UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. BENEDETTO XV – “PACEM DEI MUNUS PULCHERRIMUM”

Subito dopo la fine del primo conflitto mondiale che aveva procurato morte, devastazioni, rovine immense, S.S. sente il bisogno di indicare la via della riconciliazione e del perdono tra popoli non più belligeranti, ma che ancora covavano in cuore odio e rancore. Da par suo il Sommo Pontefice Vicario di Cristo, ricorda la dottrina insegnata da Cristo ed illustrata dagli Apostoli nei Vangeli, nelle Lettere ai fedeli, e dai Padri nei loro scritti cattolici. Il richiamo ai valori autentici cristiani fondati sull’amore di Dio e delle creature a sua immagine, gli uomini, è quanto mai urgente ed è l’unica vera soluzione all’odio tra fratelli che dovrebbero mirare tutti all’eterna beatitudine e all’incontro con Dio, compresi nel comune Corpo mistico del Redentore. Questo appello è ancor più urgente oggi in queste divisioni, lotte, ribellioni di popoli che funesta nazioni ed interi continenti, tra centinaia di focolai bellici fomentati dall’odio sparso tra le genti dal nemico dell’umanità. I rimedi sono sempre gli stessi, quelli mostrati dal Cristo e dalla dottrina della Chiesa qui riassunta dal Pontefice, e la preghiera con la pressante richiesta della pace che solo Dio può dare.

Benedetto XV
Pacem, Dei munus pulcherrimum

Lettera Enciclica

23 maggio 1920

Una vera pace è fondata sulla riconciliazione e sulla carità

1. La pace, gran dono di Dio, di cui – come dice S. Agostino – nessuna tra le cose mortali è più gradita, nessuna è più desiderabile e migliore; la pace per più di quattro anni così vivamente implorata dai voti dei buoni, dalle preghiere dei fedeli e dalle lagrime delle madri, finalmente ha cominciato a risplendere sui popoli, e Noi per i primi ne godiamo. Senonché troppe ed amarissime ansie conturbano questa gioia paterna; poiché, se quasi dovunque la guerra in qualche modo ebbe fine e furono firmati alcuni patti di pace, restano pur tuttavia i germi di antichi rancori; e voi comprendete, o Venerabili Fratelli, come nessuna pace possa aver consistenza né alcuna alleanza aver vigore, quantunque escogitata in diuturne e laboriose conferenze e solennemente sanzionata, se insieme non si sopiscano gli odi e le inimicizie per mezzo di una riconciliazione fondata sulla carità vicendevole. Intorno a questo argomento adunque, che è della più alta importanza per il bene comune, vogliamo Noi intrattenervi, o Venerabili Fratelli, e nel tempo stesso mettere in guardia i popoli che sono affidati alle vostre cure.

Azione senza sosta del Papa per la ricerca della pace.

2. Veramente fin da quando per arcano disegno di Dio fummo assunti a questa Sede di Pietro, mai Noi abbiamo tralasciato, finché divampò la guerra, di adoperarci senza sosta affinché tutte le nazioni del mondo riprendessero tra di loro al più presto cordiali relazioni. Perciò non cessammo di pregare, di rinnovare esortazioni, di proporre vie di accomodamento, di esperire insomma ogni tentativo per vedere di aprire, col divino aiuto, una qualche apertura ad una pace che fosse giusta, onorevole e duratura; e frattanto rivolgemmo ogni Nostra paterna premura per lenire ovunque quel cumulo immenso di dolori e di sventure d’ogni sorta che accompagnavano l’immane tragedia. Orbene, come fin dall’inizio del Nostro laborioso Pontificato la carità di Gesù Cristo Ci indusse ad adoperarci sia per il ritorno della pace, sia per mitigare gli orrori della guerra, così ora che una qualche pace è stata finalmente conchiusa, egualmente è la stessa carità che Ci spinge ad esortare tutti i Figli della Chiesa, o meglio, tutti gli uomini dell’universo, perché vogliano deporre gli inveterati rancori e dar luogo al reciproco amore ed alla concordia.

Il messaggio del Cristianesimo è stato chiamato “Evangelo dl pace”

3. Non occorre che Ci dilunghiamo troppo a dimostrare come l’umanità andrebbe incontro ai più gravi disastri, se, pur essendo conchiusa la pace, continuassero tra i popoli latenti ostilità ed avversioni. Non parliamo dei danni di tutto ciò che è frutto della civiltà e del progresso, come dei commerci e delle industrie, delle lettere e delle arti, le quali cose fioriscono soltanto in seno alla tranquilla convivenza dei popoli. Ma, ciò che più importa, ne verrebbe colpita la vita stessa del Cristianesimo che è essenzialmente fondato sulla carità, essendo chiamata la predicazione stessa della legge di Cristo “Evangelo di pace”. – Infatti, come voi ben sapete e più volte Noi abbiamo già ricordato, nessuna cosa fu così spesso e con tanta insistenza trasmessa dal divino Maestro ai suoi discepoli, quanto questo precetto della carità fraterna, come quello che in sé racchiude tutti gli altri e Gesù Cristo chiamò nuovo e suo un tale precetto e volle che esso fosse come la tessera di riconoscimento dei Cristiani, per cui si potessero facilmente distinguere dagli altri. Né diverso infine fu il testamento che Egli morendo lasciò ai suoi seguaci, quando pregò che si amassero fra loro, ed amandosi si sforzassero di imitare quella unità ineffabile che si riscontra tra le Persone della SS.ma Trinità: “Che siano tutti una sola cosa… come una sola cosa siam noi.., affinché siano consumati nell’unità”. – Gli Apostoli pertanto, seguendo le orme del divin Maestro, ed ammaestrati dalla viva sua voce, erano di una assiduità meravigliosa nell’esortare così i fedeli: “Sopra tutto poi abbiate perseverante fra voi stessi la mutua carità”. “E sopra tutte queste cose conservate la carità, la quale è il vincolo della perfezione”. “Carissimi amiamoci l’un l’altro; perché la carità è da Dio”. A questi avvertimenti di Gesù Cristo e degli Apostoli erano ben ossequenti quei nostri fratelli di tempi antichi, i quali, sebbene appartenenti a diverse nazioni talvolta in lotta tra loro, tuttavia, cancellando il ricordo delle contese con volontario oblio, vivevan in perfetta concordia. E veramente contrastava non poco una così intima unione di mente e di cuore da quelle mortali ostilità che allora divampavano in seno al consorzio umano.

Amare anche i nemici secondo il comandamento dl Gesù.

4. Ora, quanto si è detto fin qui per imprimere il precetto della carità, vale anche per il perdono delle offese, non meno solennemente comandato dal Signore: “Ma io vi dico: Amate i vostri nemici; fate del bene a coloro che vi odiano: e pregate per coloro che vi perseguitano e vi calunniano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli: il quale fa che si levi il suo sole sopra i buoni e sopra i cattivi”. Di qui quel gravissimo monito dell’Apostolo S. Giovanni: “Chiunque odia il suo fratello, è omicida. E voi sapete, che nessun omicida ha la vita eterna abitante in se stesso”. Finalmente, Gesù Cristo ci ha insegnato a pregare il Signore in modo che noi stessi domandiamo di essere perdonati a patto di perdonare agli altri: “E rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Che se talvolta riesce troppo ardua e difficile l’osservanza di questa legge, a vincere ogni difficoltà, lo stesso Redentore del genere umano non solo ci assiste con la sua divina grazia ma anche col suo mirabile esempio, poiché mentre pendeva dalla croce, scusò presso il Padre coloro che così ingiustamente e iniquamente lo tormentavano, con quelle parole: “Padre, perdona loro: giacché non sanno quel che si fanno”. Noi pertanto, che per i primi dobbiamo imitare la misericordia e la benignità di Gesù Cristo, di cui, senza alcun merito, teniamo le veci, a suo esempio Noi perdoniamo di gran cuore a tutti e singoli i Nostri nemici che consapevoli o inconsci ricoprirono o coprono anche ora la persona e l’opera Nostra con ogni sorta di ingiurie, e tutti abbracciamo con somma carità e benevolenza non tralasciando alcuna occasione per beneficarli quanto più possiamo: e ciò stesso son tenuti a praticare i Cristiani veramente degni di tal nome, verso coloro dai quali, durante la guerra, ricevettero offesa.

