IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (13)
FRANCESCO OLGIATI,
IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.
Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.
Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.
Capitolo QUINTO (2)
II. – IL CRISTIANO E L’EGOISMO DEI SENSI
Ricorda Giosuè Carducci nelle sue Prose che « gli abitanti d’una città greca, alla rappresentazione d’un dramma d’Euripide, invasi di sacro entusiasmo, deliraron tre giorni, tre giorni aggiraronsi per la città ricantando i versi del coro, che celebrava la potenza d’amore ». Non tre giorni, ma 365 giorni all’anno, e 366 negli anni bisestili, mi pare che in questo mondo si celebri la potenza di amore. Parlano forse e pensano ad altro gli uomini? si chiede il Gratry nella Connaissance de l’ame. Di che discorre la giovinezza e che cosa rimpiangono i vecchi? aggiunge Bossuet. Si entri in un teatro. Drammi, tragedie, commedie, persino le farse, sono tutte intessute con un identico filo. Si visiti un cinema, uno dei molti cinema che nelle città e nei paesi sono rigurgitanti di folle avide. Quando non è una scena di furto, è uno spettacolo più o meno immorale, che attira la gente, la incatena, la soggioga. Si passeggi in una strada, o si entri in un salotto. La moda con le sue stranezze e con le sue impudenze; i balli coi loro capricci e con le diverse novità; le edicole dei giornalai con le riviste, le pubblicazioni ed i romanzi a dispensa; i discorsi con frasi a doppio senso, attestano sempre il medesimo fenomeno. Quante copie si venderebbero dei romanzi moderni, se non trattassero d’amore e non fossero espressioni di lussuria?… Ovunque gli appelli del piacere si alzano, in mille toni, con mille sfumature. Tutto ormai sembra divenuto lecito. La figliola disgraziata, che nell’aprile dei suoi anni ha distrutto la sua primavera; le povere creature del peccato, che portano sul volto lo stigma della colpa; il giovanotto libertino, incapace di arrossire o dimentico d’ogni più elementare rispetto che dovrebbe a sé ed agli altri, sono fatti così frequenti, che quasi più non sorprendono. Anzi, come diceva Lacordaire nelle sue Conférences de Notre Dame, un omicida è riprovato dal mondo; ma il profanatore dei giuramenti più santi, il violatore del santuario domestico, l’adultero passa a fronte alta e viene riverito. Guardo alla letteratura ed alla storia. Giovanni Boccaccio, scapolo e nemico dell’amore regolato, s’avanza con spensierata giovialità. Mentre Dante unisce il mondo sacro e profano per spiritualizzare quest’ultimo, egli sbattezza tutto l’universo e tutto materializza. Il suo Decamerone, ben fu scritto, è la nuova Commedia, non la divina, ma la umana Commedia. Il mondo dello spirito se ne va; viene il mondo cinico e malizioso della carne; e l’Italia lo segue. La dissolutezza, che anticamente aveva templi e sacerdoti, dilaga; le vecchie divinità, incarnazioni del vizio, e le vecchie infamie risorgono, avvolte nei veli dell’arte e nel fascino della bellezza; la corruzione penetra ovunque, anche nel santuario e tutto profana: bianche vesti di Papi, porpore di Cardinali, mitre di Vescovi, anime di preti e di vergini sono macchiate di fango, fra lo sghignazzare osceno dell’incoscienza e gli splendori abbaglianti della superficialità. La storia si sarebbe svolta ben diversamente, se la cosiddetta « potenza d’amore » troppo spesso non ne avesse avuto nelle mani le redini. Se Lutero non ne fosse stato dominato, ci avrebbe portato un’altra Riforma, non certamente quella che si ispirò al programma del « crede firmiter et pecca fortiter » e che lo condusse non solo al suo, ma al « matrimonio universale », per usare l’ironica frase di Erasmo. La faccia attuale d’Europa non sarebbe quella che è, se i Riformatori fossero stati padroni dei loro sensi ed avessero inculcato a tutti il dominio delle proprie passioni. Il Maomettanesimo non esisterebbe più, se non avesse annientato la legge morale, lasciando libero sfogo agli istinti brutali. E, senza soffermarsi sulla storia, credo che da nessuno sarà messo in dubbio che la vita individuale di moltissime persone avrebbe avuto un orientamento diverso dal presente ed una differente fisionomia, se una.., malattia di cuore non le avesse tormentate. – Il contrasto tra la morale cristiana e la vita non mai si fa così stridente, come su questo terreno. Un rimprovero, un’accusa, una condanna vengono scagliati, come frecce contro l’etica del Vangelo: « Voi, ci si dice, siete i fautori d’una esistenza malinconica e tetra, senza gioia. Siete i nemici della vita… Ci parlate continuamente di sacrificio, di rinnegazione, di morte. Oh, lasciateci amare! Noi vogliamo l’amore ». – Un’altra battaglia dev’essere, dunque, da noi contemplata. Ognuno la può trovare in sé, prima ancora, e più ancora che nel mondo. E la lotta diventa accanita e feroce, specialmente perché le due bandiere portano scritto nelle loro pieghe la stessa parola programmatica: Amore. Bisogna scegliere; bisogna decidere. Dov’è il vero amore?
