IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (11)
FRANCESCO OLGIATI,
IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.
Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.
Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.
Capitolo QUARTO (3)
L’AMORE NEL SACRIFICIO
III – LA FORMAZIONE DELLA VOLONTÀ AL SACRIFICIO.
Il programma del sacrificio è duro; e tutti i tentativi ideati dalla fragilità umana per mutare la rozza croce del Golgota, chiazzata di sangue, in graziosi ed artistici crocefissi d’avorio, con sfondo di velluto, sono sempre falliti. L’educazione morale, perciò, consiste nello sforzo di allenare gli spiriti al sacrificio. Si è tanto meglio preparatinalla vita e tanto meglio si vive, quanto più si è capaci di nobili e sante abnegazioni. Una simile formazione alcuni si illusero di raggiungerla rivolgendosi alla mente umana. Senza discutere quale sia l’importanza storica della teoria di Socrate, che riduceva la virtù a conoscenza e la malvagità ad ignoranza; senza voler seguire nella storia della filosofia la corrente intellettualistica e la volontaristica a proposito della identità o della distinzione in morale della pratica dalla teoria, abbiamo nell’epoca moderna Benedetto Spinoza, che nel suo scritto De emendatione intellectus affidò alla conoscenza adeguata della realtà la soluzione del problema della vita. L’autore dell’Ethica, in nome dell’esperienza, dichiarò vani e futili « tutti gli avvenimenti più frequenti della vita ordinaria ». Non bisogna porsi — egli inculcava — dal punto di vista del finito, del contingente, del perituro, dell’imperfetto. Non bisogna legarsi alle ricchezze, ai beni sensibili. Bisogna giungere al grado più alto della conoscenza, a quella conoscenza intuitiva che, dal punto di vista dell’Unica Sostanza, tutto spiega, che capisce come ogni cosa abbia una ragione d’essere e tutto accada necessariamente, anche ciò che chiamiamo il male. Quando si arriva ad una tal visione della realtà, la parola del vecchio Eraclito: « Non ridere, non piangere, ma comprendere — non ridere, non flere, sed intelligere » diventa bella come un programma. Nulla può turbarci allora nella nostra olimpica serenità. E noi in tal modo vivremo felici. Tale panteismo deterministico di Spinoza, se non può avere in questo Sillabario la sua confutazione, la trova nella stessa coscienza, che, pur cogliendo il reale nella sua organicità, sente da un lato di essere libera e, dall’altro, pur sapendo che tutto, anche il male, viene razionalizzato nella storia per opera di Dio, non è con ciò olimpicamente serena. Il vero può illuminarci ed aiutarci nella vita. E noi, che concepiamo il progresso educativo nella sua unità viva, siamo ben lungi dal negare che la luce della mente abbia un influsso immenso sull’azione e che alla decisione della volontà debba precedere il giudizio della ragione: nil voliturn, quin praecognitum, dicevano i nostri antichi. Anche nel campo soprannaturale, non sosteniamo noi forse la necessità di basare la morale sul dogma? Non basta, però, sapere. La vita è qualcosa di più. Con la mente illuminata, bisogna liberamente agire ed allora solo si ha l’attività morale. Diffondiamo pure la luce nelle intelligenze; ma dobbiamo formare anche la volontà ed i caratteri, conformi alla retta ragione ed alla fede. Lo sanno per esperienza tutti gli educatori, anche quando prescindono dall’ordine soprannaturale; e meritatamente su questo punto ha insistito il Fikster, maestro oggi così caro alla gioventù. In che modo, dunque, si può formare la volontà al sacrificio? Siccome l’azione morale cristiana implica non solo un elemento divino, — la grazia, — ma altresì l’elemento umano, — l’adesione ed il libero contributo del nostro volere, — conviene lumeggiare i due problemi, per vedere quale obbligo ci spetta come uomini e quale come Cristiani.
1. – I mezzi umani per la formazione della volontà.