Il triste spettacolo delle miserie derivanti dalla guerra.

5. Infatti la carità cristiana non si limita a non odiare i nemici e ad amarli come fratelli, ma vuole ancora che facciamo loro del bene; seguendo in ciò le orme del nostro Divin Redentore, il quale “compì la sua carriera, facendo del bene e sanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo” e terminò il corso della sua vita mortale, spesa tutta nel beneficare immensamente gli uomini, versando per essi il suo sangue. Per cui disse S. Giovanni: “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: poiché Egli ha dato la sua vita per noi: e noi pure dobbiamo dare la vita per i fratelli. Chi avesse dei beni di questo mondo, e vedesse il suo fratello in necessità, e gli chiudesse il suo cuore, come può essere in costui l’amore di Dio? Figlioli miei, non amiamo in parole e con la lingua, ma con le opere e con verità”. Mai però vi fu tempo in cui si dovessero più “dilatare i confini della carità” quanto in questi giorni di universale angustia e dolore; né mai forse come ora ebbe bisogno l’umanità di quella comune beneficenza che fiorisce dal sincero amore per il prossimo e che è piena di sacrificio e di fervore. Poiché, se volgiamo lo sguardo dovunque la guerra ha imperversato furibonda, ci si parano innanzi immense regioni desolate e squallide, moltitudini ridotte a tale estremo da mancare di pane, di indumenti e di letto; vedove ed orfani innumerevoli nell’attesa di un qualche soccorso; infine un’ingente schiera di esseri debilitati, specialmente bambini e fanciulli, i quali attestano nei loro corpicciuoli miseri l’atrocità della guerra.

La Chiesa ha sempre operato come il buon Samaritano.

6. A chi contempla tal quadro di miserie, da cui è oppresso il genere umano, s’affaccia spontaneo alla mente il ricordo di quel viandante evangelico, il quale, recandosi da Gerusalemme a Gerico, s’imbatté negli assassini, che, spogliatolo e copertolo di ferite, lo abbandonarono semivivo sulla via. I due casi si assomigliano grandemente; e come a costui si avvicinò pieno di compassione il Samaritano che versatogli sulle ferite olio e vino lo fasciò, lo condusse all’albergo e si prese cura di lui; così a risanare le ferite del genere umano è necessario che vi appresti la sua mano Gesù Cristo, di cui il Samaritano era figura ed immagine. – Tale appunto è l’opera ed il compito che la Chiesa per sé reclama come erede e custode dello spirito di Gesù Cristo; la Chiesa, diciamo, la cui intera esistenza è tutta intessuta di una mirabile varietà di benefici: essa, infatti, “quale vera madre dei Cristiani, ha tali tenerezze di amore per il prossimo che per tutti i vari malanni che travagliano l’anima col peccato, ha pronta ogni specie di medicina”; onde “tratta ed ammaestra puerilmente i fanciulli, i giovani con fortezza, i vecchi con placida calma, secondo che ciascuno è tale non solo di corpo ma anche di animo”. Questi modi cristiani di comportarsi poi, raddolcendo gli animi, sono di una straordinaria efficacia per ricondurre i popoli alla tranquillità.

Invito a tutti i cattolici, religiosi e laici, ad operare per ristabilire la concordia.

7. Perciò vi preghiamo, o Venerabili Fratelli, e vi scongiuriamo nelle viscere di carità di Gesù Cristo, adoperatevi pienamente non solo per stimolare i fedeli a voi affidati a deporre gli odi e a condannare le offese, ma anche per promuovere con più intensità tutte quelle opere di cristiana beneficenza, che siano di aiuto ai bisognosi, di conforto agli afflitti, di presidio ai deboli, che arrechino insomma un soccorso opportuno e molteplice a tutti coloro che hanno riportato dalla guerra una più grave disgrazia. Desideriamo che voi esortiate specialmente i vostri Sacerdoti, come ministri di pace, affinché siano assidui in questo che è il compendio essenziale della vita cristiana, cioè nell’inculcare l’amore verso i prossimi, anche se nemici, e “fatti tutto a tutti” in modo da essere di luminoso esempio, combattono ovunque contro l’inimicizia e l’odio, ben sicuri di fare cosa gratissima al Cuore amantissimo di Gesù e a Colui che, sebbene indegnamente, ne sostiene le veci qui in terra. A questo proposito si devono pure caldamente esortare e pregare i giornalisti e scrittori cattolici, perché “come eletti di Dio, santi ed amati”, vogliano rivestirsi “di viscere di misericordia e di benignità”, esprimendola nei loro scritti, con l’astenersi non solo dalle false e vane accuse, ma ancora da ogni intemperanza e asprezza di linguaggio, la quale, mentre è contraria alla legge cristiana, non farebbe altro che riaprire piaghe non ancora risanate, tanto più che gli animi già inaspriti da recenti ferite mal sopportano ogni più lieve ingiuria.

È necessaria la ripresa di relazioni amichevoli fra i popoli già in guerra fra loro.

8. Quanto noi abbiamo qui ricordato ai singoli circa il dovere che essi hanno di praticare la carità, intendiamo che sia pure esteso a quei popoli che hanno combattuto la grande guerra, affinché, rimossa, per quanto è possibile, ogni causa di dissidio e salve naturalmente le ragioni della giustizia, riprendano tra di loro relazioni amichevoli. Poiché non è affatto diversa la legge evangelica della carità tra gli individui da quella che deve esistere tra gli Stati e le nazioni, non essendo esse infine che l’insieme dei singoli individui. Dal momento poi che la guerra è cessata, non solo per motivi di carità ma anche per una certa necessità di cose, si va delineando un legame universale di popoli, spinti naturalmente ad unirsi fra loro da mutui bisogni, oltreché da vicendevole benevolenza, specialmente ora con l’accresciuta civilizzazione e con le vie di comunicazione mirabilmente moltiplicate.

Tolto il divieto ai Sovrani cattolici di venire a Roma in forma ufficiale.

