IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (15)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (15)

FRANCESCO OLGIATI:

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo QUINTO (4)

IV. – LE SCONFITTE

Nei fasti della fede cristiana è rimasta memoranda la vittoria della Serbia contro i Turchi nel 1456. Da quattro mesi Belgrado era assediata ed il Sultano ordinò un supremo e disperato attacco. Dopo ventiquattro ore di lotta accanita, i cittadini, stanchi e sfiduciati, stavano per capitolare, quando un umile francescano, alzando un crocifisso, si mise ad incuorare i vacillanti ed a pregare Dio e la Vergine. Alle parole di san Giovanni da Capistrano, gli assediati ritrovarono le loro energie e con impeto irruente sferrarono un nuovo attacco contro i nemici, che furono sbaragliati. Non quattro mesi di assedio, né un giorno di battaglia, ma una vita intera di combattimento noi dobbiamo sostenere. E se sulle labbra nostre e nel cuore torna sempre fresca la parola d’ordine di Sobieski, che a Vienna, nel 1683, gridava ai suoi soldati: « Andiamo incontro al nemico con piena fiducia nella protezione del cielo », è però anche vero che tutti sentiamo le difficoltà del conflitto continuo e talvolta esasperante. Ed ora v’è una battaglia campale da affrontare, ora una minuscola scaramuccia da vincere. Ora è il canto della vittoria che si eleva, ora è la vergogna della sconfitta che ci rattrista. Spesso, in una sola giornata, si uniscono insieme trionfi e disfatte, tentazioni superate e colpe commesse. A queste ultime dobbiamo dedicare una breve riflessione. -“La morale cattolica le chiama « peccati »; la filosofia cristiana le definisce: « Aversio a Deo et conversio ad creatura », un allontanarsi cioè da Dio ed un volgersi alle creature. Noi perciò, le guarderemo come sono in realtà, vale a dire uno schiaffo all’Amore divino in nome dell’amore dei beni perituri e fugaci.

1. – Diversi generi di sconfitte

Per procedere con ordine, converrà distinguere le nostre

L sconfitte morali in tre categorie: i peccati mortali, i peccati veniali, le imperfezioni. Questa distinzione fu apertamente rifiutata da Lutero e da Calvino, per i quali ogni peccato è di sua natura mortale. Ma essi, evidentemente, esagerano. Tutti comprendono quale differenza vi sia tra un figlio che uccide suo padre, un figlio che disubbidisce in una piccola cosa e un altro che, ad un comando improvviso, risponde con uno scatto inavvertito. Non si possono porre sopra un medesimo piano il parricidio, la disubbidienza e la debolezza di un carattere impulsivo, come non possono essere catalogate insieme, quasi fossero eguali, la morte, una malattia ed una leggera indisposizione. – Per portare un paragone, ricorderemo il fatterello gustoso capitato ad un geniale giornalista ed umorista italiano, Luigi Arnaldo Vassallo, detto Gandolin. Un bel dì un autore inedito riescì a bloccarlo e ad infliggergli la lettura di un voluminoso copione. L’autore tartagliava terribilmente. E Gandolin, dopo d’averlo ascoltato un bel po’, lo interruppe: — Questa di far tartagliare tutti i personaggi è davvero una trovata. Io credo che avrà successo. L’altro, sdegnato, rispose: — Lei si sbaglia. Non sono i personaggi che tartagliano, sono io. — Allora mi dispiace, ma non c’è da sperare niente di buono. Ecco. Il peccato veniale può essere appunto paragonato ad una persona balbuziente. Non è la parola scorrevole e piana, è un balbettio; ma il senso di quanto si dice, c’è ancora; c’è ancora, cioè, il significato cristiano in una vita, quantunque lo si esprima tartagliando. Che una persona balbetti, è un male; ma il male è molto peggiore ed essenzialmente diverso, se dovessimo pronunciare parole senza connessione, come avvenne — è un altro umorista che lo assicura — tra due amici che discorrevano così: — Tu sei miope o scemo? — Io sono di Novara. — Allora siamo contemporanei. Ah, voi ridete?! Eppure quante volte la vostra vita cosiddetta cristiana è un succedersi di azioni, che sono così poco organizzabili fra loro, come le parole di questo dialogo curioso!…

2. – Il peccato mortale e il peccato veniale.

