DOMENICA X DOPO PENTECOSTE (2023)

DOMENICA X DOPO PENTECOSTE (2023).

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

La liturgia di questa Domenica ci insegna il vero concetto dell’umiltà cristiana che consiste nell’attribuire alla grazia dello Spirito Santo la nostra santità; poiché le nostre azioni non possono essere soprannaturali, cioè sante, se non procedono dallo Spirito Santo, che Gesù mandò agli Apostoli nel giorno della Pentecoste e che dona a tutti quelli che glielo chiedono. Dunque la nostra santificazione è impossibile se vogliamo raggiungerla da soli, perché, abbandonati a noi stessi noi non siamo che impotenti e peccatori. Dobbiamo a Dio se evitiamo il peccato, se ne otteniamo il perdono, se riusciamo a fare il bene, poiché nessuno può pronunciare neppure il santo Nome di Gesù con un atto di fede soprannaturale, che affermi la sua regalità e divinità, se non mediante lo Spirito Santo. L’orgoglio è, dunque, il nemico di Dio, perché si appropria dei beni che solo lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno nella misura che crede conveniente e impedisce alla potenza divina di manifestarsi nelle nostre anime in modo da farci credere che noi bastiamo a noi stessi. Come Dio potrebbe perdonarci (Oraz.), se noi non vogliamo riconoscerci colpevoli? Come potrebbe aver compassione di noi ed esercitare su noi la sua misericordia (Oraz.), se nel nostro cuore non vi è nessuna miseria riconosciuta cui il suo Cuore divino possa compatire? L’umile, invece, riconosce il proprio nulla perché sa che solo a questa condizione discenderà su lui la virtù di Cristo. Mentre la Chiesa sviluppa in questa Domenica tali pensieri, le letture, che fa durante questa settimana nel Breviario, danno due esempi di orgoglio e di grande umiltà. Dopo la figura del profeta Elia che si oppone così fortemente a quella di Achab e di Jezabele, dei quali nell’ufficio è ricordato il terribile castigo, vi è quella del giovane Gioas che contrasta fortemente con quella di Atalia. Figlia di Achab e di Jezabele, empia come sua madre, Atalia sposa il re di Giuda Joram, che morì poco dopo. Allora la regina si trovò padrona del regno di Giuda e per esserlo per sempre fece massacrare tutta la famiglia di David. Ma losabeth, sposa del gran sacerdote Joiada tolse dalla culla l’ultimo nato della famiglia reale e lo nascose nel Tempio. Questi si chiamava Gioas. Per sei anni Atalia regnò ed innalzò templi in onore del dio Baal perfino nell’atrio del Tempio. Nel settimo anno il gran sacerdote attorniato da uomini risoluti e armati, mostrò Gioàs che allora aveva sette anni e disse: « Voi circonderete il fanciullo regale e se qualcuno cercherà di passare fra le vostre file, lo ucciderete! ». E quando il popolo si riversò nell’atrio, all’ora della preghiera, Joiada fece venire avanti Gioas, l’unse e lo coronò al cospetto di tutta l’assemblea che applaudì e gridò: «Viva il Re!». Quando Atalia intese queste grida, uscì dal palazzo ed entrò nell’atrio e quando vide il giovane re assiso sul palco, circondato dai capi e acclamato dal popolo col suono delle trombe, stracciò le sue vesti e gridò: «Congiura! Tradimento!». Il gran sacerdote ordinò di farla uscire dal sacro recinto e quando essa giunse nel suo palazzo venne uccisa. La folla allora saccheggiò il tempio di Baal e non lasciò pietra su pietra. E il re Gioas si assise sul trono di David, suo avo; regnò quarant’anni a Gerusalemme e si dedicò a riparare e abbellire il Tempio (All., Com.). La Scrittura fa di lui questo bell’elogio: « Gioas fece quello che è giusto agli occhi di Dio» È questa l’Antifona del Magnificat dei Vespri alla quale fa eco quella dei II Vespri che è tratta dal Vangelo di questo giorno: « Questi (il pubblicano) ritornò a casa sua giustificato e non quello (il fariseo), poiché chi si esalta sarà umiliato e chi s’umilia sarà esaltato ». – « Quelli che si innalzano sono visti da Dio da lontano, dice S. Agostino. Egli vede da lontano i superbi, ma non perdona loro. « L’umile invece, come il pubblicano, si riconosce colpevole! ». Egli si batteva il petto, si castigava da sé, e Dio perdonava a quest’uomo perché confessava la sua miseria. Perché meravigliarsi che Dio non veda più in lui un peccatore dal momento che si riconosce da sé peccatore? Il pubblicano si teneva lontano ma Dio l’osservava da vicino » (Mattutino). Così l’umile fanciullo Gioas fu gradito a Dio perché la sua condotta avanti a Lui era quale doveva essere. Egli fece ciò che era giusto agli occhi del Signore. Atalia, invece, orgogliosa ed empia, non fece ciò che era giusto avanti al Signore, e sdegnò e insultò quelli che facevano il loro dovere, poiché l’orgoglio verso Dio si manifesta ogni giorno nel disprezzo verso il prossimo. Dice Pascal che vi sono due categorie di uomini: quelli che si stimano colpevoli di tutte le mancanze: i Santi; e quelli che si credono colpevoli di nulla: i peccatori. I primi sono umili e Dio li innalzerà glorificandoli, i secondi sono orgogliosi e Dio li abbasserà castigandoli. « Il diluvio, dice S. Giovanni Crisostomo, ha sommerso la terra, il fuoco ha bruciato Sodoma, il mare ha inghiottito l’esercito degli Egiziani, poiché non è altri che Dio, il quale abbia inflitto ai colpevoli questi castighi. Ma, dirai tu, Dio è indulgente. Tutto ciò allora non è che parola vana? E il ricco che disprezzava Lazzaro non fu punito? … e le vergini stolte non furono discacciate dallo Sposo? E quegli che si trova nel banchetto con le vesti sordide non verrà legato mani e piedi e non morrà? E colui che richiederà al compagno i cento denari non sarà dato al carnefice? Ma Dio si fermerà solo alle minacce? Sarebbe molto facile provare il contrario e dopo quello che Dio ha detto e fatto nel passato possiamo giudicare quello che farà nell’avvenire. Abbiamo piuttosto sempre in mente il pensiero del terribile tribunale, del fiume di fuoco, delle catene eterne nell’inferno, delle tenebre profonde, dello stridore dei denti e del verme che avvelena e rode » (2° Nott.). Questo sarà il mezzo migliore per rimanere nell’umiltà, che ci fa dire con la Chiesa: « Ogni volta che io ho invocato il Signore, questi ha esaudita la mia voce. Mettendomi al sicuro da quelli che mi perseguitavano, li ha umiliati, Egli che è prima di tutti i tempi » (lntr.). « Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dei tuoi occhi, perché i tuoi occhi vedono la giustizia » (Grad.). « Signore, io ho innalzata l’anima mia verso te, i miei nemici non mi derideranno perché quelli che hanno confidenza in te non saranno confusi » (Off.).

