DOMENICA NELL’OTTAVA DEL CORPUS DOMINI
II DOPO PENTECOSTE (2023)
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Semidoppio. – Paramenti bianchi.
La Chiesa ha scelto, per celebrare la festa del Corpus Domini, il giovedì che è fra la domenica, nella quale il Vangelo parla della misericordia di Dio verso gli uomini e del dovere che ne deriva per i Cristiani di un amore reciproco (l dopo Pentecoste) e quella (II dopo Pentecoste) nella quale si ripetono le stesse idee (Epist.) e si presenta il regno dei cieli sotto il simbolo della parabola del convito di nozze (Vang.) [Questa Messa esisteva coi suoi elementi attuali molto prima che fosse istituita la festa del Corpus Domini]. Niente, infatti, poteva essere più adatta all’Eucaristia, che è il banchetto ove tutte le anime sono unite nell’amore a Gesù, loro sposo, e a tutte le membra mistiche. Niente poi di più dolce che il tratto nel quale si legge nell’Ufficio la storia di Samuele che fu consacrato a Dio fin dalla sua più tenera infanzia per abitare presso l’Arca del Signore e diventare il sacerdote dell’Altissimo nel suo Santuario. La liturgia ci mostra come questo fanciullo offerto da sua madre a Dio, serviva con cuore purissimo il Signore nutrendosi della verità divina. In quel tempo, dice il Breviario, « la parola del Signore risuonava raramente e non avvenivano visioni manifeste », poiché Eli era orgoglioso e debole, e i suoi due figli Ofni e Finees infedeli a Dio e incuranti del loro dovere. Allora il Signore si manifestò al piccolo Samuele poiché « Egli si rivela ai piccoli, dice Gesù, e si nasconde ai superbi », e S. Gregorio osserva che « agli umili sono rivelati i misteri del pensiero divino ed è per questo che Samuele è chiamato un fanciullo ». E Dio rivelò a Samuele il castigo che avrebbe colpito Eli e la sua casa. Ben presto, infatti l’Arca fu presa dai Filistei, i due figli di Eli furono uccisi ed Eli stesso mori. Dio aveva così rifiutato le sue rivelazioni al Gran Sacerdote perché tanto questi come i suoi figli non apprezzavano abbastanza le gioie divine figurate nel « gran convito » di cui parla in questo giorno il Vangelo, e si attaccavano più alle delizie del corpo che a quelle dell’anima. Così applicando loro il testo di S. Gregorio nell’Omelia di questo giorno, possiamo dire che « essi erano arrivati a perdere ogni appetito per queste delizie interiori, perché se n’erano tenuti lontani e da parecchio tempo avevano perduta l’abitudine di gustarne. E perché non volevano gustare la dolcezza interiore che loro era offerta, amavano la fame che fuori li consumava ». I figli d’Eli, infatti prendevano le vivande che erano offerte a Dio e le mangiavano; ed Eli, loro padre, li lasciava fare. Samuele invece, che era vissuto sempre insieme con Eli, aveva fatto sue delizie le consolazioni divine. Il cibo che mangiava era quello che Dio stesso gli elargiva, quando, nella contemplazione e nella preghiera gli manifestava i suoi segreti. « Il fanciullo dormiva » il che vuol dire, spiega S. Gregorio, « che la sua anima riposava senza preoccupazione delle cose terrestri ». « Le gioie corporali, che accendono in noi un ardente desiderio del loro possesso, spiega questo Santo nel suo commento al Vangelo di questo giorno, conducono ben presto al disgusto colui che le assapora per la sazietà medesima; mentre le gioie spirituali provocano il disprezzo prima del loro possesso, ma eccitano il desiderio quando si posseggono; e colui che le possiede è tanto più affamato quanto più si nutre ». Ed è quello che spiega come le anime che mettono tutta la loro compiacenza nei piaceri di questo mondo, rifiutano di prender parte al banchetto della fede cristiana ove la Chiesa le nutre della dottrina evangelica per mezzo dei suoi predicatori. « Gustate e vedete, continua S. Gregorio, come il Signore è dolce ». Con queste parole il Salmista ci dice formalmente: «Voi non conoscerete la sua dolcezza se voi non lo gusterete, ma toccate col palato del vostro cuore l’alimento di vita e sarete capaci di amarlo avendo fatto esperienza della sua dolcezza. L’uomo ha perduto queste delizie quando peccò nel Paradiso: ma le ha riavute quando posò la sua bocca sull’alimento d’eterna dolcezza. Da ciò viene pure che essendo nati nelle pene di questo esilio noi arriviamo quaggiù ad un tale disgusto che non sappiamo più che cosa dobbiamo desiderare. » (Mattutino). « Ma per la grazia dello Spirito Santo siamo passati dalla morte alla vita » (Ep.) e allora è necessario come il piccolo e umile Samuele che noi, che siamo i deboli, i poveri, gli storpi del Vangelo, non ricerchiamo le nostre delizie se non presso il Tabernacolo del Signore e nelle sue intime unioni. Evitiamo l’orgoglio e l’amore delle cose terrestri affinché « stabiliti saldamente nell’amore del santo Nome di Dio » – (Or.), continuamente « diretti da Lui ci eleviamo di giorno in giorno alla pratica di una vita tutta celeste » (Secr.) e « che grazie alla partecipazione al banchetto divino, i frutti di salute crescano continuamente in noi » (Postcom.).
