24 AGOSTO: SAN BARTOLOMEO APOSTOLO.

SAN BARTOLOMEO APOSTOLO.

(Otto HOPHAN: Gli Apostoli, Marietti Ed., Torino, 1951)

Il nome e la figura dell’Apostolo Bartolomeo sono circonfusi di sole, perchè Natanaele-Bartolomeo — questo è il suo nome completo — nel Collegio apostolico fu uno dei più contenti e dei più allegri, una vera primavera, se non vediamo errato; il Signore stesso sollevò gli occhi e alzò le braccia in segno di letizia quando si pose al suo seguito questo giovanotto; e noi pure oggi, al sentire il suo nome, ci immaginiamo un uomo tutto armonia e serenità, un uomo illuminato dal sole, un fiore di primavera. – Nei quattro elenchi degli Apostoli, che abbiamo nella Sacra Scrittura, viene presentato col nome di « Bartolomeo »; segue immediatamente, al sesto posto, l’amico suo Filippo; soltanto nel catalogo degli Atti fra lui e Filippo è inserito Tommaso. Bartolomeo e Tommaso! Il Signore assegnò questi due Apostoli allo stesso gruppo. La Provvidenza frammischia sapientemente gli uomini! Il gaio deve accompagnarsi al triste, il tormentato dal dubbio e molestato dalla nebbia deve stare accanto al condiscepolo del sole e della primavera. La loro unione fu di benedizione per tutti e due: Tommaso trovò in Bartolomeo un sollievo, Bartolomeo ebbe in Tommaso un ritegno nei pericoli del cuor contento. È strano che l’Evangelista Giovanni, in tutto il suo Vangelo, non faccia mai menzione d’un Apostolo col nome di Bartolomeo; racconta, in cambio, d’un Natanaele, che però ai tre Evangelisti precedenti sembra sconosciuto. Giovanni scrive di Natanaele nel primo ed ultimo capitolo; Natanaele dunque fu con i Dodici « tutto il tempo, nel quale il Signore Gesù entrò e uscì, dal battesimo di Giovanni sino al giorno dell’Ascensione », proprio come Pietro esige, quale condizione indispensabile, per chi debba essere Apostolo. I due testi citati di Giovanni sembrano provare con certezza che Natanaele appartenne veramente al gruppo dei Dodici: tanto nel primo che nell’ultimo capitolo egli sta fra gli Apostoli noti e riconosciuti; la sua vocazione é riferita con tanta chiarezza e ricchezza di particolari, che non se ne saprebbe assegnare il motivo, se non si trattasse d’un vero Apostolo. Ma se Natanaele del quarto Evangelista fu uno dei Dodici, non può essere che quell’Apostolo, che nei quattro cataloghi è introdotto col nome di Bartolomeo. In questi cataloghi infatti tutti gli altri Apostoli hanno il loro nome proprio; soltanto Bartolomeo, che in essi è chiamato dal nome del padre Bar-Tholmai, figlio di Tholmai, lascia aperta la possibilità ad un altro nome, al suo cioè personale. Nel Vangelo però abbiamo degli indizi anche più chiari: nelle quattro liste degli Apostoli Bartolomeo occupa il sesto posto; ora lo stesso posto è assegnato anche a Natanaele nel Vangelo di Giovanni; inoltre nel quarto Vangelo chi conduce Natanaele a Gesù è Filippo; ma Filippo è messo in relazione con Bartolomeo anche dagli altri tre Evangelisti. Con buone ragioni dunque la sentenza comune ritiene che Bartolomeo e Natanaele siano nomi del medesimo Apostolo. È vero che negli antichi secoli cristiani Agostino e Gregorio Magno difesero l’opinione contraria, ma per motivi che oggi non possiamo riconoscere validi. (Così, per esempio, nei suoi trattati sul Vangelo di Giovanni, Agostino scrive; « Dobbiamo considerare che Natanaele era dotto e competente nella Legge. Per questo il Signore non volle annoverarlo fra i Discepoli; Egli infatti scelse degli ignoranti al fine di confondere, per mezzo di loro, il mondo » Tract. 7, 17 (ML 35, 1446). Non ci è possibile rintracciare le ragioni, che indussero Giovanni a chiamare questo Apostolo col suo nome proprio di “Natanaele” e gli altri Evangelisti invece col nome del padre « Bar-Tholmai »; abbiamo solo parecchi esempi biblici, che provano l’uso diffuso fra i Giudei di designare un figlio col nome di suo padre o di aggiungere questo al nome proprio di lui: Simone, Bar-Jona; Bar-Timeo; Bar-naba; Barsaba, e altri ancora.

L’UOMO ALLEGRO.

Introducendoci a scrivere di Bartolomeo, dovevamo necessariamente provare la sua identità con Natanaele anche perché di questo Apostolo conosciamo solo quello che ci riferisce Giovanni nei pochi versetti, che trattano di Natanaele; gli altri tre Evangelisti, eccettuato il nome del padre, non ci dicono di lui sillaba. Il padre suo, il vecchio Tholmai — questo nome significa « aratro » — era forse una persona tanto nota e ragguardevole, che si potè indicare il figlio di lui semplicemente col suo nome, e una tale ipotesi è avvalorata da una leggenda su Bartolomeo, che si legge in Pietro de Natalibus verso l’anno 1372: dice infatti che il nostro Apostolo era un siro, di famiglia aristocratica e anzi regale; e « la storia della passione di Bartolomeo », opera molto più antica, sorta fra il quinto e sesto secolo, dopo la descrizione del simpatico aspetto dell’Apostolo, ne mette in luce la nobiltà dell’abbigliamento: « Bartolomeo aveva capelli neri, arricciati; gli orecchi coperti dai capelli del capo; colorito della pelle splendente; occhi grandi; naso regolare, diritto; una statura proporzionata, non troppo piccola nè troppo grande. Portava un abito bianco e guarnito di porpora, un mantello pure bianco, le cui estremità erano ornate di rosse gemme ». La leggenda posteriore spende parole per dirci persino che Bartolomeo, nell’atto di entrare nel seguito di Gesù, si sarebbe riservato di poter indossare anche per l’avvenire il suo prezioso abbigliamento purpureo. Questi e altri simili dati, che ci forniscono gli apocrifi e le leggende, non sono evidentemente probativi, ma forse contengono qualche parte di vero, che illumina la figura d’un Apostolo; può ben darsi che Bartolomeo sia cresciuto in luogo aprico. – Ma lasciamo le leggende e passiamo dalle congetture all’aureo e solido terreno del santo Vangelo. La prima notizia, che vi attingiamo, ci dice la patria di Natanaele-Bartolomeo: era di Cana di Galilea; di qui la deduzione di non pochi, e tuttavia senza ulteriori motivi sufficienti, che Bartolomeo fosse lo sposo fortunato delle nozze di Cana. t certo che anch’egli esercitava il mestiere del pescatore; quando infatti Pietro, dopo la risurrezione, si accingeva ad andare a pescare, anche Natanaele gridò con gli altri colleghi: « Veniamo anche noi con te>>. Agostino vede in lui un perito della Legge, perché Filippo lo invitò a Gesù con le parole: « Abbiam trovato Colui, del quale scrissero Mosè nella Legge e i Profeti »; da questo testo però non è lecito trarre tanta conseguenza. Probabilmente anche questo Apostolo era della cerchia del Battista, lo insinua la situazione al momento della sua prima comparsa.nLe poche ma preziose e deliziose righe, che l’Evangelista dedica a Bartolomeo,nce ne fanno penetrare l’anima, sebbene l’informazione sia davvero breve. La Chiesa ha scelto questo tratto evangelico per la Messa votiva dei santi Angeli a motivo del versetto finale; di qui una nuova luce, che si riflette anche sull’Apostolo; sarebbe desiderabile che la Liturgia introducesse la lettura di questo grazioso e solenne brano evangelico anche nel giorno della sua festa. « Filippo incontrò Natanaele », non per caso semplicemente, ma con intenzione cosciente e pia; lo fa intendere il Signore stesso: « Prima ancora che Filippo ti chiamasse, Io ti vidi »; Egli stesso chiamò Natanaele per mezzo di Filippo, come prima aveva pure chiamato Pietro valendosi del fratello suo Andrea. È proprio il metodo della Provvidenza santa: chiama e conduce noi per mezzo di altri; Iddio non vuol operare da solo; la sua sapienza e bontà son così benigne, che vogliono anche noi partecipi della creazione e del governo delle cose. A questo punto entra nel Vangelo Natanaele, ma gli si legge nel viso una ironia sorridente ed uno scherno benevolo; perchè, quando Filippo, che conosciamo un po’ minuzioso e dogmaticamente irretito in difficoltà, lo informò: « Abbiam trovato Colui, del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazareth », egli gli replicò riservandosi e con la furbizia negli occhi: « Di Nazareth? può venire qualcosa di buono da Nazareth? ». Forse gli sfuggì detta quella parola di scherno nei riguardi di Nazareth, perché indotto da quella nota disistima, che spesso vige tra villaggi vicini; Cana, la patria di Natanaele, distava da Nazareth solo quattordici chilometri; ma questo villaggio doveva essere in realtà disprezzato, probabilmente anzi era caduto in cattiva fama presso tutti; l’evangelista Matteo stesso vede le profezie, che riguardavano l’abbassamento e l’abiezione del Messia, adempiute in Gesù, perchè Egli era cresciuto a Nazareth; inoltre in tutti i libri dell’Antico Testamento non si fa mai parola di Nazareth. Era una piccola e insignificante località, come il nome stesso « Nazareth = torre di vedetta » insinua, in contrasto con i grandi centri. Nel Vangelo abbiamo pure dei chiari esempi dell’indole borghesuccia e rozza dei suoi abitanti. Dopo una predica di Gesù a Nazareth, chiedono gelosi e stizziti: « Donde ha costui la sapienza e il potere dei miracoli? Non è il figlio del falegname? … Così non sapevano che cosa pensare di Lui. Gesù allora disse loro: “Un profeta in nessun luogo ha meno onore che nella sua città natale e nella sua casa “. A causa della loro incredulità non operò ivi che pochi miracoli. Luca riferisce anzi un tentativo dei Nazzareni di assassinarLo: «A queste parole — di Gesù — quanti erano nella sinagoga montarono sulle furie; balzaron sù, Lo spinsero fuori della città e Lo condussero sino sul ciglio del monte, sul quale era edificata la loro città, per precipitarLo; ma Egli passò in mezzo a loro e se n’andò ». Eppure Gesù e Maria vissero a Nazareth, in quel villaggio, di cui il mondo nulla diceva, da cui nulla s’aspettava di « buono »! Questo ricordo deve consolare molti uomini, costretti a restarsene e a lavorare in uffici insignificanti e disprezzati o in luoghi sperduti. Nonostante l’atteggiamento di Natanaele, Gesù gli diede un benvenuto che ci stupisce; nessun altro Egli accolse con tanta calda cordialità come lui; il giudizio su Nazareth tornava di pregiudizio allo stesso Maestro, e nondimeno Egli gettò con gioia un ponte fra Sè e quel giovane sostenuto: «Quando Gesù vide venire a Sè Natanaele, disse di lui: “Ecco meramente un israelita, in cui non v’è falsità” ». Su queste parole Agostino osserva: «Una testimonianza preziosa! Quello che fu detto di Natanaele non fu detto né ad Andrea né a Pietro né a Filippo”. Sappiamo infatti quanto alto onore stimassero í Giudei il loro esserenIsraeliti, come ce ne fa fede Paolo nella sua lettera ai Romani e nella seconda ai Corinti “. Nel saluto del Signore però l’accento non è su «Israelita », ma su « Israelita senza falsità » – « Israelita senza falsità » si può interpretare anche nel senso di « Israelita non adulterato »; il testo greco non lo impone, ma lo permette; in questo senso la parola del Signore significherebbe che Natanaele era un Israelita genuino, originario, non ibrido. Preferiamo la spiegazione tradizionale, perché ci sembra più fondata nel testo.

*), il che è elogio per un Israelita davvero singolare!

Basti ricordare che il capostipite degli Israeliti, Giacobbe, pur ricco di virtù, nonnci appare certo come modello d’uomo «senza falsità »; e un’indole aperta e diritta non fu neppure in seguito la virtù nazionale degli Israeliti. Natanaele perònha un carattere limpido, trasparente; « non fa diversamente da quello che afferma >; non ha, « per così dire, due cuori, con uno dei quali scorge la verità, mentre con l’altro crea le bugie > . E di fatto le poche parole, che il Vangelo cinha conservato di lui, sono spontanee e leali, fresche e limpide come una sorgente, che scaturisce dal suolo; in lui non v’è nulla di affettato, di artefatto o di finto. Per questa schiettezza Gesù, l’eterna Verità, amò con affetto tutto particolare questo Israelita senz’ombra d’infingimento e di simulazione. All’udire l’encomio di Gesù, Natanaele sobbalzò più stupito che accarezzato,ne lo manifestò: « Donde mi conosci Tu? »; ma il Signore profittò per dargli una seconda prova, ancor più evidente della prima, della propria divina onniscienza; voleva che in quell’anima gaia, ma forse ancor troppo superficiale, s’infrangesse qualche cosa, qualche cosa colasse a fondo in quel giovane: « Gesù gli rispose:n”Prima ancora che Filippo ti chiamasse, Io ti ho visto sotto il fico” ». Che cosa fosse avvenuto sotto quel fico, rimarrà sempre un segreto di Gesù e di Natanaele; si trattava forse d’una lotta vittoriosamente superata, o d’una decisione definitiva, o forse anche d’una intuizione importante, che gli era brillata in mente qual baleno; si sa che all’ombra degli alberi si amava scrutare la Legge; in qualunquenipotesi, sotto quel fico — gli abitanti di Palestina solevano piantare in prossimità delle loro abitazioni alberi di fico, come noi quasi facciamo col sambuco — era accaduto un fatto grave per l’esistenza di Natanaele. Sentendoselo ora ripeterendal Signore, fu colto da tale sorpresa, che nel suo improvviso entusiasmo esclamò: < Maestro, Tu sei il Figlio di Dio, Tu sei il Re d’Israele! ». Aveva sorriso su Gesù di Nazareth appena un’ora prima; e adesso, a una sola parola della sua onniscienza, Gli rende omaggio con una professione, che per impeto e festosità oltrepassa anche la professione messianica di Andrea e di Filippo. Natanaele è davvero un israelita senza falsità e senza pieghe di cuore!nNon ci è lecito tuttavia sopravvalutare questo omaggio impetuoso; sembranalla pari con la professione messianica di Pietro a Cesarea di Filippo: « Tu sci il

Messia, il Figlio del Dio vivente » ; in realtà però fra il Giordano e Cesarea di Filippo, fra il grido giulivo della primavera e la fede, che solo la calda estate condusse a maturazione, corre un tratto lungo e laborioso. Per i discepoli sulle rive del Giordano Gesù è il Messia nel senso stravolto e terreno delle aspettazioni messianiche giudaiche; per giungere al puro Credo, gli Apostoli dovranno faticosamente aprirsi la via fra molti dubbi e gravi conflitti; soltanto a Pietro il Signore disse: « Beato te, Simone, figlio di Giona! »; adesso non disse: « Beato te, Natanaele, figlio di Tholmai! ». La fede dunque di Bartolomeo presso il Giordano era soltanto la primavera, bella, se vogliamo, ma ancor immatura; per il suo sviluppo e rafforzamento Gesù gli replicò: « Tu credi perchè ti ho detto: Io ti hovisto sotto il fico. Tu vedrai cose maggiori di queste ». E rivolgendosi a tutti continuò: « In verità, in verità vi dico: d’or innanzi vedrete il Cielo aperto e gli.Angeli di Dio ascendere e discendere sopra il Figlio dell’uomo ». Il patriarca Giacobbe, il padre di tutti gli Israeliti, aveva un tempo visti gli Angeli ascendere e.discendere; ora Natanaele e i suoi compagni d’apostolato, che son israeliti senza falsità, potranno essere spettatori del continuo compiersi, in senso spirituale, di quella visione di Giacobbe, contempleranno cioè Gesù in costante e mutua comunicazione col Cielo; le sue parole infatti e i suoi miracoli sono un ascendere e un discendere di potenze celestiali; perchè Egli non è solamente « il figlio di Giuseppe di Nazareth », come falsamente pensava Filippo, pur cogliendo parzialmentennel giusto; non è neppure semplicemente il « Re d’Israele» e lo scrutatore dei cuori, come lo ha acclamato Natanaele; Egli è il Signore del Cielo e il padrone degli Angeli; Bartolomeo con gli altri Apostoli dev’essere avviato a questa fede sublime. Dobbiamo nondimeno rallegrarci per questa splendida professione, che rumoreggia come uno spumeggiante ruscello montano nella primavera di questo primo capitolo di Giovanni; esso comincia: « In principio era il Verbo, e il Verbonera presso Iddio, e il Verbo era Iddio »; ed ora a quest’eterno murmure d’onde risponde festante l’eco terrena: « Maestro, Tu sei il Figlio di Dio, Tu sei il Rend’Israele! ». – L’evangelista Giovanni non continua, purtroppo, il grazioso abbozzo di Natanaele in quel suo primo capitolo, e neppure nel corso del Vangelo dedica a lui piùnuna parola, se si eccettui la breve notizia dell’ultimo capitolo; ma già lo sappiamo, i Vangeli, ispirati dallo Spirito Santo, si limitano alla storia della salute. E tuttavia le loro parche notizie accennano spesso la direzione, nella quale è lecitonalla devota fantasia osare di costruire. Non erriamo quindi certo se, avendo sott’occhio il cordiale incontro di Gesù con Natanaele, ci raffiguriamo quest’Apostolo come persona d’ineccepibile lealtà e come un tipo allegro, capace di sentire entusiasmo e di trasfonderlo pure negli altri; dovette essere ben voluto nel Collegionapostolico, e ben meritava l’affetto dei colleghi, perchè si presentava sempre così limpido, così trasparente e così vero, veramente come l’uomo senza falsità e senzanmalizia. Quando nel Cenacolo Gesù rivelò: « Uno di voi Mi tradirà », a nessuno passò per la mente neppure la minima ombra che quegli potesse essere Bartolomeo. Intorno a lui splendette sempre sole e primavera: quando gli Apostoli percorrevano col Signore le vie lunghe e bruciate ed erano stanchi e polverosi; e quando le moltitudini si stipavano intorno a loro, sicchè non trovavan più temponneppure per mangiare; quando pure alla sera, partecipi della sorte del Maestro, non avevano un posticino, dove poter posare il loro capo, allora era Bartolomeo, che con una frase gaia sollevava l’animo depresso dei suoi camerati; e allora gli occhi del Signore si posavano di nuovo con compiacenza su di lui, come al momento del primo incontro; era il discepolo caro, chiamato per natura e per grazia a rispecchiare la bontà e la benignità del Salvatore nostro “. Più di tutti dovettero beneficiare della sua vicinanza i compagni del medesimo gruppo, Tommaso dall’umor nero, Filippo dall’indole fredda e Matteo tanto realistico; Bartolomeo portava fra di loro luce e vita, un profumo di primavera e anche un tantino di poesia nell’atmosfera, che altrimenti sarebbe stata un po’ troppo fredda, troppo asciutta e anche cupa. La propensione alla letizia è un talento.nch’è donato a vantaggio anche degli altri; non può essere seppellito: Bartolomeondovette alleggerire e rasserenare Tommaso, dovette stuzzicare ed eccitare Filippo, dovette completare e rischiarare Matteo. È bello starsene alla luce del sole, ma è ancor più bello esser luce di sole per gli altri. In questo suo compito però l’Apostolo non oltrepassò i confini delicati della discrezione. È sorprendente la frequenza, con la quale le antiche leggende rimandano alla sua origine e al suo portamento aristocratici; e alla sua tranquilla riservatezza accenna il Vangelo stesso; egli preservò la sua indole allegra dalla effusione e più ancora dalla smoderatezza. Questa simpatica armonia di spontaneità e riservatezza, di allegria e cortesia è indicata anche dal nome completo dell’Apostolon« Natanaele-Bartolomeo »; perchè « Natanaele » etimologicamente vuol dire «dono di Dio », e un uomo allegro per una comunità è davvero un dono di Dio; « Bar-Tholmai » significa «figlio dell’aratro »; ora ogni « Natanaele » dev’esser pure un « Bartolomeo », un aratro, un uomo cioè che va al fondo; e un « Bartolomeo » dev’essere « Natanaele », un dono del Signore solatio, che per le profondità non dimentica il Cielo azzurro, dove gli Angeli di Dio ascendono e discendono. Le notizie, che abbiamo intorno all’attività dell’Apostolo Bartolomeo, sono incerte e in parte anche contradittorie. Non ci sono giunti di lui Atti autentici; quelli che possediamo, ebbero origine in qualche provincia orientale dell’impero bizantino solo fra il quinto e il sesto secolo e risentono dell’eresia nestoriana; un’idea quindi, almeno generica, di quell’attività non ce la possiamo formare con certezza se non di nuovo dal Vangelo: quegli, che fin dalla prima ora aveva proclamatonCristo qual « Figlio di Dio e Re d’Israele », dovette portare con entusiasmo ilnlieto messaggio del Signore Gesù Cristo nel vasto mondo, dopo aver visto « cosenmaggiori », la vita di Gesù, la Pasqua e la Pentecoste.nAtti tramandatici in lingua coptíca, arabica ed etiopica trasportano il campo di lavoro di Bartolomeo nelle « oasi » dell’Egitto; l’omiliario armeno ricorda come meta della prima fra le sue sei spedizioni apostoliche la città di « Eden », l’odierna Aden; Eusebio riferisce che già San Panteno, il fondatore della scuola catechetica di Alessandria, nel suo viaggio in India, verso la fine del secondo secolo, aveva ivi incontrato comunità cristiane costituite dall’Apostolo Bartolomeo; si avverta che in quei tempi sotto il nome di « India» s’intendevano tutte le terre orientali, che non facevan parte dell’impero romano e di quello dei Parti, e quindi non la sola India propriamente detta, ma anche l’Abissinia, l’« Arabia Felice» e la Carmania. Ci colpisce in questi Atti che spesso mettano Bartolomeo in relazione connMatteo; anche l’informazione sopra ricordata di Panteno afferma che il nostro Apostolo avrebbe portato in quelle contrade il vlVangelo ebraico di Manco. Gli Atti però di Filippo, addotti più sopra, ci incamminano per un’altra direzione; vi si legge che Bartolomeo faticò e soffrì nella città della Frigia Gerapoli,nunitamente al suo compagno d’apostolato e suo amico Filippo e la sorella di questinMarianna; da amico fedele, assistette Filippo quando subì il martirio, dopo di che si sarebbe trasferito in Licaonia, che a sud-est confinava con la Frigia. Un’attivitàndi Bartolomeo in quella regione — corrisponde alla parte sud-orientale dell’attualenAsia Minore — è ricordata anche presso i Siri; ivi sarebbe stato anchencrocifisso. Questa tradizione è prevalente nella Chiesa greca; in una predica, ch’ènattribuita a San Giovanni Grisostomo e che ha per argomento i dodici Apostoli, si afferma che Bartolomeo annunziò « l’astinenza ai Licaoni ». Ma gli Atti di Andrea e di Bartolomeo gli assegnano di nuovo un altro campo, la regione litoranea del Mar Nero. Come Matteo negli Atti di Matteo, così Andrea negli Atti di Andrea è presentato come il compagno di Bartolomeo nelle sue fatiche apostoliche. Queste notizie corrisponderebbero di più alle tradizioni e alle persuasioni degli Armeni, che considerano Bartolomeo come il loro Apostolonprincipale. Mosè di Khorene dice: « All’Apostolo Bartolomeo fu assegnata l’Armenia; presso di noi, nella città di Areban, subì pure il martirio ». Secondo una esposizione armena della sua vita e della sua passione, egli avrebbe predicato ilnVangelo dapprima agli « Indi », poi ai Parti, ai Medi, agli Elamiti e in fine aglinArmeni. Nelle lezioni del Breviario romano, che si leggono nel giorno della festandell’Apostolo, abbiamo un compendio di queste diverse e divergenti notizie: « L’apostolo Bartolomeo, ch’era di Galilea, si portò nell’India Citeriore, che gli era stata assegnata per la evangelizzazione al momento del sorteggio per la distribuzione del mondo. Predicò a quei popoli la verità del Signore Gesù secondo il Vangelo di San Matteo. Dopo che in quella regione ebbe convertiti molti a Cristo, sostenendo non poche fatiche e superando molte difficoltà, passò nell’Armenia Maggiore ». – Come le notizie intorno al luogo del suo apostolato, sono contradittorie anche quelle riguardanti il genere di morte. Il Breviario romano, utilizzando delle antiche informazioni, scrive a questo riguardo: « Nell’Armenia Maggiore Bartolomeo portò alla fede cristiana il re Polimio e la sposa di lui e inoltre dodici città; ma queste conversioni eccitarono fortemente l’invidia dei sacerdoti locali, ai quali riuscì di aizzare in tal modo il fratello del re Polimio, Astiage, chenimpartì l’ordine crudele di cavar la pelle a Bartolomeo vivo e poi di decapitarlo.nEgli rese l’anima a Dio in questo martirio ». La tradizione dello scorticamento dell’Apostolo fu diffusa presso Greci, Latini e Siri. Lo scorticamento era un supplizio mortale dei Persiani; esso quindi accennerebbe alla Persia come luogo dell’ultima attività e della morte dell’Apostolo; e di fatto nella parte della Siria, ch’era sottoposta alla sovranità persiana, si conservò una tradizione particolare intorno al suo sepolcro. Ecco perché gli artisti, quali il Ribera e il Rubens, nelle celebri pitture conservate nella Galleria del Prado, attribuiscono come simbolo a Bartolomeo il coltello, oppure, come ad esempio il Bernini nella statua al Laterano, gli sospendono senz’altro alle braccia la pelle detratta, come un mantello; Michelangelo poi nella Cappella Sistina creò argutamente, come autoritratto, un Bartolomeo spellato. L’antichità cristiana tuttavia seppe anche di altri generi di morte: si disse che era morto di morte naturale; secondo un’opinione molto antica e tanto diffusa era stato crocifisso, come quasi tutti i discepoli chiamati sulle rive del Giordano; e infatti anche l’arte e persino gli stessi artisti, che in altri quadri gli assegnano come proprio il coltello dello scorticamento, lo rappresentano in croce; secondo invece una leggenda armena, sarebbe stato ucciso con randelli; e infine una tradizione arabo-giacobita riferisce che, su ordine del re Aghira, sarebbe stato gettato in mare dentro un sacco appesantito con sabbia. Anche le vicende delle reliquie dell’apostolo Bartolomeo sono oggetto di discussione. Una tradizione armena dice che il suo cadavere fu sepolto ad Albanopoli o anche Urbanopoli, una città dell’Armenia, dove l’Apostolo aveva subito il martirio; di lì le reliquie passarono a Nephergerd — Mijafarkin —; verso l’anno 507 l’imperatore Anastasio I le fece trasferire a Daras, dttà della Mesopotamia, e vi fece erigere sopra una splendida chiesa. Nel 580 una parte di quei resti mortali fu forse trasportata nell’isola Lipari, che si stende dinanzi alla Sicilia; la leggenda a questo punto aggiunge che le reliquie, chiuse in un sarcofago, attraversarono il mare a nuoto e toccarono terra sulla costa dell’isola; questo particolare del sarcofago nuotante sul mare ebbe origine forse dall’opinione, secondo la quale Bartolomeo era stato annegato in un sacco gettato in mare. Durante l’invasione dei Saraceni, nell’anno 838 le reliquie furono trafugate a Benevento; e finalmente nel 983, per intervento dell’imperatore Ottone III, giunsero a Roma e ivi furono composte nella chiesa di San Bartolomeo nell’isola tiberina; il cranio però nel 1238 fu portato a Francoforte sul Meno e ora è ivi conservato nel duomo di San Bartolomeo. Dopo il decreto della S. Congregazione dei Riti del 28 ottobre 1913, la festa del nostro Apostolo nella Chiesa latina viene celebrata stabilmente il giorno 24 agosto, presso i Greci invece l’11 giugno; gli Orientali ne celebrano la festa e anche la traslazione delle reliquie in altri giorni: gli Armeni l’8 dicembre e il 25 febbraio, i Copti e gli Etiopi il 18 giugno e il 20 novembre, i Giacobiti il 29 agosto. All’Apostolo Bartolomeo è attribuito pure un vangelo apocrifo. Girolamo ne fa menzione nel suo prologo al vangelo di Matteo 21; oggi non se ne hanno che dei frammenti; contiene delle rivelazioni del Risorto intorno alla sua discesa agli inferi, provocate da interrogazioni di Bartolomeo, e inoltre delle spiegazioni di Maria sul mistero dell’Incarnazione; l’originale greco nacque negli ambienti gnostici dell’Egitto nel secolo III e non ha nulla a che fare con l’Apostolo Bartolomeo. Al termine di queste considerazioni torniamo nuovamente al santo Vangelo, a quell’ora d’intimità, nella quale il giovane Natanaele, con occhio scintillante ed entusiastica parola, proclamò per primo pubblicamente nostro Signore Gesù Cristo « Figlio di Dio e Re d’Israele ». Oh, l’amabile figlio di Tholmai, tutto circonfuso di sole, non presagiva allora quali oneri si sarebbe accollato per amore di quel Figlio di Dio! Nelle rappresentazioni dell’arte egli ci si fa incontro vecchio, incanutito e ricurvo; per il Figlio di Dio ha percorso un mezzo mondo e si è stancato; vi alludono le varie notizie, in parte anche contradittorie, intorno alla sua attività apostolica; e lungo i secoli non fu concessa la quiete del sepolcro neppure alle sue morte ossa. Tiene nelle sue mani floscie l’orribile coltello, col quale fu scuoiato; ma fosse morto anche d’un altro genere di morte, resterebbe vero che per il suo Signore si scuoiò lui stesso nell’intimo del suo essere; questo scorticamento infatti fino alle fibre più riposte è richiesto dal Signore stesso, per quanto dentro nell’anima v’è di ribellione al Figlio di Dio: « Se il tuo occhio destro ti alletta al male, strappalo e gettalo via da te! Se la tua mano destra ti alletta al male, troncala e gettala via da te! ». È per questo che il Cristianesimo viene dipinto come l’indeclinabile e cupo no ad ogni gioia; ma uno sguardo ai suoi rappresentanti più autentici riduce al silenzio tutti i detrattori; perchè proprio coloro, che per il Cristo hanno più duramente lavorato e patito, furono gli individui più irradiati dal sole, dei Natanaele senza la falsità d’un portamento pessimistico o d’un ostentato eroismo. Troviamo espressa questa forte e quasi impossibile tensione dello spirito cristiano nelle parole di Paolo: « Siamo ignoti e però ben conosciuti; morenti ed ecco viviamo; castigati e pur non uccisi; addolorati e tuttavia sempre lieti; privi d’ogni possesso, eppure possediamo tutto >. L’ora di Natanaele nel Vangelo ci fornisce la spiegazione di questo singolare mistero di tristezza e di beatitudine nel medesimo uomo: « Vedrai cose maggiori! I Cieli aperti! E gli Angeli di Dio ascendere e discendere sopra il Figlio dell’uomo ».