1. – Il gregge d’Epicuro e l’amore.
Il gregge d’Epicuro ciancia d’amore, ma non ama. La sacra parola ricopre solo l’egoismo furioso dei sensi. Non l’affetto per un altro essere, ma il proprio piacere, ma il proprio godimento, ma la propria soddisfazione qui impera e comanda, sacrifica e calpesta, danza ed irride. Io non ho giammai incontrato anime che sapessero veramente amare, fra i dissoluti, esclamava un giorno nella cattedrale di Parigi Lacordaire: « Quando, infatti, ci si abitua alle emozioni violente, come volete che il cuore, pianta così delicata che si nutre di qualche goccia di rugiada caduta qua e là dal cielo per lui; che si scuote ad un leggero soffio, che è felice per giorni interi al ricordo d’una parola detta, d’uno sguardo lanciato, d’un incoraggiamento dato dalle labbra d’una madre o dalla mano d’un amico; il cuore, il cui battito è così calmo nella sua vera natura, quasi insensibile a cagione della sua stessa sensibilità e per paura che si sarebbe spezzato ad una sola goccia di amore, se Dio l’avesse fatto meno profondo; come mai, dico, volete voi che il cuore opponga le sue dolci gioie delicate al godimento grossolano ed esagerato del senso depravato? Questo è egoista: il cuore è generoso. L’uno vive di sé; l’altro fuori di sé; e tra queste due tendenze, una deve prevalere. Se il senso depravato vince, il cuore avvizzisce a poco a poco, non sente più la forza delle gioie semplici, non va verso altri, e finisce per non battere più se non per dare il suo corso al sangue e per segnare le ore d’un tempo ignominioso, del quale la dissolutezza precipita la fuga. E cosa v’è di più abbietto dell’uccidere il cuore nell’uomo? Che resta dell’uomo, quando il suo cuore non vive più? ». Il gregge d’Epicuro non sa amare. Il cuore, per dirla con una forte espressione biblica, diventa cenere. « Le risorse dell’amore elevato, nota il Gratry, le poesie dell’adolescenza pronte a sbocciare, gli entusiasmi della giovinezza, il senso dell’infinito, le forze future della ragione virile, la sapienza promessa all’autunno della vita, tutto è perduto anticipatamente… Quest’uomo si suicida ». – Che importa a lui l’abbrutimento nauseante, la rovina della sua anima, le viltà che per avvoltolarsi nel fango bisogna compiere, le malattie che contrae, le conseguenze in genere che nella intelligenza, nella volontà, nell’organismo sono gli effetti tristi della caduta? Il mortale egoismo del senso perverso è il suo Dio ed il suo tiranno: a parole ama; in realtà vuol godere, brutalmente, animalescamente. Si avvicina, è vero, ad un’altra creatura; nasconde il suo egoismo sotto il gesto dell’amore e sotto promessa della fedeltà; poi passata l’ora dell’ebbrezza folle, va, abbandona, tradisce, in cerca di altre soddisfazioni egoistiche, sempre nascoste sotto le bugiarde dichiarazioni dell’amore. Nel gregge d’Epicuro non si ama. Osservatela la signorina moderna, alla caccia del marito. Uno qualsiasi, purché venga, purché domani la vita sia bella e piacevole e si possa godere!… E tutte le reti tese, e tutti i lacci posti qua e colà sapientemente distribuiti, e tutte le debolezze volute ed incoraggiate, e le abdicazioni anche al senso più elementare della propria dignità e del pudore, e tutti gli episodi che si succedono finché « si è trovato il merlo », son battezzati col nome dell’amore! Guardate il giovanotto moderno, che assicura di voler amare. Egli s’incretinisce nel vizio; il centro dei suoi sentimenti, delle sue preoccupazioni, dei suoi discorsi è il godimento egoistico. Beve, dirò ancora col Gratry, i veleni mortali che la natura mescola alle sue gioie colpevoli, senza pensare alla futura famiglia, ma pensando solo a sé ed alla sua soddisfazione. Che gl’importa dei contagi velenosi e delle loro tracce indelebili, trasmissibili per eredità? Questi lebbrosi della dissolutezza, che restano segnati con piaghe vive o con cicatrici sempre terribili, portano poi, con