P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,
RISPOSTE POPOLARI ALLE OBIEZIONI PIU’ COMUNI CONTRO LA RELIGIONE (12)
4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864
CAPO XII.
FEDE
I. Io non posso credere. II. Mi bastano le verità naturali. III. La mia ragione non può ammettere altro.
Che ci voglia una religione, sia pure in buon’ora, ma sia la religione che insegna la stessa natura. Alla contemplazione dei cieli e della terra, delle campagne, dei fiori, delle marine surgono naturalmente nell’uomo di vani affetti: la mente è rapita in estasi di ammirazione, il cantico dell’amore si sprigiona dal cuore, l’inno di ringraziamento sale come incenso al cielo; ed ecco la religione. A che dunque metterci sempre dinanzi la vostra fede che è lo scoglio, la morte, l’annientamento di quella nobil ragione che il Signore ci ha data? Io per me non posso credere, non posso riconoscere la vostra soprannaturalità, ed è la mia ragione stessa che ne lo vieta. – Così discorrono certe teste romantiche ed irreligiose: ma con quanto onore di quella ragione che tanto vantano, ora lo vedremo.
I. Prima di tutto, dicono, io non posso credere: ma hanno costoro mai compreso una volta ed un po’ chiaramente quello che sia la fede? Ecco, o lettore, la prima cosa che si vuol discorrere un istante. La fede, in quanto oggetto delle nostre credenze, non è altro che una serie, una collezione preziosa di verità che Iddio, veracità infinita, si è compiaciuto di palesare agli uomini: la fede, in quanto è in noi, non è altro che l’assenso dell’intelletto a quelle medesime verità: assenso prestato sull’autorità di Dio medesimo che le ha rivelate: ondeché credere non è altro che prestare assenso ad un Dio che parla. – Ora io vi domando, qual è in questo atto così semplice il punto sì arduo che voi non potete superare? Qual è quello intorno a cui la vostra ragione urta sì gravemente? Forse la vostra ragione v’insegna che Dio non possa parlare agli uomini? Ma sarebbe pur bella che quegli, che ha formato l’uomo, che gli ha dato la favella, non potesse far intendere la sua voce e la sua volontà. A niuno, credo, cadde mai in mente pazzia così solenne. Forse non conviene a Dio il parlare? Ma qual ragione, anche solo apparente, può persuadere che disconvenga a chi ha formato l’uomo l’averne anche provvidenza, e rifornirlo di tutte quelle cognizioni ed ammaestramenti che possono tornargli giovevoli? Sarebbe un paradosso l’affermarlo. Forse manca a Dio il diritto per farlo? Ma questo sarebbe più che un paradosso, sarebbe una bestemmia. Imperocché, come fonte di tutti gli esseri, Egli ha pieno diritto d’imporre ad ogni uomo i suoi voleri, senzaché vi sia in cielo od in terra chi possa appellare dalla sua suprema autorità. Certo la ragione vostra non potrà mai persuadervi alcuna di quelle storture, niuno di que’ deliri. Fin quì dunque non si vede troppo perché, in nome della vostra ragione, non possiate credere. – Resterebbe dunque che ciò avvenisse per una di queste due ragioni, o perché non siate certo che Dio abbia parlato, o perché, essendo certo che Dio ha parlato, possiate sospettare della sua veracità. Questa seconda supposizione, oltre all’esser empia, è così assurda, che mai nessuno né eretico né incredulo osò affermarla; non vo’ dunque fare al mio lettore il torto di confutarla: ci riduciamo adunque alla prima, del non essere voi ben certo se poi veramente Iddio abbia parlato. – Il proporre e spinger oltre questa difficoltà proviene solo dal non conoscere in qual modo ci sia proposta ad esercitare la fede. Presupponete dunque che nell’esercizio di essa vi sono due atti: l’uno è l’atto del credere, l’altro di voler credere. Il primo atto è dell’intelletto, il quale si sottopone all’autorità di Dio che parla, l’altro è l’atto della volontà, la quale comanda, dirò così, all’intelletto che si sottoponga. Ciascuno di questi due atti ha il proprio