GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (67): IL MODERNISMO (1)

GNOSI, TEOLOGIA DI Satana (67)

IL MODERNISMO

(Enciclopedia Cattolica, C.d. V., vol. VIII Coll. 1188-1197; 1952)

MODERNISMO. – È l’indirizzo eterodosso delineatosi fra gli studiosi cattolici alla ine del secolo scorso e nei primi anni del presente, che si proponeva di rinnovare e interpretare la dottrina cristiana in armonia col pensiero moderno. Il termine modernismo ricorre ufficialmente la prima volta nell’Enciclica Pascendi dominici gregis del papa Pio X come comune denominazione di un complesso di errori in tutti i campi della dottrina cattolica (S. Scrittura, dogmi, culto, filosofia) per ridurlo al nucleo originario.

SOMMARIO: I. Genesi storica. – II. L’Enciclica, « Pascendi » III. Indole dottrinale. – IV. Errori principali, – V. Critica.

I. GENESI STORICA. — L’origine remota del Modernismo è da vedere nell’irrequietezza e bramosia di novità che sino dai pontificati di Gregorio XVI e di Pio IX serpeggiavano in alcuni ambienti cattolici, specialmente in Francia, insofferenti della teologia scolastica: le condanne dell’’indifferentismo di Lamennais (1834), del tradizionalismo di Bautain (1840) e del Bonetty (1855), del razionalismo di G. Hermes (1835), di Günter (1857) dell’ontologismo (1861) e del Frohschammers (1962), il cumulo di errori raccolti nel Sillabo di Pio IX (1864) sono le tappe dell’errore e i sintomi della tempesta che si addensava per la Chiesa. La celebrazione del Concilio Vaticano (1870) fu per un poco il provvidenziale argine: lo costituzione dogmatica De fide catholica definiva i rapporti tra scienza e fede e stabiliva l’essenza soprannaturale della fede e quindi della genuina nozione cattolica della Rivelazione e dell’ispirazione biblica; la costituzione I., l’unica portata a termine) De Ecclesia Christi affermava la divina autorità della Chiesa e il suo infallibile Magistero nella persona del successore del Principe degli Apostoli, il Romano Pontefice. Le prime avvisaglie della nuova eresia nel campo cattolico si maturano in Francia, dopo il Renan, con l’opera di A. Loisy, e la tendenza di non pochi studiosi cattolici, che intendevano adeguarsi ai risultati delle recenti indagini della storia comparata delle religioni e dei dogmi, della filologia dei testi, dell’archeologia biblica per fornire un’apologetica del Cristianesimo conforme ai bisogni dei tempi nuovi. La Chiesa aveva già riconosciuta la necessità di un opportuno ed urgente rinnovamento degli studi sacri e biblici in particolare e ne è documento l’Encicl. Providentissimus Deus (1893) di Leone XIII che ne tracciava il senso, il programma ed i principi: l’Enciclica lasciava allo studioso privato ampio campo di ricerca per tutti quei punti « qui expositionem certam et definitam adhuc desiderant » (Denz-U, 1942), mentre per i punti già definiti dalla Chiesa egli li poteva ancora approfondire, adattare ai bisogni dei tempi e difenderli dagli attacchi degli avversari.  All’uopo lo stesso Pontefice istituì la Pontificia Commissione Biblica (1902) ma il Loisy procedette per la sua via e il modernismo poté diffondersi e organizzarsi in Inghilterra col Tyrrell, in Italia col Buonaiuti, Murri, Minocchi ed in alcuni ambienti cattolici tedeschi, con un’ampiezza e penetrazione sempre più preoccupanti. – Toccò a Pio X l’arduo compito di smascherare l’eresia; e, fatto unico nella storia della Chiesa, il modernismo sprofondò su se stesso quasi immediatamente. Il primo intervento di Pio X fu il decreto del S. Uffizio Lamentabili del 3 luglio 1907, che riassume in 65 articoli i nuovi errori. Il decreto divenne condanna solenne con l’encicl. Pascendi dell’8 settembre dello stesso anno 1907; l’Enciclica, con grande sorpresa degli stessi fautori del modernismo, ha condensata la « sintesi logica dei loro principi con una « magistrale esposizione critica ed una critica magnifica » (G. Gentile). Infine, per evitare ogni compromesso e ambiguità nella sfera dell’insegnamento e della disciplina ecclesiastica, Pio X col motu proprio Sacrorum Antistitum del 1 sett. 1910, richiamandosi espressamente ai due documenti precedenti, pubblicava la formula del « giuramento antimodernista » che presenta ad un tempo i caposaldi della dottrina cattolica e i principali errori del modernismo che la volevano scalzare. Si può dire che così finisce la storia del modernismo, il cui doloroso ma ormai necessario epilogo furono le condanne pontificie dei capi dimostratisi ribelli o ricalcitranti. Invano alcuni fautori del modernismo (Programma dei modernisti, 2a, ed., Torini 1911, p. 97 sg.) si sono richiamati alle dottrine del Newmann sul « senso illativo » della fede e sull’evoluzione dei dogmi da lui difesa, perché egli ha sempre mantenuta la necessità della guida del Magistero ecclesiastico (cfr. J. Guitton, La philosophie de Newman. Essai sur l’idée de développement, Parigi 1933, p. 166 sgg.). In particolare l’idea centrale del modernismo di un antagonismo insanabile tra la tradizione della Chiesa e il pensiero contemporaneo a discrezione completa di quest’ultimo, è in aperto contrasto con la formola dello sviluppo del dogma di Newman secondo il quale « i vecchi principi ritornano sotto nuove forme, e l’idea cambia con essi per poter rimanere identica », principio che doveva impedire piuttosto che favorire il modernismo. (Essay on the development of christian doctrine, Londra 1878, p. 40). Del resto l’ortodossia di Newman è stata difesa da Pio X nella lettera al Vescovo di Limerick del 10 marzo 1908: « Profecto in tanta locubrationum eius copia, quidpiam reperiri potest, quod ad usitata theologorum ratione videatur, nihil potest quod de ipsius fide suspicionem afferat » (Acta S. Sedis, 41 [1908], p. 201). – In senso analogo, non vanno espressamente compresi nel modernismo condannato dall’Enciclica (e furono la maggior parte) quegli studiosi che, pur simpatizzando per le nuove idee, hanno accettato la decisione pontificia protestando di voler rimanere fedeli all’autorità della Chiesa. Fra questi va forse compreso anche il barone von Hügel (1852-1925) che subì profondamente l’influenza del Newmann (cf. M. Schillter-Hermkes, Friedrich von gel, Religion als Ganaheit, Düsseldorf 1948, p. 441 sgg.) : approfittando del favore che godeva presso i modernisti egli tentò, quanto era in suo potere, di riportare il Loisy e il Tyrrell all’obbedienza alla Chiesa (op. cit., p. 467 sgg. dove l’autore conchiude : « Hügels Religionsphilosophie ist also unzweidentig antimodernistisch »; tuttavia, a p. 480, n. 180 è riportata la lettera del 4 maggio 1907 del card. Steinhuber, prefetto dell’Indice, al card. Ferrari nella quale si deploravano gli scritti del v. Hügel insieme con quelli del Tyrrell, Fogazzaro e Murri. Ma è ancora prima di ogni condanna formale; difende l’ortodossia del v. Hügel anche M. Nédoncelle, La pensée religieuse de Fr. von Hügel, Parigi 1935, pp. 15-40).