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.
V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
Introitus
Ps XVII: 19-20.
Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.
[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene] Ps XVII: 2-3
Díligam te. Dómine, virtus mea: Dóminus firmaméntum meum et refúgium meum et liberátor meus.
[Amerò Te, o Signore, mia forza: o Signore, mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore.]
Gloria….
Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me. [Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.]
Kyrie
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
Gloria
Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.
Oratio
Orémus. Sancti nóminis tui, Dómine, timórem páriter et amórem fac nos habére perpétuum: quia numquam tua gubernatióne destítuis, quos in soliditáte tuæ dilectiónis instítuis.
[Del tuo santo Nome, o Signore, fa che nutriamo un perpetuo timore e un pari amore: poiché non privi giammai del tuo aiuto quelli che stabilisci nella saldezza della tua dilezione.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Joánnis Apóstoli 1 Giov. III: 13-18
“Caríssimi: Nolíte mirári, si odit vos mundus. Nos scimus, quóniam transláti sumus de morte ad vitam, quóniam dilígimus fratres. Qui non díligit, manet in morte: omnis, qui odit fratrem suum, homícida est. Et scitis, quóniam omnis homícida non habet vitam ætérnam in semetípso manéntem. In hoc cognóvimus caritátem Dei, quóniam ille ánimam suam pro nobis pósuit: et nos debémus pro frátribus ánimas pónere. Qui habúerit substántiam hujus mundi, et víderit fratrem suum necessitátem habére, et cláuserit víscera sua ab eo: quómodo cáritas Dei manet in eo? Filíoli mei, non diligámus verbo neque lingua, sed ópere et veritáte.”
[“Carissimi: Non vi meravigliate se il mondo vi odia. Noi sappiamo d’essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida; e sapete che nessun omicida ha la vita eterna abitante in sé. Abbiam conosciuto l’amor di Dio da questo: che egli ha dato la sua vita per noi; e anche noi dobbiam dare la vita per i fratelli. Se uno possiede dei beni di questo mondo e, vedendo il proprio fratello nel bisogno, gli chiude le sue viscere, come mai l’amor di Dio dimora in lui? Figliuoli miei, non amiamo a parole e con la lingua, ma con fatti e con sincerità”].
VERA E FALSA CARITÀ.