9. E veramente questa Sede Apostolica non si stancò mai d’inculcare durante la guerra, come dicemmo, un tale perdono delle offese e la fraterna riconciliazione dei popoli, conformemente alla legge santissima di Gesù Cristo e secondo le stesse esigenze del consorzio civile; né permise che questi principi morali fossero dimenticati anche in mezzo alle rivalità e agli odi; ed ora, dopo i trattati di pace, questi principi li propugna e li proclama ancor più altamente; come ha fatto poc’anzi nella lettera ai vescovi della Germania e nell’altra indirizzata all’Arcivescovo di Parigi. E poiché a mantenere ed accrescere questa concordia tra le genti non poco contribuiscono le visite che i capi degli Stati e dei Governi usano reciprocamente farsi per sbrigare gli affari di maggiore importanza, Noi, considerando le mutate circostanze dei tempi e la piega pericolosa degli eventi, pur di cooperare a questo affratellamento dei popoli, non saremmo alieni dal mitigare in qualche modo il rigore di quelle condizioni che, abbattuto il Governo civile della Santa Sede, furono giustamente stabilite dai Nostri antecessori ad impedire la venuta dei Sovrani cattolici a Roma in forma ufficiale. Però nel tempo stesso solennemente proclamiamo che questa Nostra remissività, consigliata, o meglio voluta, come pare, dalla gravità di tempi che corrono, non si deve affatto interpretare quale una tacita rinunzia ai sacrosanti diritti, quasi che la Santa Sede si contenti dello stato anormale in cui si trova al presente. Che anzi “le proteste che i Nostri Predecessori fecero più volte, non affatto mossi da interessi umani ma dalla santità del dovere, per difendere cioè la dignità e i diritti di questa Sede Apostolica. Noi qui, in questa circostanza, le rinnoviamo per le identiche ragioni”, chiedendo ripetutamente e con maggior insistenza che, mentre si è pattuita la pace tra le nazioni, “cessi anche per il Capo della Chiesa questa condizione anormale, che gravemente nuoce, e per più motivi, alla stessa tranquillità dei popoli”.

Invito a costituire una Lega delle nazioni.

10. Ristabilite così le cose, secondo l’ordine voluto dalla giustizia e dalla carità, e riconciliate tra di loro le genti, sarebbe veramente desiderabile, o Venerabili Fratelli, che tutti gli Stati, rimossi i vicendevoli sospetti, si riunissero in una sola società o meglio famiglia dei popoli, sia per garantire la propria indipendenza, sia per tutelare l’ordine del civile consorzio. E a formar questa società fra le genti è di stimolo, per tacere molte altre considerazioni, il bisogno stesso generalmente riconosciuto di ridurre, se non è dato di abolire, le enormi spese militari che non possono più oltre essere sostenute dagli Stati, affinché in tal modo si impediscano per l’avvenire guerre così micidiali e tremende e si assicuri a ciascun popolo nei suoi giusti confini l’indipendenza e l’integrità del proprio territorio.

La Chiesa nei secoli passati ha sempre operato per l’unione dei popoli.

11. E una volta che questa Lega tra le nazioni sia fondata sulla legge cristiana, per tutto ciò che riguarda la giustizia e la carità, non sarà certo la Chiesa che rifiuterà il suo valido contributo, poiché, essendo essa il tipo più perfetto di società universale, per la sua stessa essenza e finalità è di una meravigliosa efficacia ad affratellare tra loro gli uomini, non solo in ordine alla loro eterna salvezza, ma anche al loro benessere materiale; li conduce cioè attraverso i beni temporali, in modo da non perdere gli eterni. Perciò sappiamo dalla storia, che da quando la Chiesa pervase del suo spirito le antiche e barbariche genti d’Europa, cessarono un po’ alla volta le varie e profonde contese che le dividevano, e federandosi col tempo in una unica società omogenea, diedero origine all’Europa cristiana, la quale, sotto la guida e l’auspicio della Chiesa, mentre conservò a ciascuna nazione la propria caratteristica, culminò in una compatta unità, fautrice di prosperità e di grandezza. Molto bene a questo proposito dice S. Agostino: “Questa città celeste, mentre vive esule quaggiù in terra, chiama a sé cittadini di ogni nazione, e compone di tutte le genti una sola società pellegrinante; non si cura di ciò che vi è di diverso nei costumi, nelle leggi e nelle istituzioni; cose tutte che, mirando alla conquista e al mantenimento della pace terrena, la Chiesa, invece di ripudiare o distruggere, gelosamente conserva; poiché, quantunque esse variino secondo le nazioni, vengono tutte indirizzate allo stesso fine della pace terrena, purché non impediscano l’esercizio della Religione che insegna ad adorare l’unico sommo e vero Dio” (20). E lo stesso Santo Dottore così parla alla Chiesa: “Tu, i cittadini, le genti e gli uomini tutti, rievocando la comune origine, non solo li unisci tra loro ma ancora li affratelli”.

Esortazione finale a tutti i popoli.

12. Noi pertanto, rifacendoci al principio del Nostro discorso, Ci rivolgiamo con affetto a tutti i Nostri figli e li scongiuriamo nel nome di Nostro Signor Gesù Cristo perché vogliamo dimenticare le reciproche rivalità ed offese, e stringersi nell’amplesso della carità cristiana, dinanzi a cui non vi sono stranieri; esortiamo inoltre vivamente tutte le nazioni affinché, sotto l’influsso della benevolenza cristiana, s’inducano a stabilire tra loro una vera pace e a collegarsi in un’unica alleanza, che, con l’aiuto della giustizia, sia duratura; infine facciamo appello a tutti gli uomini e popoli della terra perché aderiscano con la mente e con il cuore alla Chiesa Cattolica, e per la Chiesa, a Cristo Redentore del genere umano: così che possiamo loro rivolgere con tutta verità quelle parole di S. Paolo agli Efesini: “Ma adesso in Cristo Gesù, voi che eravate una volta lontani, siete diventati vicini, mercé il Sangue di Cristo. Poiché egli è nostra pace, egli che delle due cose ne ha fatta una sola, annullando la parete intermedia di separazione… distruggendo in se stesso le inimicizie. E venne ad annunziare la pace a voi, che eravate lontani, e pace ai vicini”. Né sono meno a proposito quelle parole che il medesimo Apostolo indirizzava ai Colossesi: “Non mentite più l’uno verso dell’altro, essendovi spogliati dell’uomo vecchio e di tutte le opere di lui, ed essendovi rivestiti del nuovo, di quello, il quale, si va rinnovando in proporzione della conoscenza, conformandosi all’immagine di colui che lo creò: dove non c’è Greco e Giudeo, circonciso e incirconciso, Barbaro e Scita, servo e libero: ma Cristo in ogni cosa ed in tutti”.

Frattanto, confidando nel patrocinio della Vergine Immacolata che testé volemmo fosse universalmente invocata “Regina della pace”, come pure in quello dei tre novelli Santi, umilmente imploriamo il divino Spirito Paraclito, perché “conceda propizio alla sua Chiesa il dono dell’unità e della pace” e con ulteriore effusione di carità, diretta alla comune salvezza, rinnovi la faccia della terra…

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2023)

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2023).

Semidoppio.- Paramenti verdi.

