DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2023)

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2023)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Come Domenica scorsa, la lettura dell’Uffizio divino coincide spesso in questo giorno con quella del libro di Giobbe che si suol fare nella 1a e nella 2a Domenica di Settembre. – Continuiamo quindi a leggere i testi del Messale in corrispondenza con quelli del Breviario. Giobbe è la figura del giusto, che il demonio superbo cerca di umiliare profondamente, affinché si rivolti contro Dio. « Lascia che io lo provi, dichiarò satana all’Altissimo, egli ti bestemmierà ». E Jahvè glielo permise, per fare di Giobbe il modello dell’anima che proclama il supremo dominio di Dio e si sottomette interamente alla sua volontà divina. La gelosia del demonio non conobbe allora più freno e fece piombare sullo sventurato Giobbe, con gradazione sapiente, tutte le calamità che avrebbero potuto abbatterlo. Pure, benché privo di tutto e coricato sul letamaio, Giobbe non maledisse la mano onnipotente di Dio, che permetteva al demonio di accanirsi contro di lui, ma la baciò umilmente. Il Salmo dell’Introito rende mirabilmente la sua preghiera. « Abbi pietà di me, o Signore, Porgi, o Signore, il tuo orecchio, poiché sono misero e povero ». Il Salmo del Graduale è anch’esso « la preghiera del povero quando è nell’afflizione », e i Versetti da 3 a 6: « Sono stato colpito come l’erba, a forza di gemere le ossa mi si sono attaccate alla pelle », sembrano l’eco delle parole di Giobbe che dice: « Le mie ossa si sono attaccare alla pelle, non mi restano che le labbra intorno ai denti » (Vers. 19, 20). Il Salmo dell’Offertorio parla anch’esso « del povero e dell’indigente» che supplica Iddio: « Non allontanare da me le tue misericordie, o Signore, poiché mali senza numero mi hanno circondato. Siano svergognati coloro che insidiano la vita mia » (Versetti 12-14). Infine, l’antifona della Comunione dice: « Piega, o Signore, verso di me, il tuo orecchio! Quante numerose e crudeli tribolazioni mi facesti provare! La mia lingua proclamerà dovunque soltanto la tua giustizia, e questa giustizia mi renderai quando coloro che cercano il mio danno saranno coperti di confusione e di vergogna » (Vers. 2, 20 e 24). Iddio, dicono infatti gli amici di Giobbe, esalta coloro che si sono abbassati, rialza e guarisce gli afflitti. La gloria degli empi è breve e la gioia dell’ipocrita non dura che un momento. Quando anche il suo orgoglio si innalzasse fino al cielo e la sua testa toccasse le nuvole, alla fine egli perirà. Tale è il retaggio che Dio serba agli empi. Essi si sono innalzati per un momento e saranno umiliati. – E Giobbe aggiunge: « Iddio ritirerà il povero dall’angoscia. Dio è sublime nella sua potenza. Chi può dirgli: Hai commesso un’ingiustizia? L’uomo che discute con Dio non sarà giustificato ». Infatti, commenta S. Gregorio, chiunque discute con Dio si mette alla pari con l’Autore di ogni bene; attribuisce a se stesso il merito della virtù, che ha ricevuta, e lotta contro Dio con gli stessi beni di Lui.. È quindi giusto che « l’orgoglioso sia abbattuto e l’umile innalzato » (2° Notturno, 2a Domenica di Settembre). « Chiunque si innalza sarà abbassato e chiunque si umilia sarà rialzato », dice anche il Vangelo di questo giorno. Dio, infatti, dopo aver umiliato Giobbe, lo rialzò, rendendogli il doppio di quanto prima possedeva. Giobbe è una figura di Gesù Cristo, che, dopo essersi profondamente abbassato, è stato esaltato meravigliosamente; è anche figura di tutti i Cristiani, ai quali Iddio darà un posto di onore al banchetto celeste se di tutto cuore avranno praticato la virtù dell’umiltà sulla terra. L’orgoglio, dice S. Tommaso, è un vizio per il quale l’uomo cerca, contro la retta ragione, di innalzarsi al di sopra di quello che egli è in realtà; l’orgoglio è quindi fondato sull’errore e l’illusione; l’umiltà, ha, al contrario, il suo fondamento nella verità, ed è una virtù che tempera e frena l’anima, affinché questa non si innalzi al disopra, super, di quello che è realmente (donde il nome di superbia dato all’orgoglio). L’anima umile accetta in piena sottomissione il posto che ad essa si conviene; quel qualsiasi posto che da Dio, verità suprema ed infallibile, le è assegnato. Umiltà nelle parole, umiltà nelle azioni, umiltà nel sopportare le prove e le contraddizioni, è la virtù che Giobbe ci insegna durante tutta la sua vita e che Gesù Cristo ci raccomanda nel Vangelo della Messa di oggi. « Dopo aver guarito l’idropico, dice S. Ambrogio, Gesù dà una lezione di umiltà » (3° Notturno). Vedendo come i Farisei scegliessero sempre i posti migliori, Egli volle farli accorti della loro malattia spirituale e spingerli a cercarne la guarigione; a questo scopo guarì dapprima uno sventurato, che la malattia aveva fatto gonfiare, e cercò quindi, velando la lezione sotto una parabola, di guarire la spirituale enfiagione che affliggeva i convitati presenti e che purtroppo affligge anche la maggior parte degli uomini. – Il mondo è in balìa di tutte le esaltazioni e di tutte le infatuazioni dell’orgoglio, mentre l’umiltà è la condizione assoluta per entrar nel regno dei cieli, ed è questa la virtù che la Chiesa ci inculca nell’Orazione ove dice che la grazia di Dio deve sempre prevenire ed accompagnarci, e che S. Paolo insegna con energia ai Cristiani nell’Epistola di questo giorno. Senza merito alcuno da parte nostra, spiega l’Apostolo agli Efesini, ma unicamente perché serviamo di strumento di lode alla sua gloria, Dio ci ha eletti in Cristo. Allorché eravamo figli della collera, l’Onnipotente, che è ricco di misericordia, ci ha reso la vita in Gesù Cristo, per l’amore immenso che ci porta. Noi tutti, pagani ed estranei alle alleanze conchiuse da Dio col popolo di Israele, siamo stati riavvicinati e riuniti nel Sangue del Redentore, poiché Egli è la nostra pace, Egli che di due popoli ne ha fatto uno solo e per il quale abbiamo, gli uni e gli altri accesso presso il Padre, in un medesimo Spirito. Non siamo più dunque degli estranei, ma dei membri della famiglia divina. E questo non è opera nostra, ma di Dio, affinché nessuno glorifichi se stesso. Gettiamoci dunque ai piedi del Padre nostro di nostro Signore Gesù Cristo, che è anche Padre nostro, affinché, attingendo nei tesori della sua divinità, sempre di più ci mandi lo Spirito Santo che ha effuso sulla Chiesa nella festa di Pentecoste e che nella fede e nell’amore ci unisce a Gesù, in modo che noi siamo colmati della pienezza di Dio. E chi potrà mai misurare questa carità sconfinata che iddio ci ha manifestata per mezzo del Figlio Suo? Questo amore del Padre per i suoi figli sorpassa infinitamente tutto quello che noi potremmo concepire e domandare a Dio. – A Lui dunque sia gloria in Gesù Cristo e nella Chiesa per tutti i secoli. « Cantiamo al Signore un cantico nuovo, poiché Egli ha operato prodigi » (Alleluia). « Tutte le nazioni temano il nome del Signore tutti i re della terra annunzino la gloria sua », perché  Dio ha stabilito il suo popolo nella celeste Gerusalemme (Graduale). E questo popolo che prenderà parte al gran banchetto della visione beatifica, sarà formato di tutti quelli che, rifuggendo da un’orgogliosa ambizione, saranno sempre stati umili sulla terra: Dio li esalterà nella stessa misura in cui essi si saranno con buon volere sottomessi alla sua santa volontà.- S. Paolo ha ricevuto da Dio la missione di annunziare ai Gentili che essi, al pari degli Ebrei, sono eletti a far parte del popolo di Dio: elezione gratuita che deve riempirli di un’umile riconoscenza verso il Signore e premunirli contro lo scoraggiamento che è una forma di orgoglio. – Per non lasciare un asino o un bue annegare in fondo ad un pozzo, i Giudei non esitavano a fare tutto quello che era necessario per ritirarneli, non ostante il giorno di Sabato in cui ogni opera servile era proibita. Perché dunque il Redentore non doveva poter guarire un ammalato in quel giorno? – « Va, mettiti all’ultimo posto » non vuol dire che il Superiore debba mettersi al di sotto dei suoi subordinati, né esporre la sua dignità al disprezzo; ma egli deve ricordare queste parole dei Sacri Libri: « Quanto più sei grande, tanto più devi mostrarti umile in tutte le cose e troverai grazia davanti a Dio » (Eccl. III, 20).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum in nómine Dómini.