Noi andiamo o fratelli, coll’Apostolo della carità e con il suo veramente divino apostolato, di meraviglia in meraviglia. Domenica scorsa l’Apostolo San Giovanni ha messo la carità in cielo. Dio è Carità — ha pronunziato una parola di sublimità incomparabile. Questa domenica, dal cielo più alto discende sul terreno più umile; scrive parole di una incomparabile praticità: «Miei figliuoli, non amiamo a chiacchiere… o più letteralmente ancora, non amiamo colla bocca, colle parole, amiamo coll’opera, se vogliamo amare per davvero ». Dove è chiaro che si tratta di quell’amore che merita nome di carità e della carità che corre le vie della terra, tra uomo e uomo. L’Apostolo ha l’orrore della carità falsa, apparente — che sembra carità e non è carità, come un banchiere (i banchieri sono i devoti, gli apostoli, i mistici della moneta, della vera, s’intende) detesta, abborre, abbomina la moneta falsa — che pare e non è, che par oro ed è orpello. E qual è questa carità falsa? È proprio la carità che non fa e parla. Il non fare ne costituisce il non essere, e il parlare le dà l’apparenza. La parola buona, caritatevole, vuota di opere; non è più abito, è maschera, è commedia. Come frequente allora e adesso la commedia della carità! Come facile e frequente (appunto perché tanto facile) l’impietosirsi gemebondo sulla miseria del prossimo. Poverino qua! Poverino là! E come frequente la esaltazione verbale della carità: facile e frequente il panegirico della filantropia! E quanti, sfogato così il loro istinto retorico e sentimentale, si credono, si sentono in pace con la loro coscienza! Credono di aver fatto tutto, perché hanno parlato molto! L’Apostolo della carità è terribilmente e semplicemente realista. Che cosa serve tutta questa logorrea? A che cosa serve per chi soffre la fame, il freddo, lo sconforto della vita? Nulla. Le parole lasciano il tempo che trovano. E che sincerità in queste parole infeconde, sistematicamente, regolarmente infeconde di opere! Che razza di cuore, di carità ha colui che vede il suo prossimo in bisogno, e non fa nulla per sollevarlo? Vede aver fame e non gli dà da mangiare? aver sete e non gli amministra da bere? – Fare bisogna, se si vuole che la carità sfugga all’accusa, al sospetto di simulazione, di ipocrisia. L’opera è la figlia dell’amore, ne è la prova sicura e perentoria. Fare, notate, dice l’Apostolo, anziché semplicemente dare, perché il dare è una forma particolare del fare. Fare quello che si può con le persone che si amano fraternamente davvero. – Fare per gli altri quello che, a parità di condizione, faremmo e vorremmo che gli altri facessero per noi. Fare e molto, e bene, e sempre. Fare non per farsi vedere, ma per renderci benefici. Fare del bene, non fare del rumore. C’è più carità in una goccia di operosità, che in un mare di chiacchiere. E allora il grande quesito che noi dobbiamo proporci se vogliamo esaminarci bene sul capitolo della carità, la virtù che ci assomiglia a Dio, il grande quesito è questo: che cosa, che cosa abbiamo fatto, che cosa facciamo? cosa, cosa, non parole!
[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch. Mediolani, 1-3-1938]
Graduale
Ps CXIX: 1-2 Ad Dóminum, cum tribulárer, clamávi, et exaudívit me.
[Al Signore mi rivolsi: poiché ero in tribolazione, ed Egli mi ha esaudito.]
Alleluja
Dómine, libera ánimam meam a lábiis iníquis, et a lingua dolósa. Allelúja, allelúja
[O Signore, libera l’ànima mia dalle labbra dell’iniquo, e dalla lingua menzognera. Allelúia, allelúia]
Ps VII:2 Dómine, Deus meus, in te sperávi: salvum me fac ex ómnibus persequéntibus me et líbera me. Allelúja.
[Signore, Dio mio, in Te ho sperato: salvami da tutti quelli che mi perseguitano, e liberami. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc. XIV: 16-24
“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis parábolam hanc: Homo quidam fecit cœnam magnam, et vocávit multos. Et misit servum suum hora coenæ dícere invitátis, ut venírent, quia jam paráta sunt ómnia. Et coepérunt simul omnes excusáre. Primus dixit ei: Villam emi, et necésse hábeo exíre et vidére illam: rogo te, habe me excusátum. Et alter dixit: Juga boum emi quinque et eo probáre illa: rogo te, habe me excusátum. Et álius dixit: Uxórem duxi, et ídeo non possum veníre. Et revérsus servus nuntiávit hæc dómino suo. Tunc irátus paterfamílias, dixit servo suo: Exi cito in pláteas et vicos civitátis: et páuperes ac débiles et coecos et claudos íntroduc huc. Et ait servus: Dómine, factum est, ut imperásti, et adhuc locus est. Et ait dóminus servo: Exi in vias et sepes: et compélle intrare, ut impleátur domus mea. Dico autem vobis, quod nemo virórum illórum, qui vocáti sunt, gustábit cœnam meam”.