Nell’ufficio divino si effettua in questo tempo la lettura delle Parabole o Proverbi di Salomone. « Queste parabole sono utili per conoscere la sapienza e la disciplina, per comprendere le parole della prudenza, per ricevere l’istruzione della dottrina, la giustizia e l’equità affinché sia donato a tutti i piccoli il discernimento e ai giovani la scienza e l’intelligenza. Il savio ascoltando diventerà più savio e l’intelligente possederà i mezzi per governare! (7° Nott.). Salomone non era che la figura di Cristo, che è la Sapienza incarnata come leggiamo nel Vangelo di questo giorno: « Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete, poiché io ve lo dico, molti profeti e re hanno voluto vedere quello che voi vedete e non hanno potuto; e ascoltare quello che voi ascoltate e non hanno inteso ». « Beati, dice S. Beda, gli occhi che possono conoscere i misteri del Signore, dei quali è detto: « Voi li avete rivelati ai piccoli ». Beati gli occhi di questi piccoli, ai quali il Figlio degnò rivelarsi e rivelare il Padre. Ed ecco un dottore della legge che ha pensato di tentare il Signore e l’interroga sulla vita eterna (Vang.). Ma il tranello che tende a Gesù Cristo mostra come era vero quello che il Signore aveva detto rivolgendosi al Padre: « Tu hai nascoste queste cose ai saggi e ai prudenti e le hai rivelate ai piccoli » (2° Nott.). — « Figlio mio, dice Salomone, il timor di Dio è il principio della sapienza. Se i peccatori vogliono attirarti non acconsentir loro. Se essi dicono: Vieni con noi, tendiamo agguati all’innocente, inghiottiamolo vivo e intero com’è inghiottito il morto che scende nella tomba; noi troveremo ogni sorta di beni preziosi, riempiremo le nostre case di bottini; figlio mio, non andare con loro, allontana i tuoi passi dal loro sentiero. Poiché i loro passi sono rivolti al male ed essi si affrettano per versar sangue. E s’impadroniscono dell’anima di coloro che soggiogano » (7» Nott.). — Cosi i demoni agirono col primo uomo, poiché quando Adamo cadde nel peccato, lo spogliarono di tutti i suoi beni e lo coprirono di ferite. Il peccato originale, infatti, priva l’uomo di tutti i doni della grazia e lo colpisce nella sua stessa natura. La sua intelligenza è meno viva e la sua volontà meno ferma, poiché la concupiscenza che regna nelle sue membra lo porta al male. Per fargli comprendere la sua impotenza — poiché, dice S. Paolo, la nostra attitudine a intendere viene da Dio (Ep.) — Jahvé stabilì la legge mosaica che gli dava precetti senza dargli la forza di compierli, ossia senza la grazia divina. Allora, l’uomo comprendendo che gli bisognava l’aiuto di Dio per essere guarito, per volere il bene, per realizzarlo e per perseverare in esso fino alla fine, rivolse il suo sguardo al cielo: « O Dio, gridò, e non deve giammai cessare di gridare: O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, affrettati a soccorrermi! Siano confusi coloro che cercano l’anima mia » (Intr.). — « Signore, Dio della mia salute, io ho gridato verso di te tutto il giorno e la notte » (All.). E Dio allora risolse di venire in aiuto dell’uomo e poiché i sacerdoti ed i leviti dell’antica legge non avevano potuto cooperare con Lui, mandò Gesù Cristo, che si fece, secondo il pensiero di S. Gregorio, il prossimo dell’uomo, rivestendosi della nostra umanità per guarirla (3° Nott.). Questo è quanto ci dicono l’Epistola e il Vangelo. La legge del Sinai, scolpita in lettere su pietre, spiega S. Paolo, fu un ministero di morte perché, l’abbiamo già visto, non dava la forza di compiere ciò che comandava. Così l’Offertorio ci mostra come Mosè dovette intervenire presso Dio per calmare la sua ira provocata dai peccati del suo popolo. La Legge della grazia è Invece un ministero di giustificazione, perché lo Spirito Santo che fu mandato alla Chiesa nel giorno della Pentecoste, giorno in cui la vecchia legge fu abrogata, dava la forza di osservare i precetti del decalogo e quelli della Chiesa. Cosi S. Paolo dice: « La lettera uccide, ma lo Spirito vivifica » (Ep.). E il Vangelo ne fa la dimostrazione nella parabola del buon Samaritano. All’impotente legge mosaica, rappresentata in qualche modo dal sacerdote e dal levita della parabola evangelica, il buon Samaritano che è Gesù, sostituisce una nuova legge estranea all’antica e viene Egli stesso in aiuto dell’uomo. Medico delle nostre anime, versò nelle nostre ferite l’unzione della sua grazia, l’olio dei suoi Sacramenti e il vino della sua Eucaristia. Per questo la liturgia canta, in uno stile ricco di immagini, la bontà del Signore, che ha fatto produrre sulla terra il pane che fortifica l’uomo, il vino che rallegra il suo cuore, e l’olio che dona al suo viso un aspetto di gioia (Com.). « Io benedirò, dice il Graduale, il Signore in tutti i tempi: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra ». Noi dobbiamo imitare verso il nostro prossimo quello che Dio ha fatto per noi e quello di cui il Samaritano è l’esempio. « Nessuna cosa è maggiormente prossimo delle membra che il capo, dice S. Beda: amiamo dunque colui che è fratello del Cristo, cioè siamo pronti a rendergli tutti i servizi sia temporali che spirituali di cui potrà aver bisogno » (3° Nott.). Né la legge mosaica, né il Vangelo separano l’amore verso Dio dall’amore di chi dobbiamo ritenere come prossimo: amore soprannaturale nella sua origine, poiché procede dallo Spirito Santo; amore soprannaturale nel soggetto perché è Dio nella persona dei nostri fratelli. Il prossimo di questo uomo ferito non è, come pensavano i Giudei, colui che è legato per vincoli di sangue, ma colui che si china caritatevolmente su di esso per soccorrerlo. L’unione in Cristo, che giunge fino a farci amare quelli che ci odiano e perdonare a quelli che ci hanno fatto del male, perché Dio è in essi, o è chiamato ad essere in essi, è il vero amore del prossimo. Perfezionati dalla grazia, noi dobbiamo imitare il Padre nostro del cielo, che, calmato dalla preghiera di Mosè, figura di Cristo, colmò di beni il popolo che l’aveva offeso (Off., Com.). — Uniti dunque con Cristo, [Questa unità dei Cristiani e del Cristo fa sì che si chiami Gesù il Samaritano, cioè lo straniero, per indicare che i Gentili imiteranno Cristo mentre i Giudei increduli lo disprezzeranno], curviamoci con Lui verso il prossimo che soffre. Questo sarà il miglior modo di diventare, per la misericordia divina, atti a servire Dio onnipotente, degnamente e lodevolmente, e di ottenere che, rialzati dalla grazia, noi corriamo, senza più cadere, verso il cielo promesso (Oraz.) . « Gesù, dice S. Beda, il Venerabile, mostra in maniera chiarissima che non vi è che un solo amore, il quale deve essere manifestato non solo a parole ma con le buone opere, ed è questo che conduce alla vita eterna ». (3° Nott.). – La gloria del ministero di Mosè fu assai grande: raggi miracolosi brillavano sul volto del legislatore dell’antica legge, allorché discese dal Sinai. Ma questo ministero era inferiore al ministero evangelico. Il primo era passeggero: il secondo doveva surrogarlo e durare per sempre. Il primo era scritto su tavole di pietra, era il ministero della lettera; il secondo è tutto spirituale, è il ministero dello spirito. Il primo produceva spesso la morte spirituale spingendo alla ribellione con la molteplicità dei suoi precetti difficili ad adempirsi; il secondo è accompagnato dalle grazie dello Spirito d’amore, che gli Apostoli distribuiscono alle anime. L’uno è dunque un ministero che provoca i terribili giudizi di Dio, e l’altro è un ministero che giustifica gli uomini davanti a Dio, perché dona ad essi lo Spirito che vivifica. – « Quest’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico, dice S. Beda, è Adamo che rappresenta il genere umano. Gerusalemme è la città della pace celeste, della beatitudine dalla quale è stato allontanato per il peccato. I ladri sono il demonio e i suoi angeli nelle mani dei quali Adamo è caduto nella sua discesa. Questi lo spogliarono di tutto: gli tolsero la gloria dell’immortalità e la veste dell’innocenza.. Le piaghe che gli fecero, sono i peccati che, intaccando l’integrità dell’umana natura, fecero entrare la morte dalle ferite aperte. Lo lasciarono mezzo morto, perché se lo spogliarono della beatitudine della vita immortale, non riuscirono a togliergli l’uso della ragione colla quale conosceva Dio. Il sacerdote e il levita che, avendo veduto il ferito, passarono oltre, indicano i sacerdoti e i ministri dell’Antico Testamento che potevano solamente, con i decreti della legge, mostrare le ferite del mondo languente, ma non potevano guarirle, perché era loro impossibile – al dire dell’Apostolo – cancellare i peccati col sangue dei buoi e degli agnelli. Il buon Samaritano, parola che significa guardiano, è lo stesso Signore. Fatto uomo, s’è avvicinato a noi con la grande compassione che ci ha mostrata. L’albergo è la Chiesa ove Gesù stesso conduce l’uomo, ponendolo sulla cavalcatura perché nessuno, se non è battezzato, unito al corpo di Cristo, e portato come la pecora sperduta sulle spalle del buon Pastore, può far parte della Chiesa. I due danari sono i due Testamenti sui quali sono impressi il nome e l’effigie del Re eterno. La fine della legge è Cristo. Questi due denari furono dati all’albergatore il giorno dopo, perché Gesù il giorno seguente la sua risurrezione aprì gli occhi dell’intelligenza ai discepoli di Emmaus e ai suoi Apostoli perché comprendessero le sante Scritture. Il giorno seguente, infatti, l’albergatore, ricevette i due danari, come compenso delle sue cure verso il ferito perché lo Spirito Santo, venendo sulla Chiesa, insegnò agli Apostoli tutte le verità perché potessero istruire le nazioni e predicare il Vangelo » (Omelia del giorno).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et te, pater, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam,
✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam.
Ps 69:4