Il pensiero semplice che Feirster, sia nelle lezioni all’Università di Zurigo come nei suoi libri, è andato sviluppando si può riassumere in poche righe. Se noi vogliamo prepararci alla vita, all’azione, e non sciupare la nostra giovinezza e l’esistenza tutta, dobbiamo formarci un carattere, dobbiamo essere padroni della nostra volontà; altrimenti, nell’oceano del mondo e degli eventi, saremo una nave senza timone in balia delle burrasche. È di una immensa importanza per « l’uomo in tutte le professioni ed in tutte le circostanze, l’essere padrone di sè. È importante quasi quanto l’imparare a camminare. Chi non sa dominarsi, è come un uomo che non sia sicuro sulle sue gambe, e non può mai sapere dove andrà a finire, perché in tutto ciò che fa e dice non ha nessun indirizzo preciso ». Per ottenere questo dominio sopra di noi, in modo da poter svolgere un’attività proficua ed energica, la scienza e la cultura non bastano. « Non basta conoscere la buona strada, ma bisogna anche saperla seguire. Anche il sapere qual è la forza del vapore ed il modo di dominarla, non è di molto vantaggio, se il meccanico non costruisce la macchinane la caldaia. Lo stesso avviene del ben fare »: non basta conoscere le grandi cose; « dobbiamo anche acquistare, mediante l’esercizio, l’abitudine di sopprimere gli istinti ribelli, l’arte di eseguire ciò che si è concepito ».nQual è la strada unica e sicura per giungere ad una vetta così eccelsa? Come conquistare la padronanza della propria volontà, in modo da rendere quest’ultima pronta ad agire, senza impacci e senza viltà? – Il Fiirster, per risolvere il problema, osserva che, sia nelnbene come nel male, l’animo non ascende né discende in un istante: ma procede sempre per una lenta formazione; il nostro carattere non è l’opera di un giorno; ma è simile alle isole madreporiche. « Spesso, egli scrive, a settecento metri sotto il livello del mare, una colonia di polipi coralliferi sorge e sempre più cresce, fínchè un anello chiuso di scogli emerge dalle acque. L’acqua del mare salsa che vi è racchiusa diviene lago di acqua dolce che con l’andar del tempo si dissecca. Dalle piante decomposte, dai detriti del corallo e dalla sabbia del mare ha origine un terreno fecondo; una noce di cocco approda alla costa; vengono uccelli e lasciano cadere semi di arbusti e di alberi di paesi lontani; ogni onda, e, anche più, ogni burrasca abbandona sulla spiaggia qualche cosa di nuovo, finché l’isola si copre di ogni specie di piante e di alberi. Allora fa la sua comparsa l’uomo, che prende dimora sull’isola ospitale fabbricata dal polipo del corallo, un piccolo essere che ha l’aspetto di una goccia di latte ». Avviene lo stesso fenomeno per il carattere nella nostra vita individuale, come altresì per i grandi avvenimenti nella nostra vita sociale. Il paziente ed assiduo lavoro di ogni giorno, le piccole gocce, le cose minuscole, producono poi rivolgimenti giganteschi, che all’occhio superficiale paiono improvvisi, ma che furono in realtà lentamente preparati. Gli « infinitamente piccoli » assumono in tal modo una immensa efficacia nel mondo e nella storia. Ecco perché, conclude il Iiirster, è grandiosa l’importanza della ginnastica della volontà. La maggior parte degli uomini non ha il dominio di sé, manca di energia, di spirito, non sa volere efficacemente, per il motivo che non ha mai conosciuto il segreto della propria educazione. Come il bimbo, quando incomincia a camminare, non può partecipare subito ad una maratona, ma comincia a piccoli passini sostenuto dalle dande, e poi attraverso molteplici capitomboli, adagio adagio, irrobustisce le sue gambe ed impara a passeggiare da sè, senza necessità di sostegno nè pericoli di cadute; così anche la nostra volontà, se noi la esercitiamo, se la teniamo in una ginnastica attiva, a poco a poco si fortifica, impara a vincersi nelle piccole cose, ed al momento dell’assalto trova in sè l’energia sufficiente per la vittoria. La quotidiana e minuscola ginnastica della volontà ha un grande valore, non già considerata in se stessa, ma in quanto è indirizzata al dominio del proprio io, alla liberazione della schiavitù degli impulsi, delle passioni, dei capricci, dei nervi, della propria ed altrui viltà. Di conseguenza il Fórster raccomanda vivamente e descrive a lungo i vari esercizi di ginnastica spirituale. Per esempio: si fa una gita e si ha sete; bisogna resistere, per non essere schiavi del proprio palato. Non già che non si debba mai bere nelle gite. Ma, di tempo in tempo, bisogna provare se si è ancora padroni di casa propria. Si sta mangiando un frutto appetitoso, che ci fa venire l’acquolina in bocca; noi vogliamo affermare la nostra volontà dinanzi ad esso: vi rinunciamo; non perchè sarebbe un delitto od una colpa gustare quel frutto, ma per fare un po’ di ginnastica della volontà. Un giorno, perciò, sarà una sigaretta che non fumeremo; un altro giorno una espressione brillante, che sarebbe stata applaudita e che noi sapremo tacere, e via dicendo. E, ripetiamolo ancora una volta, tutto ciò, non perché il fumare una sigaretta o il lanciare un frizzo geniale sia una colpa; ma per esercitare il nostro animo alla padronanza di sè. – L’antimoralismo può sorridere di compassione dinanzi a questi esercizi necessari per la formazione del proprio carattere; potrà stimarli piccoli espedienti di spiriti gretti; potrà dire ai giovani: « Godete la vostra primavera; rompete ogni divieto; avvicinate le vostre labbra ad ogni frutto »; ma persino Benedetto Croce riconosceva che « niente v’è di più stolto dell’antimoralismo ». Esso « crede di celebrare la forza, la salute, la libertà; e vanta, invece, la servitù delle passioni sbrigliate, l’apparente floridezza del malato e la forza del maniaco. La moralità (non dispiaccia agli antimoralisti letterati) non che fisima da pedante o consolazione di impotenti, è il sangue buono contro il sangue guasto ». Soltanto frenando le passioni e gli istinti, noi diveniamo veramente liberi.