II. L’ENCICLICA «PASCENDI ». — Considerata nel suo contenuto, nel procedere ed anche nello stile del tutto inconfondibile, è un documento fra i più decisivi del supremo Magistero, e fra tutti gli atti di Pio X resta il monumento più insigne del suo pontificato, documento delle sue più accorate preoccupazioni e come completamento definitivo di quella diga alla marea dei moderni errori, che da un secolo ormai teneva impegnata l’opera del Pontificato romano per la salvezza della fede. La sua caratteristica è nella struttura fortemente teoretica che le conferisce una singolare trasparenza, attraverso la quale le molteplici aberrazioni del modernismo, si dissolvono rivelando la loro stortura e l’evidente dissonanza col sacro deposito della fede. Gli errori del modernismo erano stati accuratamente raccolti e denunziati dal decreto Lamentabili con formule risolute e perspicue (Denz-U, 2005-65); l’Enciclica li riprende e li presenta nella loro genesi e li concatena strappandoli a quell’alone d’indeterminatezza in cui erano volutamente lasciati dai loro propugnatori: in questo senso si può dire che, pur a così breve distanza dal decreto, l’Enciclica dà una esposizione originale e nuova dei medesimi con un dominio della terminologia e della tecnica avversaria, unica forse in un documento del genere e che per questo doveva attirare sulla retta via quanti militavano in buona fede nelle file dell’errore. A questa prima parte, la più vasta ed elaborata, seguono le istruzioni disciplinari che i Vescovi devono attuare nella scelta dei professori nei seminari e per l’incremento degli studi filosofici, teologici e delle materie profane ausiliari. La parte dottrinale è divisa in tre punti nei quali vengono analizzate le tre principali tappe o fasi dell’errore o meglio, come si esprime profondamente l’Enciclica, le diverse personalità che si fondono e s’intersecano nei fautori del modernismo: il filosofo, il credente, il teologo, lo storico, il critico, l’apologeta, il riformatore. Il nerbo dell’esposizione è nella dimostrazione della solidarietà e continuità dei tre momenti nella demolizione della fede, in quanto il filosofo inizia con l’affermazione di soggettivismo e relativismo individuale assoluto, proclamando l’unico criterio del sentimento privato (è questo il solito, antico concetto gnostico delle idee innate ed immanenti di memoria platonica e neoplatonica, dell’altrettanto gnostico esame privato autorefenziale delle sette del Protestantesimo, e di tutte le eresie storiche opportunamente modificate, scientificamente abbigliate ed adattate al sentire moderno – ndr. -) di ciascuno in cui si risolve non solo la convinzione sull’Essere Supremo ma il contenuto ed il senso degli stessi dogmi. L’Enciclica ammonisce contro la doppia esasperazione a cui va soggetta la dottrina cattolica con il nuovo criterio: la « trasfigurazione in quanto la verità divina è costretta ad assumere un’esaltazione soggettiva per, muovere il soggetto, e la « deformazione » (defiguratio) in quanto arbitrariamente si crea alla fede una situazione diversa dalla sua realtà, in contrasto con le dichiarazioni del Concilio Vaticano (Denz-U, 1808). La conseguenza più deleteria è la professione dell’evoluzione intrinseca « illimitata dei dogmi il cui significato e valore non proviene dall’immutabile contenuto ma dall’emozione soggettiva che può suscitare nel credente: cecità nata da prurito di novità e da superba presunzione, come già aveva denunziato Gregorio XVI (Denz-U, 2072-80). – Si comprende come il credente si trovi svincolato da ogni criterio di oggettività e autorità estrinseco, dalla divina tradizione, così da abbracciare l’assurdità di affermare che da una parte, ad es., la storia nulla può dire sulla divinità di Gesù Cristo e che questa è unicamente presente alla coscienza del credente: separazione violenta già condannata da Pio IX (Denz-U, 1656) e prima da Gregorio IX nel 1228, al primo comparire del razionalismo teologico (Denz-U, 442 sg.). Sotto l’apparente fideismo i fautori del modernismo intendono mettere la fede a discrezione della coscienza umana (Denz-U, 2081-86). L’immanenza, proclamata dal filosofo e vissuta dal credente, viene applicata dal « teologo » alle formole e verità di fede con la conclusione che « le rappresentazioni della realtà divina si riducono a « simboli », che si rapportano a particolari situazioni di coscienza del credente e che mutano con essa: ciò vale anche dei Sacramenti e della divina ispirazione. La stessa Chiesa è un frutto di esperienza collettiva e deve adattarsi al suo ritmo senza coercizione o imposizione alcuna di autorità esteriore. Su questa linea i fautori del modernismo trapassano anche a definire i rapporti della Chiesa con il potere politico affermando la separazione assoluta fra Chiesa e Stato, contro la determinazione fatta da Pio VI nella costit. Auctorem fidei, che condannava l’errore del Concilio di Pistoia (Denz-U, 1502 sgg.). A questo modo viene demolita ogni consistenza e autorità del Magistero ecclesiastico e ogni sua esterna manifestazione o apparato gerarchico: non c’è campo che il modernismo non abbia invaso e scardinato dalla sua base per sostituirvi l’arbitrio. La conclusione finale è già implicita nel primo passo del soggettivismo filosofico: la proclamazione dell’ateismo e l’abolizione di ogni religione (Denz-U, 2087-2109). Strano miscuglio di torbide aspirazioni, le quali con il pretesto di una vernice pseudomistica e col richiamo ad un’interiorità più teoretica che intimamente pratica, pretendeva di patrocinare la politica della nuova democrazia (come in Italia fece il Murri) da sovrapporre e sostituire all’azione della Chiesa.-  Di lì a poco, con il motu proprio Præstantia Scripturæ (18 nov. 1907), il Papa insorgeva contro le deformazioni tentate nei riguardi del decreto Lamentabili e dell’Encicl. Pascendi, comminando la scomunica contro i contraddittori e dichiarando che i contumaci negli errori ivi condannati erano colpevoli di eresia, perché nella maggior parte di quelle proposizioni si attenta ai fondamenti della fede (Denz-U, 2114). Il Papa non solo seguì personalmente l’esecuzione della disposizioni dell’Enciclica e quelle relative al giuramento antimodernista, ma intensificò l’attività della Pontificia Commissione Biblica che si pronunciò « con autorità » sui principali problemi della teologia e dell’esegesi biblica; parimenti fondò il Pontificio Istituto Biblico in Roma, perché raccogliesse i più esperti studiosi cattolici del S. Testo e vi si preparassero i nuovi professori di S. Scrittura nei seminari.

