IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (4)
FRANCESCO OLGIATI,
IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.
Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.
Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.
Capitolo secondo (1)
L’ATTIVITA’ MORALE
Dopo d’aver contemplato dalla riva l’oceano dell’Amore nella sua divina bellezza, dobbiamo sfidare le acque. Anche noi col poeta esclamiamo: Necesse est navigare. E per non esser travolti dalle onde, cominciamo ad esaminare la piccola nave, con cui potremo solcare con sicura tranquillità il grande mare della vita. Essa si chiama “l’attività morale”, risultante dalle singole azioni buone, le quali, pur essendo diversissime, concordano tutte nella loro caratteristica essenziale. Se analizziamo accuratamente uno di questi atti morali, in modo da non confonderlo con altri nostri gesti, noi vi distinguiamo con precisione tre aspetti:
1. L’azione morale può essere riguardata in ciò che appare esternamente, nella sua materialità oggettiva, in quanto atto esteriore.
2. Inoltre, la possiamo cogliere nei principi interiori, dai quali procede, in quanto le nostre intime energie spirituali, intellettive e volontarie la producono.
3. Finalmente, possiamo considerare l’elemento soprannaturale, che divinizza il nostro atto morale e lo rende cristianamente buono e soprannaturalmente meritorio. Il bene in sè, l’atto buono, l’atto cristiano: ecco tre problemi, che s’impongono alla attenzione e dalla cui soluzione dipenderà poi la navigazione nostra, ossia la nostra condotta.
I. – IL BENE
Ricordo un episodio, ricco per me di insegnamenti. Tenevo un corso di morale cattolica in un istituto superiore, frequentato da numerosi studenti, che possedevano una cultura generale non del tutto disprezzabile. In una delle prime lezioni, entrato in classe, pregai gli uditori di prendere un foglio di carta, che non doveva portare la firma dello scrivente, e di voler rispondere al seguente problema: « Tutti ammettono che assassinare un amico per derubarlo, bestemmiare Dio, disubbidire ai genitori e così via, sia un male; come, parimenti, tutti riconoscono che è un bene aiutare e soccorrere il povero, ubbidire all’autorità legittima, e via dicendo. Perché mai — secondo il Cristianesimo — alcune azioni sono definite in sé come cattive e poste nella categoria del male, ed altre considerate buone e messe nella categoria del bene?». Raccolsi i fogli, che dovevano rivelarmi in qual modo quel gruppo di studenti mi risolveva la questione. E subito cominciai a leggere ad alta voce ed a commentare le soluzioni proposte. – Uno diceva: « Un’azione è buona in sé o cattiva, perché così la qualifica il Vangelo ». Oh! e perché mai il Vangelo la qualifica in tal modo? forse senza nessun motivo?… E prima che fosse scritto il Vangelo, non si poteva forse distinguere un’azione buona da una cattiva? Un’altra risposta era redatta in questi termini: « Io chiamo buono un atto che la Chiesa mi propone; cattivo un atto che la Chiesa mi proibisce ». Ma, ancora una volta: perché la Chiesa mi comanda o mi consiglia certi atti? e perché me ne vieta altri? Potrebbe forse la Chiesa dichiarare lecito l’omicidio e il furto? Evidentemente no; e perché?… Ed anche quando vieta cose in sé lecite, come il mangiar carne al venerdì, di modo che esse non sono proibite perché cattive, ma son cattive solo perché proibite, per quale motivo la Chiesa fa questo? – Una terza risposta cercava la soluzione nella voce della coscienza: « È la mia coscienza, che mi avverte intorno a ciò che è bene o è male. Ecco la vera norma della moralità. Ed è vero che la voce intima della coscienza mi sussurra: « Assassinare l’amico è un delitto; beneficare questo povero è un bene »; ma perché la coscienza mi dichiara la prima cosa un delitto e la seconda una buona azione? Forse per un istinto cieco ed ingiustificato? O non piuttosto per un’altra ragione? Altri osservava: « Un’azione è in sé buona, se è premiata col paradiso; è cattiva, se è punita con l’inferno ». No, — io esclamai — la verità è semplicemente l’opposto di quanto mi si asserisce: un’azione non è buona, perché è premiata col paradiso; ma è compensata col paradiso, perché in sé è buona; un’azione non è cattiva, perché è punita con l’inferno; ma è punita con l’inferno, perché in sé cattiva. – E frattanto il problema resta. Qualcuno si appellava al consenso universale dei popoli: “Il bene è il bene, e il male è il male, perché tutti ammettono questo ». Oh! e se tutti, domani, con un plebiscito mondiale, dichiarassero lecite la calunnia e