R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.

M. Misereátur nostris omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.

S. Amen.

S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.

R. Amen.

Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXXXV: 3; 5
Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te.

[Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].

Ps LXXXV: 1
Inclína, Dómine, aurem tuam mihi, et exáudi me: quóniam inops, et pauper sum ego.

[Porgi l’orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi, perché sono misero e povero].

Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te.

[Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
Orémus.
Tua nos, quǽsumus, Dómine, grátia semper et prævéniat et sequátur: ac bonis opéribus júgiter præstet esse inténtos.
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios
Ephes III: 13-21

Fratres: Obsecro vos, ne deficiátis in tribulatiónibus meis pro vobis: quæ est glória vestra. Hujus rei grátia flecto génua mea ad Patrem Dómini nostri Jesu Christi, ex quo omnis patérnitas in cœlis et in terra nominátur, ut det vobis secúndum divítias glóriæ suæ, virtúte corroborári per Spíritum ejus in interiórem hóminem, Christum habitáre per fidem in córdibus vestris: in caritáte radicáti et fundáti, ut póssitis comprehéndere cum ómnibus sanctis, quæ sit latitúdo et longitúdo et sublímitas et profúndum: scire etiam supereminéntem sciéntiæ caritátem Christi, ut impleámini in omnem plenitúdinem Dei. Ei autem, qui potens est ómnia fácere superabundánter, quam pétimus aut intellégimus, secúndum virtútem, quæ operátur in nobis: ipsi glória in Ecclésia et in Christo Jesu, in omnes generatiónes sæculi sæculórum. Amen.

[“Fratelli: Vi scongiuro di non perdervi di coraggio a motivo delle tribolazioni che io soffro per voi. Esse sono la vostra gloria. Perciò io piego i ginocchi davanti al Padre del Nostro Signore Gesù Cristo, dal quale prende nome ogni famiglia, in cielo e in terra, affinché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, d’essere fortemente corroborati, mediante il suo spirito, nell’uomo interiore: che Cristo per mezzo della fede abiti nei vostri cuori, affinché, profondamente radicati e fondati nella carità, possiate comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità; e d’intendere anche quell’amore di Cristo che sorpassa ogni coscienza, di modo che siate ripieni di tutta la pienezza di Dio. A Lui che, secondo la possanza che opera in noi, può tutto infinitamente di là di quanto noi domandiamo e pensiamo: a Lui sia gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni di tutti i secoli”.]

PIENI DI DIO IN GESU’ CRISTO.

Una delle cose più stupende, e, se volete anche strane, quando ci facciamo a studiare bene l’uomo, è la sua estrema elasticità. Gli animali sono quel che sono, tutti: i buoi tutti lenti, gravi; i cervi tutti veloci; i leoni tutti crudeli, e gli agnelli tutti mansueti. Ma l’uomo… l’uomo è capace di assumere gli atteggiamenti più diversi, più contrari. Può andare da un estremo all’altro. Un trasformismo fenomenale. Possiamo purtroppo abbrutirci, e quanti uomini si abbrutiscono! Potrebbero essere degli uomini e diventano animali e peggio. S. Paolo l’afferma nettamente l’esistenza di questo « animalis homo.» E’ l’uomo che discende la scala dell’abisso. Si abbrutisce nel pensiero, che non è più pensiero, ricerca faticosa, conquista umile della verità, ma schiavitù dei sensi, superficialismo di impressioni molteplici e varie. Pensa e ragiona come una bestia: cioè non pensa, non ragiona più; urla, non parla. Si abbrutisce l’animalis homo, nel cuore corrotto e violento. Nessun battito generoso più, ma bramiti come di belva. Sogni, compiacenze voluttuose: il fango. Oppure la crudeltà: la belva accanto al bruto; col fango il sangue. La guerra e il dopoguerra hanno moltiplicate queste dolorose esperienze di crudeltà feroce, di ferocia bestiale. Abbiam visti uomini capaci di far paura alla bestia. Artigli, zanne, occhi iniettati di sangue. E per queste vie trionfali di discesa, si direbbe non ci sia limite. Si può andare, e si va sempre più in giù, e ci si abbrutisce sempre più. Tutto questo bisognava ricordare, bisogna meditare per comprendere l’altro moto diametralmente contrario. L’uomo può angelicarsi, mi direte voi. Ciò, vi dico con San Paolo, è ancora poco, troppo poco per il Cristiano, il quale, invece, può e deve divinizzarsi. Dal fango a Dio. Sicuro, è il programma del Cristianesimo, di quel Cristianesimo che davvero atterra e suscita questa povera umanità. L’atterra nella polvere davanti a Dio, la umilia profondamente, ci proclama peccatori, guasti; corrotti, figli di ira, vuole che ci mettiamo in ginocchio, che ci mostriamo davanti a Lui. « Venite adoremus. » Ma ci esalta, perché ci scopre la nostra origine e razza divina, ci dà il diritto di chiamarci, e il potere di diventare figli di Dio, di divinizzarci. Meditiamo pure bene, meditiamo spesso questi contrasti. L’umanità è cattiva, peccatrice, ci insegna il Cristianesimo, ed eccoci nella polvere della abbiezione. E, a parte che dobbiamo stare in ginocchio, colla faccia a terra, perché siamo peccatori, dovremmo starci ginocchioni così, prostrati così davanti a Dio, perché siamo uomini, povere creature di Dio, scintille davanti a un incendio, gocce di fronte al mare. È questo il preludio del dramma, non è il dramma. Il dramma è l’esaltazione sino a Dio. L’eritis sicut Dei, che suonò audace bestemmia sulle labbra del demone, suona dolce invito sulle labbra di Gesù Cristo. « Estote perfectì sicut Pater vester coelestis perfectus est. » Gesù non invita all’impossibile; se mai, ci invita all’impossibile, rendendolo possibile. Dobbiamo diventare come Dio in ciò che Dio ha di più tipico, di più suo, di più caratteristico: la bontà.« Nemo bonus nisi unus Deus: » ma anche noi dobbiamo diventare buoni, anzi perfettamente buoni (estote perfecti), come Lui, come Dio. Non si può andare più in là, più in su. MaSan Paolo adopera un linguaggio ancor più espressivo, più enfatico, direi, se la parola enfasi non portasse con sé l’idea della esagerazione.Paolo vuole che ci riempiamo noi Cristiani, ci riempiamo di Dio, anzi, per usare proprio la sua frase, d’ogni pienezza divina. Quanti sono i Cristiani pieni di Dio? Ne conosco tanti pieni di ben altre cose, di vanità, d’orgoglio, di avarizia, di viltà, di invidia… ma pieni di Dio! Cerchiamo di fare noi questo miracolo in noi stessi, coll’aiuto di Dio, nel nome diCristo.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.

[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore, e tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua.

[Poiché il Signore ha edificato Sion e sarà veduto nella sua maestà.]

Alleluja

Allelúja, allelúja
Ps XCVII: 1
Cantáte Dómino cánticum novum: quia mirabília fecit Dóminus. Allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo: perché Egli fece meraviglie. Allelúia.]

 Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIV: 1-11
In illo témpore: Cum intráret Jesus in domum cujúsdam príncipis pharisæórum sábbato manducáre panem, et ipsi observábant eum. Et ecce, homo quidam hydrópicus erat ante illum. Et respóndens Jesus dixit ad legisperítos et pharisæos, dicens: Si licet sábbato curáre? At illi tacuérunt. Ipse vero apprehénsum sanávit eum ac dimísit. Et respóndens ad illos, dixit: Cujus vestrum ásinus aut bos in púteum cadet, et non contínuo éxtrahet illum die sábbati? Et non póterant ad hæc respóndere illi. Dicebat autem et ad invitátos parábolam, inténdens, quómodo primos accúbitus elígerent, dicens ad illos: Cum invitátus fúeris ad núptias, non discúmbas in primo loco, ne forte honorátior te sit invitátus ab illo, et véniens is, qui te et illum vocávit, dicat tibi: Da huic locum: et tunc incípias cum rubóre novíssimum locum tenére. Sed cum vocátus fúeris, vade, recúmbe in novíssimo loco: ut, cum vénerit, qui te invitávit, dicat tibi: Amíce, ascénde supérius. Tunc erit tibi glória coram simul discumbéntibus: quia omnis, qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.