III. INDOLE DOTTRINALE. – La gravità dell’errore dogmatico del modernismo. è tutta nel suo principio fondamentale. Il modernismo non consiste tanto nell’opposizione all’una o all’altra delle verità rivelate, ma nel cambiamento radicale della nozione stessa di « verità », di « religione » e di « rivelazione »: l’essenza di questo cambiamento è nell’accettazione incondizionata del « principio dell’immanenza » che sta a fondamento del pensiero moderno. È vero che tale principio teoretico è espresso raramente dai fautori del modernismo in modo sistematico, perché essi si applicano di preferenza alla ricerca positiva della storia della Chiesa, dei dogmi e della Bibbia: tuttavia l’indirizzo critico da loro seguito nelle ricerche è dominato da quel principio che abbandona senza residui la verità cristiana alla contingenza della cultura umana e dell’esperienza soggettiva. Il modernismo deriva in questo per tramite anche storicamente evidente dal movimento della riforma luterana, come l’Enciclica stessa ammonisce (Denz-U, 2086), in quanto la « Riforma » staccò la fede del singolo dall’ossequio all’autorità gerarchica stabilita nella Chiesa visibile. Il principio protestante ebbe la sua versione laica nel soggettivismo gnoseologico kantiano e di qui nel doppio indirizzo dell’idealismo trascendentale di Fichte-Schiling-Hegel che subordinava la religione alla filosofia dell’irrazionalismo fideistico (più vicino a Kant) di Jacobi-Fries-Schleiermacher, che poneva l’essenza della religione nel « sentimento » individuale del divino. – Frutto inevitabile di questa invasione della soggettività nel campo della fede fu la disgregazione della dottrina tradizionale della verità operata dalla « teologia liberale » tedesca della seconda metà del sec. XIX, la quale, dopo gli hegeliani Feuerbach, Strauss e Bauer, negatori non solo della Rivelazione, ma di ogni religione naturale e positiva, trattò la verità del Cristianesimo, e della religione in genere, come prodotto storico e culturale dell’epoca che le vide nascere (Ritschl, Vatke, Tröltsch, Hermann). Il concetto poi di « sviluppo » o « divenire » (Werden) della coscienza, elaborato da Hegel dal punto di vista della dialettica astratta, posto dal Darwin come la legge unica e fondamentale per la comprensione dell’origine della vita e della stessa coscienza. Spencer, nell’ambito della filosofia esponeva nei suoi Primi principi la « teoria dell’inconoscibile » che, come già Kant un secolo prima, dichiarava impossibile ogni via razionale per attingere l’Assoluto. Inoltre, la nuova via per accedere alla realtà spirituale veniva indicata nell’analisi psicologica dell’esperienza intima contemporaneamente nell’opera di H. Bergson in Francia e di W. James in America. Ma la fonte più diretta e completa cui attinsero i fautori del modernismo è la teoria del « fideismo simbolico » che A. Sabatier ha esposto con grande fascino in Esquisse d’une philosophie de la religion (Parigi 1879, specialmente p. 390 sgg.). In essa si fa un’applicazione radicale del principio dell’immanenza vitale a tutti i fondamenti della fede cristiana e si mostra insieme, con perfetta padronanza della teologia protestante (e dello gnosticismo in generale – ndr.- ), che la riduzione della fede a « istinto » soggettivo è l’unico logico principio della « Riforma » (cf. Fr. Heiler, A. Loisy, der Vater des katholischen Modernismus, Monaco, p. 46). Contemporaneamente i risultati della moderna filologia applicati al Testo Sacro ponevano problemi nuovi su l’autenticità, la struttura e l’interpretazione dei libri ispirati, che la teologia patristica e  la scolastica non potevano sospettare nella composizione del Nuovo Testamento; le esplorazioni delle civiltà antiche del mondo biblico in Medio Oriente e lo studio delle religioni extrabibliche mettevano di fronte ad analogie e somiglianze che non potevano essere casuali e che esigevano perciò un’interpretazione complessiva secondo un principio unitario. Il modernismo ne ha approfittato per riprendere un tentativo dello « gnosticismo » di abbracciare tutte le istanze della verità con un principio unico, la soggettività della verità e la relatività di tutte le sue formule e quindi la relatività del dogma. –  Il pericolo del modernismo è nella sua estrema duttilità che vuol schivare ogni qualificazione determinata e precisa sia in filosofia come in teologia: infatti i fautori del modernismo sfuggono dall’accettare l’uno e l’altro sistema filosofico in forma integrale, pretendendo di aver colto il principio unitario che caratterizza l’uomo moderno al di là e al di sopra delle opposizioni dei sistemi. Questo principio, che forma l’essenza del modernismo, è indicato nell’immanenza vitale intesa come « esperienza privata ». Il suo significato per la conoscenza cristiana è nella « mediazione » che il principio dell’immanenza opera di ogni dato reale, storico e filosofico rispetto ai prolegomeni della fede: l’esistenza di Dio, l’immortalità e la vita futura nel campo strettamente teoretico, e rispetto al valore oggettivo probante dei miracoli e delle profezie nel campo dell’apologetica. Poi nell’ambito stesso delle verità di fede il modernismo opera tale « mediazione » nel modo più radicale eliminando qualsiasi distinzione effettiva di valore fra le varie religioni e fra gli stessi atteggiamenti più opposti che può prendere il singolo dentro la sua religione. Si può oggi dire che il modernismo abbia unificato, in questo principio dell’immanenza, gli indirizzi opposti del fenomenismo, dello storicismo idealista e del fideismo di Kant-Schleiermacher, vale  dire: 1) la « realtà » è l’impressione di coscienza (Hume, James. Bergson); 2) la verità si risolve nel destino o sviluppo  della coscienza umana (Hegel); 3) tale coscienza si manifesta e si attesta nell’impressione o percezione intima ( « sensus » dell’encicl. Pascendi, « Gefühl » di Schleiermacher), quale si dà al singolo volta per volta. così i fautori del modernismo hanno potuto protestare di accettare tutta la dottrina della Chiesa, ma in realtà essi respingevano ad un tempo: 1) il concetto di « trascendenza ontologica » di Dio rispetto al creato e alla mente finita così che Dio è sostituito col « divino »; 2) il concetto stesso di soprannaturale così che i dogmi sono ridotti a « simboli » e ad « approssimazioni  »; 3) il concetto infine di « Magistero ecclesiastico » la cui autorità impegna per quel tanto in cui la coscienza privata del singolo si trova in accordo con l’autorità esterna. Il modernismo quindi ha capovolto il metodo tradizionale dell’apologetica cristiana nel rapporto tra « scienza e fede », rinnovando l’errore averroista della dissociazione nella coscienza stessa del Cristiano, come avverte il  Giuramento (Denz-U, 2146), fra l’ossequio esterno del credente all’autorità della Chiesa che propone l’autorità da credere e la convinzione interiore dello studioso. Così il contenuto e il valore stesso delle medesime verità venivano sottratti al Magistero ecclesiastico e riservati ad una forma di « supercomprensione » in virtù dell’emozione religiosa del soggetto. Allora, in ultima analisi, l’unica formula valida della verità religiosa si risolveva nella struttura che la coscienza dà a se stessa di fronte ai singoli problemi della fede. Giustamente perciò l’Enciclica qualifica il modernismo non tanto di eresia, quanto di « compendio di tutte le eresie »; si potrebbe quasi chiamare l’ « eresia essenziale » in quanto capovolge e nega la garanzia stessa dell’ortodossia, cioè il supremo Magistero che, mediante l’assistenza dello Spirito Santo, continua nella Chiesa secondo la promessa di Gesù Cristo. [Po ssiamo dire che l’« eresia essenziale » non sia altro che la solita gnosi primordiale, la teologia di satana, che perde il pelo ma non il vizio … – ndr. -)