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (15)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (15)

FRANCESCO OLGIATI:

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo QUINTO (4)

IV. – LE SCONFITTE

Nei fasti della fede cristiana è rimasta memoranda la vittoria della Serbia contro i Turchi nel 1456. Da quattro mesi Belgrado era assediata ed il Sultano ordinò un supremo e disperato attacco. Dopo ventiquattro ore di lotta accanita, i cittadini, stanchi e sfiduciati, stavano per capitolare, quando un umile francescano, alzando un crocifisso, si mise ad incuorare i vacillanti ed a pregare Dio e la Vergine. Alle parole di san Giovanni da Capistrano, gli assediati ritrovarono le loro energie e con impeto irruente sferrarono un nuovo attacco contro i nemici, che furono sbaragliati. Non quattro mesi di assedio, né un giorno di battaglia, ma una vita intera di combattimento noi dobbiamo sostenere. E se sulle labbra nostre e nel cuore torna sempre fresca la parola d’ordine di Sobieski, che a Vienna, nel 1683, gridava ai suoi soldati: « Andiamo incontro al nemico con piena fiducia nella protezione del cielo », è però anche vero che tutti sentiamo le difficoltà del conflitto continuo e talvolta esasperante. Ed ora v’è una battaglia campale da affrontare, ora una minuscola scaramuccia da vincere. Ora è il canto della vittoria che si eleva, ora è la vergogna della sconfitta che ci rattrista. Spesso, in una sola giornata, si uniscono insieme trionfi e disfatte, tentazioni superate e colpe commesse. A queste ultime dobbiamo dedicare una breve riflessione. -“La morale cattolica le chiama « peccati »; la filosofia cristiana le definisce: « Aversio a Deo et conversio ad creatura », un allontanarsi cioè da Dio ed un volgersi alle creature. Noi perciò, le guarderemo come sono in realtà, vale a dire uno schiaffo all’Amore divino in nome dell’amore dei beni perituri e fugaci.

1. – Diversi generi di sconfitte

Per procedere con ordine, converrà distinguere le nostre

L sconfitte morali in tre categorie: i peccati mortali, i peccati veniali, le imperfezioni. Questa distinzione fu apertamente rifiutata da Lutero e da Calvino, per i quali ogni peccato è di sua natura mortale. Ma essi, evidentemente, esagerano. Tutti comprendono quale differenza vi sia tra un figlio che uccide suo padre, un figlio che disubbidisce in una piccola cosa e un altro che, ad un comando improvviso, risponde con uno scatto inavvertito. Non si possono porre sopra un medesimo piano il parricidio, la disubbidienza e la debolezza di un carattere impulsivo, come non possono essere catalogate insieme, quasi fossero eguali, la morte, una malattia ed una leggera indisposizione. – Per portare un paragone, ricorderemo il fatterello gustoso capitato ad un geniale giornalista ed umorista italiano, Luigi Arnaldo Vassallo, detto Gandolin. Un bel dì un autore inedito riescì a bloccarlo e ad infliggergli la lettura di un voluminoso copione. L’autore tartagliava terribilmente. E Gandolin, dopo d’averlo ascoltato un bel po’, lo interruppe: — Questa di far tartagliare tutti i personaggi è davvero una trovata. Io credo che avrà successo. L’altro, sdegnato, rispose: — Lei si sbaglia. Non sono i personaggi che tartagliano, sono io. — Allora mi dispiace, ma non c’è da sperare niente di buono. Ecco. Il peccato veniale può essere appunto paragonato ad una persona balbuziente. Non è la parola scorrevole e piana, è un balbettio; ma il senso di quanto si dice, c’è ancora; c’è ancora, cioè, il significato cristiano in una vita, quantunque lo si esprima tartagliando. Che una persona balbetti, è un male; ma il male è molto peggiore ed essenzialmente diverso, se dovessimo pronunciare parole senza connessione, come avvenne — è un altro umorista che lo assicura — tra due amici che discorrevano così: — Tu sei miope o scemo? — Io sono di Novara. — Allora siamo contemporanei. Ah, voi ridete?! Eppure quante volte la vostra vita cosiddetta cristiana è un succedersi di azioni, che sono così poco organizzabili fra loro, come le parole di questo dialogo curioso!…

2. – Il peccato mortale e il peccato veniale.

Io non mi soffermerò sulle nozioni elementari del catechismo, il quale ci insegna come il peccato mortale sia una violazione della legge morale in cosa grave, fatta con piena avvertenza della mente e con deliberato consenso della volontà, mentre invece il peccato veniale è una violazione della legge morale in cosa leggera, o anche in cosa per sè grave ma senza tutta l’avvertenza o tutto il consenso. La colpa grave si chiama mortale, perché priva l’anima della grazia soprannaturale che è la sua vita, le toglie i meriti e la capacità di acquistarne dei nuovi, e la rende degna della morte eterna nell’inferno. L’altro genere di peccato, poi, si chiama veniale, cioè perdonabile, perché non toglie la grazia e può aversene il perdono col pentimento e con buone opere, anche senza la Confessione sacramentale. – Ciò che in questi lineamenti di etica cristiana importa sottolineare, è il fatto che col peccato mortale noi ci ribelliamo a Dio e calpestiamo il suo Amore, immolandolo al nostro piacere; la colpa grave, in altre parole, è la negazione dell’amore divino. Il peccato veniale certo è un disordine ed un male, al cui confronto tutti gli altri non meritano il nome di mali, perchè è sempre un’offesa a Dio; è dannoso all’anima in quanto la dispone al peccato grave, come la malattia, pur non togliendo la vita, dispone alla morte; ci procura pene temporali in questo e nell’altro mondo; tuttavia non esclude totalmente l’amore di Dio, ma è soltanto un raffreddamento nell’amore. Come il soldato che si facesse disertore non potrebbe più parlare d’amore di patria, mentre, quando commette una leggera infrazione alla disciplina militare, può asserire ancora di amare il suo paese, quantunque non lo ami con tutto il suo cuore e quantunque sbagli; così noi, militi del grande esercito dell’umanità, possiamo ribellarci al nostro Re supremo (peccato mortale) e possiamo venir meno all’amore pieno che Egli giustamente esige da noi (peccato veniale). – In linea pratica, come si distingue la colpa grave dalla veniale? Soggettivamente, è alla nostra coscienza che bisogna rivolgerci, per vedere se, quando facciamo un’azione cattiva, abbiamo la consapevolezza piena che essa era un peccato mortale e ciononostante l’abbiamo liberamente compiuta. – Oggettivamente, esaminando l’azione in se stessa, spesso non è difficile cogliere la gravità o meno d’una colpa. Così. a tutti appare chiaro che sono peccati mortali la bestemmia, l’odio di Dio e del suo Cristo, l’omicidio, la profanazione del coniugio, le abbominazioni che hanno già fatto piovere fuoco sulla terra prevaricata, il furto di una grossa somma e via dicendo. Talvolta è la Scrittura stessa che dichiara grave un peccato. Sempre poi abbiamo la Chiesa, maestra della morale, che ci guida e ci illumina anche in questo campo. – Per giudicare, comunque, un peccato, bisogna considerare l’azione non in astratto, ma nella sua concretezza, tenendo calcolo delle circostanze e delle contingenze fra le quali essa cresce. – Ad esempio, si prenda il precetto della Chiesa, che, sotto pena di peccato mortale, comanda di assistere alla Messa nelle domeniche e nei giorni festivi. Può, a prima vista, sembrar strano che sia una colpa grave perdere una Messa: eppure, se si esamina il precetto nel complesso della vita cristiana, nulla v’è di più chiaro. « La santificazione del giorno del Signore — spiega il Manzoni nella sua Morale Cattolica — è uno di que’ comandamenti che il Signore stesso ha dato all’uomo. Certo, nessun comandamento divino ha bisogno d’apologia; ma non si può a meno di non vedere la bellezza e la convenienza di questo, che consacra specialmente un giorno al dovere più nobile e più stretto, e richiama l’uomo al suo Creatore. « Il povero, curvato verso la terra, depresso dalla fatica, e incerto se questa gli produrrà il sostentamento, costretto non di rado a misurare il suo lavoro con un tempo che gli manca; il ricco, sollecito per lo più della maniera di passarlo senza avvedersene, circondato da quelle cose in cui il mondo predica essere la felicità e, stupito ogni momento di non trovarsi felice, disingannato dagli oggetti da cui sperava un pieno contento, e ansioso dietro agli altri oggetti de’ quali si disingannerà quando li abbia posseduti; l’uomo prostrato dalla sventura, e l’uomo inebbriato da un prospero successo; l’uomo ingolfato negli affari, e l’uomo assorto nelle astrazioni delle scienze; il potente, il privato, tutti insomma troviamo in ogni oggetto un ostacolo a sollevarci alla Divinità, una forza che tende ad attaccarci a quelle cose per cui non siamo creati, a farci dimenticare la nobiltà della nostra origine e l’importanza del nostro fine. E risplende manifesta la sapienza di Dio in quel precetto che ci toglie alle cure mortali per richiamarci al suo culto, ai pensieri del cielo; che impiega tanti giorni dell’uomo indotto nello studio il più alto e il solo necessario; che santifica il riposo del corpo, e lo rende figura di quel riposo d’eterno contento a cui aneliamo e di cui l’anima nostra sente d’esser capace; in quel precetto che ci riunisce in un tempio, dove le comuni miserie e i comuni bisogni, ci fanno sentire che siamo fratelli. – La Chiesa, conservatrice perpetua di questo precetto, prescrive a’ suoi figli la maniera d’adempirlo più ugualmente e più degnamente. E tra i mezzi che ha scelti, poteva mai dimenticare il rito più necessario, il più essenzialmente cristiano, il Sacrificio di Gesù Cristo, quel Sacrificio dove sta tutta la fede, tutta la scienza, tutte le norme, tutte le speranze? Il Cristiano che volontariamente s’astiene in un tal giorno da un tal Sacrificio può mai essere un giusto che viva della fede? Può far vedere più chiaramente la noncuranza del precetto divino della santificazione? Non ha evidentemente nel cuore un’avversione al Cristianesimo? Non ha rinunziato a ciò che la fede rivela di più grande, di più sacro e di più consolante? Non ha rinunziato a Gesù Cristo? Pretendere che la Chiesa non dichiari prevaricatore chi si trova in tali disposizioni, sarebbe un volere che dimenticasse il fine per cui è istituita, che ci lasciasse ricadere nell’aria mortale del gentilesimo ».

3. – Le imperfezioni.

Da non confondersi col peccato sono le nostre imperfezioni, le quali, per la nostra natura corrotta, ci orientanonbensì verso l’umano, distogliendoci dall’amore divino, ma non sono offese formali di Dio, in quanto si riducono ad una semplice trasgressione non colpevole d’un precetto. Quanti difetti e capricci nostri, quante inclinazioni, curiosità, futilità, quante parole precipitate, quante preferenze e noncuranze, non sono peccati veniali, perchè non ce ne accorgiamo neppure mentre agiamo, e tuttavia sono imperfezioni! – I santi, nel loro amore fervido per Dio, cercavano in tutti i modi di vincerle, a poco a poco; e noi non ci meravigliamo se la grande Capitanio lasciò dopo la sua morte fogli e quaderni con i suoi minuziosi esami di coscienza, rivolti a togliere non i peccati, ma le sue imperfezioni; o se un Lacordaire giunse a usare certi metodi, che possono sembrare esagerati a chi non ha nessuna cura della formazione spirituale. Narra il suo biografo, il padre Chocarne, che un giorno il grande oratore manifestò al Priore del suo convento un difetto. « Ogni volta — gli disse — che vengo interrotto nelle mie occupazioni e mi sento bussare l’uscio non so signoreggiarmi in maniera da non provare un moto spontaneo di dispetto. Vorrei pertanto correggermi. Quando voi giudicherete opportuno, a qualunque ora, entrerete nella mia cella senza picchiare; e se scoprirete sul mio volto un segno di malumore, mi darete la disciplina ». « Sì, Padre farò così ». In quel giorno medesimo, per mettere a prova il suo penitente, il Priore entrò bruscamente in camera di Lacordaire. Questi subito si mise in ginocchio dinanzi a lui. « Ma Padre, io non ho veduto nulla ». « Voi non avete visto la mia impazienza, rispose il colpevole scoprendosi le spalle, ma io l’ho sentita ». E il castigo venne dato. Se simili esempi si meditassero, noi non constateremmo nella società attuale certi caratteri, che sono veramente caratteracci, incapaci di dominarsi e nati per rammentare ai disgraziati che li avvicinano come una delle opere di misericordia spirituale è quella di « sopportare pazientemente le persone moleste ». Sovente la infelicità umana proviene da piccolezze, come i più disastrosi incendi derivano da una scintilla.

4. – Il peccato e l’amare.

Se dovessimo ora approfondire il concetto di « peccato » nella morale cristiana, non dovremmo limitarci ad illustrare i punti di vista, dai quali anche in un ordine puramente naturale converrebbe porsi. È certo, ad esempio, che, dal punto di vista di Dio, il peccato è la ribellione alla volontà divina, è la rottura della razionalità, ossia è la negazione di Dio stesso, ed ha una gravità proporzionata alla divinità offesa; dal punto di vista della società, il peccato è turbamento dell’ordine ed ha conseguenze indefinite, che durano anche dopo la colpa commessa; dal punto di vista nastro, il peccato è la distruzione o la diminuzione della nostra dignità e la nostra rovina. Ma se noi partiamo dalla concezione dell’Amore soprannaturale di Dio verso di noi, l’enormità del peccato è ben più manifesta.

1. Noi, per la grazia che Gesù Cristo ci ha meritato, siamo stati elevati alla dignità di figli di Dio. Uniti a Gesù, nostro capo, vivificati dallo Spirito Santo, che esulta nei nostri cuori, possiamo dire con verità al Padre la dolce parola: Padre nostro. Il peccato distrugge questa nostra grandezza. È la ribellione dei figli all’amore del Padre. È il capolavoro dell’Amore infinito, che viene sciupato.

2. Incorporati a Cristo, costituiamo con Lui un unico organismo e, di conseguenza, come vedemmo, non siamo avulsi dagli altri credenti, ma formiamo con essi un unico corpo mistico, dove se il bene di uno è il bene di tutti (dogma della Comunione dei santi), il male di uno si ripercuote su tutti gli altri. Il peccato, in ultima analisi, è una negazione dell’amore del prossimo.

3. Soprattutto poi è un’offesa all’amore di Gesù Cristo per noi.

Noi siamo uniti a Cristo e viviamo della sua vita. Siamo le membra di Cristo. Quando pecchiamo, — è san Paolo che ce lo proclama, — noi profaniamo Gesù Cristo in noi, e delle membra d’un Uomo-Dio facciamo le membra d’un infame. E prosegue l’Apostolo: « Non sapete voi, dunque, che siete il tempio di Dio e che lo Spirito Santo abita in voi? Se qualcuno violerà il tempio di Dio, Dio lo perderà. Poiché santo è il tempio di Dio e questo tempio siete voi ».

4. È forse necessario aggiungere che col peccato veniamo meno anche all’amore che dobbiamo a noi stessi? Vedremo in seguito la sanzione della colpa e le pene del peccato, temporali ed eterne. Si capisce, quindi, l’orrore dell’anima cristiana per la colpa; si comprende come l’elogio più bello di san Giovanni Crisostomo venga riposto non nelle lodi suscitate dalla sua meravigliosa eloquenza, ma dalla parola del cortigiano di Eudossia all’imperatrice adirata contro il Vescovo di Costantinopoli: « Giovanni Crisostomo non teme nulla, eccetto il peccato mortale »; si spiega il grido della Regina Bianca al piccolo figlio Luigi, destinato a diventare poi il santo Re di Francia: « Vorrei vederti piuttosto morire, che reo d’una colpa grave ».

5. – L’esame di coscienza.

Per rimanere fedeli all’amore di Dio e per non lasciarci lusingare dalle insidie nemiche, l’etica cristiana raccomanda la preghiera ed i Sacramenti, che ci fanno forti d’una forza divina e della grazia; consiglia la meditazione, che, facendoci riflettere all’amore di Dio ed al nulla delle cose, ci prepara alla buona battaglia, ci avvezza alla pratica della virtù, alla vittoria delle nostre passioni e delle cattive tendenze, ne mostra le insidie nemiche; soprattutto, per tacer d’altro, insiste molto sull’esame di coscienza. Già la sapienza pagana raccomandava questa pratica. Seneca, nel De ira, esclamava: « Che cosa v’è di più bello dell’abitudine di esaminare alla sera come abbiamo passato l’intero giorno? Che sonno tranquillo, dopo un buon esame di coscienza! ». Nelle sue Lettere a Lucilio soggiungeva: « Se voglio talora divertirmi con la compagnia d’un pazzo, non ho bisogno d’andare lontano; mi metto a ridere in me stesso. Mia moglie ha una pazza, Arpaste, che tutto ad un tratto ha perduto la vista. Cosa incredibile, ma vera, essa non sa d’essere cieca, e ripetutamente dice alla sua guida di portarsi altrove, perché dice che la casa è troppo oscura. Noi ridiamo di questo: eppure ci accade lo stesso. Nessuno riconosce d’essere avaro, cupido. I ciechi però cercano una guida: noi erriamo senza guida e diciamo: Io non sono ambizioso; ma come si fa in Roma a vivere diversamente? Non amo il lusso: ma la città costringe a tali spese… Perché ingannarci? Il male non è fuori di noi, ma dentro, nelle midolla delle nostre ossa. La difficoltà di guarire sta nel fatto che non ci crediamo ammalati ». La sapienza cristiana ha ripreso questo pensiero e l’ha meditato alla luce del soprannatur0ale. Dai Padri della Chiesa a sant’Ignazio di Loyola è un succedersi di raccomandazioni, ed anche di regole, che giovano praticamente a farne l’esame di coscienza con frutto. Né qui è il luogo di diffonderci su questo problema. Diremo soltanto che, forse, nessuno meglio di Massillon, così squisito nell’analisi psicologica, lo ha illustrato. In uno dei suoi Sermons pour l’Avent, egli descrive il giudizio universale; ed, invece di soffermarsi a tratteggiare la scena esteriore, fissa il suo sguardo su « la manifestazione delle coscienze ». Credo che, anche alla Corte di Luigi XIV, coloro che l’hanno ascoltato han provato in quel giorno un tremito salutare di spavento. – Da un lato Cristo, che tanto ci ha amato, ossia « un Salvatore che ci mostrerà le sue piaghe, per rimproverarci la nostra ingratitudine ». Dall’altro le coscienze, ognuna delle quali sarà esaminata. L’esame si estenderà a tutte le diverse età ed a tutte le circostanze della vita. Debolezze dell’infanzia, colpe della giovinezza, ambizioni e trascorsi d’una età più matura, freddezza e indurimento d’una vecchiaia forse ancora voluttuosa, tutta una storia di miserie che si andrà svolgendo dinanzi ai nostri occhi turbati. Non un’azione, un desiderio, un pensiero, una parola, sarà omessa; tutto rivivrà e apparirà nella sua vera fisionomia. Non solo la storia esteriore dei nostri costumi, ma sarà ricordata anche la storia segreta dei nostri cuori, brame vergognose, progetti ridicoli, gelosie basse e segreti; sentimenti vili, che cercavamo forse di nascondere a noi stessi ricoprendoli con veli pietosi, odi e animosità, intenzioni guaste e viziate, tutta questa vicenda di passioni usciranno d’improvviso come da una imboscata, mentre una luce improvvisa illuminerà l’abisso del nostro io e quel mistero d’iniquità che è il cuore umano. E sarà allora che vedremo come ciò che noi conoscevamo meno era noi stessi. All’esame del male che abbiamo fatto succederà quello del bene che abbiamo tralasciato: omissioni infinite, delle quali la vita nostra è stata piena, occasioni di esercitare la virtù tante volte neglette, anime che avremmo potuto formare e salvare e che abbiamo lasciato perire, indolenze, mollezza, indifferenza, lunga serie di giorni perduti e sacrificati all’ozio… E non basta. Saremo esaminati sulle grazie, delle quali abbiamo abusato; ispirazioni sante non raccolte, prediche e buone parole trascurate, dolori non santificati, doni naturali che avrebbero dovuto essere germi di virtù e furono sorgenti di vizio. E questi sono i peccati nostri. Ma l’esame non si fermerà qui. Si estenderà anche ai peccati altrui, che abbiamo causato e occasionato e che, quindi, ci verranno imputati. Ci saranno presentate le anime tutte, alle quali siamo stati causa di caduta o di scandalo; tutte le anime precipitate all’inferno per i nostri esempi, i nostri discorsi, le nostre immodestie; tutte le anime delle quali abbiamo sedotto la debolezza, corrotto l’innocenza, pervertita la fede, scosso la virtù, autorizzato il libertinaggio, confermato l’empietà. Gesù Cristo, al quale appartenevano, ce le richiederà come una conquista preziosa, che gli abbiamo ingiustamente rapito. Egli ci domanderà il prezzo del suo sangue. Non basta ancora. Le stesse nostre virtù, le opere sante compiute, saranno sottoposte ad una simile discussione rigorosa; intenzioni e motivi nascosti, che guastavano l’azione virtuosa; carità e beneficenze fatte per uno scopo d’ambizione; preghiere recitate senza raccoglimento, Sacramenti profanati, atti di pietà sciupati. Comunioni distratte senza preparazione e senza ringraziamento; vane compiacenze di sè e ricerca perenne di noi stessi anche nelle opere di Dio e del bene; il preteso oro che ci si rivelerà falso… E Massillon, dopo una tale descrizione, gridava con sant’Agostino: « Oh, se già in questo momento potessi vedere coi miei occhi lo stato della mia anima!.. ». L’esame di coscienza può realizzare questo voto dell’autore delle Confessioni; e può e deve essere il mezzo di prevenire e di evitare un simile giudizio divino; nè alcuno vi sia, che si disperi dinanzi ad una visione lugubre d’un passato di vergogne e di cadute. La morale cristiana, se da una parte ci invita a scendere nell’abisso delle nostre miserie, dall’altro ci indica nel Cuore di Cristo l’abisso dell’Amore che perdona e redime. Alla storia delle sconfitte si intreccia la storia delle divine misericordie.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (51a.)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (51a)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

INDICE DEGLI ARGOMENTI -IX a-

J. DIO SANTIFICANTE MEDIANTE I SACRAMENTI.

J 1 1. I Sacramenti prima dell’istituzione della Chiesa.

Tra le leggi del Vecchio Testamento esistevano anche i Sacramenti (1310) 1348 1602.

Questi sacramenti differivano dai nt Sacramenti drl N.T. in quanto non producevano la grazia, ma significavano che essa sarebbe stata solo in futuro da Cristo. 1310 1602.

La Circumcisione come sacramento rimetteva il peccato originale 780.

Dopo l’avvento di Cristo i Sacramenti del Vecchio T. cessarono ed il loro uso, promulgato ill Vangelo divenne peccato punibile 1348.

J 2 Sacramenti del Nuovo Testamento in genere.

J 2a. a. — ESSENZA DEI SACRAMENTI.

I Sacramento sono segni sensibili ed efficienti della grazia invisibile (1310 1606) 3315 3858; sono simbolo di cosa sacra e forma visibile della grazia invisibile 1639; riprov.: [I S. sono nudi simboli o segni esterni della fede praticata] 1602 1606 3489.

Nel rito dei Sacramenti si distingue la parte essenziale (materia e forma) e la parte cerimoniale 3315.

Tre sono le cose che producono un Sacramento: (una cosa tq.) materia, (le parole tq.) forma (nella persona del suo ministro) l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa. 1262 1312 1998 2536 3126 CdIC 742, § 1; l’essenza del sacramento è costituita dalla materia e dalla forma 1671.

La materia di per sé non è parte determinata (onde determinare la forma) 3315;

Pertanto l’imposizione della mano usata per sé non designa nulla di definito negli Ordini sacri, alla Confermazione, alla a.riconciliazione a110 a123 a127 a183 211 316 320 3315.

La forma dece significare l’effetto sacramentale 3315.

J 2b. b. — ORIGINE DEI SACRAMENTI.

2ba. Origine remota cioè,l’istituzione di Cristo. a.Tutti i Sacramenti del N.T. sono stati istituiti da Cristo 1864 2536 CdIC a731, § 1; si riprovano le asserzioni dei modernisti circa l’origine dei Sacram. 3439s.

I Sacramenti sono sette 860 1310 1601 1603 1864 2536.

2bb. Origine prossima o amministrazione. La Chiesa è originalmente ed universalmente dispenatrice dei Sacramenti: Cristo battezza per mezzo della Chiesa, sacrifica etc. 3806; crede nella remissione dei peccati, in resurrezione, nella vita eterna attraverso la Chiesa 21s.

Potestà della Chiesa nei Sacramenti. La Chiesa non ha il diritto di mutare ciò che attiene alla sostanza (o all’ a.integrità e al necessitare dei Sacramenti a1061 1699 1728 3556 3857.

Nel dispensare i Sacramenti la Chiesa ha il diritto di stabilire o mutare ciò che giudica meglio indicato per i tempi, i luoghi, la varietà delle cose, salvo la loro sostanza 1728.

Il Ministro dei Sacramenti ne è causa strumentale 1314.

La potestà del ministro e l’effetto dei Sacramenti non dipendono dalla probità (morale) del ministri 580 644s 793s 912 914 1019 1154 (1208) 1211-1213 1219//230 1262 1612 1684; add. condizioni del ministro del Battesimo, penit, ordin., J 3b 6b 8b.

Riprov. gli errori circa l’ambito dei ministri [Tutti i Cristiani possono amministrare i Sacramenti] 1610; [qualsiasi Sacerdote può conferire qualunque Sacramento] 1136; [la restrizione del potere di conferire i Sacramenti ai semplici Sacerdoti è stata fatta per il lucro e l’onore dei Vescovi] 1178.

Uno stesso ministro deve usare la materia e pronunziare la forma 2524.

Per l’efficienza dei Sacramenti è necessaria l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa 1262 1312 1315 1611 1617 (2536) 3126; si riprova l’opposta asserzione dell’esteriorismo 2328; chi usa la debita materia e forma, si presume abbia l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa 3318 3874:

Errore circa l’effetto del Sacramento (a. anche professato pubblicamente) per se non esclude l’intenzione di fare ciò che la Chiesa fa (3100-3102) a.3126; in questo principio è compresa la dottrina circa la validità del battesimo degli eretici (cf. J 3b), in qualunque modo sia conferito il rito cattolico ; contra, mutato il rito, si dubita circa la retta intenzione 3318.