motivo. L’atto dell’intelletto ha per motivo l’autorità di Dio che parla, l’atto della volontà ha per motivo tutte quelle prove, per cui ci appare fuori di ogni dubbio che Dio abbia parlato. Così in una corte si crede a quello che dice un. ambasciatore, perchè è ambasciatore : ma the egli sia tale non si crede se non perché ha mostrato le sue credenziali. Ora la nostra fede ci nasconde forse le credenziali, vo’ dire le prove che dimostrano che è un Dio quello che ha parlato, che è quel solo che possiamo chiedere ragionevolmente? Tutto l’opposto: ce le schiera dinanzi e belle e limpide ed evidenti, ed in tanto gran numero che si può dire che non solo siano bastevoli ma pur soverchie: Testimonia tua credibilia facta sunt nimis. – Sarebbe lungo il mettervele qui tutte in nota e spiegarle in tutta lor forza, perché non basterebbero ampi volumi: tuttavia ricordate così in confuso che a provare che Cristo è Dio, e che quindi è un Dio che ha parlato, vi sono quaranta secoli di oracoli e profezie che, raccolte insieme, formano tutta la vita del Redentore, ed autentiche per testimonianze dei Gentili non meno che dei Giudei; che vi è la vita stessa di Gesù piena di prodigi strepitosissimi operati in confermazione dì tal verità; che vi è la propagazione e la conservazione del Cristianesimo, ottenuta per mezzi che umanamente dovevano anzi spegnerlo e metterlo in fondo; che vi è una cattedra di verità da Lui eretta, ed inconcussa ed immota dopo diciannove secoli di lotte e contraddizioni; che vi è in favore di tal verità la testimonianza di legioni intere di Martiri e l’eletta degli ingegni più preclari che abbia avuto il mondo: che se dopo tante prove il mondo fu ingannato, l’errore è partito dal trono della stessa divinità. Vedete adunque che la nostra fede non lascia di rischiararci in quel solo punto che può ragionevolmente chiamarsi ad esame. Ma dopo che ha bene stabilito che Dio ha parlato, ci fa poi forse torto a pretendere che noi ci sottomettiamo a quello che un Dio ha manifestato? Sarebbe un oltraggio gravissimo il non arrendersi prontamente ad ogni sua parola. Anche voi che siete un omiciattolo della terra vi avete per male che alcuno mostri di non credervi, quando favellate da senno: eppure potreste anche allora voler ingannare per malizia, poiché siete capace di colpa, od essere ingannato per ignoranza, perché siete fallibile. Fate ragione adunque se competa a Dio l’esser creduto sulla parola, mentre Egli è suprema verità in sé stesso; e veracità infinita rispetto a noi. Resta adunque evidente che non è per verun modo contrario alla nostra ragione che Dio ci obblighi a credere, e che quindi quel non posso credere altro non è che un superbo non voglio piegarmi alla divina autorità.
II. Io ho bisogno, replicano, di altre verità; mi basti quello che la mia ragione m’insegna. Questa replica è sacrilega e blasfema per ogni verso. Basta a voi.., ma non si tratta di vedere quello che basta a voi, si tratta di quello che basta a Dio. E se Dio volesse per sua bontà manifestarvi verità, cui non può arrivare la vostra ragione, vi darebbe l’animo di rifiutarle e gettargliele sul volto? E se Dio volesse colla sua autorità imporsi obbligazioni, e darvi precetti che non può naturalmente conoscere la vostra ragione, avreste mai qualche diritto di sottrarvici? Ebbene questo appunto è accaduto. Gesù Cristo volle manifestarvi che il fine ultimo degli uomini non è una felicità qualunque, ma una beatitudine consistente nella visione chiara di Lui; che per conseguirla ci volevano opere fatte in istato di grazia; che per ottenere queste grazie s’aveva da credere al divin Redentore, che Egli aveva legato i mezzi della salute ad un sacrificio determinato ed a riti speciali che chiamiamo Sacramenti; che in una società sola, qual è la Chiesa, sono accolti tutti i mezzi della salute; che Egli non avrebbe riconosciuti per suoi se non quelli che fossero