[“In quel tempo Gesù entrato in giorno di sabato nella casa di uno de’ principali Farisei per ristorarsi, questi gli tenevano gli occhi addosso. Ed eccoti che un certo uomo idropico se gli pose davanti. E Gesù rispondendo prese a dire ai dottori della legge e ai Farisei: È egli lecito di risanare in giorno di sabato? Ma quelli si tacquero. Ed egli toccandolo lo risanò, e lo rimandò. E soggiunse, e disse loro: Chi di voi, se gli è caduto l’asino o il bue nel pozzo, non lo trae subito fuori in giorno di sabato? Né a tali cose poterono replicargli. Disse ancora ai convitati una parabola, osservando com’ei si pigliavano i primi posti dicendo loro: Quando sarai invitato a nozze, non ti mettere a sedere nel primo posto, perché a sorte non sia stato invitato da lui qualcheduno più degno di te: e quegli che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedi a questo il luogo; onde allora tu cominci a star con vergogna nell’ultimo posto. Ma quando sarai invitato va a metterti nell’ultimo luogo, affinché venendo chi ti ha invitato, ti dica: Amico, vieni più in su. Ciò allora ti fia d’onore presso tutti i convitati. Imperocché chiunque si innalza, sarà umiliato; e chi si umilia sarà innalzato”.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