Qyando i Sacramenti siano da conferire in forma condizionale

CdIC 941; ved. ai singoli Sacramenti.

Si riprova l’asserzione più lassa circa l’applicazione del probabilismo nell’amministrazione dei Sacramenti. 2101.

Rito e cerimonie della Chiesa non sono condannati senza peccato, se disprezzati o mutati per qualsiasi motivo 1255 1613 1811; il S. Pontefice può tollerare diversi riti fermo che siano di necessità di Sacramento 1061.

Si rivendica la legittimità di certi riti, ctr. i denigratori 1062 1864 2631-2633.

J 2c. c. — FINI, EFFETTO, STIMA DEI SACRAMENTI.

2ca. Fini. I Sacramenti sono mezzi specifici di salvezza e santificazione 2536

CdIC “731, § 1; si riprovano errori circa il fine 1605 3441 3489.

2cb. Effetto. I Sacramenti conferiscono (o aumentano) la grazia quando a.non si pone ostacolo (b.degnamente ricevuti) b1310 a1451 a1606 1602//1608 1864 2536 a3714 (a3845) CdIC a1110.

L’efficacia dei Sacramenti è ex opere operato, cioè i Sacramenti hanno virtù da se stessi come azioni di Cristo medesimo. 3844-3846.

Alcuni Sacramenti , a.cioè. batt., confermazione, ordine, imprimono un carattere, b.pertanto non possono ripetersi 781 ab1313 a1609 a1767 a1864 2536 CdIC ab732, § 1; il carattere è un segno spirituale indelebile nell’anima 1313 1609; dunque non è il Verbo di Dio 3228; il carattere è impresso quando non è ostacolato dalla volontà contraria 781; si imprime anche nella finta ricezione del Sacramento 781.

2cc. Necessità. I Sacramenti non sono superflui 1604 1864; senza i Sacramenti reali o di desiderio, . L’uomo non è giustificato, riprovata l’asserzione: [l’uomo è giustificato dalla sola fede senza Sacramento] 1604 1605s 1608 CdIC 737.

§ 1; in certi aggiunti effetti necessari per ottenere la salvezza si può col solo voto o desiderio (a.anche implicito) (1524 1543) 3869 a3870-3872; o per la fede del Sacramento 121.

Non tutti i Sacramenti sono necessari ai singoli uomini 1604 18642536.

2cd. Dignità. Non senza peccato i Sacramenti sono disprezzati o negletti. 1259 1699 1718 1775 2523 CdIC 944.

Tra i Sacramenti del N.T. vi è diversità di dignità 1603; l’Eucarestia eccelle sopra i restanti Sacramenti 1639s (3847).

J 2d. d. – SOGGETTO DEI SACRAMENTI.

Soggetto legittimo non è l’eretico o lo scismatico anche se errante in buona fede e se non chiede di essere riconciliato CdIC 731, § 2.

Il soggetto deve avere in qualche modo l’intenzione di ricevere il Sacramento CdIC 752, § 3 754, § 3; contradicendo l’accoglienza non si riceve né l’oggetto né il carattere del Sacramento 781; per i dormienti e dementi non si ha l’effetto del Sacramento anche se prima di questo stato consentirono o contraddissero 781.

3. Sacramento del Battesimo.

J 3a. a. ESSENZA DEL GIUDICETIA BATTESIMO.

Il Battesimo è un sacramento 761 777 860 1310 1314 1601 1864 2536; succede alla circumcisione 780.

La materia (remota) è l’aqua a.naturale 802 903 1082 a1314 a1615 CdIC a737, § 1; è lecito mescolare un siero antisettico 3356; materia invalida -: saliva 787; -: birra 829.

La materia prossima è l’abluzione (per mezzo di a.immersione b.infusione o c.aspersione) a229 a589 a757 CdIC 737, § abc758.

Si riprova: [Materia essenziale del battesimo è l’acqua, il crisma, l’eucaristia] 1016.

La forma è l’invocazione del nome della Trinità divina 111 (cap. 9) 123 176s 214 445 580 582 (588) 589 592 (637) 644 646 757 802 903.

Il Battesimo “in nomine Christi” (a.resta in ambiguo, b.ammesso, c. riprovato) a111 (cap. 8) a211 c445 b646; non è valido il Battesimo nel nome degli Angeli 176.

Le parole (espressione dell’azione) “ego te baptizo” sono necessarie per la validità 757; vale la loro forma attiva e passiva 1314; la falsa pronunzia per mera ignoranza o per difetto di lingua non invalida il battesimo 588 592; asserzioni riprovate circa la forma 2327s 2627.

J 3b. b. – ORIGINE DEL BATTESIMO.

Il ministro deve essere diverso dal soggetto battezzato (non si può battezzare se stesso) 788.

Il minister del Battesimo solenne (ordinario) è solo il Sacerdote 1315 CdIC 738; min. del bpt. straordinario è il diacono CdIC 741; in caso di necessità può essere ministro-: qualsiasi uomo, che in qualche modo conservi la forma della Chiesa ed intenda fare ciò che fa la Chiesa 1315 2536 CdIC 742,

§ 1; – anche un laico 120 1315 1349 (2536); – : anche uno scismatico 356; – : eretico 110s 123 127s 183 211 214 305 315s 320 478 1315 1617 (2536) 2567-2570 3126; -: giudeo 646; -: pagano 646 1315 (2536).

La qualità morale del ministro non influisce sulla validità 580 644.

L’errore del ministro circa l’effetto del battesimo non esclude l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa 3100-3102; laddove si possa veramente dubitare circa l’intenzione, si deve conferire il Battesimo condizionato 2838; in caso di battesimo ricevuto nell’eresia non sempre è di principio il battesimo condizionato, ma è da indagare e distinguere 3128; nel dubbio è da battezzare 319 582; in qualunque caso di Battesimo condizionato si disserta 2835-2839 3128

CdIC 746, § 2-5 747-749 752, § 3; formula del Battesimo condizionato da usarsi 758.

Rito del Battesimo da tollerare ed abolire 830.

J 3c. c. — FINE, EFFETTO, VALORE DEL BATTESIMO.

3ca. Effetto. Si riceve la grazia di Cristo (a.infusione della grazia informante e delle virtù, b. l’abito della fede) 111 a780 a904 b2567; riprov.: [il Battesimo di Cristo ha la stessa virtù del battesimo di Giovanni Battista ] 1614.

Il Battesimo produce —: la rinascita spirituale (a.nuova creatura) 219(239) 1311 a1672. – : un membro della Chiesa cattolica 1314 1671 2567-2570 3685 CdIC 87 737, § I;

Il battezzato ottiene tutti i diritti ed i doveri del membro, se non oppone un ostacolo (censura), un vincolo che impedisce la comunione CdIC 87; —: membro del Corpo mistuco di Cristo 1314 1671.

— : la remissione dei peccati (a.pecc. originale, b.dei peccati attuali) (3s) 41//48 (51) 60 150 a223s a231 a239 a247 308 ab325 575 a637 a685 a741 777 a780 ab794 ab1076 ab1316 a1514s 1672 a2559; tale remissione è piena, integra 1672; i peccati non solo da imputare 1515; il Battesimo elimina egualmente a tutti il peccato orig. 637; si riprov. gli errori circa l’effetto: [è tolto solo il reato alla pena] 1957; [già il solo ricordo del Battesimo e la sua fede rimette i peccati dopo il Battesimo o li muta in veniali] 1623.

— : la remissione di ogni pena (pertanto a.ai battezzati non è da imporre nessuna soddisfazione) a1316 1543.

— l’impressione del carattere (anche nel Battesimo a.degli eretici ed b.in quello ricevuto fittiziamente). b781 1998 a2566 CdIC 732, § 1; pertanto non è lecito ritardate il Battesimo 183 316 319s (478) 580 (582) 644 758 810 855 1081 1624 1671 CdIC 732, § I: da qui la fede in un soloBattesimo 3s 41//5 I 150 319 684; riprov. l’errore circa il carattere 3228.

Sequele per la vita morale: la grazia del Battesimo per sé sola non è sufficiente ad assicurare la salvezza, ma si richiede un ulteriore ausilio della grazia e la cooperazione unana. 241, 397; il Battesimo non libera dagli obblighi della legge di Dio, della Chiesa, dei voti 1620-1622; ol Battesimo pt. non dissolve i matrimoni degli infedeli (ma conferisce solo il diritto ad un nuovo matrimonio in forza del privil. Paolino) 777 2582 2585 CdIC 1126.

3cb Necessità. Il Battesimo è un mezzo prescritto da Cristo 219; è necessario o in forma o almeno a.come voto (o desiderio), questo è il Battesimo di b.fiamma (121) 184 231 b741 a1524 1672 2536 a3869 CdIC ‘737, § I; add. luoghi del Battesimo degli infanti: J 3d.

In caso di necessità il Battesimo può essere amministrato in ogni tempo, anche nella Chiesa antica, nella quale era lecito solo nei giorni di Pasqua e di Pentecoste 184; in tal caso giustifica anche la fede senza Sacramento 121.

3cc. Dignità. Il Battesimo è il primo di ogni Sacramento ed il a.loro fondamento 1314 CdIC a737, § 1; è la a.porta di entrata nella Chiesa, b.dei Sacramenti, c.della vita spirituale c1314 a1671 a3685 CdIC b737, § 1.

J 3d. d. — SOGGETTO DEL BATTESIMO.

Il soggetto del Battesimo è solo ogni uomo viatore non ancora battezzato CdIC 745; è legittimato il Battesimo degli infanti 184 219 223 (224 247) 718 780 794 802 903 1349 1514 1625-1627; il Battesimo degli infanti (richiesto) di genitori acattolici, sotto quali condizioni sia lecito 2552-2562 3296 CdIC 750s;

Ugualmente il Battesimo conferito ai moribondi adulti infedeli 3333-3335.

Nell’adulto è richiesta per una valida ricezione a.l’intenzione, per una lecita disposizione b.la fede e c.la penitenza b2380s bc2835-2839 ab3333-3135.

4. Sacramento della confermazione.

J 4a. – ESSENZA DELLA CONFERMAZIONE.

Il battezzato deve essere condotto a: a.la benedizione b.l’imposizione della mano del Vescovo b120 a121 b123; c.il crisma sulla fronte, i. e. b.l’imposizione della mano è la confermazione a785 ab794 a831 b860 a1990 a2522 CdIC 780 781, § 2.

La confermazione è un Sacramento (785 794) 860 1310 1317 1601 1628 1864 2536.

La materia (remota) è il crisma (a.dal balsamo ed olio di olivo) b. benedetto dal Vescovo a831 a1317s b1992 CdIC 734, § 1 b781, § 1.

Forma delle parole della confermazione 1317.

J4b. b. – ORIGINE DELLA CONFERMAZIONE.

Si riprova l’asserzione dei Modernist. circa l’origine remota della confermazione 3444.

Il ministro a.ordinario è (solo) il Vescovo 120 123 183 187 215 320 785 794 831 860 a1069 a1318 a1630 1768 1777 a2588 CdIC .782, § 1; ministro straordinario può essere il semplice Sacerdote (a.ma non il diacono) b.fornito di facoltà della Sede Ap. a187 215 b10705 b1318 b2522 b2588 CdIC 781, § 2 a782, § 2; in mancanza di tale delega, proibita ed invalida è la confermazione del semplice Sacerdote 1990s 2522.

Ministro del crisma è solo il Vescovo, questo pure per a.ministro straord., il crisma deve essere benedetto d Vescovo (catt.) 187 215s 1068 (1071) 1317 a1318 (a1992) a2588 (CdIC .781, § 1).

Si riprovano le asserzioni circa il ministro 866 1178 3556.

Riti tollerati nella preparazione del crisma nella confermazione 831.

J 4c. c.0- FINE, EFFETTO, VALORE DELLA CONFERMAZIONE.

Si conferisce lo Spirito Santo 215 785 831 1318s; si dà come un aumento di grazia ed un rinforzo della fede 785 1311 1319.

Si imprime un carattere, pertanto la confermazione a.non si può ripetere 1313 1609 1767 CdIC a732, § 1; riprovato: [al cresimati non è da attribuire alcuna potenza] 1629.

La Confermazione non è un mezzo necessario alla salvezza 2523 CdIC 787; ma il trascurarlo non è senza peccato 1259.

J 4d. d. – SOGGETTO DELLA CONFERMAZIONE.

Soggetto è qualsiasi battezzato CdIC 786.

Per una lecita e fruttuosa ricezione si richiede lo stato di grazia. CdIC 786.

FESTA DEL CUORE IMMACOLATO DI MARIA (2023)

FESTA DEL CUORE IMMACOLATO DI MARIA (2023)

22 Agosto

(doppio di II classe)

LA FESTA. – Il 22 agosto è consacrato, secondo il decreto della S. Congregazione dei riti del 4 maggio 1944, al Cuore Immacolato di Maria anziché all’ottava dell’Assunzione. E’ festa doppia di 2a classe. La festa è stata introdotta a ricordo della consacrazione del mondo al Cuore Immacolato di Maria (8 dicembre 1942) affinché sia data, con l’aiuto della Madre di Dio, a tutti i popoli la pace, alla Chiesa di Cristo la libertà. È un caso raro nella liturgia che l’ottava di una festa sia consacrata ad un’altra seconda festa di contenuto quasi uguale. Come Cristiani docili accogliamo volentieri questo arricchimento del calendario e, dal punto di vista liturgico cerchiamo anche di conoscere meglio il significato di questa festa. Innanzitutto non ci dobbiamo preoccupare per il fatto che vengono sempre introdotte nuove feste. Infatti non passa quasi anno che non ci sia una nuova festa. Che cosa ne è del tranquillo ritmo dell’anno? Non si cagiona con feste così molteplici un po’ di disagio spirituale?

DALLA MESSA (Adeamus). – La Messa contiene una serie di testi propri che di solito non si trovano nelle Messe mariane. L’introduzione è un vero Introito: ci presentiamo con fiducia davanti al trono della grazia. L’Epistola è il bel brano tolto da Gesù Sirach: « Io sono la madre del bell’amore… ». Il Vangelo ci conduce ai piedi della croce: Gesù affida Giovanni alla Madre sua. Questo passo è ripetuto al Communio con alcuni versetti del Magnificat.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
M. Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam,
absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Hebr IV:16.
Adeámus cum fidúcia ad thronum grátiæ, ut misericórdiam consequámur, et grátiam inveniámus in auxílio opportúno.

[Accostiamoci al trono delle grazie con piena e sicura fiducia, per avere misericordia e trovare grazia che ci soccorrano al tempo opportuno.]

Ps XLIV:2
Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea regi.

[Vibra nel mio cuore un ispirato pensiero, mentre al Sovrano canto il mio poema.

Adeámus cum fidúcia ad thronum grátiæ, ut misericórdiam consequámur, et grátiam inveniámus in auxílio opportúno.

[Accostiamoci al trono delle grazie con piena e sicura fiducia, per avere misericordia e trovare grazia che ci soccorrano al tempo opportuno.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui in Corde beátæ Maríæ Vírginis dignum Spíritus Sancti habitáculum præparásti: concéde propítius; ut ejúsdem immaculáti Cordis festivitátem devóta mente recoléntes, secúndum cor tuum vívere valeámus.
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.

[O Dio onnipotente ed eterno, che nel cuore della beata Vergine Maria hai preparato una degna dimora allo Spirito Santo: concedi a noi di celebrare con spirito devoto la festa del suo Cuore immacolato e di vivere come piace al tuo cuore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
R. Amen.]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli XXIV:23-31
Ego quasi vitis fructificávi suavitátem odóris: et flores mei, fructus honóris et honestátis. Ego mater pulchræ dilectiónis, et timóris, et agnitiónis, et sanctæ spei. In me grátia omnis viæ et veritátis: in me omnis spes vitæ, et virtútis. Transíte ad me omnes qui concupíscitis me, et a generatiónibus meis implémini. Spíritus enim meus super mel dulcis, et heréditas mea super mel et favum. Memória mea in generatiónes sæculórum. Qui edunt me, adhuc esúrient: et qui bibunt me, adhuc sítient. Qui audit me, non confundétur: et qui operántur in me, non peccábunt. Qui elúcidant me, vitam ætérnam habébunt.
R. Deo grátias.

[Come una vite, io produssi pàmpini di odore soave, e i miei fiori diedero frutti di gloria e di ricchezza. Io sono la madre del bell’amore, del timore, della conoscenza e della santa speranza. In me si trova ogni grazia di dottrina e di verità, in me ogni speranza di vita e di virtù. Venite a me, voi tutti che mi desiderate, e dei miei frutti saziatevi. Poiché il mio spirito è più dolce del miele, e la mia eredità più dolce di un favo di miele. Il mio ricordo rimarrà per volger di secoli. Chi mangia di me, avrà ancor fame; chi beve di me, avrà ancor sete. Chi mi ascolta, non patirà vergogna; chi agisce con me, non peccherà; chi mi fa conoscere, avrà la vita eterna.]

Graduale

Ps XII:6
Exsultábit cor meum in salutári tuo: cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi.

[Il mio cuore esulta nella tua salvezza. Canterò al Signore perché mi ha beneficato, inneggerò al nome del Signore, l’Altissimo]

Ps XLIV:18
Mémores erunt nóminis tui in omni generatióne et generatiónem: proptérea pópuli confitebúntur tibi in ætérnum. Allelúja, allelúja.

[Ricorderanno il tuo nome di generazione in generazione, e i popoli ti loderanno nei secoli per sempre. Alleluia, alleluia.]
Luc 1:46; 1:47

Magníficat ánima mea Dóminum: et exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo. Allelúja.

[L’anima mia magnifica il Signore, e si allieta il mio spirito in Dio, mio Salvatore. Alleluia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
R. Glória tibi, Dómine.
Joann XIX: 25-27
In illo témpore: Stabant juxta crucem Jesu mater ejus, et soror matris ejus María Cléophæ, et María Magdaléne. Cum vidísset ergo Jesus matrem, et discípulum stantem, quem diligébat, dicit matri suæ: Múlier, ecce fílius tuus. Deinde dicit discípulo: Ecce mater tua. Et ex illa hora accépit eam discípulus in sua.
R. Laus tibi, Christe.
[In quel tempo, stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Maria Maddalena. Gesù, dunque, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che amava, disse a sua madre: «Donna, ecco tuo figlio». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre». E da quell’ora il discepolo la prese con sé.]

Omelia

(Sac. E. Campana: Maria nel dogma cattolico, VI Ed. Marietti ed., 1946)

IL CUORE DI MARIA

VI. — Di madre, Maria non ha soltanto la dignità e le funzioni auguste, ma, soprattutto, Ella ha il cuore! Il cuore di una madre! Quale abisso imperscrutabile di amore, tenero, delicato, preveggente, operoso, inestinguibile! Ogni cuore è fatto per amare, ma nessuno come quello di una madre conosce il segreto delle affezioni sublimi ed eroiche. Studiate i caratteri che rendono santo, prezioso, insuperabile un affetto, e voi li troverete tutti nel sentimento onde palpita un cuore materno. L’amor materno non conosce egoismo, ma vuol donare senza riserve; non indietreggia di fronte a nessuna ingratitudine, ma è sempre pronto al perdono di qualunque offesa ricevuta dal figlio; non si spaventa di nessun ostacolo, ma insiste, insiste nelle sue espansioni, finché non ha ottenuto lo scopo. Anche quando un figlio scellerato cercasse di soffocare sotto un torrente di maltrattamenti la propria madre, il cuore di lei avrebbe sempre ancora dei palpiti, e palpiti di tenerezza per il suo figlio. Tale è il cuore delle madri terrene: ebbene, molto migliore ancora è il cuore della nostra Madre celeste Maria. Ella ci ama in una maniera di cui noi, finché siamo pellegrini sulla terra, non arriveremo mai a formarcene neanche la più pallida idea. Appunto perché è nostra Madre adottiva, Ella ci ama più intensamente che qualunque altra madre naturale. Giacché quando voi dite madre adottiva, indicate una maternità che nasce dall’amore, riposa nell’amore, perdura sostenuta dall’amore. Perché madre adottiva, Maria sente di essere la Madre dell’amore, mater pulchræ dilectionis. Quando Dio la costituiva Madre universale di tutti gli uomini, le dava anche un cuore fatto apposta per amarci: metteva in quel cuore un tesoro inesauribile di bontà, di benignità, di misericordia, di compatimento a nostro riguardo. E come potrebbe Maria non amarci? Il suo amore verso di noi è una conseguenza necessaria dell’amore ch’Ella porta a Dio: « Quella medesima carità, scrive S. Francesco di Sales, che produce gli atti di amore verso Dio, produce ancora nel tempo stesso quelli dell’amore verso il prossimo. E come vide Giacobbe che una medesima scala toccava il cielo e la terra, servendo egualmente agli Angeli per discendere e per salire, così noi sappiamo, che una medesima dilezione si estende ad amar Dio ed il prossimo, sollevandoci all’unione amorosa coi prossimi » (Tratt. dell’amor di Dio, 1. X, c. XI.) – Come dunque è intensissimo l’amor divino, che arde nel cuor di Maria, così senza raffronto, dev’essere l’amore che porta a noi, che di Dio siamo stati fatti ad immagine e somiglianza. « Chi più di Maria, scrive S. Alfonso, ha già amato Dio? Ella ha amato più Dio nel primo momento del suo vivere, che non l’hanno amato tutti i Santi e tutti gli Angeli nel corso della loro vita… Pertanto, siccome non vi è tra gli spiriti beati chi più di Maria ami Dio, così noi non abbiamo, e non possiamo avere chi, dopo Dio, ci ami più di questa nostra amorosissima Madre » (Glorie, p. I, c. 1, § 3). – L’amore di Maria per noi è alimentato ancora dall’amore che Ella porta a Gesù. L’amore di Maria per Gesù! Chi mai oserebbe pretendere di descriverlo? Gesù per Lei era tutto. Ogni pensiero della sua mente, ogni parola della sua lingua, ogni palpito del suo cuore era per Gesù! Tutte le sue azioni erano dirette a compiacere Gesù. Ora, è suprema legge psicologica per ogni madre, di amare tutto ciò che è amato dal figlio, tutto ciò che anche lontanamente lo ricorda. E quindi, in forza dell’amore che Maria sente per il suo Gesù, deve amare ancor noi, che con Lui abbiamo rapporti tanto stretti, tanto indistruttibili. Noi formiamo con Gesù come una cosa sola; siamo ossa delle sue ossa, carne della sua carne, perchè siam con Lui un sol corpo, del quale Egli è il capo e noi siamo le membra. Maria lo sa: Ella comprende l’unione che abbiamo col Salvatore, più di quello che arriviamo a comprenderla noi. Per questo non ci può separare nel suo cuore, per questo stende fino a noi, suoi figliuoli spirituali, quell’amore che porta al suo Primogenito. Soprattutto il sangue che Gesù sparse per il nostro riscatto è ciò che costringe Maria ad amarci. Cediamo la parola a S. Alfonso, il quale scrive: « Noi siamo tanto amati da Maria, perché vede che noi siamo il prezzo della morte di Gesù Cristo. Se una madre vedesse un servo ricomprato da un suo figlio diletto coi patimenti di venti anni di carcere e di stenti, per questo solo riguardo, quanto stimerebbe ella questo servo? Ben sa Maria che il Figlio non è per altro venuto in terra, che per salvare noi miserabili, com’Egli stesso protestò: Venni a salvare quei che si erano perduti. E, per salvarci, si è accontentato di spenderci anche la vita. Se Maria dunque poco ci amasse, poco dimostrerebbe di stimare il sangue del Figlio, che è il prezzo della nostra salute) (1. c.). – La prova poi che deve toglierci ogni dubbio intorno all’immenso amore che ci porta Maria, nostra Madre, sono i dolori atroci che soffrì. Ella, a causa dei suoi dolori, è giustamente chiamata la Regina dei martiri. Il suo dolore, a detta del profeta Simeone, fu come una spada che trapassò inesorabile il suo cuore. Il racconto dei dolori di Maria, è qualche cosa che fa rabbrividire: è solo Maria che li provò, solo Dio, che sa tutto, potrebbero farcene una relazione esatta. Ebbene, per chi soffrì Maria? forse a causa dei suoi peccati, in espiazione delle proprie colpe? No davvero: perché Ella non fu mai contaminata neanche dalla più leggera ombra di qualsiasi difetto morale. Fu sempre l’amica tutta bella ed immacolata dello Sposo celeste. Maria sofferse per noi, in espiazione dei nostri peccati; e questi suoi dolori sono, lo ripetiamo, la prova sacra ed ineluttabile dell’affetto che ci porta. Chi non ama, non sa soffrire per gli altri; mentre il sacrificio per la persona amata, nella misura della sua grandezza, indica infallibilmente la generosità dei palpiti che sente per la persona in cui vantaggio si sobbarca al sacrifizio. – L’eterno Padre ci amò infinitamente, destinando per noi alla morte il suo Figlio unigenito: Gesù non ci dimostrò un amore inferiore, immolando se stesso. Maria partecipò all’amore dell’eterno Padre, consentendo alla morte di Gesù, ed all’amore di Gesù, compatendo con Lui. Ed a causa dei dolori sofferti per noi da Maria, giustamente si può affermare di Lei, quanto S. Paolo dice di Gesù. Il grande Apostolo scrive di Lui : « Dovette in tutto assomigliarsi ai suoi fratelli, per diventar misericordioso. — Debuit per omnia fratribus assimilari ut misericors fieret » (Hebr., II, 17). E così anche Maria si sentì maggiormente sollecitata dai sentimenti di misericordia in nostro favore, dopo che ebbe comuni con noi i patimenti. Anche se Maria non avesse patito, sarebbe stata la nostra Madre piena di amore. Ma dopo che fu immersa nei patimenti, dopo che trangugiò Ella pure il calice delle più ripugnanti amarezze, il suo amore acquistò come una certa tenerezza, una certa sollecitudine ed intensità, che non avrebbe avuto altrimenti; acquistò insomma quella raffinata delicatezza che può nascere solo dal ricordo di aver pure un giorno conosciuto il dolore. Già vedemmo altrove i caratteri che distinguono l’intercessione per noi di Maria da quella degli altri Santi. Ebbene, quei caratteri gloriosi sono l’indice luminoso dell’intenso affetto di cui arde il cuore di Maria per i suoi figli ancora pellegrini sulla terra. E nell’effusione del suo amore, Maria abbraccia tutti: abbraccia i giusti ed i peccatori. Ella ama i giusti, perché vede risplendere in essi, piena di sovrannaturale fulgore, l’immagine di Gesù. E poi ama immensamente anche i peccatori, non nel senso che abbia piacere di vederli imbrattati della colpa, ma nel senso che è sempre pronta a stender loro generosa la sua mano soccorritrice, affin di farli risorgere dal pantano morale, in cui miseramente si dibattono, per rivestirli un’altra volta della veste nuziale della grazia.

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Luc 1:46; 1:49
Exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo; quia fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus.

[L’anima mia esulta perché Dio è mio Salvatore, perché il Potente ha operato per me grandi cose e il Nome di Lui è Santo.]

Secreta

Majestáti tuæ, Dómine, Agnum immaculátum offeréntes, quǽsumus: ut corda nostra ignis ille divínus accéndat, cui Cor beátæ Maríæ Vírginis ineffabíliter inflammávit.

[Offrendo alla tua maestà l’Agnello immacolato, noi ti preghiamo, o Signore: accenda i nostri cuori quel fuoco divino che ha infiammato misteriosamente il cuore della beata Vergine Maria.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Beata Maria Virgine
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitate beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festività della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepì il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesù Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtúù celesti e i beati Serafini la celebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.

V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann 19:27
Dixit Jesus matri suæ: Múlier, ecce fílius tuus: deinde dixit discípulo: Ecce mater tua. Et ex illa hora accépit eam discípulus in sua.

[Gesù disse a sua Madre: «Donna, ecco il Figlio tuo». Poi al discepolo disse: «Ecco la Madre tua». E da quell’ora il discepolo la prese con sé.]

Postcommunio

Orémus
Divínis refécti munéribus te, Dómine, supplíciter exorámus: ut beátæ Maríæ Vírginis intercessióne, cujus immaculáti Cordis solémnia venerándo égimus, a præséntibus perículis liberáti, ætérnæ vitæ gáudia consequámur.

[Nutriti dai doni divini, ti supplichiamo, o Signore, a noi che abbiamo celebrato devotamente la festa del suo Cuore immacolato, concedi, per l’intercessione della beata vergine Maria: di essere liberati dai pericoli di questa vita e di ottenere la gioia della vita eterna.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (14)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (14)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo QUINTO (3)

III. — IL CRISTIANO E L’AVIDITA’ DELLE RICCHEZZE.

Si attribuisce ad Alessandro Magno un detto curioso: « In una città assediata difficilmente potrà penetrare un filo di paglia; entrerà, però, sempre un asino con un carro carico d’oro ».

