IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (16)
FRANCESCO OLGIATI,
IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.
Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.
Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.
Capitolo QUINTO (5)
V. – REDENZIONE E VITTORIA.
Col procedimento abituale dell’impostura, gli avversari della morale cristiana, mentre plaudono al piacere, al vizio, all’oro ed a tutte le affermazioni del proprio io in opposizione a Dio, sono poi pronti a disprezzare coloro che nella colpa trovano la rovina ed a mettere alla gogna il credente che cade in un peccato. Ecco la grande morale, essi declamano col sussiego dello sprezzo ironico, che parla di altezze e di voli. Eccola nella storia con Papi che si chiamano Alessandro VI, con ecclesiastici simili a quelli del Rinascimento, con brutture che si rinnovano di tempo in tempo. E quasi che nell’etica importasse solo il fatto, e non già anche la giustificazione ed il valore intimo del fatto stesso, vanno cianciando di una morale senza religione e d’un « galantomismo ateo. – Nella concezione del Cristianesimo, finora descritta, nessuno, invece, si scandalizza neppure se cadono i cedri del Libano. Uniti a Cristo e fortificati dalla grazia, noi dobbiamo combattere, come vedemmo, giorno per giorno, ora per ora. Se vien meno la nostra cooperazione a quell’aiuto divino, che non manca mai, noi caschiamo a terra, vinti dall’ignominia d’una piccola o d’una grave disfatta. Si può essere Cristiani; ma se in una triste e malaugurata occasione deponiamo le armi, il nemico trionfa. Noi non ci stupiamo di ciò, sapendo per esperienza personale come la lotta è dura e continua. Se colui che è stato il primo Pontefice, san Pietro, ha rinnegato il Maestro divino; se uno degli Apostoli, Giuda, lo ha venduto per trenta denari; se in mezzo al popolo fedele talvolta dobbiamo piangere il dilagare della corruzione, noi non concludiamo stoltamente: « Dunque Cristo non è nel vero; dunque la morale cristiana è inutile ». Sarebbe come se volessimo negare il valore della matematica, per gli sbagli che si commettono da chi ne applica le regole. Anzi, in ogni errore scorgiamo una conferma della verità: come lo sbaglio in un’operazione di aritmetica è tale, perché si sono calpestate le regole, così una colpa è tale, appunto perchè si è praticamente rinnegata la norma etica. Se questa fosse stata seguita, non avremmo avuto la sconfitta, ma la vittoria. Del resto, ognuno di noi, guardando non al proprio io, ma all’organismo divinamente santo al quale apparteniamo, alla Chiesa, esclama col cardinal Maffi: « Uomini, abbiamo noi pure le miserie e le debolezze che natura impone, che però cerchiamo ogni dì di correggere e di dominare; ma pur ammettendo qualche caduta in noi, non per questo abbiamo cessato, non cessiamo di essere, lo diciamo francamente, all’avanguardia della dottrina, del progresso, della virtù, della bontà. È torta anche la torre di Bonanno, eppure è la gloria nostra: anche l’Eneide ha dei versi rotti, eppure è il capolavoro dell’epica latina: è imperfetto anche il sepolcro di Giulio II, eppure vi siede Michelangelo e vi trionfa col Mosè. Se diritta la sua torre, Pisa perderebbe un miracolo dell’arte e della statica e la meraviglia che è la prerogativa della sua corona; se tutto il clero, se tutta la Chiesa anche sulla terra fosse di santi, forse ai nostri occhi così evidenti non risplenderebbero i misteri della grazia e del libero arbitrio e i trionfi e l’opera del Signore; ma, data pure un’inclinazione alla terra, quasi pendenza della torre, guardatelo questo clero, guardatela questa Chiesa che si slancia nel cielo e con la voce delle sue campane, come con la sua vita e con la dottrina dei suoi sacerdoti, a quanti l’intendono è rapimento ed ammirazione ». La differenza tra Cristo ed i farisei di tutti i tempi sta qui. Questi, in nome delle loro passioni, egoisticamente sfruttano persone e cose, gettano nel fango la creatura di Dio e poi la disprezzano e la vogliono lapidare. Cristo, al contrario, pur condannando la colpa, perdona il colpevole, lo rialza e gli dà, per i meriti del suo Sangue purificatore, un nuovo paio di ali: Egli è il Dio della speranza che s’avvicina al caduto, gli porge la destra e lo redime.