UMILTÀ PRATICA

Nella sala del convito erano rimasti in piedi, con gli occhi sbarrati sul nuovo miracolo che Gesù aveva operato. Un povero idropico gli si era messo davanti sulla soglia invocando la guarigione: il Salvatore l’aveva toccato e sanato in un attimo. Passato il primo stupore, tutti pensarono al banchetto ed ecco molti affannarsi per correre a sedere nei posti migliori. Gesù li osservava. Poi, non tanto per insegnare una regola di civiltà esteriore, quando per inculcare a’ suoi fedeli la fuga dell’ambizione ed esortali, non solo a star contenti degli ultimi posti, ma ad amarli e preferirli con sincera umiltà, disse questa parabola: « Se mai ti capiterà la fortuna di essere invitato ad un pranzo di nozze, non correre a sedere nel primo posto. Può darsi che sia già stato invitato qualcuno più degno di te; e quegli che ha invitato te e lui venga a dirti: — Ritirati indietro. — Che figura allora per te dover lasciare in faccia a tutti il primo posto e andare a sedere in uno degli ultimi! Meglio allora, se t’avverrà d’andare a nozze, che tu ti metta a sedere all’ultimo posto. Il padrone, scorgendoti in luogo umile, ti dirà: — Amico, vieni più in su. — Che onore allora per te, esser condotto dallo stesso padrone, in faccia a tutti, a sedere al primo posto! « Chiunque s’innalza sarà abbassato, concluse Gesù, e chiunque s’abbassa sarà innalzato ». Questa non è soltanto la conclusione della parabola, ma può stare a conclusione di tutto il Vangelo. – La rovina degli uomini venne dalla superbia, quando Adamo in una follìa, che solo il demonio poteva rendere credibile, accettò il frutto proibito sperando di diventar uguale a Dio. La nostra salvezza, dunque, non ci poteva venire che dall’umiltà. Di umiltà fu il primo atto di redenzione: Dio che si fa uomo. Di umiltà la prima parola di Gesù quando dalla montagna promulgò la legge nuova: « Beati i poveri di spirito perché il regno dei cielo è loro ». Di umiltà è il modello che dobbiamo seguire: « Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore ». Non disse, come osserva S. Agostino, imparate da me a fabbricare i cieli e la terra; imparate da me a non mangiare né bere per quaranta giorni; imparate da me a risanar gli infermi, a scacciare i demoni, a risuscitare i morti, o far altre cose prodigiose; ma imparate, disse, da me ad essere mansueti ed umili di cuore. Discite a me quia mitis sum et humilis corde (Mt., XI, 29). Si può fare miracoli, e finire all’inferno; ma nessun umile di cuore verrà escluse dal paradiso, perché il paradiso è dei piccoli. Ma non è della bellezza dell’umiltà, non è de’ suoi vantaggi che io voglio parlarvi; ma è soltanto di alcune contingenze pratiche della vita in cui si distingue chi è umile, da chi è superbo. – 1. VINCERE IL RISPETTO UMANO. A Pollone, paese del Piemonte, durante una Messa festiva, mancando il sacrestano, era passato tra la folla un giovane distintissimo, figlio d’un senatore, studente universitario, con la borsetta a ritirar l’elemosina. Nell’uscir dalla chiesa, mentre i fedeli sfollavano, qualcuno gli si avvicinò e gli disse: « Oh, Pier Giorgio, sei diventato un bigotto! » E quel giovane, che è morto nel fior della vita e nel profumo delle santità, rispose semplicemente: « Non sono diventato niente. Sono rimasto quel che ero: un Cristiano ». Che cosa siamo noi? Ricchi e poveri, sapienti e ignoranti, re e sudditi, tutti siamo creature di Dio. Perché dobbiamo aver vergogna di umiliarci davanti a Lui che ci creò, perché dobbiamo aver rossore di compiere per Lui, anche i più umili uffici? Quei che si lasciano vincere dal rispetto umano sono superbi: ci tengono al giudizio della gente, hanno paura di essere presi come bigotti, come ignoranti, come persone di poco spirito. Per me, Davide non riesce mai così simpatico come quando me lo immagino danzare davanti all’Arca. Si doveva condurre l’Arca dalla casa di Obededon levita fino a Gerusalemme, e Davide organizzò un ingresso trionfale. Sette cori cantavano inni di lode, e ad ogni sei passi s’immolava un bue e un montone. Intanto davanti all’Arca Davide il re, deposte le insegne regali e vestito di un ephod di lino, saltava con tutte le sue forze come un fanciullo. Et David saltabat totis viribus ante Dominum (II Re VI, 14). Quando ritornò a casa, Michol, che l’aveva spiato dalla finestra, gli disse con pungente disprezzo: « Come stava bene oggi il re, danzante in faccia ai suoi sudditi come un buffone! » Ed il re le rispose fieramente: « Al cospetto del Signore, il quale elesse me piuttosto che tuo padre a capo d’Israele, io danzerò ancora di più; ancora di più mi avvilirò e sarò umile! ». Dei Cristiani che ragionano come Michol, ve ne sono ancora. Quanti non vogliono inscriversi alle associazioni e nelle confraternite, per non portare la candela nella processione, per non rivestire la divisa benedetta! Siamo umili, Cristiani! Il mondo ci chiami pure buffoni « Unus de scurris ». Davanti a Dio è gloriosissimo essere anche buffoni. – 2. ACCETTARE LE CORREZIONI. Serapio, il famoso Santo del deserto si vide un giorno comparire un certo monaco che quasi ad ogni parola si chiamava peccatore. Il Santo allora, dopo averlo fatto sedere alla sua mensa ospitale, si permise di fargli alcune osservazioni per il bene della sua anima. « Figliuolo — gli disse con grande dolcezza e carità — sei sulla via giusta. Però se vuoi progredire nella perfezione, non andar troppo in giro di qua e di là: rimani ritirato nella tua cella, attendendo all’orazione, al lavoro, al raccoglimento interno, altrimenti… ». Non poté finire, perché il monaco s’era fatto cupo, e tentava di rispondere malamente come fosse stato insultato. « Fratello mio, — disse al monaco — ti manca tutta l’umiltà ». Provate voi, a far la medesima correzione, ad una donna, ad una fanciulla: « Anima del Signore, sei sempre fuori di casa: di mattina, di mezzogiorno, di sera, sprechi ore e ore oziando, cianciando inutilmente… ». Basta un’osservazione di queste per suscitare una lite in tutta la contrada. Per essere umili non basta aver il coraggio, e ce ne vuol poco in questo caso, di manifestar alcuni nostri difetti, ma bisogna aver il coraggio di sentirseli dire dagli altri, e senza perdere la pazienza, ma con animo tranquillo, anzi riconoscente. Mancano quindi d’umiltà quei Cristiani che, quando il prete fa delle osservazioni nelle prediche, per tutto il giorno e per altri ancora, non fanno che mormorare. Mancano d’umiltà quelle mogli che non accettano correzioni dal marito; quelle nuore che non le accettano dalla suocera. Mancano d’umiltà quei figli, e quelle figlie anche, che, ai genitori che li avvisano in bene, hanno la sfrontatezza di rispondere: « I vostri consigli teneteli per voi, ho la mia età ». – 3. PERDONARE FACILMENTE. AI cominciar della quaresima del 1076, come in tutti gli anni in quel tempo, il Papa Gregorio VII teneva un sinodo. Erano convenuti moltissimi perché si dovevano trattare affari importanti e prendere urgenti deliberazioni contro l’imperatore Enrico IV che perfidamente angariava la Chiesa. Mentre tutti già erano adunati, entrò un messo dell’imperatore, Rolando. Costui aveva offeso più volte e crudelmente il cuore del Papa: lo aveva chiamato odioso tiranno, aveva sparso nel popolo la voce ch’egli non era il sommo pastore di Cristo, ma il lupo feroce. Come lo videro comparire, i presenti, indignati, scattarono e con le spade e i pugnali si lanciarono sopra quel tristo per trafiggerlo: ma il Papa, ch’era un santo, in una mossa fulminea era disceso dal trono e si mise tra le spade e il colpevole, coprendolo con la sua persona. « Rolando » gli diceva in mezzo al tumulto, « son io che ti salvo e ti perdono. E tu pentiti, che ti possa perdonare anche Iddio ». Quanta umiltà d’animo! Il Papa Gregorio VII era stato offeso nel modo più atroce e nel modo più ingiusto: eppure non aspetta che l’altro domandi perdono, è lui il primo che spontaneamente glielo concede, e lo salva dalla morte. Eppure, ci sono moltissimi Cristiani che vivono per anni ed anni, covando in cuore un odio terribile, e desiderando l’ora della vendetta. — Io non posso perdonare, il mio onore non me lo permette — rispondono alcuni. — Ma se perdona anche Iddio? dunque voi vi credete più in alto che Dio stesso. — Ma l’offesa che m’ha fatto è troppo grave. — Considerate con occhi d’umiltà questa vostra offesa, e vedrete che il Signore ne ha perdonato a voi di ben più gravi. È la vostra superbia che vi gonfia come un pallone un torto da nulla. — Sì, io gli perdono, ma deve venire a domandarmi scusa in ginocchio… — Ma questo è un perdono che tutti sanno dare; anche i pagani sanno perdonare così. — Sì, io perdono; ma però il torto che m’ha fatto non lo dimenticherò mai; non avrà più da me una parola. — Tutta superbia: le anime umili perdonano facilmente, dimenticano subito le offese, e beneficano di preferenza quelli da cui ricevettero qualche male. – 4. PREGARE CONTINUAMENTE. Dio è tutto. Noi siamo nulla. Quando Sansone, cedendo alle insidie d’una donna, perse coi capelli la grazie di Dio, divenne debole come un bambino, ed i fanciulli stessi se ne facevano ludibrio. Talvolta lo sorprendevano a dormire, o assorto nel dolore della sua abbiezione, e improvvisamente gridavano: « Sansone, levati! levati! ti sono sopra i Filistei. » Egli si levava, imponente come una torre, credeva di abbatterli tutti con un pugno gli eserciti dei Filistei, e invece s’accorgeva che tutta la sua forza lo aveva abbandonato, e non avrebbe più saputo far male a un passero. E tornava ad accasciarsi disperatamente. Come mai, giovanetto ancora, s’era avventato sopra un leone, e afferrandolo per la gola l’aveva squartato in un colpo? Come mai con un osso d’asino era riuscito a sgominare un esercito armato di spada e di scudo? Come mai un mattino, da solo, aveva sconficcato dai cardini le porte di Gaza e con quelle era corso sul monte? Per la grazia di Dio. E senza la grazia di Dio? Non ha potuto far nulla. Così anche noi, Cristiani. Tutto quello di buono che siamo o che facciamo è solo per la grazia di Dio. Dunque, bisogna continuamente invocarla questa grazia: ogni mattina, ogni sera; quando lavoriamo, quando mangiamo; mentre godiamo, mentre soffriamo; nella preghiera e nella tentazione. – Gesù camminava davanti, solo: forse pregava. Intanto dietro gli Apostoli litigavano, discutendo chi di loro doveva essere il primo nel regno dei cieli. Forse Giovanni, il prediletto, ch’era il più giovane? Forse Andrea che fu uno dei primi a seguire Gesù? Forse Pietro ch’era costituito capo dei dodici? Forse Giuda che teneva il danaro per tutti? Gesù li sentì, e volgendosi disse: « Gli ultimi saranno i primi ». O Cristiani! chi di noi ascenderà più in alto in paradiso? chi di noi sarà il primo nel regno dei cieli? Non il più ricco, non il più sapiente, non il più bello, ma il più umile. — GLI AMMALATI. « Chi di voi, se gli è caduto l’asino o il bue nel pozzo, non lo estrae subito, anche se è giorno di festa? » Nessuno osò replicare. Quando risplende la luce piena, come appare brutta una lucciola! La giustizia formalistica, vuota dei Farisei, era troppo meschina davanti al soffio vivo, intensa di carità che spirava dal cuore di Gesù. Le infermità fisiche hanno sempre suscitato la compassione del Redentore divino, si direbbe, prima ancora delle infermità spirituali e morali. Apparivano a Gesù come il segno delle miserie più profonde dello spirito, per le quali era venuto propriamente dal Cielo? Voleva Gesù arrivare più efficacemente allo spirito, guarendo i corpi e sorreggendo le nostre molteplici debolezze temporali? Sì, tutto questo. Gli uomini, invece, sono troppe volte ciechi, insensibili per le malattie dell’animo, perché poco badano ai dolori fisici del loro prossimo. Potremmo quasi stabilire una proporzione: tanto più un Cristiano è delicato di spirito, quanto più comprende, ama e cura il dolore e le infermità del suo prossimo. Ai cari malati, dunque, il nostro pensiero: li dobbiamo amare; li dobbiamo curare. – 1. AMARE GLI AMMALATI. I missionari cattolici non trovarono mai campo così difficile da conquistare alla fede, come i Maomettani. Quante esperienze finirono nel sangue! La predicazione aperta fu loro proibita; ma essi scelsero il metodo di praticare soprattutto la carità, prima di insegnare. E davanti ai pionieri del Vangelo che curano gli ammalati e proteggono gli infelici, anche l’orgoglio musulmano si piega all’ammirazione, poi alla fede. Suor Rosalia, figlia della carità, è al lavoro nel suo dispensario. Per cavare i denti a quei poveretti, bisogna vincere il terrore dei ferri e la suora usa le più belle espressioni arabe. « Suvvia mio cuore, mia anima, occhi miei! »; e una povera donna guarita se ne va dicendo: « che Allah conservi le tue mani! ». Alcuni musulmani che aspettano il loro turno ragionano tra loro: « Se tutti gli infedeli (Cristiani) andranno all’inferno, per suor Rosalia si farà un’eccezione ». Quando a Damasco la suora curava un povero ammalato, si sentì dire: « Son ridotto in miseria con mia moglie e i miei figli e nessuno de’ miei pensa a consolarmi. Tu che sei straniera vieni nella mia povera casa ad aiutarmi; la tua religione è migliore della mia ». La luce si avanza in quegli spiriti. Assistendo una giovane musulmana aggravatissima, la suora le aveva dato una medaglia della Vergine che l’ammalata baciò e sospese al collo. La suora si fece coraggio e presentò il Crocifisso. È inaudito per un musulmano baciare il Crocifisso; ma la giovane bacia il Crocifisso; e i parenti e gli amici approvano: « Oh, sì, accetta pure tutto ciò che tocca questa religiosa, perché val più una di queste creature che non tutti i dervisci nostri presi assieme ». Gesù amò gli infermi. Non diede a’ suoi Apostoli come primo programma: « curate gl’infermi, risuscitate i morti, mondate i lebbrosi, scacciate i demoni ? » (Mt., X, 8). Le opere di misericordia corporale e spirituale furono sempre la migliore attuazione pratica del Vangelo e conducono sicuramente a convertire i cuori. I malati sono Gesù stesso, che dolora, che aspetta conforto. Sono la parte più sensibile del Corpo Mistico. L’istinto vivo della propria conservazione, le ansie crescenti per l’inerzia forzata, per i lavori interrotti, per l’abbandono della casa e dei figliuoli, per la lunghezza del male, le speranze sempre più incerte, i timori sempre più cupi, danno al malato un’estrema sensibilità. Non per nulla satana, che conosce tutta la miseria umana, riservò al santo Giobbe la malattia come prova estrema, dicendo al Signore: « Stendi la tua mano, toccalo in viso e nel corpo e vedrai se continuerà a benedirti » (Giobbe, II, 4-5). Si diventa migliori o « più Cristiani » come dice tanta buona gente, quando si sanno raccogliere tutte queste situazioni di dolore nel nostro cuore, e si visitano gli ospedali o si è saliti in qualche tugurio. Che effetti il peccato! Come è vano il mondo! Come costa il paradiso! Che meriti per la gloria! – 2. CURARE GLI AMMALATI. S. Ignazio di Loyola, grande conoscitore degli uomini, per provare la stoffa dei suoi novizi, tra gli esperimenti voleva un mese di servizio negli ospedali speso a consolare e a soccorrere gli ammalati. Stimava, poi, come disposizione speciale di Provvidenza d’aver egli stesso sofferte tante malattie e debolezze corporali, per comprendere e compatire più intimamente le malattie degli altri. Così padrone di sé in tutti gli avvenimenti, quando si trattava di malati, specialmente un po’ seri, non riusciva talora a nascondere la sua commozione, tanto era l’amore per essi, Li visitava personalmente, in tempi determinati, osservava con scrupolo se venivan dati con puntualità i cibi e le medicine, e qualche volta fu visto il Santo superiore a scopare la stanza dell’ammalato, a sbattere e a pulire le lenzuola e prestare anche più umili servigi. Una volta, mancando danaro, dié ordine di vendere stoviglie e biancheria perché gli infermi avessero il necessario. E quando il dispensiere gli fece osservare che c’erano in cassa solo tre monete, sufficienti per la comunità, rispose « si spendano pure per l’ammalato! noi stiamo bene e in caso di necessità ci aggiusteremo con un po’ di pan duro ». I Santi facevano così. Quanti Cristiani, invece, di stile 900, sentono difficoltà, forse ripugnanza, a trattare, a soccorrere, a consolare i malati! È proprio di altri tempi che qualche cuore degenere arrivasse a… maledire, a invocare la morte ai propri malati?! Quante esigenze, invece, per se stessi! E quali smanie per un dolore che ci colpisce! Circondiamo i nostri malati di cure materiali. Nel cerchio della famiglia, un padre, una mamma hanno diritto di vedere ne’ loro figli i migliori e più devoti infermieri. Proprio come i nostri sensi e le nostre membra che partecipano attivamente ai mali del nostro corpo. Non si deve badare a noie, a… spese per procurare ai nostri cari una coscienziosa assistenza. E gli altri ammalati, soprattutto i poveri? Fatta proporzione e fin dove è possibile, ogni cura sarà fatta a Dio. Assistere, vegliare, privarci noi qualche volta anche del necessario oltre che del superfluo, è finezza di carità che il nostro cuore cristiano dovrebbe conoscere. Ciò che ancora più importa sono le cure spirituali. È qui dove possiam distinguerci da un pagano che nelle cure materiali potrebbe superarci. Perché non santificar la festa anche visitando gli ammalati? Certe buone mamme di un tempo andando nella borgata o in città, calcolavano anche una visita all’ospedale. E portavano magari primizie di frutta. Che profumo certe delicatezze di carità! È pur facile iscriversi alle Conferenze di S. Vincenzo, per venir a contatto con miserie impensate. Preghiamo per i malati. Vicino agl’infermi preghiamo con loro, rammentando l’Angelo Custode, il nome, l’esempio della Madonna, il divino modello, Gesù. Prepariamo e procuriamo la visita del Sacerdote. Disponiamo con dolce prudenza, ma con sincerità, per gli ultimi Sacramenti, nei casi gravi. Oh il delitto, il tradimento dei parenti e degli amici, che ritardano, impediscono tali conforti, voluti da Dio e dalla Chiesa per le anime de’ nostri cari! – I miracoli noi non li faremo, come Gesù, ma quanto balsamo verseremo con la nostra carità nel cuore dei sofferenti. Gesù accolse il povero idropico con fine comprensione, Lo vide incerto se chiedere la guarigione; forse per timore che i Farisei gli rimproverassero di profanare il giorno di sabato. Eppure, desiderava, il poveretto, di essere soccorso nel suo imbarazzo e soprattutto nel suo dolore. E Gesù lo previene, lo attira delicatamente a sé, lo tocca, lo guarisce, e lasciatolo partire in mezzo al silenzio attonito di tutti, lo difese, lanciando una sferzata terribile al cuore cattivo di quei paladini della legge che avrebbero posposto un loro fratello ad un… asino od un bue di stalla.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 14; 15
Dómine, in auxílium meum réspice: confundántur et revereántur, qui quærunt ánimam meam, ut áuferant eam: Dómine, in auxílium meum réspice.