2. – La morale cristiana e la formazione della volontà.
Il Cristianesimo ha sempre inculcato questa pratica della ginnastica della volontà, che in termini cristiani è chiamata la virtù e la mortificazione.
1. – Come una rondine non fa primavera, osserva Aristotile nella sua Etica a Nicomaco, così un atto solo non fa una virtù. Quest’ultima è l’abitudine del bene; e, solo mediante la ripetizione degli atti o un dono di Dio, possiamo acquistare quella dolce inclinazione a compiere azioni buone, che è così utile ed efficace nella vita dello spirito. Se giova imparare il nuoto e se vai la pena di esercitarsi per saper nuotare, molto più nel mare burrascoso della esistenza nostra, fra le tempeste e le burrasche, serve possedere quelle perfezioni proprie dell’attività pratica, che ci facilitano l’adempimento del nostro dovere e l’attuazione della legge cristiana d’amore. Io non mi dilungherò a ricordare come i teologi classifichino le virtù in teologali ed in cardinali, secondo che hanno per oggetto Dio, nostro ultimo fine, ovvero i mezzi per raggiungere Dio. Non rammenterò come tre siano le virtù teologali, la fede, la speranza e la carità; e quattro le cardinali, la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza, così chiamate, perchè — nota san Tommaso — sopra di esse si aggira e si fonda la vita morale, come la porta sui cardini. Non soggiungerò nulla intorno alla distinzione delle virtù in acquisite ed in infuse, secondo che si tratta di abitudini contratte con le sole forze naturali mediante la ripetizione degli stessi atti, ovvero di un prodotto della grazia, inserito in noi immediatamente da Dio. Ciò che ci interessa è lo sforzo nostro nell’acquisto delle virtù. Poichè, anche quando la virtù è infusa, essa è sempre un germe, che occorre svolgere; è una rosa che deve sbocciare al sole della nostra cooperazione. È stolto credere che i Santi ci abbiano dato la fioritura delle loro opere virtuose, unicamente perchè furono favoriti dal cielo di speciali aiuti; essi corrisposero ai doni divini e con quanta generosità! La mitezza di san Francesco di Sales è costata vent’anni di battaglia e di lavoro; l’umiltà di san Carlo Borromeo fu il frutto di un lungo ed intenso esercizio; e nessun Santo sarebbe divenuto tale, se avesse sepolto il talento ricevuto da Dio e non l’avesse trafficato con energia perseverante di volontà.
