio che il nuovo tempio non avrebbe eguagliato la grandezza e la bellezza di quello antico. Il Profeta Aggeo venne allora a consolarli, dichiarando che il Salvatore sarebbe entrato nel tempio che stava per essere costruito. Il Salvatore sarebbe entrato in questo tempio che avrebbe prevalso in gloria sul primo (Agg. II, 8-10). – Ora, questo tempio fu distrutto da Tito nel 76 (d.C.) e non fu mai più ricostruito.

3. Che il Messia sarebbe venuto quando i Giudei sarebbero stati privati della sovranità (potere regale).

Prima di morire Giacobbe benedisse i suoi figli e disse a Giuda: “Lo scettro (la sovranità, l’autonomia) non uscirà da Giuda fino all’arrivo di Colui che le nazioni attendono. (Gen. XLIX, 10). Da quel momento in poi, la tribù di Giuda conservò la sovranità. All’uscita dall’Egitto e sotto i Giudici, essa fu la tribù dominante (Num. II, 3-9; Giud. I, 3; XX, XVIli). Il re Davide apparteneva alla tribù di Giuda (l Par. II, 16), così come i suoi successori fino alla cattività, e Zorobabele, che riportò il popolo (Esdr. I, 8). E mentre i Giudei erano sottomessi a re stranieri, i governatori che in Oriente hanno il potere assoluto, erano Giudei. In seguito, il popolo giudaico riacquistò la libertà ed ebbe re nazionali della famiglia dei Maccabei. Ma nel 39 a.C. i re giudei persero il loro trono, perché in quell’anno uno straniero pagano, Erode il grande (nato l’anno 3 dopo Gesù Cristo), fu nominato re dai Romani. – In quel periodo il Salvatore era davvero atteso in tutta la Giudea; infatti, Erode tremò quando i Magi gli chiesero dove fosse nato il Salvatore (S. Matth. 11, 3); i Giudei credettero addirittura che Giovanni Battista nel deserto fosse il Cristo (S. Luc. IIl, 15). – Anche la Samaritana al pozzo di Giacobbe parla della venuta del Messia (S. Giovanni IV, 25). Il sommo sacerdote esorta Gesù a dirgli se è Lui il Messia (S. Matth. XXVI, 63); infine più di 60 impostori ingannarono il popolo facendosi passare per il Cristo. – Anche i pagani all’epoca di Gesù Cristo si aspettavano un dominatore del mondo, originario della Giudea (Tacito, Svetonio); il poeta Orazio lo chiamava figlio della vergine celeste, che sarebbe tornato in cielo. (Odi I, 2).

4. Che Daniele (605-530) dalla ricostruzione delle mura di Gerusalemme (453) alla vita pubblica del Messia, ci sarebbero state 69 settimane di anni, e fino alla sua morte, 69 e mezzo.

Questa profezia gli fu comunicata dall’Arcangelo Gabriele, mentre alle 3 del pomeriggio “offriva il sacrificio della sera e pregava per la liberazione dalla cattività babilonese”. (Dan. IX, 21). – Ora, Ciro nel 636 concesse ai Giudei prigionieri solo il permesso di ricostruire la città ed il tempio, ma in nessun modo di costruire fortificazioni; altrimenti non si capirebbe perché siano stati accusati presso il re di Persua di costruire le mura di Gerusalemme (I Esdr. IV, 12). – Fu solo Artaserse, che nel 20° anno di regno (453) diede a Neemia, il suo coppiere, l’autorizzazione di fortificare Gerusalemme e di dotarla di porte (II Esdr. II, 2,1-8). Ora, se al numero 452 aggiungiamo 69 volte 7, ossia 483 anni o 69 e mezzo volte 7, ossia 486 e mezzo, arriviamo all’anno 30 e 33 dopo Gesù Cristo. Che mirabile profezia!

5. Che il Messia sarebbe nato da una Vergine della razza di Davide.

Dio fece dire ad Isaia al re Achaz (VII, 15) di chiedergli un segno della sua onnipotenza. Ma il re rifiutò: “Perciò – disse il Profeta – il Signore ne darà uno di sua iniziativa”. Ecco, una vergine concepirà e partorirà un figlio, e il suo nome sarà Emmanuele (Dio con noi). – Da parte sua, Geremia ha detto: “Susciterò per Davide un discendente giusto; egli regnerà come re e il suo nome sarà: Il Signore nostro Giusto (Ger. XXIII,5-6).

6. Che il Messia avrebbe avuto un precursore, che avrebbe predicato nel deserto e avrebbe condotto una vita angelica.

“Abbiamo udito – dice Isaia, (XL, 3) – la voce di uno che grida nel deserto: Preparate le vie del Signore, raddrizzate i sentieri del nostro Dio. Tutte le valli saranno riempite e ogni monte e colle sarà abbassato. Io vi manderò – dice Malachia (III, 1), “il mio angelo che preparerà la mia via davanti alla mia faccia, e subito il sovrano che cercate… verrà al suo tempio”. Questo precursore era San Giovanni Battista.

7. Che una nuova stella sarebbe sorta con il Messia.

L’indovino Balaam profetizzò davanti al re dei Moabiti quando arrivarono gli Israeliti figli di Mosè: “Lo vedo, ma non ancora; lo vedo, ma non da vicino. Una stella uscirà da Giacobbe, uno scettro sorgerà in Israele” (Numeri XXIV, 17).

8. Che i re sarebbero venuti da terre lontane per adorarlo e portargli doni. (Sal. LXXI , 10).

9. Che al momento della nascita del Messia, molti bambini sarebbero stati uccisi.

“Un brusio – dice Geremia (XXXI, 16) di lamentele, gemiti e pianti si è alzato sulla collina. Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata, perché non ci sono più”. Rachele, la madre della tribù più numerosa, rappresenta qui il popolo giudaico. Rachele morì e fu sepolta a Betlemme (Gen. XXXV, 19).

10. Che il Messia sarebbe fuggito in Egitto (Is. XIX, 1) e che sarebbe tornato. (Os. XI, 11).

11. Della Persona del Messia i Profeti hanno annunciato:

1. Che il Messia sarebbe stato il Figlio di Dio.

Dio annunciò il Salvatore a Davide attraverso il profeta Natan e disse: “Io sarò suo Padre ed egli sarà mio Figlio.” (Rm VII, 10). Nel Salmo II Dio dice al Messia: “Tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato”.

2. Che sarebbe stato allo stesso tempo Dio e uomo.

“Un bambino è nato per noi, dice Isaia (IX, 6), un figlio ci è stato dato, e il suo nome sarà

(cioè sarà Lui stesso): Consigliere mirabile, Dio”. “Dio verrà di persona e vi salverà”. (Ibid. XXXV, 6).

3. Che sarà un grande operatore di meraviglie.

“Dio stesso verrà e vi salverà. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi,

gli orecchi dei sordi; gli zoppi salteranno come cervi e la lingua dei muti sarà sciolta. (Is. XXXV, 6).

4. Che sarebbe stato un sacerdote come Melchisedec.

Secondo Davide, Dio parlò al Messia in questi termini: “Tu sei sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchisedec”. (Ps. CIX, 4.) – Gesù Cristo ha offerto il pane ed il vino nell’Ultima Cena e lo fa ancora ogni giorno attraverso le mani dei Sacerdoti.

5. Che sarebbe stato un grande profeta o dottore.

Dio aveva già promesso a Mosè che “avrebbe suscitato per gli Israeliti un profeta come lui tra i loro fratelli”. (Deut. XVIII, 18). Così i Giudei lo chiamarono semplicemente il Messia, “il profeta che deve venire”. (S. Giovanni VI, 14). – Come profeta, il Salvatore doveva insegnare e profetizzare. Doveva anche essere il maestro dei Gentili. (Is. XLIX, 1-6).

6. Che sarebbe stato il sovrano di un nuovo regno (Ger. XXIII, 6) indistruttibile e comprendente tutti i regni della terra. (Dan. II, 44).

Questo regno è la Chiesa Cattolica o universale. – Ecco perché Cristo davanti a Pilato si è definito Re (S. Matth. XXVII). 11). Egli aggiunge però questo: “Il mio regno non è di questo mondo”, cioè il mio regno è tutto spirituale (S. Giovanni XVIII, 36).

III. Per quanto riguarda la Passione del Messia, i Profeti avevano predetto:

1. Che il Messia farebbe la sua entrata in Gerusalemme su di un asino. (Zac. IX, 9).

2. Che sarebbe stato venduto per trenta pezzi d’argento.

Mi fecero pagare, dice Zaccaria (XI, 12), trenta pezzi d’argento; e il Signore disse: “Gettalo al vasaio, l’alto prezzo che mi hanno fatto pagare”. E io presi i 30 denari e li gettai nel tesoro della casa del Signore. – I fatti rispondono a questa profezia: Giuda gettò il denaro del tradimento nel tempio ed i sacerdoti comprarono il campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri. (S. Matth. XXVII, 5-7).

3. Che sarebbe stato tradito dal suo commensale (Sal. XL, 10).

Giuda lasciò la tavola e tradì subito il suo Maestro (S. Giovanni XVIII, 15).

4. Che nella sua passione i suoi discepoli lo avrebbero abbandonato“.(Zac. XIII, 7).

Quando Gesù fu preso, tutti i suoi discepoli lo abbandonarono e fuggirono (S. Marco XIV, 50). Pietro e Giovanni, da soli, lo seguirono da lontano nel cortile del sommo sacerdote. (S. Giovanni XYIII, 15).

5. Che sarebbe stato schernito (Sal. XXI, 7), colpito, disprezzato (Sal.L,.6), flagellato, (Sal. LXXII, 14) coronato di spine, (Cant. III, 11) fatto bere fiele ed aceto (Sal. LXVIII,22).

Coloro che passavano sotto la croce lo maledicevano e scuotevano la testa. (S. Marco XV, 29). I principi dei sacerdoti e gli scribi lo irridevano e dicevano tra di loro: “ha aiutato gli altri; aiuti se stesso”. (S. Marco XV, 31).

– Già davanti al sommo sacerdote Anna, un servo aveva dato uno schiaffo al Salvatore, perché la sua risposta gli era dispiaciuta. (S. Giovanni XVIII, 22). Quando Cristo davanti a Caifa confessò di essere il Figlio di Dio, alcuni gli sputarono in faccia, lo presero a pugni ed altri gli diedero schiaffi (S. Matth. XXVI, 67). Pilato fece flagellare Cristo (S. Giovanni XIX, 1); poi i soldati gli misero una corona di spine, un mantello di porpora, gli colpirono la testa con una canna, gli diedero colpi e lo schernirono (S. Marco XV; S. Giovanni XVIII). Sul Golgotha gli diedero un vino detestabile, mescolato con fiele (propriamente con mirra – S. Marco XV, 21) e dopo averlo assaggiato, rifiutò di berlo. (S. Matth. XXVII, 34).

6 . Che tirassero a sorte la sua veste. (Sal. XXI, 19).

I soldati fecero della veste di Cristo 4 parti e ognuno ne prese una; ma poiché la veste era priva di cuciture e tessuta in un unico pezzo, non vollero tagliarla (S. Giovanni XiX, 23) e lo tirarono a sorte.

7. Che gli venissero trafitte le mani e i piedi. (Sal. XXI, 17).

Gesù Cristo era davvero inchiodato alla croce; così poté mostrare a Tommaso le ferite delle sue mani, dicendogli: “Metti qui le tue dita” (S. Giovanni XX, 27). – Altri che furono crocifissi, come i due ladroni, poi S. Pietro e S. Andrea, non furono crocifissi. Si dice che fossero solo legati alla croce con delle corde.

8. Che sarebbe morto in mezzo ai criminali.

“Gli danno, dice Isaia, il suo sepolcro tra gli empi ed Egli sarà tra i ricchi dopo la sua morte. (Is. LIII, 9). Cristo morì tra due briganti della strada che furono crocifissi con lui (S. Luc. XXIII, 33).

9. Che in mezzo alle sue sofferenze, sarebbe stato paziente come un agnello (Is. LIII, 7) e che avrebbe persino pregato per i suoi nemici. (Ibid. 16).

10. Che avrebbe sofferto liberamente e per i nostri peccati. (Ibid. 4-7).

IV. Per quanto riguarda la glorificazione del Messia, i Profeti annunciano:

1. Che la sua tomba sarebbe stata tra i ricchi (Is. LIII, 9).

Che sarebbe stato addirittura glorioso (Is. XI, 10).

2. Che il suo corpo non sarebbe stato consegnato alla corruzione della tomba. (Sal.. XV, 10).

3. Che sarebbe tornato in cielo (Sal. LXVII, 34) e si sarebbe seduto alla destra di Dio. (Sal. CIX, 1).

4. Che la sua dottrina si sarebbe diffusa da Gerusalemme, dal monte stesso di Sion, a tutta la terra (Is. II, 3).

Il Cenacolo, dove gli apostoli ricevettero lo Spirito Santo, si trovava sul Monte Sion.

5. Che le nazioni di tutto il mondo entrassero nel suo regno e lo adorassero. (Sal. XXI, 28-29).

6. Che il popolo giudaico che lo aveva crocifisso sarebbe stato punito e disperso tra tutti i popoli della terra. (Dent XXVIII, 64).

Gerusalemme sarà distrutta insieme al tempio, i sacrifici e il sacerdozio ebraico, ed il tempio non sarà più ricostruito. (Dan. IX, 26-27; Os. III, 4).

7. Che in tutti i luoghi della terra si offrirà a Lui un sacrificio puro di grano. (Mal. I, 11).

8 . Che un giorno avrebbe giudicato tutti gli uomini (Sal. CIX, 6) e che prima del giudizio avrebbe inviato Elia sulla terra (Mal. IV, 5).

4. La vita del Messia è stata anche preannunciata da molte figure.

Una pianta mostra in anticipo come sarà l’edificio. L’ombra del viaggiatore indica che lo seguirà. L’alba annuncia il giorno. Allo stesso modo, alcune delle azioni dei Patriarchi prefiguravano alcune azioni di Cristo, e molte cerimonie giudaiche prefiguravano alcuni dei misteri del Cristianesimo. (I Col. II, 17). L’Antico Testamento è per il Nuovo, ciò che l’ombra è per la realtà (Eb. X, 1), ciò che l’immagine è per l’originale. Tutto l’Antico Testamento era il velo del Nuovo (S. Aug.). – Il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico e quest’ultimo è illuminato dal Nuovo. (S. Aug.). Le persone o le cose che rappresentano un evento futuro sono chiamate figure o tipi.

Le principali figure del Messia furano Abele, Noè, Melchisedec, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Mosè, Davide, Giona, l’Arcangelo Raffaele, l’agnello pasquale, il sacrificio espiatorio, il serpente di bronzo, la Manna, ecc.

Abele fu il primo giusto tra gli uomini (Cristo il primo degli eletti); era un pastore e offrì a Dio un sacrificio gradito, fu odiato e ucciso dal fratello e rimase dolce come un agnello (Gen. IV). (Cristo fu ucciso dai Giudei, suoi fratelli). Noè fu l’unico uomo giusto tra tutti i suoi contemporanei (Gesù Cristo è l’unico senza peccato); costruì un’arca mentre ancora predicava (Cristo fondò la Chiesa); salvò l’umanità dalla rovina (Gesù Cristo salva l’umanità dalla morte eterna); offre a Dio un sacrificio gradito a Dio quando uscì dall’arca (Gesù Cristo lo offrì quando uscì dalla vita). Con Noè, Dio ha stretto un’alleanza con l’umanità e ha promesso l’arcobaleno. (Gesù Cristo ha rinnovato l’alleanza e ha dato in pegno il SS. Sacramento). (Gen. VI-IX).

Melchisedec (Gen. XIV), che significa re della giustizia, era re di Salem, cioè della pace. (Gesù Cristo è il re eterno della giustizia e della pace). Re e sacerdote egli offre pane e vino. – Isacco è l’unico figlio amato da suo padre (Gen. XXlI); porta la legna per il suo sacrificio sul monte, si pone obbediente sulla legna, fu restituito al padre (Gesù Cristo è risorto dai morti). – Giacobbe (Gen. XXV-33) fu perseguitato dal fratello ed alla fine si riconciliò con lui. Cristo fu perseguitato dai suoi fratelli, i Giudei, e si riconcilierà con loro alla fine dei tempi. Benché figlio fi un uomo ricco, andò povero in un paese straniero, a trovarsi una sposa pia, (Gesù Cristo è venuto sulla terra per fidanzarsi alla Chiesa); per avere questa sposa, Giacobbe si mmisssw asl lavoro per lunghi anni (Gesù Cristo per la Chiesa ha preso la forma di uno schiavo ed ha servito l’umanità per 33 anni); Giacobbe aveva 12 figli e tra questi un figlio di predilezione, Giuseppe. (Gen. XXV, 33). Gesù Cristo aveva 12 Apostoli e tra essi un amico particolare, Giovanni).  – Giuseppe (Gen. XXXVII-XLV), il figlio prediletto, viene odiato dai fratelli e venduto per meno di 30 denari viene imprigionato tra mezzi criminali, uno dei quali viene graziato e l’altro giustiziato (così Gesù Cristo sulla croce); dopo le sue umiliazioni viene elevato ai più alti onori; con il suo consiglio salvò l’Egitto dalla carestia (Gesù Cristo con il Vangelo, ci salva dalla carestia spirituale), gli araldi ordinano al popolo di inginocchiarsi davanti a Giuseppe (gli Apostoli hanno chiesto lo stesso onore per Gesù). Egli si riconcilia finalmente con i suoi fratelli, come Gesù si riconcilierà con ii Giudei alla fine del mondo. – Mosè (Esodo) sfugge da bambino ai crudeli ordini del faraone. trascorse la sua giovinezza in Egitto, digiunò 40 giorni prima della promulgazione della legge (Gesù Cristo digiuna 40 giorni prima della predicazione del Vangelo); libera gli Israeliti dalla prigionia e li condusse nella Terra Promessa (Gesù Cristo ci ha salvato dalla schiavitù di satana e ci ha portato nella Chiesa); compie miracoli per dimostrare la sua missione divina, prega continuamente per il popolo, appare sul Monte Sinai con un volto raggiante di luce (Tabor), è il mediatore dell’Antica Alleanza, come Gesù Cristo della Nuova. – Davide nacque a Bethlehem e trascorse la sua giovinezza in uno stato molto umile; attaccò il gigante Golia con un bastone e cinque pietre, l’avversario del popolo di Dio e lo sconfisse (Gesù Cristo ha sconfitto satana con il legno della croce e le sue cinque ferite), diventa re, come Gesù, soffre molto, ma trionfa sempre. (I-II Re). – Giona trascorre tre giorni nel ventre del pesce (Gesù Cristo, 3 giorni nel seno della terra. S. Matth. XII, 40); predica la penitenza ai Niniviti come Gesù agli Ebrei. – L’Arcangelo Raffaele scende dal cielo per diventare la guida di un uomo (Gesù-Cristo per diventare la guida dell’umanità), lo accompagna, cura la cecità (Gesù Cristo cura la cecità spirituale) e lo libera dal diavolo (Tob.). – L’agnello pasquale (Es. XIII) viene sacrificato prima dell’uscita dall’Egitto, quindi alla vigilia del grande sabato pasquale; è una vittima ed un cibo, senza difetti, senza macchia, nel fiore della vita; le sue ossa non sono state spezzate; il suo sangue viene messo sulle porte, preserva dalla morte corporea (quella di Gesù, dalla morte eterna), viene mangiato al momento della partenza per la Terra Promessa (Gesù Cristo dona se stesso al momento della partenza per la vostra vita futura); l’agnello è mite, come lo era il Salvatore. – Il grande. sacrificio di propiziazione: Il sommo sacerdote imponeva le mani su un ariete e dopo aver confessato i peccati del popolo, lo spingeva nel deserto per farlo morire (Num. XXIX), anche Gesù Cristo prese su di sé i peccati degli uomini e per questo andò incontro alla morte attraverso il deserto della sua vita mortale. – Il serpente di bronzo (Num. XXI, 6) è collocato nel deserto su una croce; un solo sguardo guarisce dal morso mortale dei serpenti di fuoco. Come Mosè ha innalzato il serpente di bronzo nel deserto, così il Figlio dell’uomo deve essere innalzato, affinché tutti coloro che credono in Lui non periscano, ma abbiano la vita eterna” (S. Giovanni III, 14). – La Manna è una figura di Gesù nel Santissimo Sacramento; è bianca come l’ostia; cadeva ogni mattina, come Gesù scende ogni mattina sull’altare; non cadeva più dopo il soggiorno nel deserto, come Gesù smetterà di essere presente nel Santissimo Sacramento dopo la fine del mondo.

Sacramento dopo la fine del mondo. La manna, secondo Gesù Cristo (S. Giovanni VI, 33) si differenzia dall’Eucaristia in quanto non è il vero pane del cielo, mentre questo (l’Eucaristia) è il vero pane del cielo e dà vita al mondo”.

3. LA PREPARAZIONE DELL’UMANITÀ ALLA VENUTA DEL SALVATORE.

1. DDIO SCELSE UN POPOLO E LO PREPARÒ ALLA VENUTA DEL SALVATORE.

Questo popolo scelto era costituito dai discendenti di Abramo.; è comunemente chiamato popolo israelita o ebreo

La vocazione di Abramo è ben nota (Gen. XII). Il popolo ebraico doveva essere il sacerdozio di tutta l’umanità. (Es. XIX, 6). Questa scelta non era quindi una riprovazione per altri popoli, ma una prova che Dio si prendeva cura di loro. Dio dichiarò che il Redentore avrebbe reso felici tutti i popoli. .

La preparazione del popolo eletto per la venuta del Salvatore consisteva in prove severe, in una legge severa, in numerosi miracoli e nell’insegnamento dei profeti.

Il popolo eletto era molto sensuale; preferiva le pentole dell’Egitto alla libertà. (Es. XVI, 3). Per questo motivo Dio inviò loro delle prove per sradicare questa sensualità: Ad esempio, l’ordine del faraone di uccidere tutti i bambini maschi; la fame e la sete nel deserto; i serpenti di fuoco, gli attacchi dei nemici quando il popolo aveva abbandonato la cattività babilonese e l’oppressione di re crudeli. A causa della rozzezza del popolo Dio diede loro le sue leggi tra lampi e tuoni, accompagnati da minacce e da promesse (S. Giovanni Cris.). Il popolo era anche molto incline alla idolatria, come dimostra l’episodio del vitello d’oro. (Es. XXXII, 1). I miracoli avevano lo scopo di rafforzare la fede e la fiducia nell’unico vero Dii (le piaghe d’Egitto, l’attraversamento del Mar Rosso e del Giordano, la manna, la sorgente della roccia, la caduta delle mura di Gerico, ecc.) – I profeti dovevano anche rafforzare la fede nel vero Dio e mantenere vivo il desiderio della venuta del Redentore.

Ecco un breve riassunto della storia del popolo ebraico.

1. I discendenti di Abramo vissero dapprima in Palestina, poi vennero in Egitto, dove rimasero per 400 anni sotto dura oppressione.

Dio chiamò Abramo intorno al 2000 a.C. e lo condusse in Palestina. Abramo si stabilì a Hèbron (a ovest del Mar Morto); ebbe un figlio, Isacco, che volle sacrificare sul Monte Moriah. Isacco ebbe due figli, Giosuè e Giacobbe (chiamato anche Israele), il quale aveva sottratto al fratello, con l’inganno, la benedizione paterna e la primogenitura; fu costretto a lasciare la casa. Ebbe 12 figli uno dei quali, Giuseppe, divenne re in Egitto, dove chiamò i suoi parenti, 66 in numero, ad est del Delta del Nilo, la fertile terra di Gessen (1900 a.C.). Gli Israeliti – o figli di Israele – si moltiplicarono lì molto rapidamente e furono oppressi dai re d’Egitto.

2. Mosè condusse gli Israeliti fuori dall’Egitto; essi rimasero nel deserto per 40 anni.

Attraversarono il Mar Rosso (1500 a.C.) con 2 milioni di persone, di cui 600.000 guerrieri, e arrivarono nel deserto arabico, dove Dio li nutrì con la manna e diede loro la legge sul Sinai. Dio compì molti miracoli davanti ai loro occhi e Mosè morì sul Monte Nebo.

3. Sotto Giosuè conquistarono la Terra promessa, ma per altri 300 anni furono costretti, sotto la guida dei Giudici a combattere i loro nemici (1450-1100 a.C.).

Giosuè, successore di Mosè, divise la Terra Promessa tra le 12 tribù.

I Giudici erano capi suscitati da Dio in tempi di prova; essi comandavano il popolo in guerra, combattevano i nemici e amministravano la giustizia. I giudici furono Gedeone, Jefte, Sansone e Samuele, che fu l’ultimo giudice.

4. Gli israeliti furono poi governati da re: Saul, Davide e Salomone (1100-975 a.C.). – Saul era un uomo crudele che si uccise in battaglia. – Il suo successore

Davide si distinse per la sua pietà (1055-1015). Compose molti salmi e gli fu promesso da Dio che da lui sarebbe disceso il Salvatore. Egli cadde due grandi crimini, si sottopose a una severa penitenza. Suo figlio Assalonne gli si ribellò, ma senza successo. – Suo figlio Salomone costruì il meraviglioso tempio di Gerusalemme (1012) e fu famoso per la magnificenza della sua corte. Aveva una grande saggezza e scrisse il Libro dei Proverbi.

5. Dopo la morte di Salomone, il regno fu diviso in due parti: il regno di Israele a nord (975-722) e quello di Giuda a sud (975-588).

A Salomone successe il figlio Roboamo, che gravò il popolo di tasse ancora più pesanti del padre, così che le 10 tribù del nord formarono uno scisma e fondarono il regno di Israele. Le due tribù meridionali, Giuda e Beniamino rimasero fedeli a Roboamo e formarono il regno di Giuda.

6. Poiché gli abitanti di questi due regni abbandonarono il vero Dio, i regni furono distrutti e il popolo finì in cattività.

Il regno di Israele ebbe 19 re; essi portarono il popolo all’idolatria per impedire di andare a sacrificare a Gerusalemme. Dio inviò i profeti per minacciarli dei suoi castighi. Infine, nel 722, il re di Assiria, Salmanasar, distrusse il regno e deportò i suoi abitanti (tra cui Tobia) nella cattività assira. Nel 606, dopo la distruzione dell’impero assiro, essi caddero sotto il dominio dei Babilonesi e, nel 538, sotto il re persiano Ciro. – Il regno di Giuda ebbe 20 re e durò più a lungo. Fu solo il re di Babilonia, Nabucodonosor, che lo distrusse; poiché si ribellarono, un gran numero di ebrei (tra i quali Daniele

tra gli altri) furono fatti prigionieri (606 e 599). La città di Gerusalemme e il tempio furono distrutti. Tuttavia, i Giudei continuarono a offrire sacrifici sulle rovine del tempio. (Bar. 1, 10).

7. Dopo il ritorno dalla cattività (536), i Giudei godettero della pace fino al regno del crudele Antioco, re di Siria (203).

Dal 606 i Giudei del regno d’Israele e di Giuda furano soggetti allo stesso governo; vivevano nello stesso paese e presto ebbero relazioni amichevoli. Da questo momento in poi prevalse l’appellativo di Giudei anziché di Israeliti. Il re di Persia, Ciro, che aveva sottomesso l’impero babilonese, permise agli Ebrei di tornare in patria (Balthazar, ultimo re babilonese fu giustiziato la stessa notte in cui aveva profanato i vasi sacri). Nel 536 gli Ebrei tornarono in Palestina e ricostruirono il tempio. Immediatamente 42.000 guidati da Zorobahel tornarono a Gerusalemme e iniziarono a costruire il tempio, che fu completato nel 516. (Adempimento della profezia consolante di Aggeo). Nel 453 i Giudei ricevettero dal re persiano Artaserse il permesso di ricostruire le mura di Gerusalemme (profezia di Daniele sulle 69 settimane di anni). I Giudei rimasero sotto il dominio persiano per quasi 200 anni senza essere perseguitati. Nel 330 passarono sotto il dominio del re di Macedonia, Alessandro Magno, che aveva distrutto l’Impero persiano. Dopo la sua morte, i Giudei passarono sotto diversi sovrani, ma infine divennero (203) sudditi di Antioco Epifane IV. Egli li perseguitò a causa della loro religione: ad esempio, voleva costringere i 7 fratelli Maccabei ed Eleazar a mangiare carni proibite e li fece martirizzare; innalzò idoli nel tempio.

8. Dopo un’aspra guerra, gli Ebrei ottennero la libertà e furono governati per 100 anni da principi Giudei. (140-39 A.C.).

Sotto la guida dei valorosi Maccabei (Mattatia ed i suoi 5 figli), i Giudei iniziarono la guerra d’indipendenza e si liberarono completamente del giogo siriano. (In una di queste battaglie vennero uccisi alcuni giudei, sui quali furono trovati degli idoli. Giuda Maccabeo fece offrire sacrifici per loro). Uno di questi 5 fratelli, Simone, divenne re e sommo sacerdote in Giudea (140). Gli successe sul trono la sua posterità. Nel 64, Pompeo, in spedizione in Asia Minore, si fermò in Giudea e rese i suoi principi vassalli dell’Impero romano.

9. Nel 38 a.C., un pagano di nome Erode, divenne re della Giudea.

Quando i Giudei si ribellarono, i Romani deposero il loro principe e nominarono un pagano, Erode il Grande (39 a. C.). Erode fu il primo re dei Giudei, estraneo alla loro nazionalità. – Fu quindi sotto di lui che il Messia doveva nascere; fu anche lui a far massacrare i bambini di Betlemme. Morì nel 3 d.C. – A Erode successe il figlio Erode Antipa (3-40); fu lui a far uccidere S. Giovanni Battista ed a chiamare “folle” il Salvatore. Gli successe Erode Agrippa, un nipote di Erode il Grande. E. Agrippa fece decapitare Giacomo il maggiore ed imprigionare San Pietro. Egli si inimicò Dio e morì divorato dai vermi (44). – Nel 70 Gerusalemme fu distrutta da Tito ed i Giudei si dispersero in tutto il mondo.

2. Gli altri popoli furono preparati alla venuta del Messia, o dal popolo ebraico, o da uomini pii e saggi o con mezzi straordinari.

I Giudei erano in contatto regolare con i Gentili attraverso un commercio molto esteso. I loro libri sacri divennero presto noti ai Gentili e furono tradotti in diverse lingue. La Provvidenza ha permesso la loro prigionia per metterli a lungo in contatto con i Gentili; attraverso di loro i Gentili conobbero il vero Dio e le profezie sul Redentore. Tobia, illuminato dallo Spirito Santo, gridò: “Lodate il Signore, figli d’Israele! Egli vi ha dispersi tra i pagani che non lo conoscono, perché possiate raccontare le sue meraviglie e proclamare davanti a loro che non c’è altro Onnipotente all’infuori di Lui”. (Tob. X III, 3). – Dio ha anche suscitato uomini saggi e pii, o ne ha inviati alcuni. Socrate in Grecia insegnava un solo Dio, Creatore dell’universo; dimostrò la follia dell’idolatria, si distinse per la sua temperanza, l’altruismo

la dolcezza e l’impavidità, e fu condannato a morte per le sue dottrine. Giobbe in Arabia, Giuseppe in Egitto, Giona a Ninive, Daniele a Babilonia hanno svolto questo ruolo. Le loro straordinarie virtù, l’intrepida confessione della loro fede, i miracoli operati da Dio in loro favore (i tre giovani nella fornace, Daniele nella fossa dei leoni), erano destinati a mostrare ai pagani chi fosse il vero Dio. Di conseguenza, alcuni pagani adottarono la religione ebraica: furono chiamati proseliti. – Dio illuminò anche i Gentili con mezzi straordinari. Avvisò i tre Magi con una stella miracolosa (S. Matth. II,3); il centurione Cornelio da un Angelo (Atti Ap. X, 3), il re Baldassarre dalla misteriosa mano sulla parete sul muro (Dan. V.), il re Nabucodonosor da un sogno miracoloso che riguardava il vero Dio e il Messia (Dan. II), Balaam da un’asina (Num. XXII, 28). Inoltre, come vedremo in seguito, si trova davvero tra i pagani la speranza del Redentore.

3. Prima di inviare il Salvatore, Dio ha lasciato cadere tutti i popoli dell’universo in una profonda miseria, per far sì che desiderassero più ardentemente questo Salvatore e gli preparassero un’accoglienza più gioiosa.

I Giudei erano molto divisi in materia religiosa; tre partiti religiosi o sette si combattevano: i Sadducei, i ricchi del paese, che negavano la vita futura; i Farisei, meticolosi osservatori delle prescrizioni mosaiche; gli Esseni che si lasciavano alle spalle il mondo e conducevano una vita di dura penitenza. – Nonostante la loro filosofia, i pagani erano immersi in un’ignoranza totale delle cose divine e nell’immoralità più sfrenata. Il numero delle loro divinità era così grande che, secondo Esiodo, non è possibile enumerarle tutte. Adoravano statue di uomini viziosi, perfino animali; consideravano i loro dei come protettori del vizio e pensavano fosse meglio onorarli con azioni viziose o immorali, persino sacrifici umani. I pagani riconobbero la loro profonda miseria e chiedevano aiuto. In una delle sue odi, il poeta romano Orazio lamenta le guerre civili e dice: “Vieni finalmente, figlio della nobile vergine, rimani a lungo con il tuo popolo, torna tardi in cielo e trova il piacere di essere chiamato padre e principe”. (Socrate aveva già espresso la speranza che un mediatore sarebbe disceso dal cielo per insegnarci, senza errori, i nostri doveri verso Dio e verso gli uomini.. È quindi ragionevole che Giacobbe morente (Gen. XLIX, 10) e i profeti (Agg. 11, 7) avessero chiamato un tempo il Salvatore, il Desiderato delle nazioni. – Prima della venuta di Gesù Cristo, l’universo era come un malato che gridava al medico, perché sente il suo dolore in modo così acuto, come piante appassite che desiderano una rugiada rinfrescante, come un uomo che è caduto in un pozzo ed ha bisogno di un soccorritore perché, nonostante tutti i suoi sforzi, non riesce a risalire, come il figlio di un re, costretto a vivere nella più grande povertà e sapendo di essere chiamato a destini più alti. (Alb. Stolz). – Dio, nella sua saggezza, continua ad agire nello stesso modo; prima delle ispirazioni dello Spirito Santo, lascia che alcuni uomini cadano molto profondamente: testimonianza, un certo S. Paolo, un S. Agostino. Gli uomini in tale stato di miseria sono molto più disposti a ricevere la grazia di Dio ed a servirlo con zelo dopo la loro conversione.

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (XI)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (52)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (51)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

INDICE DEGLI ARGOMENTI -IX-

K. — DIO PRECETTORE DELLA VITA MORALE.

1. Principi fondamentali della vita morale.

K 1a. a. — CONDIZIONI DELL’ATTO MORALE.

1 aa. Cognizione dell’oggetto della moralità. L’ignoranza può essere invincibile (escludente la volontarietà) e pertanto scusante dal peccato (1485) 1968 2865° 2866;

Tuttavia, non qualsiasi ignoranza scusa 729s.

1 ab. Intenzione dell’oggetto della moralità. La libertà dall’uomo comporta questa dignità, per la quale essa sia in mano del suo consiglio ed ottenga il potere delle proprie azioni 3245; sull’uomo è imposto di adempiere i comandamenti di Dio per libro arbitrio. 227 245;

se esistono fatali necessità si è sollevati dall’imputabilità degli atti umani, dal premio o dalla pena. 283; si rivendica la libertà dall’uomo anche se caduto nello stato di natura: vd. D 3bd; la libertà pure da se sola non è sufficiente a fare il bene. 725.

La bontà morale si raggiunge solo mediante la compartecipazione al Dio buono. 240; non è sufficiente tendere al fine ultimo tanto per congettura 2290;

si riprova l’ipotesi del peccato filosofico 2291; si riprovano le affermazioni più lasse circa l’intenzione (esclusiva) del diletto sensuale 2102s; si riprovano d’altra parte le asserzioni che peccano per eccesso, richiedendo (come necessario per un atto moralmente buono) il motivo soprannaturale di fede, speranza, carità 1925 1934-1938 2307-2313 2444-2459.

Per il peccato attuale si richiede il consenso 870; pertanto (e per assenso dell’avvertenza alla malizia) non si può commettere nemmeno il più piccolo dei peccati attuali 223 780 1514; si riprovano le asserzioni: [Alla ragione del peccato non appartiene la volontarietà; a.l’uomo pecca anche in ciò che fa di necessario] 1946-1949 (1950-1953) 1967.

La violenza scusa dal peccato: applicazioni 1(762) 2715 2758 3634 3718.

Il timore non esclude la volontarietà e l’imputabilità al merito o pena,

applicazioni 1678 1705 2070 2129 2151 2573 3273.

K 1b. b. — FONTI DELLA MORALITÀ.

K1ba. Oggetto. Si fa un opera buona (naturalmente e soprannaturalmente) per l’oggetto e la circostanza 1962.

K 1bb. Sono da indagare dal confessore le circostanze dei peccati 813; in confessione sono da dichiarare quelle che ne mutano la specie (della moralità), 1681 1707 (1962).