Io non mi soffermerò sulle nozioni elementari del catechismo, il quale ci insegna come il peccato mortale sia una violazione della legge morale in cosa grave, fatta con piena avvertenza della mente e con deliberato consenso della volontà, mentre invece il peccato veniale è una violazione della legge morale in cosa leggera, o anche in cosa per sè grave ma senza tutta l’avvertenza o tutto il consenso. La colpa grave si chiama mortale, perché priva l’anima della grazia soprannaturale che è la sua vita, le toglie i meriti e la capacità di acquistarne dei nuovi, e la rende degna della morte eterna nell’inferno. L’altro genere di peccato, poi, si chiama veniale, cioè perdonabile, perché non toglie la grazia e può aversene il perdono col pentimento e con buone opere, anche senza la Confessione sacramentale. – Ciò che in questi lineamenti di etica cristiana importa sottolineare, è il fatto che col peccato mortale noi ci ribelliamo a Dio e calpestiamo il suo Amore, immolandolo al nostro piacere; la colpa grave, in altre parole, è la negazione dell’amore divino. Il peccato veniale certo è un disordine ed un male, al cui confronto tutti gli altri non meritano il nome di mali, perchè è sempre un’offesa a Dio; è dannoso all’anima in quanto la dispone al peccato grave, come la malattia, pur non togliendo la vita, dispone alla morte; ci procura pene temporali in questo e nell’altro mondo; tuttavia non esclude totalmente l’amore di Dio, ma è soltanto un raffreddamento nell’amore. Come il soldato che si facesse disertore non potrebbe più parlare d’amore di patria, mentre, quando commette una leggera infrazione alla disciplina militare, può asserire ancora di amare il suo paese, quantunque non lo ami con tutto il suo cuore e quantunque sbagli; così noi, militi del grande esercito dell’umanità, possiamo ribellarci al nostro Re supremo (peccato mortale) e possiamo venir meno all’amore pieno che Egli giustamente esige da noi (peccato veniale). – In linea pratica, come si distingue la colpa grave dalla veniale? Soggettivamente, è alla nostra coscienza che bisogna rivolgerci, per vedere se, quando facciamo un’azione cattiva, abbiamo la consapevolezza piena che essa era un peccato mortale e ciononostante l’abbiamo liberamente compiuta. – Oggettivamente, esaminando l’azione in se stessa, spesso non è difficile cogliere la gravità o meno d’una colpa. Così. a tutti appare chiaro che sono peccati mortali la bestemmia, l’odio di Dio e del suo Cristo, l’omicidio, la profanazione del coniugio, le abbominazioni che hanno già fatto piovere fuoco sulla terra prevaricata, il furto di una grossa somma e via dicendo. Talvolta è la Scrittura stessa che dichiara grave un peccato. Sempre poi abbiamo la Chiesa, maestra della morale, che ci guida e ci illumina anche in questo campo. – Per giudicare, comunque, un peccato, bisogna considerare l’azione non in astratto, ma nella sua concretezza, tenendo calcolo delle circostanze e delle contingenze fra le quali essa cresce. – Ad esempio, si prenda il precetto della Chiesa, che, sotto pena di peccato mortale, comanda di assistere alla Messa nelle domeniche e nei giorni festivi. Può, a prima vista, sembrar strano che sia una colpa grave perdere una Messa: eppure, se si esamina il precetto nel complesso della vita cristiana, nulla v’è di più chiaro. « La santificazione del giorno del Signore — spiega il Manzoni nella sua Morale Cattolica — è uno di que’ comandamenti che il Signore stesso ha dato all’uomo. Certo, nessun comandamento divino ha bisogno d’apologia; ma non si può a meno di non vedere la bellezza e la convenienza di questo, che consacra specialmente un giorno al dovere più nobile e più stretto, e richiama l’uomo al suo Creatore. « Il povero, curvato verso la terra, depresso dalla fatica, e incerto se questa gli produrrà il sostentamento, costretto non di rado a misurare il suo lavoro con un tempo che gli manca; il ricco, sollecito per lo più della maniera di passarlo senza avvedersene, circondato da quelle cose in cui il mondo predica essere la felicità e, stupito ogni momento di non trovarsi felice, disingannato dagli oggetti da cui sperava un pieno contento, e ansioso dietro agli altri oggetti de’ quali si disingannerà quando li abbia posseduti; l’uomo prostrato dalla sventura, e l’uomo inebbriato da un prospero successo; l’uomo ingolfato negli affari, e l’uomo assorto nelle astrazioni delle scienze; il potente, il privato, tutti insomma troviamo in ogni oggetto un ostacolo a sollevarci alla Divinità, una forza che tende ad attaccarci a quelle cose per cui non siamo creati, a farci dimenticare la nobiltà della nostra origine e l’importanza del nostro fine. E risplende manifesta la sapienza di Dio in quel precetto che ci toglie alle cure mortali per richiamarci al suo culto, ai pensieri del cielo; che impiega tanti giorni dell’uomo indotto nello studio il più alto e il solo necessario; che santifica il riposo del corpo, e lo rende figura di quel riposo d’eterno contento a cui aneliamo e di cui l’anima nostra sente d’esser capace; in quel precetto che ci riunisce in un tempio, dove le comuni miserie e i comuni bisogni, ci fanno sentire che siamo fratelli. – La Chiesa, conservatrice perpetua di questo precetto, prescrive a’ suoi figli la maniera d’adempirlo più ugualmente e più degnamente. E tra i mezzi che ha scelti, poteva mai dimenticare il rito più necessario, il più essenzialmente cristiano, il Sacrificio di Gesù Cristo, quel Sacrificio dove sta tutta la fede, tutta la scienza, tutte le norme, tutte le speranze? Il Cristiano che volontariamente s’astiene in un tal giorno da un tal Sacrificio può mai essere un giusto che viva della fede? Può far vedere più chiaramente la noncuranza del precetto divino della santificazione? Non ha evidentemente nel cuore un’avversione al Cristianesimo? Non ha rinunziato a ciò che la fede rivela di più grande, di più sacro e di più consolante? Non ha rinunziato a Gesù Cristo? Pretendere che la Chiesa non dichiari prevaricatore chi si trova in tali disposizioni, sarebbe un volere che dimenticasse il fine per cui è istituita, che ci lasciasse ricadere nell’aria mortale del gentilesimo ».