(“In quel tempo disse Gesù ad uno di quelli che sederono con lui a mensa in casa di uno dei principali Farisei: Un uomo fece una gran cena, e invitò molta gente. E all’ora della cena mandò un suo servo a dire ai convitati, che andassero, perché tutto era pronto. E principiarono tutti d’accordo a scusarsi. Il primo dissegli: Ho comprato un podere, e bisogna che vada a vederlo; di grazia compatiscimi. E un altro disse: Ho comprato cinque gioghi di buoi, o vo a provarli; di grazia compatiscimi. E l’altro disse: Ho preso moglie, e perciò non posso venire. E tornato il servo, riferì queste cose al suo padrone. Allora sdegnato il padre di famiglia, disse al servo: Va tosto per le piazze, e per le contrade della città, e mena qua dentro i mendici, gli stroppiati, i ciechi, e gli zoppi. E disse il servo: Signore, si è fatto come hai comandato, ed evvi ancora luogo. E disse il padrone al servo: Va per le strade e lungo le siepi, e sforzali a venire, affinché si riempia la mia casa. Imperocché vi dico, che nessuno di coloro che erano stati invitati assaggerà la mia cena”
Omelia
(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.
LE CAUSE DELL’INDIFFERENZA RELIGIOSA
Un uomo fece un giorno un gran banchetto e invitò molte persone. Ma all’ora opportuna tutti cominciarono a scusarsi. Uno disse: « Comprai una villa e bisogna che la veda: scusami, te ne prego. Un altro disse: « Comprai cinque paia di buoi e bisogna che li provi: scusami, te ne prego ». Un terzo rispose villanamente: « Ho preso moglie e non ci vengo più ». Homo quidam… è il Dio degli eserciti che si nasconde sotto questo anonimo per significarci la sua umile e generosa misericordia. La grande cena a cui sono invitati moltissimi è preparata nella Chiesa ove la bontà di quell’Uomo ha profuso tutti i suoi tesori. Vi è l’abbondanza del candido pane della divina parola; della dottrina del Vangelo, che ristora l’intelletto e risana il cuore. Vi è una profusione di preziosissimo vino che rallegra le anime nella valle delle lagrime: il Sangue di Gesù Cristo. Vi sono le bianche carni dell’Agnello immacolato che accendono in noi l’amore celeste. Vi sono le frutta dei buoni esempi dei Santi, delle indulgenze, delle grazie interne ed esterne. Veramente quell’Uomo preparò una gran cena: … cœnam magnam. Eppure gli invitati la disdegnano: « Non posso venire: ho comprato una villa ». Questa, dice S. Agostino, è la scusa di coloro che son posseduti da superbia ed aspirano a dominar gli altri con i loro possessi ed intanto dimenticano i loro doveri di religione. « Ho comprato cinque paia di buoi ». Ecco la scusa dell’uomo avaro che non ha tempo di pensare all’anima, perché con tutti e cinque i sensi, mettendo sossopra ogni cosa, s’affanna ad arricchire. « Mi sono sposato, e non ci vengo ». Costui, che rifiuta senza aver nemmeno la cortesia di chieder scusa, è l’uomo che si abbrutisce nei piaceri della carne. Ecco dunque come nella storia dei Giudei è adombrata la storia dei Cristiani. Gesù Cristo ci scopre, con la sua parabola, i veri motivi dell’indifferenza religiosa: sono i peccati — superbia, avarizia, lussuria — che contristano il cuore. – 1. LA SUPERBIA. Fénelon, Arcivescovo di Cambrai, ascendeva il pulpito per la predica dell’Annunciazione dell’anno 1690, quando gli recarono un breve pontificio. Trepidante lo lesse. Il Papa condannava il suo libro: «La spiegazione delle massime dei santi ». Gli astanti videro il volto del Vescovo impallidire: quale burrasca gli fremeva in cuore? Udiva Egli il sibilo di Lucifero non serviam, o il grido pieno di pianto lanciato da Pietro: « Signore, io sono un peccatore »? Il Vescovo si scosse e salì il pergamo. Oh, non fu più il mistero della Annunciazione che predicò, ma fu la sommissione alla Autorità. E terminò dicendo: « Se mai un giorno si ricorderà questo doloroso episodio della mia vita, si dica soltanto che il