[Signore, vieni in mio aiuto: siano confusi e svergognati quelli che insidiano la mia vita per rovinarla: Signore, vieni in mio aiuto.]

Secreta

Munda nos, quǽsumus, Dómine, sacrifícii præséntis efféctu: et pérfice miserátus in nobis; ut ejus mereámur esse partícipes.

[Purificaci, Te ne preghiamo, o Signore, in virtù del presente Sacrificio, e, nella tua misericordia, fa sì che meritiamo di esserne partecipi].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei,

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.

V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXX: 16-17;18
Dómine, memorábor justítiæ tuæ solíus: Deus, docuísti me a juventúte mea: et usque in senéctam et sénium, Deus, ne derelínquas me.

[O Signore, celebrerò la giustizia che è propria solo a Te. O Dio, che mi hai istruito fin dalla giovinezza, non mi abbandonare nell’estrema vecchiaia.]

Postcommunio

Orémus.
Purífica, quǽsumus, Dómine, mentes nostras benígnus, et rénova coeléstibus sacraméntis: ut consequénter et córporum præsens páriter et futúrum capiámus auxílium.

[O Signore, Te ne preghiamo, purifica benigno le nostre anime con questi sacramenti, affinché, di conseguenza, anche i nostri corpi ne traggano aiuto per il presente e per il futuro].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (269)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

RISPOSTE POPOLARI ALLE OBIEZIONI PIU’ COMUNI CONTRO LA RELIGIONE (12)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO XII.

FEDE

I. Io non posso credere. II. Mi bastano le verità naturali. III. La mia ragione non può ammettere altro.

Che ci voglia una religione, sia pure in buon’ora, ma sia la religione che insegna la stessa natura. Alla contemplazione dei cieli e della terra, delle campagne, dei fiori, delle marine surgono naturalmente nell’uomo di vani affetti: la mente è rapita in estasi di ammirazione, il cantico dell’amore si sprigiona dal cuore, l’inno di ringraziamento sale come incenso al cielo; ed ecco la religione. A che dunque metterci sempre dinanzi la vostra fede che è lo scoglio, la morte, l’annientamento di quella nobil ragione che il Signore ci ha data? Io per me non posso credere, non posso riconoscere la vostra soprannaturalità, ed è la mia ragione stessa che ne lo vieta. – Così discorrono certe teste romantiche ed irreligiose: ma con quanto onore di quella ragione che tanto vantano, ora lo vedremo.