Avertántur retrórsum et erubéscant: qui cógitant mihi mala.

[O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]
[Vadano delusi e scornati coloro che tramano contro di me.]

V. Glória Patri, et …..
Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam.

[O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 2 Cor III: 4-9.

“Fratres: Fidúciam talem habémus per Christum ad Deum: non quod sufficiéntes simus cogitáre áliquid a nobis, quasi ex nobis: sed sufficiéntia nostra ex Deo est: qui et idóneos nos fecit minístros novi testaménti: non líttera, sed spíritu: líttera enim occídit, spíritus autem vivíficat. Quod si ministrátio mortis, lítteris deformáta in lapídibus, fuit in glória; ita ut non possent inténdere fili Israël in fáciem Moysi, propter glóriam vultus ejus, quæ evacuátur: quómodo non magis ministrátio Spíritus erit in glória? Nam si ministrátio damnátionis glória est multo magis abúndat ministérium justítiæ in glória.

[“Fratelli: Tanta fiducia in Dio noi l’abbiamo per Cristo. Non che siamo capaci da noi a pensar qualche cosa, come se venisse da noi; ma la nostra capacità viene da Dio, il quale ci ha anche resi idonei a essere ministri della nuova alleanza, non della lettera, ma dello spirito; perché la lettera uccide ma lo spirito dà vita. Ora, se il ministero della morte, scolpito in lettere su pietre, è stato circonfuso di gloria in modo che i figli d’Israele non potevano fissare lo sguardo in faccia a Mosè, tanto era lo splendore passeggero del suo volto; quanto più non sarà circonfuso di gloria il ministero dello Spirito? Invero, se è glorioso il ministero di condanna, molto più è superiore in gloria il ministero di giustizia”].

TUTTO E NIENTE.

Alessandro Manzoni ha colto ancora una volta perfettamente nel segno quando parlando di Dio, come ce Lo ha rivelato N. S. Gesù Cristo, come noi Lo conosciamo alla sua scuola, ha detto che Egli atterra e suscita; due gesti contradditori, all’apparenza, ed entrambi radicali. Quando fa le cose sue, Dio non le fa a mezzo: se butta giù, atterra, inabissa; e se tira su, suscita, sublima: a questo radicalismo, e a questa completezza d’azione divina corrisponde anche quello che s. Paolo dice nella lettera d’oggi, messo a riscontro di ciò che afferma altrove. Ecco qua: oggi San Paolo dice ciò che è verissimo che, cioè, noi da soli siam buoni a nulla: neanche a formare un piccolo pensiero. Nel concetto di San Paolo e di tutti, è la cosa a noi più facile, assai più facile volere che fare. Il pensiero è il primo gradino della scala, il più ovvio, il più semplice. Non importa: neanche quello scalino l’uomo può fare da sé, proprio da sé, ci vuole l’aiuto di Dio. Il quale dunque, è tutto Lui e noi di fronte a Lui siamo un bel niente, uno zero. È un fiero e giusto colpo assestato al nostro orgoglio che ci fa credere di essere un gran che e di potere fare noi, proprio noi, chi sa che cosa. L’uomo ha degli istinti orgogliosamente, dinamicamente, mefistofelici. Noi vorremmo essere tutto: noi ci illudiamo di poter fare tutto. E invece ogni nostra capacità viene da Dio: « sufficientia nostra ex Deo est. » Il che non vuol dire che questa capacità (sufficientia) non ci sia. C’è ricollegata con Dio. E allora San Paolo appoggiato a Dio, immerso nell’umile fiducia in Lui, tiene un tutt’altro linguaggio, che par una negazione ed è invece un’integrazione del precedente. «Omnia possum in Eo qui me confortat » io posso tuto in Colui che mi conforta; dal niente siamo passati al tutto. Lo stesso radicalismo. Prima, nessuna possibilità e adesso nessuna impossibilità. Prima l’uomo buttato a terra, proprio umiliato (humus, vuol dire terra), adesso esaltato fino alle stelle, proclamato in qualche modo onnipotente. La contraddizione non c’è perché chi dice così non è lo stesso uomo che viene considerato, non è lo stesso uomo di cui si parla. L’uomo che non può tutto, che è la stessa impotenza, è l’uomo solo o piuttosto l’uomo isolato da Dio, lontano effettivamente ed affettivamente da Lui: ramo reciso dal tronco, tralcio separato dalla vite, ruscello a cui è stata tolta la comunicazione colla sorgente e che perciò non ha più acqua. L’uomo isolato così è sterile, infecondo nel bene, può scendere, non può salire. Ma riattaccatelo a Dio, mettetelo in comunicazione viva, piena, conscia, voluta, e la situazione si modifica dalla notte al giorno. L’anima che sente questo contatto nuovo, sente un rifluire in se stessa di nuove, sante, inesauste energie. Non poteva nulla senza il suo Dio, adesso può tutto unita a Lui. « Omnia possum in Eo quì me confortat. » E’ il grido magnanimo e non ribelle dei Santi, appunto perché la loro onnipotenza la ripetono da Dio, tutta e solo da Lui. Solo realizzando spiritualmente quel nientee quel tutto, solo vivendo tutta quella umiltà e tutta questa fede, si raggiunge l’equilibrio tra la sfiducia e la presunzione.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XXXIII: 2-3.

Benedícam Dóminum in omni témpore: semper laus ejus in ore meo.

[Benedirò il Signore in ogni tempo: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra.]

V. In Dómino laudábitur ánima mea: áudiant mansuéti, et læténtur.

[La mia anima sarà esaltata nel Signore: lo ascoltino i mansueti e siano rallegrati.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps LXXXVII: 2

Dómine, Deus salútis meæ, in die clamávi et nocte coram te. Allelúja.

[O Signore Iddio, mia salvezza: ho gridato a Te giorno e notte. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.