pastore ha obbedito completamente come l’ultima pecorella ». Tutto il popolo piangeva nella chiesa. In quel momento egli spiegava in pratica e in un modo efficacissimo la più difficile e bella massima dei Santi. – Un altro quadro: nel 1520, in Germania, un frate agostiniano cominciò a predicare una dottrina erronea. Il Papa mandò la condanna della nascente eresia. E quel frate uscì dalla chiesa e davanti alla cattedrale, in faccia a tutto il popolo, bruciò i decretali gridando superbamente: « Tutto quello che il Papa condanna, io approvo! ». Ma il buon Vescovo di Cambrai morì come un santo, e Martin Lutero morì nei rimorsi dell’eresia, lontano dalla vera fede. Dio resiste ai superbi. La superbia accieca e ci fa preferire cibi velenosi al magnifico banchetto preparato dall’Uomo evangelico. » « Sarete come dei; — sibilava il serpente dall’albero proibito; — saprete tutto il bene e il male! ». E i primogenitori si lasciarono illudere per superbia e preferirono un pomo velenoso alla stupenda cena del Paradiso. Poi s’accorsero: ma troppo tardi. Non solo non avevano acquistato la scienza di Dio, ma avevano perduto anche la propria. – E ce ne sono ancora degli uomini ciechi che s’affannano senza pace dietro ad un fantasma iridescente: l’onore. E per ciò che dicono onore, conculcano la legge della giustizia e della religione. – 2. L’AVARIZIA. Una domenica, a New York, un eccentrico miliardario chiamò uno de’ suoi impiegati e gli disse con bonarietà americana: « Su questa tavola, c’è un milione di biglietti di banca da un dollaro ciascuno. Se puoi verificare il conto prima di mezzanotte, tutto è tuo. Guarda: scoccano le sei. A domani ». E uscì. L’impiegato rimase un momento sbalordito, con gli occhi imbambolati, davanti a quella massa di biglietti. Poi li assaltò con mano febbrile, e cominciò a contare: uno, due, dieci… cento… un pacchetto… due pacchetti… Respira a pena. È là: testa curva, sguardo fisso, corpo immobile. Solo le mani si agitano, vanno e vengono con la rapidità e la regolarità di una macchina. Le campane suonano la Messa e chiamano il popolo vicino al Signore. Egli, vicino al danaro, non ode nemmeno. Le ore passano: è mezzogiorno. Pensa appena che ha fame, e conta, conta. Il sole tramonta: i suoi figlioli dove saranno? Avranno avuto da mangiare? Non ha tempo: conta, conta sempre. La notte cade, le vie tornano deserte e mute. La casa è piena di silenzio, e d’ombra: un servo ha acceso un lume, ha portato un bicchiere d’acqua. Non se n’è accorto. Gli occhi si appesantiscono, i nervi tirano, i muscoli delle mani si intorpidiscono, la mezzanotte gli sta sopra. E conta: conta sempre. E davanti a lui il suo padrone lo guarda con pietà: il padrone che improvvisamente gli afferra le mani e grida: « Basta! è mezzanotte ». Già dal pendolo gocciarono rapidamente i dodici colpi fatali. Lo sventurato non era ancora a metà del suo lavoro. Dilata orrendamente gli occhi senza luce e muore. Povero pazzo che s’è lasciato incantar da avidità, invece di ciò che sperava, trovò inganno e morte! Ma di questi pazzi che consumano tutta la vita nel far danaro è pieno il mondo. Suona la campana della Chiesa: ma non l’odono; non hanno tempo per l’anima; devono far denari. I figli per i loro mal’esempi crescono male, ma essi non hanno tempo per i figli: devono far danari. Dio li invita alla sua cena, con buone ispirazioni, con qualche avviso; che disgrazia; ma non hanno tempo d’accettare questo invito. Unico è il loro bene, che credono vero, eterno: la ricchezza. Ma la mezzanotte giunge improvvisa: il demonio li guarda con pietà satanica, afferra le loro avide mani e grida: « Basta: devi morire! » Poveri pazzi! – 3. L’IMPURITÀ. S. Francesco di Sales camminò per più mesi attraverso le montagne per raggiungere una pecorella traviata. E finalmente, stanco, con le vesti logore, con le mani sanguinanti dai rovi, la vede e