K 1bc. Il Fine non giustifica i mezzi (a.in favore della fede; b.per la salute del corpo) b815 ab1254 a1998 b3684.

K 1c. c. — ESTENSIONE DELLA MORALITÀ.

Si Riprovano le asserzioni contro il valore morale e l’imputabilità degli atti esterni 733 739 966-969 (2234) 2240.

K 1d. — NORMA OGGETTIVA DELLA MORALITÀ: LEGGE.

1 da. La legge eterna è la ragione eterna del Creatore 3247; è il fondamento delle l1 dd.eggi della ragione umana quanto è la natura dei beni e dei mali 3248 3781 3973; è il principio del diritto dell’universo 3249.

1dd. La Legge naturale è la stessa legge eterna scolpita negli animi degli uomini che comanda di fare le cose rette vietando di peccare 3247s (3272) 3780s 3956; si rivendica la sua esistenza e conoscibilità (quanto al a.diritto al dominio e alla proprietà, b.diritto di imperare, c.diritto al salario necessario) 2302 b3131 3132 a3133 b3150s 3152 b3165 3170 3248 a3265 c3270 CdIC 6 a1499 a1509, 10°.

Si rigetta la nozione di diritto nel naturalismo, nello stesso luogo sostituito dalla forza materiale 2890; si riprovano le asserzioni circa l’etica atea [le Leggi morali non hanno bisogno della legge divina come fondamento] 2956-2961 (2962-2964); [la Repubblica è fonte e origine di ogni diritto] 2939; [la Volontà del popolo è la legge suprema] 2890.

1dc. La Legge umana stessa consiste nel consociarsi degli uomini secondo la legge naturale come per i singoli uomini 3248; per la legge umana per nome proprio sono prescritte dai poteri civili cose definibili non immediatamente dalla sequela del diritto naturale 3248.

1dd. Autore della legge. Cristo non è solo redentore, ma anche legislatore 1571.

L’autorità eccl. e civile procede immediatamente da Dio 3151 3170; circa il diritto di imperare e degli obblighi nei confronti delle leggi: vd. C 7cc; K 5a c

1dc. Interpretazione della legge. I principi del diritto eccl. in CdIC 17-19. lde

Nella consuetudine nella Chiesa Ecclesia la forza della legge si ottiene unicamente dal potere superiore gerarchico CdIC 25.

K 1e. e. — NORMA SOGGETTIVA DELLA MORALITÀ: LA COSCIENZA.

1ea. Dono della coscienza: all’uomo è comandato di fare e conservare l’ordine morale; come decisione morale si deve applicare la legge obiettiva al caso particolare 3918; si riprova l’etica della situazione giudicante non sec. le leggi obiettive, ma sec. un’intuizione personale 3918-3921.

1eb. Regole della prudenza per agire praticamente, o: sistemi morali. Si riprova il tutiorismo assoluto o rigorismo 2303.

Liberamente si può scegliere un sistema di probabilismo e probabiliorismo 2175-2177; si consente di seguire l’autorità di S. Alfonso nella questione morale, restando tuttavia liberi di conservare le sentenze delle altre autorità 2725-2727.

Si Riprovano a.il principio del probabilismo più lasso e le sue applicazioni (b.maggiormente espresse) 2021-2065 b2046s b2106s a2103 b2104 2105-2165.

K 1f. LE VIRTÙ IN GENERE.

Si riafferma l’esistenza delle virtù naturali (ctr. i Giansenisti) 1916 1925 1936-1938 1962 2307-2309 2444//2467; si riprova d’altra parte il disprezzo delle virtù soprannaturali in favore delle virtù naturali 3343-3345; si riprovano le asserzioni disprezzanti l’esercizio delle virtù come imperfezioni 896 2231 2368.

Dio precipuamente richiede gli atti di fede, speranza, carità (1923) 2188.

Si riprova l’asserzione circa la connessione delle virtù (morali). 1216.

2. Exercizio delle virtù nei confronti di Dio.

(Beni richiesti a Dio)

K 2a. a. — VIRTÙ TEOLOGICA DELLA FEDE.

Circa la natura della fede vd. A 8a; la fede in quanto disposizione alla giustificazione e virtù infusa vd. F 3e 4.

2aa. Necessità di credere. La fede cattolica è necessaria per la salvezza 75s 485; una volta dato l’assenso con giudizio di verità, l’uomo non già è libero fintanto che la voglia abbracciare (2780) 2915; l’uomo pieno della rivelazione è tenuto a prestare assenso di intelletto e di volontà 3008; nell’adulto battezzando c’è la necessità di credere 2836; si riprova: [l’opinione anche la meno probabile che scusa l’infedele contro l’obbligo di credere] 2104; si riprova l’indifferentismo o tollerantismo (negante l’obblig. di credere) 2720 2730s 2785 2865-2867 2915-2918.

I fedeli della Chiesa catt. per giusta causa mai possono mutare o mettere in dubbio la fede 3014 3036; si riprova il dubbio positivo come metodo teol. 2738.

Si riprov. le asserzioni più lasse circa l’obbligo di produrre l’atto di fede 2021 2116. 2165; circa la fermezza dell’assenso alla fide 2119-2121.

La visione dell’essenza di Dio evacua l’atto di fede in quanto la fede è una virtù teologica 1001.

2ab. Verità da credersi. Per fede divina e cattolica è da credersi tutto ciò come che sia divinamente rivelato, contenuto nello scritto del Verbo di Dio, nella tradizione, o che la Chiesa proponga con giudizio solenne o mediante il Magistero ordinario ed universale (1870) 3011 CdIC 1323, § 1; tuttavia una volta dogmaticamente definita nessuna cosa può essere compresa se non espressa manifestamente CdIC 1323, § 3.

Per necessità di mezzo sono da credere:— l’esistenza di Dio, alcuni suoi attributi (Dio remuneratore e vindice), la Persona di Cristo 2381; —la Trinità divina 75 177 2164 2380; —: l’incarnazione del Verbo 76 2164 2380; si riprovano le asserzioni più blande in tali cose 2122s 2164.

Non è lecito distinguere tra capi fondamentali e non-fondamentali, così da permettere il libro assenso diverso dei fedeli 3683; si riprova (nel senso simile) la selezione dei temi nelle conclusioni eccl. 2676-2678.

2ac. Professione della fede. È diritto fondamentale il praticare privatamente e pubblicamente la religione; l’occultazione della fede può essere pecca8monisa se cede allimplicita negazione della fede o in scaldalo al prossimo 2118 CdIC 1325, § 1.

2ad. Conservazione della fede Ctr. la fede pecca particolarmente l’eretico e l’apostata CdIC 1325, § 2 (qui le definizioni di “eretico”, “apostata”); infedeltà puramente negativa non è peccato 1968.

Da fuggire sono pure quegli errori che portano all’eresia CdIC 1324.

Si proibisce di aderire: — alle società clandestine (sette dei Massoni) 2511s 2783 2894 3156-3160 (3278s) CdIC 2335; —: alle società bibliche 2771 2784; — : ai circuli teosofici 3648; —: al partito comunista 2786 3865.

I Libri sono sottoposti alla censura e i nocivi proibiti; vd. H ld.

K 2b. b. — VIRTÙ TEOLOGICA DELLA SPERANZA.

La speranza è la virtù teologica che decade alla visione di Dio 1001.

Si rivendica la legittimità del motivo della speranza ctr. gli errori: vd. F 4; si riprov. l’ass. più blando circa l’obbligo di praticare l’atto di speranza 2021.

C. – VIRTÙ TEOLOGICA DELLA CARITÀ.

Si deve aderire a Dio come al sommo Bene 285.

Si riprov. gli errori del perfetto amore di Dio e circa la rassegnazione di se stesso (a.applicati anche ai peccati commessi) a964s 975 2351-2373.

Si riprov.: [Dio può comandare l’odio di Dio] 1049.

Si riprov. l’ass. più blanda circa l’obbligo di produrre l’atto di carità verso Dio 2021 2105-2107.

Circa l’obbligo di osservare i comandamenti di Dio in genere: vd. F 3fe.

K 2d. d. – CULTO DI DIO IN GENERE.

2de. Preghiera. Si riprov. Le asserzioni detraenti dell’orazione a.vocale ed b.impetratoria come non convenienti all’uomo contemplativo o perfetto b957959 a2181 a2214; la preghiera vale come soddisfazione per i peccati 1713.

Riprov. le asserzioni circa l’applicazione dell’orazione: [le Orazioni applicate per una persona non possono giovare che in generale] 1169; [l’Orazione dei presciti a nulla vale] 1176.

2db. Il Sacrificio è necessario in ogni religione S3339.

2dc. L’uso dei Sacramenti e dei sacramentali anche nei contemplativi deve essere del cuore 2191; non si disprezzano o si dimenticano senza peccato 1259 1699 1718 1775 2523.

2dd. Il Culto dei Santi (degli Angeli e degli uomini) si difende come lecito e si raccomanda come utile 675 1821-1825 1867 CdIC 1276; cf. L 3db ; la Messa in onore dei Santi è nel senso lecito 1744 (1755) 3363.

Ugualmente lecito è il culto delle reliquie 675 (818) 1269 1821-1825 1822 1867 CdIC 1276; si riprova il modo disonesto di agire con le reliquie 818 1825.

Ugualmente lecito è il culto delle immagini 477 581 600//608 653-656 1269 1821 1823 1824s 1867 CdIC 1276.

Alle Reliquie ed alle immagini si deve il culto relativo alla persona alla quale si riferiscono CdIC 1255, § 2; il culto di adorazione (latria) è da attribuire solo a Dio, non alle immagini 477 601; alle immagini non è inerente la virtù per la quale si venerano ma l’onore ad esse tributato si riferisce al prototipo 601 1823; si riprov. “adorare” immagini (il cui termine nondimeno viene infelicemente citato 600//608 653-656: versioni; cf. 612°; ma anche 675) 447 581.

Conviene anche il culto contemplativo delle immagini 2187;

Si riprov. L’asserzione indebitamente limitante il culto delle immagini 2325 2669-2672; si riprovano tuttavia le immagini della B. Maria Vg. abbigliata con vesti sacerdotali 3622.

Si censura l’abuso nel culto dei Santi 818 1825.

2de. Osservanze superstiziose. Si proibisce la divinazione, praticata nei sortilegi, gli auspici, l’astrologia giudiziaria, la chiromanzia etc. 1859 2824; all’astrologia (come scienza) non è da riporre fede 205 283 459s.

Si disapprova lo spiritismo con linterrogare anime o spiriti con l’operato di un “medium” personale 3642; ugualmente il magnetismo con fini soprannaturali 2823-2825.

Magia, veneficio: si riprovano atti e libri loro inerenti. 283 1859.

K 2e. e. – CULTO DI DIO PUBBLICO.

2ea. La Liturgia constituisce il culto pubblico, che il Redentore tributa al Padre e che la società dei fedeli tributa per suo mezzo al Padre (3840) 3841; il culto è pubblico, se esercitato in nome della Chiesa da persona legittimamente a questo deputata e presentata per atto di istituzione della Chiesa a Dio e ai Santi CdIC 1256; il culto deve essere esterno ed interno 3842;

Si riprov. le asserzioni estreme circa l’essenza della liturgia 3843.

Il Sacrificio dell’altare e le preghiere dell’ufficio divino sono un culto pubblico 3757; si riprov. le asserzioni circa l’ordine da osservare nella liturgia 2631-2633 2664s.

Si comanda il Precetto di ascoltare la Messa nei giorni festivi CdIC 1248; si riprova l’asserzione più blanda 2153; la celebrazione simulata della Messa è inganno del popolo 789; si riprova l’asserzione circa la celebrazione delle feste 2152 2673s; è sconveniente celebrare la festa delle singole Persone della Ss. Trinità 3325.

Le Preghiere liturgiche fatte dall’Ufficio a Dio in nome della Chiesa posseggono maggiore forza delle private 3758 3845; tuttavia, non per questo non sono da farsi le private 3819; si rivendica il valore “soggettivo” della pietà ctr. le detrazioni 3845.

Il concetto di anno liturgico è insufficiente ma vero concetto 3855.

Asserzione riprovata circa la lingua liturgica 2486 2666.

L’Ufficio divino dei Chierici: riprov. l’asserzione più blanda circa l’obbligo 2041 2053-2055 2154.

Orationi pubbliche, missioni popolari, esercizi spirituali: asserzioni riprovate 2664s.

2eb. Astinenza dalle opere servili nei giorni festivi. CdIC 1248.

2ec. Penitenza comune digiuno e astinenza da praticare in determinati periodi dell’anno: l’uso Romano non è condannabile 1080; il precetto obbliga anche i contemplativi 2191; le asserzioni più blande sono riprovate 2043 2049-2052.

K 2f. f. — REVERENZA NEI CONFRONTI DI DIO.

2fa. Tentazione di Dio. Si Riprovano le ordalie (ad opera dei ferri roventi, dell’acqua bollente, etc.) 670 695 799 1114; per il duello vd. K 4da.

2fb. Simonia è definita la efficace volontà di comprare o vendere per prezzo temporale una cosa intrinsecamente spirituale, o temporale a quella necessariamente annessa o che costituisce oggetto del contrario CdIC 727, § 1; si può comminare i per denaro, a.lingua, b.ossequio 304 473 586 692 ab707 751 820; si riprova la simonia nel a.conferire gli ordini sacri, nel b.promuovere gli ufficiali, nell’amministrazione del c.battesimo, d.crisma, e.sepoltura. f.sacramentali, g.nel ricevere un monaco nel monastero ab304 a473 a586 a691-694 a701s a705 ab707 cde708 ab710 bdf715 g752 ab820 CdIC a729; delle ordinazioni simoniache vd. J 8bb.

Si considera Simonia —: come riduzione della grazia soggetta a un prezzo 304; — : come vendita di un dono dello Spirito S. 473 586; si riprov. l’asserzione peccante — : per eccesso 1175 (1178); —: per difetto 2145s.

K 2g. g. — FEDELTÀ E VERACITÀ VERSO DIO.

2ga. Voto religioso (professione monacale, voto di verginità perpetua non può essere abbandonata senza peccato 321s; riprov. [Il Voto impedisce la perfezione] 2203.

2gb. È lecito il giuramento (an nel testimoniare davanti ad un giudice) a648 795 1252 a1253;

Lo spergiuro sempre, anche se in favore della fede, è peccato mortale 1254;

Riprovata l’asserzione negante o restringente della più equa liceità del giuramento 913 1193 (1252) 2675; asserzioni peccante per eccesso: [Ctr. Il giuramento non vale altro testimonio] 1110; [Violare il giuramento è lecito in favore della patria] 2964; asserzioni più blande 2030 2124-2126 2128.

3. Esercizio delle virtù verso se stessi.

(Beni chiesti a se stesso.)

K 3a. a. — I BENI RELIGIOSI DELLA PROPRIA ANIMA.

Obbligo di procurare i beni con l’uso dei Sacramenti: vd. sotto i singoli Sacramenti circa l’effetto e la necessità: J 3c 4c 5e 6c 7c; ugualmente il precetto della Confessione e della Comunione almeno annuale; J 5ed 6d.

Si riprov. le asserzioni circa la dismissione dei beni spirituali dell’anima (ad es. dell’amore interessato, delle virtù, della propria perfezione, della propria beatitudine) come requisiti per la perfezione (896) 957-959 2207 2212 2351//2373.

Obbligo delle buone opere 1538s 1545s 1548.

Opere di penitenza e mortificazione: riprov. le asserzioni detrattrici del loro valore 2238-2240 (3344); il digiuno vale come soddisfazione per i peccati 1713; l’uso della Chiesa latina del digiunare non è condannabile. 1080; il digiuno non è da disprezzare dagli uomini perfetti 892.

Obbligo di evitare l’occasione prossima di peccare: asserzione riprovata. 2061 2162s.

K 3b. b. — BENI IMMATERIALI TERRESTRI DELL’ANIMA.

3ba. Libertà personali. Singoli diritti o libertà vd. sotto il luogo proprio tra K.

3bb. Onore e fama propria. Si riprova: difendere o rivendicare il proprio onore —: col duello: vd. K 4da; — con l’uccisione del calunniatore 2037s; —: con una falsa incriminazione 2143s; — con amfibologia 2127; —: con procurato aborto 2134.

K 3c. c. — BENI CORPORALI PROPRI.

Dio concesse all’uomo il diritto dell’integrità della vita e del corpo

(inclusi i a.mezzi necessari ad un onesto genere di vita, b.funzioni sociali in tempo di inopia) a3771 b3774.

La stessa natura delle cose comanda di conservare la vita propria 3268 3270; è proibito esporre la propria vita per legge divina 3272; i suicidi o duellanti sono privati della sepoltura eccl. CdIC 1240, § 1, 3°-4°; circa il duello vd. K 4da.

L’uomo nelle membra del suo corpo non ha altro dominio che quello che è pertinente ai fini naturali 3723; non gli è lecito, danneggiare le sue membra, mutilare, o per altra via rendersi inetto se non quando non si possa provvedere diversamente al bene dell’intero corpo (a.applicando il principio della totalità) 3723 3760 3763 S128a aS128a°; proibita è la castrazione volontario di se stesso 762 S128a.

Integrità sessuale: si riprova la masturbazione direttamente procurata (a.anche per fini medici) 687s a3684; asserzione riprovata della peccaminosità che investe qualunque atto carnale 897 1367 2044s 2109 2148 2149 -2241 2247; si proibiscono i libri lascivi 1857.

K 3d. d. — BENI MATERIALI ESTERNI.

Obbligo di lavorare per procurarsi il vitto 3268-3271; tuttavia, non per questo è riprovevole la mendicità religiosa 1174 (1491);

Il lavoro della madre di famiglia e degli infanti per il salario insufficiente del padre, è un abuso 3735.

K 4. Esercizio delle virtù nei confronti del prossimo.

(Beni del singolo richiesti al prossimo)

K 4a. a. — PRINCIPI GENERALI.

Si rivendica l’obbligatorietà di amare il prossimo con atto interno e formale. 2110s.

Peccati generici ctr. la carità: si riprov. l’ass. più blando a.circa il gaudio dela male altrui, b.il desiderio del male dell’altro, c.la tristezza per il bene altrui abc2113 b2114 a2115.

Lo scandalo al prossimo per l’occultazione della fede CdIC 1325, §4 ; scandalo può sorgere dal modo insano di declamare in pubblico 1405 1820.

Cooperazione al male—: nell’onanismo matrim. 2715 2758 3634 3917a; – : dell’ufficiale cattol. nel divorzio civile 3190-3193; —: nel duello 3162; —: coinvolgere il servo nel peccato 2151; —: nel cremare i cadaveri 3278s: —: nel suffragare i comunisti 3865.

K 4b. b. — I BENI RELIGIOSI DELL’ANIMA.

Si espongono i principi circa l’educazione religiosa. 3685-3690; in qual senso è riprovata l’educazione sessuale 3697s.

K 4c. c. — I BENI IMMATERIALI TERRENI.

4ca. Verità e veracità.

Si riprovano le asserzioni (più blande) —: scusanti la menzogna e l’amfibologia (2124) 2125-2128; – : la testimonianza giuridica dannosa 1112 2046 2102; — circa la detrazione e la falsa incriminazione.

Si Riprova la simulazione della.Messa, b.dei Sacramenti, c.del battesimo a789 b2129 b2560s.

4cb. Fedeltà. Si riprova l’asserzione più blanda circa la fedeltà nella promessa 2030.

4cc. Libertà personale. Dal potere civile di deve assicurare la libertà che richiede la dignità della persona umana 3250.

Tra i diritti fondamentali dell’uomo, spetta la personale libertà in particolare: — la libertà di sequire la coscienza propria, 3250.

— : libertà dalla coercizione nella pratica della fede: nessun recalcitrante è da obbligare al battesimo 647 698 773 781 (1998) 2552-2554 2557 3177; non è lecito battezzare i figli di genitori nolenti 1998 2552-2554 2557;

Cristo non obbliga nessuno ad agire con violenza, ma è riservata l’esortazione alla libertà del proprio arbitrio 698. — : tolleranza della persuasione religiosa degli altri (a.e tutela del culto ctr. i perturbatori), che viene comandata o raccomandata 480 698 772 a773 3176 (3250) 3251s; si riprova: [gli eretici sono da bruciare ctr. la volontà dello Spirito S.] 1483.

Ripugna la libertà Illimitata di pensare, scrivere, insegnare 2731 2850-2859 2875 2979 3252.

Si protegge la Libertà della donna nel matrimonio 3709;

Libertà dalla schiavitù: Empia è la vendita degli uomini per questo si proibisce ctr. I diritti dell’umanità e della giustizia 668 1495 2745s.

Si riprovano I mezzi violenti dell’inquisizione giudiziaria (per estorcere una confessione di crimini); 648; cf. anche le ordalie: K 2fa.

4 cd. L’onore e la fama.

La Confessione è segreta e vi è obbligo del sigillo: vd. J 6ad; asserzioni riprovate circa il danno all’onore degli altri 2143s.

K 4d. d. — BENI CORPORALI

4da. Vita. È vietato dalla legge divina e naturale ferire o uccidere qualcuno all’infuori di una causa pubblica senza essere costretto da alcuna necessità. 3272; il giudizio del sangue è lecito da parte del potere secolare purché non proceda da odio, ma per giudizio e riflessione 795; la milizia può essere innocente 321; si rivendica il diritto di combattere contro gli infedeli (Turchi) 1484; si riprova l’uccisione innocente per ordine della pubblica autorità. 3790.

Si riprova l’ass. scusante l’uccisione — del calunniatore e del falso giudice 2037s 2130; — : del tiranno 1235; — : il ladro per una sola moneta 2131; — : persona che turba la legittima speranza di possesso 2132s; — per adulterio colto i flagranza 2039.

Si riprova l’uccisione del feto o aborto (a.come omicidio) a670 2134s 3258 3298 3337 3719-3721 CdIC 2350, § 1; si giudicano i diversi modi di estrazione del feto: a.accelerazione del parto, b.aborto, c.operazione cesarea, d.laparotonmia, e.craniotomia e3258 be3298 a3336 bc3337 b3338.

Si. riprova il duello (monomachia) ed il a.quasi-duello 799 1111 1113s 1830 2022 2571-2575 3272s 63672 CdIC 1240, § 1 2351; il duello è tentazione a Dio, b.temerarietà nell’esporre la propria vita, b.temerarietà, perversione del diritto come punizione privata a799 bc3272s; non è lecito ad un medico o confessore assistere al duello 3162.

4db. Integrità del corpo. La pubblica autorità non ha diretta potestà sui membri dei sudditi (3272) 3722 3760-3765; questione della liceità quanto —: castrazione e mutilazione 762 S128a; — sterilizzazione 3722 3760-3765 3788; in quanto alla sostanza l’atto non è intrinsecamente illecito, ma lo è per difetto di diritto di agire, se si configura come impedimento alla prole 3760.

4dc. Cura dei corpi dei defunti. Si proibisce la cremazione dei cadaveri (a.ragione addotta) 3188 3195s 3276-3279 a3680 CdIC 1240 §, 1,5°; non è in sé un male e si permette in casi particolari 3680; questione della liceità quanto alla cooperazione 3278s.

Violazione dei cimiteri. Si riprova la dissepoltura dei cadaveri fatta con prava intenzione 773.

K 4e. e. — BENI DELLA VITA SESSUALE.

4ea. Diritto a contrarre il matrimonio (ed istituire una famiglia) 3702 3771.

4cb. Beni che preludono alla prole 3704s; la continenza, consenzienti entrambi i coniugi, può evitare onestamente la prole 3716; il modo di agire dei coniugi che convivono in modo naturale è legittimato dai fini secondari del matrimonio, dal momento che,o per causa naturale, o per il tempo, o a causa di difetti non possa generare la vita. 3718; lecita è l’osservanza dei tempi agenesiaci 3148 3748; si riprova l’onanismo matrimoniale (specialmente indotto con a.strumento, b.coito sodomitico) 2715 2758-2760 2791-2793 a2795 3185-3187 b3634 a3638-3640 3716-3718 ab3917a; si scusa la moglie obbligata al peccato 2715 2758 3634 3718.

Questione della liceità quanto alla —: copula dimezzata 3660-3662; —: ampiesso riservato 3907.

La Fecondazione artificiale è illecita 3323.

4ec. Si disapprova la vita sessuale più libera — : matrimonio a tempo, ad esperimento 3715; —: dissoluzione dell’unione coniugale 283; — divorzio delle presunte vedove da altro marito, al ritorno del primo (creduto morto) 314.

Si riprovano i giudizi più lassi quanto alla peccaminosità degli atti carnali 2060 2109 2148-2150; la fornicazione del soluto con una soluta è peccato a.mortale a835 2148; si riprov. l’asserzione più lassa circa il modo di considerare i peccati sessuali 2044s 2150.

Il Chierico costituito negli ordini sacri e i regolari solennemente professi, contraggono il matrimonio invalidamente 1809 CdIC 1072s (2388, § 1); in cosa di sollecitazione venerea non è ammessa parvità di materia 2013;

asserzione riprovata circa la denunzia della sollecitazione 2026s.

4ed. Istruzione sessuale. L’educazione sessuale in qual senso è riprovata 3697; riprovata l’educazione dei sessi 3698; sono proibiti i libri lascivi 1857.

K 4f. f. — BENI MATERIALI ESTERNI.

4fa Si raccomanda l’Elemosina come opera buona (a.soddisfattoria per i peccati, b.in suffragio per i defunti) b797 9713 b856 9304 b1405; si rivendica il modo di vivere degli ordini mendicanti 844 1170 1174 1184 1491.

L’obbligo all’elemosina non viene dalla giustizia, ma dalla carità, eccetto nelle cose estreme 3267;. I ricchi sono gravemente obbligati a dare da libere donazioni (a.negato il supposto dell’asserzione lassa) a2112 3729.

4fb. Giustizia nell’acquistare e nel possedere. Il diritto al dominio e alla proprietà è fondato sulla legge divina e naturale 3133 3265s 3271 3726 (3728) 3771; si difende come diritto ondamentale specialmente nelle genti oppresse dell’uomo 773 1495 2746; si riprovano le asserzioni che negano al peccatore il diritto alla proprietà civile o all’eredità 1121-1125 11541 1165 1230; la proprietà non impedisce la salvezza dell’uomo 797; il comunismo contrasta il diritto alla proprietà 2786.

Il diritto alla proprietà ha indole individuale e sociale (3267) 3726 3728 3773; da evitare è sia a.l’individualismo quanto il b.collettivismo ab3726 a3741.

Nel possesso occorre distinguere l’uso dei beni 3267 3727; l’uso dei beni materiali riguarda tutti (a.in equa parte) 3267; l’abuso o il non uso non è ammesso nel diritto di proprietà 1126s 1137s 1166 1168 3727;

l’autorità pubblica non può negare il diritto al possesso, ma temperarne l’uso e concorrere al bene comune 3271 3728. Circa il bene comune e la giustizia sociale vd. K 5ca 5cb.

Titoli per acquistare il dominio -: l’occupazione di una cosa di nessuno 3730;

l’industria o la specificazione (così come gli dà una nuova specie o aumento della proprietà) 3730;

– il lavoro personale equo tuttavia non è l’unico titolo legittimo 3265 3268s 3731 .3732 3773; principi del giusto salario: vd. K 4fc;

– diritto all’eredità (a.che nessuno della civile autorità può portar via) 1122s a3728;

– prescrizione, supposta buona fede 816 CdIC 1512.

lesione della proprietà. Il furto e la rapina sono divinamente proibiti 3133;

I rapitori della cose dei naufraghi sono scomunicati come fratricidi 706;

riprov. le ass. più lasse -: favoreggiamento nei furti 1368 2136-2138; -: peccati ctr. la giustizia nel risolvere le obbligazioni ecclesiastiche per lo stipendio ricevuto 2028-2030 2040-2042 2053-2055 2063 2147 (2154);

sentenza del giudice con accettazione di denaro con parti ugualmente probabili 2046; -: ctr. l’obbligo della restituzione 1115 2040 2053 2138s.

4 fc. Giustizia nel contrarre. In forza del prestito, nessuno può percepire un guadagno. 3105: 4fc.

un lucro è legittimato da titoli estrinseci 3106s; principi determinanti la quantità del lucro 3108s.

L’Usura è definita come studio del lucro non germinante dall’uso della cosa, da alcun lavoro, nessun rischio, nessun pericolo 1442 (2546) CdIC 1543; si riprova l’usura (a.e le specie di contratti affini) 280s 716 a753 a764 906 2062 a2140 2141s S747; si condannano i cambi 1981s; cause scusanti ed i contratti scusati (in specie i Monti di Pietà) 828 1355-1357 a1442-1444 2548-2550; usura a solo legis titolo di legge è considerata di dubbia fede 2743.

Locazione dell’opera. Il Salariato di per sé non é ingiusto 3733;

Si raccomanda la temperanza nel contratto dell’opera contro il contratto di società e la partecipazione attiva del lavoratore alle strutture da amministrare 3733

Principi per la mercede diminuita giustamente (tra le quali a.la necessità della famiglia, b.stato economico dell’officina, c.il bene comune) (a3266) 3269s 3271 (a3726) 3733 a3735 3736 c3737 3773.

K 5. Esercizio delle virtù contro la suprema società.

K 5a. a. – BENI RICHIESTI ALLA SOCIETÀ IN GENERE.

5aa. Il diritto di formare una società è dato da Dio 3771.

5ab. Circa la giustizia sociale quale principio economico vd. K 5cb.

I beni sia esterni sia all’anima sono dati all’uomo tanto per la perfezione propria che per l’utilità degli altri 3267.

5ac. L’autorità imperante (in genere).

L’autorità legittima è difesa ctr. i denigratori: [l’uomo perfetto si emancipa dall’obbedienza] 893 2265; [il Popolo arbitrariamente recusante la legge non pecca 2048;] [il Popolo può a suo arbitrio correggere i signori che delinquono] 1167: si riprova il concetto materialistico dall’autorità 2960; il diritto di dominare non si estingue nell’uomo peccatore o prescito 1121 1165 1230.

Ogni autorità umana ha i limiti nella legge eterna 3248s;

K 5b. b. — BENI RICHIESTI ALLA FAMIGLIA.

Il diritto a formarsi una famiglia è dato da Dio 3771; il convito domestico per ragione e cosa è prioritario rispetto alla comunità civile 3728; si riprov.: [la famiglia trae la ragione della sua esistenza dal diritto civile] 2891; l’ordine dell’amore e la sottomissione nella famiglia 3707-3709; il diritto ed il compito della famiglia di educare e procurare l’istruzione 3685 3690 CdIC 1372 1374; questo diritto precede il diritto dello stato 2891s 3690 3693.

Si riprova il lavoro della madre di famiglia e degli infanti obbligati alle officine dalla esiguità del salario paterno 3735 3737; la giusta mercede del lavoro è determinata dal rispetto e dalla necessità della famiglia (3266) 3271 (3726) 3735.

K 5c. c. — BENI RICHIESTI ALLA SOCIETÀ CIVILE.

5ca. Genere di beni provenienti dalla società civile. Beni comuni economici: obbligo di intendere la richiesta del bene comune dall’indole del dominio sociale 3728; questa cura deve estendersi a tutto il mondo (oltre la propria gente); casi speciali ove urge il rispetto al bene comune 3737 3772

Adeguamento degli uomini rispetto ai diritti e ai beni della cultura terrestre (La ragione considera la dignità della persona umana), in specie per ciò che spetta all’indipendenza politica della gente 3255.

Pace – : si spera conservarla —: tra gli ordini dei cittadini: (3170)

5cb. Principi dell’intercessione della potestà civile nella vita sociale. La giustizia sociale è il principio direttivo economico esigente dal singolo quanto sia necessario al bene comune 3732 3737-3741 3774.

Il principio si sussidiarietà deve reggere qualsiasi ordine sociale 3738.

Si riprov. l’ass. circa il diritto assoluto di tassare del potere civile 2939 3782s 3785; principi di resistenza ctr. l’abuso del potere civile (a.dissuadere la sedizione, b.si riprova il tirannicidio) a1235 a3132 a3170 3252s 3775s.

La societas civile ha il diritto di educare, non assoluto ed antecedente il diritto della famiglia 2891s 3685 3690-3596; non ha il diritto di sciogliere in vincolo del matrimonio (a.neppure nei legittimi matrimoni naturali) 2992 (3190-3193) a3724; non può togliere il diritto di proprietà ed eredità 3728.

Ai cittadini compete la facoltà di eleggere o temperare la forma della cosa pubblica 3173 3253s; —di partecipare attivamente ai negozi della repubblica 3174; — di riunirsi in società di lavoratori 3740.

5cc. Sistemi dell’ordine sociale. Si riprende il liberalismo (ed il suo individualismo) 3772.

Il Socialismo (anche a.mitigato) contrasta con i principi cristiani 2892 2918 3742-3744.

Il Comunismo rovescia le necessità dei cittadini e della società 2786 3773; è proibito il suo favireggiamento 3865.

K 5d. d. — BENI RICHIESTI ALLA CHIESA.

Sottomissione all’autorità della Chiesa —: rivendicata in genere 102 161 704 1215 2895; nessun uomo a.giustificato né b.perfetto (o contemplativo) è esente dai precetti della Chiesa b393 a1570 b21895; — dall’insegnamento: vd. H la c 2a-c; — dal riconoscere il primato del S. Pontefice: vd. G 4db; rifiutare la sottomissione al S. Pontefice e ricusare di comunicare con i membri della Chiesa è scismatico 446 468s CdIC 1325, § 2.

Diritto della Chiesa è obbligare e punire i disobbedienti: vd. G 4b; diritto ai beni temporali vd. G 4a.

6. Vita della perfezione cristiana.

K 6a. a. — NATURA DELLA PERFEZIONE CRISTIANA.

6aa. Cooperazione con la grazia divina. Si riprova l’ass. che nega il valore e la necessità dell’umana attività [come: Dio solo vuole operare in noi senza di noi; l’uomo deve annichilare le sue potenze; ogni progresso della virtù deve attribuirsi unicamente all’azione divina] 2201//2255 3817 3846; reprob.: [l’uomo può perfezionarsi a tal punto da non poter più progredire nella grazia] 891.

6aa. Effetto o frutto della vita di perfezione. Riprov. l’ass. esagerante: [si può pervenire alla perfetta libertà dalle passioni, dalla cupidigia, alla morte della sensualità, alla pace imperturbabile] 892 2254-2256 2262s:

[Si può giungere anche alla libertà dal peccato veniale fino ad essere a.impeccabile] a891 2256-2261.

Alle Tentazioni devono resistere anche i contemplativi a192 2217-2224 2237 2241-2253; l’atto e peccato anche per l’uomo perfetto 897 2248 (2241-2253).

L’unione con Dio è da raggiungere in terra, si riprov. l’ass. esagerante: [a.l’uomo si trasforma totalmente in Dio, b.si fa uguale a Dio c.gode la beatitudine e la comunione illimitata con Dio, d.opera una cooperazione comune con Dio] b959s ac9615 c963 b970-972.

6ac. Sottomissione a Dio e alla Chiesa. Anche i contemplativi vi sono tenuti 893 2189s; ad essi non conviene omettere l’atto di riverenza prescritto nei confronti della S. Eucaristia 898.

K6b. b. — VIA DELLA PERFEZIONE CRISTIANA.

6ba L’Esercizio delle virtù conviene pure agli studenti 896 2188 2231 2368; anche l’atto esterni ha valore per la vita di perfezione 966-969.

6bb. Orazione. L’ Orazione contemplativa è riconosciuta legittima ed eccellente 2182 2185 2188; il suo oggetto non è solo la presenza di Dio 2185-2187; l’orazione meditativa e riconosciuta legittima e di valore per la vita di perfezione 2181-2185; negando ad essa la necessità per la salvezza 2192: si rivendica la legittimità dell’orazione discorsiva ctr. le detrazioni 2218-2223 2225 2229 1232 2264 2365-2368; all’uomo perfetto conviene pure l’Orazione impetratoria 957-959 2214; reprob. l’asserzione ctr. la devozione sensibile (2218) 2227//2235 2263.

6bc. Le opere di penitenza e di mortificazione hanno il loro valore anche per i perfetti 2238-2240.

6bd. Rinunzia all’amor proprio. Si riprova l’asserzione esagerata soprattutto circa la necessità della rinuncia all’amore proprio, ai beni spirituali e alla salvezza eterna 957-959 2201-2217 2224s 2232//2253 2351//2373 2433.

6be. Consigli evangelici o voti religiosi. Si rivendica la loro legittimità 321 (381) 797 3345; non impediscono la perfezione 2203; si riprovano le asserzioni esagerate circa la povertà — di Cristo e degli Apostoli 930s 1087//1097; —: forza del voto 908 10871097.

6bf. 6bf lo Stato religioso è il modo stabile di vivere in comune in cui oltre ai precetti comuni si praticano anche i consigli evangelici CdIC 487; si rivendica li stato religioso (ctr. gli avversari) 844 11691174 1181 1184s 1194s 1270 CdIC 487; riprov. le asserzioni circa la riforma dei regolari e dei monacali 2680-2692; si difende come legittimo lo stato dei religiosi mendicanti 841-844 1170 1174 1184 1491.