L’auri sacra fames fa scoppiare un nuovo conflitto. Tra l’Amore infinito di Dio e le ricchezze, l’uomo resta spesso esitante e poi molte volte si decide per l’idolo seducente del denaro. Né illudiamoci. Il ladruncolo della strada e l’elegante ladro della Borsa; il truffatore rinchiuso nel carcere ed altri imbroglioni che passeggiano fuori, e magari son decorati, il mercante o l’industriale che rubano all’ingrosso e l’oste che truffa al minuto con la subdola ripetizione del miracolo di… Cana (perchè, dopo tutto, anche egli… converte l’acqua in vino); i retroscena di certi fallimenti, di certe réclames giornalistiche, di crak improvvisi e di improvvise fortune; in una parola, le innumerevoli violazioni del settimo comandamento, nelle loro forme più svariate, dall’usura alla mancanza di onestà di una domestica, non costituiscono gli unici casi quotidiani in cui la battaglia viene perduta. – Siccome non siamo puri spiriti ed abbiamo tutti i nostri bisogni economici, la tentazione è sempre presente. È facile che il nostro cuore, quasi senza che ce ne accorgiamo, palpiti non per il Padre che è nei cieli, ma per il portafoglio che è nella tasca o per la cassaforte che è nell’ufficio. – Carlo Marx ha senza dubbio esagerato, quando con la sua concezione materialistica della storia ha sostenuto che in ultima istanza ogni fatto storico si spiega per via della sottostante struttura economica; ed i suoi discepoli hanno esagerato più ancora, sino al ridicolo, quando hanno voluto ridurre la storia e la vita ad una Magenfrage, ad una questione cioè puramente di stomaco. Sarebbe come un ridurre il poema dantesco all’inchiostro col quale è stato scritto. Tuttavia, chi può negare che un’anima di vero vi sia nel materialismo storico? La potenza del denaro domina, s’impone, tiranneggia; nazioni e individui, dinanzi ad essa, dondolano ed ondeggiano, si chinano e cedono. – Guerre di popoli e inimicizie personali, atteggiamenti politici e condotta individuale sono spesso influenzati e determinati anche e soprattutto dalla avidità del denaro. Del resto, la questione sociale che agita il mondo non ha forse anche un carattere economico? Ed allora i problemi s’impongono: com’è possibile essere praticamente Cristiani? Dobbiamo forse per seguire la morale di Cristo, che dichiara « beati i poveri », distruggere l’economia mondiale, o rovinare l’industria ed il commercio nazionale? I popoli han bisogno di ricchezza; povertà significherebbe la negazione della civiltà. La famiglia e gli individui debbono cercare d’arricchire; altrimenti verrebbe meno una fonte di progresso. Oh che vorreste convertire la terra in un ampio convento? A queste difficoltà s’aggiunge l’altra domanda: qual è la tattica che il Cristianesimo ci prescrive di fronte alla ricchezza? Come si vede, il problema storico, la questione sociale e la condotta individuale sembrano allearsi, per rendere più ardua la lotta, più oscura la risposta.

1. – Il principio fondamentale.

Bisogna sempre partire dal principio fondamentale: Dio è il centro della realtà e tutte le cose dipendono da Lui e debbono essere a Lui subordinate. Perciò non è lecito capovolgere l’ordine e porre a centro di tutto il denaro. O si riconosce come Essere supremo Iddio e il suo Amore infinito: altrimenti cadiamo nell’idolatria. « Non si può servire a Dio e a Mammona », ammonisce Cristo. E tutto lo spirito della sua predicazione contro l’abuso delle ricchezze è riassunto in tale concetto. Perché mai volete rifiutare Dio e rendervi schiavi dell’oro? « Badate e guardatevi da ogni cupidigia, perché la vita d’alcuno non stà nella ridondanza de’ beni che possiede ». Il valore d’un uomo non si misura dalla sua condizione economica; anzi, sovente la « seduzione delle ricchezze soffoca la buona semente della parola divina e la rende infrutuosa ». a Quelli che vogliono arricchire, commenta poi san Paolo, scrivendo a Timoteo, cadono nella tentazione e nel laccio del diavolo ed in molti desideri inutili e nocivi, che sommergono gli uomini nella morte e nelle perdizioni. Radice, infatti, di tutti i mali è la cupidigia ». I beni terreni non sono sicuri: “Non cercate, quindi, di accumulare tesori sulla terra, dove ruggine e tignola consumano e dove i ladri dissotterrano e rubano. Ma accumulatevi dei tesori nel cielo… ». Inoltre sono beni che bisogna un giorno abbandonare con la morte, come rammenta la parabola: « A un uomo ricco fruttava bene la campagna; e andava ragionando fra sè: — Come farò, che non ho dove riporre la mia raccolta? — E disse: — Farò così: demolirò i miei granai e ne fabbricherò di più vasti e ci metterò tutti i miei prodotti e i miei beni; e dirò all’anima mia: o anima, tu hai messo da parte i beni per molti anni: riposati, mangia, bevi e godi. — Ma Dio gli disse: — Insensato, questa notte ti si richiederà l’anima tua; e quanto apprestasti, di chi sarà? — Così, chi tesoreggia per sè e non arricchisce avanti a Dio». – Ecco, dunque, la base essenziale: dobbiamo amare Dio sopra ogni cosa, non il denaro; chi vive per il denaro, praticamente rinnega Dio e lo sostituisce con un idolo di oro.

2. – Ciò che non insegna la morale cristiana.

Non si deducano da un simile principio elementare conseguenze che nulla hanno a che fare con esso. 1. La morale di Cristo non condanna la ricchezza, in quanto ricchezza. Non proviene forse anch’essa da Dio? Non è forse uno dei doni che il suo Amore infinito fa all’umanità? L’uso della ricchezza è santo; solo l’abuso viene stigmatizzato. Nessuna meraviglia, quindi, se Gesù entra nelle case dei ricchi, se si asside alla loro mensa, se ha fra i suoi amici persone facoltose. Il fatto di Zaccheo (convertito da una visita gentile del Maestro) che restituisce con generosità ciò che aveva rubato, ma non dà tutte le sue sostanze, e che pure sente la bella assicurazione: « Oggi la salvezza si è fatta per questa casa », è significativo. E quando dovrà istituire l’Eucaristia, Gesù vorrà un cenacolo riccamente addobbato, che preludeva alla ricchezza dei suoi templi e delle basiliche cristiane, dove, essendo essa subordinata a Dio ed al suo servizio, l’ordine è rispettato. Ma non sembra — si chiederà qualcuno — che Cristo abbia condannato non solo l’abuso, ma anche l’uso della ricchezza? Non leggiamo noi forse in san Luca: « Guai a voi, o ricchi, perché avete ricevuto la vostra consolazione? ». No, Il vae vobis divitibus non è l’esclusione del ricco dalla Chiesa, ossia dal regno de’ cieli; ma è l’ammonimento dei pericoli che il denaro porta con sé. L’affetto sregolato ai beni che si possiedono sorge in noi facilmente e ci rende febbricitanti, come nota il santo di Ginevra; simili a chi è divorato dalla febbre e beve acqua con avidità, così il denaro ci comunica la febbre di una avarizia mai sazia. Inoltre, la fame dell’oro suggerisce mezzi illeciti per procurarselo e per conservarlo. E l’ansia per tale conquista e per tale difesa fa dimenticare i beni più alti e la vita morale. Se l’animo non è staccato dall’oro, osserva san Vincenzo de’ Paoli, somiglia ad una persona legata mani e piedi ad un albero, la quale non può né fuggire, né recarsi a domandar soccorso, e che pure si crede libera. Il denaro è spesso una chiave ingannatrice: essendo dorata, tutti la guardano e la bramano; e non sanno che essa ci rinchiude nella prigione dell’egoismo, dove più non si pensa ad amare Dio, più non ci si preoccupa del povero Lazzaro, ricoperto di piaghe, che invano sospira le briciole della mensa. t solo per questa antitesi tra l’egoismo e l’amore a Dio ed ai fratelli che Gesù dichiara: « È più facile che un cammello passi per la cruna d’un ago, che un ricco entri nel regno de’ cieli ». E chi riflette a tutti gli sfruttamenti compiuti nei secoli dagli Epuloni, comprende e conclude: è giusto. O si ama Dio e il prossimo, e si è Cristiani; o il dio nostro è il denaro, ed allora non lo siamo più. – Certo, può essere Cristiano il ricco, che usa delle sue ricchezze, ispirandosi al precetto dell’amore. Vorrete forse rifiutare il nome di « Cristiano a Leone Harmel, che a Valdebois fu il bon père dei suoi operai e che mostrò a fatti come anche l’atmosfera industriale può essere resa ottima dall’ossigeno dell’amore? Il ricco, non egoista, che nell’uso dei beni terrestri non viola il piano divino, non merita di sentirsi un giorno rivolgere da Cristo la terribile sentenza: « Avevo fame e non mi desti da mangiare… ». Egli, non solo con l’elemosina, ma con tutte le iniziative che la funzione sociale della ricchezza può suggerire in una determinata epoca e nelle circostanze concrete in cui vive, ama veramente Dio e il prossimo; ossia è veramente Cristiano.

2. Il Cristianesimo non giustifica la trascuratezza nei doveri che ognuno ha a proposito delle sue necessità economiche. Potrebbe, ad esempio, dire d’essere fedele al comando dell’amore un padre di famiglia che non si curasse dei bisogni della sua casa, o una mamma che sciupasse somme forti nel lusso ed in spese superflue, col pretesto che non bisogna avere il cuore attaccato al denaro? Il vero precetto non è negativo, ma è positivo: amare Dio e il prossimo. Lo sciupio del denaro, la noncuranza del risparmio, il criminoso disinteresse di fronte alle necessità dei propri cari, cosa sono in ultima analisi se non l’egoismo, ossia la negazione assoluta della morale cristiana? Chi profonde somme pazze nel gioco; chi sperpera il salario all’osteria; chi fa debiti per divertirsi e per condurre una vita di lusso sproporzionata alle proprie entrate, è egoista sempre. Non cerca Dio, ma se stesso, e resta nel disordine. Gesù Cristo, al contrario, c’insegna a preoccuparci anche delle cose economiche, ispirandole col senso del retto amore. Dinanzi alla folla immensa, che attratta dalla sua divina parola, l’aveva seguito nel deserto, ha forse esclamato: « Beati i poveri, perchè possono morire di fame »? No. Ha pronunciato, piuttosto, la sua sublime esclamazione: « Misereor super turbam » ed ha sfamato il povero popolo. È moralmente doveroso, quindi, ed è un’applicazione evidente del precetto dell’amore, interessarsi dell’economia propria, dell’economia domestica, delle finanze nazionali e dell’economia sociale. Oh, non è forse un amare il prossimo anche il procurare il benessere economico dello Stato, il promuovere la legislazione sociale, il contribuire all’organizzazione sindacale, cristianamente animata, del proprio Paese? – L’unica cosa che il Cristianesimo esclude è il capovolgimento dei valori. Quando, ad es., si asserisce che tutto è una questione di stomaco, la morale cristiana protesterebbe; ma quando si dovesse concludere: « Dunque il Cristiano non deve preoccuparsi dell’economia », si direbbe uno sproposito. Anche la Magenfrage si trasforma per noi in un problema morale, che dev’essere risolto non come lo potrebbe fare un bruto, non come lo potrebbe fare un economista puro, ma come ha il dovere di scioglierlo un economista discepolo dell’Amore. Queste due parole: economia e Cristianesimo non fanno a pugni. Quantunque la missione di Gesù sia stata di ordine essenzialmente spirituale e quantunque sia vano ricercare nel Vangelo un trattato di economia politica od un programma di riforme economiche, tuttavia è chiaro che la morale cristiana dev’essere l’anima ispiratrice anche del movimento economico. È la grande idea, che nella Rerum Novarum Leone XIII, contro le negazioni della scuola liberale e della corrente socialista, ha illustrato col suo genio, col suo cuore, con la sua autorità di Pontefice e di Padre.

3. – La povertà di spirito.

Nel discorso della Montagna, con una espressione semplicissima e divinamente profonda, Gesù Cristo ha espresso la sua dottrina riguardo alla ricchezza, proclamando beati i poveri di spirito. Chi sono i « poveri di spirito »? Forse gli imbecilli, come ha interpretato qualche scemo? Per null’affatto! La morale cristiana vuole che noi abbiamo compassione dei deficienti, ma non li propone a modello; bensì ci invita ad invocare, fra i doni dello Spirito Santo, quello della sapienza, della scienza, dell’intelletto…

I « poveri di spirito » sono coloro che, possedendo o non possedendo ricchezze, non hanno il cuore legato ad esse; che, quindi, riconoscono praticamente la centralità di Dio, e non adorano il dio Quattrino. Può essere « povero di spirito» un milionario, che usa le sue fortune secondo il comandamento della carità, non solo beneficando il prossimo, ma utilizzando i suoi capitali in opere che ridondano a vantaggio sociale. E può essere « ricco di spirito » un indigente, che, non avendo nulla, è minato dalla cupidigia e non aspira se non al denaro, invidiando chi lo possiede. È insomma il distacco dell’animo e del cuore dai beni del mondo, che esige Gesù Cristo; è lo spogliamento affettivo, anche se non è reale; è la condanna sia della ricchezza eretta a divinità, sia della povertà subita a malincuore. La prima delle Beatitudini si riferisce, quindi, ad ogni persona, ai ricchi ed ai poveri. È qui che bisogna allora distinguere, fra il comando della povertà evangelica, imposto a tutti, ed il consiglio rivolto solo a coloro che tendono allo stato di perfezione.

4. – Il comando della povertà.

A tutti è comandato di essere « poveri di spirito», senza eccezione. Tutti, pur servendosi del denaro, non debbono esserne schiavi. Non noi per il denaro, ma il denaro per noi, per il prossimo, per Dio: ecco la norma obbligatoria della vita cristiana. Chi calpesta una simile legge, nega l’amore d Dio, perchè lo pospone ed un bene creato; causa disastri sociali, che sono in opposizione all’amore del prossimo; rovina se stesso, perché si prepara mille disillusioni. – Mai, come in punto di morte, colui che ha vissuto per il denaro coglie tutta la verità della morale cristiana. Nella propria giovinezza, forse, era giunta la benedizione di Dio: gli affari erano prosperati, il benessere economico aveva recato il suo sorriso nella casa e la ricchezza aveva portato il proprio bacio. Invece di essere riconoscenti al Datore di ogni bene, forse il nuovo ricco si è dimenticato di Lui. Arricchirsi e allontanarsi da Dio è sempre stata la storia di molti, in ogni secolo, ma specialmente nel secolo nostro. L’attivitànfebbrile nel mondo degli affari assorbe tutte le facoltà dell’animo: qualche operazione fruttuosa, ma poco scrupolosa, viene a celebrare i funerali dei vecchi precettuzzi di morale; il problema più importante lo si trova enunciato ogni giorno nel costo del cotone, della seta, dei cereali o nel listino di Borsa. Alle antiche preghiere del mattino si sostituisce lo sguardo avido alle oscillazioni nel prezzo delle azioni, alla media dei consolidati e dei cambi, alle notizie dei fallimenti e dei concordati. E gli anni passano a questo modo.., ed a questo modo arriva un’indisposizione ed una malattia. Dapprima la cosa pare trascurabile; qualche giorno di riposo e tutto sarà riparato… Poi, si aggiungono le complicazioni…

L E fra una ricetta e l’altra, fra una visita del medico e quattro parole con un amico, par di sentire il rumore di un passo, come di chi s’avvicini alla camera nostra. Che c’è?nNulla… È la signora Morte, in cammino,.. Ma come? Chi l’ha chiamata? Non ha essa rispetto per gli uomini d’affari? Ahimè! Che volete? La Morte non ha mai avuto tempo di leggere il Galateo di monsignor della Casa… Nel frattempo la malattia s’aggrava. Il medico curante ed i familiari suggeriscono un « consulto ». Si telegrafa, si telefona. E giungono gli uomini della scienza; visitano accuratamente, gentilmente; sussurrano le loro strane parole mezzo greche e mezzo italiane, che al profano destano l’impressione di pietose etichette utilissime per velare la dotta ignoranza. Che volete? Se l’organismo si sfascia, il « professore » anche più celebre potrà se mai esprimervi il fenomeno in termini scientifici; ma potete esigere da lui qualcosa di più? È allora, in qualche momento di quiete, che la signora Morte comincia a mostrare la sua faccia. Dapprima un sospetto lontano, un’idea pallida, un baleno improvviso e rivelatore. Ma è sufficiente per turbare, per provocare un sussulto d’angoscia, di terrore e di raccapriccio… – Officine? stabilimenti? campi? palazzi? ville? depositi alle Banche? ricchezze?… Tutto questo che giova? Bisognerà provvedere al testamento; ma nel testamento si ripete insistente un unico verbo; lascio, lascio, lascio… E nulla più. – L’esame della propria vita s’impone. In quella ricca stanza elegante, di notte, quando il sonno ristoratore tarda a venire, mentre qualcuno veglia al capezzale, d’improvviso il quadro della propria esistenza si affaccia alla mente dell’infermo. Dopo tanti bilanci a fine d’anno e a fine del semestre è purtroppo giunto il momento in cui bisogna pensare al bilancio della propria vita. Il Dio dei primi anni innocenti riappare. Forse riappare accanto alla figura della vecchia mamma, morta pregando e che come un giorno ha congiunto le manine del bimbo, sembra che oggi voglia riunire in atto di preghiera le mani del figlio morente… – La speranza, ultima dèa, tenta sorridere; ma ormai quel pallido sorriso appare bugiardo. Le forze sfuggono. Nell’animo agitato, sconvolto, il dramma prosegue. Ricordi di colpe, proteste di deboli, obblighi di restituzioni, rimorsi oscuri, quasi personaggi viventi, balzano nella coscienza, minacciano e scompaiono. La vanità di una esistenza intera, assorbita nel danaro e ad esso sacrificata, s’impone allo sguardo. È il crollo d’un meraviglioso palazzo, illuminato di illusioni; là, sulle rovine, sta lei, vendicatrice, la signora Morte… E guai se allora non giunge, col Ministro del perdono, il conforto di Dio dimenticato negli anni della prosperità e ritrovato nell’amaro e desolato tramonto…

5. – Il consiglio evangelico della povertà.

Al giovane, che l’interrogava sul modo di salvarsi, Gesù — ce lo riferisce il Vangelo di san Matteo — rispose: « Se brami di arrivare alla vita, osserva i comandamenti ». Ed il giovane a Lui: « Ho osservato tutto questo dalla mia giovinezza; che mi manca ancora? ». Allora Gesù: « Se vuoi essere perfetto; va, vendi ciò che hai e distribuiscilo ai poveri; ed avrai un tesoro nel cielo; e vieni, e seguimi ». A tutti la morale cristiana impone di non esser adoratori del denaro; alla schiera di chi vuol tendere alle alte vette, suggerisce e consiglia la rinuncia reale e l’abbandono effettivo, non solo affettivo, d’ogni ricchezza, uno spettacolo meraviglioso quello che Cristo ci offre. – In questo mondaccio, dove per un soldo moltissimi son pronti ad abdicare ad ogni senso di onestà e di pudore, quell’espressione del Vangelo è bastata per suscitare eserciti di anime, che hanno preso la Povertà in isposa. E passano dinanzi al memore pensiero i Monaci e gli Eremiti, tutti gli Ordini antichi e moderni, le Congregazioni e le Famiglie religiose. Son folle sterminate di persone, che con un gesto sorprendente, dànno un addio ai beni, alle comodità, all’oro, per condurre una vita di mortificazioni e di penitenze. Era opportuno che simile scena si rinnovasse nel succedersi dei tempi. La povertà evangelica, in mezzo alle cupidigie umane, è un rimprovero, un mònito, un appello. Se la sua voce oggi risuona per tante anime come una lingua incomprensibile, la ragione è che la morale cristiana non è conosciuta. Poichè, lo si noti bene, la vera povertà evangelica si riduce ad un atto di amore per Dio e per il prossimo. Non è solo il poverello d’Assisi che dalla povertà fu condotto all’Amore e che dall’Amore fu condotto al più alto grado della povertà; ma in ogni anima consacrata a Dio, che a Lui si lega con un voto, si verifica lo stesso fenomeno. Chi volontariamente si spoglia di quanto legittimamente gode, dice al Signore, con l’eloquenza del fatto: « Per tuo amore, o Signore, io rinuncio a tutto; il mio gesto è un gestond’amore per Te. Io voglio Te solo, in questo e nell’altro mondo, perchè Tu sei il mio Dio e la mia felicità ». Colui che è perfetto nella povertà, ama Dio sopra ogni cosa in modo evidente; e si capisce come debba amare anche i fratelli suoi, più di ogni e qualsiasi altra persona. Il suo cuore non è occupato da ossessioni per i beni terreni; perciò resta aperto a tutti i bisognosi. Chi mai, per portare un piccolo esempio, ama di più il suo prossimo, di quelle vergini spose di Cristo e della povertà che si consumano silenziosamente negli ospedali? E nella storia dell’economia qual è quell’anticlericale così ignorante, che possa cancellare l’influsso esercitato dagli Ordini religiosi sullo sviluppo sociale avvenuto col passaggio dall’economia a schiavi all’economia dei servi della gleba ed ai liberi cittadini del Comune medievale? – Sono esilaranti alcuni economisti, che indicano il Cristianesimo quasi fosse fautore di una trasformazione del mondo in un grande chiostro. No. C’è bisogno a questo mondo della prosa e della poesia. E guai se dovessimo abolire la prosa! Guai, se per comperare un po’ di pane o un po’ di prosciutto, la buona massaia dovesse parlare in versi col prestinaio o col salumiere! Così anche nella questione della ricchezza: occorre la prosa dell’economia e la bella poesia della povertà assoluta. Oh chel vorreste distruggermi Dante, perchè nelle vicende della giornata voi parlate non componendo terzine? State tranquilli. Di Alighieri non ne nascono dodici al giorno: e di persone che si consacrano alla povertà evangelica e che cantano la poesia del distacco dal denaro, non ve ne saranno mai troppe. Sia benedetta la poesia e sia benedetta la prosa! Ciò che importa è che, nell’una e nell’altra, non si commettano errori di grammatica, di sintassi, o di senso… Non basta indossare un saio per essere perfetti: e le degenerazioni di alcuni Ordini, come gli Umiliati, ce lo ricordano. Nessuno è da riprovarsi, se resta nel mondo e utilizza i suoi averi; solo si richiede che non cada in certi sbagli, per i quali, invece di servirsi del denaro, lo serve indecorosamente ed ignobilmente.

6. – Il cristiano e la ricchezza.

La vittoria completa nella lotta contro la cupidigia dei beni terreni il Cristiano la raggiunge con l’unione a Cristo. Basta risvegliare in noi questo senso della incorporazione nostra col Maestro divino, che volle nascere in una stalla, che volle vivere poveramente, che scelse come suoi Apostoli uomini privi di fortuna, per rendere sempre più vigile la coscienza riguardo al distacco del denaro. Basta riflettere che vive in noi quel Gesù, che soccorreva e provvedeva ad ogni miseria, per capire l’ammonimento della prima lettera di san Giovanni: « Se alcuno ha de’ beni del mondo e vede che il suo fratello ne ha bisogno e gli chiude le sue viscere, come può rimanere l’amor di Dio in lui? Figlioletti miei, non amiamoci con parole e con la lingua, ma con opere e in verità ». È questo dogma dell’unione mistica di Cristo con noi, che deve farci scorgere Gesù nei poveri e deve caratterizzare la elemosina cristiana: la quale è per definizione, come vedemmo, il soccorso nostro non al povero, ma a Cristo vivente nel povero. È questo il pensiero che anima gli scritti dei Padri e la vita dei Santi, e che un venerdì santo induceva Bossuet a dimenticare quasi il Redentore, per non parlare che del povero: « Non vi domando — egli esclamava dinanzi al suo uditorio — che voi contempliate qualche dipinto di Gesù crocifisso; io ho un’altra pittura da proporvi, pittura viva, che ha l’espressione naturale di Gesù morente. Sono i poveri… In essi Gesù soffre, langue e muore di fame. In essi Gesù è abbandonato, disprezzato ». – Finalmente l’unione di Cristo con noi ci ricorda Giuda, la sua battaglia, la sua sconfitta, il suo tradimento. Uniti a Cristo come lui, anche ad ognuno di noi si propone il dilemma: o l’amore fedele al nostro Dio, o trenta denari infami. “Non si creda che Giuda sia scomparso dalla terra. Egli rivive in molti Cristiani, che ripetono la sua offerta: « Quanto mi volete dare, perchè io ve lo consegni?». Ed il turpe mercato si rinnova e ancora si vende il Figlio dell’uomo… Unica differenza fra Giuda ed i suoi successori è che questi ultimi talvolta sono pronti a tradire per una somma minore di trenta denari… Ma anche se i Giuda divenissero sempre più numerosi, anche se il vile mercimonio continuasse e si diffondesse, Giuda, simbolo dell’avidità dell’oro, ha torto e la morale nostra conserva i suoi sacri ed imprescrittibili diritti.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. BENEDETTO XV – “PACEM DEI MUNUS PULCHERRIMUM”

Subito dopo la fine del primo conflitto mondiale che aveva procurato morte, devastazioni, rovine immense, S.S. sente il bisogno di indicare la via della riconciliazione e del perdono tra popoli non più belligeranti, ma che ancora covavano in cuore odio e rancore. Da par suo il Sommo Pontefice Vicario di Cristo, ricorda la dottrina insegnata da Cristo ed illustrata dagli Apostoli nei Vangeli, nelle Lettere ai fedeli, e dai Padri nei loro scritti cattolici. Il richiamo ai valori autentici cristiani fondati sull’amore di Dio e delle creature a sua immagine, gli uomini, è quanto mai urgente ed è l’unica vera soluzione all’odio tra fratelli che dovrebbero mirare tutti all’eterna beatitudine e all’incontro con Dio, compresi nel comune Corpo mistico del Redentore. Questo appello è ancor più urgente oggi in queste divisioni, lotte, ribellioni di popoli che funesta nazioni ed interi continenti, tra centinaia di focolai bellici fomentati dall’odio sparso tra le genti dal nemico dell’umanità. I rimedi sono sempre gli stessi, quelli mostrati dal Cristo e dalla dottrina della Chiesa qui riassunta dal Pontefice, e la preghiera con la pressante richiesta della pace che solo Dio può dare.

Benedetto XV
Pacem, Dei munus pulcherrimum

Lettera Enciclica

23 maggio 1920

Una vera pace è fondata sulla riconciliazione e sulla carità

1. La pace, gran dono di Dio, di cui – come dice S. Agostino – nessuna tra le cose mortali è più gradita, nessuna è più desiderabile e migliore; la pace per più di quattro anni così vivamente implorata dai voti dei buoni, dalle preghiere dei fedeli e dalle lagrime delle madri, finalmente ha cominciato a risplendere sui popoli, e Noi per i primi ne godiamo. Senonché troppe ed amarissime ansie conturbano questa gioia paterna; poiché, se quasi dovunque la guerra in qualche modo ebbe fine e furono firmati alcuni patti di pace, restano pur tuttavia i germi di antichi rancori; e voi comprendete, o Venerabili Fratelli, come nessuna pace possa aver consistenza né alcuna alleanza aver vigore, quantunque escogitata in diuturne e laboriose conferenze e solennemente sanzionata, se insieme non si sopiscano gli odi e le inimicizie per mezzo di una riconciliazione fondata sulla carità vicendevole. Intorno a questo argomento adunque, che è della più alta importanza per il bene comune, vogliamo Noi intrattenervi, o Venerabili Fratelli, e nel tempo stesso mettere in guardia i popoli che sono affidati alle vostre cure.

Azione senza sosta del Papa per la ricerca della pace.

2. Veramente fin da quando per arcano disegno di Dio fummo assunti a questa Sede di Pietro, mai Noi abbiamo tralasciato, finché divampò la guerra, di adoperarci senza sosta affinché tutte le nazioni del mondo riprendessero tra di loro al più presto cordiali relazioni. Perciò non cessammo di pregare, di rinnovare esortazioni, di proporre vie di accomodamento, di esperire insomma ogni tentativo per vedere di aprire, col divino aiuto, una qualche apertura ad una pace che fosse giusta, onorevole e duratura; e frattanto rivolgemmo ogni Nostra paterna premura per lenire ovunque quel cumulo immenso di dolori e di sventure d’ogni sorta che accompagnavano l’immane tragedia. Orbene, come fin dall’inizio del Nostro laborioso Pontificato la carità di Gesù Cristo Ci indusse ad adoperarci sia per il ritorno della pace, sia per mitigare gli orrori della guerra, così ora che una qualche pace è stata finalmente conchiusa, egualmente è la stessa carità che Ci spinge ad esortare tutti i Figli della Chiesa, o meglio, tutti gli uomini dell’universo, perché vogliano deporre gli inveterati rancori e dar luogo al reciproco amore ed alla concordia.