la perfida impudenza dell’egoismo, una simile loro dote in dono alla fidanzata verginale ed in eredità imprevista ai figli. E tutto questo lo chiamano amore! Vigliacchi! E chi potrà far credere che, in nome dell’amore, le grandi nazioni hanno introdotto nelle loro leggi il divorzio? La donna, dopo qualche anno di matrimonio, la si butta via, come un limone spremuto; ed il problema dei figli lo si risolve in qualche modo. Mentre si mormora che il nemico della donna e dell’amore è il Cristianesimo, senza posa la voluttà criminale va alla ricerca di nuovi calici, ai quali spegnere la sete inestinguibile dell’egoismo più abbietto. Il gregge d’Epicuro non sa amare. Se qualcuno non è convinto, vada e scriva la parola profanata dell’amore sulle case del disordine… Mai si è così poco amato come ai giorni nostri e mai così scarso è stato il sorriso della pace e della gioia: l’egoismo dei sensi ha come ineluttabile conseguenza la « tristezza atroce della carne immonda ». Invece della vita, si ha l’abisso della morte. Se l’autore del Decamerone, dinanzi al frate inviatogli dal certosino Piero Petroni, si pentì della sua vita dissoluta, si commosse, si spaventò, si convertì; mille e mille altri, anche se non ritornano al Cuore dell’Unico che sa e dona l’Amore, al termine della loro vita, debbono confessare a se stessi le disillusioni più gravi ed il disgusto più amaro; è la disfatta completa non dell’amore ma dell’egoismo.
2. – La morale cattolica e l’amore.
Esponiamo, ora, i principi della morale cattolica, con esattezza, con precisione, con la tranquilla serenità della ragione e della fede, che nulla hanno a che fare con la torbida irrequietezza del senso e della passione.
1. Iddio tutto crea santamente. E tutto è razionale nell’organicità del tutto. La natura tende sempre ad un fine giusto, determinato ed efficace. Anche gli istinti del senso, perciò, non sono da riguardarsi in sè come un male. Il male, come diremo, dipende dall’abuso che noi possiamo fare, dopo che la colpa originale ha rotto la subordinazione del senso alla ragione, cosicché tale subordinazione è oggi non una dolce necessità, ma il risultato d’uno sforzo e d’una personale vittoria. Perché mai Dio permette che noi sentiamo così fortemente il fremito della carne? Perché, anche in anime sante e nobili, abbondano « le tentazioni » e la fantasia diventa una piazza, dove pensieri, immaginazioni, desideri cattivi si rincorrono e s’avvicendano? Perché persino un san Paolo deve esclamare: « Sento un’altra legge nelle mie membra, che ripugna alla legge della mia coscienza »? Perché nel deserto della Calcide ed a Betlemme vediamo un san Gerolamo, con un sasso tra le mani, che si batte il petto e cerca di allontanare da sé i ricordi osceni di Roma, in parte ancora pagana? Perché san Benedetto ed il Santo d’Assisi si gettano nudi fra le spine, ed insanguinano le loro carni pure? La ragione è semplicissima. Dio ha posto in noi queste tendenze, per indurre l’uomo e la donna alla costituzione della famiglia. Ciò che noi chiamiamo l’ « istinto », ciò anche che suscita nella mente della fanciulla sogni e speranze, ciò che fa commuovere un’anima giovanile dinanzi ad una culla ed alla poesia dei riccioli biondi, è questa forza, che spinge l’umanità alla sua conservazione. – L’importanza della famiglia per la società corrisponde ai sacrifici che essa costa. La procreazione e l’educazione dei figli, fine primario ed essenziale della famiglia, è un compito nobilissimo, ma ricchissimo di responsabilità, di dolori, di abnegazioni. Si rifletta un istante all’abnegazione d’una mamma… Noi potremo ridere dinanzi ad una qualsiasi signorina, soprattutto se ha i capelli alla bébé e se si presenta a noi dopo una laboriosa toilette con un viso imbellettato; ma non ridiamo mai, non possiamo ridere dinanzi ad una mamma. La mamma è qualcosa di grande e di sacro. Non si dica che il Cristianesimo è nemico della