6bg. Stato di verginità e celibato. Obbligatorio per i chierici (a.negli ordini maggiori)

117° 118s 185 711 a1809 2972 CdIC a132 1072s.

La verginità ed il celibato superando stato matrimoniale 1810 3911s; il mutuo aiuto dei coniugi non è un mezzo di maggior perfezione per la santità come la verginità. 3912.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (53)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (20)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (20)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

CONCLUSIONE.

A chi, dopo d’aver contemplato nel suo spirito animatore l’etica nostra e d’averne sentito l’intimo palpito, ripensa ai vari sistemi filosofici che hanno voluto tracciare all’umanità una norma di vita, ricorre alla memoria l’osservazione di Alessandro Manzoni nella sua Morale Cattolica: «Che, anche dopo il Cristianesimo, alcuni filosofi si siano affaticati per sostituirgliene un’altra, è un fatto pur troppo vero. Simili a chi, trovandosi con una moltitudine assetata e sapendo d’esser vicino a un gran fiume, si fermasse a fare con de’ processi chimici qualche gocciola di quell’acqua che non disseta, hanno consumato le loro cure nel cercare una ragione suprema e una teoria completa della morale, assolutamente distinta dalla teologia: quando si siano abbattuti in qualche importante verità morale, non si sono ricordati ch’era stata loro insegnata, ch’era un frammento o una conseguenza del catechismo; non si sono avvisti che avevano soltanto allungato la strada per arrivare ad essa, e che, invece di avere scoperto una legge nuova, spogliavano della sanzione una legge già promulgata ». – V’è bensì in ogni sistema morale un punto luminoso, un raggio di verità: ed è ciò che attrae, affascina, seduce le menti frettolose. Così ad esempio, quando gli scettici negheranno la serietà della vita, risponderà loro il vanitas vanitatum di Salomone, l’affermazione, cioè, che le cose di quaggiù, separate dall’Assoluto, sono un nulla e ci tuffano nelle onde del relativismo, del dilettantismo, del pessimismo. Persino quando il concetto di utile cercherà di ingoiare e di distruggere il concetto di bene, avremo un lato di verità, che l’utilitarismo illustrerà con tutti gli sforzi: la virtù, infatti, porta la felicità agli individui ed ai popoli. Kant, che si soffermerà con rigoroso esclusivismo sul dovere ed escluderà ogni idea di utilità, non farà altro se non proclamare che il valore morale dell’atto non dev’essere giudicato dall’esterno, ma nell’intimità del suo spirito. Nietzsche, che canterà il Superuomo, esprimerà a modo suo il bisogno profondo che sentiamo di elevarci sopra la nostra miseria e le nostre deficenze, e di aspirare alla divinizzazione. Hegel e gli idealisti, per i quali l’individuo non è se non un momento del Tutto, sottolineeranno il grande errore di una visione atomistica dell’universo e, di conseguenza, dell’orientamento egoistico dell’individuo. Sono tutti « frammenti di vero per dirla col poeta lombardo, misti ad esagerazioni ed a spropositi. Nè bisogna dimenticare il vantaggio che lo studioso può ottenere dalla loro meditazione: giova, infatti, far attraversare un prisma di cristallo da un raggio di sole, per infrangerlo in tanti colori distinti, che dapprima l’occhio nostro non poteva cogliere. Anzi, la futura storia della morale dovrà appunto esser condotta, non già dal semplice punto di vista critico-negativo della confutazione, ma con le preoccupazioni serene di una critica costruttiva, che tutti i raggi di luce raccoglie pazientemente, che tutte le anime di vero organizza sistematicamente, che alla fine mostra come tutti i risultati delle umane ideologie si sintetizzano e vengono infinitamente superati dalla morale divina dell’Amore. Ma la storia della morale, che l’avvenire ci darà, non potrà essere soltanto una disamina filosofica di sistemi: essa sarà necessariamente la storia dell’Amore nei secoli cristiani. Siccome, a differenza dei vari pensatori, Gesù Cristo non si è limitato ad enunciare una dottrina, ammirata da molti, ma praticata da pochi, bensì ha istituito una società, che ormai da due millenni si ispira alla sua morale, è evidente che, per capire la morale dell’Amore bisogna guardarla non tanto nelle formule astratte, quanto nella concretezza della vita vissuta. – Questo piccolo libro non potrebbe avere altra conclusione, se non una traccia, un sommario, un indice di un futuro Sillabario della storia della Chiesa, che indichi come la vita del Cristianesimo è la storia dell’amore e che chiunque non comprende questo, è destinato a non penetrare mai nell’essenza della religione nostra. Il dogma ci ha cantato l’Amore: tutti i precetti della morale li abbiamo visti vivificati dall’Amore; anche il corpo mistico di Cristo, la Chiesa, non è altro, e non può essere altro, se non il trionfo dell’Amore nel tempo, che prepara le vittorie di esso negli anni eterni.

1. – I due metodi storici.

Diciamo subito che due metodi si possono seguire nello studio della storia del Cristianesimo. In genere si considera quest’ultimo nelle sue manifestazioni esteriori ed allora i secoli cristiani li dividiamo in epoche ed ogni epoca in fatti ed in vicende. Abbiamo così il Cristianesimo sotto l’Impero Romano, il Cristianesimo all’epoca dei barbari, il Cristianesimo nell’età di ferro, il Cristianesimo nel Medio Evo, durante l’Umanesimo ed il Rinascimento, nel periodo della Riforma, dell’Illuminismo, dell’Enciclopedia, della Rivoluzione francese, del Romanticismo, nel secolo ventesimo. Questa però non è ancora la vera storia, come io non conoscerei ancora la storia d’una persona, se mi accontentassi di raccogliere un mondo di fotografie, fatte al bimbo in culla, al bambino in fasce, al fanciullo, al giovane e via dicendo, od anche se radunassi in una cronaca scrupolosa tutta la narrazione delle gesta e delle vicende di quell’individuo. Avrei, in questo modo, un materiale ottimo, prezioso, necessario; ma fin quando da esso non riuscissi ad entrare nell’animo e nel cuore di quella persona e mi restasse ignota la fonte unica interiore, da cui sono zampillati tutti gli atteggiamenti esterni nelle varie situazioni di fatto, non avrei dinanzi a me una persona conosciuta, ma un enigma misterioso da decifrare. – La vera storia del Cristianesimo non la si può cogliere se non ponendoci nella sua vita profonda. Gesù è unito ai suoi seguaci e questo mistico organismo, animato dallo Spirito Santo, si sviluppa nei tempi. Più che baloccarsi coi fenomeni esterni, giova scendere nella sorgente soprannaturale vivificatrice, che unisce tutte le anime in Cristo, le fa vivere d’una vita divina, fa giungere ad ognuna di esse la linfa vitale. Noi, insomma, vogliamo la storia del Cristianesimo nella sua intima unità, non solo nella molteplicità delle manifestazioni esteriori. Partendo da quella, si chiariscono anche queste; non si confonde la vita di Cristo nelle Chiesa con le colpe e gli errori di chi, pur essendo battezzato o magari sacerdote o Vescovo o Papa, non vive la vita cristiana; non si spezzetta in mille parti staccate l’unità organica della vite coi suoi numerosi tralci, che, attraverso i secoli, prosegue in una ininterrotta continuità a produrre con incessante ricchezza pampini e frutti.

2. – L’amore di Dio e la storia del Cristianesimo.

Se, non al di fuori, ma nel Cristianesimo stesso noi ci poniamo, consapevoli dell’unione di Cristo con tutti i fedeli, dell’umanità con Dio; se, cioè, vogliamo tratteggiare lo svolgimento di questa pianta maestosa, le cui radici si sprofondano nell’antichità, la storia si può descrivere nel modo seguente.

1. In principio era l’Amore. E solo per amore Dio ha creato l’universo ed ha innalzato l’uomo alla dignità della divinizzazione. Ma l’uomo non ha risposto all’Amore con l’amore; ma col peccato originale ha iniziato la serie delle sue ribellioni all’Amore di Dio. Le civiltà pagane rappresentano lo sforzo dell’uomo a vivere, non secondo la legge dell’amore divino, ma secondo la legge dei diversi egoismi. L’idolatria stessa altro non è se non un mettere al centro del mondo creature, che venivano proclamate divinità, al posto di Dio. Solo il popolo prediletto conservava la visione chiara del male commesso, della riparazione necessaria, del Messia invocato, in una parola dell’Amore di Dio, che ancora avrebbe unito a sè i cuori degli uomini.

2. Nella pienezza dei tempi, apparve in mezzo a noi il Dio salvatore nostro, nella sua benignità e nell’umanità, e, siccome Dio è carità, visse una vita d’amore. La scena della Incarnazione, la mangiatoia di Betlemme, le preghiere della vita privata, i prodigi della vita pubblica, il Cenacolo eucaristico, l’orto degli Olivi, la colonna della flagellazione, la corona di spine, la croce del Calvario, le parole dell’agonia furono un canto divino d’amore. La sua dottrina fu da Lui compendiata in una parola: « Amatevi! ». Amare Dio sopra ogni cosa; amare il prossimo per amore di Dio; pregare Dio chiamandolo col dolce nome dell’amore, ossia « Padre nostro »; essere e vivere tutti nell’amore, l’Amore del figlio incarnato che a sé ci unisce, l’Amore dello Spirito Santo che ci santifica, l’Amore del Padre che col Figlio e con lo Spirito è unito a noi; vivere d’Amore quaggiù per prepararci un’eternità di Amore ineffabile; ecco la dottrina di Cristo.

3. Risorse da morte, perché l’Amore non teme pietre sepolcrali; inviò lo Spirito Paraclito sopra il gruppo dei suoi eletti, ossia sugli Apostoli dell’amore. Fiamme di fuoco, simbolo di questo Amore soprannaturale, trasformarono la piccola Chiesa nascente; e dal Cenacolo uscirono tutti per far echeggiare sino agli estremi confini della terra l’annuncio dell’amore di Dio per noi e l’appello agli uomini perchè tutti amassero Dio. « L’amore di Dio — esclamava nella lettera ai Romani Paolo di Tarso, difensore del principio universalistico dell’Amore, contro i rimasugli egoistici dell’ebraismo — è diffuso nei cuori nostri, per lo Spirito Santo, che è stato dato a noi… ». E parlando prima ai Cristiani di Corinto, aveva detto: « Quand’io parlassi la lingua degli uomini e degli Angeli, se non ho l’Amore, non sono che bronzo che risuona o un cembalo squillante. E se avessi profezia e conoscessi i misteri tutti e tutto lo scibile, ed avessi tutta la fede così da trasportare le montagne, se non ho l’Amore, sono un niente. E quand’anche distribuissi tutto il mio per nutrire i poveri, ed abbandonassi il mio corpo ad essere arso, se non ho l’Amore, non mi vai nulla… Tutto fra voi si faccia nell’Amore… E se alcuno non ama il Signore, sia anatema!… L’amor mio con tutti voi, in Cristo Gesù! ». Ed ai Romani ancora insegnava: « Dio fa risplendere per noi il suo Amore, dacché, mentre ancora eravamo peccatori, Cristo morì per noi… Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, o la angoscia, o la fame, o la nudità, o il pericolo, o la spada?… No: in tutto questo noi più che mai sopravvinciamo, con l’aiuto di Colui che ci ha amato. Io sono certo che nè morte, né vita, né Angeli, né Principati, né presente, né futuro, nè possanza, nè altezza, né profondità, né altra creatura alcuna potrà separarci dall’Amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore ». Ogni parola dell’Apostolo delle genti fu parola d’amore, sia che egli spiegasse il mistero della nostra incorporazione a Cristo, sia che inviasse a Filemone lo schiavo Onesimo, fuggito da quella casa. E San Giovanni incalzò nelle sue Lettere: « Diletti, l’Amore viene da Dio, e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha imparato a conoscere Iddio, perchè Dio è Amore. L’amor di Dio per noi è stato manifestato a questo modo: Iddio ha mandato nel mondo il suo Figliolo unigenito, perchè per mezzo di Lui noi avessimo la vita. E l’Amor suo si vede da questo: non siamo noi che abbiamo amato Iddio, ma è Dio che ha amato noi, ed ha mandato il Figlio suo, quale vittima di propiziazione per i nostri peccati… ». – « Diletti, se Iddio ha così amato noi, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri… Se ci amiamo gli uni gli altri, Iddio dimora in noi ». « Questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri, e non facciamo come Caino… Noi, perchè amiamo i fratelli, sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita. Chi non ama, ri-mane nella morte… Noi abbiamo imparato a conoscere che cosa sia l’amore da questo: che Gesù ha dato la sua vita per noi; e noi pure dobbiamo quindi dar la vita per i fratelli… Questo è il comandamento che abbiamo ricevuto da Lui; chi ama Dio, deve amare anche il fratello ».

4. Era la prima volta, che simili accenti si diffondevano dovunque. Quando le labbra degli Apostoli pronunciavano il nome soave di « fratello », i cuori intuivano che qualcosa di nuovo v’era nel mondo, dinanzi alla quale non reggevano al paragone né l’arte od il pensiero di Atene, nè le aquile di Roma. E cominciò la battaglia: da un lato, il piccolo drappello dell’Amore; dall’altro, tutte le forze umane, ribellate a Dio e sacre all’egoismo. Lo scontro era inevitabile: e vi furono tre secoli di persecuzioni; vi furono i martiri. – « Ecco — esclamava il padre Monsabré — i rosai tagliati, prima che mettano il fiore. — Salvete, cari innocenti, primizia dell’umanità perseguitata! Salvete, piccoli cari, che in questo mondo non conoscete che Cristo e le vostre madri, e fra le braccia loro moriste per Cristo! «Ecco i gigli immacolati. — Salvete, o vergini, amanti fedeli del migliore e del più santo fra gli sposi! Salvete, figli ammirabili, che alla veste della castità aggiungeste il manto regale imporporato del vostro sangue! « Ecco gli olivi fecondi. — Salvete, donne incomparabili, il cui amore materno fu vinto dal sommo degli amori! « Ecco gli uomini della plebe. — Salvete uomini che usciste dal nulla, dall’oscurità e dall’abbiezione e ascendeste fino alla confessione sublime della fede! « Ecco le palme superbe. — Salvete, nobili! Salvete, patrizi! Salvete, o principi di questo mondo, liberamente discesi dalla gloria nell’obbrobio e dalle delizie nei dolori! « Ecco i cedri del Libano. — I cedri, anch’essi son caduti. Salvete, o Sacerdoti! Salvete, o Pontefici! Salvete, o apostoli della buona novella, i più alti nella luce ed i primi nella morte! ». Questa schiera di martiri ha vinto. La parola d’ordine d’ognuno di questi eroi è quella partita dalle labbra della vergine Agnese: « Amo Christum! ». I figli dell’Amore, morendo, vincevano. Invano le Catacombe moltiplicavano i sepolcri. Come a Gerusalemme, dopo tre giorni, risonava lo squillo della resurrezione, così a Roma, dopo tre secoli, l’Amore usciva vittorioso dai corridoi sotterranei; in cielo, l’emblema dell’Amore, la croce, appariva a Costantino e sopra di essa era scritto: In hoc signo vinces. Nell’Amore la vittoria è sicura.

5. Divenne allora più furente una seconda battaglia e gli Eretici presero il posto dei persecutori. La storia delle eresie mostra a luce meridiana la seguente verità: siccome il dogma è la sintesi dell’Amore di Dio per noi, ogni eresia è una negazione di amore. Dai gnostici che volevano sostituire una filosofia inutile ed ingannatrice alla rivelazione dell’Amore eterno, ai Montanisti che opposero il loro dissennato rigore alla bontà di Cristo; dagli Ariani che, colpendo al cuore la divinità del Verbo, venivano a negare il mistero d’amore dell’Incarnazione di Dio, ai Pelagiani che rifiutavano o falsificavano l’amore infinito di Dio manifestantesi nell’elevazione nostra all’ordine soprannaturale; dai Monofisiti e dai Monoteliti ai Giansenisti di questi ultimi secoli, abbiamo sempre questo fenomeno: l’eretico non crede all’Amore.

6. I Padri della Chiesa ci presentano lo spettacolo opposto. Il vero modo di esaminarli e di comprenderli è la chiave dell’Amore. Per capire sant’Agostino, bisognerà definirlo il Padre della Grazia, ossia dell’amore di Dio che ci eleva alla dignità di figli suoi. Per capire l’eloquenza di san Giovanni Crisostomo, occorrerà prendere una sua frase: « Il cuore di Paolo è il Cuore di Cristo » ed applicarla anche a lui. E quando sant’Ambrogio, dopo che i Goti, sbaragliato Valente, fecero un numero enorme di prigionieri, volle provvedere agli infelici divenuti schiavi, e non solo dispose a loro favore dei suoi beni, ma mutò in verghe d’oro i tesori dei templi, inviò una deputazione di cittadini ai barbari ed ottenne il riscatto di molti; quando, al rimprovero del mícrocefalismo, rispose: « E’ meglio che gli altari siano adorni di anime viventi, che non di vasi preziosi », il grande Vescovo di Milano non faceva altro se non ripetere con un gesto il suo insegnamento d’amore.

7. Calarono i barbari, flagello sulle terre cristiane, seminando dovunque rovina e morte. Le spaventose invasioni di quelle orde selvagge, le città distrutte, gli abitanti massacrati o ridotti in schiavitù, gli incendi e le stragi fecero sviluppare sempre più l’antica fiamma della Chiesa. L’Amore di Cristo affrontò i feroci conquistatori, li convertì, li trasformò. San Leone Magno di fronte ad Attila e tutta la serie di Vescovi, da sant’Eusperio a san Lupo, da san Germano a sant’Aurelio, da sant’Egnano a san Geminiano, che sfidarono i barbari, non sono altro se non i simboli dell’Amore cristiano che vince la violenza brutale. In san Remigio, che nella cattedrale di Reims conferisce il battesimo a Clodoveo; in donne nobili ed egregie, come Clotilde e Teodolinda, che tanto fecero per la conversione di re e di popoli; in tutti i generosi che contribuirono alla rigenerazione del mondo barbarico invasore, noi salutiamo l’Amore! E furono ispirazioni dell’Amore cristiano la tregua di Dio, il diritto di asilo, la Cavalleria e cento altre istituzioni sorte nei secoli di odio e di prepotenza, quando bisognava educare le belve umane alla carità di Cristo.

8. Tutta la storia delle Missioni, dai primi tempi della Chiesa ai giorni nostri, si riassume con una parola: l’Amore. San Gregorio Magno, che spediva quaranta monaci in Inghilterra a convertire quelle popolazioni, non mandava solo quaranta uomini, ma con essi inviava l’Amore. Ed anche oggi, ogni volta che un Missionario giunge nel centro dell’Africa od in un villaggio dell’Asia, portando una croce, noi non riusciamo a trovare la spiegazione del suo eroismo oscuro se non in questo segreto, sempre antico e sempre nuovo. Nelle nostre chiese, di notte, brilla sempre una lampada dinanzi al Tabernacolo; nel mondo fra le tenebre della barbarie, abbiamo questi cuori d’apostoli, simili a lampade vive, accese dallo Spirito Santo, che diffondono raggi di luce e di salvezza.

9. Nulla si può scoprire nei secoli dopo Cristo che sia veramente cristiano e non si riduca all’amore di Dio e dei fratelli. La verginità fu ed è un grido d’amore. Gli anacoreti ed i monaci, nei deserti e nei chiostri, fra macerazioni e preghiere, alimentano la fiamma dell’Amore. E se, ad esempio, i figli di san Benedetto seppero compiere prodigi; se i monasteri di Montecassino in Italia, di Fulda in Germania, di san Gallo nella Svizzera, di Cluny in Francia furono oasi di fede e di civiltà, lo si deve all’Amore, che divampava nelle loro anime e faceva loro apprezzare, conservare e svolgere gli stessi valori umani.

10. Si spiega, allora, tutta l’opera di carità individuale e sociale, che sempre ha caratterizzato il Cristianesimo. Si comprende, anche, il vero ed unico metodo cristiano – Per la redenzione degli schiavi, ad esempio, la Chiesa non ha ricorso all’arma della ribellione e dell’odio di classe, ma al principio della carità. Col dogma dell’eguaglianza di tutti gli uomini nei doveri morali e religiosi dinanzi a Dio, trasformò virtualmente la schiavitù: il padrone non ebbe più davanti a sè una cosa, ma una persona, un’anima redenta dal sangue di Cristo; la sua autorità sullo schiavo era quindi limitata; l’uccisione proibita; la santità, la monogamia, l’indissolubilità del matrimonio degli schiavi riconosciuta; il trattamento di essi mitigato. Un rivolgimento interiore fu il lievito della rigenerazione civile, che ne doveva essere la naturale conseguenza; fu la causa delle numerose iniziative private e pubbliche per la cristiana redenzione degli schiavi, dagli atti di spontanea affrancazione in massa da parte dei padroni, al riscatto della beneficenza ed all’obbligo ai chierici di liberarli; dalla vendita dei beni e degli arredi delle Chiese, alla fondazione di Ordini religiosi per redimerli; dalle dignità ecclesiastiche e civili conferite agli schiavi, sino all’opera emancipatrice universale di Papa Gregorio Magno, preparata e seguita da oltre 200 decisioni autorevoli di Concili, di Pontefici e del Diritto Canonico. E quando le oblazioni dei fedeli e le donazioni di terre e case formarono un grande patrimonio ecclesiastico, la Chiesa, ponendo in pratica la sua dottrina della funzione sociale della proprietà, iniziò un nuovo periodo di redenzione delle classi umili. Fu l’enfiteusi, ossia il dominio utile di case, campi, poderi, boscaglie, concesso dalla Chiesa ai privati o per un tempo determinato o generalmente in perpetuo, dietro compenso di esiguo canone annuo. E così tanti lavoratori divennero possidenti ed iniziarono la loro fortuna. Furono i censi, per cui la Chiesa cedeva ai privati case, campi, poderi, dietro un esiguo sborso del prezzo di stima, lasciando loro in mano il rimanente prezzo, con l’obbligo di pagarvi il frutto. Con questo mezzo un individuo poteva diventare possidente, acquistare vari appezzamenti, lavorarli, renderli fertili, ricavarne ottimi prodotti. Furono inoltre gli usi civici, che davano al povero il diritto di raccogliere frutti, far legna e carbone, falciare erba per fieno, cavar pietre, ed inoltre il diritto di pascolo, di seminar terreni non coltivati, di coltivare piccoli appezzamenti e così via. Siccome poi la Chiesa non poteva imporre a tutti i proprietari queste nuove riforme sociali, che essa andava attuando, ricorse ad un altro mezzo di redenzione economica con l’associazione del capitale al lavoro, facendo sorgere le colonie e le mezzadrie, in cui il proprietario poneva fondi, case, bestiame, capitale, macchine, anticipi di spese, mentre il lavoratore poneva la fatica, dividendo poi il frutto a metà. – E non dimenticò neppure gli artigiani, facendo trionfare con essi il principio dell’organizzazione e suscitando quelle Corporazioni d’arti e mestieri, che erano animate dal soffio del Cristianesimo. Non è possibile qui accennare, neppure in succinto, ciò che hanno prodotto i principi cristiani dell’Amore nell’ordine sociale in venti secoli di storia. Tutte le istituzioni di carità, che sorsero in ogni tempo, ispirate e create dalla religione e che sostituirono gli antichi circhi, i Colossei, gli anfiteatri; gli ospedali, i brefotrofi, gli orfanotrofi, gli istituti per la vecchiaia, per i ciechi, per i sordomuti, per i deficienti, per i derelitti, per ogni genere di dolore e di sventura; coloro che, come Vincenzo de’ Paoli, Camillo De Lellis, il Cottolengo, don Orione, don Calabria, hanno promosso mille opere a sollievo degli infelici; le istituzioni stesse economiche e sociali, dai Monti Frumentari e dai Monti di Pietà alle odierne opere di assistenza ed alle diverse organizzazioni per la tutela degli umili, sorte nei vari paesi, tutto questo canta la fecondità dell’Amore cristiano e ci fa comprendere quale importanza essenziale esso conservi per l’avvenire.

11. Come appare chiaramente, il Cristianesimo è l’epopea dell’Amore. E santi sono proclamati coloro che più hanno amato Dio, che più si sono sacrificati per il prossimo, che tutto hanno fatto per amore, che hanno trasformato la loro esistenza in un inno d’amore. Ogni santo ha la sua speciale fisionomia, né vi sono due figure identiche nel cielo della santità; ma l’anima è unica ed è data da questo divino elemento a tutti comune. Uno, anzi, dei modi efficaci per tracciare la storia della Chiesa, potrebbe essere questo: seguire durante i secoli la storia dei Santi, i quali pure hanno vissuto nella loro epoca e del loro tempo, ma che sino in grado eroico hanno esplicato la morale dell’Amore.

12. Se, del resto, altri preferisse un diverso metodo, potrebbe gettare il suo sguardo ai singoli secoli. Ecco, il secolo XIII, aperto da san Francesco, il Santo che, forse, più di tutti, ha amato Gesù Cristo, e da un altro serafico d’amore, Domenico di Guzman. Tommaso d’Aquino giungerà all’amore sulle ali del pensiero, robuste come ali di aquila: e non solo la sua vita, la sua morte, il suo commento sul letto dell’agonia del Cantico dei Cantici resteranno un mistero per chi se lo raffigurerà come un freddo intellettualista, ma anche il suo sistema immortale non sarà intuito nella sua anima da chi prescinderà dall’Amore che gli illuminava la mente sovrana. Bonaventura da Bagnorea, il Dottore serafico, indicherà nell’Amore stesso l’itinerario della mente a Dio. Dai monasteri della Germania risponderà il saluto al Cuore di Cristo di santa Gertrude e delle due Matilde; e saranno canti meravigliosi, vibranti di amore, come sempre lo furono gli accenti dei mistici, belli come le basiliche che con le loro guglie venivano allora lanciate verso l’azzurro a proclamare a Dio l’amore degli uomini. Dante chiude quel secolo col poema dell’Amore. Là « dove l’amor sempre soggiorna » sale con progressiva ascensione il poeta di nostra gente. Lo guida San Bernardo, il grande cantore del divino Amore, che lo aveva estasiato col carme delicato e soave, col commento della Cantica, e che gli suggerì il coronamento della Divina Commedia. « Drizzeremo gli occhi al primo Amore », all’« Amor che muove il sole e l’altre stelle ».

13. Quando nei secoli cristiani l’Amore si afferma e divampa, vi sono periodi di sviluppo, glorie di spirituali conquiste, orizzonti sereni di paradiso. Quando l’Amore impallidisce e s’offusca, abbiamo tramonti foschi e inverni desolati. – I Papi e i Vescovi che s’avviavano al martirio perdonando, benedicendo, amando, facevano fiorire sui loro passi rose primaverilmente fresche e candidi gigli. Ma il giorno in cui, mentre la sinistra impugnava un Pastorale, la destra brandiva una spada, abbiamo avuto la nefandità della simonia e del concubinato, e la lotta per le investiture. – Se l’Umanesimo ed il Rinascimento prepararono la culla della Riforma, fu perchè l’amore delle cose umane e dell’umana grandezza fece troppo dimenticare Dio e l’Amore soprannaturale. Non si creda però che quello sia unicamente il tempo di Alessandro VI: no; fu l’epoca delle Compagnie del divino Amore e dei Santi più accesi d’amore per Cristo e per i fratelli.

Contro Lutero, Dio suscitò Ignazio di Loyola, che alla stolta teoria della giustificazione mediante la sola fede, oppose la solenne affermazione del dovere di tendere a Dio con tutta la nostra attività; e fu questa nota attivistica che non solo ispirò i suoi Esercizi Spirituali, ma animò la Compagnia dei suoi figli valorosi. – Contro Calvino, il negatore dell’amore di Dio, che si foggiava con le solite fantasticherie della predestinazione un Dio feroce, s’alzò Francesco di Sales, col suo Traité de l’amour de Dieu, ad illustrare dolcemente la misericordia, la bontà e la facilità dell’amore divino. Ed intorno a loro vi fu una pleiade di anime grandi. Era il Borromeo, il quale mostrava l’amore del buon Pastore alle sue pecorelle, che egli risanava dall’ignoranza religiosa e dalla morale rilassata, sollevava nei bisogni della carestia, assisteva fra le miserie della peste. Era Filippo Neri, con l’amore alla gioventù; Camillo de Lellis, con l’amore agli infermi; erano i Somaschi, i Teatini, gli Scolopi, i Barnabiti, che si consacravano al popolo, agli orfani, al culto divino, alla gioventù studiosa, alle scuole popolari e via dicendo; questi erano i veri riformatori, che basavano la loro costruzione sull’Amore. Frattanto Giovanni della Croce e Teresa d’Avila intonavano un inno d’Amore, che certo non morrà. – E sorse un altro eretico, ossia un altro nemico dell’Amore: sorsero Giansenio ed i tristi seguaci, che vollero dipingere Iddio come perennemente irritato contro gli uomini, severo nello scrutarne le minime colpe, rigidissimo nella punizione, implacabile nel rifiuto delle grazie; e si raffigurarono un Gesù dalle mani serrate in pugni e minacciose. Non importa. La nazione dove il giansenismo fece le sue avanzate più rapide divenne anche la terra di Maria Margherita e del beato de La Colombière; fu la terra dove Gesù mostrò il suo Cuore, dicendo: « Ecco il cuore che tanto ha amato » e dove implorò amore: dove Alessandro Manzoni doveva ritrovare la fede perduta, per divenire in seguito il cantore della Morale Cattolica. – L’Illuminismo e l’Enciclopedia prepararono la Rivoluzione francese e, mentre funzionava la ghigliottina, le scimmie dell’amore cristiano urlarono: liberté, égalité, fraternité. L’umanitarismo voleva prendere il posto del Cristianesimo; l’Aufkldrung, il Progresso, la Civiltà, la Cultura moderna, la Ragione pretendevano offuscare coi loro splendori l’incendio d’Amore di Cristo. Il secolo XIX, con tutte le armi — dalla storia alla scienza, dalle lettere e dalle arti alla filosofia, dalla democrazia anticlericale alle prepotenze dei governanti, — tentò di continuare l’opera spegnitrice dell’Amore cristiano. Ahimè! Il risultato è stato ben descritto da Giovanni Papini, nel capitolo mirabile che chiude la sua Storia di Cristo. « In nessun tempo, di quanti ne ricordiamo — egli constata — l’abbiettezza è stata così abbietta e l’arsura così ardente. La terra è un inferno illuminato dalla condiscendenza del sole ». Son scoppiati i conflitti mondiali: e dalla melma in cui s’erano tuffati, gli uomini si levarono « frenetici e sfigurati, per buttarsi nel bollor vermiglio del sangue, con la speranza di lavarsi ». Invano. « L’amor bestiale di ciascun uomo per se stesso, di ogni casta per se medesima, di ogni popolo per sé solo, è ancora più cieco e gigante dopo gli anni che l’odio ricoprì di fuoco, di fumo, di fosse e d’ossami la terra. L’amore di sé, dopo la disfatta universale e comune, ha centuplicato l’odio: odio dei piccoli contro i grandi, degli scontenti contro gli inquieti, dei servi padroni contro i padroni asserviti, dei ceti ambiziosi contro i ceti declinanti, delle razze egemoni contro razze vassalle, dei popoli aggiogati contro i popoli aggiogatori… – Negli ultimi anni la specie umana, che già si torceva nel delirio di cento febbri, è impazzita. Tutto il mondo rintrona dal fragore di macerie che rovinano; le colonne sono interrate nel pattume; e le stesse montagne precipitano dalle cime valanghe di pietrisco perché tutta la terra diventi un maligno piano eguale. Anche gli uomini ch’eran rimasti intatti nella pace dell’ignoranza li hanno strappati a forza dalle sodaglie pastorali per rammontarli nel mescolamento rabbioso delle città a inzafardarsi e patire. Dappertutto un caos in sommovimento, un subbuglio senza speranza, un brulicame che appuzza l’aria afosa, una irrequietudine scontenta di tutto e più della propria scontentezza. Gli uomini, nell’ebrietà sinistra di tutti i veleni, consuman se stessi per bramosia di fiaccare i loro fratelli di pena, e, pur di uscire da questa passione senza gloria, cercano, in tutte le maniere, la morte. Le droghe estatiche e afrodisiache, le voluttà che struggono e non saziano, l’alcool, i giuochi, le armi prelevano ogni giorno a migliaia i sopravvissuti alle decimazioni obbligatorie… ». « In nessuna età come in questa abbiamo sentito la sete struggente d’una salvazione spirituale ». Abbiamo bisogno d’Amore! E tutto ciò che ne preannunzia la risurrezione è oggi salutato da coscienze angosciate, trepide ed ansiose. Nessuno più vorrebbe prostrarsi dinanzi alla Dea Ragione; al contrario le folle si recano all’Immacolata di Lourdes ed a Fatima. Basta una piccola anima, come Teresa di Lisieux, che vive d’amore e muore d’amore, perché il mondo intero venga scosso da un fremito soprannaturale. Nelle varie Confessioni protestanti si vanno moltiplicando le voci augurali d’un ritorno all’unità della Chiesa, nell’amplesso dell’Amore. Il movimento missionario si intensifica sempre più. A Roma dall’alto del Vaticano Pio XI fra il plauso del mondo ha inneggiato alla Regalità di Cristo. Ed alla Regina dell’amore Pio XII ha consacrato i cuori dell’umanità. Al Vicario del Dio della Carità si recano in pio pellegrinaggio i popoli della terra, come all’unico che abbia parole di vita eterna. A lui, dopo le disillusioni subite ed i disinganni provati, molti, ancora una volta, rivolgono gli sguardi anelanti. Quando, ogni anno, nella festa dell’Amore Eucaristico, si spalancano le porte di S. Pietro ed esce il Pontefice bianco con l’Ostia della pace, individui e nazioni dimenticano un passato di orgoglio, di miserie e di ribellioni, e si protendono verso un avvenire, che segnerà le glorie di Cristo Re. – Tale è la morale cristiana vissuta; tale è il Cristianesimo, che nei suoi dogmi, nella sua etica, nella sua storia, ci appare sempre come Amore. E non senza un profondo significato, nell’Italia nostra, un’Università cattolica, inaugurando la sua vita e la sua attività, proponendosi di sintetizzare tutto il sapere e di ispirarlo con un’anima cristiana, ha creduto doveroso scrivere a caratteri d’oro sul suo frontone il nome del Sacro Cuore, ossia dell’Amore. Quel nome è un ideale, una speranza, un programma.

3. – Conclusione.

Forse qualcuno, dopo una simile visione, potrà chiederci come mai venti secoli di morale cristiana hanno lasciato nelle coscienze e nei popoli tanti odi e tante bassezze. Ma l’abbiezione è superficiale. Non solo nelle istituzioni sociali e nella vita civile il Cristianesimo ha suggerito in ogni campo, incoraggiato e promosso numerose conquiste; ma è da osservarsi altresì che la morale dell’Amore non è una battaglia che si possa vincere una volta per sempre. Ogni uomo che viene a questo mondo, ogni popolo che si sviluppa, ha il suo problema da porre, da affrontare, da risolvere. Ogni persona ed ogni nazione ha le sue lotte quotidiane, che si rinnovano sempre sotto forme nuove e che in questo Sillabario abbiamo cercato di ritrarre nella loro realtà. In morale, non si è Cristiani una volta per sempre; ma, finché viviamo quaggiù, bisogna conservarsi e divenire ogni giorno più Cristiani. L’educazione degli individui e dei popoli tende appunto a fortificare le anime per questo quotidiano combattimento, svolto con la grazia divina, che, se costituisce il nostro assillo da un lato, forma per noi anche, dall’altro, il merito e la gloria.

Non basta, quindi, essere nati in terra santificata dal sangue dei martiri ed irrorata dalle virtù dei Santi. Non basta aver ricevuto il Battesimo ed essere stati incorporati a Cristo ed alla Chiesa. Ciò sarebbe per noi un titolo di ignominia e di condanna, se non vivessimo cristianamente. È necessario seguire nella vita la morale di Cristo e della sua Chiesa: « Quella morale — chiuderò anch’io col Manzoni — che sola potè farci conoscere quali noi siamo; che sola, dalla cognizione di mali umanamente irrimediabili, potè far pascere la speranza; quella morale che tutti vorrebbero praticata dagli altri, che praticata da tutti condurrebbe l’umana società al più alto grado di perfezione e di felicità che si possa conseguire su questa terra; quella morale a cui il mondo stesso non potè negare una perpetua testimonianza di ammirazione e di applauso.

Riepilogo.