ERRORI PRINCIPALI. — L’Encicl. Pascendi dichiara nel modo più perentorio che il modernismo, a causa della sua professione di soggettivismo radicale, trapassi al di là di ogni religione nell’agnosticismo assoluto e quindi di necessità finisce nell’ateismo. Il programma dei modernisti, pubblicato nel nov. 1907, come risposta all’Enciclica, lungi dallo scagionarlo, risulta una conferma punto per punto della opportunità e fondatezza della condanna papale.

.1. Modernismo biblico.— Alla dottrina (il Programma dice « opinione ») tradizionale che nella Bibbia si possiede il processo genuino della Rivelazione sia del Vecchio sia Del Nuovo Testamento, perché garantita dall’autorità di Dio che l’ha ispirata in ogni sua parte e per l’autorità degli scrittori secondari (ad es., Mosè, Giosuè, gli Evangelisti), che furono testimoni immediati o mediati di ciò che narrano, si oppongono, a sentire i modernisti, i recenti risultati della critica biblica secondo i quali i libri storici del Vecchio Testamento sono semplici raccolte di materiali che « non mostrano alcuna pretesa di provare la verità, ma semplicemente di purificare il sentimento religioso del lettore » e che perciò non possono aver Dio come autore principale. In questo senso principale. In questo senso si può ben ammettere che la Bibbia « non contenga alcun errore propriamente detto e molto meno le bugie sia pur officiose », in quanto che il racconto biblico si rapporta « a quelle forme e alle esigenze di vita dei lettori per i quali ciascun libro è stato scritto » (Il Programma dei modernisti, 2a ed., Torino 1911, p. 40). Parimenti l’ispirazione biblica non è più da concepire come una meccanica trasmissione delle parole o dell’idea da Dio all’uomo, ma in una vitale concezione della parola insieme e dell’idea per opera dell’uomo unito a Dio in una maniera speciale e soprannaturale (ibid., p. 41) che però il Programma non precisa. Va notato infine che, secondo il modernismo, lo scopo e il contenuto della divina Rivelazione non ha tanto carattere dottrinale riguardante la conoscenza astratta della divinità, quanto l’istruzione pratica del come venerare Dio e conformare la vita alla norma suprema della sua volontà (ibid., p. 45). La negazione dell’ispirazione come carisma, della storicità e del contenuto di verità assoluta del libro sacro è ripetuta e analizzata a riguardo del Nuovo Testamento, nella composizione dei Vangeli e dei rapporti fra loro, dove si fa distinzione fra l’elemento storico e l’elemento soprannaturale della fede, per passare alla distinzione nominata dalla stessa Enciclica (Denz-U, 2076) fra « il Cristo della storia e il Cristo della fede (Programma, pp. 66 sgg., 115): all’una appartiene di conoscere che Cristo è uomo, all’altra che Cristo è Dio e tocca al fedele vedere dappertutto il Cristo secondo lo spirito » (ibid., p. 75). Importa poco alla fede di accertare la nascita verginale, i miracoli clamorosi e infine la resurrezione del Redentore e se è possibile o no attribuire a Cristo l’annuncio di alcuni dogmi e la fondazione della Chiesa: questi fatti sfuggono alla storia e non hanno realtà che per la fede (ibid., p. m). Il principale rappresentante del modernismo biblico fu A. Loisy.

2. Modernismo teologico. — Al principio del Cristianesimo non c’era che la fede intensamente vissuta, senza dottrine definite o dogmi: questi sono « incrostazioni depositate dalla riflessione di coscienze esaltate, specialmente di s. Paolo, ma estranee al contenuto primitivo del Vangelo di Gesù ch’era un caldo e appassionato annuncio del regno imminente e un invito alla purificazione interiore » (ibid., pp. 74, 88). Altrettanto dicasi della dottrina dei primi Padri, dai quali esula ogni tendenza dogmatica così che è « arbitrario e aprioristico » far risalire all’insegnamento primitivo di Gesù e dei suoi primitivi seguaci i dogmi dei Concili e specialmente la fede del Concilio di Trento nella loro espressione. La « evoluzione dei dogmi » è stata, secondo il modernismo, l’effetto dell’adattamento vitale « indispensabile al Cristianesimo per sopravvivere nell’ambiente ellenistico in cui venne a trovarsi fuori della Palestina, e ciò vale specialmente per i dogmi fondamentali trinitario e cristologico e per l’organizzazione della Chiesa » (ibid., p. 81 sgg.). Così che « tutto è cambiato nella storia del Cristianesimo, pensiero, gerarchia e culto: l’elemento costante di verità ai primi tempi della Chiesa, nei secoli seguenti, compresa la scolastica e il Concilio di Trento che la canonizzò, come ai nostri giorni, è l’esperienza religiosa ch’è sempre identica negli uni e negli altri » (ibid., p. 92). In tutta la storia del Vecchio e del Nuovo Testamento si attua « la continuità di una Rivelazione che nella coscienza umana il divino fa di se stesso sempre più intensamente » (ibid., p. 111): dogmi, organizzazione ecclesiastica, Sacramenti… non sono che mezzi per realizzare quell’esperienza più profonda del divino; e i fautori del modernismo auspicano di poter in futuro farne a meno (ibid., p. 112).