le parla con quel fuoco che dentro gli arde e lo fa piangere di dolore. Alfine Teodoro Beza confessa d’aver sbagliato; il Santo allora l’invitò a tornare sulla retta via. Ma Teodoro fece venire la funesta donna con cui sacrilegamente conviveva e disse: « Ecco chi mi impedisce di tornare nella Chiesa ». Uxorem duxi et ideo non possum venire. E morì nell’apostasia. La disonestà è la passione che, più d’ogni altra, allontana da Dio: 1) perché, profanato il cuore, non si possono più gustare le cose di Dio: l’anima diventa simile a ciò che ama. 2) perché dal cuore profanato s’alzano dei miasmi velenosi che offuscano la mente e fanno perdere la fede. – Un giorno, mentre Gesù parlava della gloria e della felicità che inonda l’anima dei Santi, uno degli ascoltatori, rapito dietro alla bellezza di quella visione, proruppe a dire: « Oh beato colui che mangia il pane nel regno di Dio » (Lc., XIV, 15). E noi tutti siamo invitati a questa mensa: l’Uomo che ha fatto la gran cena, noi pure manda a chiamare. Sventurati quelli che — per superbia o per avarizia o per lussuria — rifiuteranno il divino invito. — IL CONVITO DOMENICALE – Quella volta Gesù era andato a mangiare in casa del Fariseo. Sul terminare del pranzo, tacendo tutti, prese a contare una bella parabola. Io voglio spiegare la parabola del Signore ad un altro significato, assai utile per noi, e dico che la cena grande a cui il buon Dio c’invita è la santificazione della Domenica. E non è la Domenica un’immagine della eterna cena del paradiso? E non è la Domenica cristiana un nutriente e soave convito delle anime nostre? – 1. LA DOMENICA È LA CENA DELLE ANIME. Osservate come è buono il Signore. Egli è il padrone di ogni cosa, e avrebbe pieno diritto di tenersi tutto per sé: tutte le piante, tutti gli animali, tutti i luoghi, tutti i tempi. Invece come nel Paradiso terrestre, lasciato ogni albero all’uomo, una pianta sola si riservò ad esperimento di ubbidienza; come al tempo dei Patriarchi, lasciato ad essi ogni frutto ed ogni bestia, solo poca primizia del gregge e del campo ritenne; come di tutta la terra, si riserva appena qualche spazio ove edificare le sue chiese; così di sette giorni, uno soltanto ha voluto per sé: la Domenica. Poteva esserci più largo di così? E di meno che cosa mai ci avrebbe potuto richiedere? « Figliuoli! — ci dice per bocca di Mosè. — Sei giorni ho lavorato per darvi il sole e le stelle, la terra e i mari, le piante e gli animali e per plasmare i vostri corpi e ravvivarli di un’anima immortale: al settimo però cessai. Ebbene, come ho fatto Io, fate anche voi così. Lavorate sei giorni, il settimo lo darete a me ». Poteva esserci più padre? « Lo darete a me!… » Forse per farci lavorare il doppio, il triplo… per Lui? Forse per gravarci — da padrone qual è — di penitenze e di asprezze? No. « Lo darete a me, perché Io voglio farvi riposare, Io voglio che veniate in casa mia ad una cena gaudiosa ». Dite: sulla terra c’è un altro padrone, buono come questo? Per sei giorni gli uomini sono nei campi, nelle fabbriche, negli uffici; le donne pure sono costrette alla fatica di un laboratorio o di una casa, mentre i figli sono alla scuola o trascurati per le vie. È tutto uno stridere di macchine, un incomposto vociar di operai affannati, un fischiar di sirene: c’è appena tempo di trangugiare un po’ di cibo senza assaporarlo e alla sera si ritorna pallidi e stanchi alla casa povera di luce, povera di parole. Poche ore di sonno, e poi ecco bisogna balzare a nuova fatica e riprendere quegli abiti trascurati e improntati del duro lavoro. Ben venga la Domenica, gaudiosa cena delle anime! Un lieto scampanio s’intende nella prim’alba, che arriva a tutti come una voce di fratelli e d’amico: « Nella Chiesa! — ci dice — tutto è pronto ». E dai portoni dei ricchi, dagli usci dei poveri, i padri escono coi loro bambini e le mamme vengono con le loro