1. – La dottrina della redenzione.
Forse mai come in questo punto le coscienze nostre comprendono che la morale cristiana è morale di amore. Con occhi gonfi di pianto i peccatori hanno sempre riletto nel Vangelo la parabola del buon Pastore — che lascia le novantanove pecore al sicuro e va alla ricerca della pecorella smarrita — e l’altra, così semplice e sublime ad un tempo, del figliol prodigo, che ritorna alla casa paterna, accolto dalla gioia del Padre. I cuori commossi hanno appreso da Gesù che Egli è venuto non per i giusti, ma per i peccatori, perché non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma gli ammalati; hanno appreso con stupore che si fa più festa in cielo per il peccatore il quale si converte, che non per novantanove giusti che non abbisognano di penitenza. E durante i secoli i brani evangelici, salutati con spirito riconoscente, furono sempre quelli che ritraggono la ineffabile bontà di Gesù verso le anime peccatrici. Al paralitico di trentotto anni, risanato con una parola, Egli ha detto: « Non peccare più oltre, perchè non ti avvenga di peggio ». – Della donna colta in adulterio Gesù ha assunto la difesa: « Chi è di voi senza peccato, scagli la prima pietra »; e scriveva in terra. E quando, consapevoli delle proprie colpe e spaventati dinanzi alla sua maestà soave e imponente, gli accusatori se ne furono andati, riprese: « Nessuno ti ha condannato? ». « Nessuno, o Signore ». « Neppure io ti condannerò; va in pace e non peccare più oltre ». Maddalena si gettò ai suoi piedi e pianse gli scandali della sua vita. Il fariseo si scandalizzò di questo, ma Gesù annunciò che molto a quella donna « era perdonato, perchè molto aveva amato ». E la volle ai piedi della sua Croce, vicino al candore dell’Immacolata ed alla verginità di Giovanni; e le diede la precedenza nelle apparizioni ai discepoli dopo la sua risurrezione. E sarà la Samaritana, mutata da peccatrice in una santa; sarà sulla via di Gerico, la città delle rose, Zaccheo, capo dei gabellieri e ladro, che da un tratto di divina generosità di Gesù si tramuta in un suo discepolo e dà subito metà dei suoi beni ai poveri; sarà Pietro, convertito con un’occhiata divinamente dolce e mesta, che piangerà tutta la vita; sarà persino sul Calvario, nelle ore estreme e fra gli strazi dell’agonia, il buon ladrone, che si sentirà dire: « Oggi tu sarai con me in paradiso ». E cos’è il Golgota, cosa significa il Crocefisso, se non il perdono, la redenzione, la « remissione dei peccati »? Tutto questo è un poema d’amore; e chi non ne resta rapito, non giungerà mai a sapere la vera natura della morale cristiana. Qualsiasi senso di disperazione è riprovato; ad ognuno, anche se si trattasse dell’uomo più infame e del più scellerato che il sole abbia mai visto, Gesù, il Salvatore, con divina tenerezza parla di perdono, di riabilitazione, di ripresa, di rivincita, di speranza; ad ognuno mostra il suo Cuore che invita ed attende. Cosa sono mai gli uomini grandi del mondo, i condottieri di eserciti, i re, i grandi ministri, i sapienti, i filosofi, gli scienziati, dinanzi a Cristo? Nessuno di loro potrebbe rigenerare le anime, mutare i cuori, infondere in noi la forza per risorgere e per iniziare una vita nuova: nessuno potrebbe dirci: « I tuoi peccati ti sono rimessi: il tuo passato l’ho distrutto nel mio Sangue; io ho sofferto per te; per te sono morto…». Gesù Cristo soltanto ha fatto ed ha parlato così; solo un Dio poteva insegnare una simile morale, che tutti, ignoranti e dotti, vecchi o fanciulli, barbari o popoli civili avrebbero compreso. Ad ognuno di noi Egli ha perdonato e chi si prostra davanti a Lui non si umilia, ma si sente consolato ed innalza il canto della gratitudine al Dio dell’Amore.