vissuti conformemente a queste sue leggi; che avrebbe condannato a fiamme eterne quanti non si fossero arresi a’ suoi dichiarati voleri; ha dilatato, in una parola, i confini della natura, ha perfezionata la ragione, ha sublimato l’uomo, l’ha innalzato per grazia alla dignità di figliuolo di Dio, l’ha fatto Dio per partecipazione, e vuole che viva ed operi siccome tale: non ha forse diritto a tutto ciò? Sto a vedere che l’uomo ormai farà la legge a Dio, e che gli prescriverà quello che basta e quello che non basta, che porrà limiti alle comunicazioni divine, che farà le Condizioni sotto cui si contenta di accettarle! Quando avete questi diritti potevate anche crearvi da voi, da voi conservarvi, da voi provvedervi, e formarvi da voi l’ultima beatitudine: così sarebbe compiuta la vostra indipendenza. Il ridicolo non è qui congiunto col blasfemo? – E tuttavia v’è da fare un passo più oltre. La fede non solo non è in opposizione colla ragione, ma anzi le è conformissima. E come no, se noi per mano di natura siamo condotti a non vivere se non di fede, accíocché l’essere lungamente avvezzi alla fede umana ci prepari a quella tanto più nobile che è la divina? L’osservazione è di antichissimi Padri e di molti tra i moderni, e voi la potete fare a vostro agio. Che cosa è tutta la nostra infanzia e gioventù se non un credere cieco ai genitori, un fidarci sicuro ai maestri? Che cosa è il commercio intimo della vita se non un credere perpetuo agli uomini? Cominciando dal credere che questi e non altri sono i nostri genitori, crediamo al servo che così s’ha da lavorare, al cuoco che così s’hanno da governare le vivande, all’artiere che così si ha da condurre l’opera, al contadino che così si ha da arare il campo, al leggista che così abbiamo da racconciare i nostri interessi, al medico che così abbiamo da trattare la nostra infermità, e crediamo tanto che giungiamo a mettere loro in mano le nostre sostanze, i nostri interessi e persino la nostra vita: non è vero? Ora comprendiamo noi forse le ragioni intime dell’operare di tutti costoro? Niuno v’ha al mondo che possa promettersi tanto di sé: crediamo che ognuno in particolare sappia quello che si fa, e noi ci sottomettiamo pienamente. E chi volesse prima di accettare l’opera di alcuno •farsi dar conto di ogni motivo della sua condotta, sarebbe stimato un pazzo, e trattato qual pazzo da tutta la società. E con tutto ciò non si è mai inteso che fosse contrario alla nostra ragione l’aver sempre in atto la fede umana? Se già non si vogliono condannare come irragionevoli tutti gli uomini, non certo. Ma se non è contrario alla ragione il credere agli uomini, perché sarà contrario alla ragione il credere a Dio? Oh che? Saremo di una natura per quello che risguarda le cose terrene, e di un’altra per le celestiali? Chi sa che non si faccia un bel giorno anche questa scoperta. Finché però non è fatta, noi continueremo a credere che la nostra ragione abbia nulla di ragionevole da opporre alla fede. – Anzi più, tanto crederemo ragionevole la fede che stimeremo cosa al tutto da pazzi il rifiutarvisi. Se non vi farò toccare con mano che sia così, non mi date più retta. Non è egli vero che è ugualmente assurdo il credere quando non vi è fondamento di credere, ed il non credere quando questo fondamento vi è? La sana ragione condanna il primo perché è troppo credulo, perché beve grosso: ma condanna anche l’altro perché è capocchio, è ostinato. Difatti immaginate che io ricusassi di credere che esista l’America perché ormai non vi ho navigato, o che non sia stato al mondo il primo Napoleone perché mai non l’ho veduto, che concetto fareste di me? Senza farmi gran torto, mi potreste confinare all’ospedale dei pazzi. Come! È piena l’Europa dei prodotti dell’America, vi sono fra noi degli Americani, molti de’ nostri concittadini l’hanno percorsa, e se ne può dubitare? Similmente abbiamo tutta la storia