donna. Una Vergine Madre rifulge in alto e proclama da un lato la grandezza della maternità e dall’altro la bellezza della verginità. Certo, per noi, la donna è la figlia, è la sorella, è la madre; non è un essere anfibio, più o meno mascolinizzato, che non sa più quale segreto scoprire per diventare ridicolo; non è la sciagurata che dimentica di avere un’anima, per vendere, magari anche in una forma elegante e perciò più obbrobriosa, la sua dignità. La vera donna, cioè, andiamo a cercarla nel focolare domestico, non nella Dea Ragione della Rivoluzione francese e nelle altre sue seguaci.
2. Di tutto, però, noi possiamo abusare, specialmente quando si tratta di questi sensi nostri, che, invece di essere un mezzo, tendono a diventare fine a se stessi. Come il bisogno della nutrizione è ragionevole e necessario per la conservazione dell’individuo, ma produrrebbe mille mali quando noi non mangiassimo per vivere, ma vivessimo per mangiare, così l’istinto dei sensi nostri ci conduce ad una serie di disastri, quando non viene riguardato come un mezzo — ragionevole e necessario — per il fine altissimo della famiglia e per la conservazione della società, ma quando, al contrario, anela ad una soddisfazione indipendente da ogni bene che gli conferisce l’utilità e la santità. E come l’abuso della gola sregolata, invece che alla nutrizione ed alla vita, incammina verso la malattia e la morte, così questa ammirabile facoltà può sviluppare in noi un uragano, o, per dirla col libro di Giobbe, un fuoco che tutto consuma, e che brucia la vita in tutti i suoi germi ed in tutte le sue radici.
Che il Cristianesimo giustamente combatta questo abuso, bisogna esser ciechi per non ammetterlo. « Non avete voi incontrato, vi chiede Lacordaire, qualcuno di quegli uomini, che sul fiore dell’età, appena onorati dai segni della virilità, portano già le ferite del tempo; che, degenerati prima d’aver raggiunto lo sviluppo totale dell’essere, con la fronte carica di rughe precoci, con gli occhi incerti ed infossati, con le labbra impotenti ad esprimere la bontà, trascinano sotto un sole sempre giovane una esistenza caduca? Chi ha fatto questi cadaveri? Chi ha colpito questo figliuolo? Chi gli ha rubato la freschezza dei suoi anni? Chi ha posto sul suo volto secoli di vergogne? Non è forse questo senso, nemico della vita degli uomini? Vittima della sua depravazione, il disgraziato ha vissuto solitario, non ha aspirato se non a scosse egoiste ed a spaventevoli pulsazioni, che l’uomo o il cielo non vogliono vedere; ed eccolo, se ne va, inebbriato dal vino della morte e con passo sprezzante, a portare il suo corpo alla tomba, ove i suoi vizi dormiranno con lui e disonoreranno la sua cenere sino all’ultimo dei giorni ». L’egoismo dei sensi non si ferma a queste devastazioni. S’aggiungono, come abbiamo già accennato, le depravazioni del cuore; il dispotismo ignobile, che la passione esercita sopra le sue vittime; i misfatti che la gioia omicida della gioventù esige e reclama; e sono matrimoni infelici; son le famiglie senza figli; son le patrie spopolate, tremanti dinanzi alle case che non il sorriso dei bimbi, ma solo conoscono i calcoli piccini dell’egoismo e preparano i tramonti delle nazioni. – Ripeto: bisogna esser folli, per non approvare la morale cristiana nei suoi sforzi contro questa fiumana di fango e di danni. Bisogna esser pazzi per non scorgere come non vi siano che due vie: o le conseguenze descritte, ovvero l’intransigenza assoluta: ogni pensiero, ogni sentimento, ogni affetto, ogni desiderio, ogni lettura, ogni sguardo, ogni azione che non è nell’ordine, debbono essere respinti inesorabilmente. Illudersi di venir a transazioni in questo campo, sarebbe come pretendere di gettarsi sì dall’alto della montagna nel precipizio, ma di fermarsi poi dopo due metri. O si sta sulle altezze, o si cade in fondo. La realtà, del resto, ce lo insegna con la sua logica schiacciante.