3. Modernismo filosofico. — Il Programma rigetta categoricamente l’accusa di «agnosticismo » e — pur riconoscendo di accettare la critica negativa fatta alla ragione da Kant e Spencer (ibid., p. 28) — dichiara di professare un atteggiamento radicalmente diverso, quello cioè di spiegare ogni tipo di conoscenza (fenomenica, scientifica, filosofica, religiosa) in funzione dell’« azione » e quindi dell’esperienza che è propria ad ognuno in quei campi. In particolare nella sfera religiosa, sia per provare l’esistenza di Dio come per accertarsi della divina Rivelazione, non importano più le dimostrazioni della metafisica medievale e la testimonianza del miracolo e della profezia: oggi sono invece « le esigenze della nostra vita morale e l’esperienza del divino che si compie nelle profondità più oscure della nostra coscienza, che conducono ad un senso speciale delle realtà soprasensibili » (ibid., p. 97). Quanto all’accusa d’immanentismo, il Programma, pur riconoscendo che l’Enciclica ha visto bene, si affanna a dimostrare che il « principio d’immanenza » non è affatto in contrasto con la tradizione cattolica in quanto anche per questo il giudizio « Dio esiste », ammesso come la stessa teologia scolastica ammette che non è giudizio né analitico a priori né sintetico a priori, resta che sia sintetico a posteriori, cioè dimostrabile con l’esperienza, « la quale non può essere altro che quella che si compie dalla e nella coscienza dell’uomo » (ibid., p. 100). – Anche i Padri e lo stesso s. Tommaso non hanno voluto, dire altro, e l’immanentismo non è quel grosso errore che l’Enciclica ha voluto far credere (ibid., pp. 101 sgg., 120 sgg., 138 sgg.). Quanto ai rapporti fra scienza e fede, il Programma professa di ammettere la distinzione più netta nel senso che la fede religiosa è il « bisogno istintivo.., che nasce spontaneamente e si svolge indipendentemente da ogni tirocinio di preparazione scientifica » (ibid., p. 123). Il Programma come conclusione dichiara che il modernismo non avversa né la Scrittura e neppure la tradizione ma soltanto l’interpretazione scolastica delle medesime perché ormai sorpassata dal metodo critico della coscienza moderna (ibid., p. 127).

V. CRITICA. — Il Programma ha confermato pertanto tutti i principali capi d’accusa dell’Enciclica Pascendi e quale principio ispiratore nella concezione della fede, della storia, delle formule dogmatiche, della gerarchia del culto: l’esperienza privata soggettiva. Tale criterio dell’esperienza privata è presentato come il risultato indiscusso e definitivo del pensiero moderno che dovrebbe costituire la formula unica della possibilità della verità religiosa per la coscienza umana in generale. Il modernismo, sfruttando ed esasperando l’insufficienza critica di alcune posizioni tradizionali nel campo dell’esegesi e della storia della Chiesa, ha cambiato sostanzialmente l’interpretazione dei dati e del significato stesso della fede, della religione naturale e della funzione della ragione umana. È stato così rigettato in blocco il realismo greco-cristiano che aveva per fondamento la distinzione dell’uomo dal mondo e da Dio e la distinzione dell’ordine naturale dall’ordine soprannaturale; con ciò si aboliva ogni vestigio di trascendenza. Viene eliminato di conseguenza ogni valore assoluto e trascendente dei primi principi della ragione e con essi è tolta la possibilità della struttura logica del discorso e la validità di ogni posizione metafisica. A nulla valgono le proteste di alcuni modernisti di accettare integralmente la dottrina cattolica, perché il modernismo ha nel « principio d’immanenza vitale » il veleno corrosivo non solo dell’essenza e delle verità di fede ma del valore oggettivo di qualsiasi verità assoluta di fatto e di ragione e ritorna al principio di Protagora che « l’uomo è misura di tutte le cose » (Theæt., 152, fram. B I). Il modernismo, ancora pur derivando per canali molteplici dal soggettivismo del pensiero moderno, non presenta alcuna consistenza teoretica perché non s’impegna a fondo con nessun sistema o filosofia determinata, così che si risolve in un fenomeno di « contaminazione teoretica » e di superficiale concordismo. La contaminazione però più essenziale è stata il tentativo d’interpretare l’esperienza intima del soggetto (autocoscienza) in diretta continuità e come espressione unica autentica della vita religiosa e di prendere la coscienza religiosa comune o naturale come l’essenza o il comune denominatore della stessa divina Rivelazione e della vita della Grazia. La realtà è che ogni esperienza religiosa, nell’ambito della vita della Grazia e della fede, può avere sol valore secondario e in dipendenza della Rivelazione e del Magistero ecclesiastico. – L’errore del modernismo ha però giovato indirettamente alla vita della Chiesa, chiamando a raccolta le sue forze migliori per fronteggiare l’attacco più subdolo e vasto alla sua missione spirituale; gli studi superiori delle università cattoliche, stimolati dal modernismo, si sono in questa metà del secolo completamente rinnovati, specialmente nel campo delle scienze bibliche e della storia dei dogmi dove il modernismo teneva l’arsenale delle sue armi. Tuttavia, il pericolo del modernismo non è mai completamente debellato perché  è insita nella ragione umana, corrotta dal peccato, la tendenza ad erigersi a criterio assoluto di verità per assoggettare a sé la fede. Un tentativo affine al modernismo è la cosiddetta « théologie nouvelle » comparsa in dopo la II guerra mondiale ed energicamente denunziata dall’encicl. Humani generis (12 ag. 1950) di Pio XII.. – (Poi il ribaltone conciliare, ed ancor più le aberrazioni postconciliari degli antipapi dal 26 ottobre del 1958 in poi, hanno confezionato un ultramodernismo tuttora in corso in cui la Rivelazione divina è sovvertita totalmente senza maschere, sia in campo teologico, dottrinale, liturgico, che ancor più nella moralità pubblica e privata, e nella organizzazione della vita sociale – ndr. -)

Cornelio Fabro.