di quell’Imperatore minutamente descritta, sono al mondo anche molti che lo hanno veduto, persino i fanciulli sanno a mente i nomi di Marengo, di Ulma, di Dresda, della Beresina dove ha fatto le sue imprese, e tuttavia si perfidia a negare la sua esistenza? Vedete adunque che può operarsi contro ragione anche nel discredere un fatto. Ora è da sapere che niun fatto consegnato nella storia, comprovato coi monumenti è così solenne, così indubitato, così innegabile, che non sia ad assai inferiore nel numero e nella autenticità delle prove al gran fatto della venuta di Cristo e della sua rivelazione. Qui convengono la storia, la tradizione, i monumenti eretti dagli amici e dai nemici, dai dotti e dagl’ignoranti, dai creduli e dagli increduli, dai barbari e dai civili, sì che non si possa recare in dubbio senza dare una mentita solenne a tutto l’umano genere: come dunque non sarà un’assurdità agli occhi stessi della ragione il non credere un fatto così provato? E dunque vero a tutto rigore quello che affermano i savi che, per discredere al Cristianesimo e per gittare la fede, bisogna prima aver perduta la ragione. Pensate adunque se la ragione possa opporsi alla fede! – E si conferma tutto ciò con due ragioni di gran peso: La prima è che di fatto gli uomini, che ebbero maggior potenza di ragione che sono i grandi ingegni, tutti credettero. Niuno sarà per negare che quelli, che noi chiamiamo Padri della Chiesa, fossero in ogni secolo quello che il mondo ebbe di più chiaro e profondo in sapere. Levate dall’Africa Tertulliano, S. Agostino, S. Fulgenzio, S. Cipriano ed Arnobio, e poi ditemi in quelle età quali fossero i veramete dotti Africani. Togliete dalla Grecia i Basili, i Crisostomi, i Gregori, gli Origèni, i Teodoreti, in una parola i Padri, e poi indicate uomini che in quell’età abbiano lasciati monumenti uguali ai loro. Fate lo stesso intorno ai Latini: mettete Girolamo; Ambrogio, Leone, Gregorio, Ruffino in confronto dei dotti di quell’età, e vedete se non sopravvanzino tutti nel paragone. Nei secoli di mezzo le fiaccole che rompono le tenebre più dense sono senza stanco veruno Beda , Alcuino , S. Anselmo, Lanfranco, Alberto Magno, d’Ales, lo Scoto, S. Tommaso, S. Bonaventura. Or questi che furono i maggiori uomini de’ loro secoli, quelli che più usarono la ragione, come ne fanno fede indubitata i loro volumi che riempiono le nostre biblioteche, tutti credettero, e credettero sì fermamente, che operarono quasi tutti eroicamente in favore della lor fede: che cosa vuol dir questo? Non è una evidente confermazione che la ragione tanto non si oppone alla fede, che anzi le rende la chiara testimonianza? In caso contrario, converrebbe ‘dire che l’errore fosse il retaggio principalmente de’ savi; ma spero che il lettore n0n sarà tanto pazzo da affermarlo. – L’altra osservazione in confermazione dello stesso vero, si tolga dal contrario. Chi sono stati in tutti i tempi quelli che non hanno potuto credere? Quelli che hanno usato meno della ragione. Non solo per sentenza degli uomini di Chiesa, ma pure per autorità dei filosofi, gli uomini che adoperano meno la ragione, sono gli ignoranti ed i passionati. Quelli sono incapaci di formare discorsi e deduzioni più ampie, poste le tenebre in cui giacciono immersi; questi ne sono incapaci, perde la passione falsa loro in capo il giudizio e dà il tracollo all’intelletto. E siccome fra le passioni, le due più veementi sono la superbia dello spirito e la corruzione del cuore, così queste due tolgono più che qualunque altra l’uso della ragione. Ora, mirate fatalità! da queste classi appunto, cioè dagli stupidi per ignoranza, dai frenetici per orgoglio, dai fracidi per immondezza, si riempiono le file degl’increduli. – Degli ignoranti in primo luogo. Questa è questione di fatto, e col fatto si vuol definire. L’incredulità pullula a’ dì nostri pur troppo fra la gioventù e fra le classi operaie