la rapina, queste azioni diverrebbero buone? E poi: perché tutti proclamano l’immoralità del calunniatore e del furfante? Qualche altro si rivolgeva al concetto di utilità: « Una leggenda cosa è buona, se è utile a me », oppure « se è utile alla patria e alla società »; in caso contrario è cattiva. Io obbiettavo: che supponete che potessi rubare un milione, senza incappare nelle reti della giustizia; possedere una simile somma, mi sarebbe certo utile; con ciò dichiarerò io il mio furto un bene? Ancora: se una nazione forte e ben agguerrita si trova dinanzi ad una nazione debole, può esser utilissimo alla prima invadere e annettere a sé l’altra terra; battezzeremo noi una tale prepotenza col nome di bene? Per tacere di altre curiosissime risposte, una ve n’era che ricorreva a Dio. « È bene ciò che Dio ha voluto comandarci di fare! È male ciò che Dio ci proibisce’. Chi scriveva questo, quantunque fosse nel vero affermando che Dio è il padrone supremo degli esseri ed in qualche caso può mutare l’ordine delle cose, tuttavia, senza saperlo, aderiva al volontarismo cartesiano, perché, secondo Descartes, la verità degli stessi primi principi e la moralità degli atti dipende dalla volontà divina, la quale avrebbe potuto stabilire che il principio di contraddizione è falso ed il matricidio è una virtù. Ahimè! Tutto ciò ripugna alla nostra ragione ed alla nostra coscienza morale: il matricidio è un male, non perché è stato proibito; ma è stato proibito, perché è un male. Ed il rispetto alla madre è un bene, non solo perché è stato comandato da Dio; bensì è stato comandato, perché è un bene, il quale bene, in ultima analisi, si fonda sull’ordine inteso e voluto da Dio. – Qual è, dunque, la « norma della moralità »? Come si risolve questo problema, che è stato da alcuni chiamato « il Rubicone dell’etica »? Dobbiamo forse dinanzi ad esso ripetere ciò che sant’Agostino confessava a proposito del tempo: « Se non mi chiedi cos’è il tempo, lo so benissimo; ma se me lo chiedi e cerco di spiegarlo, mi confondo »? Per null’affatto. Cerchiamo di elaborare, in modo elementarissimo, tre concetti:
l’Essere, l’essere in quanto è conosciuto e l’essere in quanto è voluto; ed allora vedremo perché un atto è in sé buono o cattivo.
1. – L’Essere e gli esseri.
Nella concezione cristiana, Dio è il centro dell’universo. Da Dio, Essere per essenza, Essere perfettissimo, che è la pienezza dell’essere ed ha in se stesso la ragione della sua esistenza, sgorgano per una libera azione creatrice tutti gli altri esseri. Come da una sorgente zampilla l’acqua, così da quest’unica fonte — Iddio — deriva tutto ciò che esiste. Come da un unico sole discendono innumerevoli raggi, così da Dio provengono tutte le creature. Come in un’unica mente sorgono mille e mille pensieri, così dalla mente divina vengono ideate tutte le cose e la sua volontà decreta il loro passaggio all’esistenza. L’origine di tutti gli esseri dipende quindi dall’Essere; la loro possibilità, la loro esistenza, la loro natura, la loro conversazione, il loro sviluppo ha riferimento all’Essere; il loro fine ultimo è ancora l’Essere, Dio. E si noti. Tutti gli esseri creati non sono ammassati gli uni accanto agli altri in un caotico disordine. Dio è la suprema Ragione e perciò l’ordine è intrinseco a ciò che Egli produce. Gli esseri sono fra loro da concepirsi come le lettere e le parole di un libro, o, se si vuole, come le note in un’opera musicale. La verità delle lettere e delle note, la loro individualità, la loro disposizione, debbono essere riguardate dal punto di vista dell’unico pensiero che le ispira e le vivifica. Quelle lettere, quelle note hanno fra di loro dei rapporti e guai se io turbo l’ordine di essi! Rovino il senso della pagina, o l’armonia della musica. Così anche si dica degli esseri creati: ci si presentano in una splendida coordinazione, che tutti li unifica in Dio. Non c’è nulla al mondo che meriti disprezzo; ogni cosa ha la sua funzione da compiere; ma ogni cosa deve conservare il suo posto. C’è in altre parole, una serie di rapporti fra gli esseri; c’è una gerarchia, derivante dalla loro natura e dal compito che debbono soddisfare; e nessuno ha diritto di turbare e di calpestare questo ordine: nessuno ha diritto di rovesciare ; apporti, perché l’Assoluto, il Necessario, la Causa delle cause, è Dio; noi non siamo se non esseri dipendenti, contingenti, causati, relativi, che veniamo da Lui, esistiamo in Lui, andiamo a Lui. – Questo grande principio della centralità di Dio fu da tutti i secoli cristiani riconosciuto, proclamato ed inculcato.