3. Solo con tale intransigenza l’amore vero nasce, sboccia, si sviluppa, è fecondo e diventa virtù. Qui, contro il Boccaccio sorge Alessandro Manzoni; e di fronte al Decamerone salutiamo i Promessi Sposi e la pagina immortale dell’addio ai monti di Lucia, in cui si enuncia la tesi cristiana. Gli altari di Dio non sono la condanna dell’amore, ma ne sono la consacrazione: è là dove « il sospiro segreto del cuore » è « solennemente benedetto. e l’amore viene « comandato » ed è chiamato « santo ». – Cos’è la famiglia per noi? Un affetto gentile, che si apre come il calice d’un fiore nella primavera d’una giovinezza buona e che è reso santo dalla rugiada di Dio; due anime, che si donano l’una all’altra per l’eternità, con l’unica parola consentita dall’amore vero, ossia con un sì eterno; due cuori, consapevoli che nella vita non v’è solo esultanza di festa e sereno di allegrezza, ma non mancano sacrifici e dolori, e che per esser fedeli alla severa poesia del dovere si stringono le destre e nel nome del Signore procedono verso l’avvenire; la fecondità dell’unione, coi teneri esseri, splendido coronamento dell’amore; una casa, cioè, resa bella da pampini verdi e dalla gioia dei figli, simili a rampolli d’ulivo intorno alla mensa; tutto questo, nello stesso ordine naturale, fa del matrimonio e della famiglia qualcosa di sacro e di ineffabilmente grande. Gesù, poi, suggellando il matrimonio col dono soprannaturale e la spirituale aureola d’un Sacramento, sublimandolo dal mondo della natura al mondo della grazia e rendendolo simbolo delle Sue mistiche nozze con la Chiesa, conferì alla famiglia una nuova e divina bellezza; il Vangelo, le Epistole paoline, così luminose e limpide, tutta la tradizione cattolica di venti secoli, ce lo rammentano. – Cos’è la famiglia per noi? Ce lo ha detto Enrichetta Blondel, quando un giorno nella villa di Brusuglio mostrò al suo Alessandro, che tanto amava la moglie sua, due virgulti, da lei piantati ed attorcigliati insieme, sussurrando soavemente al poeta lombardo: « Vedi? Questi due virgulti rappresentano i nostri due cuori insieme uniti ». Il Manzoni allora pianse e volle che là intorno si facesse un’aiola, non più dimenticata. E con lui s’intenerisce ogni nobile anima. – Cos’è la famiglia cristiana per noi? Essa è chiamata a concorrere all’opera creatrice di Dio, a plasmare le coscienze, a popolare il paradiso. Da essa zampillano le acque rinnovatrici della società. Da essa tanto si attende la patria, perchè, come ha notato il Bismarck, la grandezza delle nazioni riposa sulle ginocchia delle madri. E solo con la rinnovazione di questa cellula sociale potranno prepararsi le glorie future della Chiesa santa di Cristo. In una graziosissima poesia intitolata Les deux anges gardiens, Federico Ozanam esprimeva le sue idee a proposito della famiglia: due angeli, che erano sempre stati amici in cielo, domandano a Dio di amarsi anche in terra a fianco di due giovani, che si giurano fede di sposi. E quando la sua casa fu allietata dalla nascita della prima bambina, così egli ne dava l’annuncio al Foisset: « Avevamo pregato assai, e preghiamo anche ora, perchè mai come adesso abbiamo avuto bisogno dell’assistenza divina. Siamo stati esauditi oltre ogni nostra speranza. Ah, che momento fu quello in cui intesi il primo vagito della mia creatura, quando vidi quella creaturina, così piccola eppure immortale, che Dio affidava alle mie mani, che mi apportava tanta consolazione ed insieme tanti obblighi! Le