2. – La confessione e l’amore. Noi sappiamo che la condizione del perdono venne fissata da Gesù nella confessione sacramentale dei propri peccati. Perché? E perché alcuni sentono una viva ripugnanza ad accostarsi al tribunale della misericordia? Il motivo è semplicissimo: si guarda alla confessione conn l’occhio di Lutero, che la definiva « la carneficina delle anime., non con l’occhio della morale cristiana, che non potrebbe interpretare il Sacramento della penitenza se non alla luce dell’amore. Oltre l’esame di coscienza, senza del quale non ci sarebbe possibile conoscere lo stato di fatto della nostra vita, per ben confessarci occorre, innanzi tutto, un vivo dolore delle colpe commesse, col proposito di non commetterle più in avvenire. Noi sappiamo che Benedetto Spinoza, nella sua Ethica, dichiara: « Il pentimento non è una virtù, ossia non sorge dalla ragione: ma colui che si pente è misero due volte, ossia è impotente. Poichè dapprima si lascia vincere dalla prava cupidità, poi dalla tristezza ». Ed il Cristianesimo appariva a lui come la dottrina dell’inutile morte. Ma sappiamo altresì che questo filosofo non conosceva il catechismo. Il dolore ed il proponimento non mirano ad altro se non ad un atto di amore a Dio, quando, come avviene nella contrizione, non includano lo stesso amor di Dio. Col peccato avevamo preferito le cose di quaggiù, avevamo negato l’amore a Dio, eravamo andati verso la morte; col pentimento, restituendo l’ordine turbato, noi ci rivolgiamo ancora a Dio, gli chiediamo scusa del male compiuto, lo assicuriamo che lo ameremo sempre e più non tradiremo il suo Amore: in una parola, ci incamminiamo alla vita. È vero: basta per la confessione l’atto di attrizione, ossia il dolore delle colpe ispirato dall’amore imperfetto, e non è necessaria la contrizione, ossia il rincrescimento suggerito dall’amore perfetto; ma l’amore di Dio, almeno implicito nell’atto sincero dell’attrizione, è indispensabile. Ecco perché una confessione senza dolore o senza proponimento, anche se fatta in punto di morte, anche se accompagnata da un’accusa sincera delle proprie mancanze, non dà mai, in nessun caso, il perdono dei peccati: essa non ci orienta verso l’Amore di Dio abbandonato e tradito, e ci lascia ancora rivolti verso la sua negazione. Il crede firmiter et pecca fortiter di Lutero può essere comodo per le umane passioni, ma è un’enormità morale, nonostante la pretesa imputazione giuridica dei meriti di Cristo a noi, mediante la sola fede. Come possiamo essere giustificati, se continuiamo a restare in opposizione a Dio? Come possiamo amare Dio, se pecchiamo, ossia se calpestiamo il suo Amore? Si noti: Gesù Cristo avrebbe potuto concederci la remissione delle colpe mediante questo unico atto di dolore e di proposito interno, sommo, soprannaturale; ma Egli ha voluto obbligarci a manifestare i nostri peccati al Sacerdote, perché l’assoluzione è conclusione di un giudizio e poi perché, fra l’altro, noi viviamo nella Chiesa. Non siamo individui isolati, bensì uniti nella grande società cristiana. In una concezione atomistica del Cristianesimo, quale fu propugnata dai protestanti, si capisce come l’anima voglia intendersela direttamente con Dio; ma nella vera concezione cristiana, che è in acuta opposizione con l’atomismo sociale, era conveniente, per sorvolare su altre ragioni, che noi ritornassimo all’amore di Dio mediante la Chiesa ed i suoi rappresentanti autorizzati, ai quali Cristo ha detto: « Saranno rimessi i peccati a coloro ai quali voi li rimetterete; saranno ritenuti a coloro ai quali voi li riterrete ». Noi andiamo al Padre non direttamente, ma per mezzo di Gesù Cristo, che vive nella sua Chiesa, la quale altro non è se non il Cristo completo, come abbiamo veduto. Non è davanti ad un uomo che ci rechiamo; ma davanti a Cristo rappresentato da quell’uomo. Come magnificamente scrisse Alessandro Manzoni nella sua Morale Cattolica, « noi, cioè tutti i Cattolici, e laici e sacerdoti, principiando dal Papa, ci inginocchiamo davanti ad un sacerdote, gli raccontiamo le nostre colpe, ascoltiamo le sue correzioni e i suoi consigli, accettiamo le sue punizioni. Ma quando un Sacerdote, fremendo in ispirito della sua indegnità e dell’altezza delle sue funzioni, ha steso sul nostro capo le sue mani consacrate; quando, umiliato di trovarsi il dispensatore del Sangue dell’alleanza, stupito ogni volta di proferire le parole che danno la vita, peccatore ha assolto un peccatore, noi alzandoci da’ suoi piedi, sentiamo di non avere commesso una viltà. C’eravamo forse stati a mendicare speranze terrene? Gli abbiamo forse parlato di lui? Abbiamo forse tollerato una positura umiliante per rialzarcene più superbi, per ottenere di primeggiare sui nostri fratelli? Non s’è trattato tra di noi che d’una miseria comune a tutti, e d’una misericordia di cui abbiamo tutti bisogno. Siamo stati a’ piedi d’un uomo che rappresentava Gesù Cristo, per deporre, se fosse possibile, tutto ciò che inclina l’anima alla bassezza, il giogo delle passioni, l’amore delle cose passeggere del mondo, il timore dei suoi giudizi; ci siamo stati per acquistare la qualità di liberi e di figlioli di Dio. Anche in questo caso si verifica la legge della morale cristiana: bisogna morire per vivere: bisogna umiliarsi per balzare in alto; bisogna accettare per amore il sacrificio del nostro orgoglio e del nostro piccolo io, perchè solo così possiamo ricevere il bacio divino del perdono.