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur nos omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
S. Amen.

S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LIV: 17; 18; 20; 23
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.

[Quando invocai il Signore, esaudì la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]
Ps LIV: 2

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.

[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, qui omnipoténtiam tuam parcéndo máxime et miserándo maniféstas: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, ad tua promíssa curréntes, cœléstium bonórum fácias esse consórtes.

[O Dio, che manifesti la tua onnipotenza soprattutto perdonando e compatendo, moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché quanti anelano alle tue promesse, Tu li renda partecipi dei beni celesti.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XII: 2-11
Fratres: Scitis, quóniam, cum gentes essétis, ad simulácra muta prout ducebámini eúntes. Ideo notum vobisfacio, quod nemo in Spíritu Dei loquens, dicit anáthema Jesu. Et nemo potest dícere, Dóminus Jesus, nisi in Spíritu Sancto. Divisiónes vero gratiárum sunt, idem autem Spíritus. Et divisiónes ministratiónum sunt, idem autem Dóminus. Et divisiónes operatiónum sunt, idem vero Deus, qui operátur ómnia in ómnibus. Unicuíque autem datur manifestátio Spíritus ad utilitátem. Alii quidem per Spíritum datur sermo sapiéntiæ álii autem sermo sciéntiæ secúndum eúndem Spíritum: álteri fides in eódem Spíritu: álii grátia sanitátum in uno Spíritu: álii operátio virtútum, álii prophétia, álii discrétio spirítuum, álii génera linguárum, álii interpretátio sermónum. Hæc autem ómnia operátur unus atque idem Spíritus, dívidens síngulis, prout vult.

[“Fratelli: Voi sapete che quando eravate gentili correvate ai simulacri muti, secondo che vi si conduceva. Perciò vi dichiaro che nessuno, il quale parli nello Spirito di Dio dice: «Anatema a Gesù»; e nessuno può dire: «Gesù Signore», se non nello Spirito Santo. C’è, sì, diversità di doni; ma lo Spirito è il medesimo. Ci sono ministeri diversi, ma il medesimo Signore; ci sono operazioni differenti, ma è il medesimo Dio che opera tutto in tutti. A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito, perché sia d’utilità. Mediante lo Spirito a uno è data la parola di sapienza, a un altro è data la parola di scienza, secondo il medesimo Spirito. A un altro è data nel medesimo Spirito la fede; nel medesimo Spirito a un altro è dato il dono delle guarigioni: a un altro il potere di far miracoli; a un altro la profezia; a un altro il discernimento degli spiriti; a un altro la varietà delle lingue, a un altro il dono d’interpretarle. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, il quale distribuisce a ciascuno come gli piace”].

UNITÀ NELLA VARIETÀ E VICEVERSA.

Gli uomini piccoli si rivelano colle loro unilateralità. C’è chi al mondo non vede, non vuole, non ama che la unità, una unità esagerata che diviene, né essi se ne dolgono, uniformità; c’è chi non vede, non vuole, non ama che la varietà, la diversità, una diversità che diviene, così esagerata, del che ad essi non cale, confusione babelica, caos. Per i primi tutti dovrebbero pensare allo stesso identico modo in tutto e per tutto, fare tutti la stessa cosa, farla tutti allo stesso modo. Per gli altri il rovescio, tutti pensare e agire diversamente. Estremismi opposti, figli della stessa micromania. Il Vangelo, il Cristianesimo ci si rivela grande e divino anche per quella formula « unitas in varietate » che è la sua divisa. N. S. Gesù ha detto una parola nella quale è lo spunto di quello che oggi dice San Paolo nel brano domenicale della Epistola prima ai Corinzi: « nella casa di mio Padre vi sono molte dimore. » La Casa è una, una la Chiesa, Casa di Dio, edificio classico e prediletto di Gesù Cristo; una per unità di culto. Se non fosse così, non sarebbe divina. Una nelle cose essenziali, sostanziali. Ma in questa bellissima e forte e compatta e vigorosa unità non si esaurisce la vita della Chiesa; se no saremmo nell’uniformità plumbea. La casa è una e le stanze, anzi i piani sono molti e diversi. San Paolo riprende il pensiero evangelico e dice testualmente così: « Or vi sono (nella Chiesa) distinzioni (ossia varietà) di doni, ma non c’è che un medesimo Spirito; e c’è distinzione nei ministeri, ma non c’è che un medesimo Signore; e c’è distinzione nei modi di operare, ma non c’è che un medesimo Dio, il quale opera ogni cosa in tutti ». Varietà, continua l’Apostolo, utile al corpo sociale, come, dico io, la varietà dei cibi è utile al corpo umano. Di questa varietà non bisogna né scandalizzarsi, né abusare. Alcuni estremisti se ne sono scandalizzati. Per esempio: i Greci, che poi si separarono dalla Chiesa, si scandalizzarono quando fu aggiunta una paroletta « Filioque » al Credo di Nicea, senza domandarsi se essa stonava o sintetizzava, armonizzava col Credo nel suo insieme, nel suo spirito. Altri ne abusano e vorrebbero portare la diversità dappertutto, dappertutto le novità, dimenticando l’aureo principio: « in necessariis unitas ». Varietà che nel campo pratico, l’operare e il modo dell’operare sono ben altrimenti ricche e accentuate che non siano nel campo teorico. Quante diversità, salva la unità essenziale, nei riti! Quante nell’azione dei Santi! Ecco qua dei Santi e delle spirituali famiglie dei Santi che son tutto calcolo e prudenza; altri ed altre che sono tutta spontaneità ed ingenuità. Santi che edificano monasteri grandiosi come spirituali reggie, quasi ad affermare la maestà dello spirito, e santi che fabbricano modestissimi conventini; Santi che sono tutto zelo e severità, altri il cui zelo realissimo è fatto di mansuetudine. Paolo che va a destra, Barnaba che va a sinistra e camminano per le vie di un unico apostolato. Ma lo Spirito è uno; lo Spirito di Dio, Spirito di verità d’amore. Rallegriamoci di questa varietà che è ricchezza e rispettiamola; rallegriamoci di questa unità e cerchiamola, lieti per conto nostro ciascuno del posto che gli è toccato nella casa del Padre, nella vigna del Signore, non smaniosi di cambiarlo, avidi solo di occuparlo degnamente.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. (Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XVI: 8; LXVIII: 2
Custódi me, Dómine, ut pupíllam óculi: sub umbra alárum tuárum prótege me.

[Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dell’occhio: proteggimi sotto l’ombra delle tue ali.]

V. De vultu tuo judícium meum pródeat: óculi tui vídeant æquitátem.

[Venga da Te proclamato il mio diritto: poiché i tuoi occhi vedono l’equità.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

 Ps LXIV: 2
Te decet hymnus, Deus, in Sion: et tibi redde tu votum in Jerúsalem. Allelúja.

[A Te, o Dio, si addice l’inno in Sion: a Te si sciolga il voto in Gerusalemme. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc XVIII: 9-14.
In illo témpore: Dixit Jesus ad quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros, parábolam istam: Duo hómines ascendérunt in templum, ut orárent: unus pharisæus, et alter publicánus. Pharisæus stans, hæc apud se orábat: Deus, grátias ago tibi, quia non sum sicut céteri hóminum: raptóres, injústi, adúlteri: velut étiam hic publicánus. Jejúno bis in sábbato: décimas do ómnium, quæ possídeo. Et publicánus a longe stans nolébat nec óculos ad cœlum leváre: sed percutiébat pectus suum, dicens: Deus, propítius esto mihi peccatóri. Dico vobis: descéndit hic justificátus in domum suam ab illo: quia omnis qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.” 

 [“In quel tempo disse Gesù questa parabola per taluni, i quali confidavano in se stessi come giusti, e deprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio: uno Fariseo, e l’altro Pubblicano. Il Fariseo si stava, e dentro di sé orava così: Ti ringrazio, o Dio, che io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri; ed anche come questo Pubblicano. Digiuno due volte la settimana; pago la decima di tutto quello che io posseggo Ma il Pubblicano, stando da lungi, non voleva nemmeno alzar gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: Dio, abbi pietà di me peccatore. Vi dico, che questo se ne tornò giustificato a casa sua a differenza dell’altro: imperocché chiunque si esalta, sarà umiliato; e chi si umilia, sarà esaltato”].

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano 1956)

CUOR CONTRITO ED UMILIATO

Nella parabola che Gesù oggi ripete per noi, due uomini salgono al tempio, e fanno innanzi a Dio la propria confessione; uno è Fariseo, l’altro è Pubblicano. Il Fariseo stava davanti a tutti, dritto e immobile, come una colonna che non sorregge nulla. Avvolto nell’ampia veste portava, — com’era il costume della sua setta, — in fronte e sulle mani certe membrane, sopra cui era scritto il Decalogo, a significare che egli teneva sempre nella mente la legge di Dio per meditarla, e nelle mani i comandamenti di Dio per eseguirli. – Il Pubblicano invece s’era fermato lontano dall’altare, non osando appressarsi al luogo dove abitava la maestà di Dio invisibile, e s’era prostrato in un angolo, perché nessuno lo vedesse. Era uno dei piccoli funzionari incaricati di riscuotere le tasse. I soprusi, le vessazioni, le ingiustizie che aveva commesso nel suo odioso ufficio in quel momento gli erano presenti ed il rimorso lo faceva singhiozzare. Cominciò il Fariseo: « Signore! — disse e ammiccava con la coda dell’occhio il povero Pubblicano — Signore, io non sono un ladro, né un adultero: invece di rubare io pago le decime, e invece dell’adulterio io macero la mia carne coi digiuni ». Ed il superbo non s’accorgeva che il ladro e l’adultero era proprio lui: era lui il ladro che usurpava per sé la gloria che è di Dio; era lui l’adultero, perché la sua anima, aveva abbandonato Iddio per darsi in braccio al demonio della superbia. Intanto il Pubblicano non alzava nemmeno le palpebre e gemeva: « O Dio, sii buono con me, che son peccatore! ». « Io vi dico — conchiude Gesù in fondo della sua parabola — soltanto il Pubblicano tornò a casa giustificato ». Dico vobis descendit hic iustificatus in domum suam. Quante volte anche noi siamo andati al tempio per confessare i nostri peccati davanti a Dio e al suo ministro: siamo sempre ritornati a casa nostra giustificati? Se le nostre confessioni furono simili a quella del superbo Fariseo che accusava i peccati degli altri e le proprie virtù, non solo non siamo stati perdonati ma abbiamo fatto sacrilegio. Iddio perdona soltanto a quelli che hanno un cuore umile e contrito. Cor contritum et humiliatum Deus non spernit. (Ps., L. 19). Ed umile era il cuore del Pubblicano che si riconosceva con gemiti peccatore: Deus propitius esto mihi peccatori. L’umiltà, infatti, non è che sincerità, e consiste nel riconoscerci quali noi siamo: senza nascondere nulla di ciò che abbiamo commesso, senza aggiungere nulla di ciò che abbiamo tralasciato. Contrito era il cuore del Pubblicano. La contrizione non è un dolore sensibile come il male di testa o di denti; non consiste in piangere o sospirare: la contrizione è un dispiacere del cuore che sente d’aver offeso Dio e promette di non offenderlo più. Per ciò sul cuore si batteva il Pubblicano: percutiebat pectus suum. Dal cuore, ha detto Gesù, escono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie (Mc., VII, 21); e dal cuore esce anche la contrizione dei peccati. La confessione del Pubblicano c’insegna le due condizioni necessarie ad un vero peccatore: sincerità e dolore. Le voglio spiegare con due esempi. – 1. SINCERITÀ. Cromazio prefetto di Roma era malato di un male strano che nessun medico sapeva guarire. Gli dissero allora che in Roma v’erano due Cristiani che compivano guarigioni miracolose, e, chi sa, avrebbero forse guarito ancor lui. Cromazio li fece chiamare: erano Sebastiano e Policarpo. « Cromazio — dissero i due Santi al prefetto pagano — se tu vuoi guarire, dacci in mano tutti gli idoli della tua casa, ché noi vogliamo distruggerli ». « Se è necessario — rispose a malincuore, — io v’insegnerò dove sono, e voi prendeteli ch’io non oso ». Sebastiano e Policarpo presero tutte le immagini dei falsi dei e le frantumarono, poi tornarono da Cromazio. Ma Cromazio non era guarito; anzi stava peggio. « Cromazio! » dissero i Santi, guardandolo fisso nella nube ch’era nel bianco dei suoi occhi, « Cromazio, tu hai mentito: nella tua casa ci sono idoli ancora ». Ed il prefetto dovette confessarlo: egli ne aveva nascosti alcuni nella sua camera vicino a lui, perché gli erano più cari. Solo quando si decise a consegnare anche quelli, poté guarire. Così è pure nella Confessione; quelli che tengono nascosti nel più fondo della loro anima anche un solo peccato mortale, non saranno perdonati neppur degli altri, anzi si incolpano di un pessimo sacrilegio. S. Giovanni Crisostomo esclamava: « O uomo, che cosa è peggiore: fare il male o dirlo? Se dunque al cospetto di Dio non hai avuto rossore a far male, perchè hai vergogna a dirlo davanti agli uomini? Se non hai avuto vergogna a macchiarti, perché  avrai vergogna a lavarti? ». In tre modi la superbia ci fa mancare di sincerità in confessione: non accusando, accusando per metà, scusando. Non accusando: anche il Fariseo ha fatto così, egli ha taciuto le sue colpe, per dir soltanto le proprie virtù, per dir soltanto i peccati degli altri. Ma uscì dal tempio senza giustificazione. Infelici noi se tacciamo, di proposito, anche un peccato solo: profaneremmo il sangue di Cristo, e cominceremmo il primo anello d’una catena maledetta: la catena che ci strapperà giù nell’inferno. Accusando per metà: alcuni dicono d’aver un po’ d’ambizione, e non dicono che per questa ambizione hanno seguito una moda pagana, ed hanno suscitato discorsi e passioni cattive. Altri dicono d’aver detta qualche bugia, e non dicono che questa bugia l’hanno detta in confessione, oppure non dicono che dalla loro bugia è derivato un grave danno al prossimo. Scusando: ci sono di quelli, infine, che mentre si confessano involgono i lori peccati in una miriade di scuse, quasi quasi, in faccia a Dio son loro che ne avanzano. Non c’è umiltà in queste confessioni, e per ciò non c’è perdono. – 2. DOLORE. Santa Caterina da Genova, nata da una delle più ricche e nobili famiglie della città, contro sua voglia, costretta dai genitori, sposò Giuliano Adorno. Ma la bontà di Dio permise che le fosse dato un marito contrario e difforme alla sua vita, il quale consumò il patrimonio nei giochi e la fece soffrire moltissimo. Ella, stanca del lungo martirio, aveva cessato d’essere buona, cercando qualche consolazione nelle delizie e nelle vanità del mondo. Ma il giorno arriva che queste dilettazioni stancano, che sotto le belle apparenze si trovan frutti di cenere e vuoti; allora l’anima scontenta anela di sciogliersi dai legami del peccato ed implora. Era appunto in questo stato di tristezza quando la sorprese una mirabile e dolorosa visione. La porta di casa si aperse d’un tratto da sola, e in un’aureola luminosa Gesù con la croce in spalla entrò ospite silenzioso nelle sue stanze. Camminava faticosamente senza parlare: dalla testa coronata, dalle spalle flagellate, dagli occhi piangenti grondava sangue per modo che tutta la casa ne pareva bagnata. Caterina si gettò in ginocchio esclamando: « O Amore, mai più, mai più peccati! Se bisogna, sono disposta a confessare le mie colpe in pubblico ». Voleva dir altro e la parola non le usciva, voleva piangere e non poteva: uno scroscio come di fiume cadente le rimbombava negli occhi, sotto le palpebre chiuse. Era il giorno dopo la festa di S. Benedetto del 1473. Quando vi accostate al Sacramento della confessione pensate voi che i vostri peccati siano stati la vera causa della passione di Cristo? Pensate voi che quel perdono che implorate vi sia concesso solo per il sangue versato da Cristo? Che fu l’agonia del Getsemani, che fu l’umiliazione dei tribunali di Caifa e di Pilato, che fu la morte in croce a liberarci dal fuoco della maledizione eterna; lo pensate voi quando vi confessate? Non si può pensare a questo attentamente senza gridare dal profondo dell’anima il grido di Santa Caterina da Genova: « O Amore, mai più, mai più peccati! ». Dite: che dolore può avere certa gente che va a confessarsi come si va all’osteria, senza pregare, senza esame di coscienza, senza riflettere che s’accosta al sangue del Figlio di Dio? Che dolore possono avere taluni che prevedendo di doversi confessare presto, accrescono il numero dei peccati dicendo: — confessarne dieci e confessarne venti è la stessa fatica? E quelli che trascinano la loro vita in un’altalena di confessioni e di peccati, e non si decidono mai, e non si sforzano mai di cambiar vita, come possono illudersi di avere il dolore dei peccati? E senza dolore non c’è perdono. – Si presentò a S. Antonio di Padova un gran peccatore per confessarsi: ma era tanto confuso che non gli riusciva d’articolar parola e dava in singhiozzi. Il Santo gli disse: « Va, scrivi i tuoi peccati e poi ritorna ». Il penitente ubbidì. Poi tornò: e leggeva i suoi peccati come li aveva scritti. Appena ebbe terminato di leggere vide che dalla carta era scomparsa ogni traccia di scrittura e restava solo il foglio candido. Così sarà dell’anima nostra quando ci confesseremo con l’umiltà e con il dolore del pubblicano descritto da Gesù nella sua parabola bella. Ogni macchia di peccato svanirà dal nostro cuore e apparirà soltanto il candore dell’innocenza riacquistata. E dal Cielo Gesù che ci segue, si rivolgerà a’ suoi Apostoli ancora e agli Angeli e dirà: « Io vi dico che costui torna a casa giustificato ». Dico autem vobis descendit hic iustificatus in domum suam. –- UMILTÀ. « Chi si esalta sarà umiliato; chi si umilia sarà esaltato ». Con questo proverbio Gesù conchiuse la sua parabola: il proverbio è diventato ormai popolare, ma non però in pratica. Notate, o Cristiani, che senso di profondo disgusto racchiudono le parole divine contro i superbi. Già un filosofo pagano, a cui avevano chiesto che facesse Giove in cielo, diede questa risposta: « Fulmina i giganti ». Sì! Dio fulmina coloro che dimenticando d’essere cenere e polvere si sollevano sopra gli altri, mentre invece colma di grazie gli umili. Non avete visto mai un paesaggio di montagna? Di qua e di là s’ergono le cime rocciose, nude, aridissime, ma umile nel mezzo si allunga la valle verdissima e ferace di erbe e di frutti. Quando piove, tutta l’acqua abbandona le superbe vette e ricolma, fecondando, la valle; invece quando fulmina, i colpi di folgore vanno a battere fragorosamente le sommità. Omnis vallis implebitur omnis mons humiliabitur (Lc. III, 5): Simile a valle fecondata dall’acqua e risparmiata dalla folgore è l’anima del superbo. Oh beati i poveri di spirito, i quali possiedono umiltà. S. Bonaventura (Serm., XLVI) distingue questa preziosa virtù in umiltà di mente ed umiltà di cuore. La prima è quella che strappando gli inganni delle apparenze ci mostra in verità che cosa siamo e che cosa possiamo; la seconda è quelle che risveglia nel nostro cuore la fiamma della carità verso il prossimo, rendendoci utili e piacevoli agli altri. – 1. UMILTÀ DI MENTE. Un uomo, indebitato fino al collo, si vantava continuamente perché non c’era nessuno che fosse come lui pieno di debiti. «Io — diceva — devo al macellaio mille lire; non solo, ma la splendida villa in cui abito è ancora tutta da pagarsi; il giardino vasto come quello di un principe lo devo a un grosso prestito; anche quest’abito tagliato all’ultima moda mi ricorda un debito col sarto ». Se voi incontraste un capo ameno come costui, non è vero che dapprima vi farebbe ridere e poi lo credereste pazzo? Ma anche noi con ragione dobbiamo ritenerci pazzi e ridicoli quando pecchiamo di superbia. Tutto ciò che possediamo, beni in natura come l’ingegno, la sanità, la bellezza, beni di fortuna come le ricchezze, gli onori, le amicizie, non è tutto un prestito che Dio ci ha fatto, e quindi un debito di cui dovremo rendere conto? Quid habeat quod non accepisti? (I Cor., IV, 7). E se tutto è dato in prestanza, perché farci belli di quel che è di Dio come se fosse nostro? Perché vantarcene come se il Signore non potesse più, da un momento all’altro, togliercelo o diminuirlo a suo piacimento? ,Non troverete mai un santo che sia superbo di mente. Ecco la Vergine che proprio nell’istante in cui diviene la Madre di Dio, la Regina del Cielo, la Signora delle grazie, si curva e mormora: « Io sono l’ancella soltanto ». Ecco Giovanni Battista proclamato da Gesù in faccia alle turbe il più grande dei profeti e il più santo degli uomini, che del Messia dice: « Io non sono degno nemmeno di sciogliergli i legacci delle calzature ». Ecco Pietro, il capo degli Apostoli, il vicario di Dio sulla terra, che dice a Gesù: « Signore, allontanati che sono molto peccatore ». Ecco S. Paolo che si ritiene l’ultimo degli Apostoli, egli che aveva fatto lunghissimi viaggi ed aveva scritto lettere meravigliose. Non appena i Santi ma anche gli uomini veramente intelligenti rifuggono dal vantare i propri doni: ed ecco Virgilio che sul punto di morire vuol bruciare la sua Eneide immortale perché la sentiva troppo lontana da Omero; ecco Michelangelo che col martello colpisce il ginocchio del suo Mosè perché non era che un marmo senza parola; ecco S. Bonaventura che straccia nel suo mantello gl’inni scritti per l’Ufficio del SS. Sacramento dopo che S. Tommaso gli aveva letto i propri. La superbia delle mente dunque è la figlia dell’ignoranza e del peccato. – 2. UMILTÀ DI CUORE. Giuseppe ebreo, il figlio di Giacobbe, ci offre un esempio sublime di umiltà di cuore. I suoi fratelli gelosi lo maltrattavano ed egli simulava di non accorgersi, anzi li colmava di gentilezze. I suoi fratelli lo disprezzavano chiamandolo sognatore, ed egli taceva pensando che le sue visioni altro non erano che un dono gratuito di Dio. I suoi fratelli lo calarono in un pozzo per farlo morir vivo, ed egli si lasciò sprofondare nelle viscere della terra senza maledirli, ma piangendo per il loro pessimo peccato. Sapeva bene che se Iddio non gli avesse fatto grazie speciali, anch’egli sarebbe diventato cattivo come loro e peggio di loro. Ma quando fu nella cisterna umiliato così che di più non era possibile, la Provvidenza lo esaltò fino al trono del Faraone d’Egitto. E allora vide i suoi fratelli affamati e cenciosi, prostrarsi a’ suoi piedi e implorare vita e frumento. L’umile di cuore neppure allora, che ne aveva la facilità e quasi il diritto, abusò della sua potenza: ma avendo dimenticato ogni offesa diede a’ suoi fratelli case e terre. L’umile di cuore quando è accusato sa tacere come Gesù; quando è offeso sa perdonare come Gesù; quando gli altri sbagliano li sa scusare e compatire come Gesù. Se in tutte le famiglie ci fosse quest’umiltà di cuore, come sarebbe gioconda la vita! La nuora non si adonterebbe delle osservazioni della suocera, ma le ascolterebbe piamente per farne tesoro; la suocera non urlerebbe ad ogni sbaglio della nuora, ma in silenzio saprebbe compatire e riparare. I giovani rispetterebbero la saggezza dei vecchi, i vecchi riconoscerebbero la forza dei giovani. Tutti vedrebbero le virtù degli altri e chiuderebbero un occhio sui piccoli difetti del prossimo. Invece come è diversa la realtà. « Io perdono — dicono alcuni — ma non dimenticherò mai quello che mi è stato fatto ». Chi sei tu? Dimentica lo stesso Dio le offese degli uomini, e non dimenticherai tu quelle del tuo prossimo? « Questo piacere — dicono altri — non glielo farò mai, perché non sono il suo servitore ». Chi sei tu? Non ha sdegnato il Padrone dell’universo di lavare i piedi a dodici uomini rozzi, e a te par troppo umiliante un atto di gentilezza? Ed ecco si dice: « Quella persona l’ho conosciuta bene: ha il difetto di mentire ». E tu nessun difetto hai? E perché, se davvero l’hai conosciuta bene, non ti sei accorto che con quel difetto ha molte virtù, come l’onestà, la giustizia, la pietà? – Il profeta Geremia, mosso dallo Spirito Santo, andò un giorno in mezzo alla città dove la folla era assai densa. Sopravanzava su la gente accorsa intorno così che tutti lo potevano vedere senza fatica: teneva nelle mani un vaso d’argilla. Improvvisamente lo scagliò a terra ed esclamò: « Popolo d’Israele, così è l’uomo. Così è l’uomo come questo vaso d’argilla che in un attimo è frantumato né si può raggiustare. » Tutte le volte che il demonio vi gonfia la mente o il cuore di superbia, tutte le volte che state per illudervi d’essere qualcosa o per voi o per gli altri, ricordatevi del profeta Geremia. Ricordatevi che basta un soffio di vento, una goccia d’acqua a troncare il filo della nostra vita: ricordatevi che d’ogni cosa dovremo rendere conto a Dio come di un debito esattissimo.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXIV: 1-3
Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.

[A Te, o Signore, ho innalzata l’anima mia: o Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire: che non mi irridano i miei nemici: poiché quanti a Te si affidano non saranno confusi.]

Secreta

Tibi, Dómine, sacrifícia dicáta reddántur: quæ sic ad honórem nóminis tui deferénda tribuísti, ut eadem remédia fíeri nostra præstáres.

[A Te, o Signore, siano consacrate queste oblazioni, che in questo modo volesti offerte ad onore del tuo nome, da giovare pure a nostro rimedio.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: per Cristo nostro Signore. Che, salito sopra tutti cieli e assiso alla tua destra effonde sui figli di adozione lo Spirito Santo promesso. Per la qual cosa, aperto il varco della gioia, tutto il mondo esulta. Cosí come le superne Virtú e le angeliche Potestà cantano l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps L: 21.
Acceptábis sacrificium justítiæ, oblatiónes et holocáusta, super altáre tuum, Dómine.

[Gradirai, o Signore, il sacrificio di giustizia, le oblazioni e gli olocausti sopra il tuo altare.]

Postcommunio

Orémus.
Quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, quos divínis reparáre non désinis sacraméntis, tuis non destítuas benígnus auxíliis.

[Ti preghiamo, o Signore Dio nostro: affinché benigno non privi dei tuoi aiuti coloro che non tralasci di rinnovare con divini sacramenti.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (263)

LO SCUDO DELLA FEDE (263)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (6)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO VI.

INDIFFERENZA IN RELIGIONE

I. Indifferenza pratica, che colpa sia. Il. Dove abiti più frequentemente.

I due assiomi combattuti nel capo antecedente mirano a stabilire un principio pratico, l’indifferenza in religione: e però confutati quelli, resta chiusa la via anche a questa. Con tutto ciò, come l’indifferenza pratica è senza alcun dubbio la piaga che più affligge l’odierna società, così non sarà altro che utile il darle un’occhiata anche più direttamente. Che cosa è l’indifferenza pratica in religione? Miratela pure sotto l’aspetto che volete, essa vi comparirà sempre una mostruosità singolare. L’aspetto, sotto cui ella più si compiace di darsi a vedere, è il filosofico, in quanto che l’indifferente vorrebbe comparire un uomo superiore agli altri, e mosso da una ragione più illuminata, che non è la volgare. Ebbene, l’indifferenza in filosofia non è altro che un assurdo. Imperocché la religione, oltre all’essere una somma d’ossequi e di affetti verso il Signore, è ancora la rivelazione di una serie di verità rispetto a Dio ed a noi, alla vita presente ed all’avvenire, ai veri beni ed ai veri mali di questa vita e dell’altra. Ora che cosa significa essere indifferente in religione? Significa non curarsi delle verità in sé più nobili, all’uomo più necessarie. Il dubbio anche solo intorno a queste verità, è la morte di un intelletto che si sollevi alquanto sopra il comune; ma la non curanza di queste verità ha qualche cosa di stupido e brutale. Bisogna per giungere a questo stato essere talmente immerso nel senso, affogato nella materia, da non aver mai compreso, nè lo sconcio che è tale ignoranza, nè avere mai sospettato l’importanza di tutti que’ veri. Bisogna dire praticamente a sè stesso che non importa nulla l’accertare se abbiamo un’anima immortale o se siamo come le bestie; se un Dio ha parlato da sé medesimo, oppure se unica nostra guida ha da esser la debole nostra ragione. Se abbiamo nulla a temere per l’avvenire, o se abbiamo tutto a temere. Se è vero che un giorno saremo consorti degli Angeli del cielo, oppure se torneremo nel nulla d’onde fummo creati; e così andate dicendo di tutte le questioni più sublimi che riguardino l’umanità, non meno che la divinità. Se dunque un uomo, che può non curarsi di tutto ciò, merita il nome od il vanto di filosofo, di amatore della sapienza, addio per sempre filosofia. – Sebbene non solo verso la filosofia, ma pure verso il senso comune, l’indifferenza in religione è un assurdo. Non è mestieri esser filosofo per intendere che niuno può essere indifferente intorno a cosa, da cui dipende qualche grande suo interesse. Un capo di casa indifferente intorno ad una lite, da cui dipenda il sostentamento della sua famiglia, un generale indifferente intorno ad un fatto d’arme, da cui dipenda l’esito di una campagna, un principe indifferente intorno ad un avvenimento, che può mantenerlo sul trono o balzarnelo, sono esseri che escono dal consueto dell’umana natura e che appartengono ad un genere di stupidità non conosciuta. Ma un indifferente in religione è assai peggiore: perocché egli è indifferente a beni di ben altra importanza, che non sono gli accennati, se pure è vero, come è verissimo, che la religione si apprende con una mano all’uomo, coll’altra a Dio, e confina da una parte col tempo, dall’altra coll’eternità. Il perchè se fosse incerto tutto quello che si dice della religione, fosse anche leggerissimamente fondato, ogni buon senso vorrebbe che se ne facessero ricerche minute, diligenti, profonde, costanti fino ad avere al tutto raggiunta la verità. Ora che avrà a dirsi della stupidità di chi non se ne cura, mentre essa è, per testimonianza dei più chiari intelletti dell’universo, sì saldamente stabilita? L’assurdità, come ognun vede, è senza fine, e cede solo al delitto che in essa si ritrova. Conciossiaché la religione non è solo bene dell’uomo (notatelo bene, o lettore), è ancora e principalmente diritto di Dio. Se la Religione non fruttasse a noi bene di alcuna sorta, se non fosse il mirto della vita presente e la beatitudine dell’avvenire, se fosse per l’uomo null’altro che un penosissimo sacrifizio, tuttavia sarebbe altamente doverosa, perché Iddio ha diritto d’esigerla. Dio, autore dell’uomo e della società, ordinatore dell’uno e dell’altra, e padrone supremo e assoluto; fintantoché gli competeranno gli attributi di onnipotenza, giustizia, sapienza, verità, santità, bontà infinita, sarà nostro debito d’ossequiarlo, riconoscerlo, propiziarlo, invocarlo; ringraziarlo, adorarlo. Ognuno dei suoi titoli è un vincolo insolubile che a lui ne stringe e ci obbliga alla religione verso di lui. Epperciò l’essere indifferente intorno a Dio ed ai suoi diritti, gli è un dir col linguaggio dell’opera che non stimiamo gran fatto importante il rivolgerci a Lui per onorarlo o dargli le spalle in faccia: e che non ci cale gran cosa il presentargli atti ch’Ei gradisca, Ei comandi, Egli accetti, oppure che Egli disapprovi, che Egli abbomini, che Egli rigetti. Ne vedrete più sensibilmente l’eccesso, se trasporterete il caso a quello che interviene nel mondo. Immaginate un marito che dica alla sua sposa, che egli è indifferente al viver con lei oppure con una donna qualunque; immaginatevi un figliuolo che dica al suo padre, che egli rispetta lui, ma come farebbe un altro qualsiasi; immaginate un suddito che dica, che a lui fa lo stesso obbedire al suo principe, oppure ad un nemico di lui: tutta cotesta indifferenza parrebbevi una colpa sì leggiera? Come! un padre pareggiato nell’amore con uno straniero! Un principe col suo rivale! Una sposa con una donna pubblica! Ebbene voi colla vostra indifferenza religiosa non fate infinitamente peggio, mentre portate lo stesso amore alla sposa immacolata di Cristo, la Chiesa, ed alla sinagoga di satana; mentre tenete in uguale stima le dottrine sozze di Lutero, Calvino, Zuinglio e di non so quanti altri settarii, e le dottrine degli Apostoli, dei Patriarchi e dei Profeti, e mettete nello stessa fascio le pratiche sacrosante della cattolica Chiesa colle invenzioni umane, di un cervello farneticante, e professate colla vostra condotta che tutto vi è indifferente, che per voi tutto è lo stesso? Ma non è questo un delitto, di cui mai non si arriva a toccare il fondo? – Vi fu chi osservò che in questa sciagurata indifferenza si racchiude una total negazione del Cristianesimo, una piena apostasia da Gesù Cristo; ma poteva anche aggiungere, che vi si racchiude un pratico ateismo. La negazione totale del Cristianesimo è evidente. Imperocché chi crede ogni religione buona, non può credere che vi abbia una rivelazione; oppur, se vi ha una rivelazione, che non importi il conoscerla e molto meno il darle retta: altrimenti non potrebbe essere indifferente. Un soldato che dicesse, che è la stessa cosa per lui recarsi al campo di battaglia o starsene sotto le tende, mostrerebbe chiaro che o non ha ricevuto ordini dal capitano o che non si tiene per obbligato a quegli ordini: ma similmente per poter dire che non importa più una pratica di culto che un’alta, bisogna esser persuaso che o Gesù non ha dato nessun ordine in proposito, o che i suoi ordini non ci legano. Or questa persuasione appunto è un verissimo rinnegare la fede cristiana, è assolutissimo atto di apostasia, perché al tutto esclude la verità della rivelazione. – Inoltre, io diceva, è un pratico ateismo. E come no? Chi stima tutte ugualmente buone le religioni, non può aver di alcuna la stima che è necessaria, non può adottarne l’esercizio come si conviene, non superare le difficoltà che s’incontrano nel praticarla. Appena si riesce a porla in atto quando il nostro intelletto è convitto della verità di essa, e che senza di essa non vi è affatto salvezza: tanto è l’ostacolo che le frappongono le umane passioni, le occupazioni della vita e la nostra infermità! Pensate adesso se un intelletto senza persuasione, un cuore senza affetto riusciranno mai in un’opera cosi laboriosa. Il crederlo è un ingannarsi a volontà. – Se fosse necessario un ultimo disinganno, si potrebbe fare ricorso alla sapienza, la quale porrebbe in tutta la sua luce come un vero indifferente affatto non pratichi religione di sorta. Non il protestantesimo; poiché anche per praticare quell’abbozzo di religione, bisogna avere qualche fiducia di possedere in esso la verità. Di fatto fu giustamente osservato che anche tra di loro quelli i quali mantengono ancora qualche pratica positiva, sono quelli che, fond9andisu in qualche modo sull’autorità, più si allontanano dal credere ine buona ogni religione. Non pratica il Cattolicismo; poiché, come sopra abbiamo detto, il principio dell’indifferenza chiaramente il rinnega. Resta adunque che praticamente viva senza culto di sorta alcuna. – Di che ecco poi l’ultima conseguenza. L’indifferente è quel mostro singolare che vive sopra la terra come non vi avesse divinità. Un celebre teologo avendo udito un giorno, che un cotale che l’avvicinava, si gloriava di essere ateo, si fermò di rincontro a lui e prese a correrlo più e più volte coll’occhio da capo a piedi. Ammiratosi quell’empio di essere così diligentemente considerato, interrogò il teologo, che trovasse in lui di così nuovo, che tanto attirasse la sua attenzione. Non mi è mai venuto fatto, rispose, d’incontrare quella belva che chiamano ateo: voglio saziarmene questa volta per sempre. Ora se è un mostro così strano chi non crede, che esista Dio, che mostro sarà quello che, credendo che Dio esista, pure non lo riconosce, non l’adora, non gli presta ossequio di alcuna sorta? Eppur questa è la condizione dell’indifferente. Egli può definirsi un essere che non ha commercio col cielo, un essere per cui Dio è come non fosse, un essere che riceve grazie continuamente e non sente gratitudine di alcuna sorta. Ha un intelletto, e mai nol rivolge a chi glie lo ha dato, possiede un cuore, che mai non ha un palpito per chi gliel ha formato, è sostenuto in vita, e non conosce la mano che lo regge; offende con mille enormità il Signore, e non ha un sospiro mai di pentimento verso di Lui. – Ad un ateo, che in una nobile conversazione si vantava presso certe signore di essere il solo, che in quel palagio non credesse a Dio, la padrona di casa, stomacata di una impudenza così svergognata, rispose che nel suo palagio vi aveva anche altri, che non vi credevano altrimenti. E chi sono questi? I miei cani ed i miei cavalli, replicò essa prontamente: solo che quelle povere bestie, se hanno la sventura di non conoscere Dio, hanno però il buon senso di non vantarsene. Giusta risposta, ma risposta che ancora non basterebbe per un indifferente. Imperocché, che non onori Iddio chi non lo riconosce, in qualche modo s’intende: ma dove si troverà chi al tutto professi di non onorarlo, mentre lo riconosce? Non vi è altro luogo che l’inferno, nè altro essere che il demonio. E con tutto ciò, quasi non bastasse tanta empietà, aggiunge la beffa all’insulto. Imperocché, mentre non ha più religione di quello che ne abbia uno spirito reprobo, vuoi passare agli occhi dei semplici come un uomo che ha senno, che ha ingegno, che ha vedute più larghe, in fatto di religione, che non hanno gli uomini stessi di Chiesa, e che non fa diversamente dal comune degli uomini, se non perchè così richiede la filosofia e la verità. – Era portato alla sepoltura un cotale, che in vita aveva fatto di ogni erba un fascio, uomo ingiusto, rapace, dissoluto, lo scandalo di tutto il suo paese. In termine di morte, tuttavia, volle essere vestito di abito religioso e così sepolto. Un buon uomo, che non sapeva nulla della sua morte e che s’imbatté nel cadavere di lui, mentre era portato a seppellire: chi è morto? chiese agli astanti, appressandosi alla bara: ed avutone che il tale, e vedutolo in quei panni, oh ve’, disse, come si è mascherato bene! Mal per te che Dio ti riconosce anche sotto la maschera. Ora dite pur voi il simile degl’indifferenti. Fingano pur filosofia, altezza di pensieri, religione alla portata dei tempi e quel che vogliono, che non nasconderanno per ciò a Dio il loro ateismo. – Solo perché non sfugga anche a voi, o lettore, e perchè il possiate detestare e guardarvene, io vi abbozzerò qui in pochi tratti l’immagine dell’indifferente, accennandovi anche dove per lo più si annidi. E indifferente in religione è quello il quale, sotto pretesto di filosofia, non fa caso più di Cattolicismo che di protestantismo, più protestantismo che di giudaismo, più di giudaismo che di buddismo, e sa (come se ne vanta) portar rispetto al bramano, al maomettano, al sandvichese, come al Cristiano ed al Cattolico. L’indifferente in religione è quello il quale, dal trono della sua grandezza e dal tripode della sua sapienza mirando al basso, compatisce la follia dei Cattolici, che sono, come egli parla, troppo esclusivi, perché non sanno accogliere, come egli fa nel proprio cuore, tutte le religioni dal Cristianesimo fino all’ateismo. E indifferente in religione è quello, il quale mai non vedete impigliato in veruna pratica di culto. Va a messa, se la convenienza lo porta; non vi va, se può farne a meno. Parla di religione con rispetto se l’indole delle persone con cui tratta, lo domandi; bestemmia come un turco, se si trova con altri, presso i quali sia onorevole la bestemmia. Checchè però si faccia, non si trova mai impegnato col cuore in quello che fa. – L’indifferente in religione è un essere, che in contraddizione colla sua professione, ha un’avversione al Cattolicismo così sentita che, per quanto la voglia nascondere, mai non vi riesce. Se insorga qualche controversia tra il sacerdozio e l’impero, s’infiamma tutto di santo sdegno, e trova subito che il clero ha torto, che i Vescovi pretendono troppo, che il Papa è un usurpatore, che la Chiesa non conosce la sua missione. Se si parli di cose ecclesiastiche, tutto gli fa afa, e tutto risveglia la sua collera. Non può sentir nominare templi, funzioni, frati, monache senza ribrezzo e senza avventar loro contro i suoi frizzi ed i suoi sarcasmi. L’indifferente in religione è un uomo che, come ha le sue avversioni, così ha le sue simpatie: ma queste sono tutte per gli eterodossi, per gl’increduli. Fra noi Cattolici non trova nulla che sia buono, ma trova tutto oro di ventiquattro carati nei paesi protestanti. In Inghilterra, esclama.., ah in Inghilterra!.., oh in Inghilterra!… oh in Inghilterra! Quelle leggi, quelle costumanze, quella civiltà! Come tra noi tutto è ciarpa e pattume, così colà vi sono in atto le otto beatitudini. E come alle cose, così ha simpatia per le persone. Per lui non vi sono grandi uomini che quelli i quali sono spregiudicati in religione. Trova grandi tutti i nemici della Chiesa, i filosofi del secolo scorso grandissimi, superlativi i nostri moderni legulei, ed avessero pure appiccato il fuoco alle quattro parti del mondo, purché abbiano tormentata un poco la santa Chiesa, sono eroi aí suoi occhi.

II. Questa è sottosopra l’indole e la natura intrinseca dell’indifferente. Che se ora volete sapere dove si annidi, io prima vi risponderò, che ve ne ha per tutto in que paesi che sono all’altezza dei tempi: ma poi si scovano principalmente in certi siti di aria loro più favorevole. – Se ne trovano di molti nelle università moderne, e tanto sui banchi quanto sulle cattedre, e di là cominciano a scendere anche in certi collegi o liceij nazionali, dove i maestri o dettano lezioni exprofesso d’indifferenza religiosa, o, per accattare l’applauso di quattro fanciulloni, ne gittano a quando a quando qualche sprazzo per condimento della lezione; e dove quei fanciulloni medesimi, per dimostrare che: sono usciti di fanciulli, si fanno un vanto di non credere più a nulla. Si annidano talvolta tra le pandette ed i digesti,. i codici e le novelle: ve ne ha tra i trattati delle febbri e dell’ostetricia, ve ne ha sotto i bisturi e le lancette; e ne’ paesi di campagna dove l’aria finora è loro sfavorevole, si appiattano per lo più tra le carte dei notai, oppure fra i barattoli delle spezierie. Quando poi si parli di que’ Governi, che si vantano di non confessarsi, allora si assidono perfino sui banchi dei Ministri, perfino sui seggioloni delle Magistrature : giacché dicono che la politica non cammina mai tanto snella quanto allora che non ha al piede prima. le pastoie della religione. ~ Nei paesi retti a parlamento, ve ne ha sempre un buon deposito in quella parte che chiamano la sinistra, come se ne trova pure un buon dato tra quegli impiegati, che hanno bisogno di servire qualunque Governo a qualunque costo ed a qualunque condizione. – Ve ne ha per ultimo, lo debbo dire? perfino un certo numero di genere femmineo, impacciato tra i cerchi di ferro e gli alberelli dell’acque nanfe; sì, troverete delle donne leggiere , delle fanciulle vane, le quali, per ottenere un sorriso di un giovane dal capo scarico, o l’applauso di un cicisbeo dalle maniere leziose, vi professeranno francamente l’indifferenza religiosa, aspirando così ad essere credute tanto alle altre superiori, quanto più singolari e più audaci ad insultar Dio. Vi ha però un luogo dove non si trovano più gl’indifferenti, e sapete dov’è? Riflettetevi bene: è al letto di morte e nella vita che a questa succederà