Paolo di Tarso — come ho rilevato nel mio volume sull’Anima dell’Umanesimo e del Rinascimento — insegnava il suo “nihil sine voce” ed in ogni essere coglieva una parola che orientava l’animo suo a Dio; Agostino d’Ippona concepiva l’universo come una armonia, di cui ogni cosa era una nota osannante alla divinità; Benedetto da Norcia, discorrendo con la sorella Scolastica, si estasiava all’idea di Dio; Francesco d’Assisi, fra il verde della sua Umbria e il gorgheggio degli uccelli, innalzava al cielo il Cantico di Frate Sole; nelle Somme medievali ogni articolo era una pietra di questa stupenda basilica. Poemi quali la Divina Commedia e poemi di marmo come il San Marco di Venezia, il Duomo di Pisa, la chiesa di Amiens, di Chartres e di Strasburgo, il Duomo di Milano e di Colonia; gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio col grido programmatico: Ad maiorem Dei gloriam; tutta la dottrina, insomma, e la vita e le opere grandi del Cristianesimo inculcano ed esprimono la stessa idea: Dio è il centro di tutto e come tale deve essere riconosciuto dagli individui e dalla società.
2. – L’essere in quanto è conosciuto
Se questo è l’essere, cos’è la verità? Noi sappiamo che è il pensiero ciò che distingue l’uomo dal bruto. Anche il bruto è un essere, e vive e si muove fra gli esseri. Ma non conosce ciò che è l’essere. Solo il pensiero può scrutare la realtà, studiare le varie categorie degli esseri, cogliere i loro rapporti, la loro subordinazione, la loro relazione con Dio. In questa indagine paziente, mediante la quale si formano le varie scienze e si giunge poi alla loro sintesi ed alla sapienza, noi possiamo cadere nell’errore, quando la nostra intelligenza non coglie la realtà come essa è ed i rapporti che in essa esistono; siamo nella verità, quando la nostra ragione conosce l’essere come realmente è. La verità, quindi, ci dà l’essere in quanto è conosciuto. E tutta la storia della cultura umana, gli sforzi dei filosofi e dei pensatori e le ricerche degli scienziati ci raccontano la splendida battaglia dell’uomo per strappare all’universo il velo oscuro che lo ricopre e per assurgere da esso a Dio. Come lo studioso che vuol decifrare un’iscrizione comincia a ricostruire i caratteri che la compongono e poi risale al pensiero che vi si nasconde e la spiega, così la ragione nostra, con le sue forze e alla luce della rivelazione, dopo di aver esaminati i diversi caratteri nei quali è scritto il volume del mondo (varie scienze), cerca di interpretarli e di leggere in essi l’idea che Dio vi ha espresso (filosofia e religione). Per il Cristiano, di conseguenza, è ridicola una scienza negatrice di Dio. Ed ogni disciplina scientifica, ogni scoperta, ogni progresso culturale è da benedirsi, perché, in una o in altra forma, ci serve a farci penetrare nell’intimo cuore degli esseri ed a farci risalire all’Essere degli esseri.
3. – L’essere in quanto è voluto Ma noi non siamo solo pensiero; siamo anche volontà e libertà. Conosciamo gli esseri ed i loro rapporti; ed, in seguito, la nostra libera attività si svolge. Quand’è allora che la nostra azione è buona? La risposta è semplicissima: quando noi rispettiamo la natura degli esseri ed i loro rapporti. Quando, dopo di aver conosciuto col pensiero tale natura e tali gerarchie, agiamo praticamente secondo tale ordine, noi facciamo il bene. Se al contrario, conoscendo gli esseri e la loro concatenazione, calpestiamo, rovesciamo, infrangiamo l’ordine, noi commettiamo il male.