Luc. X: 23-37

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Beáti óculi, qui vident quæ vos videtis. Dico enim vobis, quod multi prophétæ et reges voluérunt vidére quæ vos videtis, et non vidérunt: et audire quæ audítis, et non audiérunt. Et ecce, quidam legisperítus surréxit, tentans illum, et dicens: Magister, quid faciéndo vitam ætérnam possidébo? At ille dixit ad eum: In lege quid scriptum est? quómodo legis? Ille respóndens, dixit: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo, et ex tota ánima tua, et ex ómnibus víribus tuis; et ex omni mente tua: et próximum tuum sicut teípsum. Dixítque illi: Recte respondísti: hoc fac, et vives. Ille autem volens justificáre seípsum, dixit ad Jesum: Et quis est meus próximus? Suscípiens autem Jesus, dixit: Homo quidam descendébat ab Jerúsalem in Jéricho, et íncidit in latrónes, qui étiam despoliavérunt eum: et plagis impósitis abiérunt, semivívo relícto. Accidit autem, ut sacerdos quidam descénderet eádem via: et viso illo præterívit. Simíliter et levíta, cum esset secus locum et vidéret eum, pertránsiit. Samaritánus autem quidam iter fáciens, venit secus eum: et videns eum, misericórdia motus est. Et apprópians, alligávit vulnera ejus, infúndens óleum et vinum: et impónens illum in juméntum suum, duxit in stábulum, et curam ejus egit. Et áltera die prótulit duos denários et dedit stabulário, et ait: Curam illíus habe: et quodcúmque supererogáveris, ego cum redíero, reddam tibi. Quis horum trium vidétur tibi próximus fuísse illi, qui íncidit in latrónes? At ille dixit: Qui fecit misericórdiam in illum. Et ait illi Jesus: Vade, et tu fac simíliter.”

[“In quel tempo Gesù disse a’ suoi discepoli: Beati gli occhi che veggono quello che voi vedete. Imperocché vi dico, che molti profeti e regi bramarono di vedere quello che voi vedete, e no videro; e udire quello che voi udite, e non l’udirono. Allora alzatosi un certo dottor di legge per tentarlo, gli disse: Maestro, che debbo io fare per possedere la vita eterna? Ma Egli disse a lui: Che è quello che sta scritto nella legge? come leggi tu? Quegli rispose, e disse: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuor tuo, e con tutta l’anima tua, e con tutte le tue forze, o con tutto il tuo spirito; e il prossimo tuo come te stesso. E Gesù gli disse: Bene hai risposto: fa questo e vivrai. Ma quegli volendo giustificare se stesso, disse a Gesù: E chi è mio prossimo? E Gesù prese la parola, e disse: Un uomo andava da Gerusalemme a Gerico, e diede negli assassini, i quali ancor lo spogliarono; e avendogli date delle ferite, se n’andarono, lasciandolo mezzo morto. Or avvenne che passò per la stessa strada un sacerdote, il quale vedutolo passò oltre. Similmente anche un levita, arrivato vicino a quel luogo, e veduto colui, tirò innanzi: ma un Samaritano, che faceva suo viaggio, giunse presso lui; e vedutolo, si mosse a compassione. E se gli accostò, e fasciò le ferite di lui, spargendovi sopra olio e vino; e messolo sul suo giumento, lo condusse all’albergo, ed ebbe cura di esso. E il dì seguente tirò fuori due danari, e li diede all’ostiere, e dissegli: Abbi cura di lui: e tutto quello che spenderai di più te lo restituirò al mio ritorno. Chi di questi tre ti pare egli essere stato prossimo per colui che diede negli assassini? E quegli rispose: Colui che usò ad esso misericordia. E Gesù gli disse: Va’, fa’ anche tu allo stesso modo.”]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