3. – Il problema della conversione.
Se l’indole di questo Sillabario lo permettesse, potremmo qui esaminare il problema della conversione. Cos’è il convertito? Forse un ragionatore, che a furia di sillogismi è arrivato logicamente alla conclusione della verità cristiana? Potrà essere anche questo; ma non può essere solo questo. La conversione può avere mille forme; anzi, si può soggiungere che in ogni convertito assistiamo ad una speciale e caratteristica forma di ritorno a Dio. V’è chi si incammina verso Cristo sulla strada della filosofia; altri batte la via della beneficenza, dell’arte, delle disillusioni umane; altri d’improvviso, sulla strada di Damasco, vien colpito dalla luce fino ad allora negata: e così via. Un elemento solo si trova in tutte le conversioni: l’amore, anche quando l’amore è nato dal timore o dalla vergogna di se stesso. La fiamma dell’amore sarà diversamente preparata dalla grazia divina; ma guai se essa non divampasse! Non per nulla coloro che vivono col cuore attaccato alle miserie ed alle frivolezze non si preparano alla conversione: essi sono lontani dall’amore di Dio e dalla vita del Cristiano.
4. – Le campane di Pasqua.
Un giorno Federico Nietzsche, ancora fanciullo, passeggiando col padre da Liitzen a Roecken, fu sorpreso a mezza strada dal rombo festoso delle campane, salutanti la festa di Pasqua. « Quel suono — egli scrisse — ha echeggiato spesso nel mio cuore ». Ma Nietzsche non ha compreso il senso di quella musica di vita, di quell’annuncio di risurrezione. Anche oggi, ogni volta che ritorna la solennità pasquale, la Chiesa fa suonare le sue campane per ricordare a tutti il suo precetto di « confessarsi almeno una volta all’anno e di comunicarsi almeno alla Pasqua ». E nell’attuale rinascita di fede, molti di coloro che da tempo non frequentavano i Sacramenti, ritornano alla casa del Padre, implorano il suo perdono e si cibano delle carni immacolate dell’Agnello, che entra nel cuore nostro, per trasformarci sempre più in Lui. Che il precetto pasquale da nessuno sia trascurato! E che la confessione di Pasqua non si riduca ad una semplice formalità! Alla primavera della natura risponda la primavera delle anime. Il grido lieto: « Christus Dominus resurrexit » esprima la splendida realtà di figli pentiti, che iniziano una vita novella, la vita dell’amore cristiano
Riepilogo
Se diamo uno sguardo ad alcune fra le battaglie principali, che si svolgono nelle coscienze per l’attuazione della legge morale, constatiamo che esse non sono altro se non un conflitto fra l’amore per Dio e l’amore per ciò che non è Dio (ossia l’amore al nostro io, ai piaceri, alle ricchezze, ecc.).
I. L’EGOISMO DELLO SPIRITO. – Contro il precetto di Cristo, l’egoismo dello spirito ci grida: « Ama il tuo io sopra ogni cosa e tutto il resto solo per il tuo io.. Innumerevoli sono i fenomeni di questo orientamento: superbia, invidia, ambizione, ridicolaggini, aspirazioni ad una gloria da conquistarsi con qualsiasi mezzo, ecc. Uomini grandi, come Petrarca, ed uomini piccoli, come ogni minuscolo studente, sono vittime dell’egocentrismo, che conduce a conseguenze dannose ed a disillusioni amare.