MODERNISMO SOCIALE. – A somiglianza di quello dogmatico, si può chiamare m. s. quel movimento di idee e di attività che, a riguardo della società politica e professionale, pretende di regolarsi senza tener conto delle norme e dei principi essenziali proclamati dalla Chiesa, o senza dare alla Chiesa il posto che le compete. Esso prende le mosse da un erroneo sconfinamento ideale e pratico, oltre i limiti dottrinali della morale cattolica, con il pretesto di dover camminare con i tempi, quasi che la verità essenziale fosse mobile e soggetta a variazioni. – Tali deviazioni modernistiche furono descritte nell’Enciclica Ubi arcano di Pio XI, del 28 dic. 1922, e si riferiscono alle teorie da taluni professate « intorno alla autorità sociale, al diritto di proprietà, ai rapporti fra capitale e lavoro, ai diritti degli operai, alle relazioni fra Chiesa e Stato, fra religione e politica, fra classe e classe, fra nazione e nazione, ai diritti della S. Sede e alle prerogative del Romano Pontefice e dell’episcopato, ai diritti sociali di Gesù Cristo stesso, Creatore e Redentore, Signore degli individui e dei popoli » (AAS, 14 [1922], p. 696). Storicamente, una anticipazione di modernismo sociale, sebbene la denominazione sia di data più recente, può dirsi il moto intellettuale che fu capeggiato dal Lamennais (v.) e compagni dell’Avenir, in quanto veniva alterato il concetto di libertà e si metteva in equivalenza il bene e il male: moto prontamente condannato da Gregorio XVI, con le Encicliche Mirari vos (1832) e Singulari (1834), seguite poi da documenti, come il Sillabo di Pio IX (1864), e soprattutto dalle Encicliche sociali di Leone XIII, fra cui l’Enciclica Libertas (1888) e la Rerum novarum (1891). Nel progredire degli studi sociali e con il sorgere della Democrazia Cristiana (concetto sociale volgarizzato con il favore di Roma e sùbito sostenuto fervidamente da molti giovani sacerdoti), un gruppo notevole di conservatori e di integristi di Francia e d’ Italia, che di fatto ripudiavano della democrazia e il nome e la sostanza, volle accusare di modernismo sociale tutte le iniziative dei più arditi e schietti sociologi cristiani, in testa ai quali erano, in Francia, Leone Harmel e, in Italia, Giuseppe Toniolo, prendendo a pretesto qualche inesatta espressione sfuggita ai più ardenti propagandisti. La verità è che, né i fautori della Democrazia cristiana, né gli abati Lemire, Naudet, Gayrand, Garnier e Marc Sagnier in Francia, né i sacerdoti don Albertario, don Vercesi, don Torregrossa, p. Ghignoni, p. Semeria, don Sturzo ecc. in Italia, con largo seguito di gioventù, possono chiamarsi modernisti sociali. Essi rimasero, anche nella polemica, generalmente ortodossi. Del resto, Leone XIII, con la sua Encicl. Graves de communi (19o1), aveva messo opportunamente in guardia tutti gli aspiranti al regno sociale di Gesù Cristo, preservando da ogni possibile deviazione, e Pio X, nella sua la sua Encicl. Il fermo proposito dell’11 giugno 1903, aveva dato norme pratiche all’Azione Cattolica Sociale. – Intemperanze varie nel senso modernistico avvennero nondimeno, in quel tempo, in Belgio, con l’atteggiamento dell’abate Daens e la sua Lega democratica; in Francia, con l’organizzazione dei Sillon riprovato da Pio X (1910), in Italia con la Rivista di cultura, Battaglie d’oggi e l’Organizzazione della Lega democratica nazionale di don Romolo Murri, propugnatore di un autonomismo che non poteva essere consentito. Nel momento presente, tanto in Francia che in Italia, e anche nelle altre nazioni, la sociologia cristiana è inquadrata in organismi di Azione Cattolica di piena garanzia. In particolare le « Settimane sociali »si mantengono nella più assoluta ortodossia, pur dando luogo a discussioni libere nelle quali possono esprimersi le tesi più ardite.

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (68): IL MODERNISMO (2)

LA VERGINE MARIA (1)

Il Vescovo Tihámer Toth

LA VERGINE MARIA (1)

Nihil Obstat: Dr. Andrés de Lucas, Canonico. Censore.

IMPRIMATUR: José María, Vescovo Ausiliare e Vicario Generale. Madrid, 27 giugno 1951.

[Questo libro è stato tradotto direttamente dall’originale ungherese da M. I. Sr. D. Antonio Sancho, Magistrale di Maiorca].

Alla Beata Vergine Maria, Madre di Dio, nella definizione della sua gloriosa Assunzione, in anima e corpo, al cielo.

Madrid, 1° novembre 1950

INDICE

CON QUALE TITOLO ONORIAMO LA VERGINE MARIA?

SCRUPOLI SUL CULTO DI MARIA

MARIA E LA NOSTRA FEDE

MARIA E LE DONNE

MARIA E LE MADRI

TUTTE LE GENERAZIONI MI CHIAMERANNO BEATA

LE GENERAZIONI”.

IMMAGINI DELLA VERGINE MARIA

LA MADRE ADDOLORATA

LA DEVOZIONE DELLA SPAGNA PER MARIA

I DOGMI

CAPITOLO PRIMO

CON QUALE TITOLO ONORIAMO LA MARIA VERGINE?

Il celebre filosofo americano EMERSON racconta un interessante episodio di un viaggio in autobus. In un afoso giorno d’estate, stancamente e scoraggiato, salì su un pullman. Con tedio proseguì il suo viaggio… per mezz’ora. Con la stessa sonnolenza, ed apatici, anche gli altri passeggeri erano seduti sull’automezzo… quando, ad una delle fermate, salì una giovane donna con un bambino dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. Non appena si sedettero in un angolo della corriera, l’umore dei passeggeri cambiò completamente. Come se tutte le domande, i sorrisi, le risate di quel bambino innocente portassero l’aria del paradiso perduto agli uomini stanchi dalla faticosa strada della vita. E la madre teneva con tanto fascino ed amore per il suo piccolo bambino e gli parlava con tale affetto che lo sguardo di tutti era fisso su suo figlio, ed uno strano calore sciolse i loro cuori, che prima erano indifferenti. L’autobus che chiamano “Terra” ha funzionato per migliaia di anni, con milioni e milioni di viaggiatori: uomini sfiniti, malconci, immersi nell’indolenza, che non sapevano nemmeno dove stesse andando la corriera … quando un giorno, duemila anni fa, una giovane madre prese in in braccio il suo piccolo figlio, biondo e sorridente; ed occupò a malapena un posto in un angolo della carrozza, lì nella grotta di Betlemme, le anime dei viaggiatori si riscaldarono di un fuoco che non avevano mai sentito prima, ed il cuore, prima indifferente, ricevette nuova forza, come da una bellezza ed una tenerezza sconosciute. E da quel giorno la Madre ed il Figlio hanno sempre viaggiato con noi ed irradiano un fascino indicibile ed una forza di respiro che rinfresca le anime stanche nelle lotte della vita. – Non si può parlare di Gesù Cristo senza estendere il discorso anche alla sua Vergine Madre. È impossibile far conoscere la dottrina di Cristo, del Cristianesimo, senza menzionare la Vergine Maria. È la Beata Vergine che comunica bellezza, fragranza e fascino al Cristianesimo. È la fiaccola della grotta di Betlemme, la stella più bella della notte. Il suo mormorio è il più dolce “Gloria”. Nazareth non sarebbe la casa di Gesù se in questa casa non trovassimo sua Madre e l’Arcangelo; il Golgota non sarebbe così mirabilmente commovente se Gesù non avesse se Gesù non avesse piantato accanto all’albero della croce il giglio della valle, il primo ad essere innaffiato dal preziosissimo sangue, o la rosa che si arrampica sull’albero e fiorisce nei sentimenti di dolore. La Beata Vergine compie il primo miracolo, percorre per la prima volta la via crucis!  Rinchiude nel suo cuore la fede riposta nel Figlio morto e nella sua opera; è la prima a baciare la croce, con il desiderio e la consolazione della felicità eterna, le piaghe di Gesù; lei sola fa la veglia della prima risurrezione. Lei sola ha atteso per trentatré anni il Verbo dalla notte dell’Annunciazione; Ella sola lo ha ricevuto a Natale in Bethlem; Ella da sola lo ha atteso all’alba della Pasqua fiorita (PROHÁSZKA.). – “È nato dalla Vergine Maria”: così preghiamo nelCredo. Il Credo non contiene altro che queste quattro brevi parole, riferite a Lei: “È nato dalla Vergine Maria”. Una frase breve, ma il suo contenuto è così profondo, che i nove capitoli che ci accingiamo a scrivere sulla Vergine Maria difficilmente basteranno a scoprire ciò che è contenuto nella frase. La prima cosa che faremo è esaminare i fondamenti dogmatici del culto di Maria. – L’albero della magnifica fecondità, il culto di Maria, si dispiega e sprigiona la sua fragranza con migliaia e migliaia di fiori profumati nei nostri templi, nei nostri inni nelle nostre chiese, nelle nostre immagini, nelle nostre feste, nei nostri santuari, centri didi pellegrinaggio. Da quali radici si alimenta? Con quali titoli onoriamo la Vergine Maria? Questo sarà il tema di questo capitolo. E la nostra risposta sarà duplice:

I. La onoriamo perché è la Madre di Dio, e

II. Perché la Sacra Scrittura ci inculca il suo culto.

I. LA MADRE DI DIO

Come un gigantesco albero pieno di benedizioni, il culto di Maria estende i suoi rami su tutto il mondo cattolico; e la radice ultima dell’immenso albero, la radice da cui trae la sua linfa vitale, è questa breve frase: “Io credo in Gesù Cristo…, che fu concepito dallo dallo Spirito Santo e nato dalla Vergine Maria.”. Tutte il nostro venerabile culto con cui le anime cattoliche si inchinano a Maria, scaturisce dalla nostra fede in Cristo. – Riassumo in poche brevi frasi tutto ciò che crediamo su Maria. La Vergine Maria è la Madre di Gesù Cristo, quindi è la Madre di Dio; Madre, e tuttavia sempre vergine, intatta; Madre di un unico Figlio, Gesù Cristo, che è stato concepito dallo Spirito Santo – non per opera di un uomo, come gli altri uomini – la Vergine Maria, proprio in virtù della sua dignità di Madre di Dio, è stata preservata da Dio anche dalla colpa originale, così che è nata e vissuta esente. Questa è la nostra fede in poche parole su Maria. – Studiamo ora la nostra prima proposizione: Maria è Madre di Dio. È interessante il modo in cui un certo oratore dell’antichità sia uscito da un imbarazzo. Questi doveva pronunciare un discorso su Filippo di Macedonia; ma non lodò né le qualità governative di Filippo né le sue doti di guerriero; senonché, con voce concitata, pronunciò queste parole: “Basti dire di te, o Filippo, che sei stato il padre di Alessandro Magno”. Anche noi potremmo parlare a lungo della Vergine Maria, della bellezza della sua anima, delle sue virtù, del suo amore per Dio, della sua disponibilità al sacrificio… ; ma la esaltiamo nel modo più degno, dicendo: “Basta dire di Te, o Vergine Santa, che sei stata la Madre di Gesù”.

* * *

A) È un po’ strano vedere quanto poco le Sacre Scritture parlino della Vergine Maria.

Maria. Ella è raramente menzionata negli eventi. D’altra parte, le poche frasi che si riferiscono a Lei sono più che sufficienti a dimostrare la legittimità del nostro culto nei suoi confronti. Perché quelle poche frasi affermano tali glorie di Maria, che nessuno può dirne di più grandi. Leggiamo queste poche righe. Così scrive S. Matteo: “E Giacobbe generò Giuseppe, marito di Maria, dalla quale nacque Gesù. che fu chiamato Cristo” (Mt 1, 16). E SAN GIOVANNI aggiunge: “E il Verbo si è fatta carne” (Gv 1,1 4), cioè Colui che ha ricevuto carne mortale da Maria è il Figlio eterno di Dio. Pertanto, Maria è la Madre di Dio. Che parole semplici, eppure così piene di piene di conseguenze! “De qua natus est Jesus“, “da cui è nato Gesù” – questo è tutto. – Questa donna è così grande, così piena di grazia, così ammirevole, così santa, … da poter essere la Madre di Dio! Inoltre, anche Lei è figlia di Adamo, ma è così conforme al pensiero di Dio, che il Signore ha voluto la sua collaborazione nella cosa più sublime del mondo: l’Incarnazione del Verbo.