Ad esempio: perché il furto è un male? Per questo motivo: la nostra ragione conosce noi e gli altri uomini; vede come vi son fra gli uomini rapporti di giustizia, che non debbono essere violati; chi praticamente disconosce tali rapporti e ruba, è reo d’una cattiva azione. Perché la bestemmia è un male? Per questo motivo: la ragione conosce Dio e l’uomo; vede qual è la natura di Dio, l’Essere perfettissimo, nostro principio, nostro fine e nostro aiuto; vede qual è la natura umana, che dipende da Dio e deve amare il suo Creatore e benefattore. Siccome la bestemmia non riconosce praticamente quest’ordine, ma anzi lo capovolge, è in sè un male. La preghiera, al contrario, è in sè un bene, perché è il riconoscimento dell’Essere e dell’ordine. Così si ripeta di ogni qualsiasi legge etica. La regola, il criterio, la norma con cui giudichiamo la moralità o l’immoralità d’un’azione, il metodo pratico per discernere il giusto dall’ingiusto, il lecito dall’illecito, l’onesto dal disonesto, è sempre quella che san Tommaso in parole limpide e profonde sintetizzava così: « Agisci in modo che il tuo atto sia secondo la retta ragione’, la quale è un riflesso, un’immagine della Ragione divina. « Sic age ut actus tuus sit secundum rectam rationem ».
Perciò un desiderio cattivo acconsentito è un male, perché è contro la retta ragione. E si vada dicendo per ogni qualsiasi atto, che si debba o si voglia compiere. – Si noti: per giudicare se un atto è buono, non basta guardarlo nella sua oggettività astratta, ma occorre altresì considerarlo nelle sue circostanze concrete. Ottima cosa è, ad esempio, pregare tenendo le braccia alzate verso il cielo; e se questo lo si fa nella propria stanza, dove solo il Padre divino vede, può servire ad eccitare maggiore devozione; ma che direste voi di chi nella chiesa parrocchiale del suo paese dovesse fare un simile gesto? È un bene che lo studente abbia a… studiare; ma se, mentre è a pranzo, volesse sfogliare un libro, voi glielo togliereste di mano e gli dareste un cucchiaio o una forchetta. È un atto di carità dar da mangiare agli affamati; ma se si tratta d’un convalescente, che non ha ancora del tutto superato il tifo ed al quale il medico ordina una dieta rigorosa, sarebbe un atto di stoltezza offrirgli del pane o dei dolci, poiché vi sarebbe il pericolo immediato d’una ricaduta. Insomma, non si può prescindere dalle circostanze, per valutare una azione morale, quest’ultima non dev’essere riguardata solo astrattamente, bensì nella sua concretezza. – Ancora. Si capisce perché alcuni popoli barbari o pagani, ed alcuni individui, sbagliano certe volte nel ritenere buona un’azione che in sè è cattiva. La verità è la base della morale; e siccome la loro mente erra nel cogliere la natura dei rapporti fra gli esseri, cosicché non si proporziona alla verità, da Dio stampata nell’ordine delle cose, abbiamo i loro spropositi in fatto di etica. Le passioni e l’ignoranza possono oscurare l’intelligenza umana: l’uomo, in tal caso, agisce non secondo la retta ragione, ma secondo un errore. – Gli antropofagi, perciò, non meritano le difese di Benedetto Croce; non giudichiamo della loro coscienza e della loro responsabilità; diciamo solo che, se anche fossero in perfetta buona fede, l’antropofagia sarebbe un male, derivante da una perversione di giudizio. – La risposta al problema, posto all’inizio di questo capitolo, è, quindi, limpidissima: un’azione è in sé buona, quando risponde all’ordine della retta ragione; è in sè cattiva, quando praticamente non riconosce questo ordine stesso. Dire bene è dire razionalità; dire male è dire irrazionalità. Il bene è il rispetto dell’ordine; il male è il disordine. E si noti: non è la Chiesa, non è lo Stato, non è l’individuo che creano la morale ed i suoi principi; tutti li debbono riconoscere e praticare; solo in tal modo si ammette davvero — e non solo a chiacchiere — l’esistenza di Dio e la sua centralità nell’universo, come ordinatore dei singoli esseri. Dinanzi alla evidenza di simili deduzioni, è superfluo insistere sull’obbligo morale che l’uomo ha di fare il bene e di evitare il male. Noi siamo liberi, è vero, e possiamo scegliere fra il bene ed il male; ma il primo principio morale ci grida nella nostra coscienza che il bene è da fare ed il male è da evitare e noi abbiamo il dovere di praticare il primo e di fuggire il secondo. Questo obbligo, questo dovere proviene dalla stessa natura delle cose. Non siamo noi l’Assoluto, come già avvertimmo, né abbiamo il diritto di rovinare l’ordine e la razionalità del reale. Quando stoltamente agiamo in modo diverso, è un’ingiuria che facciamo non solo a Dio, ma altresì alla ragione nostra che viene da Lui; ed è la rovina nostra ed altrui che procuriamo. Chi batte la via dell’ordine e delfa ragione, è sulla strada della moralità ed anche della felicità; chi batte la via del male, si trova sulla strada opposta.