e cittadinesche, come deplorano tutti i savii. Ma dove e come si forma tale la gioventù? Essa esce da que’ collegi che, tolti agli uomini di Chiesa e confidati a mani o inesperte o infedeli, ricevono solo una cognizione superficiale di religione, o non ne ricevono punto. Come si formano increduli gli artieri? Col distorglierli che si è fatto con mille arti di seduzione dall’apprendere nelle Chiese nei dì festivi un po’ chiaramente la verità di essa fede. E le classi cittadine come giungono a perder la fede? Si sono totalmente per rispetto umano sviate dalla Chiesa, e col non udir mai dichiarazioni opportune, annebbiandosi sempre più in loro quelle imperfettissime cognizioni della fede che ebbero nell’infanzia, sono diventati la vittima di ogni più meschino sofisma. – E come potrebbe essere diversamente? Se vivete in mezzo alla società, dovete aver conosciuto più d’uno di quelli che fanno professione d’incredulità; se usate legger giornali, avete dovuto imbattervi spesso in chi bestemmia da incredulo. Ora, ditemi con sincerità: E gli uni e gli altri sono poi quello che di più savio, di più dotto, di maggiormente istruito possiede la società? Vi sembrano proprio quelli gli uomini che debbono avere scoperte ragioni novissime, che erano sfuggite all’acutezza di un Agostino, di un Tommaso e di tanti Dottori che hanno logorata tutta la vita nello studiare ed ammirare le profondità santissime della fede? Possono essi adunque per scienza che ne abbiano, sfatare tutta l’antica sapienza? Essi cogli studi che hanno fatto…. colle occupazioni gravissime in che li vediamo inabissati tutto il giorno, di godere la vita, di deliziare, di giocare, di trescare, e peggio? Il solo guardarli in faccia basta a dimostrare con ogni evidenza che è ignoranza crassa, ignoranza brutale quella che li fa miscredenti. – Che se aprono poi la bocca e fanno sentire le profonde ragioni, sopra le quali stabiliscono la loro incredulità, la dimostrazione prende l’evidenza che ha il sole nel pien meriggio. Che cosa hanno finalmente da opporsi alla fede? Sofismi volgari, triviali, ripetuti le mille volte, e mille volte già esposti e risoluti con tutta chiarezza dai sacri Dottori. S’avvolgono in una confusione che è una pietà a vederli. Non sanno quale sia la dottrina cartolica, quale l’eterodossa. Impugnano quello che nessun difende, difendono quello che nessuno impugna; attribuiscono alla Chiesa quello che la Chiesa tanto non professa, che anzi condanna: si fingono avversari dove non li hanno, per aver la gloria dell’eroe celebre della Mancia di combatterli sino all’ultimo sangue; mentre non sanno poi profferir parola contro quello che è veramente dottrina della Chiesa e verità. Le profonde speculazioni teologiche dei Renan, degli’About, dei Botteri, dei Govean, dei Bianchi-Giovini, dei Bonavini, ed anche del Siécle e dei Débats , e di altri paladini della miscredenza odierna bastano a far ampia fede della peregrina scienza di religione onde sono adorni. E proprio tutta luce quella che li acceca! – Qualche anno fa un Sacerdote gravissimo trovossi in una vettura pubblica a fare un viaggio, e come uomo un po’ astratto che era, stava tutto immerso nella lettura di un suo libro senza por mente ai suoi compagni di viaggio. Una signora che s’annoiava di tanto silenzio, un tratto che quegli aveva deposto il libro, colse il destro di avviare un poco di conversazione, e cominciò col protestare e vantarsi che essa, in fatto di religione, era incredula pienamente. Avrà, replicò allora il Sacerdote, avrà la signora letto qualche cosa, io mi penso, di Bossuet, di Fénélon, di La Luzerne, di Bergier. Non perdo il mio tempo in quelle cianciafruscole. Ma almeno il Valsecchi, il Segneri, qualche Catechismo un po’ ampio. Sì, proprio autori da occuparsene! Quando è così, perché dice di essere incredula? essa non è mai stata incredula, l’assicuro io; ella è semplicemente una