La morale cristiana:

a) sintetizza tutte le anime di verità che si trovano sparse nei vari sistemi filosofici e le completa;

b) non è, come le altre teorie morali, una dottrina puramente speculativa, ma ha avuto un influsso immenso su due millenni di storia, che possono essere definiti la storia dell’amore. Nulla come la storia della Chiesa conferma la divina verità e la soprannaturale efficacia dell’etica insegnata.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. PIO XI – “ECCLESIAM DEI”

Questa lettera Enciclica indirizzata particolarmente ai Vescovi orientali, i così detti “uniati”, celebra le lodi del loro Santo martire S. Josafat nel terzo centenario del suo martirio. È un inno all’unità della Chiesa Cattolica sotto la guida di un unico pastore, il Vicario di Cristo, il successore del Principe degli Apostoli s. Pietro. Cenni storici, riferimenti dottrinali scritturali, momenti apologetici si fondono in un amalgama unitario in cui si sottolinea la natura divina della Chiesa governata da un unico Pastore in unico ovile secondo la volontà del divino fondatore e Redentore che per essa ha versato tutto il suo preziosissimo sangue. Ancora oggi questa lettera per noi è un monito ed un monumento dottrinale prezioso per comprendere la necessità dell’unica guida spirituale resa infallibile dall’opera dello Spirito Santo che la anima sovrannaturalmente. Questa Chiesa che dopo aver perso tanta umanità, anglicani, ortodossi, protestanti, si trova oggi ridotta ad un pugno di anime, il piccolo gregge di evangelica memoria, senza poter contare su di una guida liberamente operante dopo lo scisma della setta apostatica formata dall’eresiarca Montini e dal suo seguito del conciliabolo Vaticano e dell’idolo pachamana …. Castigo maggiore il Signore non poteva comminarci per punire la nostra infedeltà e gli infiniti disprezzi delle grazie elargite alla Chiesa e ai fedeli, nonostante la beatitudine celeste promessa e raggiungibile con uno sforzo minimo. Ritorniamo a Dio, non ad un Dio astratto, ma ad un Dio che ci chiama nella sua vera Chiesa onde operare nel mondo secondo l’autentico Spirito evangelico. Che San Giosafat ci aiuti a ritrovare questo spirito unitario per convogliarci tutti nell’unico ovile sotto un solo Pastore.

LETTERA ENCICLICA

ECCLESIAM DEI
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO XI
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA,
IN OCCASIONE DEL
TRECENTESIMO ANNIVERSARIO DEL MARTIRIO DI
SAN GIOSAFAT, ARCIVESCOVO DI POLOTSK

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

La Chiesa di Dio, per ammirabile provvidenza, fu costituita in modo da riuscire nella pienezza dei tempi come un’immensa famiglia, che abbracci l’universalità del genere umano, e perciò, come sappiamo, fu resa divinamente manifesta, tra le altre sue note caratteristiche, per mezzo dell’unità ecumenica. Giacché Cristo Signor nostro non si appagò di affidare ai soli Apostoli la missione che Egli aveva ricevuta dal Padre, quando disse: « È data a me ogni potestà in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le genti » [1], ma volle pure che il Collegio apostolico fosse perfettamente uno, con doppio e strettissimo vincolo: intrinseco l’uno, con la stessa fede e carità che « è diffusa nei cuori … dallo Spirito Santo » [2]; l’altro estrinseco col regime di uno solo sopra tutti, avendo a Pietro affidato il primato sugli altri Apostoli come a perpetuo principio e visibile fondamento di unità. Quest’unità, al chiudersi della sue vita mortale, Egli con somma premura raccomandò loro; questa stessa, con ardentissime preci, domandò al Padre, e l’impetrò, « esaudito per la sua riverenza ». Pertanto la Chiesa si formò e si accrebbe in « un corpo unico » animato e vigoroso di un medesimo spirito, del quale poi « è capo Cristo, da cui tutto il corpo è compaginato e connesso per via di tutte le giunture di comunicazione »; e di esso per questa stessa ragione, è capo visibile colui che di Cristo tiene in terra le veci, il Pontefice Romano. In lui, come successore di Pietro, si avvera perpetuamente quella parola di Cristo: « Su questa pietra edificherò la mia Chiesa » ; ed egli, perpetuamente esercitando quell’ufficio che a Pietro fu affidato, non cessa mai di confermare, ove sia necessario, nella fede i suoi fratelli e di pascere tutti gli agnelli e le pecorelle del gregge del Signore. Orbene nessun’altra prerogativa mai « l’uomo nemico » avversò più ostilmente che l’unità di governo nella Chiesa, come quella cui va congiunta, « nel vincolo della pace », l’unità dello spirito; e se il nemico non poté giammai prevalere contro la Chiesa stessa, ottenne nondimeno di strappare dal seno di lei non piccolo numero di figli, e perfino popoli interi. A sì gran danno non poco conferirono sia le lotte delle nazionalità fra di loro, sia le leggi contrarie alla religione e alla pietà, sia anche l’amore soverchio ai beni perituri della terra. – Fra tutte la maggiore e la più lagrimevole fu la separazione dei Bizantini dalla Chiesa ecumenica. Sebbene fosse sembrato che i Concilii di Lione e di Firenze potessero porvi rimedio, tuttavia essa si rinnovò successivamente e perdura tuttora con immenso danno per le anime. Vediamo quindi come furono traviati e andarono, perduti, insieme con altri, gli Slavi orientali, benché questi fossero rimasti più a lungo degli altri nel seno della madre Chiesa. Si sa, infatti, che essi mantennero ancora qualche relazione con questa Sede Apostolica, anche dopo lo scisma di Michele Cerulario: e queste relazioni, interrotte dalle invasioni dei Tartari e dei Mongoli furono riprese successivamente e continuarono sin tanto che non ne furono impediti dalla caparbietà ribelle dei potenti. Ma in questa causa i Romani Pontefici nulla omisero di quanto spetta al loro ufficio; anzi alcuni di essi presero a cuore in modo speciale la salvezza degli Slavi orientali. Così Gregorio VII mandò con benignissima lettera auguri d’ogni celeste benedizione al principe di Kiev, « a Demetrio, re dei Russi ed alla regina sua consorte » negli inizi del loro regno, su richiesta del loro figlio presente in Roma. Così Onorio III inviò suoi legati alla città di Novgorod; e lo stesso fece Gregorio IX e, non molto dopo, Innocenzo IV, il quale vi spedì come legato un uomo di animo grande e forte, Giovanni da Pian del Carpine, lustro della famiglia francescana. Il frutto di tanta sollecitudine dei Nostri Predecessori si vide nell’anno 1255, quando si ebbe il ristabilimento della concordia e dell’unità, ed a celebrarlo a nome del Pontefice, e per sua autorità, il legato di lui, l’abate Opizone, incoronò, con solenne pompa, Daniele, figlio di Romano. E così, secondo la veneranda tradizione e le usanze più antiche degli Slavi Orientali, si ottenne che al Concilio di Firenze, Isidoro, Metropolita di Kiev e di Mosca, Cardinale della Santa Romana Chiesa, anche a nome e nella lingua dei suoi connazionali, promise di conservare santa e inviolata l’unità cattolica nella fede della Sede Apostolica. Pertanto questa restaurazione dell’unità durò a Kiev per molti anni; ma vi si aggiunsero poi nuove ragioni di rottura coi rivolgimenti politici, maturatisi negli inizi del secolo XVI. Senonché fu di nuovo felicemente rinnovata nel 1595, e l’anno successivo, al Concilio di Brest, promulgata per opera del metropolita di Kiev e di altri Vescovi Ruteni. Clemente VIII li accolse con ogni affetto, e pubblicando la costituzione «Magnus Domini » invitò tutti i fedeli a rendere grazie a Dio, « il quale ha sempre pensieri di pace, e vuole che tutti gli uomini siano salvi e pervengano alla conoscenza della verità ». – Ma perché tali unità e concordia si perpetuassero, Iddio, sommamente provvido, le volle consacrare, per così dire, col sigillo della santità e del martirio. Un così grande vanto è toccato a San Giosafat, Arcivescovo di Polotsk, di rito slavo orientale, che a buon diritto va riconosciuto come gloria e sostegno degli Slavi Orientali, poiché a fatica si troverà un altro che abbia dato al loro nome un lustro maggiore, o che meglio abbia provveduto alla loro salute, di questo loro Pastore ed Apostolo, specialmente per aver egli versato il proprio sangue per l’unità della santa Chiesa. Ricorrendo dunque il trecentesimo anniversario del suo gloriosissimo martirio, Ci è sommamente caro rinnovare la memoria di un così grande personaggio, affinché il Signore, invocato dalle suppliche più fervorose dei buoni, « susciti nella sua Chiesa quello spirito, di cui il beato Martire e Pontefice Giosafat era ripieno… tanto che diede la sua vita per le sue pecorelle », così che, crescendo tra il popolo lo zelo nel promuovere l’unità, ne abbia incrementato l’opera che gli fu tanto a cuore, finché si avveri quella promessa di Cristo e insieme il desiderio di tutti i Santi, che « vi sia un solo ovile ed un solo Pastore » . -Egli nacque da genitori separati dall’unità, ma, religiosamente battezzato col nome di Giovanni, incominciò fin dall’età più tenera a coltivare la pietà; e mentre seguiva lo splendore della liturgia slava, cercava soprattutto la verità e la gloria di Dio: e per questo, non per impulso di ragioni umane, si rivolse, fanciulletto ancora, alla comunione della Chiesa ecumenica, cioè cattolica, a cui giudicava di essere già destinato per la stessa validità del suo battesimo. Anzi, sentendosi mosso da ispirazione divina a ristabilire dappertutto la santa unità, comprese che molto avrebbe giovato a ciò il ritenere nell’unione con la Chiesa cattolica il rito orientale slavo e l’istituto monastico Basiliano. Perciò, accolto nell’anno 1604 fra i monaci di San Basilio, e mutato il nome di Giovanni in quello di Giosafat, si consacrò interamente all’esercizio di tutte le virtù, specialmente della pietà e della penitenza, dimostrando sempre un singolare amore per la Croce: amore che fino dai primi anni egli aveva concepito dalla contemplazione di Gesù Crocifisso. Così il metropolita di Kiev, Giuseppe Velamin Rutsky, il quale era a capo di quello stesso monastero in qualità di archimandrita, testimonia che « egli in breve tempo fece tali progressi nella vita monastica da poter esser maestro agli altri ». Sicché, appena ordinato sacerdote, Giosafat si vide eletto a governare il monastero in qualità di archimandrita. Nell’esercizio di tale ufficio non solo si adoperò a mantenere e a difendere il monastero e l’attiguo tempio, assicurandoli contro gli assalti nemici, ma inoltre, avendoli trovati pressoché abbandonati dai fedeli, fece di tutto per farli nuovamente frequentare dal popolo cristiano. E in pari tempo, avendo anzitutto a cuore l’unione dei suoi concittadini con la cattedra di Pietro, cercava da ogni parte argomenti giovevoli a promuoverla e a consolidarla, principalmente studiando quei libri liturgici che gli Orientali, e i dissidenti stessi, sono soliti usare secondo le prescrizioni dei Santi Padri. – Premessa una così diligente preparazione, egli si accinse quindi a trattare, con forza e soavità insieme, la causa della restaurazione dell’unità, ottenendo frutti così copiosi da meritare dagli stessi avversari il titolo di « rapitore delle anime ». Ed è veramente mirabile il gran numero delle anime da lui condotte all’unico ovile di Gesù Cristo, da tutti gli ordini e da tutte le classi sociali, plebei, negozianti, cavalieri, e anche prefetti e governatori di province, come narrano del Sokolinski di Polotsk, del Tyszkievicz di Novogrodesc, del Mieleczko di Smolensk. Ma ad un campo ben più vasto ancora estese il suo apostolato, quando venne nominato vescovo a Polotsk: apostolato che doveva essere di una straordinaria efficacia, mentre egli offriva l’esempio di una vita di somma castità, povertà e frugalità ed insieme di tanta liberalità verso gli indigenti da giungere fino ad impegnare l’omophorion per sovvenire alla loro miseria. Nel frattempo si manteneva rigidamente nell’ambito della religione, non occupandosi minimamente di negozi politici, sebbene a lui non mancassero più d’una volta grandi sollecitazioni ad ingerirsi delle cure e delle lotte civili, mentre infine si sforzava, con lo zelo insigne d’un Vescovo santissimo, ad inculcare senza posa, con la parola e con gli scritti, la verità. Egli infatti pubblicò diversi scritti, da lui redatti in forma del tutto adatta all’indole del suo popolo, quali sul primato di San Pietro, sul battesimo di San Vladimiro, un’apologia dell’unità cattolica, un catechismo fatto sul metodo del beato Pietro Canisio, ed altri simili. Siccome poi insisteva molto nell’esortare alla diligenza del proprio ufficio l’uno e l’altro clero, ridestatosi nei sacerdoti lo zelo del loro ministero, riuscì ad ottenere che il popolo, debitamente ammaestrato nella dottrina cristiana e nutrito da un’appropriata predicazione della parola di Dio, si avvezzasse a frequentare i Sacramenti e le sacre funzioni e si desse ad un tenore di vita sempre più corretta. E così, ampiamente diffuso lo spirito di Dio, San Giosafat consolidò stupendamente l’opera dell’unità, a cui si era dedicato. Ma soprattutto allora egli la consolidò, e consacrò anzi, quando per essa incontrò il martirio, e l’incontrò col più vivo entusiasmo e con la magnanimità più mirabile. Al martirio sempre pensava, spesso ne parlava. Il martirio si augurò in una celebre predica. Il martirio ardentemente domandava a Dio quale singolare beneficio, tanto che, pochi giorni prima della morte, quando fu avvertito delle insidie che gli si macchinavano: « Signore — disse — concedimi di poter versare il sangue per l’unità e per l’obbedienza della Sede Apostolica ». Il suo desiderio fu appagato la domenica 12 novembre 1623 quando, circondato dai nemici che andavano in cerca dell’Apostolo dell’unità, egli si fece loro incontro sorridente e benigno, e pregatili, ad esempio del suo Maestro e Signore, che non toccassero i suoi familiari, si diede da sé nelle loro mani; e mentre veniva crudelissimamente ferito, non cessò sino all’estremo di invocare il perdono di Dio sopra i suoi uccisori. – Grandi furono i vantaggi di un così famoso martirio, soprattutto tra i Vescovi Ruteni che ne trassero vivo esempio di fermezza e coraggio, come essi stessi attestarono, due mesi dopo, in una lettera spedita alla Sacra Congregazione di Propaganda: « Ci offriamo prontissimi a dare il sangue e la vita per la fede cattolica, come la diede già uno di noi ». Inoltre moltissimi, e fra questi gli uccisori stessi del Martire, fecero ritorno, subito dopo, al seno dell’unica Chiesa. – Il sangue dunque di San Giosafat, come tre secoli fa, anche e specialmente ora riesce pegno di pace e suggello di unità: specialmente ora, diciamo, dopo che quelle sfortunate province slave, sconvolte da torbidi e da sommosse, sono state insanguinate da guerre furiose e spietate. E a Noi sembra di udire la voce di quel sangue, « che parla meglio di quello di Abele », e di vedere quel martire rivolgersi ai fratelli Slavi ripetendo, come un tempo, con le parole di Gesù: « Le pecorelle giacciono senza pastore. Ho compassione di questa moltitudine ». E veramente, quanto miseranda è la loro condizione! Quanto terribili le loro angustie! Quanti esuli dalla patria! Quanta strage di corpi e quanta rovina di anime! Osservando le presenti calamità degli Slavi, certamente assai più gravi di quelle ch’ebbe a lamentare il nostro Santo, a stento Ci riesce, per il nostro affetto paterno, di frenare le lacrime. – Ad alleviare sì grande cumulo di miserie, Noi, per parte Nostra, Ci affrettammo, è vero, a recare soccorsi ai bisognosi, senza alcuna mira umana, senza far altra distinzione che non fosse quella della più stringente necessità. Ma la Nostra possibilità non poté arrivare a tutto. Anzi, non potemmo impedire che si moltiplicassero le offese contro la verità e la virtù, col disprezzo di ogni sentimento religioso, con il carcere e con la persecuzione, in più luoghi anche sanguinosa, dei Cristiani e degli stessi Sacerdoti e Vescovi. – Nella considerazione di tanti mali, Ci conforta non poco la solenne commemorazione dell’insigne Pastore degli Slavi, perché Ci porge propizia l’occasione di manifestare i sentimenti paterni che Ci animano verso tutti gli Slavi Orientali e di mettere loro dinanzi, come la sintesi di tutti i beni, il ritorno all’unità ecumenica della santa Chiesa. – Mentre invitiamo i dissidenti a tale unità, desideriamo ardentemente che tutti i fedeli, seguendo le orme e gli insegnamenti di San Giosafat, si studino, ciascuno secondo le proprie forze, a cooperare con Noi. Ed essi intendano bene che tale unità, meglio che con le discussioni e altri stimoli, è da promuovere con gli esempi e le opere di una vita santa, specialmente con la carità verso i fratelli Slavi e verso gli altri Orientali, secondo ciò che dice l’Apostolo, « avendo la stessa carità, una sola anima, uno stesso sentimento, senza nulla fare per ripicca o per vanagloria; ma per umiltà l’uno creda l’altro superiore a sé, badando ognuno non a ciò che torna bene per lui ma a quello che torna bene per gli altri ». A questo fine, come è necessario che gli Orientali dissidenti, deponendo antichi pregiudizi, procurino di conoscere la vera vita della Chiesa, senza voler imputare alla Chiesa Romana le colpe dei privati, colpe che essa per la prima condanna e cerca di correggere; così i Latini cerchino di conoscere meglio e più profondamente la storia e i costumi degli Orientali; perché appunto da quest’intima conoscenza derivò sì grande efficacia all’apostolato di San Giosafat. – Questo fu il motivo per cui cercammo di promuovere con rinnovato ardore l’Istituto Pontificio Orientale, fondato dal compianto Nostro Predecessore Benedetto XV, persuasi che dalla retta conoscenza dei fatti sorgerà il giusto apprezzamento degli uomini e parimenti quella schietta benevolenza, la quale, congiunta alla carità di Cristo, con l’aiuto di Dio, gioverà moltissimo all’unità religiosa. – Animati da tale carità, tutti sperimenteranno quanto l’Apostolo divinamente ispirato insegna: «Non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, perché egli è il Signore di tutti, ricco verso tutti coloro che l’invocano ». E, ciò che più importa, ubbidendo scrupolosamente al medesimo Apostolo, non solo deporranno i pregiudizi, ma anche le vane diffidenze, i rancori e gli odii: in una parola, tutte quelle animosità così contrarie alla carità cristiana, che dividono tra di loro le nazioni. Avverte infatti lo stesso San Paolo: «Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo creatore. Qui non c’è più Gentile e Giudeo … Barbaro e Scita, servo e libero, ma Cristo è tutto in tutti ». – In tal modo, con la riconciliazione degli individui e dei popoli, si otterrà anche l’unione della Chiesa col ritorno al suo seno di tutti quelli che, per qualsivoglia motivo, se ne separarono. E il compimento di tale unione avverrà non già per l’impegno umano, ma per bontà, di quel solo Dio che « non fa preferenza di persone », e che « non fece differenza alcuna tra noi e loro »; e così, uniti tra essi, godranno degli stessi diritti tutti i popoli, di qualunque schiatta o lingua, e quali si siano i loro riti sacri; riti che la Chiesa Romana sempre venerò e ritenne religiosamente, decretandone anzi la conservazione ed ornandosene come di vesti preziose, quasi « regina in manto d’oro con varietà d’ornamenti ». – Ma siccome questo accordo di tutti i popoli nell’unità ecumenica è anzitutto opera di Dio, e perciò da doversi procurare con l’aiuto e l’assistenza divina, ricorriamo con ogni diligenza alla preghiera, seguendo in ciò gli insegnamenti e gli esempi di San Giosafat, il quale nel suo apostolato per l’unità confidava soprattutto nel valore dell’orazione. – E sotto la guida e col patrocinio di lui, veneriamo con culto speciale il Sacramento dell’Eucaristia, pegno e causa principale dell’unità, quel mistero della fede per la quale quegli Slavi Orientali, che nella separazione dalla Chiesa Romana conservarono gelosamente l’amore e lo zelo, riuscirono ad evitare l’empietà delle peggiori eresie. Da qui è lecito sperare il frutto che la santa madre Chiesa domanda con pia fiducia nella celebrazione di questi augusti misteri, cioè che « Iddio conceda propizio i doni dell’unità e della pace, che misticamente vengono simboleggiati nelle oblazioni fatte all’Altare ». E questa grazia unitamente implorano nel santo Sacrificio della Messa i Latini e gli Orientali: questi « pregando il Signore per l’unità di tutti », quelli col supplicare lo stesso Cristo Signor nostro che « riguardando alla fede della sua Chiesa, si degni di pacificarla e unificarla secondo la sua volontà ». – Un altro vincolo di reintegrazione dell’unità con gli Slavi Orientali sta nella loro devozione singolare verso la gran Vergine Madre di Dio, in forza della quale molti si allontanano dall’eresia e si avvicinano maggiormente a noi. E in questa devozione, nella quale si segnalava assai, il nostro Santo altrettanto confidava moltissimo per favorire l’opera dell’unità: onde soleva con particolare venerazione onorare, all’usanza degli Orientali, una piccola icona della Vergine Madre di Dio, la quale dai Monaci Basiliani e dai fedeli di qualsiasi rito, anche in Roma nella chiesa dei santi Sergio e Bacco, è molto venerata con il titolo di « Regina dei pascoli ». Lei, dunque, invochiamo, quale benignissima Madre, con questo titolo specialmente, perché guidi i fratelli dissidenti ai pascoli della salute, dove Pietro, sempre vivente nei suoi successori, come Vicario dell’eterno Pastore, pasce e governa tutti gli agnelli e tutte le pecorelle del gregge di Cristo. – Infine, ai Santi tutti del Cielo ricorriamo come a nostri intercessori per una grazia così grande, a quelli soprattutto che presso gli Orientali maggiormente fiorirono un tempo per fama di santità e di sapienza, e fioriscono tuttora per venerazione e culto dei popoli. Ma primo fra tutti invochiamo a patrono San Giosafat, perché, come fu in vita fortissimo propugnatore dell’unità, così ora presso Dio la promuova e vigorosamente la sostenga. E così Noi lo preghiamo le supplichevoli parole del Nostro antecessore di immortale memoria, Pio IX: « Dio voglia che quel tuo sangue, o San Giosafat, che tu versasti per la Chiesa di Cristo, sia pegno di quell’unione con questa Santa Sede Apostolica, a cui tu sempre anelasti, e che giorno e notte implorasti con fervida preghiera da Dio, somma Bontà e Potenza. E perché tanto si avveri alfine, vivamente desideriamo di averti intercessore assiduo presso Dio stesso e la Corte del Cielo ».

Auspice dei divini favori e a testimonianza della Nostra benevolenza, impartiamo con ogni affetto Venerabili Fratelli, a voi, al clero e al popolo vostro l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro il 12 novembre 1923, anno secondo del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2023)

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2023)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Come Domenica scorsa, la lettura dell’Uffizio divino coincide spesso in questo giorno con quella del libro di Giobbe che si suol fare nella 1a e nella 2a Domenica di Settembre. – Continuiamo quindi a leggere i testi del Messale in corrispondenza con quelli del Breviario. Giobbe è la figura del giusto, che il demonio superbo cerca di umiliare profondamente, affinché si rivolti contro Dio. « Lascia che io lo provi, dichiarò satana all’Altissimo, egli ti bestemmierà ». E Jahvè glielo permise, per fare di Giobbe il modello dell’anima che proclama il supremo dominio di Dio e si sottomette interamente alla sua volontà divina. La gelosia del demonio non conobbe allora più freno e fece piombare sullo sventurato Giobbe, con gradazione sapiente, tutte le calamità che avrebbero potuto abbatterlo. Pure, benché privo di tutto e coricato sul letamaio, Giobbe non maledisse la mano onnipotente di Dio, che permetteva al demonio di accanirsi contro di lui, ma la baciò umilmente. Il Salmo dell’Introito rende mirabilmente la sua preghiera. « Abbi pietà di me, o Signore, Porgi, o Signore, il tuo orecchio, poiché sono misero e povero ». Il Salmo del Graduale è anch’esso « la preghiera del povero quando è nell’afflizione », e i Versetti da 3 a 6: « Sono stato colpito come l’erba, a forza di gemere le ossa mi si sono attaccate alla pelle », sembrano l’eco delle parole di Giobbe che dice: « Le mie ossa si sono attaccare alla pelle, non mi restano che le labbra intorno ai denti » (Vers. 19, 20). Il Salmo dell’Offertorio parla anch’esso « del povero e dell’indigente» che supplica Iddio: « Non allontanare da me le tue misericordie, o Signore, poiché mali senza numero mi hanno circondato. Siano svergognati coloro che insidiano la vita mia » (Versetti 12-14). Infine, l’antifona della Comunione dice: « Piega, o Signore, verso di me, il tuo orecchio! Quante numerose e crudeli tribolazioni mi facesti provare! La mia lingua proclamerà dovunque soltanto la tua giustizia, e questa giustizia mi renderai quando coloro che cercano il mio danno saranno coperti di confusione e di vergogna » (Vers. 2, 20 e 24). Iddio, dicono infatti gli amici di Giobbe, esalta coloro che si sono abbassati, rialza e guarisce gli afflitti. La gloria degli empi è breve e la gioia dell’ipocrita non dura che un momento. Quando anche il suo orgoglio si innalzasse fino al cielo e la sua testa toccasse le nuvole, alla fine egli perirà. Tale è il retaggio che Dio serba agli empi. Essi si sono innalzati per un momento e saranno umiliati. – E Giobbe aggiunge: « Iddio ritirerà il povero dall’angoscia. Dio è sublime nella sua potenza. Chi può dirgli: Hai commesso un’ingiustizia? L’uomo che discute con Dio non sarà giustificato ». Infatti, commenta S. Gregorio, chiunque discute con Dio si mette alla pari con l’Autore di ogni bene; attribuisce a se stesso il merito della virtù, che ha ricevuta, e lotta contro Dio con gli stessi beni di Lui.. È quindi giusto che « l’orgoglioso sia abbattuto e l’umile innalzato » (2° Notturno, 2a Domenica di Settembre). « Chiunque si innalza sarà abbassato e chiunque si umilia sarà rialzato », dice anche il Vangelo di questo giorno. Dio, infatti, dopo aver umiliato Giobbe, lo rialzò, rendendogli il doppio di quanto prima possedeva. Giobbe è una figura di Gesù Cristo, che, dopo essersi profondamente abbassato, è stato esaltato meravigliosamente; è anche figura di tutti i Cristiani, ai quali Iddio darà un posto di onore al banchetto celeste se di tutto cuore avranno praticato la virtù dell’umiltà sulla terra. L’orgoglio, dice S. Tommaso, è un vizio per il quale l’uomo cerca, contro la retta ragione, di innalzarsi al di sopra di quello che egli è in realtà; l’orgoglio è quindi fondato sull’errore e l’illusione; l’umiltà, ha, al contrario, il suo fondamento nella verità, ed è una virtù che tempera e frena l’anima, affinché questa non si innalzi al disopra, super, di quello che è realmente (donde il nome di superbia dato all’orgoglio). L’anima umile accetta in piena sottomissione il posto che ad essa si conviene; quel qualsiasi posto che da Dio, verità suprema ed infallibile, le è assegnato. Umiltà nelle parole, umiltà nelle azioni, umiltà nel sopportare le prove e le contraddizioni, è la virtù che Giobbe ci insegna durante tutta la sua vita e che Gesù Cristo ci raccomanda nel Vangelo della Messa di oggi. « Dopo aver guarito l’idropico, dice S. Ambrogio, Gesù dà una lezione di umiltà » (3° Notturno). Vedendo come i Farisei scegliessero sempre i posti migliori, Egli volle farli accorti della loro malattia spirituale e spingerli a cercarne la guarigione; a questo scopo guarì dapprima uno sventurato, che la malattia aveva fatto gonfiare, e cercò quindi, velando la lezione sotto una parabola, di guarire la spirituale enfiagione che affliggeva i convitati presenti e che purtroppo affligge anche la maggior parte degli uomini. – Il mondo è in balìa di tutte le esaltazioni e di tutte le infatuazioni dell’orgoglio, mentre l’umiltà è la condizione assoluta per entrar nel regno dei cieli, ed è questa la virtù che la Chiesa ci inculca nell’Orazione ove dice che la grazia di Dio deve sempre prevenire ed accompagnarci, e che S. Paolo insegna con energia ai Cristiani nell’Epistola di questo giorno. Senza merito alcuno da parte nostra, spiega l’Apostolo agli Efesini, ma unicamente perché serviamo di strumento di lode alla sua gloria, Dio ci ha eletti in Cristo. Allorché eravamo figli della collera, l’Onnipotente, che è ricco di misericordia, ci ha reso la vita in Gesù Cristo, per l’amore immenso che ci porta. Noi tutti, pagani ed estranei alle alleanze conchiuse da Dio col popolo di Israele, siamo stati riavvicinati e riuniti nel Sangue del Redentore, poiché Egli è la nostra pace, Egli che di due popoli ne ha fatto uno solo e per il quale abbiamo, gli uni e gli altri accesso presso il Padre, in un medesimo Spirito. Non siamo più dunque degli estranei, ma dei membri della famiglia divina. E questo non è opera nostra, ma di Dio, affinché nessuno glorifichi se stesso. Gettiamoci dunque ai piedi del Padre nostro di nostro Signore Gesù Cristo, che è anche Padre nostro, affinché, attingendo nei tesori della sua divinità, sempre di più ci mandi lo Spirito Santo che ha effuso sulla Chiesa nella festa di Pentecoste e che nella fede e nell’amore ci unisce a Gesù, in modo che noi siamo colmati della pienezza di Dio. E chi potrà mai misurare questa carità sconfinata che iddio ci ha manifestata per mezzo del Figlio Suo? Questo amore del Padre per i suoi figli sorpassa infinitamente tutto quello che noi potremmo concepire e domandare a Dio. – A Lui dunque sia gloria in Gesù Cristo e nella Chiesa per tutti i secoli. « Cantiamo al Signore un cantico nuovo, poiché Egli ha operato prodigi » (Alleluia). « Tutte le nazioni temano il nome del Signore tutti i re della terra annunzino la gloria sua », perché  Dio ha stabilito il suo popolo nella celeste Gerusalemme (Graduale). E questo popolo che prenderà parte al gran banchetto della visione beatifica, sarà formato di tutti quelli che, rifuggendo da un’orgogliosa ambizione, saranno sempre stati umili sulla terra: Dio li esalterà nella stessa misura in cui essi si saranno con buon volere sottomessi alla sua santa volontà.- S. Paolo ha ricevuto da Dio la missione di annunziare ai Gentili che essi, al pari degli Ebrei, sono eletti a far parte del popolo di Dio: elezione gratuita che deve riempirli di un’umile riconoscenza verso il Signore e premunirli contro lo scoraggiamento che è una forma di orgoglio. – Per non lasciare un asino o un bue annegare in fondo ad un pozzo, i Giudei non esitavano a fare tutto quello che era necessario per ritirarneli, non ostante il giorno di Sabato in cui ogni opera servile era proibita. Perché dunque il Redentore non doveva poter guarire un ammalato in quel giorno? – « Va, mettiti all’ultimo posto » non vuol dire che il Superiore debba mettersi al di sotto dei suoi subordinati, né esporre la sua dignità al disprezzo; ma egli deve ricordare queste parole dei Sacri Libri: « Quanto più sei grande, tanto più devi mostrarti umile in tutte le cose e troverai grazia davanti a Dio » (Eccl. III, 20).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum in nómine Dómini.

R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.

M. Misereátur nostris omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.

S. Amen.

S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.

R. Amen.

Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXXXV: 3; 5
Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te.

[Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].

Ps LXXXV: 1
Inclína, Dómine, aurem tuam mihi, et exáudi me: quóniam inops, et pauper sum ego.

[Porgi l’orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi, perché sono misero e povero].

Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te.

[Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
Orémus.
Tua nos, quǽsumus, Dómine, grátia semper et prævéniat et sequátur: ac bonis opéribus júgiter præstet esse inténtos.
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios
Ephes III: 13-21

Fratres: Obsecro vos, ne deficiátis in tribulatiónibus meis pro vobis: quæ est glória vestra. Hujus rei grátia flecto génua mea ad Patrem Dómini nostri Jesu Christi, ex quo omnis patérnitas in cœlis et in terra nominátur, ut det vobis secúndum divítias glóriæ suæ, virtúte corroborári per Spíritum ejus in interiórem hóminem, Christum habitáre per fidem in córdibus vestris: in caritáte radicáti et fundáti, ut póssitis comprehéndere cum ómnibus sanctis, quæ sit latitúdo et longitúdo et sublímitas et profúndum: scire etiam supereminéntem sciéntiæ caritátem Christi, ut impleámini in omnem plenitúdinem Dei. Ei autem, qui potens est ómnia fácere superabundánter, quam pétimus aut intellégimus, secúndum virtútem, quæ operátur in nobis: ipsi glória in Ecclésia et in Christo Jesu, in omnes generatiónes sæculi sæculórum. Amen.

[“Fratelli: Vi scongiuro di non perdervi di coraggio a motivo delle tribolazioni che io soffro per voi. Esse sono la vostra gloria. Perciò io piego i ginocchi davanti al Padre del Nostro Signore Gesù Cristo, dal quale prende nome ogni famiglia, in cielo e in terra, affinché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, d’essere fortemente corroborati, mediante il suo spirito, nell’uomo interiore: che Cristo per mezzo della fede abiti nei vostri cuori, affinché, profondamente radicati e fondati nella carità, possiate comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità; e d’intendere anche quell’amore di Cristo che sorpassa ogni coscienza, di modo che siate ripieni di tutta la pienezza di Dio. A Lui che, secondo la possanza che opera in noi, può tutto infinitamente di là di quanto noi domandiamo e pensiamo: a Lui sia gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni di tutti i secoli”.]

PIENI DI DIO IN GESU’ CRISTO.

Una delle cose più stupende, e, se volete anche strane, quando ci facciamo a studiare bene l’uomo, è la sua estrema elasticità. Gli animali sono quel che sono, tutti: i buoi tutti lenti, gravi; i cervi tutti veloci; i leoni tutti crudeli, e gli agnelli tutti mansueti. Ma l’uomo… l’uomo è capace di assumere gli atteggiamenti più diversi, più contrari. Può andare da un estremo all’altro. Un trasformismo fenomenale. Possiamo purtroppo abbrutirci, e quanti uomini si abbrutiscono! Potrebbero essere degli uomini e diventano animali e peggio. S. Paolo l’afferma nettamente l’esistenza di questo « animalis homo.» E’ l’uomo che discende la scala dell’abisso. Si abbrutisce nel pensiero, che non è più pensiero, ricerca faticosa, conquista umile della verità, ma schiavitù dei sensi, superficialismo di impressioni molteplici e varie. Pensa e ragiona come una bestia: cioè non pensa, non ragiona più; urla, non parla. Si abbrutisce l’animalis homo, nel cuore corrotto e violento. Nessun battito generoso più, ma bramiti come di belva. Sogni, compiacenze voluttuose: il fango. Oppure la crudeltà: la belva accanto al bruto; col fango il sangue. La guerra e il dopoguerra hanno moltiplicate queste dolorose esperienze di crudeltà feroce, di ferocia bestiale. Abbiam visti uomini capaci di far paura alla bestia. Artigli, zanne, occhi iniettati di sangue. E per queste vie trionfali di discesa, si direbbe non ci sia limite. Si può andare, e si va sempre più in giù, e ci si abbrutisce sempre più. Tutto questo bisognava ricordare, bisogna meditare per comprendere l’altro moto diametralmente contrario. L’uomo può angelicarsi, mi direte voi. Ciò, vi dico con San Paolo, è ancora poco, troppo poco per il Cristiano, il quale, invece, può e deve divinizzarsi. Dal fango a Dio. Sicuro, è il programma del Cristianesimo, di quel Cristianesimo che davvero atterra e suscita questa povera umanità. L’atterra nella polvere davanti a Dio, la umilia profondamente, ci proclama peccatori, guasti; corrotti, figli di ira, vuole che ci mettiamo in ginocchio, che ci mostriamo davanti a Lui. « Venite adoremus. » Ma ci esalta, perché ci scopre la nostra origine e razza divina, ci dà il diritto di chiamarci, e il potere di diventare figli di Dio, di divinizzarci. Meditiamo pure bene, meditiamo spesso questi contrasti. L’umanità è cattiva, peccatrice, ci insegna il Cristianesimo, ed eccoci nella polvere della abbiezione. E, a parte che dobbiamo stare in ginocchio, colla faccia a terra, perché siamo peccatori, dovremmo starci ginocchioni così, prostrati così davanti a Dio, perché siamo uomini, povere creature di Dio, scintille davanti a un incendio, gocce di fronte al mare. È questo il preludio del dramma, non è il dramma. Il dramma è l’esaltazione sino a Dio. L’eritis sicut Dei, che suonò audace bestemmia sulle labbra del demone, suona dolce invito sulle labbra di Gesù Cristo. « Estote perfectì sicut Pater vester coelestis perfectus est. » Gesù non invita all’impossibile; se mai, ci invita all’impossibile, rendendolo possibile. Dobbiamo diventare come Dio in ciò che Dio ha di più tipico, di più suo, di più caratteristico: la bontà.« Nemo bonus nisi unus Deus: » ma anche noi dobbiamo diventare buoni, anzi perfettamente buoni (estote perfecti), come Lui, come Dio. Non si può andare più in là, più in su. MaSan Paolo adopera un linguaggio ancor più espressivo, più enfatico, direi, se la parola enfasi non portasse con sé l’idea della esagerazione.Paolo vuole che ci riempiamo noi Cristiani, ci riempiamo di Dio, anzi, per usare proprio la sua frase, d’ogni pienezza divina. Quanti sono i Cristiani pieni di Dio? Ne conosco tanti pieni di ben altre cose, di vanità, d’orgoglio, di avarizia, di viltà, di invidia… ma pieni di Dio! Cerchiamo di fare noi questo miracolo in noi stessi, coll’aiuto di Dio, nel nome diCristo.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.