Si noti: l’umiltà cristiana non distrugge il nostro io e le energie individuali, ma le considera in rapporto a Dio ed allora non solo tutto vede nella sua vera entità e ne usa esattamente, ma tutto potenzia con la forza divina e soprannaturale, che ci fa esclamare: « Posso ogni cosa in Colui che mi conforta. ». Anche, la morale autonoma, oggi tanto acclamata, è una forma di questo amore di sé, Morir all’amore di Dio; essa:
a) dimentica che nè il nostro essere, né il nostro pensiero, né il nostro volere sono il centro della realtà;
b) dimentica che noi non creiamo, ma riconosciamo e dobbiamo liberamente applicare la legge del dovere;
c) dimentica che, al di sopra del dovere c’è l’amore
II. L’EGOISMO DEI SENSI. – Anche il gregge d’Epicuro parla e ciancia di amore; anzi accusa l’etica cristiana d’essere … la nemica dell’amor. Purtroppo il gregge d’Epicuro conosce soltanto l’egoismo furioso dei sensi. E’ solo la morale di Cristo che santifica l’amore, in quanto:
a) considera il matrimonio (e la famiglia) come qualcosa di sacro
nello stesso ordine naturale e come un sacramento nell’ordine soprannaturale;
b) indica nella verginità la vetta più sublime dell’amore. La verginità, infatti, non consiste solamente nell’assenza di colpe, quanto soprattutto in ciò che nessuna fibra del cuore non vibri che per Dio. Questo spiega che con la verginità furono sempre congiunte nei secoli le opere della carità, sia nel campo spirituale, come nel campo dei bisogni materiali.
III. L’AVIDITA A DELLE RICCHEZZE. – Un altro conflitto si sviluppa tra l’amore all’oro e l’amore di Dio.
E’ errore enorme riporre il fine supremo nelle ricchezze, le quali non dànno la gioia, sono incerte e debbono essere abbandonate al momento della morte.
La morale cristiana non condanna la ricchezza, ma solo l’abuso di essa; non giustifica la trascuratezza dei doveri che ognuno ha a proposito delle sue necessità economiche, ma solo esclude il capovolgimento dei valori, ossia la sostituzione del dio danaro al Dio amore. Ecco perché Cristo proclama beati i poveri di spirito, quelli cioè che non hanno il cuore legato all’oro, ma a Dio; e chiama perfetti coloro che, per motivo di carità, rinunciano effettivamente a tutto. Nel primo, e specialmente nel secondo caso, la povertà evangelica — comandata o consigliata — si riduce ad un atto di amore per Dio e per il prossimo.
IV. LE SCONFITTE. – In queste ed in altre battaglie tra l’amore di Dio e l’amore alle creature, vi sono spesso sconfitte dolorose, che si possono dividere in tre classi:
a) il peccato mortale, o violazione della legge morale in cosa grave, fatta con piena avvertenza della mente e col consenso deliberato della volontà. Il peccato mortale è la negazione dell’amore divino e ci toglie la grazia, facendoci degni dell’inferno;
b) il peccato veniale, o violazione della legge morale in cosa lieve, il che implica un raffreddamento nell’amore;
c) l’imperfezione, che non è un’offesa formale a Dio, ma consiste o nella trasgressione d’un consiglio, o nella violazione non colpevole d’un precetto.
Ogni peccato colpisce l’Amore, poiché: a) è la ribellione dei figli all’amore del Padre; b) è un’offesa all’amore di Gesù per noi; c) è una negazione dell’amore del prossimo; d) ed anche una negazione dell’amore che dobbiamo a noi stessi.
Vari sono i mezzi per evitare il peccato, specie la pratica della virtù, la mortificazione, la preghiera, i Sacramenti, la meditazione e l’esame di coscienza.
V. REDENZIONE E VITTORIA. – Nella lotta aspra tutti possiamo cadere per colpa nostra e solo il fariseismo impostore può indignarsi a freddo per i cosiddetti « scandali clericali Anche in questo caso doloroso, l’amore di Dio per noi:
a) non ci parla di disperazione, ma di redenzione, di perdono, di misericordia;
b) ha istituito il Sacramento della confessione;
c) esulta per la conversione del peccatore.