2. – Come la virtù implica la pratica abituale nel bene, così la mortificazione consiste nella lotta abituale contro il male. Cosa ci predica l’esempio dei Padri del deserto e di tutti i Santi? Leggiamo nella vita di san Macario che un giorno, là nel deserto, gli venne portato in dono un grappolo di uva. Padrone di sè e della sua gola, ascoltò la voce dell’amore fraterno, che lo consigliava segretamente a recarlo ad un altro eremita, il quale ne aveva forse maggior bisogno di lui. Così fece. Ed il solitario, accogliendo il regalo, rese grazie a Dio ed a Macario, ma, come lui, portò il grappolo ad un altro eremita, e questo ad un altro, e così via, in modo che quel grappolo fece il giro di tutte le celle disperse nel deserto e spesso molto lontane le une dalle altre, finchè ritornò ancora intatto nelle mani del Santo, senza che nessuno avesse saputo che da lui, per il primo, era partito. Ed i fatti, uno più affascinante dell’altro, si potrebbero citare a iosa. Mi limiterò ad avvertire solo che tali mortificazioni assumono un colorito speciale nei vari Santi e nei vari Cristiani, secondo la loro indole e la missione storica che dovevano e che debbono compiere. Ad esempio, prendiamo Filippo Neri, « Pippo il buono,, il Santo dell’allegria o, come diceva superficialmente Goethe, « il santo umorista ». Uno dei suoi più accurati biografi, il Bacci, riferisce che « soleva il sant’uomo molte volte saltare in presenza delle persone, eziandio de’ Cardinali, e Prelati; nè solo facea questo in luoghi remoti, e non abitati, ma ancora dove suol esser maggior frequenza di gente, come ne’ palazzi, nelle piazze, e nelle strade…». « Un’altra volta si fece tagliare la barba da una banda sola, e con mezza barba uscì in pubblico saltando, come avesse avuto vittoria di qualche grande cosa… ». « Volendo un suo penitente lasciarsi il ciuffo come usava in quei tempi, il Santo non solo non glie lo permise; ma gli comandò che si tosasse, e per mortificarlo maggiormente gli disse che andasse da fra Felice Cappuccino, che gli avrebbe fatto la carità. Andò il buon penitente, e fra Felice (il quale era rimasto d’accordo col Santo) in cambio
di tosarlo gli rase tutta la testa, e colui sopportò il tutto con grandissima pazienza ». Ed eran cani che faceva portare in braccio ai suoi penitenti, anche illustri, per le vie di Roma; ed era il Baronio, il celebre storico, inviato « con un fiasco grande, che tenea più di sei boccali, all’osteria ordinandogli, che si facesse dare una foglietta di vino; ma che prima facesse lavar il fiasco, e che andasse in cantina a vederlo cavare; e poi si facesse rendere il resto, alle volte d’un testone ed altre volte d’uno scudo d’oro; per la qual cosa volendo egli fare tutte quelle diligenze, questi osti tenendosi beffati, non solo gli dicevano villanie, ma bene spesso lo minacciavano di dargli delle bastonate ».
Voi ridete e forse siete tentati di dar ragione a certi biografi moderni di san Filippo, i quali sostengono che ai giorni nostri non lo porrebbero più sugli altari. Ahimè! Avreste torto. Quelle che, in apparenza, sembrano stranezze da manicomio, erano mezzi per dominare se stessi; erano mortificazioni, per non essere schiavi dell’ambiente o della superbia; era, in breve, ciò che Fórster definisce la ginnastica dell’educazione, nella Roma dei suoi tempi!… I discepoli capivano che le bizzarrie imposte eran più sapienti del dileggio da esse provocato; e dello stesso dileggio si servivano come arma per la propria formazione. – Si noti. La Chiesa stessa impone a tutti i credenti l’esercizio di queste mortificazioni. Le astinenze ed i digiuni, ad es., — oltre che un ossequio che noi presentiamo a Dio, rinunciando a qualche cosa per suo amore — non sono forse altresì una ginnastica spirituale « per chi deve sostenere il combattimento contro la legge delle membra? ». « Il digiuno, spiega il Manzoni, accompagna senza interruzione il primo Testamento; Giovanni, precursore del nuovo, l’osserva e lo predica; e Quello che fu l’aspettazione e il compimento dell’uno, il fondatore e la legge dell’altro, e la salute di tutti, Gesù Cristo, lo comanda, lo regola, ne leva l’ipocrita ruvidezza e la malinconica ostentazione, l’attornia d’immagini socievoli consolanti, ne insegna lo spirito, e ne dà lui stesso l’esempio. Certo, la Chiesa non ha bisogno d’altra autorità, per rendere ragione d’averlo conservato. Gli Apostoli sono i primi a praticarlo. Il digiuno e la preghiera precedono l’imposizione delle mani, che conferì a Paolo la missione verso le genti; e la religione, come disse il Massillon, nasce nel seno del digiuno e dell’astinenza. D’allora in poi, dove si può segnare un tempo di sospensione o d’intervallo? La storia ecclesiastica ne attesta la continuità in tutti i tempi e in tutti i santi; e se si trova purtroppo qualche volta il letterale adempimento del digiuno, scompagnato da una vita cristiana, è impossibile trovare una vita cristiana scompagnata dal digiuno. I martiri e i re, i Vescovi e i semplici fedeli eseguiscono e amano questa legge: essa si trova come in un posto naturale tra Cristiani. Fruttuoso, Vescovo di Tarragona, rifiutò, andando al martirio, una bevanda che gli era offerta per confortarlo; la rifiutò, dicendo chennon era passata l’ora del digiuno. Chi non prova un sentimento di rispetto per una legge così rispettata, nel momento solenne del dolore, da un uomo che stava per dare una testimonianza di sangue alla verità? Chi non vede che questa legge medesima aveva contribuito a prepararlo al sacrificio, e che, per morire imitatore di Gesù Cristo, egli n’era vissuto imitatore? Ma prescindendo da questi esempi ammirabili, nelle circostanze più ordinarie d’un Cristiano, il digiuno e le astinenze si legano con ciò che la sua vita ha di più degno e di più puro. Si veda un uomo giusto, fedele a’ suoi doveri, attivo nel bene, sofferente nelle disgrazie, fermo e non impaziente contro l’ingiustizia, tollerante e misericordioso; e si dica se le pratiche dell’astinenza non sono in armonia con una talencondotta. San Paolo paragona il Cristiano all’atleta che, per guadagnare una corona corruttibile, era in tutto astinente. L’agilità ed il vigore che ne veniva al suo corpo era tanto evidente, i mezzi erano così corrispondenti alfine, che a nessuno pareva irragionevole quel tenore di vita, nessuno se ne meravigliava; e noi, educati all’idee spirituali del Cristianesimo, non sapremo vedere la necessità e la bellezza di quelle istruzioni che tendono a render l’animo desto e forte contro le inclinazioni del senso? ». – Come si vede dalla citazione del Manzoni, anche san Paolo discorre di ginnastica. E non ci sarebbe differenza fra le mortificazioni nell’ordine naturale e nell’ordine soprannaturale, se il Cristiano non le compisse in unione a Gesù Cristo, al Quale è incorporato e che in tutta la sua vita si mortificò, da Betlem al digiuno nel deserto ed alla morte di croce. Le virtù cristiane e la mortificazione nostra divinizzate dalla grazia, rese più efficaci per la preghiera, accompagnate dai Sacramenti, sono qualcosa non di meno, ma di più della ginnastica umana della volontà. E l’elemento divino congiunto all’elemento umano; è, sopra tutto, un esercizio che non potrebbe esistere in una visione antropocentrica della realtà, riguardato come un metodo di perfezionamento della propria personalità e che, invece, viene inquadrato in una visione teocentrica e cristiana. Noi ci mortifichiamo, per far vivere Cristo in noi; ci crocifiggiamo con Lui per risorgere insieme. In altre parole, la caratteristica della virtù e della mortificazione cristiana è la educazione della volontà umana, mediante la grazia e la formazione di Cristo in noi. Non c’è, quindi, da meravigliarsi se tale formazione è unita ai Sacramenti e specialmente a tre di essi: la Cresima, la Comunione, la Confessione. – La Cresima ci fa soldati dell’esercito cristiano e ci rende forti per i sacrifici dell’Amore nella vita. Non invano il nipote di Renan, Ernest Psichari, 1’8 febbraio 1913, dopo aver ricevuto da mons. Gibier, Vescovo di Orléans, il Sacramento della Confermazione, poteva esclamare: « Monsignore, mi sembra d’avere un’altra anima! ». Non invano Giosuè Borsi, al card. Maffi che l’aveva cresimato dopo la conversione, poteva dire: « Ora sono soldato di Cristo ». È lo Spirito Santo che fortifica il figlio di Dio, segnato dal segno della Croce e confermato col crisma della salute. – La Messa, ricordo e rinnovazione della immolazione della Croce, ci rammenta ogni volta la grande verità cristiana dell’Amore nel sacrificio ed accresce le nostre energie, perchè anche noi, scendendo ed allontanandoci dal mistico Calvario dell’altare, ci sappiamo sacrificare per Dio e pernamore dei fratelli. L’Eucaristia, unendoci a Gesù Cristo, presente nell’Ostia, ci trasforma in Lui, di modo che la battaglia può essere ripresa, continuata, combattuta con la chiara consapevolezza che Gesù Cristo combatte in noi, con noi, per noi e che quindi siamo forti di una forza divina. La Confessione, prescindendo dal perdono dei peccati che ci interesserà in seguito, è infine un Sacramento di immensa efficacia educativa. Il confessore non è solo giudice, ma padre e maestro e medico; e l’accusa dei peccati importa una serie di atti quanto mai utile per l’opera formatrice delle nostre coscienze. Se poi il sacerdote viene scelto da un’anima, non solo come confessore, ma come Direttore spirituale, ecco che la formazione resta sempre più facilitata e favorita. Mentre il confessore è colui che ascolta le colpe, le giudica e le assolve, il Direttore spirituale (che può essere, del resto, lo stesso confessore, ma può essere anche un altro ministro di Dio studia un carattere e adagio adagio lo coglie, attraverso la molteplicità dei suoi atti e dei suoi difetti, nell’unità della sua indole. È allora che il Direttore spirituale può divenire la guida buona, che ci accompagna sulle alte montagne e ci fa evitare pericoli e precipizi. Le stesse mortificazioni vengono da lui dirette e ordinate ad un fine particolare, che potrà essere, ad es., la lotta contro il difetto predominante o lo sforzo per la conquista di una virtù.
3. – Conclusione.
Quale unità organica, allora, ci si presenta allo sguardo tra dogma, morale, Sacramenti, gerarchia e vita nel Cristianesimo! Il dogma della Redenzione e la storia della Passione sono la base della virtù e dell’abnegazione; i Sacramenti sono mezzi per raggiungere la formazione nostra soprannaturale; il Sacerdote è la guida in tali spirituali ascensioni. Ed in tutto questo un’unica anima palpita e freme: l’Amore. È per amor suo che noi ci sacrifichiamo ogni giorno; è per comunicare sempre più intensamente al suo Amore divino che ci accostiamo ai Sacramenti e ci avviciniamo ai suoi ministri. L’Amore nel sacrificio: ecco ciò che apprendiamo dalla verità dogmatica, dall’insegnamento morale, dall’aiuto dei Sacramenti, dal sacerdozio cattolico; ed ecco la vera vita cristiana con le battaglie quotidiane, che ora dobbiamo considerare.
Riepilogo
La morale cristiana risolve il contrasto che sorge tra l•a realtà dura della vita e l’idealità bella dell’amore, mediante il concetto di sacrificio e la formazione della propria volontà.
I. REALE ED IDEALE. – Il vero amore della legge morale cristiana non ha nulla in comune con le sdolcinatezze sentimentali o con le utopie irrealizzabili, ma proclama che la vita è lotta, è milizia, è continua battaglia. Come ama la patria solo il soldato che combatte per essa, così ama Dio ed il prossimo chi sa rinnegare senstesso e dimostrare a fatti il suo amore. Una simile battaglia non contrasta con l’Amore infinito di Dio per noi, ma è la prova del nostro amore per Lui.
II. IL SACRIFICIO. – Per amare Dio bisogna rinnegare se stessi prendendo la croce e seguire Cristb: ecco la condizione, indispensabile su questa terra, dell’amore. Per non cadere in errori, è necessario ricordare:
a) 11 vero concetto di sacrificio. — Il sacrificio non è la morte per la morte, od il dolore per il dolore; bensì è la morte per la vita. Bisogna morire per vivere; bisogna rinunciare alla vita parziale ed egoistica, alle passioni, alle cattive tendenze, per raggiungere una vita più alta. E’ con tale criterio che occorre distinguere le vere dalle false mortificazioni.
b) Il concetto di sacrificio cristiano. — Esso, oltre l’idea espressa, implica due altre esigenze:
l° il sacrificio cristiano è solo quello compiuto per amore a Dio ed ai fratelli;
2° in unione a Cristo.
II problema del dolore, a questo modo, si risolve nel problema dell’amore e più non costituisce una difficoltà.
III. LA FORMAZIONE DELLA VOLONTÀ AL SACRIFICIO. – Il comando di rinnegare noi stessi per l’amore, se è bello in sè, è duro da praticarsi. È indispensabile, quindi, formarci, allenarci ed esercitarci nel sacrificio. Ciò si ottiene:
a) con la ginnastica spirituale della nostra volontà, ossia con le mortificazioni, che immensamente giovano a correggere ed a fortificare il carattere. Anche le astinenze ed i digiuni imposti dalla Chiesa sono ispirati da simile motivo;
b) con la rinnovazione degli atti buoni, che generano in noi la virtù acquisita;
c) coi mezzi soprannaturali, come la grazia, le virtù infuse, la preghiera, i Sacramenti.