4. – Il bene e l’amore.
Ripensiamo ora un istante questi supremi principi della filosofia perenne in funzione del concetto cristiano di Amore. Dio è Amore, è bontà infinita; e noi, memori sempre della bella parola di san Tommaso che il bene tende a diffondersi: « Bonum est diffusivum sui », non salutiamo Dio soltanto come centro di ogni essere, ma piuttosto come centro d’irradiazione dell’Amore. Prima che le creature siano, Egli le conosce e le ama. E questo solo vero Dio, mi si permetta di usare le espressioni dei Concili, soprattutto del Concilio Vaticano, per sua bontà e con la sua onnipotente virtù, non per acquistare od aumentare la sua beatitudine, ma solo per manifestare la sua perfezione mediante i beni che conferisce alle creature, liberissimamente ha creato. Ogni essere, ognuno di noi è opera del divino Amore. Dovunque c’è un essere, là palpita l’Amore di Dio. L’Esssere e il Bene coincidono, notavano gli antichi sapienti; e noi Cristiani possiamo soggiungere: coincidono l’Essere e l’Amore. Siccome, poi, gli esseri non vivono isolati, separati, ma fra loro si coordinano; siccome ognuno con grido vibrante di amore, tutto il loro complesso è una sinfonia sublime, dove la voce di ciascuno si fonde con la voce di tutti, in un solo canto di gloria, che non solo nulla fa perdere ai singoli, ma fa sì che ognuno si arricchisca delle vibrazioni del tutto. Dio è il vero Bene, l’Essere supremo, il supremo Amore. Ed appunto perché ci ama non può trascurarci, non può disinteressarsi di noi (come sospettava una ridicola obbiezione di alcuni sofisti), come altresì non può non volere la nostra felicità. Egli quindi, anche per l’amore che porta a noi, vuole che osserviamo l’ordine, che rispettiamo le leggi della ragione, che seguiamo la norma del bene. Se c’impone i comandi categorici della morale, è perché ci ama. Se ci permettesse di trasgredirli, non ci amerebbe, perché ci consentirebbe di cadere in un precipizio. Può un padre, un Dio concederci questo? Siccome il suo divino Amore vuole il bene delle sue creature, deve volere inflessibilmente che noi ci conformiamo alla sua volontà. Insomma, la legge morale e la sua obbligatorietà sono un frutto dell’Amore. – Non dobbiamo, dunque, esitare a definire la norma della moralità in termini di amore. La nostra azione è in sè buona, quando noi seguiamo la retta ragione, quando rispettiamo l’ordine, quando cioè la nostra volontà si conforma alla volontà di Dio. E siccome la volontà di Dio è volontà di amore, la nostra azione è buona, quando all’Amore rispondiamo con l’amore. Il bene è la libera rispondenza umana all’amore divino. Il male è il contrario, ossia è la negazione dell’Amore, anche se non giunge ad essere odio. Cominciamo già fin d’ora a spiegarci il fatto dell’immoralità dilagante. L’uomo dovrebbe tendere al divino Amore, centro dell’universo; Dio dovrebbe essere il centro dell’amore delle creature. Allora avremmo ovunque il bene che trionferebbe ed insieme avremmo la vera gioia. Invece, a centro dell’universo, noi praticamente poniamo il nostro piccolo io, l’amore sregolato per noi stessi e per le cose. – Io non so sottrarmi alla tentazione di riportare un altro brano del Tissot, che tolgo ancora dalla sua opera su La vita interiore semplificata. Mi sembra una pagina degna di meditazione:
« La vita naturale, la vita spirituale, press’a poco tutto in me è ispirato, regolato, diretto, dominato dalla mia soddisfazione… Qual terribile esame di coscienza, s’io volessi penetrare i particolari intimi de’ miei pensieri, de’ miei affetti e delle mie azioni… Come in tutto, dappertutto, sempre, vedrei il maledetto istinto della mia soddisfazione egoista soppiantare più o meno la gloria di Dio!… In tutto! Oh! non saprò mai sino a qual segno la mia vita sia un disordine!… L’io dappertutto il primo… Dio continuamente messo al secondo posto o scartato. In ciò che faccio, in ciò che mi succede, in ciò che ricevo od evito, è l’io che vedo in prima linea. Amo per me: detesto per me…
« Questo è anche il gran male della società. Tutto in essa è organizzato per l’uomo, non per Dio; l’interesse umano domina tutto, ispira tutto, dirige tutto, riassume tutto. Che posto tiene la gloria di Dio nelle famiglie, nelle associazioni, nei corpi costituiti? Dov’è l’idea di Dio nell’industria, nel commercio, nelle scienze, nella politica, nella storia, ecc.? Nelle relazioni umane è l’interesse umano che assorbe universalmente le idee, gli affetti, gli sforzi; tutto converge là. L’idea di Dio e della sua gloria va indebolendosi e dileguandosi. L’uomo scaccia Dio.