3. – Le imperfezioni.

Da non confondersi col peccato sono le nostre imperfezioni, le quali, per la nostra natura corrotta, ci orientanonbensì verso l’umano, distogliendoci dall’amore divino, ma non sono offese formali di Dio, in quanto si riducono ad una semplice trasgressione non colpevole d’un precetto. Quanti difetti e capricci nostri, quante inclinazioni, curiosità, futilità, quante parole precipitate, quante preferenze e noncuranze, non sono peccati veniali, perchè non ce ne accorgiamo neppure mentre agiamo, e tuttavia sono imperfezioni! – I santi, nel loro amore fervido per Dio, cercavano in tutti i modi di vincerle, a poco a poco; e noi non ci meravigliamo se la grande Capitanio lasciò dopo la sua morte fogli e quaderni con i suoi minuziosi esami di coscienza, rivolti a togliere non i peccati, ma le sue imperfezioni; o se un Lacordaire giunse a usare certi metodi, che possono sembrare esagerati a chi non ha nessuna cura della formazione spirituale. Narra il suo biografo, il padre Chocarne, che un giorno il grande oratore manifestò al Priore del suo convento un difetto. « Ogni volta — gli disse — che vengo interrotto nelle mie occupazioni e mi sento bussare l’uscio non so signoreggiarmi in maniera da non provare un moto spontaneo di dispetto. Vorrei pertanto correggermi. Quando voi giudicherete opportuno, a qualunque ora, entrerete nella mia cella senza picchiare; e se scoprirete sul mio volto un segno di malumore, mi darete la disciplina ». « Sì, Padre farò così ». In quel giorno medesimo, per mettere a prova il suo penitente, il Priore entrò bruscamente in camera di Lacordaire. Questi subito si mise in ginocchio dinanzi a lui. « Ma Padre, io non ho veduto nulla ». « Voi non avete visto la mia impazienza, rispose il colpevole scoprendosi le spalle, ma io l’ho sentita ». E il castigo venne dato. Se simili esempi si meditassero, noi non constateremmo nella società attuale certi caratteri, che sono veramente caratteracci, incapaci di dominarsi e nati per rammentare ai disgraziati che li avvicinano come una delle opere di misericordia spirituale è quella di « sopportare pazientemente le persone moleste ». Sovente la infelicità umana proviene da piccolezze, come i più disastrosi incendi derivano da una scintilla.

4. – Il peccato e l’amare.

Se dovessimo ora approfondire il concetto di « peccato » nella morale cristiana, non dovremmo limitarci ad illustrare i punti di vista, dai quali anche in un ordine puramente naturale converrebbe porsi. È certo, ad esempio, che, dal punto di vista di Dio, il peccato è la ribellione alla volontà divina, è la rottura della razionalità, ossia è la negazione di Dio stesso, ed ha una gravità proporzionata alla divinità offesa; dal punto di vista della società, il peccato è turbamento dell’ordine ed ha conseguenze indefinite, che durano anche dopo la colpa commessa; dal punto di vista nastro, il peccato è la distruzione o la diminuzione della nostra dignità e la nostra rovina. Ma se noi partiamo dalla concezione dell’Amore soprannaturale di Dio verso di noi, l’enormità del peccato è ben più manifesta.