abbiamo dato il nome di Maria, che era quello di mia madre e in memoria della possente Patrona, all’intercessione della quale noi attribuiamo questa nascita fortunata. Ora la madre, quasi del tutto ristabilita, ha la consolazione di dare il latte alla bambina; e questo è un piacere molto costoso, ma pieno di soddisfazioni. In tal modo non perderemo i sorrisi del nostro angioletto e potremo incominciare tosto l’educazione. Frattanto rifaremo da capo la nostra, perché credo che il Cielo ce l’abbia mandata per insegnarci molto e per renderci migliori. Io non posso contemplare quella dolce figura, piena di innocenza e di purezza, senza scorgervi la sacra immagine del Creatore meno velata che in noi. Non posso pensare a quest’anima immortale di cui dovrò un giorno render conto, senza che mi senta maggiormente penetrato dei miei doveri. Come, infatti, potrei insegnarle ciò che io non pratico per il primo? Poteva Iddio scegliere un mezzo più amabile per istruirmi, per correggermi, per mettermi sul cammino del Cielo? – Solo nella concezione cristiana l’amore non è parola vuota di senso, non è una menzogna, non è ad ogni istante turbato da temporali e da nubi. Dove si pratica la morale di Cristo, si ama. Anche quando insieme si piange, il raggio di sole conforta, abbellisce, santifica la lagrima umana. E la stessa purezza giovanile, l’illibato candore dell’animo, e non solo dei sensi, è in relazione all’amore della futura famiglia. Nessuno, come la giovane anima pura, conosce l’intensità e la freschezza dell’affetto. In questo amore cristiano palpita senza dubbio l’amore di Dio; ma non è ancora la vetta più alta dell’amore. Qui si va a Dio attraverso l’amore di una creatura quantunque si tratti d’un amore casto, nobile, giusto, subordinato a Dio. – Tale potenza d’amore si può sublimare; si può anche in questo caso, morire ai sensi, per vivere d’un amore perfetto nello spirito. È il consiglio evangelico della verginità. Nella sua intima natura, la verginità non implica solo la assenza di ogni macchia che possa offuscare il candore; anche un tavolo non commette nessun peccato, eppure nessuno discorrerà della verginità del legno. Dire verginità è dire amore, ed amore perfetto di Dio, in quanto l’anima verginale con fedeltà e con generosità consacra tutto il suo essere, anima e corpo, e tutte le fibre del suo cuore, tutto il suo affetto a Gesù Cristo. « L’uomo animale non percepisce le cose che sono proprie dello Spirito di Dio », avverte san Paolo. Nè, quindi, c’è da stupirsi se il mondo non sospetti neppure questa riduzione del concetto di verginità al concetto di amore perfetto. Eppure in quel gioiello di poesia ispirata che è il Cantico dei cantici l’idea è enunciata ad ogni parola con vigore impareggiabile: Il mio Diletto è sceso nel suo giardino fra le aiuole di balsamo a pascersi tra i giardini, a cogliere gigli. Io sono del mio Diletto ed Egli è mio: Lui, che si pasce fra i gigli. Potente al par della morte è l’amore. I suoi sprazzi son sprazzi di fuoco. Le sue fiamme, fiamme divine. È essenzialmente diversa la verginità materialmente conservata d’una Vestale pagana e la verginità cristiana, vivificata dall’Amore divino. Ed è per questo che, dai primi decenni del Cristianesimo nascente ai giorni nostri, fu la verginità che scrisse nella storia della Chiesa le pagine più fulgide di amore a Cristobed ai fratelli. Il grido di Agnese, il canto di Cecilia, il velo di Marcellina ce lo assicurano; ce lo dicono i candidi eserciti verginali