L’ELEMOSINA

Tra Gerusalemme e Gerico, narra S. Gerolamo, v’era un immenso deserto che gli Ebrei chiamavano « Adommin », cioè il luogo del sangue. Nessuno si lasciava sorprendere dalla notte in quelle vicinanze, e chi vi passava da lungi, guardando in quella parte, tremava. Il misero viandante ch’era costretto ad attraversarlo da solo, spesso non ne usciva più: aggressori di strada, assassini sfuggiti al carcere, là vi trovavano rifugio con le belve e coi serpenti, sempre vigili a mal fare. A quei tempi doveva essere appena accaduto un fattaccio di sangue, tanto che Gesù ne desunse i particolari della sua parabola. « Un uomo faceva la strada che da Gerusalemme discende in Gerico quando incappò negli assassini che, spogliatolo di tutto, lo abbandonarono in mezzo alla strada, più morto che vivo.  « Or avvenne che un sacerdote e un levita passarono proprio per quella strada, guardarono fors’anche con occhio di compassione il viandante insanguinato, ma lo lasciarono là ad aspettare che la morte gli facesse grazia. « Per fortuna che di là passò anche un Samaritano pietoso; si avvicinò al ferito, lavò le piaghe con olio e vino, e le fasciò con amore. Poi caricandolo sulla sua cavalcatura, lo portò ad un albergo e n’ebbe cura di lui.  « Al dì seguente, non potendo più rimanere, lo presentò all’oste e tirando fuori due danari, gli disse:  « Tieni. Non lasciarlo mancare di nulla, al mio ritorno ti soddisferò di ogni disturbo ». – C’è della gente che per le sventure e le miserie e i bisogni del prossimo ha sempre un mondo di belle parole, di gentili espressioni che servono a nulla: tutti complimenti. Quando si tratta poi di venire a qualche cosa di più sodo, a privarsi di qualche comodo per aiutare gli indigenti, a toccare il proprio borsellino, allora cominciano a ritirarsi, a borbottare, a inviperirsi. Vedono un povero sulla via. « Poverino! esclamano, chissà che vita, che patimenti! E forse avrà una famiglia, dei bambini… ». Ma dalle loro tasche non spremono fuori nulla, piuttosto spremerebbero fuori dagli occhi una lagrimetta sterile. Essi sanno che il Papa ha bisogno dell’obolo dei fedeli, sanno che le Missioni non possono progredire senza offerte, comprendono la necessità in Italia dell’Università Cattolica, ma quando giunge la giornata del Papa, delle Missioni, dell’Università, essi non fanno che impazientirsi, e se pur offrono un soldo l’accompagnano con parecchie maledizioni. Non è questa la carità che Gesù Cristo ci ha voluto insegnare con la parabola di questa domenica. Il Samaritano non ebbe soltanto sguardi lagrimosi, o paroline di consolazione, ma adoperò il suo olio e il suo vino, offrì la sua cavalcatura, diede una giornata di tempo, e non gli rincrebbe tirar fuori i due danari e farsi garante di ogni spesa. E quando ebbe fatto tutto questo non squillò le trombe, non ne menò vanto, ma andò via semplicemente compreso in cuor suo di non aver fatto niente di più che un suo stretto dovere. Non fatevi delle illusioni: la elemosina non è un semplice consiglio, ma un precetto positivo, come quello di santificar la festa e di onorare il padre e la madre. Ed è appunto questo il pensiero più importante che ricaveremo dal santo Vangelo;  e poi rifletteremo quanto sia utile per noi osservare questo precetto. – 1. L’’ELEMOSINA È UN PRECETTO.  È terribile la maniera con cui l’Evangelista S. Matteo descrive lo svolgersi del giudizio finale. Gesù Cristo, dall’alto nella gloria e nel terrore, griderà: « Via da me, o maledetti, nel fuoco eterno ». « Perché, o Signore, — diranno aspramente i reprobi, — perché ci scacci in dannazione così? ». « Perché, — risponderà il Signore, — ho avuto fame, e non mi deste da mangiare. Esurivi enim, et non dedistis mihi manducare. Perché sono stato ammalato ed in prigione e non mi visitaste. Infirmus et in carcere, et non visitastis me. Perché ero nudo e non mi vestiste. Nudus, et non cooperuistis me » (Mt., XXV). « Ma quando, o Dio, tu fosti affamato, ammalato, nudo, e non ti facemmo carità? ».  « Ogni volta che un povero aveva bisogno di voi e non l’aiutaste ». E Vedete, osserva S. Giovanni Crisostomo, sembra quasi che al finir dei secoli Gesù Cristo non venga per altro che a condannare la durezza e la crudeltà dei ricchi verso i poveri. Bisogna dunque concludere che la elemosina sia un grave precetto, altrimenti per la sua trasgressione Iddio non ci condannerebbe all’inferno. Su che cosa si fonda il precetto dell’elemosina? Sopra l’assoluta sovranità di Dio verso i nostri beni. È Lui il padrone vero d’ogni nostra ricchezza, noi non ne siamo che i dispensieri e gli economi. Infatti, al momento della morte chi è capace di portarsi via qualche cosa con sé? Tutto dobbiamo lasciare quasi scadesse un contratto d’affitto. Ma come l’economo deve consegnare una parte dei frutti al padrone, così noi dobbiamo offrire a Dio una parte di quei beni che Egli ci ha dati. E a Dio glielo offriamo per le mani dei poveri. Al tempo di Abele e dei patriarchi al suo Nome si bruciavano i frutti dei campi o le pecore del gregge; ma ora il Signore comanda che questa parte a Lui dovuta si distribuisca ai poveri. Un ricco adunque che nega al povero l’elemosina è un suddito che si ribella al suo sovrano, è un fattore che rifiuta di riconoscere il suo padrone. Da qui ne deriva un’altra conseguenza, che l’elemosina deve essere proporzionata ai beni che si posseggono e alla loro quantità. Avete poche sostanze? Dio da voi pretende una moderata elemosina. Siete invece nell’abbondanza? dovete dar molto. Non crediate di ingannar la coscienza col dare poco quando si è ricevuto moltissimo. Non est eleemosyna pauca largiri (S. AMBROGIO). Noi troviamo danari per il lusso esagerato delle vesti, per i divertimenti, per ogni comodità della vita, e per i poveri e per i bisognosi non troviamo nulla. E spesso le persone più generose non si trovano tra i ricchi, ma tra quegli stessi che hanno meno. Ricordiamoci però che quello che diamo ai poveri e alle opere buone è dato a Cristo, e quello che ai poveri e alle opere buone noi neghiamo, potendo dare, è negato a Cristo. S. Gregorio Magno ad un povero che bussava alla sua porta, non avendo più danaro, regalò un piatto d’argento. Dopo qualche giorno, gli apparve mentr’era seduto a tavola un giovane bellissimo. Lo guardò fisso: era Gesù e teneva nelle mani il suo piatto d’argento. Quando dopo questa vita Cristo apparirà anche a noi, che cosa avrà nelle mani? E se avrà nulla quale scusa balbetteremo? « Ti ho promesso il cielo — dirà — e tu non mi hai dato un pane né un soldo. « Ti ho illuminato col mio sole, ti ho ristorato con la mia acqua, ti ho nutrito con le mie creature e tu m’hai lasciato languire di fame e di sete. « Ti ho dato perfino il mio Corpo e il mio Sangue prezioso e non mi ricompensasti neppure con un bicchier d’acqua ». – 2. UTILITÀ DELL’ELEMOSINA. Qualsiasi precetto del Signore è sempre in nostra utilità. E quanto è più gravoso, tanto è più utile. Quelli, dunque, che non osservano i comandamenti di Dio non fanno i propri interessi, e piangeranno un giorno. Una gentile leggenda indiana dice che un povero era uscito lungo il sentiero del villaggio a mendicare. Ed ecco lo strepito di un cocchio regale sopraggiungere verso di lui. Egli credette che fosse giunto, finalmente, il giorno della sua fortuna. Invece dal cocchio usci una nobile mano che si stese a lui in atto di chiedere: « Che cosa hai da darmi? ». Quale ironia: stendere la mano per chiedere l’elemosina a un povero! Pure, confuso ed esitante, il mendico tirò fuori dalla bisaccia un chicco di grano e glielo diede. Ma quale fu la sua sorpresa quando, finito il giorno, vuotando sul pavimento la bisaccia, trovò nello scarso mucchietto un chicco d’oro! Pianse amaramente ed esclamò: « Perché non ebbi io il cuore di darti tutto il mio possesso? ». Alla sera di questa vita, quando rovesceremo davanti a Dio la bisaccia delle nostre opere per essere giudicati, ci accorgeremo come le mani del povero ci hanno cambiato in oro eterno quello che abbiamo elargito in elemosina. E piangeremo forse, per non aver dato o per aver dato troppo poco. In quattro maniere Dio ricompensa i caritatevoli: Primo: con la remunerazione temporale che è l’abbondanza delle cose. Col Signore è un bel trattare; dà sempre sette volte di più di quel che gli diamo. Da Altissimo, quoniam Dominus retribuens est: et septies reddet tibi (Eccl., XXXV, 12). Secondo: con la remunerazione corporale che è la sanità del corpo. Se facciamo offerte non solo riceveremo l’abbondanza dei frutti ma anche la sanità del corpo. Si decimas dederis non solum abundantiam fructuum recipies sed etiam sanitatem corporis consequeris (S. AGOSTINO). Terzo: con la remunerazione spirituale che è la remissione dei peccati. « Cancella i tuoi peccati con le elemosine » diceva Daniele al re scellerato di Babilonia: Peccata tua eleemosynis redime (IV, 24). Quarto: con la remunerazione eterna che è il paradiso. « Avevo fame e mi sfamaste, avevo sete e mi dissetaste… Venite, benedetti, e possedete il regno dei cieli ch’è vostro ». Venite…, possidete paratum vobis regnum (Mt., XXV, 34). – Mentre conducevano a morte il diacono S. Lorenzo, poiché si sapeva ch’egli era il tesoriere del Vescovo, i soldati cominciarono ad angariarlo per conoscere dove avesse nascosto i suoi tesori. Egli allora chiamò i poveri e disse: « Ecco i miei tesori ». Ed aveva ragione perché tutto quello che si dà ai poveri diventa tesoro nostro per l’eternità. Manus pauperis; gazophylacium Dei (SAN PIER CRISOLOGO). — OLIO E VINO SULLE FERITE. Doveva essere un momento di grande entusiasmo. Ritornavano proprio allora i discepoli mandati a predicare e ciascuno raccontava al Maestro quanto aveva fatto. Gesù stesso si sentiva commosso. Il pensiero delle anime a cui era giunta la buona novella, la vista dei suoi che eran contenti di aver predicato il Suo Regno di amore, gli inondava il cuore di santa letizia. « Beati — esclamò — beati gli occhi che vedono le cose che voi vedete! ». Un uomo, istruito nella legge, che non era però del numero di quei discepoli che avevano lavorato per il bene del prossimo, vedendo il Signore far tanta festa ai suoi, dovette sentire un po’ d’invidia, poiché domandò subito a Gesù: « Ed io per salvare l’anima che debbo fare? ». « La legge cosa dice? ». « Ama Dio con tutte le forze ed il prossimo come te stesso ». « Benissimo! fa così ed avrai la vita ». Per rispondergli bene Gesù raccontò questa parabola del samaritano. Ecco chi è il prossimo e come, in pratica, lo si ama. Per aver la vita eterna bisogna proprio amarlo così. Lo dice chiaramente Gesù nel Vangelo di oggi. Ferite materiali forse ne troveremo poche, ma quanti fratelli, nel cammino della vita, hanno le ferite della sventura e del dolore, hanno le ferite del peccato e dell’errore. Tocca a noi versar sulle prime l’olio che conforta e solleva, versar sulle altre il vino che disinfetta e toglie la corruzione. – 1. CONFORTARE NEL DOLORE. A 24 anni, nel fior della giovinezza, un male strano lo incoglie e lo costringe a letto. Si tratta di qualche cosa di grave e Pier Giorgio Frassati ha la sensazione che l’ultima sua ora è vicina. Ricco di censo, figlio di senatore, alla vigilia della laurea di ingegnere, si vede d’un tratto la morte davanti ma non ha paura: per il giusto la morte non è mai improvvisa. Accorrono i medici, fanno consulto, fan venir da Parigi un siero rarissimo, ma… la sua mente è nei suoi pensieri santi. È venerdì: il giorno dedicato ai suoi poveri che andava a visitare di casa in casa e si ricorda che doveva portare ad una famiglia una scatola di iniezioni. Chiama la sorella che vada nello studio a prendere la sua giacca; trae il portafoglio, ne toglie una polizza e vuole che subito si compri la medicina. Quando gliela portano è tutto raggiante. Invano i suoi cari gli vogliono strappare la penna di mano. Raccoglie le forze e con stento indicibile riesce a scrivere l’indirizzo dei poveri a cui era destinata. Quella mano che sempre si era allargata per fare del bene voleva irrigidirsi in un atto di carità. Aveva lui bisogno di estremi rimedi, eppure pensava non a sé ma agli altri. – In Pier Giorgio però questo atto non era eroismo: era coerenza, nient’altro che coerenza a tutta la sua vita. Aveva capito che fare il Cristiano vuol dire essere degli altri. Per questo gli era sembrato la cosa più naturale far parte alle conferenze di S. Vincenzo per il soccorso ai più poveri; per questo non aveva vergogna a stender la mano; per questo gli pareva un delitto sciupare il denaro. Il Cristianesimo, se è davvero vissuto, vi vuole così. Il ricco è fratello, è ministro del povero. L’uomo deve asciugare le lagrime di colui che piange. Studiate il Vangelo, leggete S. Paolo; vi persuaderete che il Cristianesimo vero è questo. – Gesù Cristo è morto per tutti, ha voluto essere l’amico dei poveri, ha consacrato la sofferenza e il dolore. All’ombra della Croce sorgono gli Ospedali ed i ricoveri pii, si raccolgono gli orfani ed i malati. E noi le comprendiamo queste cose, o di Cristiani non abbiamo che il nome? Quando la morte getta lo schianto in una famiglia non ci assentiamo; facciamoci vedere. Una parola di conforto la dobbiamo sempre dire. Se lungo la strada ci stendono la mano a chiederci un soldo, facciamo volentieri la nostra elemosina. Se la sventura colpisce i nostri fratelli e possiamo dar loro un po’ di sollievo, diamolo subito con tanto cuore. Potremo noi darci ai divertimenti e al lusso, quando vicino alle nostre case, nelle nostre vie, nel nostro paese ci sono di quelli che piangono e non hanno il necessario? Non ama Cristo chi non ama i poveri e quelli che soffrono! – 2. CORREGGERE DELL’ERRORE. Pietro e Giovanni ascendevano al Tempio nell’ora della preghiera. Sulla porta Speciosa trovarono un Uomo che era storpio fin dalla nascita. Tutti i giorni lo mettevano là perché, stendendo la mano, raccogliesse il necessario per vivere. Sentirono, gli Apostoli, una gran compassione, e Pietro avvicinandolo disse « Senti: non ho né oro né argento. Ti do quanto posso: In Nome di Gesù di Nazaret sorgi e cammina ». E presagli la destra lo sollevò da terra tutto risanato. Contento come mai era stato, entrò con essi nel Tempio a lodare il Signore. Ci sono di quelli che non hanno bisogno d’argento e d’oro, ma di qualche cosa di assai più importante. Sono incapaci di muovere un passo nella vita del bene perché si trovano avvolti nella colpa. Hanno difetti che potrebbero correggere, ma perché non c’è nessuno che sa loro parlare, menano una vita che è senza gusto. Sono… alla porta del Tempio, cioè con poco potrebbero amare il Signore di più ed invece sono sempre allo stesso luogo: ci vuole qualcuno che dia loro una spinta e li faccia rialzare. Perché a queste anime non possiamo dire una parola di dolce rimprovero o di ammonizione fraterna? Se uno, per isbaglio, portasse il mantello rovesciato od avesse sul volto una macchia, non è forse creanza renderlo avvisato? Quando dunque un fratello sbaglia noi dovremmo correggerlo in bella maniera, fargli capire il male che ha fatto. Invece troppe volte gli si mormora dietro le spalle e si propalano i suoi difetti ai quattro venti. Che dire poi se i genitori od i superiori che hanno l’obbligo grave di correggere i figli e i dipendenti diventassero « cani muti che non sanno latrare? ». Sventure a loro perché dovranno rendere a Dio uno strettissimo conto. Che anche un’anima sola si perda per nostra colpa è tale un pensiero da farci tremare. – Un giorno, al convento di S. Benedetto, si presentò un povero a chiedere per carità un po’ di olio. Il frate portinaio si lasciò prendere dall’avarizia e con una bugia rispose che di olio in convento non ce n’era più: le anfore erano vuote. Di lì a pochi giorni lo seppe l’Abate e andato in cucina buttò giù dalla finestra tutto l’olio che ancor rimaneva. Se i nostri fratelli hanno bisogno dell’olio del conforto o del vino della correzione diamolo sempre e per amore di Cristo soltanto. Se facessimo l’avaro il Signore ci potrebbe castigare.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Exod XXXII: 11;13;14