« Prendo l’esempio della storia, che è forse il più sorprendente. Essa non dovrebbe essere che il quadro della gloria di Dio attraverso le vicissitudini umane, dell’azione divina in mezzo alle agitazioni umane; eppure, non è più che il quadro scolorito delle convulsioni dell’umanità. Così tutto mentisce alle sue origini e al suo fine. Ecco la grande eresia rivoluzionaria; l’uomo al posto di Dio. – Quale contrasto con ciò che mi mostra la Bibbia! Nella vita dei Patriarchi si sente Dio; il loro Dio è tutto per loro. Egli domina, ispira, dirige efficacemente la loro vita; nella loro storia si sente ad ogni istante passare il soffio di Dio. Lo stesso si verifica in tutta la storia del popolo eletto; è Dio il centro di tutto. Se le passioni umane fanno dimenticare il suo ricordo, i castighi lo richiamano; e, sotto la verga, il grido che sfugge e domanda la vittoria sui nemici è sempre in primo luogo l’onore di Dio: « Per la gloria del Nome vostro, liberateci, o Signore! ». E quando la vittoria è ottenuta, si fa festa dovunque, perché Dio è glorificato. Quando Mosè, Giuditta, Ester vogliono ottenere la salute del loro popolo, lo fanno invocando la gloria del Nome di Dio, e per motivo della sua gloria Dio salva il suo popolo. Nei salmi, poi, qual posto occupa la gloria di Dio! Essa è lo scopo supremo e costante di questi canti sublimi.
« Nelle età e nei paesi di fede, quale posto più pratico e più vivente aveva Dio nelle abitudini dei popoli fedeli! Nulla. Lo esprimeva così vivamente come il linguaggio popolare. È nell’intonazione della conversazione familiare che meglio si riflette lo stato dell’anima. E come si parlava di Dio, nei tempi e nei luoghi in cui le idee della fede avevano il loro impero dominante! Il Nome divino si udiva ad ogni istante con opportunità e verità ammirabili. Con quanta semplicità e profondità si diceva: grazie a Dio, Dio sia benedetto, a Dio mercé, a Dio piacendo, con l’aiuto di Dio, ecc. Gli atti privati erano cominciati col segno della croce, gli atti pubblici stessi in nome della SS. Trinità, le leggi decretate in nome di Dio. L’uso delle primizie, retaggio dell’antica legge, che gli consacrava i primogeniti di tutte le cose; l’autorità paterna, giudiziaria, civile, che agiva come per delegazione divina; il rispetto delle persone, delle solennità e delle cose sante; l’orrore e la punizione della bestemmia, e tanti altri usi, purtroppo da noi lontani, dimostrano praticamente come l’idea divina teneva in tutto il primo posto. Dio era vivo nelle idee e nei costumi, negli usi e nelle istituzioni. La miseria umana s’affermava senza dubbio, perché essa si afferma sempre: ma anche Dio si affermava al di sopra della miseria dell’uomo. Si sentiva che Egli era il re degli animi e dei corpi, degli individui e dei popoli, del tempo e dell’eternità, e la sua regalità restava al di sopra di tutto ». – Perché il bene ritorni a fiorire sulla terra, è necessario che il Sole di Dio risplenda e tutto ancora riscaldi coi suoi raggi d’amore.