stolida, un’ignorante. E questa conclusione quadra a cappello a moltissimi che si vantano d’incredulità. – L’altra fonte della incredulità è la superbia. Lasciando in disparte le prove che ne danno tutti gli eresiarchi antichi, è certo che i due padri dell’incredulità moderna sono Lutero e Calvino. Or l’orgoglio del primo fu tale, che lo portò ad insultare tutti i principi e re ed imperatori del suo tempo, a disprezzar tutti i Padri della Chiesa, a protestare che mille Cipriani ed Agostini non valevano quanto lui, Che prima di lui mai nessuno aveva inteso nulla della Chiesa, della fede, della legge, dei Sacramenti, delle Scritture, e ciò con tanta frenesia, che, per sentenza anche dei suoi, diede nel pazzo. L’arroganza, la superbia, l’impudenza resero Calvino sì intollerabile a’ suoi seguaci, che ne uscì allora il detto, esser meglio ire all’inferno con Teodoro Beza, che andare in cielo con Calvino. E la superbia che fondò il regno della incredulità è poi quella che lo mantiene a’ dì nostri. Ricusarono quelli per orgoglio diabolico di sottomettersi a quello che credettero tutti i loro contemporanei, ricusano tanti spiriti superbi al presente di sottomettersi a quello ché credono i fedeli odierni. Come! dicono tra sé, io che ho tanti studi, tante cognizioni, ho da credere quello stesso che crede un uomo dozzinale, ho da praticar quello stesso che usa una femminuccia? Non è possibile. E qui lo spirito della superbia li punge, gli aizza, non li lascia quetare: per brama di apparir singolari si appartano dagli altri, vantano nuove dottrine, la fanno da increduli e bestemmiatori. – Un mediconzolo, qualche tempo fa, davanti a varie persone che parlavano di religione: non so perché, disse, i preti abbiano tanta difficoltà ad ammettere la transustanziazione, quando. . . . Ma, scusi, l’interruppe un altro, non vi hanno alcuna difficoltà, poiché la difendono contro i luterani. Volevo dire, ripigliò il dottore, con tanto calore la difendono, quando.. . . Non vada oltre, gli disse allora uno che lo aveva a maraviglia compreso, anche senza quella dramma d’incredulità, sappiamo che ella è uomo di gran polso. E questo è per molti tutta la ragione dell’essere increduli, il voler apparire uomini tanto agli altri superiori, quanto audaci e più singolari. – Così certo l’hanno confessato al letto di morte tutti gli increduli più svergognati del secolo scorso. Alla luce tuttoché fioca della candela mortuaria hanno veduto le cose alquanto meglio che non le avevano vedute in vita. Tutte le grandi obiezioni e difficoltà erano scomparse, restava solo in piè la colossale superbia da confessare e da detestare in tempo per non dovere incorrere i castighi che la fede aveva minacciato. – La sorgente però che mena in maggior copia le acque fangos della incredulità è, a detta dei savi, senza alcun dubbio la corruzione del cuore. L’uso soverchio dei diletti corporei turba la mente e non lascia più concepir nulla che non sia animalesco; gli affetti del cuore impigliati nelle sordidezze non possono volgersi alla fede che è purissima, e soprattutto il bisogno di non credere alla fede per non doverne temere i castighi, aguzza l’ingegno ad investigare ragioni, affine di persuadersi che la fede non è altro che una finzione. – Se io dovessi parlare a quattr’occhi ad uno di costoro, vorrei convincerlo in questo modo: Orsù, io gli direi, voi affermate di non poter credere: ma da quanto tempo è che vi sono entrati in mente dubbi sì gravi? Forse nei primi anni di vostra giovinezza, quando costumato, sobrio, pudico menavate con tanta tranquillità giorni innocenti? Eh allora la vostra fede vi pareva pur bella, e non vi saziavate di ammirarne le glorie. Era bello per voi vederla sorgere maestosa fra le rovine dell’idolatria da lei conquisa, e di sotto le mannaie dei proconsoli e degli imperatori che la volevano spegner nel sangue. Le si presentavano contro tutti i vizi