1. Noi, per la grazia che Gesù Cristo ci ha meritato, siamo stati elevati alla dignità di figli di Dio. Uniti a Gesù, nostro capo, vivificati dallo Spirito Santo, che esulta nei nostri cuori, possiamo dire con verità al Padre la dolce parola: Padre nostro. Il peccato distrugge questa nostra grandezza. È la ribellione dei figli all’amore del Padre. È il capolavoro dell’Amore infinito, che viene sciupato.

2. Incorporati a Cristo, costituiamo con Lui un unico organismo e, di conseguenza, come vedemmo, non siamo avulsi dagli altri credenti, ma formiamo con essi un unico corpo mistico, dove se il bene di uno è il bene di tutti (dogma della Comunione dei santi), il male di uno si ripercuote su tutti gli altri. Il peccato, in ultima analisi, è una negazione dell’amore del prossimo.

3. Soprattutto poi è un’offesa all’amore di Gesù Cristo per noi.

Noi siamo uniti a Cristo e viviamo della sua vita. Siamo le membra di Cristo. Quando pecchiamo, — è san Paolo che ce lo proclama, — noi profaniamo Gesù Cristo in noi, e delle membra d’un Uomo-Dio facciamo le membra d’un infame. E prosegue l’Apostolo: « Non sapete voi, dunque, che siete il tempio di Dio e che lo Spirito Santo abita in voi? Se qualcuno violerà il tempio di Dio, Dio lo perderà. Poiché santo è il tempio di Dio e questo tempio siete voi ».

4. È forse necessario aggiungere che col peccato veniamo meno anche all’amore che dobbiamo a noi stessi? Vedremo in seguito la sanzione della colpa e le pene del peccato, temporali ed eterne. Si capisce, quindi, l’orrore dell’anima cristiana per la colpa; si comprende come l’elogio più bello di san Giovanni Crisostomo venga riposto non nelle lodi suscitate dalla sua meravigliosa eloquenza, ma dalla parola del cortigiano di Eudossia all’imperatrice adirata contro il Vescovo di Costantinopoli: « Giovanni Crisostomo non teme nulla, eccetto il peccato mortale »; si spiega il grido della Regina Bianca al piccolo figlio Luigi, destinato a diventare poi il santo Re di Francia: « Vorrei vederti piuttosto morire, che reo d’una colpa grave ».

5. – L’esame di coscienza.