che san Vincenzo de’ Paoli ed altri Ordini religiosi hanno disperso negli asili del dolore, nelle corsie degli ospedali, fra le tetre mura d’un carcere, in tutte le case che raccolgono orfani, vecchi, derelitti, bisognosi. Le anime verginali sanno amare; sanno sacrificarsi, affrontano le imprese più difficili, superano gli ostacoli più gravi, salvano le anime, beneficano i corpi, asciugano lagrime, dànno ali a tutti per i voli della fede e dell’amore. Per ogni miseria del mondo, è stato ben detto, la morale cristiana ha preparato una verginità che ne doveva essere la madre e la sorella. – Cos’è una vocazione alla verginità? È una vocazione ad amare. La verginità cristiana, perciò, è feconda e non la si può concepire senza una famiglia; la famiglia infinitamente più grande e più bella della famiglia naturale, la sacra famiglia delle anime. – Ai giovani, che aspirano al sacerdozio, la Chiesa comanda di amare. Debbono rinnegare se stessi, far tacere il grido dei sensi, mortificarsi, per amore dei fratelli. Viene un giorno, ha cantato Lacordaire, che la Chiesa prende questa giovinezza ardente e la getta bocconi per terra nelle sue basiliche: « Ed andranno poi, andranno questi giovani per tutto il mondo, sotto la guardia della loro virtù; penetreranno nel santuario dei santuari, quello delle anime; ascolteranno confidenze terribili: vedranno tutto, sapranno tutto; mille tempeste passeranno sul loro cuore. Questo cuore resterà di fuoco per la carità, di granitonper la castità. È a questo segno che i popoli riconoscerannonil prete ». Ecco, quindi, la spiegazione del sacerdote, del missionario cattolico, delle Suore di carità, di ogni Ordine, di ogni Congregazione e di ogni Famiglia religiosa, sia che si dedichi ad un’intensa attività quotidiana, sia che si consacri alla contemplazione. La verginità e l’apostolato son sempre congiunti, appunto perchè la verginità è amore. Il divino fascinatore delle giovani coscienze verginali, che è venuto sulla terra a predicare l’Amore, non per nulla si è circondato di gigli. Il « figlio della Verginità », come l’ha salutato san Bernardo, che volle anime verginali come Madre, come Padre putativo, come precursore, come discepolo prediletto, sempre, in ogni tempo, ha rivolto il suo appello ad una schiera di puri e di forti, dagli occhi sfavillanti di luce, pronti alle dedizioni totali per l’amore di Dio e per l’amore del prossimo. «Dunque, si domanda Cesare Angelini nei suoi Commenti alle cose con animo di poeta, ancora nascono gigli su questa terra, ove i figli degli uomini han rinunciatona ogni candidezza per un gusto di fragile peccato?… Ogni volta che gli Angeli e i Santi han fatto le loro comparse (rade!) fra noi, non han scelto altro bastone che il giglio per appoggiarsi nel loro andare terreno. Così, esso risplende in lor diafane mani, nelle tele immortali dei pittori. E che senso di eterna frescura dà all’anima e all’occhio che lo vagheggia! Par di sentir in lontananza non so che aria di Paradiso. – « Intanto noi abbiamo il dono di saperci incantare innanzi al giglio vero e alla sua immagine perfetta. Snello, elegante come un candeliere di argento che il cesello di Benvenuto non seppe mai atteggiar così bene, il giglio ride sul popolo dei fiori che, sospendendo la loro conversazione, gli fanno festa, estatici; poichè, se anche hanno gala di colori per la meraviglia degli occhi, riconoscono che il bianco del giglio non è più colore, ma è luce.
Di candor lucidoso
riluce la sua vesta.