bambine: tutti sono puliti e ben vestiti, tutti si sorridono e sono lieti, tutti davanti all’altare di Dio si siedono vicino: il ricco e il povero, il servo e il padrone, tutti eguali. Per sei giorni abbiamo stentato, oggi si riposa in letizia. Per sei giorni vestimmo male, oggi ci adorniamo con religiosa modestia. Per sei giorni siamo stati nelle case delle creature, servi delle creature, oggi si va nella casa del Creatore, si serve Lui, si parla con Lui, si mangia con Lui il pane della parola di Dio. Per sei giorni si è vissuto per le cose terrene, oggi si vive per quelle celesti. Com’è bella la Domenica cristiana, giorno di Dio, giorno dell’uomo, mistica cena delle anime! – 2. SCORTESIA D’INVITATI. Purtroppo questo giorno santo, benefico all’anima e al corpo, alla famiglia e alla società quanto è profanato! Oh se Gesù, una qualche festa, ripassasse attraverso alle nostre campagne e alle nostre città, forse ancora prenderebbe lo staffile per flagellare i profanatori del suo giorno! E forse dalla sua bocca divina gli sgorgherebbe il lamento che confidò ad un’anima privilegiata: « I Giudei mi hanno crocifisso in Venerdì, ma i Cristiani mi crocifiggono in Domenica ». a) Villam emi! Ho comprato una villa e perciò non posso venire. Ancora questa è una delle scuse che molti Cristiani usano per rifiutare il banchetto festivo. Andare a Messa, andare a Dottrina… io che sono ricco, che ho un palazzo, che sono rivestito di autorità, che ho molte e difficili incombenze?! Alla Messa sono obbligati i poveri, gli ignoranti: ma che cosa deve dire la gente se s’accorge che sento anch’io il bisogno di santificare la festa?!… Ci sono di quelli poi che, senza giungere a questo eccesso, credono che per santificare le feste basti assistere alla santa Messa; e, ascoltatala in qualche modo, pensano a tutt’altro che ad opere di pietà. Costoro trattano Dio come un esoso tiranno a cui si deve concedere meno che si può, e considerano la pietà come una medicina velenosa da prendersi con estrema parsimonia. E tra costoro si trovano quelli che cercano la Messa più spiccia, quelli che giungono sempre in ritardo, o assistono svogliati e disattenti, chiacchierando con disturbo e scandalo degli altri; e spesso ancora con tale abbigliamento e positura da offrire pascolo alla leggerezza, all’ambizione, alla lussuria. Ma basterà una mezz’oretta di Messa per tutta la festa? Ricordate che chi non assiste mai alla Dottrina Cristiana, se anche non si può dire che viola il precetto festivo, certo è difficile che schivi il peccato grave per trascuranza d’istruzione religiosa. b) Juga boum emi! Ho comprato dieci buoi e devo provarli sotto l’aratro, perciò non posso venire. Questa è un’altra delle scuse con cui i Cristiani violano il banchetto festivo: « Ho un affare da concludere, ho un raccolto maturo da fare, ho un urgente lavoro da finire… » io. È l’avarizia, e la bramosia del guadagno maledetto li spinge a diventare come macchine e come bestie, e negarsi il santo riposo. Come fa pena, in Domenica, vedere le ciminiere fumare; udire la romba dei martelli e dei motori; osservare gli uomini in mezzo ai campi. I diritti di Dio, non contano dunque più nulla? Che giova all’uomo guadagnar tutto il mondo se perde l’anima? Ricordate ancora la ricetta sicura che il Curato d’Ars prescriveva per quelli che volevano andare in miseria: « Rubare o lavorare in Domenica ». Sì, perché il Signore non corre, ma arriva sempre. È quante volte osservando i campi bruciati dalla siccità sotto un sole di bronzo, e smangiucchiati dalla gragnola, si pensa al lavoro di festa! E quante volte incontrando operai disoccupati, o direttori di officine fallite, si pensa alle Domeniche profanate! c) Uxorem duri! Ho preso moglie e perciò non voglio venire. È questa la più terribile scusa per profanare il banchetto festivo: « Ho voglia di godermela e non di santificare la festa ». Il giorno della preghiera è diventato il giorno del piacere, giorno della purezza è diventato il giorno della carne trionfante; il giorno della gioia è diventato il giorno dell’orgia. Guardate: l’osteria sì, ma non la Messa; la passeggiata, ma non il catechismo, l’ozio, ma non la preghiera; la disonestà, ma non i Sacramenti; il demonio, ma non il Signore. – Nei pomeriggi festivi, le nostre chiese e gli oratori vanno disertandosi: dov’è la gioventù? Le vie sono rigurgitanti, le sale da ballo sono un vortice infernale, gli spettacoli mondani e procaci sono le false sirene. – La persecuzione di Diocleziano infieriva contro i Cristiani, nel 304, con tale violenza, che s’era perfino illuso l’imperatore di poter sradicare dalla terra il nome di Cristo. Tra i più aspri rigori di leggi e di spionaggi Anisia, una giovane di Tessalonica, uscì di casa per recarsi dove i Cristiani celebravano i sacri riti, giacché era giorno di Domenica. Uscendo da una porta della città, un soldato la fermò, dicendole: « Dove vai a quest’ora? ». La fanciulla si trovò scoperta, e confessò: « Sono cristiana, e vado a santificare il giorno del Signore ». Soggiunse il soldato: « Vieni con me ad adorare il Sole ». La giovane sì rifiutò e fece per proseguire il suo cammino. Quegli allora le strappò il velo con cui si copriva per modestia il suo volto. Anisia grido: « Il mio Dio ti punirà ». A queste parole il soldato s’accese di furore, e con la sua spada trafisse la giovane santa che cadde mentre la sua anima bianca entrava nell’eterna domenica in cielo (XXX Dicembre, Martirologio). L’intercessione e l’esempio di sant’Anisia faccia ravvedere molti profanatori della festa, prima che il Signore nella sua ira abbia a dir contro di loro quelle tremende parole della Santa Scrittura: « Io vi getterò in faccia lo sterco delle vostre solennità » (Malach., II; 3).
Offertorium
Orémus Ps VI: 5 Dómine, convértere, et éripe ánimam meam: salvum me fac propter misericórdiam tuam.
[O Signore, volgiti verso di me e salva la mia vita: salvami per la tua misericordia.]
Secreta
Oblátio nos, Dómine, tuo nómini dicánda puríficet: et de die in diem ad coeléstis vitæ tránsferat actiónem.
[Ci purifichi, O Signore, l’offerta da consacrarsi al Tuo nome: e di giorno in giorno ci conduca alla pratica di una vita perfetta.]
Præfatio
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.
de Spiritu Sancto
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. Qui, ascéndens super omnes cælos sedénsque ad déxteram tuam, promíssum Spíritum Sanctum hodierna die in fílios adoptiónis effúdit. Qua própter profúsis gáudiis totus in orbe terrárum mundus exsúltat. Sed et supérnæ Virtútes atque angélicæ Potestátes hymnum glóriæ tuæ cóncinunt, sine fine dicéntes:
[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: per Cristo nostro Signore. Che, salito sopra tutti cieli e assiso alla tua destra hodierna die effonde sui figli di adozione lo Spirito Santo promesso. Per la qual cosa, aperto il varco della gioia, tutto il mondo esulta. Cosí come le superne Virtú e le angeliche Potestà cantano l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.
Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:
Pater noster
qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.
Agnus Dei
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.
Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
Communio
Ps XII: 6 Cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi.
[Inneggerò al Signore, per il bene fatto a me: e salmeggerò al nome di Dio Altissimo.]
Postcommunio
Orémus. Sumptis munéribus sacris, qæesumus, Dómine: ut cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus.
[Ricevuti, o Signore, i sacri doni, Ti preghiamo: affinché, frequentando questi divini misteri, cresca l’effetto della nostra salvezza].
PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)