Per rimanere fedeli all’amore di Dio e per non lasciarci lusingare dalle insidie nemiche, l’etica cristiana raccomanda la preghiera ed i Sacramenti, che ci fanno forti d’una forza divina e della grazia; consiglia la meditazione, che, facendoci riflettere all’amore di Dio ed al nulla delle cose, ci prepara alla buona battaglia, ci avvezza alla pratica della virtù, alla vittoria delle nostre passioni e delle cattive tendenze, ne mostra le insidie nemiche; soprattutto, per tacer d’altro, insiste molto sull’esame di coscienza. Già la sapienza pagana raccomandava questa pratica. Seneca, nel De ira, esclamava: « Che cosa v’è di più bello dell’abitudine di esaminare alla sera come abbiamo passato l’intero giorno? Che sonno tranquillo, dopo un buon esame di coscienza! ». Nelle sue Lettere a Lucilio soggiungeva: « Se voglio talora divertirmi con la compagnia d’un pazzo, non ho bisogno d’andare lontano; mi metto a ridere in me stesso. Mia moglie ha una pazza, Arpaste, che tutto ad un tratto ha perduto la vista. Cosa incredibile, ma vera, essa non sa d’essere cieca, e ripetutamente dice alla sua guida di portarsi altrove, perché dice che la casa è troppo oscura. Noi ridiamo di questo: eppure ci accade lo stesso. Nessuno riconosce d’essere avaro, cupido. I ciechi però cercano una guida: noi erriamo senza guida e diciamo: Io non sono ambizioso; ma come si fa in Roma a vivere diversamente? Non amo il lusso: ma la città costringe a tali spese… Perché ingannarci? Il male non è fuori di noi, ma dentro, nelle midolla delle nostre ossa. La difficoltà di guarire sta nel fatto che non ci crediamo ammalati ». La sapienza cristiana ha ripreso questo pensiero e l’ha meditato alla luce del soprannatur0ale. Dai Padri della Chiesa a sant’Ignazio di Loyola è un succedersi di raccomandazioni, ed anche di regole, che giovano praticamente a farne l’esame di coscienza con frutto. Né qui è il luogo di diffonderci su questo problema. Diremo soltanto che, forse, nessuno meglio di Massillon, così squisito nell’analisi psicologica, lo ha illustrato. In uno dei suoi Sermons pour l’Avent, egli descrive il giudizio universale; ed, invece di soffermarsi a tratteggiare la scena esteriore, fissa il suo sguardo su « la manifestazione delle coscienze ». Credo che, anche alla Corte di Luigi XIV, coloro che l’hanno ascoltato han provato in quel giorno un tremito salutare di spavento. – Da un lato Cristo, che tanto ci ha amato, ossia « un Salvatore che ci mostrerà le sue piaghe, per rimproverarci la nostra ingratitudine ». Dall’altro le coscienze, ognuna delle quali sarà esaminata. L’esame si estenderà a tutte le diverse età ed a tutte le circostanze della vita. Debolezze dell’infanzia, colpe della giovinezza, ambizioni e trascorsi d’una età più matura, freddezza e indurimento d’una vecchiaia forse ancora voluttuosa, tutta una storia di miserie che si andrà svolgendo dinanzi ai nostri occhi turbati. Non un’azione, un desiderio, un pensiero, una parola, sarà omessa; tutto rivivrà e apparirà nella sua vera fisionomia. Non solo la storia esteriore dei nostri costumi, ma sarà ricordata anche la storia segreta dei nostri cuori, brame vergognose, progetti ridicoli, gelosie basse e segreti; sentimenti vili, che cercavamo forse di nascondere a noi stessi ricoprendoli con veli pietosi, odi e animosità, intenzioni guaste e viziate, tutta questa vicenda di passioni usciranno d’improvviso come da una imboscata, mentre una luce improvvisa illuminerà l’abisso del nostro io e quel mistero d’iniquità che è il cuore umano. E sarà allora che vedremo come ciò che noi conoscevamo meno era noi stessi. All’esame del male che abbiamo fatto succederà quello del bene che abbiamo tralasciato: omissioni infinite, delle quali la vita nostra è stata piena, occasioni di esercitare la virtù tante volte neglette, anime che avremmo potuto formare e salvare e che abbiamo lasciato perire, indolenze, mollezza, indifferenza, lunga serie di giorni perduti e sacrificati all’ozio… E non basta. Saremo esaminati sulle grazie, delle quali abbiamo abusato; ispirazioni sante non raccolte, prediche e buone parole trascurate, dolori non santificati, doni naturali che avrebbero dovuto essere germi di virtù e furono sorgenti di vizio. E questi sono i peccati nostri. Ma l’esame non si fermerà qui. Si estenderà anche ai peccati altrui, che abbiamo causato e occasionato e che, quindi, ci verranno imputati. Ci saranno presentate le anime tutte, alle quali siamo stati causa di caduta o di scandalo; tutte le anime precipitate all’inferno per i nostri esempi, i nostri discorsi, le nostre immodestie; tutte le anime delle quali abbiamo sedotto la debolezza, corrotto l’innocenza, pervertita la fede, scosso la virtù, autorizzato il libertinaggio, confermato l’empietà. Gesù Cristo, al quale appartenevano, ce le richiederà come una conquista preziosa, che gli abbiamo ingiustamente rapito. Egli ci domanderà il prezzo del suo sangue. Non basta ancora. Le stesse nostre virtù, le opere sante compiute, saranno sottoposte ad una simile discussione rigorosa; intenzioni e motivi nascosti, che guastavano l’azione virtuosa; carità e beneficenze fatte per uno scopo d’ambizione; preghiere recitate senza raccoglimento, Sacramenti profanati, atti di pietà sciupati. Comunioni distratte senza preparazione e senza ringraziamento; vane compiacenze di sè e ricerca perenne di noi stessi anche nelle opere di Dio e del bene; il preteso oro che ci si rivelerà falso… E Massillon, dopo una tale descrizione, gridava con sant’Agostino: « Oh, se già in questo momento potessi vedere coi miei occhi lo stato della mia anima!.. ». L’esame di coscienza può realizzare questo voto dell’autore delle Confessioni; e può e deve essere il mezzo di prevenire e di evitare un simile giudizio divino; nè alcuno vi sia, che si disperi dinanzi ad una visione lugubre d’un passato di vergogne e di cadute. La morale cristiana, se da una parte ci invita a scendere nell’abisso delle nostre miserie, dall’altro ci indica nel Cuore di Cristo l’abisso dell’Amore che perdona e redime. Alla storia delle sconfitte si intreccia la storia delle divine misericordie.