I. Prima di tutto, dicono, io non posso credere: ma hanno costoro mai compreso una volta ed un po’ chiaramente quello che sia la fede? Ecco, o lettore, la prima cosa che si vuol discorrere un istante. La fede, in quanto oggetto delle nostre credenze, non è altro che una serie, una collezione preziosa di verità che Iddio, veracità infinita, si è compiaciuto di palesare agli uomini: la fede, in quanto è in noi, non è altro che l’assenso dell’intelletto a quelle medesime verità: assenso prestato sull’autorità di Dio medesimo che le ha rivelate: ondeché credere non è altro che prestare assenso ad un Dio che parla. – Ora io vi domando, qual è in questo atto così semplice il punto sì arduo che voi non potete superare? Qual è quello intorno a cui la vostra ragione urta sì gravemente? Forse la vostra ragione v’insegna che Dio non possa parlare agli uomini? Ma sarebbe pur bella che quegli, che ha formato l’uomo, che gli ha dato la favella, non potesse far intendere la sua voce e la sua volontà. A niuno, credo, cadde mai in mente pazzia così solenne. Forse non conviene a Dio il parlare? Ma qual ragione, anche solo apparente, può persuadere che disconvenga a chi ha formato l’uomo l’averne anche provvidenza, e rifornirlo di tutte quelle cognizioni ed ammaestramenti che possono tornargli giovevoli? Sarebbe un paradosso l’affermarlo. Forse manca a Dio il diritto per farlo? Ma questo sarebbe più che un paradosso, sarebbe una bestemmia. Imperocché, come fonte di tutti gli esseri, Egli ha pieno diritto d’imporre ad ogni uomo i suoi voleri, senzaché vi sia in cielo od in terra chi possa appellare dalla sua suprema autorità. Certo la ragione vostra non potrà mai persuadervi alcuna di quelle storture, niuno di que’ deliri. Fin quì dunque non si vede troppo perché, in nome della vostra ragione, non possiate credere. – Resterebbe dunque che ciò avvenisse per una di queste due ragioni, o perché non siate certo che Dio abbia parlato, o perché, essendo certo che Dio ha parlato, possiate sospettare della sua veracità. Questa seconda supposizione, oltre all’esser empia, è così assurda, che mai nessuno né eretico né incredulo osò affermarla; non vo’ dunque fare al mio lettore il torto di confutarla: ci riduciamo adunque alla prima, del non essere voi ben certo se poi veramente Iddio abbia parlato. – Il proporre e spinger oltre questa difficoltà proviene solo dal non conoscere in qual modo ci sia proposta ad esercitare la fede. Presupponete dunque che nell’esercizio di essa vi sono due atti: l’uno è l’atto del credere, l’altro di voler credere. Il primo atto è dell’intelletto, il quale si sottopone all’autorità di Dio che parla, l’altro è l’atto della volontà, la quale comanda, dirò così, all’intelletto che si sottoponga. Ciascuno di questi due atti ha il proprio motivo. L’atto dell’intelletto ha per motivo l’autorità di Dio che parla, l’atto della volontà ha per motivo tutte quelle prove, per cui ci appare fuori di ogni dubbio che Dio abbia parlato. Così in una corte si crede a quello che dice un. ambasciatore, perchè è ambasciatore : ma the egli sia tale non si crede se non perché ha mostrato le sue credenziali. Ora la nostra fede ci nasconde forse le credenziali, vo’ dire le prove che dimostrano che è un Dio quello che ha parlato, che è quel solo che possiamo chiedere ragionevolmente? Tutto l’opposto: ce le schiera dinanzi e belle e limpide ed evidenti, ed in tanto gran numero che si può dire che non solo siano bastevoli ma pur soverchie: Testimonia tua credibilia facta sunt nimis. – Sarebbe lungo il mettervele qui tutte in nota e spiegarle in tutta lor forza, perché non basterebbero ampi volumi: tuttavia ricordate così in confuso che a provare che Cristo è Dio, e che quindi è un Dio che ha parlato, vi sono quaranta secoli di oracoli e profezie che, raccolte insieme, formano tutta la vita del Redentore, ed autentiche per testimonianze dei Gentili non meno che dei Giudei; che vi è la vita stessa di Gesù piena di prodigi strepitosissimi operati in confermazione dì tal verità; che vi è la propagazione e la conservazione del Cristianesimo, ottenuta per mezzi che umanamente dovevano anzi spegnerlo e metterlo in fondo; che vi è una cattedra di verità da Lui eretta, ed inconcussa ed immota dopo diciannove secoli di lotte e contraddizioni; che vi è in favore di tal verità la testimonianza di legioni intere di Martiri e l’eletta degli ingegni più preclari che abbia avuto il mondo: che se dopo tante prove il mondo fu ingannato, l’errore è partito dal trono della stessa divinità. Vedete adunque che la nostra fede non lascia di rischiararci in quel solo punto che può ragionevolmente chiamarsi ad esame. Ma dopo che ha bene stabilito che Dio ha parlato, ci fa poi forse torto a pretendere che noi ci sottomettiamo a quello che un Dio ha manifestato? Sarebbe un oltraggio gravissimo il non arrendersi prontamente ad ogni sua parola. Anche voi che siete un omiciattolo della terra vi avete per male che alcuno mostri di non credervi, quando favellate da senno: eppure potreste anche allora voler ingannare per malizia, poiché siete capace di colpa, od essere ingannato per ignoranza, perché siete fallibile. Fate ragione adunque se competa a Dio l’esser creduto sulla parola, mentre Egli è suprema verità in sé stesso; e veracità infinita rispetto a noi. Resta adunque evidente che non è per verun modo contrario alla nostra ragione che Dio ci obblighi a credere, e che quindi quel non posso credere altro non è che un superbo non voglio piegarmi alla divina autorità.

II. Io ho bisogno, replicano, di altre verità; mi basti quello che la mia ragione m’insegna. Questa replica è sacrilega e blasfema per ogni verso. Basta a voi.., ma non si tratta di vedere quello che basta a voi, si tratta di quello che basta a Dio. E se Dio volesse per sua bontà manifestarvi verità, cui non può arrivare la vostra ragione, vi darebbe l’animo di rifiutarle e gettargliele sul volto? E se Dio volesse colla sua autorità imporsi obbligazioni, e darvi precetti che non può naturalmente conoscere la vostra ragione, avreste mai qualche diritto di sottrarvici? Ebbene questo appunto è accaduto. Gesù Cristo volle manifestarvi che il fine ultimo degli uomini non è una felicità qualunque, ma una beatitudine consistente nella visione chiara di Lui; che per conseguirla ci volevano opere fatte in istato di grazia; che per ottenere queste grazie s’aveva da credere al divin Redentore, che Egli aveva legato i mezzi della salute ad un sacrificio determinato ed a riti speciali che chiamiamo Sacramenti; che in una società sola, qual è la Chiesa, sono accolti tutti i mezzi della salute; che Egli non avrebbe riconosciuti per suoi se non quelli che fossero vissuti conformemente a queste sue leggi; che avrebbe condannato a fiamme eterne quanti non si fossero arresi a’ suoi dichiarati voleri; ha dilatato, in una parola, i confini della natura, ha perfezionata la ragione, ha sublimato l’uomo, l’ha innalzato per grazia alla dignità di figliuolo di Dio, l’ha fatto Dio per partecipazione, e vuole che viva ed operi siccome tale: non ha forse diritto a tutto ciò? Sto a vedere che l’uomo ormai farà la legge a Dio, e che gli prescriverà quello che basta e quello che non basta, che porrà limiti alle comunicazioni divine, che farà le Condizioni sotto cui si contenta di accettarle! Quando avete questi diritti potevate anche crearvi da voi, da voi conservarvi, da voi provvedervi, e formarvi da voi l’ultima beatitudine: così sarebbe compiuta la vostra indipendenza. Il ridicolo non è qui congiunto col blasfemo? – E tuttavia v’è da fare un passo più oltre. La fede non solo non è in opposizione colla ragione, ma anzi le è conformissima. E come no, se noi per mano di natura siamo condotti a non vivere se non di fede, accíocché l’essere lungamente avvezzi alla fede umana ci prepari a quella tanto più nobile che è la divina? L’osservazione è di antichissimi Padri e di molti tra i moderni, e voi la potete fare a vostro agio. Che cosa è tutta la nostra infanzia e gioventù se non un credere cieco ai genitori, un fidarci sicuro ai maestri? Che cosa è il commercio intimo della vita se non un credere perpetuo agli uomini? Cominciando dal credere che questi e non altri sono i nostri genitori, crediamo al servo che così s’ha da lavorare, al cuoco che così s’hanno da governare le vivande, all’artiere che così si ha da condurre l’opera, al contadino che così si ha da arare il campo, al leggista che così abbiamo da racconciare i nostri interessi, al medico che così abbiamo da trattare la nostra infermità, e crediamo tanto che giungiamo a mettere loro in mano le nostre sostanze, i nostri interessi e persino la nostra vita: non è vero? Ora comprendiamo noi forse le ragioni intime dell’operare di tutti costoro? Niuno v’ha al mondo che possa promettersi tanto di sé: crediamo che ognuno in particolare sappia quello che si fa, e noi ci sottomettiamo pienamente. E chi volesse prima di accettare l’opera di alcuno •farsi dar conto di ogni motivo della sua condotta, sarebbe stimato un pazzo, e trattato qual pazzo da tutta la società. E con tutto ciò non si è mai inteso che fosse contrario alla nostra ragione l’aver sempre in atto la fede umana? Se già non si vogliono condannare come irragionevoli tutti gli uomini, non certo. Ma se non è contrario alla ragione il credere agli uomini, perché sarà contrario alla ragione il credere a Dio? Oh che? Saremo di una natura per quello che risguarda le cose terrene, e di un’altra per le celestiali? Chi sa che non si faccia un bel giorno anche questa scoperta. Finché però non è fatta, noi continueremo a credere che la nostra ragione abbia nulla di ragionevole da opporre alla fede. – Anzi più, tanto crederemo ragionevole la fede che stimeremo cosa al tutto da pazzi il rifiutarvisi. Se non vi farò toccare con mano che sia così, non mi date più retta. Non è egli vero che è ugualmente assurdo il credere quando non vi è fondamento di credere, ed il non credere quando questo fondamento vi è? La sana ragione condanna il primo perché è troppo credulo, perché beve grosso: ma condanna anche l’altro perché è capocchio, è ostinato. Difatti immaginate che io ricusassi di credere che esista l’America perché ormai non vi ho navigato, o che non sia stato al mondo il primo Napoleone perché mai non l’ho veduto, che concetto fareste di me? Senza farmi gran torto, mi potreste confinare all’ospedale dei pazzi. Come! È piena l’Europa dei prodotti dell’America, vi sono fra noi degli Americani, molti de’ nostri concittadini l’hanno percorsa, e se ne può dubitare? Similmente abbiamo tutta la storia di quell’Imperatore minutamente descritta, sono al mondo anche molti che lo hanno veduto, persino i fanciulli sanno a mente i nomi di Marengo, di Ulma, di Dresda, della Beresina dove ha fatto le sue imprese, e tuttavia si perfidia a negare la sua esistenza? Vedete adunque che può operarsi contro ragione anche nel discredere un fatto. Ora è da sapere che niun fatto consegnato nella storia, comprovato coi monumenti è così solenne, così indubitato, così innegabile, che non sia ad assai inferiore nel numero e nella autenticità delle prove al gran fatto della venuta di Cristo e della sua rivelazione. Qui convengono la storia, la tradizione, i monumenti eretti dagli amici e dai nemici, dai dotti e dagl’ignoranti, dai creduli e dagli increduli, dai barbari e dai civili, sì che non si possa recare in dubbio senza dare una mentita solenne a tutto l’umano genere: come dunque non sarà un’assurdità agli occhi stessi della ragione il non credere un fatto così provato? E dunque vero a tutto rigore quello che affermano i savi che, per discredere al Cristianesimo e per gittare la fede, bisogna prima aver perduta la ragione. Pensate adunque se la ragione possa opporsi alla fede! – E si conferma tutto ciò con due ragioni di gran peso: La prima è che di fatto gli uomini, che ebbero maggior potenza di ragione che sono i grandi ingegni, tutti credettero. Niuno sarà per negare che quelli, che noi chiamiamo Padri della Chiesa, fossero in ogni secolo quello che il mondo ebbe di più chiaro e profondo in sapere. Levate dall’Africa Tertulliano, S. Agostino, S. Fulgenzio, S. Cipriano ed Arnobio, e poi ditemi in quelle età quali fossero i veramete dotti Africani. Togliete dalla Grecia i Basili, i Crisostomi, i Gregori, gli Origèni, i Teodoreti, in una parola i Padri, e poi indicate uomini che in quell’età abbiano lasciati monumenti uguali ai loro. Fate lo stesso intorno ai Latini: mettete Girolamo; Ambrogio, Leone, Gregorio, Ruffino in confronto dei dotti di quell’età, e vedete se non sopravvanzino tutti nel paragone. Nei secoli di mezzo le fiaccole che rompono le tenebre più dense sono senza stanco veruno Beda , Alcuino , S. Anselmo, Lanfranco, Alberto Magno, d’Ales, lo Scoto, S. Tommaso, S. Bonaventura. Or questi che furono i maggiori uomini de’ loro secoli, quelli che più usarono la ragione, come ne fanno fede indubitata i loro volumi che riempiono le nostre biblioteche, tutti credettero, e credettero sì fermamente, che operarono quasi tutti eroicamente in favore della lor fede: che cosa vuol dir questo? Non è una evidente confermazione che la ragione tanto non si oppone alla fede, che anzi le rende la chiara testimonianza? In caso contrario, converrebbe ‘dire che l’errore fosse il retaggio principalmente de’ savi; ma spero che il lettore n0n sarà tanto pazzo da affermarlo. – L’altra osservazione in confermazione dello stesso vero, si tolga dal contrario. Chi sono stati in tutti i tempi quelli che non hanno potuto credere? Quelli che hanno usato meno della ragione. Non solo per sentenza degli uomini di Chiesa, ma pure per autorità dei filosofi, gli uomini che adoperano meno la ragione, sono gli ignoranti ed i passionati. Quelli sono incapaci di formare discorsi e deduzioni più ampie, poste le tenebre in cui giacciono immersi; questi ne sono incapaci, perde la passione falsa loro in capo il giudizio e dà il tracollo all’intelletto. E siccome fra le passioni, le due più veementi sono la superbia dello spirito e la corruzione del cuore, così queste due tolgono più che qualunque altra l’uso della ragione. Ora, mirate fatalità! da queste classi appunto, cioè dagli stupidi per ignoranza, dai frenetici per orgoglio, dai fracidi per immondezza, si riempiono le file degl’increduli. – Degli ignoranti in primo luogo. Questa è questione di fatto, e col fatto si vuol definire. L’incredulità pullula a’ dì nostri pur troppo fra la gioventù e fra le classi operaie e cittadinesche, come deplorano tutti i savii. Ma dove e come si forma tale la gioventù? Essa esce da que’ collegi che, tolti agli uomini di Chiesa e confidati a mani o inesperte o infedeli, ricevono solo una cognizione superficiale di religione, o non ne ricevono punto. Come si formano increduli gli artieri? Col distorglierli che si è fatto con mille arti di seduzione dall’apprendere nelle Chiese nei dì festivi un po’ chiaramente la verità di essa fede. E le classi cittadine come giungono a perder la fede? Si sono totalmente per rispetto umano sviate dalla Chiesa, e col non udir mai dichiarazioni opportune, annebbiandosi sempre più in loro quelle imperfettissime cognizioni della fede che ebbero nell’infanzia, sono diventati la vittima di ogni più meschino sofisma. – E come potrebbe essere diversamente? Se vivete in mezzo alla società, dovete aver conosciuto più d’uno di quelli che fanno professione d’incredulità; se usate legger giornali, avete dovuto imbattervi spesso in chi bestemmia da incredulo. Ora, ditemi con sincerità: E gli uni e gli altri sono poi quello che di più savio, di più dotto, di maggiormente istruito possiede la società? Vi sembrano proprio quelli gli uomini che debbono avere scoperte ragioni novissime, che erano sfuggite all’acutezza di un Agostino, di un Tommaso e di tanti Dottori che hanno logorata tutta la vita nello studiare ed ammirare le profondità santissime della fede? Possono essi adunque per scienza che ne abbiano, sfatare tutta l’antica sapienza? Essi cogli studi che hanno fatto…. colle occupazioni gravissime in che li vediamo inabissati tutto il giorno, di godere la vita, di deliziare, di giocare, di trescare, e peggio? Il solo guardarli in faccia basta a dimostrare con ogni evidenza che è ignoranza crassa, ignoranza brutale quella che li fa miscredenti. – Che se aprono poi la bocca e fanno sentire le profonde ragioni, sopra le quali stabiliscono la loro incredulità, la dimostrazione prende l’evidenza che ha il sole nel pien meriggio. Che cosa hanno finalmente da opporsi alla fede? Sofismi volgari, triviali, ripetuti le mille volte, e mille volte già esposti e risoluti con tutta chiarezza dai sacri Dottori. S’avvolgono in una confusione che è una pietà a vederli. Non sanno quale sia la dottrina cartolica, quale l’eterodossa. Impugnano quello che nessun difende, difendono quello che nessuno impugna; attribuiscono alla Chiesa quello che la Chiesa tanto non professa, che anzi condanna: si fingono avversari dove non li hanno, per aver la gloria dell’eroe celebre della Mancia di combatterli sino all’ultimo sangue; mentre non sanno poi profferir parola contro quello che è veramente dottrina della Chiesa e verità. Le profonde speculazioni teologiche dei Renan, degli’About, dei Botteri, dei Govean, dei Bianchi-Giovini, dei Bonavini, ed anche del Siécle e dei Débats , e di altri paladini della miscredenza odierna bastano a far ampia fede della peregrina scienza di religione onde sono adorni. E proprio tutta luce quella che li acceca! – Qualche anno fa un Sacerdote gravissimo trovossi in una vettura pubblica a fare un viaggio, e come uomo un po’ astratto che era, stava tutto immerso nella lettura di un suo libro senza por mente ai suoi compagni di viaggio. Una signora che s’annoiava di tanto silenzio, un tratto che quegli aveva deposto il libro, colse il destro di avviare un poco di conversazione, e cominciò col protestare e vantarsi che essa, in fatto di religione, era incredula pienamente. Avrà, replicò allora il Sacerdote, avrà la signora letto qualche cosa, io mi penso, di Bossuet, di Fénélon, di La Luzerne, di Bergier. Non perdo il mio tempo in quelle cianciafruscole. Ma almeno il Valsecchi, il Segneri, qualche Catechismo un po’ ampio. Sì, proprio autori da occuparsene! Quando è così, perché dice di essere incredula? essa non è mai stata incredula, l’assicuro io; ella è semplicemente una stolida, un’ignorante. E questa conclusione quadra a cappello a moltissimi che si vantano d’incredulità. – L’altra fonte della incredulità è la superbia. Lasciando in disparte le prove che ne danno tutti gli eresiarchi antichi, è certo che i due padri dell’incredulità moderna sono Lutero e Calvino. Or l’orgoglio del primo fu tale, che lo portò ad insultare tutti i principi e re ed imperatori del suo tempo, a disprezzar tutti i Padri della Chiesa, a protestare che mille Cipriani ed Agostini non valevano quanto lui, Che prima di lui mai nessuno aveva inteso nulla della Chiesa, della fede, della legge, dei Sacramenti, delle Scritture, e ciò con tanta frenesia, che, per sentenza anche dei suoi, diede nel pazzo. L’arroganza, la superbia, l’impudenza resero Calvino sì intollerabile a’ suoi seguaci, che ne uscì allora il detto, esser meglio ire all’inferno con Teodoro Beza, che andare in cielo con Calvino. E la superbia che fondò il regno della incredulità è poi quella che lo mantiene a’ dì nostri. Ricusarono quelli per orgoglio diabolico di sottomettersi a quello che credettero tutti i loro contemporanei, ricusano tanti spiriti superbi al presente di sottomettersi a quello ché credono i fedeli odierni. Come! dicono tra sé, io che ho tanti studi, tante cognizioni, ho da credere quello stesso che crede un uomo dozzinale, ho da praticar quello stesso che usa una femminuccia? Non è possibile. E qui lo spirito della superbia li punge, gli aizza, non li lascia quetare: per brama di apparir singolari si appartano dagli altri, vantano nuove dottrine, la fanno da increduli e bestemmiatori. – Un mediconzolo, qualche tempo fa, davanti a varie persone che parlavano di religione: non so perché, disse, i preti abbiano tanta difficoltà ad ammettere la transustanziazione, quando. . . . Ma, scusi, l’interruppe un altro, non vi hanno alcuna difficoltà, poiché la difendono contro i luterani. Volevo dire, ripigliò il dottore, con tanto calore la difendono, quando.. . . Non vada oltre, gli disse allora uno che lo aveva a maraviglia compreso, anche senza quella dramma d’incredulità, sappiamo che ella è uomo di gran polso. E questo è per molti tutta la ragione dell’essere increduli, il voler apparire uomini tanto agli altri superiori, quanto audaci e più singolari. – Così certo l’hanno confessato al letto di morte tutti gli increduli più svergognati del secolo scorso. Alla luce tuttoché fioca della candela mortuaria hanno veduto le cose alquanto meglio che non le avevano vedute in vita. Tutte le grandi obiezioni e difficoltà erano scomparse, restava solo in piè la colossale superbia da confessare e da detestare in tempo per non dovere incorrere i castighi che la fede aveva minacciato. – La sorgente però che mena in maggior copia le acque fangos della incredulità è, a detta dei savi, senza alcun dubbio la corruzione del cuore. L’uso soverchio dei diletti corporei turba la mente e non lascia più concepir nulla che non sia animalesco; gli affetti del cuore impigliati nelle sordidezze non possono volgersi alla fede che è purissima, e soprattutto il bisogno di non credere alla fede per non doverne temere i castighi, aguzza l’ingegno ad investigare ragioni, affine di persuadersi che la fede non è altro che una finzione. – Se io dovessi parlare a quattr’occhi ad uno di costoro, vorrei convincerlo in questo modo: Orsù, io gli direi, voi affermate di non poter credere: ma da quanto tempo è che vi sono entrati in mente dubbi sì gravi? Forse nei primi anni di vostra giovinezza, quando costumato, sobrio, pudico menavate con tanta tranquillità giorni innocenti? Eh allora la vostra fede vi pareva pur bella, e non vi saziavate di ammirarne le glorie. Era bello per voi vederla sorgere maestosa fra le rovine dell’idolatria da lei conquisa, e di sotto le mannaie dei proconsoli e degli imperatori che la volevano spegner nel sangue. Le si presentavano contro tutti i vizi armati per farle ostacolo, la superbia, l’avarizia, la libidine, ogni abominazione, ed essa passava oltre calpestandoli tutti, e rendeva casti i dissoluti, umili i superbi, amanti solo del cielo quei che non sospiravano che alla terra. Che se non bastando a contenerla già soverchiante verun riparo, si corse al ferro ed alle stragi, oh allora sì che cominciano le sue glorie. Cadeva una vittima e cento sorgevano ad occuparne il luogo; uno era tolto e cento gliene invidiavano la sorte. Vi ricordate di quelle dolci memorie che forse vi hanno cavato un tempo le lagrime, di una Cecilia, di un’Agata, di un’Agnese, di un Vito, di un Primo, di un Valeriano, e di altri innumerevoli o verginelle delicate, o fanciulletti innocenti che volavano al cospetto de’ proconsoli infelloniti, e col cuore pieno di Gesù e coll’anima giubilante pel vicino martirio li sfidavano ad arrotare le seghe, ad affilare i rasoi, a liquefare i piombi, ad appaiare i graffi, ad affamare i leoni, per esserne così più straziati, più laceri, più martoriati? Chi sa quanto non v’hanno commosso allora narrazioni tanto pietose! E quando poi, levata di sotto la mannaia la testa, presero nei secoli posteriori eretici di ogni maniera ad impugnarla, nuovo spettacolo vi appariva dinanzi: levarsi dall’Oriente e dall’ Occidente i più chiari ingegni, le anime più generose, i Santi più perfetti a farle schermo de’ petti loro e combattere quei mostri, fintantoché non fossero rientrati nell’abisso donde erano sbucati. Insomma, ammiravate questa fede riempir le valli più cupe di santi monaci, popolar le boscaglie più incolte di fervidi anacoreti, fiorire le balze più inospite di austeri penitenti, colmare il mondo di portenti e di maraviglie. Oh allora la fede vi appariva qual è, illustre di profezie, gloriosa di miracoli, chiara di martiri, santa di opere, ricca di popoli; e la vedevate con giubilo veleggiar sulla navicella di Pietro affrontando scogli, correnti e tempeste senza niun pericolo mai di affondare. Questo e tanto più di questo vi appariva allora, e chi vi avesse detto che un giorno sareste stato nemico della fede, vi avrebbe ricolmati di orrore. Che però? Più tardi vi assalirono passioni violente, e non domandandolo voi da principio, s’afforzarono, s’aggrandirono, s’impossessarono di voi. Per alcune volte forse risorgeste dalle vostre cadute, ma stanco alfine di sì duro contrasto, cominciaste a lasciar orazioni chiese, Sacramenti, esercizi di pietà quali vi pareva di non conciliare coi vostri sfoghi. Per attutire i rimorsi della coscienza vi volgeste a dissipazioni, a letture laide, a libri irreligiosi per vedere se vi riusciva di mettere in dubbio la fede che vi minacciava l’inferno. Aggregandovi poi con compagni della medesima risma, e crescendo ogni dì più la dissolutezza del vivere, vi siete condotto finalmente al punto di potere in certi momenti, in cui siete come un mare in tempesta, dubitare della vostra fede internamente e nell’esterno vantarvi d’incredulità. Ed ecco, conchiuso finalmente, ecco tutte le vie per cui giungeste ad essere miscredente. Lettore, quello che fosse per rispondermi questo infelice, io non so: ma più d’uno che ha voluto esser sincero, ha confessato schiettamente, questa essere la storia veritiera del suo misero cuore. – Il perché ad assommare in poche parole il ragionato fin qui, quella formula: io non posso credere; la mia ragione mel vieta, torna in quest’altra: io non posso credere o perché un’ignoranza brutale non mi lascia levare gli occhi più in là di questa misera terra, perché la superbia mi ha levato il cervello, o perché i vizi hanno sommerso il cuore nel fango: quindi non posso fare quel che la sana ragione mi consiglia, mi comanda, m’inculca, benché sotto pena di essere infelice nel tempo e più infelice nella eternità. Lettore, converrete meco che si può usare un po’ meglio la ragione per tenere un po’ più salda la fede.