a Poteva il Bianco da Siena prestarci due versi più belli per salutare la creatura del divino biancore? Pur nel nome è qualcosa che diletta. Giglio è parola che ride tutta, tant’è ricca di suoni limpidi e sottili. Giglio è un nome perlaceo, anzi, è già una perla trovata in certi gentili giardini del cielo e lasciata cadere in dono, ma per breve stagione, sulla terra… ». Ed il poeta si rivolge ai gigli e dice loro: « Gigli, che vi innalzate limpidi e quasi gloriosi della vostra castità gentile, ad ammonirmi, con la forza del simbolo, che il casto è il vittorioso del mondo e la sua aria è quella del vincitore; gigli, che tornate a fiorire alti e lontani forse per dirmi che tutto ciò che nasce di terra deve dare un fiore per il cielo, e insegnarmi che la carne non è la vera ricchezza della vita, ma è un peso, e la sola ricchezza è lo spirito che s’eleva al cielo; gigli, nostalgie di immacolatezze perdute, perchè richiamate alla memoria con un misto di tenerezza e di accoramento i versi di Saffo: “Verginità, verginità, dove sei mai fuggita? “. Questi versi non sono la parola definitiva della storia. Il fango ci circonda, è vero; ma ogni volta che Cristo nella storia risorge, sorridono nuove fiorite di gigli, in cui « nel pudor del prepuscolo » sbocciano i gigli delle anime verginali. Sempre, finchè il sole rifulgerà nel cielo, « soccorrendo due gocce di rugiada, i bei petali lisci si disinvolgeranno con grazioso scompiglio e guarderanno, estatici e meravigliati d’essere fioriti così bianchi su dalla terra così nera. E poichè i petali son puri, tutto lo stelo sarà limpido e puro. Il paese d’intorno resterà preso nell’incanto e nell’ebbrezza di quel loro fulgore spalancato e di quella fragranza che è passione e vibrazione… ». E sempre, fra i gigli, passeggerà vittorioso il Re dell’Amore.
3. – Conclusione.
Rileggiamo, insieme, alcuni versi dell’Odissea, al canto decimo. Omero racconta le avventure d’un gruppo di compagni di Ulisse, che Circe mutò in animali immondi:
Edificata con lucenti pietre
Di Circe ad essi la magion s’offerse,
Che vagheggiava una feconda valle.
Montani lupi e leon falbi, ch’ella
Mansuefatti aveva con sue bevande,
Stavano a guardia del palagio eccelso.
Né lor già s’avventavano: ma invece
Lusingando scotean le lunghe code,
E sull’anche s’ergeano. E quale i cani
Blandiscon il signor, che dalla mensa
Si leva, e ghiotti bocconcelli ha in mano,
Tal quelle di forte unghia orride belve
Gli ospiti nuovi, che smarriti al primo
Vederle s’arretriro, van blandendo.
Giunti alle porte, la deessa udiro
Dai ben torti capei, Circe, che dentro
Canterellava con leggiadra voce,
Ed un’ampia tessea, lucida, fina,
Meravigliosa, immortal tela, e quale
Dalle man delle dive uscir può solo.
Polite allor, d’uomini capo, e molto
Più caro e in pregio a me, che gli altri tutti
Sciogliea tai detti: — Amici, in queste mura
Soggiorna, io non so ben se donna o diva,
Che tele oprando, del suo dolce canto
Tutta fa risentir la casa intorno.
Voce mandiamo a lei. — Disse, e a lei voce
Mandaro: e Circe di là tosto, ov’era,
Levossi, e aprì le luminose porte,
e ad entrare invitavali. In un gruppo
La seguian tutti incautamente, salvo
Euriloco, che fuor, di qualche inganno
Sospettando, restò. La Dea li pose
Sovra splendidi seggi: e lor mescea
Il pramnio vino con rappreso latte,
Bianca farina e mel recente: e un succo
Giungeavi esizial, perchè con questo
Della patria l’oblio ciascun bevesse.
Preso e votato dai meschini il nappo,
Circe batteali d’una verga, e in vile
Stalla chiudeali: avean di porco testa,
Corpo, setole, voce: ma lo spirito
Serbavan dentro, qual da prima, integro.
Veramente, era superfluo che ci soffermassimo su questa scena. In ogni tempo, il gregge d’Epicuro è così numeroso, che non val la pena di disturbare Omero. Apriamo, piuttosto, il Vangelo: ad una festa nuziale, a Cana di Galilea, Gesù compie il suo primo miracolo e santifica l’amore dei giovani sposi. La famiglia è a Lui cara; Egli va, visita, porta gioia e salvezza, in una parola, benedice e sublima l’amore. Il mondo non dev’esser un’immensa stalla di Circe. L’amore deve trionfare nelle case, come pur deve sorridere sulle alte cime, ricoperte di bianca neve.
IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (14)