Il messaggio del Cristianesimo è stato chiamato “Evangelo dl pace”

3. Non occorre che Ci dilunghiamo troppo a dimostrare come l’umanità andrebbe incontro ai più gravi disastri, se, pur essendo conchiusa la pace, continuassero tra i popoli latenti ostilità ed avversioni. Non parliamo dei danni di tutto ciò che è frutto della civiltà e del progresso, come dei commerci e delle industrie, delle lettere e delle arti, le quali cose fioriscono soltanto in seno alla tranquilla convivenza dei popoli. Ma, ciò che più importa, ne verrebbe colpita la vita stessa del Cristianesimo che è essenzialmente fondato sulla carità, essendo chiamata la predicazione stessa della legge di Cristo “Evangelo di pace”. – Infatti, come voi ben sapete e più volte Noi abbiamo già ricordato, nessuna cosa fu così spesso e con tanta insistenza trasmessa dal divino Maestro ai suoi discepoli, quanto questo precetto della carità fraterna, come quello che in sé racchiude tutti gli altri e Gesù Cristo chiamò nuovo e suo un tale precetto e volle che esso fosse come la tessera di riconoscimento dei Cristiani, per cui si potessero facilmente distinguere dagli altri. Né diverso infine fu il testamento che Egli morendo lasciò ai suoi seguaci, quando pregò che si amassero fra loro, ed amandosi si sforzassero di imitare quella unità ineffabile che si riscontra tra le Persone della SS.ma Trinità: “Che siano tutti una sola cosa… come una sola cosa siam noi.., affinché siano consumati nell’unità”. – Gli Apostoli pertanto, seguendo le orme del divin Maestro, ed ammaestrati dalla viva sua voce, erano di una assiduità meravigliosa nell’esortare così i fedeli: “Sopra tutto poi abbiate perseverante fra voi stessi la mutua carità”. “E sopra tutte queste cose conservate la carità, la quale è il vincolo della perfezione”. “Carissimi amiamoci l’un l’altro; perché la carità è da Dio”. A questi avvertimenti di Gesù Cristo e degli Apostoli erano ben ossequenti quei nostri fratelli di tempi antichi, i quali, sebbene appartenenti a diverse nazioni talvolta in lotta tra loro, tuttavia, cancellando il ricordo delle contese con volontario oblio, vivevan in perfetta concordia. E veramente contrastava non poco una così intima unione di mente e di cuore da quelle mortali ostilità che allora divampavano in seno al consorzio umano.

Amare anche i nemici secondo il comandamento dl Gesù.

4. Ora, quanto si è detto fin qui per imprimere il precetto della carità, vale anche per il perdono delle offese, non meno solennemente comandato dal Signore: “Ma io vi dico: Amate i vostri nemici; fate del bene a coloro che vi odiano: e pregate per coloro che vi perseguitano e vi calunniano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli: il quale fa che si levi il suo sole sopra i buoni e sopra i cattivi”. Di qui quel gravissimo monito dell’Apostolo S. Giovanni: “Chiunque odia il suo fratello, è omicida. E voi sapete, che nessun omicida ha la vita eterna abitante in se stesso”. Finalmente, Gesù Cristo ci ha insegnato a pregare il Signore in modo che noi stessi domandiamo di essere perdonati a patto di perdonare agli altri: “E rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Che se talvolta riesce troppo ardua e difficile l’osservanza di questa legge, a vincere ogni difficoltà, lo stesso Redentore del genere umano non solo ci assiste con la sua divina grazia ma anche col suo mirabile esempio, poiché mentre pendeva dalla croce, scusò presso il Padre coloro che così ingiustamente e iniquamente lo tormentavano, con quelle parole: “Padre, perdona loro: giacché non sanno quel che si fanno”. Noi pertanto, che per i primi dobbiamo imitare la misericordia e la benignità di Gesù Cristo, di cui, senza alcun merito, teniamo le veci, a suo esempio Noi perdoniamo di gran cuore a tutti e singoli i Nostri nemici che consapevoli o inconsci ricoprirono o coprono anche ora la persona e l’opera Nostra con ogni sorta di ingiurie, e tutti abbracciamo con somma carità e benevolenza non tralasciando alcuna occasione per beneficarli quanto più possiamo: e ciò stesso son tenuti a praticare i Cristiani veramente degni di tal nome, verso coloro dai quali, durante la guerra, ricevettero offesa.

Il triste spettacolo delle miserie derivanti dalla guerra.

5. Infatti la carità cristiana non si limita a non odiare i nemici e ad amarli come fratelli, ma vuole ancora che facciamo loro del bene; seguendo in ciò le orme del nostro Divin Redentore, il quale “compì la sua carriera, facendo del bene e sanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo” e terminò il corso della sua vita mortale, spesa tutta nel beneficare immensamente gli uomini, versando per essi il suo sangue. Per cui disse S. Giovanni: “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: poiché Egli ha dato la sua vita per noi: e noi pure dobbiamo dare la vita per i fratelli. Chi avesse dei beni di questo mondo, e vedesse il suo fratello in necessità, e gli chiudesse il suo cuore, come può essere in costui l’amore di Dio? Figlioli miei, non amiamo in parole e con la lingua, ma con le opere e con verità”. Mai però vi fu tempo in cui si dovessero più “dilatare i confini della carità” quanto in questi giorni di universale angustia e dolore; né mai forse come ora ebbe bisogno l’umanità di quella comune beneficenza che fiorisce dal sincero amore per il prossimo e che è piena di sacrificio e di fervore. Poiché, se volgiamo lo sguardo dovunque la guerra ha imperversato furibonda, ci si parano innanzi immense regioni desolate e squallide, moltitudini ridotte a tale estremo da mancare di pane, di indumenti e di letto; vedove ed orfani innumerevoli nell’attesa di un qualche soccorso; infine un’ingente schiera di esseri debilitati, specialmente bambini e fanciulli, i quali attestano nei loro corpicciuoli miseri l’atrocità della guerra.

La Chiesa ha sempre operato come il buon Samaritano.

6. A chi contempla tal quadro di miserie, da cui è oppresso il genere umano, s’affaccia spontaneo alla mente il ricordo di quel viandante evangelico, il quale, recandosi da Gerusalemme a Gerico, s’imbatté negli assassini, che, spogliatolo e copertolo di ferite, lo abbandonarono semivivo sulla via. I due casi si assomigliano grandemente; e come a costui si avvicinò pieno di compassione il Samaritano che versatogli sulle ferite olio e vino lo fasciò, lo condusse all’albergo e si prese cura di lui; così a risanare le ferite del genere umano è necessario che vi appresti la sua mano Gesù Cristo, di cui il Samaritano era figura ed immagine. – Tale appunto è l’opera ed il compito che la Chiesa per sé reclama come erede e custode dello spirito di Gesù Cristo; la Chiesa, diciamo, la cui intera esistenza è tutta intessuta di una mirabile varietà di benefici: essa, infatti, “quale vera madre dei Cristiani, ha tali tenerezze di amore per il prossimo che per tutti i vari malanni che travagliano l’anima col peccato, ha pronta ogni specie di medicina”; onde “tratta ed ammaestra puerilmente i fanciulli, i giovani con fortezza, i vecchi con placida calma, secondo che ciascuno è tale non solo di corpo ma anche di animo”. Questi modi cristiani di comportarsi poi, raddolcendo gli animi, sono di una straordinaria efficacia per ricondurre i popoli alla tranquillità.

Invito a tutti i cattolici, religiosi e laici, ad operare per ristabilire la concordia.

7. Perciò vi preghiamo, o Venerabili Fratelli, e vi scongiuriamo nelle viscere di carità di Gesù Cristo, adoperatevi pienamente non solo per stimolare i fedeli a voi affidati a deporre gli odi e a condannare le offese, ma anche per promuovere con più intensità tutte quelle opere di cristiana beneficenza, che siano di aiuto ai bisognosi, di conforto agli afflitti, di presidio ai deboli, che arrechino insomma un soccorso opportuno e molteplice a tutti coloro che hanno riportato dalla guerra una più grave disgrazia. Desideriamo che voi esortiate specialmente i vostri Sacerdoti, come ministri di pace, affinché siano assidui in questo che è il compendio essenziale della vita cristiana, cioè nell’inculcare l’amore verso i prossimi, anche se nemici, e “fatti tutto a tutti” in modo da essere di luminoso esempio, combattono ovunque contro l’inimicizia e l’odio, ben sicuri di fare cosa gratissima al Cuore amantissimo di Gesù e a Colui che, sebbene indegnamente, ne sostiene le veci qui in terra. A questo proposito si devono pure caldamente esortare e pregare i giornalisti e scrittori cattolici, perché “come eletti di Dio, santi ed amati”, vogliano rivestirsi “di viscere di misericordia e di benignità”, esprimendola nei loro scritti, con l’astenersi non solo dalle false e vane accuse, ma ancora da ogni intemperanza e asprezza di linguaggio, la quale, mentre è contraria alla legge cristiana, non farebbe altro che riaprire piaghe non ancora risanate, tanto più che gli animi già inaspriti da recenti ferite mal sopportano ogni più lieve ingiuria.

È necessaria la ripresa di relazioni amichevoli fra i popoli già in guerra fra loro.

8. Quanto noi abbiamo qui ricordato ai singoli circa il dovere che essi hanno di praticare la carità, intendiamo che sia pure esteso a quei popoli che hanno combattuto la grande guerra, affinché, rimossa, per quanto è possibile, ogni causa di dissidio e salve naturalmente le ragioni della giustizia, riprendano tra di loro relazioni amichevoli. Poiché non è affatto diversa la legge evangelica della carità tra gli individui da quella che deve esistere tra gli Stati e le nazioni, non essendo esse infine che l’insieme dei singoli individui. Dal momento poi che la guerra è cessata, non solo per motivi di carità ma anche per una certa necessità di cose, si va delineando un legame universale di popoli, spinti naturalmente ad unirsi fra loro da mutui bisogni, oltreché da vicendevole benevolenza, specialmente ora con l’accresciuta civilizzazione e con le vie di comunicazione mirabilmente moltiplicate.

Tolto il divieto ai Sovrani cattolici di venire a Roma in forma ufficiale.

9. E veramente questa Sede Apostolica non si stancò mai d’inculcare durante la guerra, come dicemmo, un tale perdono delle offese e la fraterna riconciliazione dei popoli, conformemente alla legge santissima di Gesù Cristo e secondo le stesse esigenze del consorzio civile; né permise che questi principi morali fossero dimenticati anche in mezzo alle rivalità e agli odi; ed ora, dopo i trattati di pace, questi principi li propugna e li proclama ancor più altamente; come ha fatto poc’anzi nella lettera ai vescovi della Germania e nell’altra indirizzata all’Arcivescovo di Parigi. E poiché a mantenere ed accrescere questa concordia tra le genti non poco contribuiscono le visite che i capi degli Stati e dei Governi usano reciprocamente farsi per sbrigare gli affari di maggiore importanza, Noi, considerando le mutate circostanze dei tempi e la piega pericolosa degli eventi, pur di cooperare a questo affratellamento dei popoli, non saremmo alieni dal mitigare in qualche modo il rigore di quelle condizioni che, abbattuto il Governo civile della Santa Sede, furono giustamente stabilite dai Nostri antecessori ad impedire la venuta dei Sovrani cattolici a Roma in forma ufficiale. Però nel tempo stesso solennemente proclamiamo che questa Nostra remissività, consigliata, o meglio voluta, come pare, dalla gravità di tempi che corrono, non si deve affatto interpretare quale una tacita rinunzia ai sacrosanti diritti, quasi che la Santa Sede si contenti dello stato anormale in cui si trova al presente. Che anzi “le proteste che i Nostri Predecessori fecero più volte, non affatto mossi da interessi umani ma dalla santità del dovere, per difendere cioè la dignità e i diritti di questa Sede Apostolica. Noi qui, in questa circostanza, le rinnoviamo per le identiche ragioni”, chiedendo ripetutamente e con maggior insistenza che, mentre si è pattuita la pace tra le nazioni, “cessi anche per il Capo della Chiesa questa condizione anormale, che gravemente nuoce, e per più motivi, alla stessa tranquillità dei popoli”.

Invito a costituire una Lega delle nazioni.

10. Ristabilite così le cose, secondo l’ordine voluto dalla giustizia e dalla carità, e riconciliate tra di loro le genti, sarebbe veramente desiderabile, o Venerabili Fratelli, che tutti gli Stati, rimossi i vicendevoli sospetti, si riunissero in una sola società o meglio famiglia dei popoli, sia per garantire la propria indipendenza, sia per tutelare l’ordine del civile consorzio. E a formar questa società fra le genti è di stimolo, per tacere molte altre considerazioni, il bisogno stesso generalmente riconosciuto di ridurre, se non è dato di abolire, le enormi spese militari che non possono più oltre essere sostenute dagli Stati, affinché in tal modo si impediscano per l’avvenire guerre così micidiali e tremende e si assicuri a ciascun popolo nei suoi giusti confini l’indipendenza e l’integrità del proprio territorio.

La Chiesa nei secoli passati ha sempre operato per l’unione dei popoli.

11. E una volta che questa Lega tra le nazioni sia fondata sulla legge cristiana, per tutto ciò che riguarda la giustizia e la carità, non sarà certo la Chiesa che rifiuterà il suo valido contributo, poiché, essendo essa il tipo più perfetto di società universale, per la sua stessa essenza e finalità è di una meravigliosa efficacia ad affratellare tra loro gli uomini, non solo in ordine alla loro eterna salvezza, ma anche al loro benessere materiale; li conduce cioè attraverso i beni temporali, in modo da non perdere gli eterni. Perciò sappiamo dalla storia, che da quando la Chiesa pervase del suo spirito le antiche e barbariche genti d’Europa, cessarono un po’ alla volta le varie e profonde contese che le dividevano, e federandosi col tempo in una unica società omogenea, diedero origine all’Europa cristiana, la quale, sotto la guida e l’auspicio della Chiesa, mentre conservò a ciascuna nazione la propria caratteristica, culminò in una compatta unità, fautrice di prosperità e di grandezza. Molto bene a questo proposito dice S. Agostino: “Questa città celeste, mentre vive esule quaggiù in terra, chiama a sé cittadini di ogni nazione, e compone di tutte le genti una sola società pellegrinante; non si cura di ciò che vi è di diverso nei costumi, nelle leggi e nelle istituzioni; cose tutte che, mirando alla conquista e al mantenimento della pace terrena, la Chiesa, invece di ripudiare o distruggere, gelosamente conserva; poiché, quantunque esse variino secondo le nazioni, vengono tutte indirizzate allo stesso fine della pace terrena, purché non impediscano l’esercizio della Religione che insegna ad adorare l’unico sommo e vero Dio” (20). E lo stesso Santo Dottore così parla alla Chiesa: “Tu, i cittadini, le genti e gli uomini tutti, rievocando la comune origine, non solo li unisci tra loro ma ancora li affratelli”.

Esortazione finale a tutti i popoli.

12. Noi pertanto, rifacendoci al principio del Nostro discorso, Ci rivolgiamo con affetto a tutti i Nostri figli e li scongiuriamo nel nome di Nostro Signor Gesù Cristo perché vogliamo dimenticare le reciproche rivalità ed offese, e stringersi nell’amplesso della carità cristiana, dinanzi a cui non vi sono stranieri; esortiamo inoltre vivamente tutte le nazioni affinché, sotto l’influsso della benevolenza cristiana, s’inducano a stabilire tra loro una vera pace e a collegarsi in un’unica alleanza, che, con l’aiuto della giustizia, sia duratura; infine facciamo appello a tutti gli uomini e popoli della terra perché aderiscano con la mente e con il cuore alla Chiesa Cattolica, e per la Chiesa, a Cristo Redentore del genere umano: così che possiamo loro rivolgere con tutta verità quelle parole di S. Paolo agli Efesini: “Ma adesso in Cristo Gesù, voi che eravate una volta lontani, siete diventati vicini, mercé il Sangue di Cristo. Poiché egli è nostra pace, egli che delle due cose ne ha fatta una sola, annullando la parete intermedia di separazione… distruggendo in se stesso le inimicizie. E venne ad annunziare la pace a voi, che eravate lontani, e pace ai vicini”. Né sono meno a proposito quelle parole che il medesimo Apostolo indirizzava ai Colossesi: “Non mentite più l’uno verso dell’altro, essendovi spogliati dell’uomo vecchio e di tutte le opere di lui, ed essendovi rivestiti del nuovo, di quello, il quale, si va rinnovando in proporzione della conoscenza, conformandosi all’immagine di colui che lo creò: dove non c’è Greco e Giudeo, circonciso e incirconciso, Barbaro e Scita, servo e libero: ma Cristo in ogni cosa ed in tutti”.

Frattanto, confidando nel patrocinio della Vergine Immacolata che testé volemmo fosse universalmente invocata “Regina della pace”, come pure in quello dei tre novelli Santi, umilmente imploriamo il divino Spirito Paraclito, perché “conceda propizio alla sua Chiesa il dono dell’unità e della pace” e con ulteriore effusione di carità, diretta alla comune salvezza, rinnovi la faccia della terra…

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2023)

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2023).

Semidoppio.- Paramenti verdi.

Nell’ufficio divino si effettua in questo tempo la lettura delle Parabole o Proverbi di Salomone. « Queste parabole sono utili per conoscere la sapienza e la disciplina, per comprendere le parole della prudenza, per ricevere l’istruzione della dottrina, la giustizia e l’equità affinché sia donato a tutti i piccoli il discernimento e ai giovani la scienza e l’intelligenza. Il savio ascoltando diventerà più savio e l’intelligente possederà i mezzi per governare! (7° Nott.). Salomone non era che la figura di Cristo, che è la Sapienza incarnata come leggiamo nel Vangelo di questo giorno: « Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete, poiché io ve lo dico, molti profeti e re hanno voluto vedere quello che voi vedete e non hanno potuto; e ascoltare quello che voi ascoltate e non hanno inteso ». « Beati, dice S. Beda, gli occhi che possono conoscere i misteri del Signore, dei quali è detto: « Voi li avete rivelati ai piccoli ». Beati gli occhi di questi piccoli, ai quali il Figlio degnò rivelarsi e rivelare il Padre. Ed ecco un dottore della legge che ha pensato di tentare il Signore e l’interroga sulla vita eterna (Vang.). Ma il tranello che tende a Gesù Cristo mostra come era vero quello che il Signore aveva detto rivolgendosi al Padre: « Tu hai nascoste queste cose ai saggi e ai prudenti e le hai rivelate ai piccoli » (2° Nott.). — « Figlio mio, dice Salomone, il timor di Dio è il principio della sapienza. Se i peccatori vogliono attirarti non acconsentir loro. Se essi dicono: Vieni con noi, tendiamo agguati all’innocente, inghiottiamolo vivo e intero com’è inghiottito il morto che scende nella tomba; noi troveremo ogni sorta di beni preziosi, riempiremo le nostre case di bottini; figlio mio, non andare con loro, allontana i tuoi passi dal loro sentiero. Poiché i loro passi sono rivolti al male ed essi si affrettano per versar sangue. E s’impadroniscono dell’anima di coloro che soggiogano » (7» Nott.). — Cosi i demoni agirono col primo uomo, poiché quando Adamo cadde nel peccato, lo spogliarono di tutti i suoi beni e lo coprirono di ferite. Il peccato originale, infatti, priva l’uomo di tutti i doni della grazia e lo colpisce nella sua stessa natura. La sua intelligenza è meno viva e la sua volontà meno ferma, poiché la concupiscenza che regna nelle sue membra lo porta al male. Per fargli comprendere la sua impotenza — poiché, dice S. Paolo, la nostra attitudine a intendere viene da Dio (Ep.) — Jahvé stabilì la legge mosaica che gli dava precetti senza dargli la forza di compierli, ossia senza la grazia divina. Allora, l’uomo comprendendo che gli bisognava l’aiuto di Dio per essere guarito, per volere il bene, per realizzarlo e per perseverare in esso fino alla fine, rivolse il suo sguardo al cielo: « O Dio, gridò, e non deve giammai cessare di gridare: O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, affrettati a soccorrermi! Siano confusi coloro che cercano l’anima mia » (Intr.). — « Signore, Dio della mia salute, io ho gridato verso di te tutto il giorno e la notte » (All.). E Dio allora risolse di venire in aiuto dell’uomo e poiché i sacerdoti ed i leviti dell’antica legge non avevano potuto cooperare con Lui, mandò Gesù Cristo, che si fece, secondo il pensiero di S. Gregorio, il prossimo dell’uomo, rivestendosi della nostra umanità per guarirla (3° Nott.). Questo è quanto ci dicono l’Epistola e il Vangelo. La legge del Sinai, scolpita in lettere su pietre, spiega S. Paolo, fu un ministero di morte perché, l’abbiamo già visto, non dava la forza di compiere ciò che comandava. Così l’Offertorio ci mostra come Mosè dovette intervenire presso Dio per calmare la sua ira provocata dai peccati del suo popolo. La Legge della grazia è Invece un ministero di giustificazione, perché lo Spirito Santo che fu mandato alla Chiesa nel giorno della Pentecoste, giorno in cui la vecchia legge fu abrogata, dava la forza di osservare i precetti del decalogo e quelli della Chiesa. Cosi S. Paolo dice: « La lettera uccide, ma lo Spirito vivifica » (Ep.). E il Vangelo ne fa la dimostrazione nella parabola del buon Samaritano. All’impotente legge mosaica, rappresentata in qualche modo dal sacerdote e dal levita della parabola evangelica, il buon Samaritano che è Gesù, sostituisce una nuova legge estranea all’antica e viene Egli stesso in aiuto dell’uomo. Medico delle nostre anime, versò nelle nostre ferite l’unzione della sua grazia, l’olio dei suoi Sacramenti e il vino della sua Eucaristia. Per questo la liturgia canta, in uno stile ricco di immagini, la bontà del Signore, che ha fatto produrre sulla terra il pane che fortifica l’uomo, il vino che rallegra il suo cuore, e l’olio che dona al suo viso un aspetto di gioia (Com.). « Io benedirò, dice il Graduale, il Signore in tutti i tempi: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra ». Noi dobbiamo imitare verso il nostro prossimo quello che Dio ha fatto per noi e quello di cui il Samaritano è l’esempio. « Nessuna cosa è maggiormente prossimo delle membra che il capo, dice S. Beda: amiamo dunque colui che è fratello del Cristo, cioè siamo pronti a rendergli tutti i servizi sia temporali che spirituali di cui potrà aver bisogno » (3° Nott.). Né la legge mosaica, né il Vangelo separano l’amore verso Dio dall’amore di chi dobbiamo ritenere come prossimo: amore soprannaturale nella sua origine, poiché procede dallo Spirito Santo; amore soprannaturale nel soggetto perché è Dio nella persona dei nostri fratelli. Il prossimo di questo uomo ferito non è, come pensavano i Giudei, colui che è legato per vincoli di sangue, ma colui che si china caritatevolmente su di esso per soccorrerlo. L’unione in Cristo, che giunge fino a farci amare quelli che ci odiano e perdonare a quelli che ci hanno fatto del male, perché Dio è in essi, o è chiamato ad essere in essi, è il vero amore del prossimo. Perfezionati dalla grazia, noi dobbiamo imitare il Padre nostro del cielo, che, calmato dalla preghiera di Mosè, figura di Cristo, colmò di beni il popolo che l’aveva offeso (Off., Com.). — Uniti dunque con Cristo, [Questa unità dei Cristiani e del Cristo fa sì che si chiami Gesù il Samaritano, cioè lo straniero, per indicare che i Gentili imiteranno Cristo mentre i Giudei increduli lo disprezzeranno], curviamoci con Lui verso il prossimo che soffre. Questo sarà il miglior modo di diventare, per la misericordia divina, atti a servire Dio onnipotente, degnamente e lodevolmente, e di ottenere che, rialzati dalla grazia, noi corriamo, senza più cadere, verso il cielo promesso (Oraz.) . « Gesù, dice S. Beda, il Venerabile, mostra in maniera chiarissima che non vi è che un solo amore, il quale deve essere manifestato non solo a parole ma con le buone opere, ed è questo che conduce alla vita eterna ». (3° Nott.). – La gloria del ministero di Mosè fu assai grande: raggi miracolosi brillavano sul volto del legislatore dell’antica legge, allorché discese dal Sinai. Ma questo ministero era inferiore al ministero evangelico. Il primo era passeggero: il secondo doveva surrogarlo e durare per sempre. Il primo era scritto su tavole di pietra, era il ministero della lettera; il secondo è tutto spirituale, è il ministero dello spirito. Il primo produceva spesso la morte spirituale spingendo alla ribellione con la molteplicità dei suoi precetti difficili ad adempirsi; il secondo è accompagnato dalle grazie dello Spirito d’amore, che gli Apostoli distribuiscono alle anime. L’uno è dunque un ministero che provoca i terribili giudizi di Dio, e l’altro è un ministero che giustifica gli uomini davanti a Dio, perché dona ad essi lo Spirito che vivifica. – « Quest’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico, dice S. Beda, è Adamo che rappresenta il genere umano. Gerusalemme è la città della pace celeste, della beatitudine dalla quale è stato allontanato per il peccato. I ladri sono il demonio e i suoi angeli nelle mani dei quali Adamo è caduto nella sua discesa. Questi lo spogliarono di tutto: gli tolsero la gloria dell’immortalità e la veste dell’innocenza.. Le piaghe che gli fecero, sono i peccati che, intaccando l’integrità dell’umana natura, fecero entrare la morte dalle ferite aperte. Lo lasciarono mezzo morto, perché se lo spogliarono della beatitudine della vita immortale, non riuscirono a togliergli l’uso della ragione colla quale conosceva Dio. Il sacerdote e il levita che, avendo veduto il ferito, passarono oltre, indicano i sacerdoti e i ministri dell’Antico Testamento che potevano solamente, con i decreti della legge, mostrare le ferite del mondo languente, ma non potevano guarirle, perché era loro impossibile – al dire dell’Apostolo – cancellare i peccati col sangue dei buoi e degli agnelli. Il buon Samaritano, parola che significa guardiano, è lo stesso Signore. Fatto uomo, s’è avvicinato a noi con la grande compassione che ci ha mostrata. L’albergo è la Chiesa ove Gesù stesso conduce l’uomo, ponendolo sulla cavalcatura perché nessuno, se non è battezzato, unito al corpo di Cristo, e portato come la pecora sperduta sulle spalle del buon Pastore, può far parte della Chiesa. I due danari sono i due Testamenti sui quali sono impressi il nome e l’effigie del Re eterno. La fine della legge è Cristo. Questi due denari furono dati all’albergatore il giorno dopo, perché Gesù il giorno seguente la sua risurrezione aprì gli occhi dell’intelligenza ai discepoli di Emmaus e ai suoi Apostoli perché comprendessero le sante Scritture. Il giorno seguente, infatti, l’albergatore, ricevette i due danari, come compenso delle sue cure verso il ferito perché lo Spirito Santo, venendo sulla Chiesa, insegnò agli Apostoli tutte le verità perché potessero istruire le nazioni e predicare il Vangelo » (Omelia del giorno).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et te, pater, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam,
✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam.
Ps 69:4

Avertántur retrórsum et erubéscant: qui cógitant mihi mala.

[O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]
[Vadano delusi e scornati coloro che tramano contro di me.]

V. Glória Patri, et …..
Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam.

[O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 2 Cor III: 4-9.

“Fratres: Fidúciam talem habémus per Christum ad Deum: non quod sufficiéntes simus cogitáre áliquid a nobis, quasi ex nobis: sed sufficiéntia nostra ex Deo est: qui et idóneos nos fecit minístros novi testaménti: non líttera, sed spíritu: líttera enim occídit, spíritus autem vivíficat. Quod si ministrátio mortis, lítteris deformáta in lapídibus, fuit in glória; ita ut non possent inténdere fili Israël in fáciem Moysi, propter glóriam vultus ejus, quæ evacuátur: quómodo non magis ministrátio Spíritus erit in glória? Nam si ministrátio damnátionis glória est multo magis abúndat ministérium justítiæ in glória.

[“Fratelli: Tanta fiducia in Dio noi l’abbiamo per Cristo. Non che siamo capaci da noi a pensar qualche cosa, come se venisse da noi; ma la nostra capacità viene da Dio, il quale ci ha anche resi idonei a essere ministri della nuova alleanza, non della lettera, ma dello spirito; perché la lettera uccide ma lo spirito dà vita. Ora, se il ministero della morte, scolpito in lettere su pietre, è stato circonfuso di gloria in modo che i figli d’Israele non potevano fissare lo sguardo in faccia a Mosè, tanto era lo splendore passeggero del suo volto; quanto più non sarà circonfuso di gloria il ministero dello Spirito? Invero, se è glorioso il ministero di condanna, molto più è superiore in gloria il ministero di giustizia”].

TUTTO E NIENTE.

Alessandro Manzoni ha colto ancora una volta perfettamente nel segno quando parlando di Dio, come ce Lo ha rivelato N. S. Gesù Cristo, come noi Lo conosciamo alla sua scuola, ha detto che Egli atterra e suscita; due gesti contradditori, all’apparenza, ed entrambi radicali. Quando fa le cose sue, Dio non le fa a mezzo: se butta giù, atterra, inabissa; e se tira su, suscita, sublima: a questo radicalismo, e a questa completezza d’azione divina corrisponde anche quello che s. Paolo dice nella lettera d’oggi, messo a riscontro di ciò che afferma altrove. Ecco qua: oggi San Paolo dice ciò che è verissimo che, cioè, noi da soli siam buoni a nulla: neanche a formare un piccolo pensiero. Nel concetto di San Paolo e di tutti, è la cosa a noi più facile, assai più facile volere che fare. Il pensiero è il primo gradino della scala, il più ovvio, il più semplice. Non importa: neanche quello scalino l’uomo può fare da sé, proprio da sé, ci vuole l’aiuto di Dio. Il quale dunque, è tutto Lui e noi di fronte a Lui siamo un bel niente, uno zero. È un fiero e giusto colpo assestato al nostro orgoglio che ci fa credere di essere un gran che e di potere fare noi, proprio noi, chi sa che cosa. L’uomo ha degli istinti orgogliosamente, dinamicamente, mefistofelici. Noi vorremmo essere tutto: noi ci illudiamo di poter fare tutto. E invece ogni nostra capacità viene da Dio: « sufficientia nostra ex Deo est. » Il che non vuol dire che questa capacità (sufficientia) non ci sia. C’è ricollegata con Dio. E allora San Paolo appoggiato a Dio, immerso nell’umile fiducia in Lui, tiene un tutt’altro linguaggio, che par una negazione ed è invece un’integrazione del precedente. «Omnia possum in Eo qui me confortat » io posso tuto in Colui che mi conforta; dal niente siamo passati al tutto. Lo stesso radicalismo. Prima, nessuna possibilità e adesso nessuna impossibilità. Prima l’uomo buttato a terra, proprio umiliato (humus, vuol dire terra), adesso esaltato fino alle stelle, proclamato in qualche modo onnipotente. La contraddizione non c’è perché chi dice così non è lo stesso uomo che viene considerato, non è lo stesso uomo di cui si parla. L’uomo che non può tutto, che è la stessa impotenza, è l’uomo solo o piuttosto l’uomo isolato da Dio, lontano effettivamente ed affettivamente da Lui: ramo reciso dal tronco, tralcio separato dalla vite, ruscello a cui è stata tolta la comunicazione colla sorgente e che perciò non ha più acqua. L’uomo isolato così è sterile, infecondo nel bene, può scendere, non può salire. Ma riattaccatelo a Dio, mettetelo in comunicazione viva, piena, conscia, voluta, e la situazione si modifica dalla notte al giorno. L’anima che sente questo contatto nuovo, sente un rifluire in se stessa di nuove, sante, inesauste energie. Non poteva nulla senza il suo Dio, adesso può tutto unita a Lui. « Omnia possum in Eo quì me confortat. » E’ il grido magnanimo e non ribelle dei Santi, appunto perché la loro onnipotenza la ripetono da Dio, tutta e solo da Lui. Solo realizzando spiritualmente quel nientee quel tutto, solo vivendo tutta quella umiltà e tutta questa fede, si raggiunge l’equilibrio tra la sfiducia e la presunzione.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XXXIII: 2-3.

Benedícam Dóminum in omni témpore: semper laus ejus in ore meo.

[Benedirò il Signore in ogni tempo: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra.]

V. In Dómino laudábitur ánima mea: áudiant mansuéti, et læténtur.

[La mia anima sarà esaltata nel Signore: lo ascoltino i mansueti e siano rallegrati.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps LXXXVII: 2

Dómine, Deus salútis meæ, in die clamávi et nocte coram te. Allelúja.

[O Signore Iddio, mia salvezza: ho gridato a Te giorno e notte. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.

Luc. X: 23-37

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Beáti óculi, qui vident quæ vos videtis. Dico enim vobis, quod multi prophétæ et reges voluérunt vidére quæ vos videtis, et non vidérunt: et audire quæ audítis, et non audiérunt. Et ecce, quidam legisperítus surréxit, tentans illum, et dicens: Magister, quid faciéndo vitam ætérnam possidébo? At ille dixit ad eum: In lege quid scriptum est? quómodo legis? Ille respóndens, dixit: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo, et ex tota ánima tua, et ex ómnibus víribus tuis; et ex omni mente tua: et próximum tuum sicut teípsum. Dixítque illi: Recte respondísti: hoc fac, et vives. Ille autem volens justificáre seípsum, dixit ad Jesum: Et quis est meus próximus? Suscípiens autem Jesus, dixit: Homo quidam descendébat ab Jerúsalem in Jéricho, et íncidit in latrónes, qui étiam despoliavérunt eum: et plagis impósitis abiérunt, semivívo relícto. Accidit autem, ut sacerdos quidam descénderet eádem via: et viso illo præterívit. Simíliter et levíta, cum esset secus locum et vidéret eum, pertránsiit. Samaritánus autem quidam iter fáciens, venit secus eum: et videns eum, misericórdia motus est. Et apprópians, alligávit vulnera ejus, infúndens óleum et vinum: et impónens illum in juméntum suum, duxit in stábulum, et curam ejus egit. Et áltera die prótulit duos denários et dedit stabulário, et ait: Curam illíus habe: et quodcúmque supererogáveris, ego cum redíero, reddam tibi. Quis horum trium vidétur tibi próximus fuísse illi, qui íncidit in latrónes? At ille dixit: Qui fecit misericórdiam in illum. Et ait illi Jesus: Vade, et tu fac simíliter.”

[“In quel tempo Gesù disse a’ suoi discepoli: Beati gli occhi che veggono quello che voi vedete. Imperocché vi dico, che molti profeti e regi bramarono di vedere quello che voi vedete, e no videro; e udire quello che voi udite, e non l’udirono. Allora alzatosi un certo dottor di legge per tentarlo, gli disse: Maestro, che debbo io fare per possedere la vita eterna? Ma Egli disse a lui: Che è quello che sta scritto nella legge? come leggi tu? Quegli rispose, e disse: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuor tuo, e con tutta l’anima tua, e con tutte le tue forze, o con tutto il tuo spirito; e il prossimo tuo come te stesso. E Gesù gli disse: Bene hai risposto: fa questo e vivrai. Ma quegli volendo giustificare se stesso, disse a Gesù: E chi è mio prossimo? E Gesù prese la parola, e disse: Un uomo andava da Gerusalemme a Gerico, e diede negli assassini, i quali ancor lo spogliarono; e avendogli date delle ferite, se n’andarono, lasciandolo mezzo morto. Or avvenne che passò per la stessa strada un sacerdote, il quale vedutolo passò oltre. Similmente anche un levita, arrivato vicino a quel luogo, e veduto colui, tirò innanzi: ma un Samaritano, che faceva suo viaggio, giunse presso lui; e vedutolo, si mosse a compassione. E se gli accostò, e fasciò le ferite di lui, spargendovi sopra olio e vino; e messolo sul suo giumento, lo condusse all’albergo, ed ebbe cura di esso. E il dì seguente tirò fuori due danari, e li diede all’ostiere, e dissegli: Abbi cura di lui: e tutto quello che spenderai di più te lo restituirò al mio ritorno. Chi di questi tre ti pare egli essere stato prossimo per colui che diede negli assassini? E quegli rispose: Colui che usò ad esso misericordia. E Gesù gli disse: Va’, fa’ anche tu allo stesso modo.”]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

L’ELEMOSINA

Tra Gerusalemme e Gerico, narra S. Gerolamo, v’era un immenso deserto che gli Ebrei chiamavano « Adommin », cioè il luogo del sangue. Nessuno si lasciava sorprendere dalla notte in quelle vicinanze, e chi vi passava da lungi, guardando in quella parte, tremava. Il misero viandante ch’era costretto ad attraversarlo da solo, spesso non ne usciva più: aggressori di strada, assassini sfuggiti al carcere, là vi trovavano rifugio con le belve e coi serpenti, sempre vigili a mal fare. A quei tempi doveva essere appena accaduto un fattaccio di sangue, tanto che Gesù ne desunse i particolari della sua parabola. « Un uomo faceva la strada che da Gerusalemme discende in Gerico quando incappò negli assassini che, spogliatolo di tutto, lo abbandonarono in mezzo alla strada, più morto che vivo.  « Or avvenne che un sacerdote e un levita passarono proprio per quella strada, guardarono fors’anche con occhio di compassione il viandante insanguinato, ma lo lasciarono là ad aspettare che la morte gli facesse grazia. « Per fortuna che di là passò anche un Samaritano pietoso; si avvicinò al ferito, lavò le piaghe con olio e vino, e le fasciò con amore. Poi caricandolo sulla sua cavalcatura, lo portò ad un albergo e n’ebbe cura di lui.  « Al dì seguente, non potendo più rimanere, lo presentò all’oste e tirando fuori due danari, gli disse:  « Tieni. Non lasciarlo mancare di nulla, al mio ritorno ti soddisferò di ogni disturbo ». – C’è della gente che per le sventure e le miserie e i bisogni del prossimo ha sempre un mondo di belle parole, di gentili espressioni che servono a nulla: tutti complimenti. Quando si tratta poi di venire a qualche cosa di più sodo, a privarsi di qualche comodo per aiutare gli indigenti, a toccare il proprio borsellino, allora cominciano a ritirarsi, a borbottare, a inviperirsi. Vedono un povero sulla via. « Poverino! esclamano, chissà che vita, che patimenti! E forse avrà una famiglia, dei bambini… ». Ma dalle loro tasche non spremono fuori nulla, piuttosto spremerebbero fuori dagli occhi una lagrimetta sterile. Essi sanno che il Papa ha bisogno dell’obolo dei fedeli, sanno che le Missioni non possono progredire senza offerte, comprendono la necessità in Italia dell’Università Cattolica, ma quando giunge la giornata del Papa, delle Missioni, dell’Università, essi non fanno che impazientirsi, e se pur offrono un soldo l’accompagnano con parecchie maledizioni. Non è questa la carità che Gesù Cristo ci ha voluto insegnare con la parabola di questa domenica. Il Samaritano non ebbe soltanto sguardi lagrimosi, o paroline di consolazione, ma adoperò il suo olio e il suo vino, offrì la sua cavalcatura, diede una giornata di tempo, e non gli rincrebbe tirar fuori i due danari e farsi garante di ogni spesa. E quando ebbe fatto tutto questo non squillò le trombe, non ne menò vanto, ma andò via semplicemente compreso in cuor suo di non aver fatto niente di più che un suo stretto dovere. Non fatevi delle illusioni: la elemosina non è un semplice consiglio, ma un precetto positivo, come quello di santificar la festa e di onorare il padre e la madre. Ed è appunto questo il pensiero più importante che ricaveremo dal santo Vangelo;  e poi rifletteremo quanto sia utile per noi osservare questo precetto. – 1. L’’ELEMOSINA È UN PRECETTO.  È terribile la maniera con cui l’Evangelista S. Matteo descrive lo svolgersi del giudizio finale. Gesù Cristo, dall’alto nella gloria e nel terrore, griderà: « Via da me, o maledetti, nel fuoco eterno ». « Perché, o Signore, — diranno aspramente i reprobi, — perché ci scacci in dannazione così? ». « Perché, — risponderà il Signore, — ho avuto fame, e non mi deste da mangiare. Esurivi enim, et non dedistis mihi manducare. Perché sono stato ammalato ed in prigione e non mi visitaste. Infirmus et in carcere, et non visitastis me. Perché ero nudo e non mi vestiste. Nudus, et non cooperuistis me » (Mt., XXV). « Ma quando, o Dio, tu fosti affamato, ammalato, nudo, e non ti facemmo carità? ».  « Ogni volta che un povero aveva bisogno di voi e non l’aiutaste ». E Vedete, osserva S. Giovanni Crisostomo, sembra quasi che al finir dei secoli Gesù Cristo non venga per altro che a condannare la durezza e la crudeltà dei ricchi verso i poveri. Bisogna dunque concludere che la elemosina sia un grave precetto, altrimenti per la sua trasgressione Iddio non ci condannerebbe all’inferno. Su che cosa si fonda il precetto dell’elemosina? Sopra l’assoluta sovranità di Dio verso i nostri beni. È Lui il padrone vero d’ogni nostra ricchezza, noi non ne siamo che i dispensieri e gli economi. Infatti, al momento della morte chi è capace di portarsi via qualche cosa con sé? Tutto dobbiamo lasciare quasi scadesse un contratto d’affitto. Ma come l’economo deve consegnare una parte dei frutti al padrone, così noi dobbiamo offrire a Dio una parte di quei beni che Egli ci ha dati. E a Dio glielo offriamo per le mani dei poveri. Al tempo di Abele e dei patriarchi al suo Nome si bruciavano i frutti dei campi o le pecore del gregge; ma ora il Signore comanda che questa parte a Lui dovuta si distribuisca ai poveri. Un ricco adunque che nega al povero l’elemosina è un suddito che si ribella al suo sovrano, è un fattore che rifiuta di riconoscere il suo padrone. Da qui ne deriva un’altra conseguenza, che l’elemosina deve essere proporzionata ai beni che si posseggono e alla loro quantità. Avete poche sostanze? Dio da voi pretende una moderata elemosina. Siete invece nell’abbondanza? dovete dar molto. Non crediate di ingannar la coscienza col dare poco quando si è ricevuto moltissimo. Non est eleemosyna pauca largiri (S. AMBROGIO). Noi troviamo danari per il lusso esagerato delle vesti, per i divertimenti, per ogni comodità della vita, e per i poveri e per i bisognosi non troviamo nulla. E spesso le persone più generose non si trovano tra i ricchi, ma tra quegli stessi che hanno meno. Ricordiamoci però che quello che diamo ai poveri e alle opere buone è dato a Cristo, e quello che ai poveri e alle opere buone noi neghiamo, potendo dare, è negato a Cristo. S. Gregorio Magno ad un povero che bussava alla sua porta, non avendo più danaro, regalò un piatto d’argento. Dopo qualche giorno, gli apparve mentr’era seduto a tavola un giovane bellissimo. Lo guardò fisso: era Gesù e teneva nelle mani il suo piatto d’argento. Quando dopo questa vita Cristo apparirà anche a noi, che cosa avrà nelle mani? E se avrà nulla quale scusa balbetteremo? « Ti ho promesso il cielo — dirà — e tu non mi hai dato un pane né un soldo. « Ti ho illuminato col mio sole, ti ho ristorato con la mia acqua, ti ho nutrito con le mie creature e tu m’hai lasciato languire di fame e di sete. « Ti ho dato perfino il mio Corpo e il mio Sangue prezioso e non mi ricompensasti neppure con un bicchier d’acqua ». – 2. UTILITÀ DELL’ELEMOSINA. Qualsiasi precetto del Signore è sempre in nostra utilità. E quanto è più gravoso, tanto è più utile. Quelli, dunque, che non osservano i comandamenti di Dio non fanno i propri interessi, e piangeranno un giorno. Una gentile leggenda indiana dice che un povero era uscito lungo il sentiero del villaggio a mendicare. Ed ecco lo strepito di un cocchio regale sopraggiungere verso di lui. Egli credette che fosse giunto, finalmente, il giorno della sua fortuna. Invece dal cocchio usci una nobile mano che si stese a lui in atto di chiedere: « Che cosa hai da darmi? ». Quale ironia: stendere la mano per chiedere l’elemosina a un povero! Pure, confuso ed esitante, il mendico tirò fuori dalla bisaccia un chicco di grano e glielo diede. Ma quale fu la sua sorpresa quando, finito il giorno, vuotando sul pavimento la bisaccia, trovò nello scarso mucchietto un chicco d’oro! Pianse amaramente ed esclamò: « Perché non ebbi io il cuore di darti tutto il mio possesso? ». Alla sera di questa vita, quando rovesceremo davanti a Dio la bisaccia delle nostre opere per essere giudicati, ci accorgeremo come le mani del povero ci hanno cambiato in oro eterno quello che abbiamo elargito in elemosina. E piangeremo forse, per non aver dato o per aver dato troppo poco. In quattro maniere Dio ricompensa i caritatevoli: Primo: con la remunerazione temporale che è l’abbondanza delle cose. Col Signore è un bel trattare; dà sempre sette volte di più di quel che gli diamo. Da Altissimo, quoniam Dominus retribuens est: et septies reddet tibi (Eccl., XXXV, 12). Secondo: con la remunerazione corporale che è la sanità del corpo. Se facciamo offerte non solo riceveremo l’abbondanza dei frutti ma anche la sanità del corpo. Si decimas dederis non solum abundantiam fructuum recipies sed etiam sanitatem corporis consequeris (S. AGOSTINO). Terzo: con la remunerazione spirituale che è la remissione dei peccati. « Cancella i tuoi peccati con le elemosine » diceva Daniele al re scellerato di Babilonia: Peccata tua eleemosynis redime (IV, 24). Quarto: con la remunerazione eterna che è il paradiso. « Avevo fame e mi sfamaste, avevo sete e mi dissetaste… Venite, benedetti, e possedete il regno dei cieli ch’è vostro ». Venite…, possidete paratum vobis regnum (Mt., XXV, 34). – Mentre conducevano a morte il diacono S. Lorenzo, poiché si sapeva ch’egli era il tesoriere del Vescovo, i soldati cominciarono ad angariarlo per conoscere dove avesse nascosto i suoi tesori. Egli allora chiamò i poveri e disse: « Ecco i miei tesori ». Ed aveva ragione perché tutto quello che si dà ai poveri diventa tesoro nostro per l’eternità. Manus pauperis; gazophylacium Dei (SAN PIER CRISOLOGO). — OLIO E VINO SULLE FERITE. Doveva essere un momento di grande entusiasmo. Ritornavano proprio allora i discepoli mandati a predicare e ciascuno raccontava al Maestro quanto aveva fatto. Gesù stesso si sentiva commosso. Il pensiero delle anime a cui era giunta la buona novella, la vista dei suoi che eran contenti di aver predicato il Suo Regno di amore, gli inondava il cuore di santa letizia. « Beati — esclamò — beati gli occhi che vedono le cose che voi vedete! ». Un uomo, istruito nella legge, che non era però del numero di quei discepoli che avevano lavorato per il bene del prossimo, vedendo il Signore far tanta festa ai suoi, dovette sentire un po’ d’invidia, poiché domandò subito a Gesù: « Ed io per salvare l’anima che debbo fare? ». « La legge cosa dice? ». « Ama Dio con tutte le forze ed il prossimo come te stesso ». « Benissimo! fa così ed avrai la vita ». Per rispondergli bene Gesù raccontò questa parabola del samaritano. Ecco chi è il prossimo e come, in pratica, lo si ama. Per aver la vita eterna bisogna proprio amarlo così. Lo dice chiaramente Gesù nel Vangelo di oggi. Ferite materiali forse ne troveremo poche, ma quanti fratelli, nel cammino della vita, hanno le ferite della sventura e del dolore, hanno le ferite del peccato e dell’errore. Tocca a noi versar sulle prime l’olio che conforta e solleva, versar sulle altre il vino che disinfetta e toglie la corruzione. – 1. CONFORTARE NEL DOLORE. A 24 anni, nel fior della giovinezza, un male strano lo incoglie e lo costringe a letto. Si tratta di qualche cosa di grave e Pier Giorgio Frassati ha la sensazione che l’ultima sua ora è vicina. Ricco di censo, figlio di senatore, alla vigilia della laurea di ingegnere, si vede d’un tratto la morte davanti ma non ha paura: per il giusto la morte non è mai improvvisa. Accorrono i medici, fanno consulto, fan venir da Parigi un siero rarissimo, ma… la sua mente è nei suoi pensieri santi. È venerdì: il giorno dedicato ai suoi poveri che andava a visitare di casa in casa e si ricorda che doveva portare ad una famiglia una scatola di iniezioni. Chiama la sorella che vada nello studio a prendere la sua giacca; trae il portafoglio, ne toglie una polizza e vuole che subito si compri la medicina. Quando gliela portano è tutto raggiante. Invano i suoi cari gli vogliono strappare la penna di mano. Raccoglie le forze e con stento indicibile riesce a scrivere l’indirizzo dei poveri a cui era destinata. Quella mano che sempre si era allargata per fare del bene voleva irrigidirsi in un atto di carità. Aveva lui bisogno di estremi rimedi, eppure pensava non a sé ma agli altri. – In Pier Giorgio però questo atto non era eroismo: era coerenza, nient’altro che coerenza a tutta la sua vita. Aveva capito che fare il Cristiano vuol dire essere degli altri. Per questo gli era sembrato la cosa più naturale far parte alle conferenze di S. Vincenzo per il soccorso ai più poveri; per questo non aveva vergogna a stender la mano; per questo gli pareva un delitto sciupare il denaro. Il Cristianesimo, se è davvero vissuto, vi vuole così. Il ricco è fratello, è ministro del povero. L’uomo deve asciugare le lagrime di colui che piange. Studiate il Vangelo, leggete S. Paolo; vi persuaderete che il Cristianesimo vero è questo. – Gesù Cristo è morto per tutti, ha voluto essere l’amico dei poveri, ha consacrato la sofferenza e il dolore. All’ombra della Croce sorgono gli Ospedali ed i ricoveri pii, si raccolgono gli orfani ed i malati. E noi le comprendiamo queste cose, o di Cristiani non abbiamo che il nome? Quando la morte getta lo schianto in una famiglia non ci assentiamo; facciamoci vedere. Una parola di conforto la dobbiamo sempre dire. Se lungo la strada ci stendono la mano a chiederci un soldo, facciamo volentieri la nostra elemosina. Se la sventura colpisce i nostri fratelli e possiamo dar loro un po’ di sollievo, diamolo subito con tanto cuore. Potremo noi darci ai divertimenti e al lusso, quando vicino alle nostre case, nelle nostre vie, nel nostro paese ci sono di quelli che piangono e non hanno il necessario? Non ama Cristo chi non ama i poveri e quelli che soffrono! – 2. CORREGGERE DELL’ERRORE. Pietro e Giovanni ascendevano al Tempio nell’ora della preghiera. Sulla porta Speciosa trovarono un Uomo che era storpio fin dalla nascita. Tutti i giorni lo mettevano là perché, stendendo la mano, raccogliesse il necessario per vivere. Sentirono, gli Apostoli, una gran compassione, e Pietro avvicinandolo disse « Senti: non ho né oro né argento. Ti do quanto posso: In Nome di Gesù di Nazaret sorgi e cammina ». E presagli la destra lo sollevò da terra tutto risanato. Contento come mai era stato, entrò con essi nel Tempio a lodare il Signore. Ci sono di quelli che non hanno bisogno d’argento e d’oro, ma di qualche cosa di assai più importante. Sono incapaci di muovere un passo nella vita del bene perché si trovano avvolti nella colpa. Hanno difetti che potrebbero correggere, ma perché non c’è nessuno che sa loro parlare, menano una vita che è senza gusto. Sono… alla porta del Tempio, cioè con poco potrebbero amare il Signore di più ed invece sono sempre allo stesso luogo: ci vuole qualcuno che dia loro una spinta e li faccia rialzare. Perché a queste anime non possiamo dire una parola di dolce rimprovero o di ammonizione fraterna? Se uno, per isbaglio, portasse il mantello rovesciato od avesse sul volto una macchia, non è forse creanza renderlo avvisato? Quando dunque un fratello sbaglia noi dovremmo correggerlo in bella maniera, fargli capire il male che ha fatto. Invece troppe volte gli si mormora dietro le spalle e si propalano i suoi difetti ai quattro venti. Che dire poi se i genitori od i superiori che hanno l’obbligo grave di correggere i figli e i dipendenti diventassero « cani muti che non sanno latrare? ». Sventure a loro perché dovranno rendere a Dio uno strettissimo conto. Che anche un’anima sola si perda per nostra colpa è tale un pensiero da farci tremare. – Un giorno, al convento di S. Benedetto, si presentò un povero a chiedere per carità un po’ di olio. Il frate portinaio si lasciò prendere dall’avarizia e con una bugia rispose che di olio in convento non ce n’era più: le anfore erano vuote. Di lì a pochi giorni lo seppe l’Abate e andato in cucina buttò giù dalla finestra tutto l’olio che ancor rimaneva. Se i nostri fratelli hanno bisogno dell’olio del conforto o del vino della correzione diamolo sempre e per amore di Cristo soltanto. Se facessimo l’avaro il Signore ci potrebbe castigare.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Exod XXXII: 11;13;14

Precátus est Moyses in conspéctu Dómini, Dei sui, et dixit: Quare, Dómine, irascéris in pópulo tuo? Parce iræ ánimæ tuæ: meménto Abraham, Isaac et Jacob, quibus jurásti dare terram fluéntem lac et mel. Et placátus factus est Dóminus de malignitáte, quam dixit fácere pópulo suo.

[Mosè pregò in presenza del Signore Dio suo, e disse: Perché, o Signore, sei adirato col tuo popolo? Calma la tua ira, ricordati di Abramo, Isacco e Giacobbe, ai quali hai giurato di dare la terra ove scorre latte e miele. E, placato, il Signore si astenne dai castighi che aveva minacciato al popolo suo.]

Secreta

Hóstias, quǽsumus, Dómine, propítius inténde, quas sacris altáribus exhibémus: ut, nobis indulgéntiam largiéndo, tuo nómini dent honórem.

[O Signore, Te ne preghiamo, guarda propizio alle oblazioni che Ti presentiamo sul sacro altare, affinché a noi ottengano il tuo perdono, e al tuo nome diano gloria.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.


Communis
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessione dicéntes

(È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode:)

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CIII: 13; 14-15

De fructu óperum tuórum, Dómine, satiábitur terra: ut edúcas panem de terra, et vinum lætíficet cor hóminis: ut exhílaret fáciem in oleo, et panis cor hóminis confírmet.

[Mediante la tua potenza, impingua, o Signore, la terra, affinché produca il pane, e il vino che rallegra il cuore dell’uomo: cosí che abbia olio con che ungersi la faccia e pane che sostenti il suo vigore.]

 Postcommunio

Orémus.
Vivíficet nos, quǽsumus, Dómine, hujus participátio sancta mystérii: et páriter nobis expiatiónem tríbuat et múnimen.

[O Signore, Te ne preghiamo, fa che la santa partecipazione di questo mistero ci vivifichi, e al tempo stesso ci perdoni e protegga.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (265)

LO SCUDO DELLA FEDE (265)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (8)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO VIII.

RELIGIONE

I. Basta far bene. II. Io non rubo, io non ammazzo. III. È un uomo onesto, gli manca solo un poco di religione.

Oltre la religione del cuore ve n’ha un’altra, alla quale ricorrono non pochi a questi giorni, sempre in cerca d’ evitare quanto possono l’esercizio verace del Cristianesimo. Potrebbe chiamarsi questa la religione del far bene. Che necessità, dicono essi, di rompersi il capo e di angustiarsi il cuore a fare tanti studi, ed a distillarsi l’ingegno in una moltitudine di verità che non s’intendono, e di esercizi che annoiano, quando a Dio basta tanto meno? Faccia io bene, e Dio si terrà per soddisfatto, e non può domandare altro un Padre sì buono alle sue creature. Per quanto sia inetto questo aforisma, per quanto sia vano, non lascia a certi cervelli leggerissimi di fare qualche forza e di persuaderli a trascurare tutto il culto. Vediamo dunque se esso regga punto al martello della discussione.

I. Che cosa vogliono essi significare dicendo che basta far bene? Se nulla vogliono dire, è che la bontà della vita scusa ogni religione. Or la bontà della vita, gli onesti costumi, le maniere savie, la condotta irreprensibile, la purezza del vivere sono certo cose molto lodevoli; ma, di grazia, bastano esse a costituire un uomo veramente buono? La vita buona abbraccia tre parti: la pietà verso Dio, la giustizia verso il prossimo, la sobrietà verso sè stessi; e qualunque di queste parti venga meno, vien meno con essa la bontà. Ora diamo pure per un momento che costoro non facciano torto al prossimo, non rubino, non ammazzino, come se ne vantano; concediamo anche loro che non si lascino trasportare a sfrenatezze, a lascivie, a dissolutezze (di che neppur essi si vantano); accordiamo loro che nulla sia a ridire sulla loro condotta, ma e dunque, il mancare totalmente della pietà verso Dio, degli esercizi del culto, lo stimano un nonnulla siffattamente che non impedisca neppure più l’essere buono? – Abbiamo accennato sopra fino a qual punto sia doverosa la religione; ebbene essi sono buoni, mentre violano quei doveri sì sacrosanti? Iddio impone la religione. con fanti titoli, quanti sono qi suoi attributi, e costoro sono buoni calpestandoli tutti? Iddio la impone con tante ragioni, quante sono quelle della nostra dipendenza e sudditanza, ed essi son buoni col contravvenire a tutte, e tutte porle in non cale? Il Figliuolo di Dio, per ammaestrarci nella religione e stabilirla presso di noi, si degnò di venir sulla terra, facendosi uomo; si compiacque di pubblicarla colla sua bocca divina, di autenticarla co’ suoi miracoli, di allettarvici colle sue’ promesse, di minacciarci con eterni castighi se l’avessimo trasandata, di prometterci eterni premii se vi fossimo stati fedeli; e costoro, disprezzando e conculcando le degnazioni divine, le sue minacce, i suoi premii ed i suoi castighi, le sue proibizioni ed i suoi comandi , si spacciano come buoni, e, se il ciel li salvi, si tengono tali? Bisogna davvero, oltre la fede, avere smarrita ariche la ragione per parlare in tal modo. No, no, non sono buoni costoro, mentre loro manca il primo fondamento della vera bontà, che è la pietà verso Dio, quand’anche avessero nel rimanente la condotta la più pura ed incontaminata.

II. Del resto cotesti, buoni hanno poi almeno questa esemplarità che pur vantano? Non vi abbiate a male, se io alquanto ne dubito. Ponderate i motivi che mi tengono perplesso, e poi risolvete da voi la questione. Costoro per lo più tra loro precetti, non ne contano se non due: non rubare, non ammazzare; e questo, lo accorderete facilmente, è un restringerne un po’ troppo il catalogo. Tra le virtù ne conoscono una sola, ed è la beneficenza; e questo non è senza qualche pregiudizio delle virtù teologali, cardinali, morali. Ridotta tutta la vita a quei doveri sì scarsi, voi vedete che trovano anche luogo molte altre azioni che compromettono un poco il basta essere buono. Trovano ancora luogo tutte le vanità per cui s’idolatra il mondo e non si respira altro che spassi, trastulli, feste, teatri, giuochi, divertimenti. Trovano anche luogo tutti gli eccessi della gola, dell’intemperanza, del viver molle. Trovano luogo le trame, le conventicole delle cospirazioni, delle società segrete. Trovano luogo principalmente tutte le dissolutezze della carne. Ristretti i comandamenti all’io non rubo, io non ammazzo, resta luogo all’insidiare la donna altrui ed al prostituire la propria; resta luogo ai pensieri immondi, ai discorsi laidi, alle scollature indecenti, alle compiacenze ree, a tutte le turpitudini in che si coinvolgono gli animali. Tutte queste abominazioni non sono punto vietate da quel decalogo compendiato. Né un poco di beneficenza corregge gran fatto l’errore, o apre un campo più spazioso all’esercizio della bontà. Non impone l’obbligo di reprimer sé stesso, né di combattere le proprie inclinazioni, né di superare duri contrasti, o di rinnegare il proprio spirito. Per mettere in tutta la sua mostra un po’ di beneficenza, basta anche intervenire solo a qualche ballo umanitario, a qualche rappresentazione teatrale, a qualche accademia di musica, massimamente in quaresima, prendere qualche biglietto di una lotteria, o contentare qualche signora elegante, che graziosamente vi presenta dinanzi un vassoio a stimolare la vostra inesauribile filantropia. Ora non potete negare che anche questo esercizio di bontà non sia la cosa più ardua del mondo. – Ad incalzare questi miei dubbi si aggiunge per noi Cattolici un’altra ragione affatto stringente. Ed è che, senza la grazia divina, noi sappiamo non poter niuno durare lungamente nel bene, specialmente poi in mezzo a pericoli e tentazioni sì gravi, quali son quelle che s’incontrano in mezzo al mondo. Per noi Cattolici questa verità è al tutto fuori di controversia, poiché la fede ce l’intima assai chiaro. Per ottenere poi questa grazia le vie ordinarie sono due senza più, la preghiera ed i sacramenti; tantoché allontanarsi o da questi o da quella, è lo stesso che mettersi disarmato in un campo di battaglia e non volere essere ferito, cioè un impossibile. Or chi riduce la sua religione al non rubare e non ammazzare, non ha consuetudine di pregare, non di confessarsi, non di comunicarsi, e quindi non ha gli aiuti che gli sono di assoluta necessità per resistere alle tentazioni, per superare gli ostacoli che al tutto si hanno da vincere per giungere alla vera bontà. Di che è forza il conchiudere che questi buoni senza religione debbono per necessità cadere in una moltitudine di peccati, secondo le occasioni che lor si presentano. La conseguenza è innegabile. – Aggiungete che, per esser buono alla maniera cattolica, non basta neppure il contentarsi di non far male, bisogna positivamente fare ancora di molto bene. Bisogna (altro che un po’ di beneficenza!) portare rispetto ai superiori anche discoli, amore agli uguali anche inamabili, trattare con mansuetudine anche gl’inferiori, e far del bene ai proprii nemici. Bisogna, non dico, non mormorare il prossimo, ma ricoprirlo, ma aiutarlo, ma assisterlo nelle sue necessità. Bisogna non solo non rapire l’altrui, ma dare il proprio superfluo ai overelli. Bisogna non solo non ispiantar gli emoli e scavalcarli perché fanno uggia, ma serbar l’umiltà nel cuore ed il sentimento giusto del proprio nulla. Queste ed altre simili a queste sono le virtù, senza le quali niuno è buono alla maniera cattolica. Ciò presupposto, sarei io troppo ardito se dubitassi un poco, che tutte queste virtù si trovino in coloro, che gridano tanto: basta esser buono, la mia religione è far del bene? I Santi che mai non restavano dal pregare, dal piangere, dal digiunare, dal faticare in servigio altrui, non osavano vantarsi di esser buoni, e costoro facendo nulla, come tanto si assicurano di aver imbroccata la vera religione? Forse più di un lettore, percorrendo queste ragioni, si riderà nel suo cuore di me che buonamente le adduco. E che? vorrebbe egli dire, non basta la sperienza per dimostrare fino all’evidenza, che cotesta è una maschera, sotto cui covano tutte le malvagità? Se chi legge queste carte fosse di quelli che hanno qualche sperienza del mondo, senza dubbio non avrebbe avuto bisogno di esse; ma v’ha sempre un cotal numero di coloro i quali, o per una leggerezza inarrivabile o per una semplicità miracolosa, sono disposti a credere tutto quello che altri ha il coraggio di profferire: e questi abbisognano di disinganno.

III. E con ciò vorrei correggere eziandio il modo di parlare, che si ode persino sulla bocca di persone non cattive ma incaute, quando di alcuno che ha gettato affatto la religione, solo che abbia conservato nell’esteriore qualche naturale onestà, si fanno elogi sperticati, soggiungendosi al fine, che non gli manca altro che un poco di religione, poiché del resto. . . Come? Ed è un uomo onesto quello a cui manca solo un poco di religione? Ma dunque il grande Iddio è caduto sì basso nell’estimazione dei Cristiani, che il metterlo da parte, il trascurarlo non sia quasi più colpa da farne caso? Non toglie neppur più la fama d’onestà il violare i diritti del Creatore, del Redentore, del Padre, dell’ogni bene che è Dio? Non è neppur più una colpa il distruggere tutti i disegni, pei quali Dio unicamente ci ha collocati sulla tetra, e per cui ci ha forniti di tutte quelle qualità che possediamo? – Che cosa ve ne parrebbe se io vi dicessi d’un uomo che egli è onesto sì, ma che solo ha la tacca che talvolta avvelena il suo prossimo, ché dà qualche pugnalata, e che talora, o per suo diletto o perché è scarso a denari, scanna qualcheduno? Che cosa direste di una donna, della quale vi si predicasse ogni gran bontà sola piccola aggiunta, che le è rimasto il debole di offrirsi sulle pubbliche strade a quanti passano? Vi parrebbe una beffa. E il dire di una persona, che non manca alle convenienze ma solo manca a quelle dovute a Dio, che onora gli uomini e che solamente a Dio non porta alcun rispetto, non vi sembra una beffa molto maggiore? Non vi lasciate dunque mai sfuggire dal labbro che vi sia onestà senza religione, poiché il parlare così toglie l’orrore, che è giusto che tutti abbiano verso quei sepolcri imbiancati e fetenti, che ricoprono con un poco d’onestà naturale un animo senza religione; leva a quegli infelici medesimi lo stimolo che avrebbero a convertirsi dove si vedessero in dispetto a tutti, siccome sarebbe giusto; e soprattutto diminuisce il concetto altissimo che si ha da avere di Dio e della cristiana pietà. – Se non si usassero dal mondo tanti riguardi, come scioccamente si usano verso costoro, le città cattoliche non avrebbero tanti audaci, i quali, con la fronte proterva e col cuore corrotto, menassero vanto di rigettare le credenze cristiane e di calpestarne le pratiche: ma siccome i più, per tema di non essere tacciati d’intolleranza, si rappicciniscono, non osano fiatare, oppure anche peggio per dappocaggine e viltà d’animo li approvano; così quei felloni imbaldanziscono senza misura. Guai però a coloro che non si curano di Dio, se Dio un giorno non si curerà più di loro!

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (50)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (50)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

INDICE DEGLI ARGOMENTI -VIII-

H. – DIO DOCENTE MEDIANTE IL MAGISTERO DELLA CHIESA

  1. Diritto ed ufficio del Magistero ecclesiastico.

H1a. a. – IN GENERE

Cristo affidò il deposito della fede alla Chiesa a. istituendo il Magistero autentico perenne a3305 CdIC 1322, § 1; Cr. È egli stesso che insegna attraverso la Chiesa per giuridica missione 3806.

La Chiesa ha il diritto e l’ufficio di esporre la dottrina rivelata in quanto sua custode e maestra 807 3012 3020 3540 CdIC 1322, § 1; in questo ufficio essa è indipendente dal potere civile CdIC 1322, § 2.

In generale si richiede la sottomissione al Magistero -: 125 2020 2390 2875-2880 3020 3625 3884s; – anche i capi di dottrina che per comune e costante consenso dei Cattolici sono ritenute come verità teologiche e conclusioni certe 2880; -: a pro delle dottrine filosofiche 2860s 2865s 2910 3018.

Esempi di soggezione e riduzione degli autori 807 980 990s 2351 2751 2811 2828.

Affermaz. impugnanti ctr. autorità magistrale della Chiesa 1477-1480 3401-3408.

H1b. b. – DIRITTO ED UFFICIO DEL MAGISTERO QUANTO ALL’OGGETTO.

1ba. Ambito della competenza del Magistero. Oggetto è la dottrina rivelata, il deposito della fede (a. giudizio circa il vero suo senso) a1507 a1863 3012 3018 3071).

Col Magistero nulla di nuovo si aggiunge al deposito della fede, ma o si chiarisce ciò che in precedenza poteva sembrare oscuro o si stabilisce di considerare per fede ciò che si dibatteva in controversia 3683; al S. Pontefice con assistenza dello Spirito Santo non è dato di annunciare nuove dottrine 3070.

Si rivendica anche l’autorità dottrinale della Chiesa -: in ambito filosofico 2860s 2865s 2910 3018; add. proposizioni in tal caso giudicate (passim); -: in ambito economico e sociale come regola di costumi 3725 3938 3997.

La Chiesa giudica circa la santità in ordine alla canonizzazione 675.

La Chiesa non giudica circa la mente o l’intenzione (ossia a. di cosa occulta) in quanto vi sia di interiore a1814 a2266s 3318; solo deve giudicare fin dove appare all’esterno 3318; la Chiesa giudica fino al senso delle parole degli autori 2010-2012 2020 2390.

1bb. Al Magistero è affidata la libertà di intendere ed insegnare. Ambito degli oggetti: gli oggetti rivelati non ammettono libertà di sentenza 3042; questa è ristretta alle cose ove non si interiore il giudizio della Sede Apostolica 3625 3667 (3885).

Questa libertà si evidenzia-: in questione circa l’ausilio della grazia 1997 2008 2509s 2564s.(2679) S1997; -: in qu. circa un attrito 2070; – Circa la separazione del sangue di Cristo dalla divinità nel triduo della passione 1385; -: in qu. circa sistematiche morali 2175-2177 (2679) 2726: -: quanto a sentenze della scuola tomistica 21671 2509 36010 3667; —: vietando libri “censurati” per mezzo della Cgr. dell’Indice” 3154s; nell’investigare questioni bibliche 3831.

Tutela dalla libertà di investigazione scientifica da non sospetti di spirito e dalla cieca opposizione a qualunque novità, ma da giudicare con somma carità 3831.

In cose di libera disputa non è lecito in questa sospettare circa la fede per degli avversari o arguire di non buona disciplina 3625; a nessuno è lecito imprimere la censura teologica 142612167 2665 2679.

H1c. c. — DIRITTO ED UFFICIO DEL MAGISTERO SULLE SINGOLE PERSONE.

1ca. Il Summo Pontefice è il sommo dottore della Chiesa 1307 3059 3068 3074 (CdIC 218); la sua autorità dottrinale è pienamente legata al primato vd. G 4db, ancor più nello specifico 181s 217 221 235 343 353 365 1064 3065-3073 3074s; la stessa è riconosciuta dai Concili 218 306 398-400 402 (444) 664 1848; per questo la Chiesa (essa è la Sede) Romana è chiamata “maestra” 774 1850 1868.

Il S. Pontefice ha il diritto di definire le questioni di fede 861 3067 3885; —: di interpretare i decreti dei Concili 447 1849s 3067.

Nel S. Pontefice è distinguere il dottore della Chiesa universale nella libertà di favorire delle scuole, e il dottore privato favorevole all’opinione tra varie lecite 2565.

Circa i decreti del S. Pontefice (a.ove dati come opera data sentenza) non è lecito ritrattarli o liberamente disputare né si ammettono divagazioni 182 217s 221 232 235 343 353 2331 a3885; ctr. la dottrina del S. Pontefice non vale la sentenza di Agostino 2330.

1cb. Vescovi, anche singoli, sono veri dottori dei loro sottoposti CdIC 1326; ad esse compete il giudizio circa la fede 761.

1cc. Concili generali. La loro autorità — affermata 343 352 (364) 517s 521s 550 575 587 1869 2526-2539; —: riconosciuta e convocata a teste 402 412 (433) 436-438 444 472 548 640 652 686 1986s.

Il Concilio generale o ecumenico rappresenta l’intera Chiesa 1247s; la suprema Potestà prevale sulla Chiesa tutta CdIC 228, § 1; pertanto non è superiore al Papa (così da a. potersi appellare contro il Papa)

233 115100 a1375 (2935s) a3063 CdIC a228, § 2: ciò che stabilisce il Conc. gen. In materia di fede e di morale, deve essere da tutti osservato 1248-1251; si riprovano le asserzioni circa la facoltà di dissentire 587 1479.

Si riprovano le asserzioni che esagerano l’autorità del sinodo diocesano o nazionale e dei loro atti sinodali 2609-2611 2693 2936.

1cd. Congregazioni curiali. Si esclude dalla loro autorità 2880 2912 3408 3503.

H 1d. d. — MODALITÀ SPECIALI DI ESERCITARE IL MAGISTERO.

Tra i mezzi del Magistero si recensiscono precipuamente i concili generali ed i sinodi particolari 3069.

Il Magistero procede in modo straordinario e più solenne, quando deve evidenziare gli errori e vuole spiegare in modo più efficace e sottile i capi della sacra dottrina 3683.

Il Magistero stabilisce ed approva le professioni di (a. come il principio, a cui tutti i fedeli devono convenire) 398 400 a1500.

Il Magistero sottopone alla sua censura ed approvazione gli scritti circa le cose di fede e di morale, proibendo libri nocivi 202 213 353s 686 807 980 1851- 1861 2065 2668 CdIC 1384-1405.

Il Magistero proscrive le sentenze della fede e dei costumi non consentanee, infliggendo anche al bisogno censure teologiche sia globali sia a.in particolare 721-739 840-844 891-899 a921-924 941-946 a951-979 1028-1049 a1087-1097 1101-1103 1110 1116 1121-1139 1151-1195 1201-1230 1361-1369 1391-1396 1411-1419 1451-1492 1901-1980a2001-2006 2021-2065 2101-2166 2170s 2201-2268 2281-2285 a2290-2292 2301-2332 2351-2374 2400-2502 2571-2575 a2601-2685 a2791-2793 3201-3241 3401-3465.

Censure specifiche (qualificazioni) illustrate con l’esempio di proposizioni per le quali sono giudicate in un determinato modo: proposizione —: eretica 951-965 977s 1087 1089-1091 1093 1095s 2001-2005 2203 2213-2215 2241-2253 2290 2602-2604 2615 2659 2693; —: prossima all’eresia 2221 2223 2257 2260s; che sa di eresia (ossia a.sospetta eresia) 2202 2204-2210 2212 2216-2219 2231s 2235s 2255s 2258 a2618 a2620

2622 2628; —: scismatica 2606 (2607s) 2693; —: falsa 1087-1093 1095-1097 2004s 2609-2613 2616 2619//2630 2635-2637 2640//2653 2661//2668 2673-2680 26823 2793; —: temeraria 2001 2005 2170s 2211 2214s 2217-2220 2223s 2226s 2230-2235 2238s 2241-2268 2291 2331s 2358 2360 2365-2370 2372 2609-2614 2617 2625-2627 2630// 2648 2651-2654 2662//2673 2676-2679 2683 2763; —: erronea 1087 1089-1091 1095-1097 11145 2204-2206 2208-2210 2213-2219 2221s 2224 2232 2235 2241-2253 2258 2291 2351-2357 2360s 2363 2367-2369 2372s 2606//2612 2622 2628 2637 2646s 2664 2677s 2791; —: scandalosa 1092 1391-1395 2021-2065 2101-2165 2206s 2209-2211 2214- 2220 2224s 2230-2252 2254 2258-2260 2263s 2266 2291 2357 2360 2362 2369-2371 2619 2634 2643 2664 2668 2673s 2678 2681 2791s SI309; —: blasphema 2001 2005 2210 2214s 2241-2253 2260; —: empia 2001 2005 2619 SI309; —: offensiva per le orecchie pie 2206 2230 2258 2291 2358 2368 2633 2642s 2662 2671 2678; —: risuonante malamente 2354- 2356 2373 2644 2665; —: perniciosa 2352 2364 2367 2612 2614 2623 2625 2629s 2637 2639 2644 2646 2649 2662 2664s 2670 2678 2680 2692.

2.. Certezza del Magistero ecclesiastico.

H 2a. a. — IN GENERE.

La Chiesa di Cristo esponendo la dottrina rivelata gode dell’assistenza dello Spirito Santo CdIC 1322; il S. Pontefice ed i Concili richiamano lo Spirito S. congregante, illuminante 102 265 444 631 702 707 115100 1500s 1600 1635 1667 1726 1738 1820 1848.

Alla Chiesa (in genere) è attribuita l’infallibilità 2922 3020: alla Sede Apostolica si rivendica l’inerranza 363 775 1064 1807s 2329 2923 3066; si riprovano le proposizioni implicitamente asserenti che la Chiesa possa errare [sci. accusa circa l’ingiusta condanna degli articoli, circa l’ingiusta scomunica, l’oscuramento delle verità] 1225 1480 2491-2501 2601 2612-2614.

La sentenza magistrale del dubbio senso continente è da prendere sempre in quel senso in cui la locuzione sia veramente intesa. 1407.

Per altra parte i libri non riprovati dalla Sede Ap. o “lasciati passare” e da sé stessi consentiti non sono da considerare liberi da errore 2047 3154s.

H 2b. b. — INFALLIBILITÀ DEGLI ATTI SOLENNI.

2ba. Soggetto dell’infallibilità. Il giudizio solenne circa la fede divina e cattolica da credere compete al Rom. Pontefice parlando ex cathedra e dal concilio ecumenico CdIC 1323, § 2.

Dal S. Pontefice è rivendicata l’infallibilità (221 353) 2329s 2539 2781 3069s 3074s CdIC 1323, § 2.

2bb Natura e condizioni dell’infallibilità. Il dono dell’infallibilità consiste a.non in una qualche nuova rivelazione, ma sed in nell’assistenza dello Spirito Santo, perché la rivelazione tramandata dagli Apostoli sia fedelmente esposta a3070 3074 (3116).

Il S. Pontefice pertanto è infallibile, sia se funge per la sua suprema autorità quale dottore di tutti i fedeli, sia se parla ex cathedra 3074 CdIC 1323, § 2.

L’infallibilità è legata e alla dottrina della S. Scrittura e alle definizioni già pronunciate 3070 3074 a3116; non è riferita alle questioni di governo del S. Pontefice 3116.

La definizione dogmatica è solamente ciò che come tale sia stato dichiarato, CdIC 1323, § 3.

Le definizioni del S. Pontefice, dal momento che sono infallibili, sono irreformabili di per sé indipendentemente dala consenso della Chiesa 3074.

Il dono dell’infallibilità non dispensa il Pontefice dall’obbligo di usare i mezzi naturali di operazione: a.deliberazione, b.inquisizione, c.discussione, d.consiglio per gli altri a182 c810 c844 d899 c904 c974 c930s ac1848 b2011; add. I detti in diverse note di introduzione a proposizioni condannate.

2bc. Accettazione dei decreti infallibili. A tutte le cose che si propongono a credere, sia per solenne giudizio, sia per il Magistero ordinario e universale, sia rivelazioni, si deve una fede divina e cattolica 2879 2922 3011 (3885) CdIC 1323, § 1; il silenzio ossequioso non soddisfa i decreti dottrinali 2390. Circa l’obbligazione a credere cf. anche K 2a.

H 2c. c . — CERTEZZA DI CERTI ATTI DEL MAGISTERO.

I decreti della Sede Ap., che sono mutabili in meglio o sono aggiunti temporaneamente od ordinati per necessità (mutabili) 641; anche può accadere che siano soppressi dalla Sede Ap. 641.

Anche ai decreti non infallibilmente proposti (tra i quali si tratta di materia per sé non infallibile, di numerose lettere encicliche e prescrizioni di errori) si deve l’assenso 2922 3407 3885; tuttavia il tale assenso non può essere assoluto (in quanto in cosa che non ha vigore dell’infallibilità immune dall’errore), ma solo condizionato, revocabile in favore della decisione o evoluzione successiva in altro senso, rese illegittime ed illecite; o che possano indurre in contraddizione con altre parole, dissolto l’assenso assoluto, incondizionato a qualunque documento dottrinale della Sede Ap., come per istruzione di esempi storici, —: gli atti di Papa Liberio nella causa dei Semiariani (138-143), soprattutto la condanna di S. Attanasio, facilmente poterono indurre in detrimento della fede Nicena e generare una venerazione prestata da tutti i fedeli al propugnatore di questa fede; —: Le parole di Leone I Magno 294: “Assunta è dalla madre del Signore la natura, non la colpa”, per cui gli intelletti sono stati giacenti per secoli sotto questa sentenza un tempo comune, il cui assenso accettato, precludeva la via alla definizione dell’Immacolata Concezione della B. Maria Vg. 2800s5; —: Si discosta il giudizio circa l’ortodossia di Teodoreto e Ibe: sono condannati (riprovati nel Sinodo Efesino da Leone I M. come “latrocinio”) nel Conc. Costantinopolítano II, da Gregorio I M. e nel Libro diurno, riconosciuti ortodossi nel Conc. Calcedonense e da Pelagio I cf. 300°° 436s 444 472;

—: Nella causa di Onorio I Papa (la cui ortodossia fu attaccata solo dagli Orientali) si discosta dal giudizio circa il modo di agire di Onorio con in capi dei Monoteliti tra Giovanni IV di lui benevolmente interpretando e proteggendone l’onore e Leone II al Concilio Costantinopolitano III scusandolo per la condanna acritica, mentre Martino I con il Sinodo Lateranense, condannando i Monoteliti lasciò nel silenzio Papa Onorio: cf. 487s 496-498 518 550 552 561° 563; — :

Nicolò I oltre alla forma trinitaria del Battesimo validò espressamente anche la forma: “In nomine Christi“, a cui specialmente contraddice la dottrina posteriore: cf. 646! (211) compar. con 123 176s 214 445! 478- 580 589 592 644 757 802 903; —: nella questione circa la validità delle ordinazioni dei simoniaci nessun decreto si oppone alla sentenza già da secoli comunemente riportata: cf. 691-694 701s! 705 710; —: Circa l’ambito del privilegio Paolino dissentono Celestino III e Innocenzo III: cf. 768;

—: Circa l’effetto del consenso matrimoniale Alessandro III dissente da alcuni predecessori 756; — : Tra i casi illustrissimi vi è la sentenza di Giovanni XXII circa la beatitudine ottenuta nel solo modo imperfetta ottenuta dopo la morte fino al giorno del giudizio generale, alla quale cardinali ed il re della Gallia, non solo non diedero assenso, ma vi resistettero contro, inducendo il Papa alla revoca e a sancire la sentenza opposta: cf. 990s 1000ss.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (51).

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (13)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (13)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo QUINTO (2)

II. – IL CRISTIANO E L’EGOISMO DEI SENSI

Ricorda Giosuè Carducci nelle sue Prose che « gli abitanti d’una città greca, alla rappresentazione d’un dramma d’Euripide, invasi di sacro entusiasmo, deliraron tre giorni, tre giorni aggiraronsi per la città ricantando i versi del coro, che celebrava la potenza d’amore ». Non tre giorni, ma 365 giorni all’anno, e 366 negli anni bisestili, mi pare che in questo mondo si celebri la potenza di amore. Parlano forse e pensano ad altro gli uomini? si chiede il Gratry nella Connaissance de l’ame. Di che discorre la giovinezza e che cosa rimpiangono i vecchi? aggiunge Bossuet. Si entri in un teatro. Drammi, tragedie, commedie, persino le farse, sono tutte intessute con un identico filo. Si visiti un cinema, uno dei molti cinema che nelle città e nei paesi sono rigurgitanti di folle avide. Quando non è una scena di furto, è uno spettacolo più o meno immorale, che attira la gente, la incatena, la soggioga. Si passeggi in una strada, o si entri in un salotto. La moda con le sue stranezze e con le sue impudenze; i balli coi loro capricci e con le diverse novità; le edicole dei giornalai con le riviste, le pubblicazioni ed i romanzi a dispensa; i discorsi con frasi a doppio senso, attestano sempre il medesimo fenomeno. Quante copie si venderebbero dei romanzi moderni, se non trattassero d’amore e non fossero espressioni di lussuria?… Ovunque gli appelli del piacere si alzano, in mille toni, con mille sfumature. Tutto ormai sembra divenuto lecito. La figliola disgraziata, che nell’aprile dei suoi anni ha distrutto la sua primavera; le povere creature del peccato, che portano sul volto lo stigma della colpa; il giovanotto libertino, incapace di arrossire o dimentico d’ogni più elementare rispetto che dovrebbe a sé ed agli altri, sono fatti così frequenti, che quasi più non sorprendono. Anzi, come diceva Lacordaire nelle sue Conférences de Notre Dame, un omicida è riprovato dal mondo; ma il profanatore dei giuramenti più santi, il violatore del santuario domestico, l’adultero passa a fronte alta e viene riverito. Guardo alla letteratura ed alla storia. Giovanni Boccaccio, scapolo e nemico dell’amore regolato, s’avanza con spensierata giovialità. Mentre Dante unisce il mondo sacro e profano per spiritualizzare quest’ultimo, egli sbattezza tutto l’universo e tutto materializza. Il suo Decamerone, ben fu scritto, è la nuova Commedia, non la divina, ma la umana Commedia. Il mondo dello spirito se ne va; viene il mondo cinico e malizioso della carne; e l’Italia lo segue. La dissolutezza, che anticamente aveva templi e sacerdoti, dilaga; le vecchie divinità, incarnazioni del vizio, e le vecchie infamie risorgono, avvolte nei veli dell’arte e nel fascino della bellezza; la corruzione penetra ovunque, anche nel santuario e tutto profana: bianche vesti di Papi, porpore di Cardinali, mitre di Vescovi, anime di preti e di vergini sono macchiate di fango, fra lo sghignazzare osceno dell’incoscienza e gli splendori abbaglianti della superficialità. La storia si sarebbe svolta ben diversamente, se la cosiddetta « potenza d’amore » troppo spesso non ne avesse avuto nelle mani le redini. Se Lutero non ne fosse stato dominato, ci avrebbe portato un’altra Riforma, non certamente quella che si ispirò al programma del « crede firmiter et pecca fortiter » e che lo condusse non solo al suo, ma al « matrimonio universale », per usare l’ironica frase di Erasmo. La faccia attuale d’Europa non sarebbe quella che è, se i Riformatori fossero stati padroni dei loro sensi ed avessero inculcato a tutti il dominio delle proprie passioni. Il Maomettanesimo non esisterebbe più, se non avesse annientato la legge morale, lasciando libero sfogo agli istinti brutali. E, senza soffermarsi sulla storia, credo che da nessuno sarà messo in dubbio che la vita individuale di moltissime persone avrebbe avuto un orientamento diverso dal presente ed una differente fisionomia, se una.., malattia di cuore non le avesse tormentate. – Il contrasto tra la morale cristiana e la vita non mai si fa così stridente, come su questo terreno. Un rimprovero, un’accusa, una condanna vengono scagliati, come frecce contro l’etica del Vangelo: « Voi, ci si dice, siete i fautori d’una esistenza malinconica e tetra, senza gioia. Siete i nemici della vita… Ci parlate continuamente di sacrificio, di rinnegazione, di morte. Oh, lasciateci amare! Noi vogliamo l’amore ». – Un’altra battaglia dev’essere, dunque, da noi contemplata. Ognuno la può trovare in sé, prima ancora, e più ancora che nel mondo. E la lotta diventa accanita e feroce, specialmente perché le due bandiere portano scritto nelle loro pieghe la stessa parola programmatica: Amore. Bisogna scegliere; bisogna decidere. Dov’è il vero amore?

1. – Il gregge d’Epicuro e l’amore.

Il gregge d’Epicuro ciancia d’amore, ma non ama. La sacra parola ricopre solo l’egoismo furioso dei sensi. Non l’affetto per un altro essere, ma il proprio piacere, ma il proprio godimento, ma la propria soddisfazione qui impera e comanda, sacrifica e calpesta, danza ed irride. Io non ho giammai incontrato anime che sapessero veramente amare, fra i dissoluti, esclamava un giorno nella cattedrale di Parigi Lacordaire: « Quando, infatti, ci si abitua alle emozioni violente, come volete che il cuore, pianta così delicata che si nutre di qualche goccia di rugiada caduta qua e là dal cielo per lui; che si scuote ad un leggero soffio, che è felice per giorni interi al ricordo d’una parola detta, d’uno sguardo lanciato, d’un incoraggiamento dato dalle labbra d’una madre o dalla mano d’un amico; il cuore, il cui battito è così calmo nella sua vera natura, quasi insensibile a cagione della sua stessa sensibilità e per paura che si sarebbe spezzato ad una sola goccia di amore, se Dio l’avesse fatto meno profondo; come mai, dico, volete voi che il cuore opponga le sue dolci gioie delicate al godimento grossolano ed esagerato del senso depravato? Questo è egoista: il cuore è generoso. L’uno vive di sé; l’altro fuori di sé; e tra queste due tendenze, una deve prevalere. Se il senso depravato vince, il cuore avvizzisce a poco a poco, non sente più la forza delle gioie semplici, non va verso altri, e finisce per non battere più se non per dare il suo corso al sangue e per segnare le ore d’un tempo ignominioso, del quale la dissolutezza precipita la fuga. E cosa v’è di più abbietto dell’uccidere il cuore nell’uomo? Che resta dell’uomo, quando il suo cuore non vive più? ». Il gregge d’Epicuro non sa amare. Il cuore, per dirla con una forte espressione biblica, diventa cenere. « Le risorse dell’amore elevato, nota il Gratry, le poesie dell’adolescenza pronte a sbocciare, gli entusiasmi della giovinezza, il senso dell’infinito, le forze future della ragione virile, la sapienza promessa all’autunno della vita, tutto è perduto anticipatamente… Quest’uomo si suicida ». – Che importa a lui l’abbrutimento nauseante, la rovina della sua anima, le viltà che per avvoltolarsi nel fango bisogna compiere, le malattie che contrae, le conseguenze in genere che nella intelligenza, nella volontà, nell’organismo sono gli effetti tristi della caduta? Il mortale egoismo del senso perverso è il suo Dio ed il suo tiranno: a parole ama; in realtà vuol godere, brutalmente, animalescamente. Si avvicina, è vero, ad un’altra creatura; nasconde il suo egoismo sotto il gesto dell’amore e sotto promessa della fedeltà; poi passata l’ora dell’ebbrezza folle, va, abbandona, tradisce, in cerca di altre soddisfazioni egoistiche, sempre nascoste sotto le bugiarde dichiarazioni dell’amore. Nel gregge d’Epicuro non si ama. Osservatela la signorina moderna, alla caccia del marito. Uno qualsiasi, purché venga, purché domani la vita sia bella e piacevole e si possa godere!… E tutte le reti tese, e tutti i lacci posti qua e colà sapientemente distribuiti, e tutte le debolezze volute ed incoraggiate, e le abdicazioni anche al senso più elementare della propria dignità e del pudore, e tutti gli episodi che si succedono finché « si è trovato il merlo », son battezzati col nome dell’amore! Guardate il giovanotto moderno, che assicura di voler amare. Egli s’incretinisce nel vizio; il centro dei suoi sentimenti, delle sue preoccupazioni, dei suoi discorsi è il godimento egoistico. Beve, dirò ancora col Gratry, i veleni mortali che la natura mescola alle sue gioie colpevoli, senza pensare alla futura famiglia, ma pensando solo a sé ed alla sua soddisfazione. Che gl’importa dei contagi velenosi e delle loro tracce indelebili, trasmissibili per eredità? Questi lebbrosi della dissolutezza, che restano segnati con piaghe vive o con cicatrici sempre terribili, portano poi, con la perfida impudenza dell’egoismo, una simile loro dote in dono alla fidanzata verginale ed in eredità imprevista ai figli. E tutto questo lo chiamano amore! Vigliacchi! E chi potrà far credere che, in nome dell’amore, le grandi nazioni hanno introdotto nelle loro leggi il divorzio? La donna, dopo qualche anno di matrimonio, la si butta via, come un limone spremuto; ed il problema dei figli lo si risolve in qualche modo. Mentre si mormora che il nemico della donna e dell’amore è il Cristianesimo, senza posa la voluttà criminale va alla ricerca di nuovi calici, ai quali spegnere la sete inestinguibile dell’egoismo più abbietto. Il gregge d’Epicuro non sa amare. Se qualcuno non è convinto, vada e scriva la parola profanata dell’amore sulle case del disordine… Mai si è così poco amato come ai giorni nostri e mai così scarso è stato il sorriso della pace e della gioia: l’egoismo dei sensi ha come ineluttabile conseguenza la « tristezza atroce della carne immonda ». Invece della vita, si ha l’abisso della morte. Se l’autore del Decamerone, dinanzi al frate inviatogli dal certosino Piero Petroni, si pentì della sua vita dissoluta, si commosse, si spaventò, si convertì; mille e mille altri, anche se non ritornano al Cuore dell’Unico che sa e dona l’Amore, al termine della loro vita, debbono confessare a se stessi le disillusioni più gravi ed il disgusto più amaro; è la disfatta completa non dell’amore ma dell’egoismo.

2. – La morale cattolica e l’amore.

Esponiamo, ora, i principi della morale cattolica, con esattezza, con precisione, con la tranquilla serenità della ragione e della fede, che nulla hanno a che fare con la torbida irrequietezza del senso e della passione.

1. Iddio tutto crea santamente. E tutto è razionale nell’organicità del tutto. La natura tende sempre ad un fine giusto, determinato ed efficace. Anche gli istinti del senso, perciò, non sono da riguardarsi in sè come un male. Il male, come diremo, dipende dall’abuso che noi possiamo fare, dopo che la colpa originale ha rotto la subordinazione del senso alla ragione, cosicché tale subordinazione è oggi non una dolce necessità, ma il risultato d’uno sforzo e d’una personale vittoria. Perché mai Dio permette che noi sentiamo così fortemente il fremito della carne? Perché, anche in anime sante e nobili, abbondano « le tentazioni » e la fantasia diventa una piazza, dove pensieri, immaginazioni, desideri cattivi si rincorrono e s’avvicendano? Perché persino un san Paolo deve esclamare: « Sento un’altra legge nelle mie membra, che ripugna alla legge della mia coscienza »? Perché nel deserto della Calcide ed a Betlemme vediamo un san Gerolamo, con un sasso tra le mani, che si batte il petto e cerca di allontanare da sé i ricordi osceni di Roma, in parte ancora pagana? Perché  san Benedetto ed il Santo d’Assisi si gettano nudi fra le spine, ed insanguinano le loro carni pure? La ragione è semplicissima. Dio ha posto in noi queste tendenze, per indurre l’uomo e la donna alla costituzione della famiglia. Ciò che noi chiamiamo l’ « istinto », ciò anche che suscita nella mente della fanciulla sogni e speranze, ciò che fa commuovere un’anima giovanile dinanzi ad una culla ed alla poesia dei riccioli biondi, è questa forza, che spinge l’umanità alla sua conservazione. – L’importanza della famiglia per la società corrisponde ai sacrifici che essa costa. La procreazione e l’educazione dei figli, fine primario ed essenziale della famiglia, è un compito nobilissimo, ma ricchissimo di responsabilità, di dolori, di abnegazioni. Si rifletta un istante all’abnegazione d’una mamma… Noi potremo ridere dinanzi ad una qualsiasi signorina, soprattutto se ha i capelli alla bébé e se si presenta a noi dopo una laboriosa toilette con un viso imbellettato; ma non ridiamo mai, non possiamo ridere dinanzi ad una mamma. La mamma è qualcosa di grande e di sacro. Non si dica che il Cristianesimo è nemico della donna. Una Vergine Madre rifulge in alto e proclama da un lato la grandezza della maternità e dall’altro la bellezza della verginità. Certo, per noi, la donna è la figlia, è la sorella, è la madre; non è un essere anfibio, più o meno mascolinizzato, che non sa più quale segreto scoprire per diventare ridicolo; non è la sciagurata che dimentica di avere un’anima, per vendere, magari anche in una forma elegante e perciò più obbrobriosa, la sua dignità. La vera donna, cioè, andiamo a cercarla nel focolare domestico, non nella Dea Ragione della Rivoluzione francese e nelle altre sue seguaci.

2. Di tutto, però, noi possiamo abusare, specialmente quando si tratta di questi sensi nostri, che, invece di essere un mezzo, tendono a diventare fine a se stessi. Come il bisogno della nutrizione è ragionevole e necessario per la conservazione dell’individuo, ma produrrebbe mille mali quando noi non mangiassimo per vivere, ma vivessimo per mangiare, così l’istinto dei sensi nostri ci conduce ad una serie di disastri, quando non viene riguardato come un mezzo — ragionevole e necessario — per il fine altissimo della famiglia e per la conservazione della società, ma quando, al contrario, anela ad una soddisfazione indipendente da ogni bene che gli conferisce l’utilità e la santità. E come l’abuso della gola sregolata, invece che alla nutrizione ed alla vita, incammina verso la malattia e la morte, così questa ammirabile facoltà può sviluppare in noi un uragano, o, per dirla col libro di Giobbe, un fuoco che tutto consuma, e che brucia la vita in tutti i suoi germi ed in tutte le sue radici.

Che il Cristianesimo giustamente combatta questo abuso, bisogna esser ciechi per non ammetterlo. « Non avete voi incontrato, vi chiede Lacordaire, qualcuno di quegli uomini, che sul fiore dell’età, appena onorati dai segni della virilità, portano già le ferite del tempo; che, degenerati prima d’aver raggiunto lo sviluppo totale dell’essere, con la fronte carica di rughe precoci, con gli occhi incerti ed infossati, con le labbra impotenti ad esprimere la bontà, trascinano sotto un sole sempre giovane una esistenza caduca? Chi ha fatto questi cadaveri? Chi ha colpito questo figliuolo? Chi gli ha rubato la freschezza dei suoi anni? Chi ha posto sul suo volto secoli di vergogne? Non è forse questo senso, nemico della vita degli uomini? Vittima della sua depravazione, il disgraziato ha vissuto solitario, non ha aspirato se non a scosse egoiste ed a spaventevoli pulsazioni, che l’uomo o il cielo non vogliono vedere; ed eccolo, se ne va, inebbriato dal vino della morte e con passo sprezzante, a portare il suo corpo alla tomba, ove i suoi vizi dormiranno con lui e disonoreranno la sua cenere sino all’ultimo dei giorni ». L’egoismo dei sensi non si ferma a queste devastazioni. S’aggiungono, come abbiamo già accennato, le depravazioni del cuore; il dispotismo ignobile, che la passione esercita sopra le sue vittime; i misfatti che la gioia omicida della gioventù esige e reclama; e sono matrimoni infelici; son le famiglie senza figli; son le patrie spopolate, tremanti dinanzi alle case che non il sorriso dei bimbi, ma solo conoscono i calcoli piccini dell’egoismo e preparano i tramonti delle nazioni. – Ripeto: bisogna esser folli, per non approvare la morale cristiana nei suoi sforzi contro questa fiumana di fango e di danni. Bisogna esser pazzi per non scorgere come non vi siano che due vie: o le conseguenze descritte, ovvero l’intransigenza assoluta: ogni pensiero, ogni sentimento, ogni affetto, ogni desiderio, ogni lettura, ogni sguardo, ogni azione che non è nell’ordine, debbono essere respinti inesorabilmente. Illudersi di venir a transazioni in questo campo, sarebbe come pretendere di gettarsi sì dall’alto della montagna nel precipizio, ma di fermarsi poi dopo due metri. O si sta sulle altezze, o si cade in fondo. La realtà, del resto, ce lo insegna con la sua logica schiacciante.

3. Solo con tale intransigenza l’amore vero nasce, sboccia, si sviluppa, è fecondo e diventa virtù. Qui, contro il Boccaccio sorge Alessandro Manzoni; e di fronte al Decamerone salutiamo i Promessi Sposi e la pagina immortale dell’addio ai monti di Lucia, in cui si enuncia la tesi cristiana. Gli altari di Dio non sono la condanna dell’amore, ma ne sono la consacrazione: è là dove « il sospiro segreto del cuore » è « solennemente benedetto. e l’amore viene « comandato » ed è chiamato « santo ». – Cos’è la famiglia per noi? Un affetto gentile, che si apre come il calice d’un fiore nella primavera d’una giovinezza buona e che è reso santo dalla rugiada di Dio; due anime, che si donano l’una all’altra per l’eternità, con l’unica parola consentita dall’amore vero, ossia con un sì eterno; due cuori, consapevoli che nella vita non v’è solo esultanza di festa e sereno di allegrezza, ma non mancano sacrifici e dolori, e che per esser fedeli alla severa poesia del dovere si stringono le destre e nel nome del Signore procedono verso l’avvenire; la fecondità dell’unione, coi teneri esseri, splendido coronamento dell’amore; una casa, cioè, resa bella da pampini verdi e dalla gioia dei figli, simili a rampolli d’ulivo intorno alla mensa; tutto questo, nello stesso ordine naturale, fa del matrimonio e della famiglia qualcosa di sacro e di ineffabilmente grande. Gesù, poi, suggellando il matrimonio col dono soprannaturale e la spirituale aureola d’un Sacramento, sublimandolo dal mondo della natura al mondo della grazia e rendendolo simbolo delle Sue mistiche nozze con la Chiesa, conferì alla famiglia una nuova e divina bellezza; il Vangelo, le Epistole paoline, così luminose e limpide, tutta la tradizione cattolica di venti secoli, ce lo rammentano. – Cos’è la famiglia per noi? Ce lo ha detto Enrichetta Blondel, quando un giorno nella villa di Brusuglio mostrò al suo Alessandro, che tanto amava la moglie sua, due virgulti, da lei piantati ed attorcigliati insieme, sussurrando soavemente al poeta lombardo: « Vedi? Questi due virgulti rappresentano i nostri due cuori insieme uniti ». Il Manzoni allora pianse e volle che là intorno si facesse un’aiola, non più dimenticata. E con lui s’intenerisce ogni nobile anima. – Cos’è la famiglia cristiana per noi? Essa è chiamata a concorrere all’opera creatrice di Dio, a plasmare le coscienze, a popolare il paradiso. Da essa zampillano le acque rinnovatrici della società. Da essa tanto si attende la patria, perchè, come ha notato il Bismarck, la grandezza delle nazioni riposa sulle ginocchia delle madri. E solo con la rinnovazione di questa cellula sociale potranno prepararsi le glorie future della Chiesa santa di Cristo. In una graziosissima poesia intitolata Les deux anges gardiens, Federico Ozanam esprimeva le sue idee a proposito della famiglia: due angeli, che erano sempre stati amici in cielo, domandano a Dio di amarsi anche in terra a fianco di due giovani, che si giurano fede di sposi. E quando la sua casa fu allietata dalla nascita della prima bambina, così egli ne dava l’annuncio al Foisset: « Avevamo pregato assai, e preghiamo anche ora, perchè mai come adesso abbiamo avuto bisogno dell’assistenza divina. Siamo stati esauditi oltre ogni nostra speranza. Ah, che momento fu quello in cui intesi il primo vagito della mia creatura, quando vidi quella creaturina, così piccola eppure immortale, che Dio affidava alle mie mani, che mi apportava tanta consolazione ed insieme tanti obblighi! Le abbiamo dato il nome di Maria, che era quello di mia madre e in memoria della possente Patrona, all’intercessione della quale noi attribuiamo questa nascita fortunata. Ora la madre, quasi del tutto ristabilita, ha la consolazione di dare il latte alla bambina; e questo è un piacere molto costoso, ma pieno di soddisfazioni. In tal modo non perderemo i sorrisi del nostro angioletto e potremo incominciare tosto l’educazione. Frattanto rifaremo da capo la nostra, perché  credo che il Cielo ce l’abbia mandata per insegnarci molto e per renderci migliori. Io non posso contemplare quella dolce figura, piena di innocenza e di purezza, senza scorgervi la sacra immagine del Creatore meno velata che in noi. Non posso pensare a quest’anima immortale di cui dovrò un giorno render conto, senza che mi senta maggiormente penetrato dei miei doveri. Come, infatti, potrei insegnarle ciò che io non pratico per il primo? Poteva Iddio scegliere un mezzo più amabile per istruirmi, per correggermi, per mettermi sul cammino del Cielo? – Solo nella concezione cristiana l’amore non è parola vuota di senso, non è una menzogna, non è ad ogni istante turbato da temporali e da nubi. Dove si pratica la morale di Cristo, si ama. Anche quando insieme si piange, il raggio di sole conforta, abbellisce, santifica la lagrima umana. E la stessa purezza giovanile, l’illibato candore dell’animo, e non solo dei sensi, è in relazione all’amore della futura famiglia. Nessuno, come la giovane anima pura, conosce l’intensità e la freschezza dell’affetto. In questo amore cristiano palpita senza dubbio l’amore di Dio; ma non è ancora la vetta più alta dell’amore. Qui si va a Dio attraverso l’amore di una creatura quantunque si tratti d’un amore casto, nobile, giusto, subordinato a Dio. – Tale potenza d’amore si può sublimare; si può anche in questo caso, morire ai sensi, per vivere d’un amore perfetto nello spirito. È il consiglio evangelico della verginità. Nella sua intima natura, la verginità non implica solo la assenza di ogni macchia che possa offuscare il candore; anche un tavolo non commette nessun peccato, eppure nessuno discorrerà della verginità del legno. Dire verginità è dire amore, ed amore perfetto di Dio, in quanto l’anima verginale con fedeltà e con generosità consacra tutto il suo essere, anima e corpo, e tutte le fibre del suo cuore, tutto il suo affetto a Gesù Cristo. « L’uomo animale non percepisce le cose che sono proprie dello Spirito di Dio », avverte san Paolo. Nè, quindi, c’è da stupirsi se il mondo non sospetti neppure questa riduzione del concetto di verginità al concetto di amore perfetto. Eppure in quel gioiello di poesia ispirata che è il Cantico dei cantici l’idea è enunciata ad ogni parola con vigore impareggiabile: Il mio Diletto è sceso nel suo giardino fra le aiuole di balsamo a pascersi tra i giardini, a cogliere gigli. Io sono del mio Diletto ed Egli è mio: Lui, che si pasce fra i gigli. Potente al par della morte è l’amore. I suoi sprazzi son sprazzi di fuoco. Le sue fiamme, fiamme divine. È essenzialmente diversa la verginità materialmente conservata d’una Vestale pagana e la verginità cristiana, vivificata dall’Amore divino. Ed è per questo che, dai primi decenni del Cristianesimo nascente ai giorni nostri, fu la verginità che scrisse nella storia della Chiesa le pagine più fulgide di amore a Cristobed ai fratelli. Il grido di Agnese, il canto di Cecilia, il velo di Marcellina ce lo assicurano; ce lo dicono i candidi eserciti verginali che san Vincenzo de’ Paoli ed altri Ordini religiosi hanno disperso negli asili del dolore, nelle corsie degli ospedali, fra le tetre mura d’un carcere, in tutte le case che raccolgono orfani, vecchi, derelitti, bisognosi. Le anime verginali sanno amare; sanno sacrificarsi, affrontano le imprese più difficili, superano gli ostacoli più gravi, salvano le anime, beneficano i corpi, asciugano lagrime, dànno ali a tutti per i voli della fede e dell’amore. Per ogni miseria del mondo, è stato ben detto, la morale cristiana ha preparato una verginità che ne doveva essere la madre e la sorella. – Cos’è una vocazione alla verginità? È una vocazione ad amare. La verginità cristiana, perciò, è feconda e non la si può concepire senza una famiglia; la famiglia infinitamente più grande e più bella della famiglia naturale, la sacra famiglia delle anime. – Ai giovani, che aspirano al sacerdozio, la Chiesa comanda di amare. Debbono rinnegare se stessi, far tacere il grido dei sensi, mortificarsi, per amore dei fratelli. Viene un giorno, ha cantato Lacordaire, che la Chiesa prende questa giovinezza ardente e la getta bocconi per terra nelle sue basiliche: « Ed andranno poi, andranno questi giovani per tutto il mondo, sotto la guardia della loro virtù; penetreranno nel santuario dei santuari, quello delle anime; ascolteranno confidenze terribili: vedranno tutto, sapranno tutto; mille tempeste passeranno sul loro cuore. Questo cuore resterà di fuoco per la carità, di granitonper la castità. È a questo segno che i popoli riconoscerannonil prete ». Ecco, quindi, la spiegazione del sacerdote, del missionario cattolico, delle Suore di carità, di ogni Ordine, di ogni Congregazione e di ogni Famiglia religiosa, sia che si dedichi ad un’intensa attività quotidiana, sia che si consacri alla contemplazione. La verginità e l’apostolato son sempre congiunti, appunto perchè la verginità è amore. Il divino fascinatore delle giovani coscienze verginali, che è venuto sulla terra a predicare l’Amore, non per nulla si è circondato di gigli. Il « figlio della Verginità », come l’ha salutato san Bernardo, che volle anime verginali come Madre, come Padre putativo, come precursore, come discepolo prediletto, sempre, in ogni tempo, ha rivolto il suo appello ad una schiera di puri e di forti, dagli occhi sfavillanti di luce, pronti alle dedizioni totali per l’amore di Dio e per l’amore del prossimo. «Dunque, si domanda Cesare Angelini nei suoi Commenti alle cose con animo di poeta, ancora nascono gigli su questa terra, ove i figli degli uomini han rinunciatona ogni candidezza per un gusto di fragile peccato?… Ogni volta che gli Angeli e i Santi han fatto le loro comparse (rade!) fra noi, non han scelto altro bastone che il giglio per appoggiarsi nel loro andare terreno. Così, esso risplende in lor diafane mani, nelle tele immortali dei pittori. E che senso di eterna frescura dà all’anima e all’occhio che lo vagheggia! Par di sentir in lontananza non so che aria di Paradiso. – « Intanto noi abbiamo il dono di saperci incantare innanzi al giglio vero e alla sua immagine perfetta. Snello, elegante come un candeliere di argento che il cesello di Benvenuto non seppe mai atteggiar così bene, il giglio ride sul popolo dei fiori che, sospendendo la loro conversazione, gli fanno festa, estatici; poichè, se anche hanno gala di colori per la meraviglia degli occhi, riconoscono che il bianco del giglio non è più colore, ma è luce.

Di candor lucidoso

riluce la sua vesta.

a Poteva il Bianco da Siena prestarci due versi più belli per salutare la creatura del divino biancore? Pur nel nome è qualcosa che diletta. Giglio è parola che ride tutta, tant’è ricca di suoni limpidi e sottili. Giglio è un nome perlaceo, anzi, è già una perla trovata in certi gentili giardini del cielo e lasciata cadere in dono, ma per breve stagione, sulla terra… ». Ed il poeta si rivolge ai gigli e dice loro: « Gigli, che vi innalzate limpidi e quasi gloriosi della vostra castità gentile, ad ammonirmi, con la forza del simbolo, che il casto è il vittorioso del mondo e la sua aria è quella del vincitore; gigli, che tornate a fiorire alti e lontani forse per dirmi che tutto ciò che nasce di terra deve dare un fiore per il cielo, e insegnarmi che la carne non è la vera ricchezza della vita, ma è un peso, e la sola ricchezza è lo spirito che s’eleva al cielo; gigli, nostalgie di immacolatezze perdute, perchè richiamate alla memoria con un misto di tenerezza e di accoramento i versi di Saffo: “Verginità, verginità, dove sei mai fuggita? “. Questi versi non sono la parola definitiva della storia. Il fango ci circonda, è vero; ma ogni volta che Cristo nella storia risorge, sorridono nuove fiorite di gigli, in cui « nel pudor del prepuscolo » sbocciano i gigli delle anime verginali. Sempre, finchè il sole rifulgerà nel cielo, « soccorrendo due gocce di rugiada, i bei petali lisci si disinvolgeranno con grazioso scompiglio e guarderanno, estatici e meravigliati d’essere fioriti così bianchi su dalla terra così nera. E poichè i petali son puri, tutto lo stelo sarà limpido e puro. Il paese d’intorno resterà preso nell’incanto e nell’ebbrezza di quel loro fulgore spalancato e di quella fragranza che è passione e vibrazione… ». E sempre, fra i gigli, passeggerà vittorioso il Re dell’Amore.

3. – Conclusione.

Rileggiamo, insieme, alcuni versi dell’Odissea, al canto decimo. Omero racconta le avventure d’un gruppo di compagni di Ulisse, che Circe mutò in animali immondi:

Edificata con lucenti pietre

Di Circe ad essi la magion s’offerse,

Che vagheggiava una feconda valle.

Montani lupi e leon falbi, ch’ella

Mansuefatti aveva con sue bevande,

Stavano a guardia del palagio eccelso.

Né lor già s’avventavano: ma invece

Lusingando scotean le lunghe code,

E sull’anche s’ergeano. E quale i cani

Blandiscon il signor, che dalla mensa

Si leva, e ghiotti bocconcelli ha in mano,

Tal quelle di forte unghia orride belve

Gli ospiti nuovi, che smarriti al primo

Vederle s’arretriro, van blandendo.

Giunti alle porte, la deessa udiro

Dai ben torti capei, Circe, che dentro

Canterellava con leggiadra voce,

Ed un’ampia tessea, lucida, fina,

Meravigliosa, immortal tela, e quale

Dalle man delle dive uscir può solo.

Polite allor, d’uomini capo, e molto

Più caro e in pregio a me, che gli altri tutti

Sciogliea tai detti: — Amici, in queste mura

Soggiorna, io non so ben se donna o diva,

Che tele oprando, del suo dolce canto

Tutta fa risentir la casa intorno.

Voce mandiamo a lei. — Disse, e a lei voce

Mandaro: e Circe di là tosto, ov’era,

Levossi, e aprì le luminose porte,

e ad entrare invitavali. In un gruppo

La seguian tutti incautamente, salvo

Euriloco, che fuor, di qualche inganno

Sospettando, restò. La Dea li pose

Sovra splendidi seggi: e lor mescea

Il pramnio vino con rappreso latte,

Bianca farina e mel recente: e un succo

Giungeavi esizial, perchè con questo

Della patria l’oblio ciascun bevesse.

Preso e votato dai meschini il nappo,

Circe batteali d’una verga, e in vile

Stalla chiudeali: avean di porco testa,

Corpo, setole, voce: ma lo spirito

Serbavan dentro, qual da prima, integro.

Veramente, era superfluo che ci soffermassimo su questa scena. In ogni tempo, il gregge d’Epicuro è così numeroso, che non val la pena di disturbare Omero. Apriamo, piuttosto, il Vangelo: ad una festa nuziale, a Cana di Galilea, Gesù compie il suo primo miracolo e santifica l’amore dei giovani sposi. La famiglia è a Lui cara; Egli va, visita, porta gioia e salvezza, in una parola, benedice e sublima l’amore. Il mondo non dev’esser un’immensa stalla di Circe. L’amore deve trionfare nelle case, come pur deve sorridere sulle alte cime, ricoperte di bianca neve.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (14)