Precátus est Moyses in conspéctu Dómini, Dei sui, et dixit: Quare, Dómine, irascéris in pópulo tuo? Parce iræ ánimæ tuæ: meménto Abraham, Isaac et Jacob, quibus jurásti dare terram fluéntem lac et mel. Et placátus factus est Dóminus de malignitáte, quam dixit fácere pópulo suo.

[Mosè pregò in presenza del Signore Dio suo, e disse: Perché, o Signore, sei adirato col tuo popolo? Calma la tua ira, ricordati di Abramo, Isacco e Giacobbe, ai quali hai giurato di dare la terra ove scorre latte e miele. E, placato, il Signore si astenne dai castighi che aveva minacciato al popolo suo.]

Secreta

Hóstias, quǽsumus, Dómine, propítius inténde, quas sacris altáribus exhibémus: ut, nobis indulgéntiam largiéndo, tuo nómini dent honórem.

[O Signore, Te ne preghiamo, guarda propizio alle oblazioni che Ti presentiamo sul sacro altare, affinché a noi ottengano il tuo perdono, e al tuo nome diano gloria.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.


Communis
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessione dicéntes

(È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode:)

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CIII: 13; 14-15

De fructu óperum tuórum, Dómine, satiábitur terra: ut edúcas panem de terra, et vinum lætíficet cor hóminis: ut exhílaret fáciem in oleo, et panis cor hóminis confírmet.

[Mediante la tua potenza, impingua, o Signore, la terra, affinché produca il pane, e il vino che rallegra il cuore dell’uomo: cosí che abbia olio con che ungersi la faccia e pane che sostenti il suo vigore.]

 Postcommunio

Orémus.
Vivíficet nos, quǽsumus, Dómine, hujus participátio sancta mystérii: et páriter nobis expiatiónem tríbuat et múnimen.

[O Signore, Te ne preghiamo, fa che la santa partecipazione di questo mistero ci vivifichi, e al tempo stesso ci perdoni e protegga.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA