IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (5)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (5)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo secondo (2)

L’ATTIVITA’ MORALE

II. L’AZIONE BUONA

Si narra che, sulla tomba di un povero sciagurato, i parenti volevano porre una lapide con questa iscrizione: « Il male lo fece bene: ed il bene lo fece male ». Almeno la seconda parte di una iscrizione tanto feroce potremmo dedicarla spesso a noi ed alle azioni che reputiamo « buone ». Non basta che un atto nel suo oggetto e nelle sue circostanze sia secondo ragione; occorre anche che sia compiuto con un fine buono. È certo secondo la ragione partecipare generosamente ad una sottoscrizione in occasione d’un terremoto o d’una sciagura; ma se il donatore compie il suo gesto solo per poter ottenere una onorificenza da tanto tempo agognata e mai raggiunta, non fa un’azione buona: la sua non è generosità; è dell’egoismo puro e ributtante. Cosi ancora: è buona cosa in sè la preghiera; ma se essa si riducesse ad un puro movimento delle labbra, senza nessuno sforzo d’attenzione, non sarebbe preghiera se non di nome. In altre parole: dopo d’aver visto l’atto morale dal punto di vista oggettivo, dobbiamo ora analizzarlo dal punto di vista soggettivo, secondo l’intenzione e l’animo che ispira l’azione; ossia, come usano dire i filosofi, dopo la materia occorre scrutare la forma dell’atto, che costituisce insieme con la prima un unico tutto, come il corpo e l’anima in noi. Evidentemente, ciò che più importa nell’atto è l’anima, o l’intenzione del fine, che, come proprio oggetto della volontà, dà la forma all’azione morale; cosicchè, se l’atto fosse in sè materialmente cattivo, ma chi lo compie, in buona fede, lo ritenesse buono, non vi sarebbe colpa. Quando, ad esempio, san Crispino, se è vero ciò che di lui si narra, rubava il cuoio ai ricchi per far scarpe per i poveri, la sua azione era oggettivamente cattiva, ma soggettivamente buona, supposto che egli incolpevolmente ritenesse lecito il suo modo di procedere: e se una persona giudicasse erroneamente che un atto buono è peccato e lo facesse, sarebbe colpevole dinanzi a Dio. – Diciamo, dunque, una parola sull’anima dell’azione, ossia sul fine. In questo sta la nostra grandezza, ma anche la nostra responsabilità. È la libertà di scegliere fra il bene ed il male, è l’intenzione che è in nostro potere, ciò che conferisce un valore morale alla nostra attività. Un orologio che si guasta, una tegola che cade, un’inondazione non sono un bene o un male morale, né li definiamo con l’appellativo di cosa buona e di cattiva. Noi, invece, siamo buoni o cattivi, perché siamo i padroni dei nostri atti. Dio ci ha creati liberi, perché vuole che con la nostra volontaria adesione decidiamo di amarlo. Per questo, se è bello il canto degli uccelli, più bello è il canto delle anime virtuose che amano Dio. Lo sappiamo: dopo il peccato originale, una tale volontà buona è spesso ardua e difficile. Il primo disordine fu la fonte degli altri disordini, come avviene a colui al quale si abbuia la ragione e che continua a pronunciare parole sconnesse. Tale, purtroppo, è la storia dell’umanità: invece della subordinazione a Dio, al « Bene dei beni », come dice sant’Agostino, alla Ragione suprema, in una parola all’Amore divino, abbiamo il disordine, la irrazionalità, la ribellione all’Amore infinito. E non solo si sbaglia facendo il male, ma possiamo in due modi sciupare ciò che è bene in sè e non arrivare all’altezza dell’atto morale; o compiendo il bene con un’intenzione non buona, che lo guasta, oppure limitandoci a porre un’azione buona materialmente, meccanicamente, per pura abitudine, senza darle un fremito di vita.

1. – Il bene per il bene.

Innanzi tutto, perché si abbia un’azione normalmente buona, occorre voler fare il bene per il bene. E’ questa l’espressione precisa di san Tommaso, il quale non esita a dichiarare che « affinché la volontà sia buona, si richiede che voglia il bene e lo voglia per il bene. — Ad hoc quod voluntas sit bona, requiritur quod velit bonum et propter bonum (I, II, q. 19, a. 7 ad 3) ». Non basta, cioè, ad esempio, sfamare un povero o fare il proprio dovere, ma è necessario fare questo con un fine buono. Se aiutassi l’indigente per un motivo volgare, o se osservassi il mio dovere solo per farmi vedere dal superiore o dal padrone, io avrei compiuto un’azione che in sè è buona, ma ha un’anima ispiratrice che la guasta. E’ per questa ragione inoltre che il Vangelo ci intima di non giudicare mai gli altri: per giudicare un’azione non basta limitarsi alla superficie di essa, alle apparenze esteriori, ma bisogna scendere nella coscienza di chi la compie; e siccome solo Dio intuisce i cuori, soltanto Lui può valutare il valore morale di un atto. In altri termini, il bene perfetto — come abbiamo mostrato — è ciò che è voluto dall’Amore di Dio, è ciò che è richiesto dalla sua volontà d’amore; e noi, per fare una azione buona, dobbiamo non solo volere e fare ciò che Dio vuole ed ama, ma volerlo e farlo per amore di Dio, ossia per amore del Bene sommo. L’ascetica cristiana inculca caldamente il pensiero della presenza di Dio e la preghiera, appunto perché in tal modo riesce più facile il bene fatto per amor suo. Quando non le labbra, ma la vita intera d’un Francesco d’Assisi grida: Deus meus et omnia, o quando un Ignazio di Loyola ad ogni momento si propone di tutto fare alla maggior gloria di Dio, si evita il pericolo di sciupare il bene con un’intenzione ispiratrice non nobile ed alta. -:Nulla di più opposto al Cristianesimo di un’attività materialmente buona, ma viziata da un’anima malvagia. Il fariseismo è ciò che più dispiaceva a Gesù e quando noi scorriamo il Vangelo di san Matteo e leggiamo le fiere ed inesorabili condanne dei « sepolcri imbiancati », comprendiamo come il Maestro divino non può gradire un’azione che in apparenza sia bella come il marmo bianco d’un monumento, ma intimamente racchiuda il cadavere e la putrefazione di mire egoistiche. Si può digiunare e distribuire elemosine; si possono moltiplicare abluzioni e purificazioni; si può osservare un rigorismo esteriore perfetto; ma se tutte queste pratiche non sono vivificate dall’amore di Dio, ma da un fine ignobile, Cristo condanna con una terribile ed espressiva parola; « Ipocrita ». È la sincerità che Egli vuole. La morale dell’amore non può appagarsi di una bugiarda manifestazione esteriore, ma chiede ed esige il cuore, ossia la rettitudine d’intenzione.

2. spiritualizziamoci

In secondo luogo, c’è un altro pericolo da evitare. Composti di spirito e di materia, noi dobbiamo continuamente vincere l’accidia e sforzarci di volare in alto. La materia ci trascina al basso, come zavorra pesante. Ed è facile la stanchezza, è facile cadere nel precipizio del meccanismo e della materializzazione. La vita morale implica l’attivismo dello spirito e non già passività comoda ed inerte. Non è un vero ammiratore di Dante colui che si accontenta di imparare a memoria tutta la Divina Commedia senza approfondirne le bellezze; così pure, il bene è fatto male da chi lo compie meccanicamente, senza rinnovarsi ad ogni istante, senza suscitare in sé le energie che gli dànno un soffio di vita spirituale. Questo sforzo vigile dello spirito nostro è più che mai necessario per frenare le nostre passioni. Se esse non fossero dominate, ci trascinerebbero al precipizio, simili all’acqua impetuosa, che, invece d’essere incanalata nel letto d’un torrente, dilaga nei campi e tutto sommerge. Ma come quell’acqua, sapientemente utilizzata, può essere sorgente di forza elettrica, di luce e di calore per intere città, così le passioni nostre, ben indirizzate, costituiscono un potente aiuto. Anche un focoso destriero, esclama il Cathrein, guidato a dovere, serve a farci percorrere, nel più breve tempo possibile, il massimo spazio; non frenato, ci conduce a perdizione. « Un uomo apatico non è atto a nulla di grande e non riuscirà ad elevarsi al di sopra di una ben calcolata mediocrità. Anche nel puro lavoro intellettuale l’uomo dev’essere sostenuto da una certa misura di passione, se vuol compiere qualcosa di bello. Chi si dà allo studio con entusiasmo, lavora più energicamente e con maggiore costanza, e la sua intelligenza si fa più pronta ed acuta. Questo si verifica in ogni campo. Quante volte l’uomo apparisce, tutt’ad un tratto, quasi trasformato, se lo dominano potenti passioni! Allora diviene più geniale, più ricco d’idee, più eloquente ». Infelice colui che procede per moto d’inerzia e per mera abitudine! Certo: dobbiamo distinguere due generi d’abitudine. C’è un’abitudine che dice ripetizione amorfa e senza vita; e c’è l’abitudine che è prontezza, facilità, e agilità. Quest’ultima viene dall’abito acquisito di fare il bene. Sulla tomba di san Paolo, a Roma, si leggono le parole di una sua lettera ai fedeli di Filippi: « La mia vita è Cristo. Mihi vivere Christus est ». Non era Paolo che viveva; era il Cristo che viveva in Paolo: Io vivo, scriveva egli un giorno ai Galati, ma non sono io che vivo; è Cristo che vive in me ». Da questo programma bisogna prendere le mosse, se si vuol abbracciare con un’occhiata la differenza tra l’azione morale umana e l’azione morale cristiana, tra l’attività naturale e l’attività soprannaturale, tra l’uomo onesto e il discepolo di Gesù. Come già vedemmo nel Sillabario del Cristianesimo, noi possiamo vivere la vita in tre modi: da bruti, da uomini, da Cristiani. Possiamo, cioè, orientarci o verso la materializzazione e l’abbrutimento, calpestando la legge morale; o verso la spiritualizzazione, ispirata da un sistema filosofico e da un’etica puramente umana: ovvero verso la elevazione soprannaturale della vita umana. È quest’ultimo punto che occorre approfondire, alla luce del dogma, che ci insegna il mistero della nostra divinizzazione e dell’incorporazione nostra a Cristo. – Sarò elementarmente chiaro in questo capitolo, perché so benissimo che esso rivelerà un’idea sconosciuta a moltissimi lettori, che pur si ritengono credenti e non conoscono le basi del Cristianesimo. Mi si segua con attento raccoglimento, perché è un’enormità che il Cristiano non sappia qual è la caratteristica propria della sua attività e la fisionomia speciale della sua vita. La ignoranza religiosa dei nostri tempi è qualcosa, non dico di spaventoso, ma di mostruoso.

1. – L’incorporazione a Cristo.

Era la sera dell’Amore divino. Poche ore prima di una acerbissima passione, quale solo l’eccesso dell’amore per gli uomini poteva suggerire, Gesù istituì il Sacramento dell’Eucaristia,nvale a dire il Sacramento dell’amore. Poi, in termini espliciti, riprendendo un pensiero già altre volte insegnato nella sua predicazione, manifestò ai dodici la verità consolante della nostra incorporazione in Lui. « Rimanete in me ed io in voi. Come il tralcio non può da sè dar frutto, se non rimane nella vite, così nemmeno voi, se non rimanete in me. Io sono la vite; voi i tralci. Se uno rimane in me, ed io in lui, questo porta molto frutto, perchè senza di me non potete far niente. Chi non rimarrà innme, sarà gettato via, a guisa di tralcio che si secca, si raccoglie e si butta sul fuoco ove brucia ». Il Cristiano, dunque, non deve considerarsi come una persona avulsa o separata da Cristo e dagli altri credenti. Comeni vari tralci sono uniti fra loro e con la vite, così i discepoli di Cristo costituiscono un unico tutto tra di loro e col loro Capo adorato. Tale unione tra i fratelli e con Dio, Gesù proseguì a spiegarla, soggiungendo: « Il comandamento mio è questo, che vi amiate scambievolmente, come io ho amato voi »; e poi si rivolse con una ineffabile preghiera al Padre, chiedendo che i suoi seguaci fossero tutti una cosa sola, come Egli ed il Padre erano un solo Dio nell’unità dell’Amore sostanziale, vale a dire dello Spirito Santo: « Padre, custodisci nel Nome tuo quelli che mi hai dato, acciò siano uno, come noi… Né soltanto prego per questi (Apostoli), ma anche per quelli i quali per la loro parola crederanno in me; che siano tutti uno, come tu sei in me, Padre, ed Io in te: siano anch’essi uno in noi ». San Paolo non fece altro, se non commentare simili parole rivelatrici e spiegarle con molteplicità di paragoni. Nella lettera ai Cristiani di Roma enunciò il dogma della nostra unione a Cristo, con la similitudine dell’innesto: « Noi siamo stati innestati in Cristo » e partecipiamo perciò della sua linfa, della sua vita divina; e con Cristo formiamo l’unica grande pianta della Chiesa, che si svolgerà sino alla fine del mondo e durerà immortale. Nella lettera ai fedeli di Corinto volle ricorrere al paragone del corpo umano: a Pur essendo molti, noi siamo un sol corpo ». 《 Come il corpo è uno ed ha molte membra, e come tutte le membra del corpo, benché siano molte, non formano che un unico corpo, così è anche di Cristo ». Noi tutti abbiamo ricevuto il Battesimo per formare un corpo unico… Voi siete il corpo di Cristo e membra di questo corpo ». Ognuno di noi, continuava l’Apostolo, non deve mai profanare se stesso, perché profanerebbe Cristo. E tutto l’intento della sua predicazione era di infondere negli animi questa idea dominante (che oggi esula dalla mente di moltissimi Cristiani); noi dobbiamo sentirci uniti a Cristo; siamo incorporati a Lui: non viviamo la vita nostra, ma la Sua. Il braccio è bensì braccio ed ha la sua attività, ma non dev’essere riguardato come avulso dall’organismo, poiché vive della vita dell’organismo; così noi: abbiamo, sì, la nostra attività umana, ma essa è elevata, potenziata, soprannaturalizzata da Cristo, il Capo del grande organismo che è la sua Chiesa. – Nella lettera ai credenti di Efeso san Paolo ha insistito su quest’ultimo concetto: Dio ha dato Cristo come capo alla Chiesa, la quale è il suo corpo ed il suo compimento, e tutti sono uniti in Cristo, in un corpo unico. Non contento di questo, prese l’altra immagine, dell’edificio, e soggiunse che Cristo è la pietra angolare: « In Lui sorge un edificio bene ordinato per formare un tempio santo nel Signore ». Se noi non giungiamo a questa convinzione, se ci riguardiamo come individui egoisticamente divisi, come atomi separati da Cristo, se la nostra attività è considerata solo come nostra e non come la vita di Cristo in noi, che cooperiamo con Lui, come il braccio coopera alla vita unica dell’organismo, noi potremo arrivare alla morale umana, ma non concepiremo mai cos’è la morale cristiana. È un errore del protestantesimo — essenzialmente individualistico e, di conseguenza, negazione assoluta del Cristianesimo, che è organismo sociale — quello di immaginare la giustificazione nostra come una attribuzione giuridica dei meriti di Cristo a noi. No, osserva egregiamente il P. Plus nel suo aureo volumetto: In Cristo Gesù: « Per salvarci, nostro Signore non si è sostituito a noi, lasciandoci separati da Lui. Egli ci ha fatti solidali con Lui, unendosi intimamente e vitalmente a noi, tanto che, ormai, quando il Padre guarda un redento, lo vede come qualche cosa di Gesù e quando guarda Gesù, lo scorge, con tutti i redenti innestati in Lui », incorporati a Lui, congiunti con Lui. È vero: non si tratta d’una unione fisica, come avviene fra le parti d’un corpo; e nemmeno d’un’unione puramente morale, come fra i membri d’una famiglia; ma non si tratta neppure d’una unione esclusivamente giuridica e di una attribuzione esterna di meriti. Con Cristo noi siamo realmente e misticamente uniti. – La vera realtà non è solo il Cristo storico che è nato a Betlemme ed è morto sul Calvario; è anche il Cristo mistico, ossia il Gesù che si è incarnato, che è nato, ha vissuto a questo mondo e via dicendo, e che ci unisce tutti a sé nel grande corpo che è la Chiesa militante, purgante e trionfante, — che non è lontano da ognuno di noi, ma vive in noi con la sua grazia divinizzante, con la sua vita divina. Noi conosciamo per rivelazione questo fatto; non sappiamo oggi — perché in ciò sta il mistero — spiegare come si verifica il fatto, a somiglianza di molti fenomeni naturali, che sappiamo essere reali, ma non riusciamo a scorgere la intima spiegazione. Ma non dobbiamo mai dimenticare una simile dolce e consolante verità, come non la scordavano mai i Padri nei primi secoli del Cristianesimo. Tutti i loro discorsi si ispiravano a questo supremo concetto, che mirava ad infondere in tutti la persuasione che il Cristiano è un altro Gesù Cristo: Christianus alter Christus; che i credenti sono piccoli Gesù in fiore, per dirla con sant’Ambrogio: Christi florentes; che noi non solo siamo di Cristo, ma siamo Cristo, come inculcava Agostino: Christi sumus et Christus sumus; Cristo ci ha incorporati a sé, perché in Lui fossimo Cristo: corporans nos sibi, ut in illo Christus essemus. Non sgraniamo, dunque, più gli occhi, quando negli Atti dei martiri ad ogni passo leggiamo frasi come queste: « Il corpo intero era tutto una piaga: ma Cristo che soffriva in lui dimostrava che nulla può incutere timore, quando v’è l’amore del Padre ». Finiamola una buona volta di celebrare, ad esempio, un centenario di Bossuet, con articolucci e con pubblicazioni vuote, che lasciano sfuggire questa grande idea, presente come soffio possente in ogni opera o discorso di quel grande oratore. Non stupiamoci se « l’Apostolo del Verbo Incarnato », il cardinale De Bérulle, quando incontrava un fanciullo che col suo stesso candore lo assicurava della vita di Cristo nell’anima innocente, gli prendeva la piccola mano, e accompagnandola, si faceva dare una benedizione, che egli riteneva non benedizione d’un bimbo,nma quella di Gesù vivente in lui. Non stupiamoci se nelle Mémoirs dell’Olier noi leggiamo che il padre de Condren —il grande e santo Oratoriano — « non era che un’apparenza ed una scorza di ciò che realmente era, perché « era piuttosto Gesù Cristo che viveva nel padre de Condren, che non il padre de Condren che vivesse in se stesso. Egli era come un’Ostia dei nostri altari; al di fuori, si vedono le apparenze del pane, ma, di dentro, è Gesù Cristo. Così avveniva anche per questo gran servo di nostro Signore tanto amato da Dio ». – Con tale idea tutto capiremo. Comprenderemo cosa significa la nostra elevazione allo stato soprannaturale e la grazia santificante, perchè, uniti a Cristo, la nostra vita è elevata, santificata e divinizzata. Comprenderemo il dogma della Chiesa e della Comunione dei Santi, ossia l’unione di tutti i fedeli con Cristo e fra di loro, in uno scambio mutuo ed in un mutuo influsso di vita soprannaturale. Comprenderemo il perchè della rivelazione del mistero della Trinità, in quanto diveniamo figli adottivi di Dio per la nostra unione a Cristo, figlio naturale del Padre: ed allora il Figlio, che è non solo se stesso, ma l’unione di tutti i figli, ci unisce al Padre nell’amore dello Spirito Santo. Comprenderemo l’importanza del Battesimo, il sacramento che ci incorpora a Cristo e ci innesta in Lui, per esprimerci con san Paolo, e non stimeremo più pazzo il missionario, che reputa compensati tutti i suoi sacrifici anche per un semplice battesimo, amministrato ad un bimbo pagano morente. Comprenderemo la Confessione, che, quando il peccato ci rende membra morte nel corpo di Cristo, ci ritorna la vita e la partecipazione ai meriti del Salvatore. Capiremo il vero culto alla Vergine e ai Santi, e lo concepiremo come un omaggio allo stesso Gesù, poiché i grappoli ed i pampini li lodiamo e li ammiriamo in relazione alla vite: chi onora il frutto, dà lode alla pianta, che l’ha prodotta: ben lungi dall’essere la nostra devozione alla Madonna od ai Santi un atto di idolatria, è un atto di amore a Gesù Cristo Dio. Ameremo soprattutto l’Eucaristia, mediante la quale Gesù Cristo si unisce sacramentalmente a noi, per intensificare sempre più in noi la sua vita divina, in quanto nell’ora soave della Comunione, noi e Lui, come dice Cirillo di Gerusalemme, siamo due cere fuse, gettate l’una sull’altra e compenetrantisi totalmente. E, quando assisteremo alla Messa, non ci lascerà più indifferente il gesto del Sacerdote, che nel calice infonde col vino da consacrarsi alcune gocce d’acqua: quelle gocce rappresentano noi stessi, che, uniti a Gesù, siamo da Gesù trasformati e diventiamo consorti della divinità di Colui che della nostra povera umanità si è degnato divenire partecipe. Com’è bello il Cristianesimo, quando è conosciuto e vissuto! Perché mai saremo così stolti, da dedicare tutto il nostro tempo alle verità umane e trascureremo la verità e la vita divina?

2. – L’azione cristianamente buona.

Vediamo ora l’applicazione pratica, le conseguenze necessarie del dogma nella vita morale. « Noi, scrive il card. De Bérulle, facciamo dunque parte di Gesù ed Egli è il nostro tutto. Il nostro bene è di essere in Lui, d’essere suoi, d’essere, di vivere e d’agire per mezzo suo, come il tralcio è e attinge vita e frutti dalla vite ». Il nostro io si sente incompleto ed imperfetto; ma non deve volgersi alle piccole cose o ai piccoli uomini per avere il suo complemento e la sua perfezione, ma a Cristo. Egli dev’essere « lo spirito del nostro spirito, la vita della nostra vita, la pienezza della nostra capacità… Di conseguenza, noi non dobbiamo agire se non come uniti a Lui, da Lui diretti, attingendo forza da Lui, per pensare, parlare, operare. Come meravigliosamente descrive san Giovanni Eudes nel suo libro: Le Royaume de Jésus, la vita cristiana non è altro se non la continuazione ed il compimento in ciascuno di noi della vita di Gesù, di modo che Gesù viva nelle sue membra. Ecco, del resto, la grande idea madre del sublime volumetto: De imitatione Christi: noi dobbiamo imitare Gesù Cristo divino; far nostri i suoi pensieri, le sue vedute, i suoi affetti, la sua volontà. Egli è l’esemplare che dobbiamo ricopiare; e, si noti bene, non è un modello fuori di noi, che dobbiamo guardare da lungi, per ritrarlo; per null’affatto; è unito a noi, ed è per questo che i « Cristiani », soggiunge san Giovanni Eudes, essendo suoi membri, fanno le sue veci sulla terra, rappresentano la sua persona e quindi debbono fare tutto quello che fanno… come Egli lo farebbe ». Agire cristianamente è agire con Gesù Cristo e secondo Gesù Cristo, con le medesime sue disposizioni, con le stesse sue intenzioni, col suo « spirito ». Dobbiamo armonizzare la nostra vita con la sua; i giudizi su noi, sulle cose e sugli avvenimenti coi suoi giudizi; i nostri sentimenti, i nostri discorsi, i nostri atti coi suoi. – Perchè, quindi, un’azione sia cristianamente buona, si richiede: che sia un atto morale, perchè altrimenti non sarebbe compiuto secondo lo spirito di Cristo e di conseguenza, che sia secondo la retta ragione, nel suo oggetto, nelle circostanze, nella intenzione e nel fine. Nulla v’è nell’atto naturalmente onesto che venga ripudiato dal Cristiano o che non occorra al Cristiano. Il soprannaturale non distrugge la natura, ma la suppone sempre; altrimenti che cosa verrebbe elevato e divinizzato?

2° che colui che agisce sia unito a Cristo con la grazia, sia, quindi, battezzato, almeno col battesimo di desiderio, e sia senza peccati mortali, perché altrimenti l’attività buona, pur restando umanamente buona, non sarebbe divinamente elevata e potenziata. Una grande differenza, dunque, esiste tra il galantuomo e il Cristiano, tra la virtù filosofica e la virtù cristiana, nella quale, essenzialmente, consiste la santità, perché — osserviamolo subito — la santità non sta nel far miracoli o nell’aver delle visioni, bensì nel santificare la nostra attività con la grazia di Cristo:

I) Per l’atto umanamente buono basta la luce e la guida della ragione; per l’atto cristianamente buono occorre anche la rivelazione, che ci porti la dolce novella dell’elevazione nostra allo stato soprannaturale. Nel primo caso potrebbe bastare la filosofia; nel secondo caso si richiede anche la fede, perché come mai si potrebbe concepire la morale cristiana, prescindendo dal dogma e dalla cognizione del fine soprannaturale, al quale dirigiamo le nostre azioni?

II) L’atto umanamente buono ha come principio il nostro io, le forze morali della nostra natura, sia pure confortate dall’assistenza e dall’aiuto del Creatore. L’azione cristianamente buona, invece, ha come principio il nostro io, divinizzato, per così dire, dalla grazia santificante; sono io che agisco, ma non sono solo; col mio piccolo io umano è Gesù Cristo che agisce in me, in quanto, unito a Lui, io agisco con Lui e per Lui.

III) L’atto che è solo umanamente buono è fatto per il bene, e non per un bene astratto, ma per amore naturale, almeno implicito, di Colui che è il « Bene dei beni », Dio. – L’atto cristianamente buono è fatto per Dio, nostro fine soprannaturale e per Gesù Cristo: uniti per la grazia con Lui, agiamo per amore del Padre, nel soffio vivificante dello Spirito Santo.

IV) L’atto onesto non può avere ricompense se non di ordine naturale. L’atto cristiano, compiuto in grazia, diventa meritorio di vita eterna ed ha come premio una felicità soprannaturale, della quale in seguito parleremo. Se ogni atto cristianamente buono è anche onesto, non ogni atto onesto è anche cristiano. E si capisce anche come tutte le virtù umane si possano e si debbano trovare nel credente; ma come altresì vi siano virtù cristiane, che non sarebbe possibile trovare in un ipotetico uomo puramente onesto. Ad esempio, la fede, la speranza e la carità soprannaturale, le virtù infuse ed i doni dello Spirito Santo solo li possiamo avere in chi crede a Cristo, alla unione con Lui, alla sua rivelazione.

3. – L’azione cristiana e l’amore

Svilupperemo in seguito il concetto che la morale cristiana è la morale dell’Amore. Ma già fin da questo momento possiamo intravvedere la profondità dell’insegnamento di san Paolo, quando nella lettera a quelli di Colossi raccomandava: « Sopra ogni cosa abbiate l’Amore, che è il vincolo della perfezione ». Nel Cristianesimo, infatti, la morale consiste essenzialmente nell’amore dei figli, uniti in Cristo, al Padre ed ai fratelli. È la grazia, è il dono dell’amore infinito di Dio per noi che ci divinizza; è il nostro amore per il Padre, in Cristo Gesù, che ci spinge ad agire moralmente. Amore di Dio per noi, da un lato, e amore nostro per Dio, dall’altro, sono i due elementi che concorrono nell’attività cristianamente buona. Il divino e l’umano si uniscono a formare un unico tutto, quantunque, per i bisogni dell’analisi, noi possiamo scrutare distintamente i due elementi della sintesi. – Quando, perciò, si parla di scuola ignaziana, di scuola oratoriana, e via dicendo, non si deve ritenere che si tratti di correnti opposte; finiamola di creare opposizioni inesistenti fra il cosiddetto Seneca cristiano, il p. Rodriguez, e un san Francesco di Sales! Secondo le necessità dei tempi, i pensatori sacri lumeggiano l’uno o l’altro dei due elementi dell’azione cristiana. Quando Pelagio tende al naturalismo o nega il soprannaturale, sant’Agostino svolge l’idea della grazia. Quando Lutero e Calvino negano il libero arbitrio e riducono l’atto morale alla sola imputazione estrinseca della grazia di Cristo, Ignazio di Loyola, seguito dal grande autore della Perfezione cristiana e da un teologo come il Molina, insiste sulla formazione della nostra volontà e sulla cooperazione nostra con l’aiuto divino. Quando, in seguito all’Umanesimo, il naturalismo cerca di prevalere, avremo la splendida fioritura dovuta al card. de Bérulle, a san Giovanni Eudes, al de Condren, all’Olier, a Grignion de Montfort, a Bossuet, a san Francesco di Sales, a san Vincenzo de’ Paoli, che sottolineeranno la vita di Gesù nelle anime cristiane, l’influsso divino nelle nostre azioni, il dovere che « Gesù sia tutto in ogni cosa », nelle parole, nei pensieri e nelle opere. Ma intendiamoci: il benedettino, che col vivo senso liturgico ci ricorda ad ogni istante l’incorporazione nostra a Cristo, col quale preghiamo e viviamo; — l’oratoriano, che con opere immortali insiste sul fatto che il soprannaturale ci bagna da ogni lato e ci penetra sino alle più profonde intimità dell’anima; — il gesuita, che con la meditazione, gli esami di coscienza e gli « Esercizi Spirituali », diventa maestro di energia, non sono in contrasto fra loro. Sant’Ignazio, che negli Esercitia spiritualia esamina in modo speciale l’elemento umano dell’atto morale, non trascura l’altro e nelle Costituzioni insisterà perché l’uomo non dimentichi mai di essere « uno strumento congiunto a Cristo, instrumentum Deo cojunctum »; come, d’altra parte, sant’Agostino e san Giovanni Eudes sono lontani mille miglia dal fare poco conto dell’umana attività, quantunque insistano sulla necessità del soprannaturale. Alcuni illustrano di preferenza l’amor di Dio per noi, gli altri l’amore nostro per Dio; la concretezza dell’atto morale è la sintesi di questi due elementi costitutivi di esso.

4. – Conclusioni

Dice Gesù nel Vangelo di san Giovanni: « Io non sono solo; è con me il Padre ». Ogni Cristiano che combatte le battaglie della vita può ripetere a sé: io non sono solo; è con me Gesù Cristo e con Lui sono con me il Padre e lo Spirito Santo. Alcuni filosofi hanno creduto che Dio e la sua grazia annientassero i valori umani, la volontà nostra, la nostra dignità. Follie! Non solo nulla dev’essere distrutto, eccetto le imperfezioni e le deficienze nostre: ma tutto è innalzato e potenziato. Nella concezione cristiana non abbiamo mai la debolezza dell’isolamento; uniti ai fratelli tutti, alla Chiesa di ieri e di oggi, alla storia passata e presente, uniti soprattutto a Cristo con la grazia santificante e coi suoi doni, sentiamo la forza divinamente grande che ci sospinge, ci sorregge, ci incoraggia; ed è per questo che i Santi hanno compiuto opere, le quali, anche dal punto di vista umano, sono gigantesche: essi agivano forti della potenza di Cristo. Vivere con Lui significa non l’annientamento, non la morte, ma la risurrezione e la vita. « Voi, filosofi, diremo anche noi con Auguste Cochin nel suo volume Espérances chrétiennes, voi non potete comprendere come noi amiamo Cristo e ciò che Egli è per noi. Egli è sempre là dinanzi ai nostri occhi, con la mano in qualche modo sulla nostra spalla, mentre lavoriamo e mentre riposiamo, alla tribuna ed all’ufficio, a tavola o al nostro capezzale. Ogni Cristiano, il quale sappia cosa crede, vive in presenza ed in compagnia di Gesù Cristo. Dopo questo, via via, o visioni di poeti, o divinità ispiratrici, o bellezze affascinanti della vita! Via anche voi, o santi affetti! Né poesia, né passione, né fascino potranno mai eguagliare l’amore reale e tenero, che ci ispira la persona di Cristo Gesù ». Cosa sono in confronto a Lui, tutti i personaggi della storia? Egli solo è il vero Vivente, che vive con noi, in noi, per noi, perché noi possiamo vivere con Lui, in Lui, per Lui.

Riepilogo.

L’attività morale cristiana può essere riguardata:

1) dal punto di vista oggettivo, ossia nella sua materialità esteriore;

2) dal punto di vista soggettivo, ossia nella forma, nel fine dell’azione;

3) nell’elemento soprannaturale che la divinizza.

Occorre, perciò, studiare:

1° il bene in se stesso;

2° l’azione buona;

3° l’azione cristiana.

I. – IL BENE. — Per poter giudicare ciò che in sè è bene e ciò che è male, ossia per conoscere qual è la norma della moralità, giova elaborare tre concetti:

a) Il concetto di essere. Dio è l’Essere supremo e da Lui sgorgano tutti quanti gli esseri, fra loro coordinati e tendenti a Dio, come a un ultimo fine. Questo grande principio della centralità divina è il punto di partenza anche in morale.

b) Il concetto di verità o dell’essere in quanto è conosciuto.

Quando noi, con la vostra ragione, cogliamo l’essere e le relazioni fra gli esseri, abbiamo la verità.

c) Il concetto di bene o dell’essere in quanto è voluto. Quando noi, con la nostra libera attività, agiamo rispettando praticamente la natura degli esseri, come sono da noi conosciuti, ed il loro ordine, abbiamo il bene.

La forma della moralità, di conseguenza, è questa: « Agisci in modo che il tuo atto sia secondo la retta ragione »; rispetta cioè l’Essere ed i rapporti fra gli esseri che la ragione ti manifesta. E’ buona l’azione che segue una tal regola e cattiva l’azione che la calpesta. – Ripensando questi concetti alla luce dell’Amore, si vede che ogni essere creato è un palpito dell’amore di Dio per noi; e così si dica dei rapporti che esistono fra gli esseri e dell’obbligo che abbiamo di agire moralmente. Se Dio è Amore, l’Essere e il Bene coincidono; e l’obbligazione morale è un frutto dell’Amore divino. Dio non amerebbe, se fosse indifferente all’ordine o al disordine, al bene o al male; anzi, non sarebbe più Dio, dato che l’ordine rispecchia la sua volontà.

II. – L’AZIONE BUONA. — Non basta, per avere l’atto morale, che l’azione in sè, oggettivamente considerata, sia un bene; è necessario altresì:

a) che sia compiuta con un fine od un’intenzione buona, ossia occorre che il bene sia fatto per il bene; e siccome il bene, in ultima analisi, è la volontà di Dio ed il suo Amore, per agire moralmente bisogna che noi facciamo il bene per amore di Dio, per amore cioè del Bene supremo;

b) che sia compiuta non meccanicamente, per pura abitudine, per moto d’inerzia. Per l’atto morale occorre l’attivismo dello spirito. Dobbiamo spiritualizzarci continuamente, servendoci dei meccanismi, che sono in sè utilissimi, quando sono mossi e ravvivati da un soffio di vita spirituale.

III. – L’AZIONE CRISTIANA. — L’atto onesto non è ancora l’atto cristiano, il quale implica bensì la nostra attività morale umana, ma la divinizza con la grazia divina. Innestati in Cristo, incorporati a Lui, vivendo una vita soprannaturale che ci permette di dire con san Paolo che Cristo vive in noi, le nostre energie umane sono divinamente sublimate e potenziate. Agire cristianamente è agire secondo la norma del Bene, ma in unione con Cristo, santificati dalla sua grazia, forti della sua forza divina, animati dal suo Spirito, che è lo Spirito Santo, Spirito d’amore.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (6)