[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore, e tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua.

[Poiché il Signore ha edificato Sion e sarà veduto nella sua maestà.]

Alleluja

Allelúja, allelúja
Ps XCVII: 1
Cantáte Dómino cánticum novum: quia mirabília fecit Dóminus. Allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo: perché Egli fece meraviglie. Allelúia.]

 Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIV: 1-11
In illo témpore: Cum intráret Jesus in domum cujúsdam príncipis pharisæórum sábbato manducáre panem, et ipsi observábant eum. Et ecce, homo quidam hydrópicus erat ante illum. Et respóndens Jesus dixit ad legisperítos et pharisæos, dicens: Si licet sábbato curáre? At illi tacuérunt. Ipse vero apprehénsum sanávit eum ac dimísit. Et respóndens ad illos, dixit: Cujus vestrum ásinus aut bos in púteum cadet, et non contínuo éxtrahet illum die sábbati? Et non póterant ad hæc respóndere illi. Dicebat autem et ad invitátos parábolam, inténdens, quómodo primos accúbitus elígerent, dicens ad illos: Cum invitátus fúeris ad núptias, non discúmbas in primo loco, ne forte honorátior te sit invitátus ab illo, et véniens is, qui te et illum vocávit, dicat tibi: Da huic locum: et tunc incípias cum rubóre novíssimum locum tenére. Sed cum vocátus fúeris, vade, recúmbe in novíssimo loco: ut, cum vénerit, qui te invitávit, dicat tibi: Amíce, ascénde supérius. Tunc erit tibi glória coram simul discumbéntibus: quia omnis, qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.

[“In quel tempo Gesù entrato in giorno di sabato nella casa di uno de’ principali Farisei per ristorarsi, questi gli tenevano gli occhi addosso. Ed eccoti che un certo uomo idropico se gli pose davanti. E Gesù rispondendo prese a dire ai dottori della legge e ai Farisei: È egli lecito di risanare in giorno di sabato? Ma quelli si tacquero. Ed egli toccandolo lo risanò, e lo rimandò. E soggiunse, e disse loro: Chi di voi, se gli è caduto l’asino o il bue nel pozzo, non lo trae subito fuori in giorno di sabato? Né a tali cose poterono replicargli. Disse ancora ai convitati una parabola, osservando com’ei si pigliavano i primi posti dicendo loro: Quando sarai invitato a nozze, non ti mettere a sedere nel primo posto, perché a sorte non sia stato invitato da lui qualcheduno più degno di te: e quegli che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedi a questo il luogo; onde allora tu cominci a star con vergogna nell’ultimo posto. Ma quando sarai invitato va a metterti nell’ultimo luogo, affinché venendo chi ti ha invitato, ti dica: Amico, vieni più in su. Ciò allora ti fia d’onore presso tutti i convitati. Imperocché chiunque si innalza, sarà umiliato; e chi si umilia sarà innalzato”.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

UMILTÀ PRATICA

Nella sala del convito erano rimasti in piedi, con gli occhi sbarrati sul nuovo miracolo che Gesù aveva operato. Un povero idropico gli si era messo davanti sulla soglia invocando la guarigione: il Salvatore l’aveva toccato e sanato in un attimo. Passato il primo stupore, tutti pensarono al banchetto ed ecco molti affannarsi per correre a sedere nei posti migliori. Gesù li osservava. Poi, non tanto per insegnare una regola di civiltà esteriore, quando per inculcare a’ suoi fedeli la fuga dell’ambizione ed esortali, non solo a star contenti degli ultimi posti, ma ad amarli e preferirli con sincera umiltà, disse questa parabola: « Se mai ti capiterà la fortuna di essere invitato ad un pranzo di nozze, non correre a sedere nel primo posto. Può darsi che sia già stato invitato qualcuno più degno di te; e quegli che ha invitato te e lui venga a dirti: — Ritirati indietro. — Che figura allora per te dover lasciare in faccia a tutti il primo posto e andare a sedere in uno degli ultimi! Meglio allora, se t’avverrà d’andare a nozze, che tu ti metta a sedere all’ultimo posto. Il padrone, scorgendoti in luogo umile, ti dirà: — Amico, vieni più in su. — Che onore allora per te, esser condotto dallo stesso padrone, in faccia a tutti, a sedere al primo posto! « Chiunque s’innalza sarà abbassato, concluse Gesù, e chiunque s’abbassa sarà innalzato ». Questa non è soltanto la conclusione della parabola, ma può stare a conclusione di tutto il Vangelo. – La rovina degli uomini venne dalla superbia, quando Adamo in una follìa, che solo il demonio poteva rendere credibile, accettò il frutto proibito sperando di diventar uguale a Dio. La nostra salvezza, dunque, non ci poteva venire che dall’umiltà. Di umiltà fu il primo atto di redenzione: Dio che si fa uomo. Di umiltà la prima parola di Gesù quando dalla montagna promulgò la legge nuova: « Beati i poveri di spirito perché il regno dei cielo è loro ». Di umiltà è il modello che dobbiamo seguire: « Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore ». Non disse, come osserva S. Agostino, imparate da me a fabbricare i cieli e la terra; imparate da me a non mangiare né bere per quaranta giorni; imparate da me a risanar gli infermi, a scacciare i demoni, a risuscitare i morti, o far altre cose prodigiose; ma imparate, disse, da me ad essere mansueti ed umili di cuore. Discite a me quia mitis sum et humilis corde (Mt., XI, 29). Si può fare miracoli, e finire all’inferno; ma nessun umile di cuore verrà escluse dal paradiso, perché il paradiso è dei piccoli. Ma non è della bellezza dell’umiltà, non è de’ suoi vantaggi che io voglio parlarvi; ma è soltanto di alcune contingenze pratiche della vita in cui si distingue chi è umile, da chi è superbo. – 1. VINCERE IL RISPETTO UMANO. A Pollone, paese del Piemonte, durante una Messa festiva, mancando il sacrestano, era passato tra la folla un giovane distintissimo, figlio d’un senatore, studente universitario, con la borsetta a ritirar l’elemosina. Nell’uscir dalla chiesa, mentre i fedeli sfollavano, qualcuno gli si avvicinò e gli disse: « Oh, Pier Giorgio, sei diventato un bigotto! » E quel giovane, che è morto nel fior della vita e nel profumo delle santità, rispose semplicemente: « Non sono diventato niente. Sono rimasto quel che ero: un Cristiano ». Che cosa siamo noi? Ricchi e poveri, sapienti e ignoranti, re e sudditi, tutti siamo creature di Dio. Perché dobbiamo aver vergogna di umiliarci davanti a Lui che ci creò, perché dobbiamo aver rossore di compiere per Lui, anche i più umili uffici? Quei che si lasciano vincere dal rispetto umano sono superbi: ci tengono al giudizio della gente, hanno paura di essere presi come bigotti, come ignoranti, come persone di poco spirito. Per me, Davide non riesce mai così simpatico come quando me lo immagino danzare davanti all’Arca. Si doveva condurre l’Arca dalla casa di Obededon levita fino a Gerusalemme, e Davide organizzò un ingresso trionfale. Sette cori cantavano inni di lode, e ad ogni sei passi s’immolava un bue e un montone. Intanto davanti all’Arca Davide il re, deposte le insegne regali e vestito di un ephod di lino, saltava con tutte le sue forze come un fanciullo. Et David saltabat totis viribus ante Dominum (II Re VI, 14). Quando ritornò a casa, Michol, che l’aveva spiato dalla finestra, gli disse con pungente disprezzo: « Come stava bene oggi il re, danzante in faccia ai suoi sudditi come un buffone! » Ed il re le rispose fieramente: « Al cospetto del Signore, il quale elesse me piuttosto che tuo padre a capo d’Israele, io danzerò ancora di più; ancora di più mi avvilirò e sarò umile! ». Dei Cristiani che ragionano come Michol, ve ne sono ancora. Quanti non vogliono inscriversi alle associazioni e nelle confraternite, per non portare la candela nella processione, per non rivestire la divisa benedetta! Siamo umili, Cristiani! Il mondo ci chiami pure buffoni « Unus de scurris ». Davanti a Dio è gloriosissimo essere anche buffoni. – 2. ACCETTARE LE CORREZIONI. Serapio, il famoso Santo del deserto si vide un giorno comparire un certo monaco che quasi ad ogni parola si chiamava peccatore. Il Santo allora, dopo averlo fatto sedere alla sua mensa ospitale, si permise di fargli alcune osservazioni per il bene della sua anima. « Figliuolo — gli disse con grande dolcezza e carità — sei sulla via giusta. Però se vuoi progredire nella perfezione, non andar troppo in giro di qua e di là: rimani ritirato nella tua cella, attendendo all’orazione, al lavoro, al raccoglimento interno, altrimenti… ». Non poté finire, perché il monaco s’era fatto cupo, e tentava di rispondere malamente come fosse stato insultato. « Fratello mio, — disse al monaco — ti manca tutta l’umiltà ». Provate voi, a far la medesima correzione, ad una donna, ad una fanciulla: « Anima del Signore, sei sempre fuori di casa: di mattina, di mezzogiorno, di sera, sprechi ore e ore oziando, cianciando inutilmente… ». Basta un’osservazione di queste per suscitare una lite in tutta la contrada. Per essere umili non basta aver il coraggio, e ce ne vuol poco in questo caso, di manifestar alcuni nostri difetti, ma bisogna aver il coraggio di sentirseli dire dagli altri, e senza perdere la pazienza, ma con animo tranquillo, anzi riconoscente. Mancano quindi d’umiltà quei Cristiani che, quando il prete fa delle osservazioni nelle prediche, per tutto il giorno e per altri ancora, non fanno che mormorare. Mancano d’umiltà quelle mogli che non accettano correzioni dal marito; quelle nuore che non le accettano dalla suocera. Mancano d’umiltà quei figli, e quelle figlie anche, che, ai genitori che li avvisano in bene, hanno la sfrontatezza di rispondere: « I vostri consigli teneteli per voi, ho la mia età ». – 3. PERDONARE FACILMENTE. AI cominciar della quaresima del 1076, come in tutti gli anni in quel tempo, il Papa Gregorio VII teneva un sinodo. Erano convenuti moltissimi perché si dovevano trattare affari importanti e prendere urgenti deliberazioni contro l’imperatore Enrico IV che perfidamente angariava la Chiesa. Mentre tutti già erano adunati, entrò un messo dell’imperatore, Rolando. Costui aveva offeso più volte e crudelmente il cuore del Papa: lo aveva chiamato odioso tiranno, aveva sparso nel popolo la voce ch’egli non era il sommo pastore di Cristo, ma il lupo feroce. Come lo videro comparire, i presenti, indignati, scattarono e con le spade e i pugnali si lanciarono sopra quel tristo per trafiggerlo: ma il Papa, ch’era un santo, in una mossa fulminea era disceso dal trono e si mise tra le spade e il colpevole, coprendolo con la sua persona. « Rolando » gli diceva in mezzo al tumulto, « son io che ti salvo e ti perdono. E tu pentiti, che ti possa perdonare anche Iddio ». Quanta umiltà d’animo! Il Papa Gregorio VII era stato offeso nel modo più atroce e nel modo più ingiusto: eppure non aspetta che l’altro domandi perdono, è lui il primo che spontaneamente glielo concede, e lo salva dalla morte. Eppure, ci sono moltissimi Cristiani che vivono per anni ed anni, covando in cuore un odio terribile, e desiderando l’ora della vendetta. — Io non posso perdonare, il mio onore non me lo permette — rispondono alcuni. — Ma se perdona anche Iddio? dunque voi vi credete più in alto che Dio stesso. — Ma l’offesa che m’ha fatto è troppo grave. — Considerate con occhi d’umiltà questa vostra offesa, e vedrete che il Signore ne ha perdonato a voi di ben più gravi. È la vostra superbia che vi gonfia come un pallone un torto da nulla. — Sì, io gli perdono, ma deve venire a domandarmi scusa in ginocchio… — Ma questo è un perdono che tutti sanno dare; anche i pagani sanno perdonare così. — Sì, io perdono; ma però il torto che m’ha fatto non lo dimenticherò mai; non avrà più da me una parola. — Tutta superbia: le anime umili perdonano facilmente, dimenticano subito le offese, e beneficano di preferenza quelli da cui ricevettero qualche male. – 4. PREGARE CONTINUAMENTE. Dio è tutto. Noi siamo nulla. Quando Sansone, cedendo alle insidie d’una donna, perse coi capelli la grazie di Dio, divenne debole come un bambino, ed i fanciulli stessi se ne facevano ludibrio. Talvolta lo sorprendevano a dormire, o assorto nel dolore della sua abbiezione, e improvvisamente gridavano: « Sansone, levati! levati! ti sono sopra i Filistei. » Egli si levava, imponente come una torre, credeva di abbatterli tutti con un pugno gli eserciti dei Filistei, e invece s’accorgeva che tutta la sua forza lo aveva abbandonato, e non avrebbe più saputo far male a un passero. E tornava ad accasciarsi disperatamente. Come mai, giovanetto ancora, s’era avventato sopra un leone, e afferrandolo per la gola l’aveva squartato in un colpo? Come mai con un osso d’asino era riuscito a sgominare un esercito armato di spada e di scudo? Come mai un mattino, da solo, aveva sconficcato dai cardini le porte di Gaza e con quelle era corso sul monte? Per la grazia di Dio. E senza la grazia di Dio? Non ha potuto far nulla. Così anche noi, Cristiani. Tutto quello di buono che siamo o che facciamo è solo per la grazia di Dio. Dunque, bisogna continuamente invocarla questa grazia: ogni mattina, ogni sera; quando lavoriamo, quando mangiamo; mentre godiamo, mentre soffriamo; nella preghiera e nella tentazione. – Gesù camminava davanti, solo: forse pregava. Intanto dietro gli Apostoli litigavano, discutendo chi di loro doveva essere il primo nel regno dei cieli. Forse Giovanni, il prediletto, ch’era il più giovane? Forse Andrea che fu uno dei primi a seguire Gesù? Forse Pietro ch’era costituito capo dei dodici? Forse Giuda che teneva il danaro per tutti? Gesù li sentì, e volgendosi disse: « Gli ultimi saranno i primi ». O Cristiani! chi di noi ascenderà più in alto in paradiso? chi di noi sarà il primo nel regno dei cieli? Non il più ricco, non il più sapiente, non il più bello, ma il più umile. — GLI AMMALATI. « Chi di voi, se gli è caduto l’asino o il bue nel pozzo, non lo estrae subito, anche se è giorno di festa? » Nessuno osò replicare. Quando risplende la luce piena, come appare brutta una lucciola! La giustizia formalistica, vuota dei Farisei, era troppo meschina davanti al soffio vivo, intensa di carità che spirava dal cuore di Gesù. Le infermità fisiche hanno sempre suscitato la compassione del Redentore divino, si direbbe, prima ancora delle infermità spirituali e morali. Apparivano a Gesù come il segno delle miserie più profonde dello spirito, per le quali era venuto propriamente dal Cielo? Voleva Gesù arrivare più efficacemente allo spirito, guarendo i corpi e sorreggendo le nostre molteplici debolezze temporali? Sì, tutto questo. Gli uomini, invece, sono troppe volte ciechi, insensibili per le malattie dell’animo, perché poco badano ai dolori fisici del loro prossimo. Potremmo quasi stabilire una proporzione: tanto più un Cristiano è delicato di spirito, quanto più comprende, ama e cura il dolore e le infermità del suo prossimo. Ai cari malati, dunque, il nostro pensiero: li dobbiamo amare; li dobbiamo curare. – 1. AMARE GLI AMMALATI. I missionari cattolici non trovarono mai campo così difficile da conquistare alla fede, come i Maomettani. Quante esperienze finirono nel sangue! La predicazione aperta fu loro proibita; ma essi scelsero il metodo di praticare soprattutto la carità, prima di insegnare. E davanti ai pionieri del Vangelo che curano gli ammalati e proteggono gli infelici, anche l’orgoglio musulmano si piega all’ammirazione, poi alla fede. Suor Rosalia, figlia della carità, è al lavoro nel suo dispensario. Per cavare i denti a quei poveretti, bisogna vincere il terrore dei ferri e la suora usa le più belle espressioni arabe. « Suvvia mio cuore, mia anima, occhi miei! »; e una povera donna guarita se ne va dicendo: « che Allah conservi le tue mani! ». Alcuni musulmani che aspettano il loro turno ragionano tra loro: « Se tutti gli infedeli (Cristiani) andranno all’inferno, per suor Rosalia si farà un’eccezione ». Quando a Damasco la suora curava un povero ammalato, si sentì dire: « Son ridotto in miseria con mia moglie e i miei figli e nessuno de’ miei pensa a consolarmi. Tu che sei straniera vieni nella mia povera casa ad aiutarmi; la tua religione è migliore della mia ». La luce si avanza in quegli spiriti. Assistendo una giovane musulmana aggravatissima, la suora le aveva dato una medaglia della Vergine che l’ammalata baciò e sospese al collo. La suora si fece coraggio e presentò il Crocifisso. È inaudito per un musulmano baciare il Crocifisso; ma la giovane bacia il Crocifisso; e i parenti e gli amici approvano: « Oh, sì, accetta pure tutto ciò che tocca questa religiosa, perché val più una di queste creature che non tutti i dervisci nostri presi assieme ». Gesù amò gli infermi. Non diede a’ suoi Apostoli come primo programma: « curate gl’infermi, risuscitate i morti, mondate i lebbrosi, scacciate i demoni ? » (Mt., X, 8). Le opere di misericordia corporale e spirituale furono sempre la migliore attuazione pratica del Vangelo e conducono sicuramente a convertire i cuori. I malati sono Gesù stesso, che dolora, che aspetta conforto. Sono la parte più sensibile del Corpo Mistico. L’istinto vivo della propria conservazione, le ansie crescenti per l’inerzia forzata, per i lavori interrotti, per l’abbandono della casa e dei figliuoli, per la lunghezza del male, le speranze sempre più incerte, i timori sempre più cupi, danno al malato un’estrema sensibilità. Non per nulla satana, che conosce tutta la miseria umana, riservò al santo Giobbe la malattia come prova estrema, dicendo al Signore: « Stendi la tua mano, toccalo in viso e nel corpo e vedrai se continuerà a benedirti » (Giobbe, II, 4-5). Si diventa migliori o « più Cristiani » come dice tanta buona gente, quando si sanno raccogliere tutte queste situazioni di dolore nel nostro cuore, e si visitano gli ospedali o si è saliti in qualche tugurio. Che effetti il peccato! Come è vano il mondo! Come costa il paradiso! Che meriti per la gloria! – 2. CURARE GLI AMMALATI. S. Ignazio di Loyola, grande conoscitore degli uomini, per provare la stoffa dei suoi novizi, tra gli esperimenti voleva un mese di servizio negli ospedali speso a consolare e a soccorrere gli ammalati. Stimava, poi, come disposizione speciale di Provvidenza d’aver egli stesso sofferte tante malattie e debolezze corporali, per comprendere e compatire più intimamente le malattie degli altri. Così padrone di sé in tutti gli avvenimenti, quando si trattava di malati, specialmente un po’ seri, non riusciva talora a nascondere la sua commozione, tanto era l’amore per essi, Li visitava personalmente, in tempi determinati, osservava con scrupolo se venivan dati con puntualità i cibi e le medicine, e qualche volta fu visto il Santo superiore a scopare la stanza dell’ammalato, a sbattere e a pulire le lenzuola e prestare anche più umili servigi. Una volta, mancando danaro, dié ordine di vendere stoviglie e biancheria perché gli infermi avessero il necessario. E quando il dispensiere gli fece osservare che c’erano in cassa solo tre monete, sufficienti per la comunità, rispose « si spendano pure per l’ammalato! noi stiamo bene e in caso di necessità ci aggiusteremo con un po’ di pan duro ». I Santi facevano così. Quanti Cristiani, invece, di stile 900, sentono difficoltà, forse ripugnanza, a trattare, a soccorrere, a consolare i malati! È proprio di altri tempi che qualche cuore degenere arrivasse a… maledire, a invocare la morte ai propri malati?! Quante esigenze, invece, per se stessi! E quali smanie per un dolore che ci colpisce! Circondiamo i nostri malati di cure materiali. Nel cerchio della famiglia, un padre, una mamma hanno diritto di vedere ne’ loro figli i migliori e più devoti infermieri. Proprio come i nostri sensi e le nostre membra che partecipano attivamente ai mali del nostro corpo. Non si deve badare a noie, a… spese per procurare ai nostri cari una coscienziosa assistenza. E gli altri ammalati, soprattutto i poveri? Fatta proporzione e fin dove è possibile, ogni cura sarà fatta a Dio. Assistere, vegliare, privarci noi qualche volta anche del necessario oltre che del superfluo, è finezza di carità che il nostro cuore cristiano dovrebbe conoscere. Ciò che ancora più importa sono le cure spirituali. È qui dove possiam distinguerci da un pagano che nelle cure materiali potrebbe superarci. Perché non santificar la festa anche visitando gli ammalati? Certe buone mamme di un tempo andando nella borgata o in città, calcolavano anche una visita all’ospedale. E portavano magari primizie di frutta. Che profumo certe delicatezze di carità! È pur facile iscriversi alle Conferenze di S. Vincenzo, per venir a contatto con miserie impensate. Preghiamo per i malati. Vicino agl’infermi preghiamo con loro, rammentando l’Angelo Custode, il nome, l’esempio della Madonna, il divino modello, Gesù. Prepariamo e procuriamo la visita del Sacerdote. Disponiamo con dolce prudenza, ma con sincerità, per gli ultimi Sacramenti, nei casi gravi. Oh il delitto, il tradimento dei parenti e degli amici, che ritardano, impediscono tali conforti, voluti da Dio e dalla Chiesa per le anime de’ nostri cari! – I miracoli noi non li faremo, come Gesù, ma quanto balsamo verseremo con la nostra carità nel cuore dei sofferenti. Gesù accolse il povero idropico con fine comprensione, Lo vide incerto se chiedere la guarigione; forse per timore che i Farisei gli rimproverassero di profanare il giorno di sabato. Eppure, desiderava, il poveretto, di essere soccorso nel suo imbarazzo e soprattutto nel suo dolore. E Gesù lo previene, lo attira delicatamente a sé, lo tocca, lo guarisce, e lasciatolo partire in mezzo al silenzio attonito di tutti, lo difese, lanciando una sferzata terribile al cuore cattivo di quei paladini della legge che avrebbero posposto un loro fratello ad un… asino od un bue di stalla.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 14; 15
Dómine, in auxílium meum réspice: confundántur et revereántur, qui quærunt ánimam meam, ut áuferant eam: Dómine, in auxílium meum réspice.

[Signore, vieni in mio aiuto: siano confusi e svergognati quelli che insidiano la mia vita per rovinarla: Signore, vieni in mio aiuto.]

Secreta

Munda nos, quǽsumus, Dómine, sacrifícii præséntis efféctu: et pérfice miserátus in nobis; ut ejus mereámur esse partícipes.

[Purificaci, Te ne preghiamo, o Signore, in virtù del presente Sacrificio, e, nella tua misericordia, fa sì che meritiamo di esserne partecipi].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei,

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.

V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXX: 16-17;18
Dómine, memorábor justítiæ tuæ solíus: Deus, docuísti me a juventúte mea: et usque in senéctam et sénium, Deus, ne derelínquas me.

[O Signore, celebrerò la giustizia che è propria solo a Te. O Dio, che mi hai istruito fin dalla giovinezza, non mi abbandonare nell’estrema vecchiaia.]

Postcommunio

Orémus.
Purífica, quǽsumus, Dómine, mentes nostras benígnus, et rénova coeléstibus sacraméntis: ut consequénter et córporum præsens páriter et futúrum capiámus auxílium.

[O Signore, Te ne preghiamo, purifica benigno le nostre anime con questi sacramenti, affinché, di conseguenza, anche i nostri corpi ne traggano aiuto per il presente e per il futuro].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (269)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

RISPOSTE POPOLARI ALLE OBIEZIONI PIU’ COMUNI CONTRO LA RELIGIONE (12)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO XII.

FEDE

I. Io non posso credere. II. Mi bastano le verità naturali. III. La mia ragione non può ammettere altro.

Che ci voglia una religione, sia pure in buon’ora, ma sia la religione che insegna la stessa natura. Alla contemplazione dei cieli e della terra, delle campagne, dei fiori, delle marine surgono naturalmente nell’uomo di vani affetti: la mente è rapita in estasi di ammirazione, il cantico dell’amore si sprigiona dal cuore, l’inno di ringraziamento sale come incenso al cielo; ed ecco la religione. A che dunque metterci sempre dinanzi la vostra fede che è lo scoglio, la morte, l’annientamento di quella nobil ragione che il Signore ci ha data? Io per me non posso credere, non posso riconoscere la vostra soprannaturalità, ed è la mia ragione stessa che ne lo vieta. – Così discorrono certe teste romantiche ed irreligiose: ma con quanto onore di quella ragione che tanto vantano, ora lo vedremo.

I. Prima di tutto, dicono, io non posso credere: ma hanno costoro mai compreso una volta ed un po’ chiaramente quello che sia la fede? Ecco, o lettore, la prima cosa che si vuol discorrere un istante. La fede, in quanto oggetto delle nostre credenze, non è altro che una serie, una collezione preziosa di verità che Iddio, veracità infinita, si è compiaciuto di palesare agli uomini: la fede, in quanto è in noi, non è altro che l’assenso dell’intelletto a quelle medesime verità: assenso prestato sull’autorità di Dio medesimo che le ha rivelate: ondeché credere non è altro che prestare assenso ad un Dio che parla. – Ora io vi domando, qual è in questo atto così semplice il punto sì arduo che voi non potete superare? Qual è quello intorno a cui la vostra ragione urta sì gravemente? Forse la vostra ragione v’insegna che Dio non possa parlare agli uomini? Ma sarebbe pur bella che quegli, che ha formato l’uomo, che gli ha dato la favella, non potesse far intendere la sua voce e la sua volontà. A niuno, credo, cadde mai in mente pazzia così solenne. Forse non conviene a Dio il parlare? Ma qual ragione, anche solo apparente, può persuadere che disconvenga a chi ha formato l’uomo l’averne anche provvidenza, e rifornirlo di tutte quelle cognizioni ed ammaestramenti che possono tornargli giovevoli? Sarebbe un paradosso l’affermarlo. Forse manca a Dio il diritto per farlo? Ma questo sarebbe più che un paradosso, sarebbe una bestemmia. Imperocché, come fonte di tutti gli esseri, Egli ha pieno diritto d’imporre ad ogni uomo i suoi voleri, senzaché vi sia in cielo od in terra chi possa appellare dalla sua suprema autorità. Certo la ragione vostra non potrà mai persuadervi alcuna di quelle storture, niuno di que’ deliri. Fin quì dunque non si vede troppo perché, in nome della vostra ragione, non possiate credere. – Resterebbe dunque che ciò avvenisse per una di queste due ragioni, o perché non siate certo che Dio abbia parlato, o perché, essendo certo che Dio ha parlato, possiate sospettare della sua veracità. Questa seconda supposizione, oltre all’esser empia, è così assurda, che mai nessuno né eretico né incredulo osò affermarla; non vo’ dunque fare al mio lettore il torto di confutarla: ci riduciamo adunque alla prima, del non essere voi ben certo se poi veramente Iddio abbia parlato. – Il proporre e spinger oltre questa difficoltà proviene solo dal non conoscere in qual modo ci sia proposta ad esercitare la fede. Presupponete dunque che nell’esercizio di essa vi sono due atti: l’uno è l’atto del credere, l’altro di voler credere. Il primo atto è dell’intelletto, il quale si sottopone all’autorità di Dio che parla, l’altro è l’atto della volontà, la quale comanda, dirò così, all’intelletto che si sottoponga. Ciascuno di questi due atti ha il proprio motivo. L’atto dell’intelletto ha per motivo l’autorità di Dio che parla, l’atto della volontà ha per motivo tutte quelle prove, per cui ci appare fuori di ogni dubbio che Dio abbia parlato. Così in una corte si crede a quello che dice un. ambasciatore, perchè è ambasciatore : ma the egli sia tale non si crede se non perché ha mostrato le sue credenziali. Ora la nostra fede ci nasconde forse le credenziali, vo’ dire le prove che dimostrano che è un Dio quello che ha parlato, che è quel solo che possiamo chiedere ragionevolmente? Tutto l’opposto: ce le schiera dinanzi e belle e limpide ed evidenti, ed in tanto gran numero che si può dire che non solo siano bastevoli ma pur soverchie: Testimonia tua credibilia facta sunt nimis. – Sarebbe lungo il mettervele qui tutte in nota e spiegarle in tutta lor forza, perché non basterebbero ampi volumi: tuttavia ricordate così in confuso che a provare che Cristo è Dio, e che quindi è un Dio che ha parlato, vi sono quaranta secoli di oracoli e profezie che, raccolte insieme, formano tutta la vita del Redentore, ed autentiche per testimonianze dei Gentili non meno che dei Giudei; che vi è la vita stessa di Gesù piena di prodigi strepitosissimi operati in confermazione dì tal verità; che vi è la propagazione e la conservazione del Cristianesimo, ottenuta per mezzi che umanamente dovevano anzi spegnerlo e metterlo in fondo; che vi è una cattedra di verità da Lui eretta, ed inconcussa ed immota dopo diciannove secoli di lotte e contraddizioni; che vi è in favore di tal verità la testimonianza di legioni intere di Martiri e l’eletta degli ingegni più preclari che abbia avuto il mondo: che se dopo tante prove il mondo fu ingannato, l’errore è partito dal trono della stessa divinità. Vedete adunque che la nostra fede non lascia di rischiararci in quel solo punto che può ragionevolmente chiamarsi ad esame. Ma dopo che ha bene stabilito che Dio ha parlato, ci fa poi forse torto a pretendere che noi ci sottomettiamo a quello che un Dio ha manifestato? Sarebbe un oltraggio gravissimo il non arrendersi prontamente ad ogni sua parola. Anche voi che siete un omiciattolo della terra vi avete per male che alcuno mostri di non credervi, quando favellate da senno: eppure potreste anche allora voler ingannare per malizia, poiché siete capace di colpa, od essere ingannato per ignoranza, perché siete fallibile. Fate ragione adunque se competa a Dio l’esser creduto sulla parola, mentre Egli è suprema verità in sé stesso; e veracità infinita rispetto a noi. Resta adunque evidente che non è per verun modo contrario alla nostra ragione che Dio ci obblighi a credere, e che quindi quel non posso credere altro non è che un superbo non voglio piegarmi alla divina autorità.

II. Io ho bisogno, replicano, di altre verità; mi basti quello che la mia ragione m’insegna. Questa replica è sacrilega e blasfema per ogni verso. Basta a voi.., ma non si tratta di vedere quello che basta a voi, si tratta di quello che basta a Dio. E se Dio volesse per sua bontà manifestarvi verità, cui non può arrivare la vostra ragione, vi darebbe l’animo di rifiutarle e gettargliele sul volto? E se Dio volesse colla sua autorità imporsi obbligazioni, e darvi precetti che non può naturalmente conoscere la vostra ragione, avreste mai qualche diritto di sottrarvici? Ebbene questo appunto è accaduto. Gesù Cristo volle manifestarvi che il fine ultimo degli uomini non è una felicità qualunque, ma una beatitudine consistente nella visione chiara di Lui; che per conseguirla ci volevano opere fatte in istato di grazia; che per ottenere queste grazie s’aveva da credere al divin Redentore, che Egli aveva legato i mezzi della salute ad un sacrificio determinato ed a riti speciali che chiamiamo Sacramenti; che in una società sola, qual è la Chiesa, sono accolti tutti i mezzi della salute; che Egli non avrebbe riconosciuti per suoi se non quelli che fossero vissuti conformemente a queste sue leggi; che avrebbe condannato a fiamme eterne quanti non si fossero arresi a’ suoi dichiarati voleri; ha dilatato, in una parola, i confini della natura, ha perfezionata la ragione, ha sublimato l’uomo, l’ha innalzato per grazia alla dignità di figliuolo di Dio, l’ha fatto Dio per partecipazione, e vuole che viva ed operi siccome tale: non ha forse diritto a tutto ciò? Sto a vedere che l’uomo ormai farà la legge a Dio, e che gli prescriverà quello che basta e quello che non basta, che porrà limiti alle comunicazioni divine, che farà le Condizioni sotto cui si contenta di accettarle! Quando avete questi diritti potevate anche crearvi da voi, da voi conservarvi, da voi provvedervi, e formarvi da voi l’ultima beatitudine: così sarebbe compiuta la vostra indipendenza. Il ridicolo non è qui congiunto col blasfemo? – E tuttavia v’è da fare un passo più oltre. La fede non solo non è in opposizione colla ragione, ma anzi le è conformissima. E come no, se noi per mano di natura siamo condotti a non vivere se non di fede, accíocché l’essere lungamente avvezzi alla fede umana ci prepari a quella tanto più nobile che è la divina? L’osservazione è di antichissimi Padri e di molti tra i moderni, e voi la potete fare a vostro agio. Che cosa è tutta la nostra infanzia e gioventù se non un credere cieco ai genitori, un fidarci sicuro ai maestri? Che cosa è il commercio intimo della vita se non un credere perpetuo agli uomini? Cominciando dal credere che questi e non altri sono i nostri genitori, crediamo al servo che così s’ha da lavorare, al cuoco che così s’hanno da governare le vivande, all’artiere che così si ha da condurre l’opera, al contadino che così si ha da arare il campo, al leggista che così abbiamo da racconciare i nostri interessi, al medico che così abbiamo da trattare la nostra infermità, e crediamo tanto che giungiamo a mettere loro in mano le nostre sostanze, i nostri interessi e persino la nostra vita: non è vero? Ora comprendiamo noi forse le ragioni intime dell’operare di tutti costoro? Niuno v’ha al mondo che possa promettersi tanto di sé: crediamo che ognuno in particolare sappia quello che si fa, e noi ci sottomettiamo pienamente. E chi volesse prima di accettare l’opera di alcuno •farsi dar conto di ogni motivo della sua condotta, sarebbe stimato un pazzo, e trattato qual pazzo da tutta la società. E con tutto ciò non si è mai inteso che fosse contrario alla nostra ragione l’aver sempre in atto la fede umana? Se già non si vogliono condannare come irragionevoli tutti gli uomini, non certo. Ma se non è contrario alla ragione il credere agli uomini, perché sarà contrario alla ragione il credere a Dio? Oh che? Saremo di una natura per quello che risguarda le cose terrene, e di un’altra per le celestiali? Chi sa che non si faccia un bel giorno anche questa scoperta. Finché però non è fatta, noi continueremo a credere che la nostra ragione abbia nulla di ragionevole da opporre alla fede. – Anzi più, tanto crederemo ragionevole la fede che stimeremo cosa al tutto da pazzi il rifiutarvisi. Se non vi farò toccare con mano che sia così, non mi date più retta. Non è egli vero che è ugualmente assurdo il credere quando non vi è fondamento di credere, ed il non credere quando questo fondamento vi è? La sana ragione condanna il primo perché è troppo credulo, perché beve grosso: ma condanna anche l’altro perché è capocchio, è ostinato. Difatti immaginate che io ricusassi di credere che esista l’America perché ormai non vi ho navigato, o che non sia stato al mondo il primo Napoleone perché mai non l’ho veduto, che concetto fareste di me? Senza farmi gran torto, mi potreste confinare all’ospedale dei pazzi. Come! È piena l’Europa dei prodotti dell’America, vi sono fra noi degli Americani, molti de’ nostri concittadini l’hanno percorsa, e se ne può dubitare? Similmente abbiamo tutta la storia di quell’Imperatore minutamente descritta, sono al mondo anche molti che lo hanno veduto, persino i fanciulli sanno a mente i nomi di Marengo, di Ulma, di Dresda, della Beresina dove ha fatto le sue imprese, e tuttavia si perfidia a negare la sua esistenza? Vedete adunque che può operarsi contro ragione anche nel discredere un fatto. Ora è da sapere che niun fatto consegnato nella storia, comprovato coi monumenti è così solenne, così indubitato, così innegabile, che non sia ad assai inferiore nel numero e nella autenticità delle prove al gran fatto della venuta di Cristo e della sua rivelazione. Qui convengono la storia, la tradizione, i monumenti eretti dagli amici e dai nemici, dai dotti e dagl’ignoranti, dai creduli e dagli increduli, dai barbari e dai civili, sì che non si possa recare in dubbio senza dare una mentita solenne a tutto l’umano genere: come dunque non sarà un’assurdità agli occhi stessi della ragione il non credere un fatto così provato? E dunque vero a tutto rigore quello che affermano i savi che, per discredere al Cristianesimo e per gittare la fede, bisogna prima aver perduta la ragione. Pensate adunque se la ragione possa opporsi alla fede! – E si conferma tutto ciò con due ragioni di gran peso: La prima è che di fatto gli uomini, che ebbero maggior potenza di ragione che sono i grandi ingegni, tutti credettero. Niuno sarà per negare che quelli, che noi chiamiamo Padri della Chiesa, fossero in ogni secolo quello che il mondo ebbe di più chiaro e profondo in sapere. Levate dall’Africa Tertulliano, S. Agostino, S. Fulgenzio, S. Cipriano ed Arnobio, e poi ditemi in quelle età quali fossero i veramete dotti Africani. Togliete dalla Grecia i Basili, i Crisostomi, i Gregori, gli Origèni, i Teodoreti, in una parola i Padri, e poi indicate uomini che in quell’età abbiano lasciati monumenti uguali ai loro. Fate lo stesso intorno ai Latini: mettete Girolamo; Ambrogio, Leone, Gregorio, Ruffino in confronto dei dotti di quell’età, e vedete se non sopravvanzino tutti nel paragone. Nei secoli di mezzo le fiaccole che rompono le tenebre più dense sono senza stanco veruno Beda , Alcuino , S. Anselmo, Lanfranco, Alberto Magno, d’Ales, lo Scoto, S. Tommaso, S. Bonaventura. Or questi che furono i maggiori uomini de’ loro secoli, quelli che più usarono la ragione, come ne fanno fede indubitata i loro volumi che riempiono le nostre biblioteche, tutti credettero, e credettero sì fermamente, che operarono quasi tutti eroicamente in favore della lor fede: che cosa vuol dir questo? Non è una evidente confermazione che la ragione tanto non si oppone alla fede, che anzi le rende la chiara testimonianza? In caso contrario, converrebbe ‘dire che l’errore fosse il retaggio principalmente de’ savi; ma spero che il lettore n0n sarà tanto pazzo da affermarlo. – L’altra osservazione in confermazione dello stesso vero, si tolga dal contrario. Chi sono stati in tutti i tempi quelli che non hanno potuto credere? Quelli che hanno usato meno della ragione. Non solo per sentenza degli uomini di Chiesa, ma pure per autorità dei filosofi, gli uomini che adoperano meno la ragione, sono gli ignoranti ed i passionati. Quelli sono incapaci di formare discorsi e deduzioni più ampie, poste le tenebre in cui giacciono immersi; questi ne sono incapaci, perde la passione falsa loro in capo il giudizio e dà il tracollo all’intelletto. E siccome fra le passioni, le due più veementi sono la superbia dello spirito e la corruzione del cuore, così queste due tolgono più che qualunque altra l’uso della ragione. Ora, mirate fatalità! da queste classi appunto, cioè dagli stupidi per ignoranza, dai frenetici per orgoglio, dai fracidi per immondezza, si riempiono le file degl’increduli. – Degli ignoranti in primo luogo. Questa è questione di fatto, e col fatto si vuol definire. L’incredulità pullula a’ dì nostri pur troppo fra la gioventù e fra le classi operaie e cittadinesche, come deplorano tutti i savii. Ma dove e come si forma tale la gioventù? Essa esce da que’ collegi che, tolti agli uomini di Chiesa e confidati a mani o inesperte o infedeli, ricevono solo una cognizione superficiale di religione, o non ne ricevono punto. Come si formano increduli gli artieri? Col distorglierli che si è fatto con mille arti di seduzione dall’apprendere nelle Chiese nei dì festivi un po’ chiaramente la verità di essa fede. E le classi cittadine come giungono a perder la fede? Si sono totalmente per rispetto umano sviate dalla Chiesa, e col non udir mai dichiarazioni opportune, annebbiandosi sempre più in loro quelle imperfettissime cognizioni della fede che ebbero nell’infanzia, sono diventati la vittima di ogni più meschino sofisma. – E come potrebbe essere diversamente? Se vivete in mezzo alla società, dovete aver conosciuto più d’uno di quelli che fanno professione d’incredulità; se usate legger giornali, avete dovuto imbattervi spesso in chi bestemmia da incredulo. Ora, ditemi con sincerità: E gli uni e gli altri sono poi quello che di più savio, di più dotto, di maggiormente istruito possiede la società? Vi sembrano proprio quelli gli uomini che debbono avere scoperte ragioni novissime, che erano sfuggite all’acutezza di un Agostino, di un Tommaso e di tanti Dottori che hanno logorata tutta la vita nello studiare ed ammirare le profondità santissime della fede? Possono essi adunque per scienza che ne abbiano, sfatare tutta l’antica sapienza? Essi cogli studi che hanno fatto…. colle occupazioni gravissime in che li vediamo inabissati tutto il giorno, di godere la vita, di deliziare, di giocare, di trescare, e peggio? Il solo guardarli in faccia basta a dimostrare con ogni evidenza che è ignoranza crassa, ignoranza brutale quella che li fa miscredenti. – Che se aprono poi la bocca e fanno sentire le profonde ragioni, sopra le quali stabiliscono la loro incredulità, la dimostrazione prende l’evidenza che ha il sole nel pien meriggio. Che cosa hanno finalmente da opporsi alla fede? Sofismi volgari, triviali, ripetuti le mille volte, e mille volte già esposti e risoluti con tutta chiarezza dai sacri Dottori. S’avvolgono in una confusione che è una pietà a vederli. Non sanno quale sia la dottrina cartolica, quale l’eterodossa. Impugnano quello che nessun difende, difendono quello che nessuno impugna; attribuiscono alla Chiesa quello che la Chiesa tanto non professa, che anzi condanna: si fingono avversari dove non li hanno, per aver la gloria dell’eroe celebre della Mancia di combatterli sino all’ultimo sangue; mentre non sanno poi profferir parola contro quello che è veramente dottrina della Chiesa e verità. Le profonde speculazioni teologiche dei Renan, degli’About, dei Botteri, dei Govean, dei Bianchi-Giovini, dei Bonavini, ed anche del Siécle e dei Débats , e di altri paladini della miscredenza odierna bastano a far ampia fede della peregrina scienza di religione onde sono adorni. E proprio tutta luce quella che li acceca! – Qualche anno fa un Sacerdote gravissimo trovossi in una vettura pubblica a fare un viaggio, e come uomo un po’ astratto che era, stava tutto immerso nella lettura di un suo libro senza por mente ai suoi compagni di viaggio. Una signora che s’annoiava di tanto silenzio, un tratto che quegli aveva deposto il libro, colse il destro di avviare un poco di conversazione, e cominciò col protestare e vantarsi che essa, in fatto di religione, era incredula pienamente. Avrà, replicò allora il Sacerdote, avrà la signora letto qualche cosa, io mi penso, di Bossuet, di Fénélon, di La Luzerne, di Bergier. Non perdo il mio tempo in quelle cianciafruscole. Ma almeno il Valsecchi, il Segneri, qualche Catechismo un po’ ampio. Sì, proprio autori da occuparsene! Quando è così, perché dice di essere incredula? essa non è mai stata incredula, l’assicuro io; ella è semplicemente una stolida, un’ignorante. E questa conclusione quadra a cappello a moltissimi che si vantano d’incredulità. – L’altra fonte della incredulità è la superbia. Lasciando in disparte le prove che ne danno tutti gli eresiarchi antichi, è certo che i due padri dell’incredulità moderna sono Lutero e Calvino. Or l’orgoglio del primo fu tale, che lo portò ad insultare tutti i principi e re ed imperatori del suo tempo, a disprezzar tutti i Padri della Chiesa, a protestare che mille Cipriani ed Agostini non valevano quanto lui, Che prima di lui mai nessuno aveva inteso nulla della Chiesa, della fede, della legge, dei Sacramenti, delle Scritture, e ciò con tanta frenesia, che, per sentenza anche dei suoi, diede nel pazzo. L’arroganza, la superbia, l’impudenza resero Calvino sì intollerabile a’ suoi seguaci, che ne uscì allora il detto, esser meglio ire all’inferno con Teodoro Beza, che andare in cielo con Calvino. E la superbia che fondò il regno della incredulità è poi quella che lo mantiene a’ dì nostri. Ricusarono quelli per orgoglio diabolico di sottomettersi a quello che credettero tutti i loro contemporanei, ricusano tanti spiriti superbi al presente di sottomettersi a quello ché credono i fedeli odierni. Come! dicono tra sé, io che ho tanti studi, tante cognizioni, ho da credere quello stesso che crede un uomo dozzinale, ho da praticar quello stesso che usa una femminuccia? Non è possibile. E qui lo spirito della superbia li punge, gli aizza, non li lascia quetare: per brama di apparir singolari si appartano dagli altri, vantano nuove dottrine, la fanno da increduli e bestemmiatori. – Un mediconzolo, qualche tempo fa, davanti a varie persone che parlavano di religione: non so perché, disse, i preti abbiano tanta difficoltà ad ammettere la transustanziazione, quando. . . . Ma, scusi, l’interruppe un altro, non vi hanno alcuna difficoltà, poiché la difendono contro i luterani. Volevo dire, ripigliò il dottore, con tanto calore la difendono, quando.. . . Non vada oltre, gli disse allora uno che lo aveva a maraviglia compreso, anche senza quella dramma d’incredulità, sappiamo che ella è uomo di gran polso. E questo è per molti tutta la ragione dell’essere increduli, il voler apparire uomini tanto agli altri superiori, quanto audaci e più singolari. – Così certo l’hanno confessato al letto di morte tutti gli increduli più svergognati del secolo scorso. Alla luce tuttoché fioca della candela mortuaria hanno veduto le cose alquanto meglio che non le avevano vedute in vita. Tutte le grandi obiezioni e difficoltà erano scomparse, restava solo in piè la colossale superbia da confessare e da detestare in tempo per non dovere incorrere i castighi che la fede aveva minacciato. – La sorgente però che mena in maggior copia le acque fangos della incredulità è, a detta dei savi, senza alcun dubbio la corruzione del cuore. L’uso soverchio dei diletti corporei turba la mente e non lascia più concepir nulla che non sia animalesco; gli affetti del cuore impigliati nelle sordidezze non possono volgersi alla fede che è purissima, e soprattutto il bisogno di non credere alla fede per non doverne temere i castighi, aguzza l’ingegno ad investigare ragioni, affine di persuadersi che la fede non è altro che una finzione. – Se io dovessi parlare a quattr’occhi ad uno di costoro, vorrei convincerlo in questo modo: Orsù, io gli direi, voi affermate di non poter credere: ma da quanto tempo è che vi sono entrati in mente dubbi sì gravi? Forse nei primi anni di vostra giovinezza, quando costumato, sobrio, pudico menavate con tanta tranquillità giorni innocenti? Eh allora la vostra fede vi pareva pur bella, e non vi saziavate di ammirarne le glorie. Era bello per voi vederla sorgere maestosa fra le rovine dell’idolatria da lei conquisa, e di sotto le mannaie dei proconsoli e degli imperatori che la volevano spegner nel sangue. Le si presentavano contro tutti i vizi armati per farle ostacolo, la superbia, l’avarizia, la libidine, ogni abominazione, ed essa passava oltre calpestandoli tutti, e rendeva casti i dissoluti, umili i superbi, amanti solo del cielo quei che non sospiravano che alla terra. Che se non bastando a contenerla già soverchiante verun riparo, si corse al ferro ed alle stragi, oh allora sì che cominciano le sue glorie. Cadeva una vittima e cento sorgevano ad occuparne il luogo; uno era tolto e cento gliene invidiavano la sorte. Vi ricordate di quelle dolci memorie che forse vi hanno cavato un tempo le lagrime, di una Cecilia, di un’Agata, di un’Agnese, di un Vito, di un Primo, di un Valeriano, e di altri innumerevoli o verginelle delicate, o fanciulletti innocenti che volavano al cospetto de’ proconsoli infelloniti, e col cuore pieno di Gesù e coll’anima giubilante pel vicino martirio li sfidavano ad arrotare le seghe, ad affilare i rasoi, a liquefare i piombi, ad appaiare i graffi, ad affamare i leoni, per esserne così più straziati, più laceri, più martoriati? Chi sa quanto non v’hanno commosso allora narrazioni tanto pietose! E quando poi, levata di sotto la mannaia la testa, presero nei secoli posteriori eretici di ogni maniera ad impugnarla, nuovo spettacolo vi appariva dinanzi: levarsi dall’Oriente e dall’ Occidente i più chiari ingegni, le anime più generose, i Santi più perfetti a farle schermo de’ petti loro e combattere quei mostri, fintantoché non fossero rientrati nell’abisso donde erano sbucati. Insomma, ammiravate questa fede riempir le valli più cupe di santi monaci, popolar le boscaglie più incolte di fervidi anacoreti, fiorire le balze più inospite di austeri penitenti, colmare il mondo di portenti e di maraviglie. Oh allora la fede vi appariva qual è, illustre di profezie, gloriosa di miracoli, chiara di martiri, santa di opere, ricca di popoli; e la vedevate con giubilo veleggiar sulla navicella di Pietro affrontando scogli, correnti e tempeste senza niun pericolo mai di affondare. Questo e tanto più di questo vi appariva allora, e chi vi avesse detto che un giorno sareste stato nemico della fede, vi avrebbe ricolmati di orrore. Che però? Più tardi vi assalirono passioni violente, e non domandandolo voi da principio, s’afforzarono, s’aggrandirono, s’impossessarono di voi. Per alcune volte forse risorgeste dalle vostre cadute, ma stanco alfine di sì duro contrasto, cominciaste a lasciar orazioni chiese, Sacramenti, esercizi di pietà quali vi pareva di non conciliare coi vostri sfoghi. Per attutire i rimorsi della coscienza vi volgeste a dissipazioni, a letture laide, a libri irreligiosi per vedere se vi riusciva di mettere in dubbio la fede che vi minacciava l’inferno. Aggregandovi poi con compagni della medesima risma, e crescendo ogni dì più la dissolutezza del vivere, vi siete condotto finalmente al punto di potere in certi momenti, in cui siete come un mare in tempesta, dubitare della vostra fede internamente e nell’esterno vantarvi d’incredulità. Ed ecco, conchiuso finalmente, ecco tutte le vie per cui giungeste ad essere miscredente. Lettore, quello che fosse per rispondermi questo infelice, io non so: ma più d’uno che ha voluto esser sincero, ha confessato schiettamente, questa essere la storia veritiera del suo misero cuore. – Il perché ad assommare in poche parole il ragionato fin qui, quella formula: io non posso credere; la mia ragione mel vieta, torna in quest’altra: io non posso credere o perché un’ignoranza brutale non mi lascia levare gli occhi più in là di questa misera terra, perché la superbia mi ha levato il cervello, o perché i vizi hanno sommerso il cuore nel fango: quindi non posso fare quel che la sana ragione mi consiglia, mi comanda, m’inculca, benché sotto pena di essere infelice nel tempo e più infelice nella eternità. Lettore, converrete meco che si può usare un po’ meglio la ragione per tenere un po’ più salda la fede.

15 SETTEMBRE: I SETTE DOLORI DELLA B. V. MARIA

I sette Dolori della B. V. Maria (2023)

Doppio di 2° classe. – Paramenti bianchi.

Maria stava ai piedi della Croce, dalla quale pendeva Gesù (Intr., Grad,. Seq., All., Vangelo) e, come era stato predetto da Simeone (Or.) una spada di dolore trapassò la sua anima(Secr.). Impotente, ella vede il suo dolce Figlio desolato nelle angosce della nmorte, e ne raccoglie l’ultimo sospiro » (Seq.). L’affanno che il suo cuore materno provò ai piedi della croce, le ha meritato, pur senza morire, la palma del martirio (Com.). – Queste festa era celebrata con grande solennità dai Serviti nel XVII secolo. Fu estesa da Pio VII, nel 1817, a tutta la Chiesa, per ricordare le sofferenze che la Chiesa stessa aveva appena finito di sopportare nella persona del suo Capo esiliato e progioniero, e liberato, grazie alla protezione della Vergine. Come la prima festa dei dolori di Maria, al tempo della Passione, ci mostra la parte che Ella presa al Sacrificio di Gesù, così la seconda, dopo la Pentecoste, ci dice tutta la compassione che prova la Madre del Salvatore verso la Chiesa, sposa di Gesù, che è crocifissa a sua volta nei tempi calamitosi che essa attraversa. Sua Santità Pio X ha elevato nel 1908 questa festa alla dignità di seconda classe.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostrs, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
S. Amen.
V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Joann XIX:25
Stabant juxta Crucem Jesu Mater ejus, et soror Matris ejus, María Cléophæ, et Salóme et María Magdaléne.

[Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Salome, e Maria Maddalena.]Joann XIX:26-27

Múlier, ecce fílius tuus: dixit Jesus; ad discípulum autem: Ecce Mater tua.

[Donna, ecco tuo figlio, disse Gesù; e al discepolo: Ecco tua madre]

Stabant juxta Crucem Jesu Mater ejus, et soror Matris ejus, María Cléophæ, et Salóme et María Magdaléne.

[Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Salome, e Maria Maddalena.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléiso

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, in cujus passióne, secúndum Simeónis prophetíam, dulcíssimam ánimam gloriósæ Vírginis et Matris Maríæ dolóris gladius pertransívit: concéde propítius; ut, qui transfixiónem ejus et passiónem venerándo recólimus, gloriósis méritis et précibus ómnium Sanctórum Cruci fidéliter astántium intercedéntibus, passiónis tuæ efféctum felícem consequámur:

[O Dio, nella tua passione, una spada di dolore ha trafitto, secondo la profezia di Simeone, l’anima dolcissima della gloriosa vergine e madre Maria: concedi a noi, che celebriamo con venerazione i suoi dolori, di ottenere il frutto felice della tua passione:]

Lectio

Léctio libri Judith.
Judith XIII:22;23-25
Benedíxit te Dóminus in virtúte sua, quia per te ad níhilum redégit inimícos nostros. Benedícta es tu, fília, a Dómino, Deo excélso, præ ómnibus muliéribus super terram. Benedíctus Dóminus, qui creávit cœlum et terram: quia hódie nomen tuum ita magnificávit, ut non recédat laus tua de ore hóminum, qui mémores fúerint virtútis Dómini in ætérnum, pro quibus non pepercísti ánimæ tuæ propter angústias et tribulatiónem géneris tui, sed subvenísti ruínæ ante conspéctum Dei nostri.

[Il Signore nella sua potenza ti ha benedetta: per mezzo tuo ha annientato i nostri nemici. Benedetta sei tu, o figlia, dal Signore Dio altissimo più di ogni altra donna sulla terra. Benedetto il Signore, che ha creato il cielo e la terra, perché oggi egli ha tanto esaltato il tuo nome, che la tua lode non cesserà nella bocca degli uomini: essi ricorderanno in eterno la potenza del Signore. Perché tu non hai risparmiato per loro la tua vita davanti alle angustie e alla afflizione della tua gente: ci hai salvato dalla rovina, al cospetto del nostro Dio.]

Graduale

Dolorósa et lacrimábilis es, Virgo María, stans juxta Crucem Dómini Jesu, Fílii tui, Redemptóris.
V. Virgo Dei Génitrix, quem totus non capit orbis, hoc crucis fert supplícium, auctor vitæ factus homo. Allelúja, allelúja.

V. Stabat sancta María, cœli Regína et mundi Dómina, juxta Crucem Dómini nostri Jesu Christi dolorósa.

[Addolorata e piangente, Vergine Maria, ritta stai presso la croce del Signore Gesù Redentore, Figlio tuo.
V. O Vergine Madre di Dio, Colui che il mondo intero non può contenere, l’Autore della vita, fatto uomo, subisce questo supplizio della croce! Alleluia, alleluia.
V. Stava Maria, Regina del cielo e Signora del mondo, addolorata presso la croce del Signore.]

Sequentia

Stabat Mater dolorósa
Juxta Crucem lacrimósa,
Dum pendébat Fílius.

Cujus ánimam geméntem,
Contristátam et doléntem
Pertransívit gládius.

O quam tristis et afflícta
Fuit illa benedícta
Mater Unigéniti!

Quæ mærébat et dolébat,
Pia Mater, dum vidébat
Nati pœnas íncliti.

Quis est homo, qui non fleret,
Matrem Christi si vidéret
In tanto supplício?

Quis non posset contristári,
Christi Matrem contemplári
Doléntem cum Fílio?

Pro peccátis suæ gentis
Vidit Jesum in torméntis
Et flagéllis súbditum.

Vidit suum dulcem
Natum Moriéndo desolátum,
Dum emísit spíritum.

Eja, Mater, fons amóris,
Me sentíre vim dolóris
Fac, ut tecum lúgeam.

Fac, ut árdeat cor meum
In amándo Christum Deum,
Ut sibi compláceam.

Sancta Mater, istud agas,
Crucifixi fige plagas
Cordi meo válida.

Tui Nati vulneráti,
Tam dignáti pro me pati,
Pœnas mecum dívide.

Fac me tecum pie flere,
Crucifíxo condolére,
Donec ego víxero.

Juxta Crucem tecum stare
Et me tibi sociáre
In planctu desídero.

Virgo vírginum præclára.
Mihi jam non sis amára:
Fac me tecum plángere.

Fac, ut portem Christi mortem,
Passiónis fac consórtem
Et plagas recólere.

Fac me plagis vulnerári,
Fac me Cruce inebriári
Et cruóre Fílii.

Flammis ne urar succénsus,
Per te, Virgo, sim defénsus
In die judícii.

Christe, cum sit hinc exíre.
Da per Matrem me veníre
Ad palmam victóriæ.

Quando corpus moriétur,
Fac, ut ánimæ donétur
Paradísi glória.
Amen.


[Sequenza
Stava di dolore piena e di pianto
la Madre presso la croce,
da cui pendeva il Figlio.

L’anima di Lei gemente,
di tristezza e di dolore piena,
una spada trafiggeva.

Oh! quanto triste ed afflitta
fu la benedetta
Madre dell’Unigenito!

S’affliggeva, si doleva
la pia Madre contemplando
le pene del Figlio augusto.

E chi non piangerebbe
mirando la Madre di Cristo
in tanto supplizio?

E chi non s’attristerebbe
vedendo la Madre di Cristo
dolente insieme al Figlio?

Per i peccati del popolo suo
Ella vide Gesù nei tormenti
e ai flagelli sottoposto.

Ella vide il dolce Figlio,
morire desolato,
quando emise lo spirito.

Orsù, Madre fonte d’amore,
a me pure fa’ sentire l’impeto del dolore,
perché teco io pianga.

Fa’ che nell’amar Cristo, mio Dio,
così arda il mio cuore
che a Lui io piaccia.

Santa Madre, deh! tu fa’
che le piaghe del Signore
forte impresse siano nel mio cuore.

Del tuo Figlio straziato,
che tanto per me s’è degnato patire,
con me pure dividi le pene.

Con te fa’ che pio io pianga
e col Crocifisso soffra,
finché avrò vita.

Stare con te accanto alla Croce,
a te associarmi nel piangere
io desidero.

O Vergine, delle vergini la più nobile,
con me non esser dura,
con te fammi piangere.

Fammi della morte di Cristo partecipe,
e della sua passione consorte;
e delle sue piaghe devoto.

Fammi dalle piaghe colpire,
dalla Croce inebriare
e dal Sangue del tuo.

Perché non arda in fiamme
ma da te sia difeso, o Vergine,
nel dì del giudizio

O Cristo, quando dovrò di qui partire,
deh! fa’, per la tua Madre,
che al premio io giunga.

E quando il corpo perirà,
fa’ che all’anima
la gloria del cielo sia data.
Amen.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
R. Glória tibi, Dómine.
Joann XIX:25-27.
In illo témpore: Stabant juxta Crucem Jesu Mater ejus, et soror Matris ejus, María Cléophæ, et María Magdaléne. Cum vidísset ergo Jesus Matrem, et discípulum stantem, quem diligébat, dicit Matri suæ: Múlier, ecce fílius tuus. Deinde dicit discípulo: Ecce Mater tua. Et ex illa hora accépit eam discípulus in sua.

[In quel tempo, stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Maria Maddalena. Gesù, dunque, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che amava, disse a sua madre: « Donna, ecco tuo figlio». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre». E da quell’ora il discepolo la prese con sé.]

OMELIA

(Otto Ophan: Maria; Marietti ed. Torino, 1953)

« Presso la croce di Gesù stava ».

Possiamo chiederci se a Maria sul Calvario non sia stato domandato troppo. Non fu ivi posto sulle spalle d’una donna delicata, d’una povera Madre una tale enormità, ch’Ella sotto tanto peso doveva crollare, fisicamente e ancor più spiritualmente? Per Maria l’impotenza sarebbe stata benefica, perché avrebbe occultata al suo spirito l’ora della scena più straziante. Ma il suo spirito sul Calvario restò sveglio; era come un lago turchino, sul quale il sole cocente bruciava senza misericordia. Quali insopportabili strazi dovette Maria sostenere sul Calvario! Se persino il Figlio suo gridò nell’abisso del suo strazio le parole: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai tu abbandonato? », che cosa non dovette passare anche nel cuore della Madre sua? Tempeste di chiarezza infuriavano sull’anima di Lei; i flutti del suo cuore non La cacceranno sulle bianche spiagge, sicché spumeggino e s’impennino nella disperazione e nella ribellione? Qual minaccia non costituisce per la fede un grande patire, anzi già il semplice patire! Come si presenta pericolosa vicino al sofferente l’audace domanda: ma v’è Iddio? ma v’è proprio un Dio? Può esserci un Dio, se accade il fatto più raccapricciante, l’uccisione… dell’Uomo-Dio? E se L’hanno ucciso, Iddio dunque è morto! Questo fatto enorme, pazzesco, folle non si oppone anche al minimo d’intelligenza? Le orribili sofferenze e i delitti del nostro tempo hanno bruciata la fede in Dio in esseri innumerevoli precisamente con queste fiaccole infuocate. Ma se tuttavia Iddio è — ed Egli è! —, non è Egli un Dio totalmente diverso da quello che Gesù aveva annunziato, un essere oscuro, indifferente, sublimissimo, che troneggia nelle lontane e gelide altezze? Maria sul Calvario ricordò forse con dolore la predicazione del Figlio suo circa il Padre, il Padre che veste i gigli del campo, che nutre gli uccelli del cielo, e si prende cura d’ogni capello del nostro capo. Ov’è adesso Egli, questo Padre provvido, questo Padre amante? Ma v’è anzi quaggiù anche solamente il governo d’un Dio giusto? il Figlio suo lacerato non è una palpabile confutazione, un sanguinoso sprezzo della consolante predica intorno a un Dio paterno? Quanto dev’esser crudele quest’essere sublimissimo, che procura al più nobile, al più santo di tutti gli uomini e alla Madre sua innocente tanto tormento o anche permette che lo si procuri, mentre noi stessi non lo arrecheremmo al peggiore dei nostri nemici! La bestemmia contro Dio sta vicina al credente più di quello che non si possa sospettare. L’incredulo conclude presto: nega semplicemente Iddio, e con questa misera soluzione si « spiega » gli enigmi della vita; il credente invece sa troppo bene dell’esistenza di un Essere supremo; i problemi della vita e del mondo lo disorientano non quanto all’esistenza, ma quanto al modo d’essere di Dio, quanto alla provvidenza, alla bontà e alla giustizia di Dio. E ora il Vangelo dà netto risalto all’atteggiamento della Vergine: « Stava accanto alla croce di Gesù sua Madre ». Ella stava sommersa nell’uragano che su di Lei muggiva. La terra tremò e le rocce si spaccarono: Maria stava. Il velo del Tempio si stracciò dall’alto al basso, e il Figlio suo rese il suo spirito con un forte grido: Maria stava. Ritta, solitaria stava là, come un albero principesco, attorno al quale un’intera selva giace abbattuta. Nelle Litanie lauretane noi esaltiamo Maria quale « Torre eburnea »: « eburnea » fu accanto alla croce per il pallore; ma Ella fu anche « torre », che resistette agli assalti paurosi del dubbio e della disperazione intrepida e invitta. Maria non è solamente la Madre amabile, quale spesso ci viene mostrata; ancor meno Ella è la figurina graziosa, quasi leziosa d’una merce fuori d’uso; Maria è la donna forte, che, degna del Figlio suo, va innanzi con Lui all’esercito dei martiri di sangue asperso qual Regina, la Regina dei martiri. Maria sul Calvario non disse alcuna parola. Non si lamentò, non dubitò, non maledisse, nemmeno interrogò più. Al Dodicenne chiese in dolorosa sorpresa: « Fanciullo, perché ci hai fatto tu così? »; anche alle nozze di Cana Gli presentò la sommessa preghiera: « Non hanno più vino »; sul Calvario Ella non è altro che silenzio. C’è un silenzio anche per alterigia o per impietrimento, come secondo l’antica leggenda greca fu il silenzio di Niobe, cui la saetta di Apollo aveva ucciso tutti i figli; Maria sopravvanza in grandezza d’animo le povere madri sofferenti degli antichi pagani, Niobe ed Ecuba, per l’infinita perfezione cristiana. Il suo silenzio non è protesta, ma silenziosa adesione. A dir il vero, le sue labbra sono sigillate dal dolore, sicché non può più gridare, come nell’ora felice dell’Annunciazione laggiù a Nazaret, il suo “Fiat”. Anche nella nostra vita giungono momenti, nei quali non possiamo più parlare, non più pregare, nemmeno più gemere; in quei momenti. non resta che il linguaggio dell’atteggiamento. Maria sul Calvario disse il suo Sì nella lingua commovente dell’atteggiamento: « Ella stava presso la Croce ». Questo stare era più che un discorso; con questa resistenza e perseveranza Ella espresse tutto quello che quassù sul Calvario aveva da dire. – L’informazione evangelica dice certamente: « Stavano presso la croce di Gesù la madre sua e la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria Maddalena », e anche il discepolo che Gesù amava stava lì. Maria dunque stava presso la croce di Gesù non da sola; anche le altre stavano, e di questo dovrebbe tener conto anche l’arte, la quale preferisce rappresentare Maria Maddalena svenuta ai piedi della Croce, sopraffatta dal dolore. L’atteggiamento eretto della coraggiosa Madre di Gesù fu però più eroico che quello delle altre: le altre attinsero energia in quell’atteggiamento della Madre per non abbandonarsi senza ritegno al dolore; la fortezza d’animo della Madre tenne ritte presso la croce anche le altre: se accanto alla croce sta ritta persino la Mamma, neppure le altre devono ivi cadere, non devono di là fuggire. Il racconto evangelico sottolinea intelligente questa posizione eretta; non scrive cioè: « Quando Gesù vide sua Madre e il suo discepolo che Egli amava presso la croce », ma: « Quand’Egli vide ch’Ella stava ritta »; non la presenza di Maria sul Calvario fu il grande fatto, ma la sua posizione eretta. E qui sta nascosto qualche cosa di ancor più profondo. Lo stare di Maria accanto alla croce del Figlio manifestava non solamente la sua magnanimità, ma anche il suo consenso, che voleva dire ben di più. Maria non stava soltanto presso la croce, Ella stava per la croce, l’approvava. Ella sul Calvario era di nuovo posta, come un tempo laggiù a Nazaret, dinanzi a una decisione, stavolta dinanzi a una « decisione sanguinante » nel senso più terribile della parola: a Nazaret Ella dovette decidersi se accogliere il Figlio suo, sul Calvario dovette decidere se darLo. Sul Calvario avrebbe potuto richiamarsi a buon diritto alla splendida profezia di Gabriele in occasione dell’Annunciazione, la quale diceva che Iddio « avrebbe dato il trono di suo padre David al Figlio di Lei »; adesso ne eravamo così lontani, che Gesù pendeva dalla croce fra due delinquenti. La raccapricciante realtà del Calvario non era una stridente offesa di quella lontana promessa? non era Maria una povera donna ingannata, cui le promesse fatte non erano state mantenute? Molti sul Calvario si sarebbero querelati e stizziti con simili amarezze, sarebbero stati per il Figlio, non però per la sua croce. Maria invece non stette solamente per il Figlio, ma anche per la croce di suo Figlio. Col Sì di Nazaret Ella aveva data a Dio carta bianca per tutta la sua vita; quanto Iddio scriveva sulle bianche pagine della sua vita, è già in precedenza ratificato e sottoscritto dal “Fiat” di Lei; quando quella sublimissima mano cominciò a scrivere con scrittura di sangue, col sangue del Figlio suo, Maria non disdisse il suo Sì di Nazaret, ma lo completò col Sì del Calvario. Non si lamentò dicendo: « Oh, adesso basta! adesso è troppo! »; neppure come preghiera e supplica raccolse la parola risuonataLe vicina, che i nemici avevan scagliata contro la croce a dileggio di Gesù e quasi a tentazione per Lei: « Figlio mio, discendi dalla croce! hai aiutato gli altri, aiuta anche te stesso! »; Ella Lo lasciò sulla croce. Non mosse un dito, non mosse labbro per liberarLo dall’abbraccio della morte. Ella, come la magnanima madre dei Maccabei il figlio suo più giovane e ancor più eroica di quella, incoraggiava con la sua silenziosa presenza il Figlio morente: «Figlio mio, abbi pietà di me! sostieni la morte! ». Sul Calvario quindi Maria stette sulla cima del sacrificio che tutto comprende. Niente, niente affatto Ella ritenne per sé; donò, per compiere la volontà di Dio e per la nostra salvezza, persino il Figlio suo, persino il suo… Dio. La parola, che del Padre celeste Gesù aveva detta e che scrisse il discepolo allora presente con Maria presso la croce, valeva anche per Lei: « Tanto la Madre ha amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito, affinché chiunque in Lui crede non perisca, ma abbia la vita eterna ». Maria sapeva della donazione generosa del Figlio voluta dal Padre per la salvezza del mondo, e, sostenuta dalla solida base di questa parola, scorse il segreto delle paurose vicende del Calvario: quivi si compiva la salvezza dell’umanità; la redenzione, la redenzione per amore; il Figlio suo, con le mani lacerate dai chiodi, portava di nuovo in alto, su, su, alla casa del Padre l’umanità allontanatasi da Dio. Quivi era in questione la misericordia, la misericordia sconfinata, non la crudeltà. E in realtà in nessun’opera la divina misericordia e la divina giustizia si son così strettamente abbracciate come… nell’inchiodamento del Figlio di Dio sulla croce, e in nessun luogo arde l’amore di Dio più caldo che nel suo Sangue, che fu « versato per molti in espiazione dei peccati ». L’umanità sofferente del Signore ricevette senza dubbio forza e conforto dalla coraggiosa presenza della Madre accanto alla croce. Durante la sua ineffabile tristezza sul Monte degli Olivi il Signore aveva cercato conforto nei discepoli; ma questi non stavano, essi dormivano; e allora Iddio benigno per incoraggiare il Figlio suo sofferente Gli inviò un Angelo dal Cielo; sulla vetta del Calvario non volò nessun Angelo, ma ivi stava la Madre; una madre è l’angelo più consolatore di tutti. Ella baciava quei piedi inchiodati, e le sue labbra pallide divennero rosse di sangue; a Lui pendente dalla croce sussurrava tutti i nomi dell’amore, nomi così soavi quali dall’infanzia non aveva più osato dirGli. Ella stava là, vicina alla croce, e intercettava gli sguardi dei suoi occhi, perché non dovessero andar vaganti nella notte e fra le bestemmie, ma trovassero difesa e riposo negli occhi della Madre sua. Il Padre suo L’aveva abbandonato, ma la Madre era là, e nella Madre era vicino anche il Padre, perché una madre è la garanzia più soave e più sensibile dell’invisibile ed eterno amore di Dio. Senza dubbio la presenza della Madre presso la sua croce fu per il Signore anche una indicibile sofferenza. Che cosa non doveva soffrire a causa sua la Poveretta, la buona Donna! Tommaso d’Aquino scrive commosso che anche gli occhi di Gesù, come gli altri suoi sensi, dovettero soffrire sulla croce una pena propria: essi scorsero la Madre e il discepolo dell’amore piangenti ai piedi della croce. A questo penoso dolore però andava unito un grande conforto, quello di possedere una Madre dall’amore talmente invincibile e d’una fortezza insuperabile. Pietro ieri sera Gli aveva giurato: « Anche se tutti pigliassero scandalo di te, io, io non lo piglierò giammai ». Dov’era Pietro? Sua Madre non si scandalizzò di Lui; Ella stava presso di Lui anche nella defezione di tutti, anche in mezzo al più compassionevole fallimento, anche sommersa in un inferno di tormenti. Proprio la Madre, la Madre sua buona e cara, la migliore e la più santa di tutti gli uomini, proprio Lei resse accanto a Lui, l’impalato, il crocefisso. E da questa Madre s’apriva dinanzi allo sguardo del Signore una via luminosa perdentesi nell’infinito. Questa Donna solitaria accanto alla sua croce è la prima redenta, la redenta perfettamente. Sin dal momento della sua concezione rumoreggia in Lei la grazia della redenzione talmente ricca e possente, che sarebbe valsa la pena di soffrire e di morire già solamente per Lei; era pure grazia di redenzione ch’Ella ora se ne stesse nella bufera del Calvario. Maria però non è sola, Ella accanto alla croce è la rappresentante di tutti i redenti; in Lei si inginocchia la Chiesa dell’avvenire; in Lei le schiere, che nessuno può contare, dicono grazie al l’Agnello, perché le loro vesti son divenute bianche nel suo Sangue. In Maria il Padre presenta al Figlio che muore l’umanità redenta; in Maria il Figlio scorge come in un modello e in un simbolo l’infinito valore della sua passione. Era come se dalla Madre accanto alla croce ascendesse verso l’infuriar dei tormenti e verso il fremito del Sangue del Figlio morente un canto lontano e bello: « Degno è l’Agnello, che fu ucciso, di ricevere potenza e regno e sapienza e fortezza e onore e gloria e lode ». In quel momento un sorriso sfiorò il volto sfigurato del Figlio e un raggio penetrò anche negli occhi della Madre. Da tutto questo appare chiaramente che alla Madre del Signore spetta una parte importante anche per la nostra redenzione. Maria sul Calvario non fu semplicemente la mamma amante e sofferente d’un figlio morente: milioni di povere madri hanno assistito i figli morenti; Maria stette sul Calvario quale « Madre del Redentore »: « Pro peccatis suæ gentis vidit Jesum in tormentis — ah! Ella vide Gesù sopportare martiriiper i peccati dei suoi fratelli, flagelli, spine. derisioni e scherni».A questa redenzione dell’umanità per mezzo del Sangue e della mortedel Figlio suo Maria disse il suo Sì stando accanto alla croce; per questoil suo amore e il suo dolore materno si elevavano immensamente piùin alto che quelli di qualunque altra povera madre sofferente, si portaronosu, nell’altipiano del mistero della redenzione, furono un contributoper la salvezza del mondo.Il Vangelo stesso allude a questo posto ufficiale di Maria accanto allacroce del Figlio: esso ha sempre taciuto di Lei durante tutto il lungoperiodo della vita nascosta di Gesù a Nazaret come della sua attivitàpubblica; accanto alla croce di Gesù invece Ella riappare nuovamentenella relazione evangelica grande, in una luce singolare; qui dunque civien segnalato che la presenza di Maria presso il Figlio morente non fusoltanto l’esigenza d’un commovente affetto materno; quivi si trattò d’unatto solenne e addirittura ufficiale.Questo spettacolo commovente della Madre presso la croce è comeuna solenne ed edificante Liturgia. Questa Donna regale sta ritta, nonassopita dal dolore, non sprofondata nella disperazione, ma, come osaaffermare con parola ardita San Bonaventura, « intenerita per la gioiache il suo Unigenito debba essere offerto in vittima per la salvezza delmondo ».Maria accanto alla croce prega col Sommo Sacerdote dell’umanità,offre con Lui, soffre con Lui. « Ella sul Calvario, quale nuova Eva, Lo offrì all’Eterno Padre per tutti i figli di Adamo con sacrificio totale dei suoi diritti materni e del suo materno amore ». Per questo già dal tempo di Alberto Magno, Maria è chiamata con senso profondo « aiutante » della redenzione, a somiglianza di Eva che era stata « aiutante di Adamo »; Ella è la « inserviente » della redenzione, la « diaconessa » della redenzione. Il diacono porta all’altare le offerte del pane e del vino per la Messa solenne, egli le prepara; egli assiste il sacerdote offerente, è pure a lui unito con intima comunione e sentimento sacrificale. Maria sul Calvario fece così: Ella preparò l’Offerta santa, il Corpo del Figlio suo, nell’Incarnazione e lo fece grande a Nazaret; Ella presentò questa preziosissima Proprietà per il sacrificio, Ella entrò in perfettissima comunanza d’amore e di dolore col Sacerdote offerente, che era nello Stesso tempo la Vittima offerta. Questo confronto « sacerdote-diacono » ci richiama però anche alla differenza essenziale fra l’oblazione di Gesù e quella di sua Madre. Il diacono non raggiunge l’indipendenza del Sacerdote offerente; egli non pregiudica la sufficienza del sacrificio sacerdotale; egli piuttosto compie il suo ufficio in piena dipendenza dal Sacerdote, come conviene al suo posto di sott’ordine quale diacono. Maria ebbe parte in questo modo alla nostra redenzione: il sacrificio sulla croce del nostro Eterno e Sommo Sacerdote, che mediante il suo Sangue penetrò i Cieli e aprì a noi peccatori la via al trono della grazia, tanto che adesso ci è concesso di accostarci con fiducia dinanzi alla terribile maestà di Dio e ivi conseguire grazia per l’aiuto opportuno, è d’una sufficienza e d’una sovrabbondanza talmente infinita, che non ha bisogno d’alcun umano completamento e sostegno. La cooperazione di Maria non fu un contributo necessariamente richiesto per la redenzione operata dal nostro unico e solo Signore e mediatore Gesù Cristo; Ella non poté portare nessun completamento a quello che in sé era già perfetto; ora l’azione di Cristo fu sufficiente per la redenzione di mille mondi. Però « l’opera della salvezza doveva in questa cooblazione della nuova Eva ornarsi di bellezza in ogni parte ed essere del tutto completa anche in linea dell’essere e dell’operare semplicemente creato » (Feckes). E così l’augusta Signora sul Calvario, accanto alla croce del Figlio suo, presentò anche il dolore e la riconoscenza del suo cuore materno e la indigenza e la povera buona volontà della stirpe umana, che Ella fu chiamata a rappresentare. Ella ornò il calice traboccante del Sangue di Cristo con le pietre preziose delle sue lagrime e col ramo di mirra della sua pena amara, che sopportò per noi peccatori. E chi potrebbe dubitare che questo materno dolore, unito al sacrificio del Figlio suo, divenisse benedizione per il mondo intero, se già la preghiera e il sacrificio delle nostre povere madri torna a noi di salvezza? Persino Paolo, l’inesorabile predicatore dell’unico e solo redentore Gesù Cristo, scrive e per di più di se stesso le misteriose parole: « Io godo nei patimenti in pro vostro, e in contraccambio compio le deficienze delle tribolazioni del Cristo nella mia carne in pro del Corpo di Lui, che è la Chiesa ». Se così, il tremendo patire della Madre accanto alla Croce potrebbe essere rimasto privo d’una efficacia tutta particolare per la vita della Chiesa? La passione infinita di Cristo non abbisogna affatto in sé d’un « compimento », però a tutte le membra del mistico Corpo di Gesù Cristo spetta anche una determinata misura di sofferenza; se il Capo, Cristo, soffre, con Lui soffriamo noi tutti, suoi membri. In questo misterioso Corpo di Cristo ogni membro, soffrendo e offrendo, deve giovare alla salvezza anche degli altri, ciascuno in proporzione del suo posto e dell’importanza in questo « Corpo », questi solamente per pochi, quell’altro per molti, Maria, la Madre del Redentore, per tutti quanti furono redenti dal Sangue del Figlio suo. Non v’è « dunque affatto nessuno (fra tutti i membri dell’organismo mistico di Cristo) che abbia contribuito o che abbia potuto mai contribuire alla riconciliazione di Dio con gli uomini quanto vi contribuì Maria ».  –  Ti siano rese grazie, o augusta e amata e povera Signora, per le lacrime, che tu, ai piedi della Croce hai pianto e che si mescolarono col Sangue del Figlio tuo in salvezza per noi! E onore e gloria sia al Figlio tuo, unico nostro Salvatore e Redentore, Gesù Cristo!

« Presso la Croce di Gesù stava sua Madre ».

« Gesù, vedendo sua Madre e vicino ad essa il discepolo, che prediligeva, dice alla madre: “Donna, ecco il tuo figliuolo”. E poi dice al discepolo: “Ecco la Madre tua”. E da quel momento il discepolo se la prese con sé in casa sua ». Questa parola del Signore morente alla Madre sua derelitta è così commovente che vorremmo piangere su di essa. Molto tempo è passato dall’ultima parola che Gesù rivolse pubblicamente alla Madre sua; la disse a Cana, e quella parola fu apparentemente dura; anche adesso, sulla croce ancora, Egli dapprima si ricordò dei suoi nemici e poi del ladrone; la Madre, che accanto alla sua croce piangeva, La lasciò in disparte. Ha così poca importanza per Lui la Madre sua, è così un niente, che persino in quest’ultimo momento Egli parli ancora per gli altri, con gli altri, ma alla propria Madre non dica nemmeno una paroletta? oppure quegli altri hanno bisogno delle sue amorose parole più urgentemente dell’abbandonata Madre piena di grazia? Finalmente, a metà, nel cuore delle sette ultime parole di Gesù in croce, rifulse la parola anche per la Madre sua, ancor prima del grido al Padre. Si sente chiaramente che questa parola si sprigionò da un fortissimo ingorgo d’amore del Figlio per la Madre; essa dà sfogo all’amore di Gesù per la Madre rimasto legato durante la vita pubblica, ne svela la profondità e la delicatezza. Quest’unica ed ultima parola del Signore a sua Madre presso la croce lascia intravvedere quanto in realtà Maria stesse vicina al cuore del Figlio suo; Egli non può morire se non sa che sua Madre versa in migliori condizioni di protezione; Egli stesso in quel momento stava quasi per affogare in un mare di tormenti e la grigia notte dell’abbandono di Dio già Gli si avvicinava: per questo, prima d’entrare nella sua suprema tortura e morte; vuole mettere al sicuro sua Madre quasi da una bufera imminente. In quell’ora ogni parola era per il Signore una pena. Ah, i morenti, anche con lo sforzo dell’ultimo amore, possono appena dire « sì, sì » e « oh, oh »… Il Signore in quel momento raccolse le sue forze, strinse più fortemente le teste dei chiodi e dalle labbra del Figlio, come una stella d’oro nell’oscurità della notte, si librò sulla Madre l’ultima sua parola: « Donna, ecco tuo figlio! », e al discepolo: « Ecco tua Madre! ». « Donna », chiama Gesù in croce Maria, non « Madre ». Come già a Cana infatti e ancor più che a Cana, Maria sul Calvario tiene un posto ufficiale quale aiutante della redenzione del mondo. Ella non è soltanto colma di dolore, è anche adorna di sublimità e di solennità, più regale di Ester, più forte di Giuditta, la Donna del mondo, la rappresentante dell’umanità, l’assistente accanto alla Vittima sanguinante sulla croce. Questa parola è piena di rispetto e di onore, forse anche piena d’un intimo singhiozzar d’amore, come se Gesù in quell’ora non osasse più rivolgersi a Maria con il tenero nome di Madre per non provocare lo straripamento degli umani sentimenti di cui era colmo il loro cuore. La parola del Figlio morente mette la Madre sotto la protezione di Giovanni e Giovanni sotto la benedizione di Maria. Il Signore s’era preoccupato già il giorno precedente di tutti i suoi discepoli, poiché il dolore più acuto d’un nobile morente è l’abbandono e la mancanza di sicurezza di coloro che egli ama. Tutti i discepoli la sera del Giovedì Santo erano stati da Lui affidati allo Spirito Santo: « Non vi lascerò orfani: Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro confortatore ». Anche Giovanni stava in questa sicurezza dello Spirito Santo e ancor più Maria, a cominciare dall’Incarnazione, anzi già dal primo momento della sua esistenza; ma Maria era anche donna, la quale abbisognava d’una assistenza visibile; e Giovanni era il discepolo dell’amore; il Signore voleva dargli un pegno anche terreno dell’amore dello Spirito Santo in quella Donna, che di Spirito Santo era stata adombrata. Quest’ultimo legato del Signore fece di Giovanni il figlio di Maria, e di Maria la madre di Giovanni; l’uno ora era dato all’altra in dono e a carico. Maria ricevette dal Figlio morente un altro figlio, l’amico di Lui, Giovanni, la persona più cara che Gesù possedesse sulla terra accanto alla Madre sua, quel discepolo dell’amore, che la sera precedente aveva potuto ascoltare, riposando sul cuore di Gesù, il fluttuare del suo amore. Per Maria Giovanni era l’aureo scrigno, entro il quale l’amore di Gesù s’era nascosto prima della morte come in un Sacramento. Giovanni era per Lei il monumento vivente dell’amore di Gesù verso la Madre. Ancor più di Maria in Giovanni aveva ricevuto da Gesù Giovanni in Maria. Fu un onore senza uguali. Un giorno insieme con suo fratello Giacomo Maggiore egli aveva preteso un primo posto nel regno messianico; adesso gli tocca di più. Ieri ebbe per un’ora il suo posto sul cuore del Signore; da oggi in poi il suo posto è a fianco della Madre del Signore per tutta la vita. Il Signore anche nell’estrema povertà della croce poté arricchire di doni i due esseri a Lui più cari, Maria con Giovanni e Giovanni con Maria. Le sue due più care creature! Accanto alla croce v’eran certo anche altri, la sorella di sua Madre, la moglie di Cleofa, e Maria Maddalena; anch’esse avevan dato prova al Signore di tanta bontà, e il Signore era legato in amore anche a loro; esse ricevettero una preziosa benedizione per la fedeltà sino alla sua morte; ma solo a Maria e a Giovanni fece dono della preziosità d’un’ultima parola tutta propria per loro e della preziosità d’una cara persona. Quella parola fu certamente per i due anche un obbligo. Maria doveva adesso essere la madre di Giovanni. Giovanni aveva già una madre, quella nobile Salome, che secondo l’informazione di Matteo era presente anche sul Calvario e « osservava da lontano »; « da lontano », perché lei e le altre « molte donne di Galilea » non furono ammesse dai soldati presso la Croce; essi, ascoltando un sentimento d’umanità, avevan permesso l’accesso soltanto alla Madre e a un esiguo accompagnamento. La parola del Signore a Giovanni: « Ecco tua madre! » non voleva privare Salome dei suoi diritti materni: Maria deve essere per Giovanni madre spirituale. Ella adesso deve donare a Giovanni il suo amore materno privo di Gesù; Ella deve proteggere in questo discepolo dell’amore l’eredità, che Gesù in lui ha deposto; Ella lo deve formare come aveva formata l’anima umana di Gesù; in una parola Ella dev’esserGli « madre ». Giovanni dev’essere figlio di Maria. Egli deve offrirLe e casa e sostegno e patria; deve essere sollecito del sostentamento della Donna a lui affidata; deve rallegrare alla Solitaria le sere e l’età. Quale esempio non aveva dato a Giovanni, il secondo figlio della Vergine, Gesù stesso nella sollecitudine per la Madre! Sino al trentesimo anno di vita, per un tempo così lungo Egli aveva provveduto alla Mamma con la propria augusta mano; probabilmente, per il periodo della sua attività pubblica, aveva pregato d’interessarsi di Maria quanti Gli erano stretti per amicizia. Ed ora, morente, affida la Madre all’amico suo, indicandogli così insieme il motivo e la misura della sollecitudine per la Madre. Per mezzo di Gesù tutti e due, Giovanni e Maria, sono adesso legati l’uno all’Altra come figlio e madre, e per mezzo di Maria anche Gesù e Giovanni si son fatti ancor più vicini, come fratello rispetto a fratello. Giovanni nel Vangelo può tributarsi questa lode modesta: « Da quel momento il discepolo se La prese con sé ». L’espressione greca « eis tà idia — in proprietà » nell’uso corrente del discorso significa « in casa sua ». Può essere frattanto che Giovanni abbia usato questa espressione, che può avere vari sensi, di proposito; la parola si presta a una spiegazione ancor più profonda: «eis tà idia — in proprietà » significa nel suo senso pieno più che « casa » solamente; con essa può essere indicato tutto l’insieme della vita esterna ed intima d’un uomo; Giovanni non accolse Maria soltanto in casa, ma anche nel suo cuore, nel suo sentimento e sollecitudine, nel suo dolore e amore. – Con quale maternità dal canto suo Maria abbia accolto Giovanni « nella sua proprietà », più che non dalle pie descrizioni, risulta con evidenza dagli scritti di Giovanni. Gli scritti di Giovanni, e anzitutto il suo Vangelo, sono percorsi da un mirabile afflato mariano; esso si diffonde dalla possente affermazione del prologo del Vangelo giovanneo: « Il Verbo si fece carne » attraverso Cana sino al Calvario. Da Giovanni e solamente da lui noi veniamo a sapere che il Signore era stretto alla Madre sua anche durante il tempo della sua attività pubblica — Cana! — e nella passione — Calvario! —. Nei lunghi anni di convivenza Maria dischiuse al discepolo dell’amore visioni e connessioni sempre più profonde nel mistero di Gesù. Non solamente Giovanni accolse Maria, anche Maria accolse Giovanni nella « sua proprietà ». La parola di congedo, che il Signore morente rivolse a sua Madre e al suo amico, ha una profondità che la cristianità ha scoperta e scopre soltanto un po’ alla volta lungo il corso dei secoli; poiché anche oggi il mistero di questa parola non è ancora dischiuso in ogni sua parte, il mistero cioè della maternità di Maria rispetto all’intera cristianità. Il sentimento cristiano cominciò a sospettare e capì sempre più chiaramente che Gesù sulla croce aveva costituita Maria Madre non solamente di Giovanni bensì di tutti noi, e che non solamente Giovanni, ma noi tutti siamo figli e figlie di Maria. Giovanni non è che un nostro rappresentante; Maria è la Madre dell’intera umanità raccolta in Cristo; « Giovanni » è quindi… « ognuno di noi ». La parola evangelica, considerata in sé sola, non permette certamente una conclusione così spinta; ivi non si fa parola che di Giovanni, a lui, a lui solo viene trasmesso presso la croce l’onore e il dovere della cura di Maria; e a lui, a lui solo, non a un altro discepolo Maria viene indirizzata come a un figlio, cui da parte sua dev’esser, può essere madre. I Padri della Chiesa, quindi, intesero questo testo sempre e ovunque del rapporto di madre e figlio solamente, che sussistette fra Maria e Giovanni, mentre non hanno una parola per la maternità spirituale della Vergine rispetto a noi tutti. Soltanto presso Origene (f 254) si trova un testo, che estende quella parola del Signore anche ai credenti in Cristo, a quanti Cristo amano. Nondimeno passarono ancora secoli prima che in Occidente, per la prima volta l’abbate Ruperto di Deutz, all’inizio del secolo x, e poi con tutta chiarezza e direttamente Dionisio Cartusiano nel secolo xv mettessero quella parola del Signore in relazione con una maternità spirituale universale di Maria. Ma questa maternità spirituale della Vergine è una realtà; è dottrina sicura, cattolica; essa però non si erige su questa parola, bensì sui fatti che si svolsero sul suo medesimo suolo insanguinato, nelle sue immediate vicinanze, sul Calvario. – Due fatti han creata la maternità spirituale di Maria. L’uno fu il suo assenso all’Incarnazione. Sin d’allora, a quel primo Sì, Ella è divenuta anche Madre spirituale di noi tutti: « Mentre Maria portava in grembo suo il Redentore, portava anche tutti coloro la vita dei quali era rinchiusa nella vita del Redentore. Noi, che siamo incorporati a Cristo, siamo nati dal seno di Maria come Corpo Mistico legato col capo ». Nell’incarnazione Gesù è divenuto nostro fratello, Maria, la Madre di Gesù, è divenuta così anche la Madre di tutti i suoi fratelli. Presso la Croce Maria portò al suo compimento amaro e sanguinoso quel Sì del principio. Ella accanto alla croce patì col Figlio suo, e quanto dolore trova posto nel cuore d’una madre, specialmente nel cuore della Madre di Dio! Ella cooffrì con il Figlio suo, fu internamente d’accordo per la morte di Gesù a nostra salvezza, e quella morte ha dato a noi la vita. Poiché Ella ebbe parte nella morte, ebbe parte anche nella vita; Ella col suo dolore materno ha reso a noi possibile questa nuova vita, che si eleva al di sopra della natura. Quale aiutante di Cristo nell’opera della salvezza, Ella divenne la madre della cristianità. Per questo Pio XII, nella sua Enciclica sul « Corpo Mistico di Cristo », richiama con insistenza a questo vincolo di causalità fra la compassione e la cooblazione di Maria presso la Croce e la sua spirituale maternità: « Ella, che sul Golgota col sacrificio totale dei suoi diritti materni e del suo materno amore, ha offerto all’Eterno Padre il Figlio suo, a motivo di questo nuovo titolo di dolore, già Madre del nostro Capo quanto al Corpo, divenne anche la Madre di tutti i suoi membri quanto allo spirito ». La maternità spirituale di Maria quindi è più che una figura solamente, più che una bella espressione poetica soltanto, essa è una realtà misteriosa che si erige sui due misteri fondamentali della nostra fede, l’Incarnazione e il Sacrificio della croce. – Quest’invisibile realtà diventa visibile, come in un simbolo, in Maria e Giovanni presso la Croce; quivi Maria fu costituita Madre di Giovanni e Giovanni figlio di Maria. Proprio in quell’ora, nella quale essi si unirono dinanzi alla croce del Signore per contrarre un legame dolorosamente bello, proprio nell’ora della redenzione Maria divenne anche la Madre dei redenti, e i redenti divennero tutti figli di Maria. A motivo nostro Ella perdette Gesù, il Figlio suo, a motivo di Gesù noi fummo generati figli suoi. Quanto si svolse dinanzi alla Croce, quasi sul proscenio, ci sospinge a guardare in fondo, al di là di Giovanni: in Giovanni siamo presi in considerazione noi tutti, in Maria è data a tutti noi una Madre. – O Donna, ecco qui dunque il figlio tuo! È vero, noi siamo meno, molto meno degni di Te che non il gentile e nobile Giovanni, il quale Ti fu affidato in figlio dal Figlio sulla croce. Colpito da quello scambio con Giovanni, già S. Bernardo esclama: « Quale scambio! Giovanni Ti vien dato al posto di Gesù, il servo invece del Signore, il discepolo invece del Maestro. il figlio di Zebedeo invece del Figlio di Dio, un puro uomo invece del vero Dio ». E ora Tu devi accogliere addirittura noi invece del Figlio! Le nostre meschinità devono farTi nausea, o regale Signora! Di fronte al tuo nobil animo noi siamo d’una condizione tanto inferiore. o Santissima, o Purissima! Noi siamo piccini, poco buoni, impuri, cenciosi, talvolta anche diavoli camuffati, ripieni di reale malizia. E costoro devon essere i tuoi figli! A costoro Tu devi essere madre! Tu, che sei passata sulla terra come un giglio e in Cielo troneggi sopra gli Angeli. Tu però stesti anche sul Calvario, accanto alla croce del Figlio, sulla quale Egli morì per noi peccatori. Tu udisti com’Egli fece grazia al ladrone, e pregò persino per la malignità ostinata. Il Figlio tuo Ti impegna per noi peccatori. Ma perché scongiuriamo noi con parole retoriche il tuo cuore e spesso in tal modo che si potrebbe pensare che valga a persuaderTi, a costringerTi ad esser buona? Non sei Tu il vertice più tenero dell’eterno amore di Dio verso di noi? Egli ha scelto il tuo cuore materno a simbolo della sua propria bontà sconfinata e della sua immensa misericordia. Iddio cioè non è solamente Padre; in Te e per Te, o Maria, Egli vuol manifestare anche la sua infinita maternità. Se anche una madre qualunque consacra le cure più premurose al più povero dei suoi figli, quanto amore non vi sarà per il peccatore nel tuo cuore, ch’è il riflesso più soave dell’amore di Dio! Madre! Madre della misericordia! « Peccatores non abhorres, sine quibus numquam fores mater tanti Filii — Tu non aborri i peccatori, senza dei quali mai saresti Madre d’un tanto Figlio ». E così, o Signora, guarda a noi tuoi figli! Accogli anche noi « eis tà idia — in tua proprietà ». E questa proprietà tutta a Te propria è Gesù: riempici dei sentimenti di Gesù, che da Te si irradiano luminosissimi! E dopo questa miseria mostraci Gesù, il Frutto benedetto del tuo ventre. Poi, « o Vergine, Madre di Dio, mentre stai dinanzi al Signore, ricordaTi di dire una buona parola per noi, perché Egli storni da noi il suo sdegno ». Figlio, ecco pure tua Madre! È una grandissima gioia per un uomo possedere una madre, alla quale egli possa guardare, alla quale possa elevarsi. La sua figura resta viva anche al di là della morte; essa l’accompagna come un angelo. Lungo tutta la vita sino al giorno del lieto arrivederci sui portali dell’eternità. Le nostre ottime madri si son formate in Maria, ed esse, quasi preoccupate per il tempo nel quale non avrebbero più potuto precederci col loro esempio, richiamarono la nostra attenzione a Maria, la Madre eterna. Nessuna madre può come Maria elevare i nostri pensieri e i nostri desideri; Ella è il segno grande nel cielo, ammantata di sole e irradiata di dodici stelle; Ella tiene sveglia la nostra eterna nostalgia. E Maria è il grande segno anche sulla terra, aspersa del sangue del Figlio suo ed elevantesi presso la Croce sul Calvario. Figlio, dalla notte della tua tribolazione, guarda alla Madre tua sul Calvario! Neppure accanto alla croce del Figlio suo Ella si querelò, dubitò, vacillò; Ella stette, forte e ferma. E così « io attacco ogni tedio e il dolore di tutte le notti e ogni nostalgia dell’ultima meta al tuo abito d’argento, o Madre » (Hauser). Maria non ritornò dal Calvario col cuore spezzato; insieme con la tristezza era in Lei una grande ed intima gioia: il mondo adesso era redento; tanto aveva fatto il Figlio suo. E dopo tre giorni Egli risorgerà. Ella sapeva della prossima risurrezione come era stata al corrente della prossima passione. Se ne andò dal sepolcro del Figlio, mentre calava la notte, con la fiaccola della speranza. Questa eterna speranza è l’atteggiamento cristiano più profondo; essa oltrepassa e sopravvanza le tre disposizioni che sono alla radice della esistenza umana puramente naturale, la tristezza, l’angoscia e la nausea. Noi come Maria, al di sopra di tutte le notti, guardiamo a Cristo; Egli non è solamente morto, Egli è anche risorto dai morti, è asceso al Cielo e un giorno Egli ritornerà per giudicare i vivi e i morti. Vi son Calvari, tanti e tetri; ma io credo anche nella risurrezione dei morti e nella vita eterna.

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Jer XVIII:20
Recordáre, Virgo, Mater Dei, dum stéteris in conspéctu Dómini, ut loquáris pro nobis bona, et ut avértat indignatiónem suam a nobis.

[Ricordati, o Vergine Madre di Dio, quando sarai al cospetto del Signore, di intercedere per noi presso Dio, perché distolga da noi la giusta sua collera].

Secreta

Offérimus tibi preces et hóstias, Dómine Jesu Christe, humiliter supplicántes: ut, qui Transfixiónem dulcíssimi spíritus beátæ Maríæ, Matris tuæ, précibus recensémus; suo suorúmque sub Cruce Sanctórum consórtium multiplicáto piíssimo intervéntu, méritis mortis tuæ, méritum cum beátis habeámus:
[Ti offriamo le preghiere e il sacrificio, o Signore Gesù Cristo. supplicandoti umilmente: a noi che celebriamo. in preghiera i dolori che hanno trafitto lo spirito dolcissimo della santissima tua Madre Maria, per i meriti della tua morte e per l’amorosa e continua intercessione di lei e dei santi che le erano accanto ai piedi della croce, concedi a noi di partecipare al premio dei beati:]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.


de Beata Maria Virgine
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Transfixióne beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Transfissione della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:
Pater noster
Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.

V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Felíces sensus beátæ Maríæ Vírginis, qui sine morte meruérunt martýrii palmam sub Cruce Dómini.

[O Signore Gesù Cristo, il sacrificio al quale abbiamo partecipato celebrando devotamente i dolori che hanno trafitto la vergine tua Madre, ci ottenga dalla tua clemenza il frutto di ogni bene per la salvezza:]

Postcommunio

Orémus.
Sacrifícia, quæ súmpsimus, Dómine Jesu Christe, Transfixiónem Matris tuæ et Vírginis devóte celebrántes: nobis ímpetrent apud cleméntiam tuam omnis boni salutáris efféctum:
[O Signore Gesù Cristo, il sacrificio al quale abbiamo partecipato celebrando devotamente i dolori che hanno trafitto la vergine tua Madre, ci ottenga dalla tua clemenza il frutto di ogni bene per la salvezza:]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (IX)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (IX)

CATECHISMO POPOLARE O CATTOLICO SCRITTO SECONDO LE REGOLE DELLA PEDAGOGIA PER LE ESIGENZE DELL’ETÀ MODERNA

DI

FRANCESCO SPIRAGO

Professore presso il Seminario Imperiale e Reale di Praga.

Trad. fatta sulla quinta edizione tedesca da Don. Pio FRANCH Sacerdote trentino.

Trento, Tip. Del Comitato diocesano.

N. H. Trento, 24 ott. 1909, B. Bazzoli, cens. Eccl.

Imprimatur Trento 22 ott. 1909, Fr. Oberauzer Vic. G.le.

PRIMA PARTE DEL CATECHISMO:

FEDE (5).

9. GLI UOMINI-

La creazione dell’uomo.

La creazione dell’uomo è raccontata da Mosè all’inizio del suo 1° libro (Genesi). – La Bibbia non dice quando Dio creò l’uomo. Si è accettato che sia avvenuta circa 4000 anni prima di Gesù Cristo (rappresentate dalle quattro settimane di Avvento).

1. DIO FORMÒ IL CORPO DELL’UOMO DALL’ARGILLA E GLI ISPIRÒ UN’ANIMA (Genesi II, 7).

Come il vapore muove la macchina, così il soffio comunicato da Dio all’uomo vivifica il suo corpo. L’esistenza dell’anima è dimostrata dai movimenti del corpo. (S. Theof. d’Ant.) La scrittura telegrafica presuppone una persona pensante. Allo stesso modo le parole pronunciate dagli organi vocali, messe in moto dal sistema nervoso, presuppongono un essere pensante. A chi diceva di non credere all’anima, perché non riusciva a vederla, un altro rispose: “Allora tu non hai ragione, perché non puoi vederla”. Diciamo anima, quando parliamo della sua unione con il corpo, e di spirito, quando si tratta delle facoltà intellettuali della ragione e volontà. – In noi c’è una sola anima, allo stesso tempo iniziatrice della vita corporea e dotata di ragione e libertà (IV Conc. di Costantinopoli, 862). Dal fatto che l’uomo abbia diverse inclinazioni, che sia, per esempio, attratto da un lato dai piaceri sensuali e che dall’altro sia portato a combattere questa attrazione, alcuni hanno concluso che l’uomo abbia due anime, un’anima materiale e un’anima spirituale. Ma queste inclinazioni derivano semplicemente dalla diversa attrazione esercitata sull’anima dai vari beni, da quelli sensibili e da quelli spirituali. – Ecco il rapporto tra l’anima e il corpo. Il corpo è il luogo in cui risiede l’anima come una mandorla nel suo nocciolo, come un gioiello nella sua custodia, un uomo nella sua veste, un eremita nella sua cella. Il corpo è lo strumento dell’anima, il corpo è per l’anima ciò che la sega, la pialla e il martello sono per l’artigiano, il pennello per il pittore, l’organo per l’artista. L’anima è la guida del corpo, svolge per esso il ruolo di cocchiere, di pilota. (S. G. Cris..) Come il cavaliere guida il suo cavallo con le redini, così l’anima deve guidare e domare il corpo. (S. Vinc. Ferr.) Ahimè, l’anima spesso si lascia guidare e domare dalle passioni malvagie del corpo, degrada l’uomo al livello della bestia e si rende eternamente infelice. Che confusione”, dice San Bernardo, “quando la padrona serve e il servo comanda! L’anima anima il corpo, cioè gli dà vita. L’uomo non era vivo finché Dio non gli ha dato un’anima (Gen II,7); non appena l’anima lascia il corpo, esso cessa di vivere e torna alla terra (Eccles. XII, 7): il corpo senza anima è un cadavere (S. Giac. II, 26). – L’anima umana è essenzialmente diversa dall’anima degli animali; quest’ultima ha facoltà e bisogni completamente diversi. L’anima delle bestie è incapace di cercare il progresso: la rondine costruisce il suo nido oggi come lo faceva secoli fa; è incapace di ricercare le cause, e quindi non può elevarsi alla conoscenza del Creatore. Guidato dal solo istinto, l’animale è inconsapevole delle sue azioni, non ha bisogni intellettuali o morali e nessun desiderio di felicità suprema; è perfettamente soddisfatto dei suoi piaceri corporei. L’anima animale non può quindi essere della stessa natura dell’anima umana: potremmo quindi dire che l’animale abbia un’anima, ma non che abbia una mente.

Sono in balia all’errore coloro che immaginano che il corpo umano sia stato prodotto dall’evoluzione di esseri inferiori.

Molti sostengono che l’uomo, o almeno il suo corpo, si sia evoluto da esseri inferiiri attraverso l’evoluzione. Credono che questo spieghi le parole della Bibbia, (Genesi II, 7). Questa dottrina non è accettata dalla Chiesa. Il principale sostenitore di questa ipotesi è stato Darwin, un naturalista inglese, che ritiene che l’uomo sia disceso dalla scimmia attraverso uno sviluppo successivo. Questo è impossibile come la discendenza di un pisello da un castagno, perché l’uomo e la scimmia differiscono fondamentalmente sia nella struttura corporea che nella forma del cranio. (Huxley dice: “Ciascuna delle ossa del gorilla presenta caratteri facilmente distinguibili dalle corrispondenti ossa dell’uomo”. La differenza tra un cranio di gorilla e un cranio umano è immensa. Inoltre, il cervello di un uomo è molto diverso da quello della scimmia più perfetta). L’uomo ha anche il vantaggio rispetto alla scimmia della parola, il vantaggio di esprimere i sentimenti nella fisiognomica. La scimmia è incapace di sorridere; non ha l’andatura eretta. L’uomo, a causa della sua crescita, ha bisogno di molti anni ed ha un’infanzia abbastanza lunga; lo stesso non vale per la scimmia, che si sviluppa rapidamente. L’uomo può vivere fino a cento anni, mentre la scimmia può vivere al massimo fino a trent’anni. Gli uomini più degenerati sono capaci di cultura, ma non la scimmia. I paleontologi non hanno mai trovato uno scheletro che indicasse questo passaggio dalla scimmia all’uomo; in migliaia di anni, lo scheletro dell’uomo non ha subito alcun cambiamento. I più antichi monumenti dell’arte e della scienza dimostrano che l’uomo non è nato come una scimmia, ma come un essere umano; al contrario, le tradizioni e la linguistica rimandano ad una civiltà e a tempi migliori, e portano alla conclusione di una cultura da cui degradano sempre più nel peccato. Inoltre, le scimmie assomigliano all’uomo, ma gli assomigliano solo in un punto, nella forma apparente delle mani, piedi e cranio, per il resto ne differiscono radicalmente. Le scimmie, con la loro stupidità e bestialità, sembrano essere state create da Dio per mostrare all’uomo come sarebbe stato senza la sua anima immortale e quanto debba essere grato al suo Creatore, “Faccio fatica a credere – ha detto Seb. Brunner, (scrittore austriaco) – che l’uomo discenda dalla scimmia”. Il peccato contro la castità produce spesso nella fisionomia dei bambini e degli adolescenti tratti scimmieschi. (Alb. Stoltz).

2. I PRIMI UOMINI CREATI DA DIO FURONO ADAMO ED EVA.

Eva fu formata dalla costola di Adamo addormentato (Genesi II, 21). Secondo i Padri il sonno fu un’estasi, perché quando Adamo si svegliò sapeva esattamente cosa fosse successo.

3. TUTTI GLI UOMINI DISCENDONO DA ADAMO ED EVA.

S. Paolo disse all’Areopago di Atene: “Dio ha fatto discendere l’intera razza umana da un solo uomo e lo ha fatto abitare su tutta la terra” (Act. Ap. XVII, 26).

Tutti gli uomini formano dunque una sola famiglia e sono figli di uno stesso Padre. (S. G. Cris.).

Le razze umane non hanno differenze essenziali. (Ce ne sono cinque; ma non sono più chiaramente definite dei colori dell’arcobaleno). Il colore della pelle e la forma del cranio derivano dal clima e dallo stile di vita. Infatti, queste caratteristiche si perdono gradualmente nei discendenti emigrati. Gli stessi fenomeni si osservano nel regno animale: i bovini perdono le corna nel nord e subiscono profondi cambiamenti nella formazione del loro cranio; le pecore trasportate in Guinea assumono la forma di un cane, in Angora gli animali si ricoprono di peli lunghi e setosi, e così via. Le proprietà più essenziali del corpo, lo scheletro, la durata della vita, la temperatura corporea normale, la frequenza del polso ed i fenomeni morbosi sono comuni a tutte le razze; tutte hanno le stesse strutture spirituali: intelligenza, memoria, volontà, ecc. Le lingue e le antiche tradizioni di tutti i popoli, sulla caduta originaria, sul diluvio, ecc. indicano un’origine comune. Inoltre, l’incrocio tra famiglie di razze diverse è indefinitamente fertile. (Lo stesso non vale per gli incroci tra specie animali diverse).

Gli uomini discendono da Adamo solo corporalmente, perché l’anima è creata da Dio.

L’anima di ogni uomo è creata da Dio. Non è l’uomo, ma Dio che comunica l’anima. (V. Conc. Later.), è Lui, dice Zaccaria (XII, 1) che ha creato lo spirito nell’uomo, ed è in questo senso che Cristo ha detto “Io e il Padre mio”, sempre continuiamo ad agire (S. Giovanni V, 17). Come nel Battesimo e nella Penitenza, lo Spirito Santo scende nell’uomo per dargli la vita spirituale, così è con Dio quando si forma il corpo. Dio, al momento della formazione del corpo, gli comunica un’anima per vivificarlo. Egli infonde un’anima in ogni uomo come ha fatto con Adamo; la crea nel momento in cui la infonde. Questa infusione è creazione. (S. Bonav.) È pertanto un errore credere (con Platone e Origene) che Dio abbia creato tutte le anime all’inizio, allo stesso tempo degli Angeli. Tertulliano cadde in un altro errore, sostenendo che le anime discendono dalle anime dei loro genitori, come una fiaccola si accende su un’altra fiaccola. Altri arrivano a sostenere che tutti gli uomini hanno una sola anima. Ne conseguirebbe che tutti gli uomini avrebbero un’unica coscienza, il che è contraddetto dai fatti.

10. L’ANIMA UMANA.

1. L’ANIMA UMANA È UN’IMMAGINE DI DIO PERCHÉ È UNO SPIRITO SIMILE A DIO.

Prima della creazione dell’uomo, Dio aveva detto: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza, e abbia il dominio sulle bestie e su tutta la terra.” (Gen. I, 26). – L’uomo è dunque creato ad immagine e somiglianza di Dio e deve quindi avere alcune analogie con Dio. Queste analogie si trovano nell’anima; come Dio, ha un’intelligenza libera ed una volontà libera, che lo rendono capace di conoscere ed amare il bene, ed è attraverso di esse che domina il mondo visibile, che è il re della creazione visibile, così come Dio è il re dell’universo. Non è dunque senza ragione che Dio abbia unito nella stessa espressione, sia la somiglianza dell’uomo con Dio sia la sua regalità terrena. L’uomo diventa un’immagine ancora più perfetta di Dio quando egli possiede la grazia santificante, perché in tal caso viene elevato alla partecipazione con la natura divina (II S. Pietro, II, 4) ed a una più esatta somiglianza con essa. Quando un uomo è santo, domina veramente la terra e le sue creature. Quando è peccatore, è il loro schiavo. Infine, nello stato di grazia, l’uomo è in grado non solo di conoscere ciò che è vero, bello e buono, ma anche di vedere Dio stesso nella sua gloria, di amarlo, e di goderne. – Così come l’orbe terrestre è un’immagine bella ma debole della terra, l’anima è un’immagine bella ma molto debole di Dio. È persino un’immagine della Santissima Trinità, perché ha tre facoltà, memoria, intelletto e volontà, pur essendo un’unica sostanza. Nella memoria assomiglia al Padre, nella ragione al Figlio e nella volontà allo Spirito Santo. (San Bernardo). Le parole pronunciate da Dio al momento della creazione dell’uomo avevano quindi un significato profondo, perché la forma plurale che ha usato indicava che voleva formare l’uomo ad immagine e somiglianza della Santa Trinità. Il valore di un’anima agli occhi di Dio è quindi immenso, come possiamo vedere dalla redenzione; un’anima vale più di tutto il mondo siderale (S. G. Cris.). – Il corpo non è un’immagine di Dio che non ha corpo, essendo un puro spirito; l’uomo è quindi ad immagine di Dio solo nella sua anima. Senza dubbio, questa somiglianza divina dell’anima si manifesta anche nel corpo, che è lo strumento dell’anima, ha un’andatura eretta, segno evidente della sua regalità sulla natura; così come le sue mani, abili in ogni tipo di lavoro, nel maneggiare ogni tipo di strumento e di arma, gli conferiscono il dominio su tutta la natura animata e inanimata. – Da qui il grido di ammirazione di Davide: “Signore, nostro Dio, che cos’è l’uomo perché te ne ricordi, tu l’hai posto solo un po’ al di sotto degli Angeli, tu l’hai coronato di onore e di gloria” (Sal. VIII, 2-7).

2. L’ANIMA È IMMMORTALE, CIOÈ NON PUÒ CESSARE DI ESISTERE.

Il corpo muore in breve tempo, l’anima sussisterà in eterno. L’anima non può cessare di esistere, ma può perdere la grazia santificante ed essere spiritualmente morta, cosa che avviene attraverso il peccato mortale. “L’anima muore e non muore. perché è sempre cosciente di se stessa; muore quando abbandona Dio. (S. Aug.) Un ramo tagliato dal tronco è ancora un essere, ma cessa di essere un ramo vivo; così è per l’anima che ha commesso un peccato mortale. È separata da Dio, e quindi morta, ma continua a esistere. Il corpo, allo stesso modo, non ricade nel nulla assoluto dopo la morte; ma cessa di vivere non appena l’anima si separa da esso. L’anima può quindi cessare di vivere senza cessare di esistere quando abbandona Dio attraverso il peccato mortale. “I peccatori sono morti anche quando vivono, i giusti vivono anche dopo la loro morte”. (S. G., Cris.). Contraddizione apparente, facilmente risolvibile da quanto appena detto.

Noi sappiamo dalle parole di Gesù Cristo che l’anima sia immortale.

Non temete, dice, coloro che possono uccidere il corpo, ma non l’anima. Inoltre disse al ladrone penitente: “Oggi sarai con me in paradiso”. (S. Luc. XXIII, 43). Cristo ha insegnato questo dogma anche nella parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro (S. Luca XVI, 19), e dice anche (S. Matth. XXII, 32) che il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe non è il Dio dei morti, ma dei vivi.

Inoltre, le apparizioni dei morti sono innumerevoli.

Alla trasfigurazione di Cristo sul Monte Tabor, apparve Mosè, morto da tempo. (S. Matth. XVII, 3). Molti morti apparvero a Gerusalemme alla morte di Cristo. (ibid. XXII 1,53). Il profeta Geremia e il sommo sacerdote Arias apparvero a Giuda Maccabeo prima della battaglia (II. Mach. XV). La Vergine Maria è apparsa spesso nel corso dei secoli, tra l’altro a Lourdes nel 1858. “Non c’è stato, dopo Gesù Chr. un solo secolo senza numerose apparizioni di anime sante, per consolare i morti, o di anime del purgatorio, per chiedere preghiere” (Scaram). L’apostolo di Vienna, B. Cl. Hofbauer, apparve al suo amico Zacharie Werner della stessa città, splendente, portando una palma, un giglio ed un ramoscello d’ulivo, e annunciò all’amico la sua imminente morte (B. Cl. Hofbauer) (1820). La stessa cosa accadde quando morirono molti Santi. La maggior parte dei teologi rifiuta l’apparizione dei dannati come impossibile, perché nessuno torna dal luogo della riprovazione. Essi ammettono che i demoni appaiono sotto forma di dannati. – Queste apparizioni sono fatte attraverso il ministero degli angeli (S. Aug.), che assumono corpi eterei (S. Grég. Gr.) o che provocano una certa percezione ai nostri occhi. (S. Thom. Aq.). Se per mezzo del telescopio possiamo vedere chiaramente oggetti impercettibili ad occhio nudo, l’onnipotenza divina può anche permetterci di percepire gli spiriti (Scar.). Non dobbiamo né credere ingenuamente a tutte le apparizioni che ci vengono raccontate (è necessario un esame molto serio), né dobbiamo ridere di queste apparizioni come di una vana immaginazione. Chi ride è come un animale che crede solo a ciò che vede. (Scar.) L’intelligenza di un uomo carnale non va oltre il suo occhio corporeo. (S. Aug.). Molti uomini non vogliono esaminare seriamente i casi di apparizioni, perché se li vedessero sarebbero costretti a cambiare vita, cosa che non vogliono fare.

La nostra stessa ragione ci dice che la nostra anima è immortale.

L’uomo ha dentro di sé la sete, il desiderio di una felicità duratura e perfetta. Questo desiderio è comune a tutti gli uomini, quindi è stato depositato in noi dal Creatore stesso. Ma questa sete non può essere placata quaggiù da nessun bene, da nessun godimento terreno. Ora, se questo desiderio non potesse essere soddisfatto da nessuna parte, né mai, l’uomo sarebbe più miserabile della bestia che non è tormentata da questo desiderio, e Dio, l’essere perfetto, non sarebbe più buono ma crudele: una supposizione assurda. – Se l’anima non fosse immortale, l’uomo malvagio che ha commesso solo crimini sulla terra resterebbe impunito, e l’uomo giusto che si è reso la vita difficile combattendo le sue passioni, non verrebbe ricompensato. Un Dio sovranamente perfetto sarebbe ingiusto: una supposizione assurda quanto la precedente. Se, dunque, esiste un Dio, l’anima deve essere immortale. – Noi conserviamo la nostra coscienza psicologica e morale, i nostri ricordi giovanili, nonostante la trasformazione della giovinezza, nonostante la trasformazione del nostro corpo, le cui molecole si rinnovano ogni sette anni; queste facoltà rimangono intatte, anche se perdiamo un arto importante, un braccio, una gamba, persino una parte del cervello. C’è quindi una sostanza nel corpo che è indipendente dalla materia che cambia e che cambia, e quindi anche nonostante la morte, rimane indistruttibile. – Nel sogno vediamo, sentiamo e parliamo, anche se gli occhi, le orecchie e la lingua non sono attivi; allo stesso modo, dopo la morte, viviamo e pensiamo anche se i nostri sensi sono completamente inattivi. S. Agostino racconta che Gennadius, un medico di Cartagine, che si rifiutava di credere nell’immortalità dell’anima, fece il seguente sogno. Egli vide un bel giovane vestito di bianco che gli chiese: “Mi vedi? – Io ti vedo, Ti vedo. – Riesci a vedermi con gli occhi? – No, sono addormentati. – Come mi vedi? – Non lo so. – Riesci a sentirmi? – Con le tue orecchie? – No, sono addormentate. – Allora con cosa mi senti? – Non lo so. – Ma infine, parli adesso? – Sì. – Con la bocca? – No. – Con cosa allora, con cosa? – Beh, non lo so. – Allora! Ora dormi, ma parli, vedi, senti; verrà il sonno della morte e sentirai, vedrai, parlerai. “Il medico si svegliò e capì che Dio gli aveva insegnato, attraverso un angelo l’immortalità dell’anima (Mehler I, 494). Nulla, nemmeno il più piccolo atomo di polvere, va perduto in natura. La materia cambia forma, ma la sua massa in natura rimane sempre la stessa. Il corpo dell’uomo non sarà quindi annientato; e lo spirito umano, così elevato al di sopra del mondo visibile, sarebbe peggiore della materia inerte, del nostro povero corpo? Le stelle sopra di noi, la terra sotto di noi, che non pensano, né sentono, né sperano, mantengono intatta la loro forma esteriore; e l’uomo, il coronamento della creazione, viene creato solo per poche e fugaci ore?

Tutti i popoli credono nell’immortalità dell’anima.

Prima di tutto gli Ebrei. – Giacobbe voleva raggiungere suo figlio Giuseppe nel regno dei morti. (Gen. XXXVI 1,35). Tra gli Ebrei era vietato evocare i morti. (Deut. XVIII, 11). I Greci parlavano del Tartaro e dei Campi Elisi. Gli Egizi credevano in una migrazione di tremila anni delle anime. Le usanze di tutti i popoli: onoranze funebri, sacrifici funebri, ci portano a concludere che essi credessero nell’immortalità delle anime. “Il dogma della vita futura è antico quanto l’universo, diffuso come l’umanità” (Gaume). – Coloro che dicono che tutto finisce con la morte sono uomini che vivono nel peccato mortale e hanno paura del futuro. Con queste parole cercano di dissipare le loro paure, come i bambini impauriti fischiano al buio per nascondere e dissipare la paura dei fantasmi. Ma ciò che dicono singoli individui non può prevalere sulla fede universale; un individuo può sbagliarsi, ma non il genere umano. Chi desidera vivere come un animale, ovviamente non può desiderare la vita futura. “Anche il suicida, che è troppo vigliacco per sopportare il peso della vita, non ha alcuna intenzione di precipitarsi, vuole semplicemente trovare la pace che ha invano cercato quaggiù”. (Sant’Agostino).

11. I DONI SOPRANNATURALI.

I primi uomini erano felici quasi quanto gli Angeli buoni; “Signore – disse Davide -lo hai posto solo un po’ al di sotto degli Angeli; lo hai coronato di onore e di gloria” (Sal. VIII, 6). Tutte le mitologie pagane parlano della felicità dei primi uomini; i Romani la chiamavano l’Età dell’Oro ed Esiodo scrisse che la razza umana primitiva viveva come gli dei in perfetta felicità.

1. I PRIMI UOMINI POSSEDEVANO LO SPIRITO SANTO E ATTRAVERSO DI ESSO I PRIVILEGI SPECIALI PER L’ANIMA ED IL CORPO.

Erano “partecipi della natura divina” (II S. Pietro I, 4). Adamo era in stato di giustizia e santità (Conc. Tr. V, 1). Gli uomini non avevano da sé questa giustizia e santità, l’hanno avuta solo da Dio. L’occhio non produce luce, per vedere deve riceverla dall’esterno (Alb. Stolz).

I loro principali privilegi dell’anima erano i seguenti: avevano una ragione illuminata, una volontà priva di debolezza e la grazia santificante; erano quindi graditi a Dio, erano suoi figli ed eredi del cielo.

La ragione dei primi uomini era molto illuminata. (Sap. XVII, 5-6);

Adamo ne diede prova chiamando tutti gli animali con un nome che corrispondeva loro perfettamente. Egli riconobbe anche, dalle luci dello Spirito Santo l’indissolubilità del matrimonio. (Conc. Tr. S. 24). La loro volontà non era indebolita dalla concupiscenza. Rivestito della sola grazia che veniva dal cielo (S. G.. Cris.), non si vergognavano di se stessi; non c’era quindi la sensualità che eccitava i loro corpi contro la loro volontà. (S. Aug.). Per peccare, dunque, dovevano combattere una battaglia altrettanto violenta come la nostra per fare il bene. – Attraverso lo Spirito Santo che abitava in loro, i nostri primi genitori possedevano la grazia santificante, erano quindi simili e graditi a Dio. Avevano anche un grande amore per Dio, inseparabile dalla grazia santificante. – Poiché lo Spirito Santo abitava in loro, erano figli di Dio, perché “tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio sono suoi figli” (Rm VIII, 14). ed “essendo figli, erano anche eredi, cioè eredi di Dio e coeredi di Cristo” (ibid. 17). I figli hanno sempre diritto all’eredità del padre.

I loro principali privilegi nel corpo erano i seguenti: anch’esso era immortale e libero da ogni malattia; essi abitavano il paradiso e avevano sotto il loro dominio tutte le tutte le creature inferiori. Dio ha creato l’uomo immortale (Sap. II, 23). Da questo fatto risulta chiaro che Dio minacciò gli uomini di morte come castigo, dicendo loro dell’albero della conoscenza: “Nel giorno in cui ne mangerete, morirete della morte della vostra vita” (Gen. II, 17). Ma non si trattava solo di morte spirituale; Dio aveva in mente anche la morte corporea. Infatti, quando pronunciò la sentenza, disse: “Polvere sei e in polvere ritornerai. ” (Gen. IJJ, 19). L’uomo primitivo era privo di malattie; la malattia è il precursore della morte e siccome non esisteva la morte, non doveva esistere nemmeno la malattia. Senza dubbio, anche in paradiso, l’uomo doveva lavorare; ma questo lavoro faceva parte della sua felicità. “Il lavoro dava loro gioia ed era esente da ogni fatica; essi lo desideravano volontariamente come una gioia (Leone XIII).

– Il Paradiso era un magnifico giardino di delizie dove c’erano alberi splendidi con i frutti più gradevoli, molti animali belli e un fiume diviso in quattro rami. Accanto all’albero della conoscenza (quest’albero era la l’obbedienza di Adamo) c’era l’albero della vita: il frutto di quest’ultimo lo avrebbe salvato dalla morte. (Questo albero è stato sostituito dal SS. Sacramento). Gli studiosi ritengono che il paradiso fosse situato vicino ai fiumi Tigri ed Eufrate. Secondo le visioni di Caterina Emmerich, il paradiso esisterebbe ancora oggi e non sarebbe su questa terra; gli esseri umani sarebbero stati collocati sulla terra solo dopo la caduta, nel luogo del Giardino degli Ulivi dove il Cristo passò la notte in preghiera e dove soffrì la sua agonia la sera del Giovedì Santo. (Brentano, letterato tedesco che ha raccolto i racconti della Emmerich). L’uomo del paradiso dominava gli animali; essi erano docili davanti a lui: gli apparivano perché li vedesse e desse loro un nome adatto. (Gen. II, 19). La ragione di questa mansuetudine degli animali non è assolutamente da ricercare in una differenza di natura: è difficile, secondo S. Tommaso, ammettere un cambiamento di natura dopo la caduta, come se i carnivori non fossero stati carnivori in precedenza; dobbiamo piuttosto pensare che la fisionomia dell’uomo, una certa grandezza e maestosità esercitasse una grande influenza sugli animali. Dio ha reso l’uomo terribile per tutte le creature viventi” (Sap. XVII, 4). Anche oggi l’uomo ha conservato un po’ di quella maestosità; è capace con la sua presenza di terrorizzare gli animali. Dio disse anche a Noè: “Che tutti gli animali siano colpiti dal terrore e tremino davanti a te” (Gen. IX, 2). Gli animali feroci mostrano quale impero l’uomo possa esercitare sulle bestie più crudeli; ma questo impero è molto imperfetto rispetto a quello che era prima del peccato. Si dice di diversi Santi, tra cui San Francesco d’Assisi, che molti animali erano molto mansueti in loro compagnia; questo sembra essere una conseguenza della loro eminente santità: Dio avrebbe reso l’impero ai suoi servitori fedeli la cui innocenza era vicina a quella del paradiso.

2. QUESTI PRIVILEGI SPECIALI DEI NOSTRI PRIMI GENITORI SI CHIAMANO DONI SOPRANNATURALI PERCHÉ ERANO UN SUPPLEMENTO ALLA NATURA UMANA.

Alcuni esempi ci aiuteranno a comprendere questa dottrina. Un sovrano, per compassione fa impartire ad povero orfano un’educazione adeguata alla sua situazione: si occupa del suo cibo, dei suoi vestiti, della sua abitazione, della sua istruzione, del suo apprendistato di mestiere. (È così che Dio ha dato all’uomo doni assolutamente a lui indispensabili). Ma il sovrano può spingersi ancora oltre nella sua benevolenza: può adottarlo come suo figlio, ospitarlo nel suo palazzo, vestirlo come un principe, riceverlo alla tavola reale, assicurargli la successione al trono, ecc. (Allo stesso modo, Dio ha dato ai primi uomini doni soprannaturali che li hanno elevati ad un ordine superiore). L’acqua è composta da idrogeno e ossigeno. Togliete una di queste sostanze e l’acqua cesserà di essere acqua, perché ognuna di esse costituisce la propria natura. – (Così la natura dell’uomo è costituita dalla ragione, dalla libertà e dall’immortalità, senza le quali l’uomo cesserebbe di essere uomo e cadrebbe al livello degli animali). Ma quando a quest’acqua si aggiunge zucchero o vino, essa subisce un cambiamento, ha più sapore, più colore, più forza, in una parola, è più preziosa. (È così che Dio ha aggiunto molte qualità alla natura di Adamo ed Eva, qualità che l’hanno migliorata ed impreziosita, abbellita, nobilitata ed elevata. Si trattava di doni soprannaturali, che cioè non erano indispensabili alla natura dell’uomo e che potevano quindi scomparire in qualsiasi momento, senza che l’uomo cessasse di essere uomo). Questi doni soprannaturali producevano una più spiccata somiglianza con Dio; senza di essi una certa somiglianza, attraverso l’anima ragionevole ed immortale, sarebbe comunque esistita, ma non in questa misura. Un pittore può, con pochi tratti definire la figura di una persona, ma se usa ancora i colori e ne dipinge gli occhi, le guance, i capelli, ecc. il ritratto sarà più realistico, più bello e più prezioso. Lo Lo stesso vale per i doni naturali ed i doni soprannaturali; quelli costituiscono l’immagine naturale, questi l’immagine soprannaturale di Dio. Quando Dio, prima di creare l’uomo disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, la parola immagine si riferiva ai doni naturali, mentre la parola somiglianza ai doni soprannaturali. (Bellarmino).

12. IL PECCATO ORIGINALE.

Il racconto della caduta originale ci viene dato da Mosè come un vero racconto storico, non come un mito o una favola. Questa è l’opinione di tutti i Dottori della Chiesa.

1. DIO NEL PARADISO DIEDE AI PRIMI UOMINI UN COMANDAMENTO: PROIBÌ LORO DI MANGIARE IL FRUTTO DI UN ALBERO PIANTATO AL CENTRO DEL PARADISO.

L’albero era al centro del paradiso, e l’uomo era al centro tra Dio e satana, tra la vita e la morte. (S. G. Cris.). Questo frutto non era cattivo di per sé, perché come avrebbe potuto Dio, in un paradiso così felice, creare qualcosa di malvagio? Questo frutto era cattivo e dannoso solo nella misura in cui era proibito. (Sant’Agostino).

L’osservanza di questo comandamento doveva far guadagnare ad Adamo ed Eva la beatitudine eterna.

Indubbiamente gli uomini, essendo figli di Dio per la grazia santificante, dovevano ottenere la felicità eterna come dono, come eredità. Ma una felicità meritata è una felicità più grande, e Dio, nella sua bontà, ha voluto anche che gli uomini meritassero il paradiso come ricompensa. – Se i nostri primi genitori non avessero trasgredito questo comandamento, tutti gli uomini sarebbero nati come la Santa Vergine, in stato di santità e, se fossero stati fedeli a Dio, sarebbero entrati in paradiso senza morire (S. Thom. Aq.). I discendenti di Adamo, pur essendo nati in santità, avrebbero potuto peccare e sarebbero morti come Adamo. Ma la colpa di questi singoli peccatori non sarebbe passata alla loro posterità, perché Dio aveva costituito l’unico Adamo come capo della razza umana (S. Thom. Aq).

2. GLI UOMINI SI SONO LASCIATI SEDURRE DAL DEMONIO E TRASGREDIRONO IL COMANDO DI DIO.

Il diavolo invidiava questi uomini che erano così felici in paradiso. “L’invidia del diavolo ha prodotto il peccato nel mondo” (Sap. II, 23); egli è stato omicida fin dal principio. (S. Giovanni VIII, 44). Nei confronti di Eva ricorse alla menzogna, ecco perché Cristo lo chiama padre della menzogna (ibid.). Egli prese una forma visibile, come gli Angeli buoni e cattivi, come Dio stesso, quando si rivelano agli uomini; egli prese la forma di serpente, perché Dio gli ha concesso solo la forma di questo animale che, con il suo veleno e la sua astuzia, è l’immagine esatta dell’astuzia e della malizia mortale del diavolo (S. Aug.; S. Th. Aq.). Il demone era costretto a prendere in prestito una forma visibile e ad attaccare gli uomini con l’esterno, perché interiormente non aveva ancora alcuna azione su di loro, in quanto le loro anime non erano ancora rovinate dalla concupiscenza. Sant’Agostino dice che Dio ha permesso questa tentazione, perché i nostri primi genitori, prima di peccare di disobbedienza si erano già resi colpevoli di negligenza, pensando poco a Lui e distraendosi nella contemplazione delle cose visibili; da qui la rapida comparsa della tentazione. (Eccles. VII, 30). La loro felicità originaria aveva reso imprevidenti i nostri primi genitori. (Mehler racconta la storia molto istintiva di un taglialegna. Un giorno, mentre lavorava davanti al principe con cui lavorava, pronunciò orribili imprecazioni contro Adamo ed Eva, che avevano trasgredito ad un comando così facile e avevano fatto precipitare la loro posterità in una miseria spaventosa. Mia moglie e io – disse – non saremmo stati così insensati”. – Bene rispose il principe, vedremo. D’ora in poi, tu e tua moglie sarete con me in paradiso come Adamo ed Eva. Ma verrà il giorno di Eva”. La coppia ricevette vestiti ed una casa magnifica, furono esonerati dal lavoro, sedettero alla tavola del principe, in breve, non conobbero nulla delle loro lacrime e del loro sudore. Poi arrivò la prova. Un giorno di festa il principe organizzò uno splendido banchetto, fece servire le pietanze più squisite, tra cui un piatto coperto da un piattino. Puoi mangiare tutto”, disse, “ma non devi mangiare il piatto coperto con un piattino fino al mio ritorno. Non dovrete nemmeno toccarlo, altrimenti la vostra felicità sarà finita”. Con ciò si recò nel suo giardino e impiegò molto tempo per tornare. La curiosità dei suoi due ospiti cresceva di minuto in minuto, e alla fine la donna non poté più resistere dal sollevare leggermente il coperchio. La disgrazia era compiuta: un bellissimo uccello che era stato dentro saltò fuori dal piatto e volò fuori dalla finestra. In quel momento apparve il principe che cacciò la coppia dal suo castello, dopo aver dato loro alcuni consigli salutari. Questo è un esempio lampante della debolezza umana.). – La maggioranza dei dottori ritiene che la caduta sia avvenuta a partire dal 6° giorno della creazione, lo stesso giorno e la stessa ora della redenzione, un venerdì alle 3. In effetti, è notevole che, secondo le Sacre Scritture, Dio, quando chiese ai nostri primi genitori un resoconto delle loro azioni, stava passeggiando nel giardino nel fresco del pomeriggio. (Gen. III, 8).

3. LA TRASGRESSIONE DEL COMANDAMENTO DIVINO EBBE TERRIBILI CONSEGUENZE: GLI UOMINI PERSERO LO SPIRITO SANTO E CON ESSO I DONI SOPRANNATURALI, INOLTRE SUBIRONO DEI DANNI NEI LORO CORPI E NELLE LORO ANIME.

Questo peccato è stato punito così severamente perché il comandamento era facile da adempiere (S. Aug.) e perché gli uomini hanno perso lo Spirito Santo e i doni soprannaturali ed avevano un’intelligenza molto illuminata. Questo peccato era mortale; lo sappiamo dalla morte che dovette subire un Dio per ripararlo, perché dalla forza del rimedio possiamo dedurre la gravità del male; dal rimedio possiamo dedurre la profondità e la pericolosità del danno. (S. Bern.) – Peccando, ad Adamo è successo quello che succede ad un uomo che cade nel fango. (S. Greg. Nys.) Il samaritano, che andava da Gerusalemme a Gerico, cadde nelle mani dei briganti e non solo fu spogliato di tutte le sue sostanze, ma venne anche coperto di ferite; gli uomini erano anche spogliati dei doni soprannaturali. Ma anche i doni naturali erano diminuiti. In altre parole, la somiglianza con Dio scomparve completamente e l’immagine naturale fu sfigurata. “Con il peccato originale l’uomo si è corrotto nel corpo e nell’anima”. (Concilio di Trento 5, 1).

Il peccato ha danneggiato l’anima dei nostri primi genitori, 1º oscurando la loro ragione, 2º indebolendo la loro volontà e inclinandola al male, 3° privandola della grazia santificante per cui hanno dispiaciuto a Dio e non hanno potuto entrare in paradiso.

La loro ragione era oscurata, cioè non conoscevano più così chiaramente il Dio buono, né la sua volontà, né lo scopo della loro vita, ecc. – La loro volontà era indebolita. Peccando, l’uomo aveva disturbato l’armonia tra le sue facoltà spirituali e le sensibili. I sensi non si sottomettevano più senza resistenza al dominio della ragione e della volontà. Per punirlo di essersi ribellato a Dio, la carne dell’uomo si è ribellata a lui. Per questo l’uomo si vergogna del proprio corpo (S. Euch.). S. Paolo dice anche: “Sento nelle mie membra un’altra legge, che ripugna alla legge dello spirito”. (Rom. VII, 23). La carne cospira contro lo spirito” (Gal. V, 17). Come la pietra è attratta dalla sua gravità verso il suolo, così la volontà dell’uomo è costantemente diretta verso le cose terrene. “Lo spirito dell’uomo e tutti i pensieri del suo cuore sono inclini al male fin dalla giovinezza” (Gen. VIII, 21). Il peccato originale ha prodotto in noi in modo particolare le inclinazioni malvagie che satana aveva suscitato nei nostri primi genitori: dubitare della parola di Dio o l’incredulità, la messa in dubbio della sua giustizia o leggerezza, l’orgoglio, le passioni sensuali. (Hirscher) Eva, che per prima scrutava gli alberi del paradiso, che conversava colpevolmente con satana e poi con il marito, che per prima voleva essere come Dio, ha trasmesso al suo sesso i vizi della curiosità, della loquacità e della vanità. Ma le facoltà spirituali dell’uomo, la ragione ed il libero arbitrio, sono state solo indebolite dal peccato originale, non distrutte come sosteneva Lutero. L’uomo ha quindi ancora il suo libero arbitrio, nonostante la caduta (Conc. Tr. S. 6, 5); se l’avesse perso del tutto, perché avrebbe deliberato prima di compiere le sue azioni, perché si sarebbe talvolta pentito? Così Agostino dice: ” anche se Dio ci avesse creato così come siamo dopo la caduta, la nostra anima avrebbe ancora qualità preziose e avremmo motivo di essergli molto grati. – I nostri primi genitori hanno perso la grazia santificante, cioè la giustizia e la santità in cui erano stati creati (Conc. Tr. S. 6, 1), e di conseguenza l’amicizia di Dio. Chi muore con il peccato originale non raggiunge la visione di Dio, ma non è affatto condannato alle pene dell’inferno. La pena del peccato originale – dice Innocenzo III – è la privazione della visione di Dio, la pena del peccato personale è il fuoco eterno dell’inferno. – Da questo possiamo trarre le conclusioni circa i bambini morti senza Battesimo.

Nel loro corpo i nostri primi genitori hanno sofferto i seguenti mali: 1. furono soggetti alla malattia e alla morte; 2. furono espulsi dal paradiso e sottoposti a lavori forzosi e la donna fu messa sotto la dominazione dell’uomo; 3. le forze della natura e le creature inferiori potevano nuocere all’uomo, e infine lo spirito maligno era in grado di tentarlo più facilmente e, con il permesso di Dio, di danneggiare i suoi beni temporali.

A causa del peccato originale, l’uomo fu condannato a morire. Diodisse ad Adamo: “Mangerai il tuo pane con il sudore della fronte, finché non tornerai sulla terra da dove sei uscito; perché polvere sei e in polvere ritornerai. (Gen. III, 19). Il Sacerdote ci ripete questa frase il mercoledì delle Ceneri, mentre ci cosparge la fronte di cenere. La morte è la peggiore conseguenza del peccato originale. La morte corporea è solo una piccola immagine della morte spirituale ed eterna, ancora più terribile, decretata contro l’umanità e dalla quale può essere salvata soltanto dalla Redenzione e penitenza. – La chiusura delle porte dell’Eden era anche un simbolo della chiusura del paradiso celeste (S. Th. Aq.). Gli uomini del peccato furono sottoposti a lavori penosi. Dio infatti disse ad Adamo: “Sia maledetta la terra a causa della vostra azione, produca rovi e spine… mangerai il tuo pane con il sudore della tua fronte” (Gen. III, 17). È stato per eliminare questa maledizione, che la Chiesa istituì un gran numero di benedizioni. – Da quel momento in poi, la donna fu sottomessa all’uomo, perché lo aveva sedotto. “Sarai sotto il potere dell’uomo – disse Dio – ed egli avrà il dominio su di te”. (Gen. III, 16). Anche la donna subirà molte tribolazioni attraverso i suoi figli (ibidem), perché li ha resi infelici con il suo peccato. – Le creature inferiori da quel momento in poi furono in grado di fare del male all’uomo: dato che si era ribellato a Dio, suo padrone, è giusto che a loro volta le creature si ribellino a colui che doveva essere il loro re. Dio non allontana più dall’uomo le influenze nocive degli elementi, piante e animali, da cui le varie piaghe del fuoco, dell’acqua e delle bestie. Queste fuggono tutte dall’uomo e molte gli sono addirittura ostili. Gli uomini, che prima terrorizzavano tutti gli animali, ora hanno tutti paura”. (S. Pier Chris.) – Anche il diavolo ha ora una grande influenza sull’uomo, in base al principio che chi è sconfitto, diventa schiavo del suo conquistatore”. (2 S. Pietro II,19). Il diavolo, soprattutto ora che l’uomo è incline al peccato, può tentarlo molto più facilmente e condurlo al peccato mortale (ad esempio Giuda) e, con il permesso di Dio, danneggiare anche i suoi beni temporali. (Giobbe, ad es.) Per questo il diavolo è chiamato principe di questo mondo. (S. Giovanni XII, 31; XIV, 30), il principe della morte (Eb. 11, 14). – Siamo viaggiatori su questa terra, viaggiatori sul cui cammino i demoni tendono agguati come briganti. (S. Greg. M.) Il mondo intero (I S. Giovan. V, 19) è sotto l’impero dello spirito maligno. Un pesante giogo grava sui figli di Adamo dal giorno della loro nascita fino al giorno della loro sepoltura. (Eccl. XL, 1). È per questo che il bambino inizia la sua vita piangendo. – Tutti questi castighi inflitti all’uomo erano anche un rimedio per lui. La malattia, la morte, la necessità di lavorare, l’assoggettamento e sottomissione agli altri uomini sono utili per frenare l’orgoglio e la sensualità. Egli fu espulso dal paradiso perché non mangiasse dallalbero di vita; questo lo avrebbe reso da immortale in una terribile miseria; questa espulsione è stata anche un mezzo efficace per eccitarlo alla penitenza.

4. IL PECCATO DEL PRIMO UOMO, CON TUTTE LE SUE INFELICI CONSEGUENZE PASSÒ A TUTTI I SUOI DISCENDENTI. (Conc. Tr. S. 5, 2).

Ogni giorno sento il dolore del peccato e, poiché sento il dolore, ne ricordo anche la colpa. (S. Greg. M.) Tuttavia, non è solo il dolore che ci è stato trasmesso, ma il peccato stesso, la colpa di Adamo, perché sarebbe empio pensare che un Dio giusto voglia punire qualcuno che è assolutamente esente da colpe. (S. Prosp.) Siamo nati figli dell’ira (Ef. II, 3), abbiamo tutti peccato in Adamo (Rom. V, 12). Abbiamo peccato in Adamo, come le membra del corpo cooperano al peccato, quando sono mossi da una volontà malvagia dell’anima. È possibile avvelenare tutti i frutti di un albero avvelenando la radice; questo processo riuscì al diavolo in paradiso (Segneri). Ecco altre analogie. Il Signore dà, per esempio, una terra a uno dei suoi servi a condizione che gli sia fedele. Se non mantiene la promessa, perde la terra non solo per sé ma anche per i suoi figli. Qualcosa di simile è accaduto nel peccato originale. (Atti del Conc. Tr.) Supponiamo ancora un padre nobile. Se manca gravemente al suo signore, gli verranno tolti sia la nobiltà che i feudi. I figli erediteranno il titolo e la fortuna? No, ma erediteranno la povertà e la miseria del padre. Il peccato originale è ereditario come alcune malattie del corpo. – Questo è un errore condannato dalla Chiesa (Conc. Tr. ô) credere che siamo peccatori in Adamo per imitazione del suo peccato. Come spiegare la morte dei bambini piccoli che non imitano il peccato di Adamo? La dottrina della Chiesa, secondo cui anche noi siamo diventati peccatori attraverso l’atto libero di Adamo, è un mistero della fede. –

Questo peccato è chiamato originale, perché lo abbiamo fin dalla nostra origine in Adamo.

Siamo infettati dal peccato prima di respirare l’aria (S. Ambr.), concepiti nel peccato (Sal. L, 7), perché siamo figli della concupiscenza. (I figli dei cristiani non sono esenti dal peccato originale. – Conc. Tr.) Non si nasce Cristiani, ma con il battesimo si rinasce Cristiani (S. Girol.). Così è per le olive: anche i noccioli degli ulivi coltivati producono solo olive selvatiche. (S. Aug.).

Gesù Cristo e la Beata Vergine Maria furono i soli esenti dal peccato originale.

Alcuni dottori credono che Geremia (Ger. I, 5) e 8. Giovanni Battista (S. Luc. I, 15), sebbene affetti dal peccato originale, fossero santificati prima della loro nascita. (S. Ambr., S. Athan.) Tutti gli altri uomini sono purificati dal peccato originale solo con il Battesimo (di acqua, di sangue o di desiderio). – Rifiutare il peccato originale significa condannarsi a non comprendere nulla della storia dell’umanità; ammetterlo significa comprendere se stessi e la storia del mondo (Ketteler – Vescovo di Magonza). Quanto grande è la miseria in cui il peccato originale ha fatto precipitare il genere umano. Sono pochi quelli che se ne rendono conto; molti pensano addirittura di essere molto felici qui! Sono come un bambino nato in una prigione buia, nella quale gioca, si diverte, perché non sa cosa sia la luce: la madre, invece, è triste e geme. Allo stesso modo i figli del mondo sono pieni di gioia, ma i Santi, che conoscono le gioie del paradiso, sono pieni di tristezza e versano lacrime quaggiù. (Didac.).