armati per farle ostacolo, la superbia, l’avarizia, la libidine, ogni abominazione, ed essa passava oltre calpestandoli tutti, e rendeva casti i dissoluti, umili i superbi, amanti solo del cielo quei che non sospiravano che alla terra. Che se non bastando a contenerla già soverchiante verun riparo, si corse al ferro ed alle stragi, oh allora sì che cominciano le sue glorie. Cadeva una vittima e cento sorgevano ad occuparne il luogo; uno era tolto e cento gliene invidiavano la sorte. Vi ricordate di quelle dolci memorie che forse vi hanno cavato un tempo le lagrime, di una Cecilia, di un’Agata, di un’Agnese, di un Vito, di un Primo, di un Valeriano, e di altri innumerevoli o verginelle delicate, o fanciulletti innocenti che volavano al cospetto de’ proconsoli infelloniti, e col cuore pieno di Gesù e coll’anima giubilante pel vicino martirio li sfidavano ad arrotare le seghe, ad affilare i rasoi, a liquefare i piombi, ad appaiare i graffi, ad affamare i leoni, per esserne così più straziati, più laceri, più martoriati? Chi sa quanto non v’hanno commosso allora narrazioni tanto pietose! E quando poi, levata di sotto la mannaia la testa, presero nei secoli posteriori eretici di ogni maniera ad impugnarla, nuovo spettacolo vi appariva dinanzi: levarsi dall’Oriente e dall’ Occidente i più chiari ingegni, le anime più generose, i Santi più perfetti a farle schermo de’ petti loro e combattere quei mostri, fintantoché non fossero rientrati nell’abisso donde erano sbucati. Insomma, ammiravate questa fede riempir le valli più cupe di santi monaci, popolar le boscaglie più incolte di fervidi anacoreti, fiorire le balze più inospite di austeri penitenti, colmare il mondo di portenti e di maraviglie. Oh allora la fede vi appariva qual è, illustre di profezie, gloriosa di miracoli, chiara di martiri, santa di opere, ricca di popoli; e la vedevate con giubilo veleggiar sulla navicella di Pietro affrontando scogli, correnti e tempeste senza niun pericolo mai di affondare. Questo e tanto più di questo vi appariva allora, e chi vi avesse detto che un giorno sareste stato nemico della fede, vi avrebbe ricolmati di orrore. Che però? Più tardi vi assalirono passioni violente, e non domandandolo voi da principio, s’afforzarono, s’aggrandirono, s’impossessarono di voi. Per alcune volte forse risorgeste dalle vostre cadute, ma stanco alfine di sì duro contrasto, cominciaste a lasciar orazioni chiese, Sacramenti, esercizi di pietà quali vi pareva di non conciliare coi vostri sfoghi. Per attutire i rimorsi della coscienza vi volgeste a dissipazioni, a letture laide, a libri irreligiosi per vedere se vi riusciva di mettere in dubbio la fede che vi minacciava l’inferno. Aggregandovi poi con compagni della medesima risma, e crescendo ogni dì più la dissolutezza del vivere, vi siete condotto finalmente al punto di potere in certi momenti, in cui siete come un mare in tempesta, dubitare della vostra fede internamente e nell’esterno vantarvi d’incredulità. Ed ecco, conchiuso finalmente, ecco tutte le vie per cui giungeste ad essere miscredente. Lettore, quello che fosse per rispondermi questo infelice, io non so: ma più d’uno che ha voluto esser sincero, ha confessato schiettamente, questa essere la storia veritiera del suo misero cuore. – Il perché ad assommare in poche parole il ragionato fin qui, quella formula: io non posso credere; la mia ragione mel vieta, torna in quest’altra: io non posso credere o perché un’ignoranza brutale non mi lascia levare gli occhi più in là di questa misera terra, perché la superbia mi ha levato il cervello, o perché i vizi hanno sommerso il cuore nel fango: quindi non posso fare quel che la sana ragione mi consiglia, mi comanda, m’inculca, benché sotto pena di essere infelice nel tempo e più infelice nella eternità. Lettore, converrete meco che si può usare un po’ meglio la ragione per tenere un po’ più salda la fede.