B) Madre di Dio, esaltata ed ineffabile! Ricevere e portare nel suo grembo, curare, servire ed educare il Dio davanti al quale gli Angeli puri si umiliano fino alla polvere, e alla cui presenza i Serafini ed i Cherubini nascondono il loro volto dietro le loro ali; Colui che ha creato l’universo, il sole, la luna, le stelle, e tutte le cose del mondo. Chiamare questo suo Figlio, coprirlo di baci, stringerlo al petto con l’amore di una madre! Colui davanti al quale tutte le forze del cielo e della terra si sottomettono ed obbediscono! La dignità della Madre di Dio è indicibilmente grande. “Non c’è nessuno come Maria”, esclama sant’Anselmo con entusiasmo: “Non c’è nessuno più grande di Dio, non c’è nessuno più grande di Maria”. La sublime distinzione di essere “Madre di Dio” può essere compresa soltanto considerando che tutti i saggi, i re, i Sacerdoti e gli Angeli del cielo non valgono quanto quello che Maria ci ha dato donandoci Cristo,  Figlio di Dio. Da una donna è venuto nel mondo il primo peccato, da una donna è nata la colpa; ma da una donna venne anche il suo rimedio.  La Beata Vergine era una donna scelta, una Madre senza macchia. Venne in questa terra di peccato come un giglio in fiore: senza macchia originale. Ha vissuto su questa terra come una rosa delicata: pura, senza macchia. Anche anche dopo la nascita di Gesù, rimase Vergine. Pulita e bianca come la neve appena caduta. Con quale timidezza, con quale prudenza dice all’Angelo: “Come è possibile che mi nasca un figlio, avendo consacrato la mia verginità a Dio e non volendo rinunciarvi? Non temere, Maria, perché hai trovato grazia agli occhi di Dio. La virtù dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra, il Santo che nascerà da te sarà chiamato il Figlio di Dio”. Cioè, non temere per la tua la tua verginità, perché sarai madre in virtù dell’onnipotenza di Dio, non a scapito della tua integrità, ma nella pienezza della tua purezza… La lingua ungherese chiama giustamente il giorno dell’Annunciazione “il giorno dell’innesto del frutto alla benedetta Donna benedetta”. Perché c’è stato davvero un innesto. Il ramo glorioso, il Figlio di Dio è stato innestato nella Beata Vergine, e attraverso di Lei in tutto l’umanità. L’innesto è stato fatto in modo che dalla radice millenaria del genere umano non dovessero spuntare in futuro, germogli marci peccaminosi, né rami di frutti velenosi, né mele acide e acerbe, ma parole ed azioni gradite a Dio. Che giorno di primavera fu quel giorno, quando la Vita germogliò! La Beata Vergine si abbandonò alla volontà divina, ed era in pace. E nel momento in cui pronunciò con tutta l’anima: “Sia fatto a me secondo la tua parola…”; nello stesso momento, quando, con santa umiltà il suo capo verginale chinato, Gesù Cristo iniziava la sua vita terrena vicino al cuore della Beata Vergine. Che mistero infinito di inconcepibile amore divino. Il Signore discende dal cielo, come alita sull’umile Vergine, l’avvicina e l’avvolge nel suo amore, come un oceano infinito! Vergine fiore del cielo, o Vergine Maria, mille lodi da tutto il mondo.

C) E Maria corrispose alla dignità ineguagliabile che aveva ricevuto. Era veramente Madre, una madre affettuosa, premurosa, amorevole, che sacrifica la sua vita. Quando il Bambino Gesù non era ancora nato, lei già le rivolge preghiere dal profondo della sua umile anima. – Quando la durezza degli uomini da Betlemme la costrinse ad una stalla, il bacio e l’abbraccio della Santa Vergine riscaldarono il tremante Gesù Bambino. Quando la crudeltà di Erode li costrinse a fuggire in Egitto, quel seno verginale fu un rifugio sicuro per il Bambino Dio. Quando il Salvatore cominciò a crescere, quel purissimo raggio di sole vegliava su di Lui giorno e notte. E quando… il Redentore stava morendo sul Golgota e i suoi occhi, già vitrei, non vedevano altro che volti di nemici intorno a Lui, sua Madre, la Madre di Dio stava ferma, dimostrando la sua fedeltà, ai piedi della croce, e la spada del dolore le trafisse il cuore più che mai. La Vergine Madre merita davvero le le lodi dei secoli, ha meritato che si scrivesse su di Lei negli innumerevoli volumi che riempiono le biblioteche, cantando le sue glorie. Ha meritato che la Chiesa istituisse feste per onorarla. È degna delle innumerevoli statue e immagini, una più bella dell’altra, con le quali i migliori artisti hanno presentato i loro omaggi nel corso dei secoli alla Beata Donna… Rispondiamo così alla prima domanda che ci siamo proposti: onoriamo la Vergine Maria, perché Dio l’ha onorata per primo, scegliendola come Madre del suo Figlio unigenito. Rispondiamo ancora di più. La onoriamo perché ce lo ordina la Sacra Scrittura.

II. IL CULTO NELLA SACRA SCRITTURA

Che nell’offrire tutti i nostri ossequi a Maria non deviamo dalla retta via ci viene mostrato anche dalle pagine della Sacra Scrittura. Da queste sacre pagine abbiamo imparato il culto di Maria. Dalle Sacre Scritture? Ma dove sono queste pagine?

* * *

A) Innanzitutto, c’è la scena del Paradiso: “Io porrò inimicizia tra te e la donna – questa è la parola sanzionatoria pronunciata dal Signore contro lo spirito maligno e seduttore, e tra la tua razza e la Donna e la sua progenie; Ella ti schiaccerà la testa, mentre tu le insidierai il calcagno” (Gen III,15). Come non onorare la donna potente, la Beata Vergine, la cui forza conquistatrice la cui forza vittoriosa nello spezzare il serpente ci è stata mostrata da Dio come il primo raggio di luce per la consolazione dell’umanità decaduta?

B) E la promessa del Signore si è adempiuta: “E Dio mandò l’Angelo Gabriele a Nazareth, una città della Galilea, ad una vergine, promessa sposa di un certo della casa di Davide, il cui nome era Giuseppe. E quando l’Angelo entrò dove si trovava, le disse: “Ave, piena di grazia, il Signore è con te; tu sei benedetta fra le donne” (Lc. 26-28). Davanti alla Vergine, stupita e timorosa, l’arcangelo Gabriele si inginocchia, e dalle sue labbra e per la prima volta il saluto esce dalle sue labbra e viene ascoltato: Ave, piena di grazia; il Signore è con te. Il saluto prorompe: dalle labbra dell’Angelo, e il vento, veloce, lo raccoglie con le sue ali e lo porta ai quattro angoli del mondo, in modo che non vi sia un solo angolo in cui non si senta il saluto angelico: Ave Maria. – All’inizio ci sono solo alcune anime elette che conoscono la dignità di Maria: Santa Elisabetta, San Giuseppe, gli Apostoli, il piccolo gruppo degli Apostoli, il piccolo gruppo dei primi fedeli. Ma sulle ali del vento il saluto si si diffonde. I popoli arrivano, le Nazioni sorgono, entrano nella Chiesa di Cristo e abbracciano la sua dottrina, e sia al Nord che al Sud, all’Est come all’Ovest, di giorno e di notte, sul mare e sulla terraferma, in guerra e in pace, nel tempio e nella casa, sul monte e nella valle, il saluto dell’Arcangelo Gabriele: Ave, Ave, Ave, Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Che parole semplici e, in poche righe, che contenuto sublime! Che cosa sei tu, Maria, in te stessa? “Piena di grazia”. E nei confronti del Signore? “Il Signore è con te”. E cosa sei in relazione a noi, al resto dell’umanità? “Tu sei benedetta tra tutte le donne”. Stiamo dunque agendo con leggerezza, onorando l’ammirevole Madre? Siamo dispensati dal culto di Maria, dicendo che anche Ella era figlia di Adamo? Ma l’Angelo le dice: “Tu sei benedetta fra tutte le donne”. E noi non aggiungiamo una parola in quelle dettate da Dio quando mandò l’Arcangelo a salutarla.

C) Poco dopo questa scena, la, la Vergine Maria andò a far visita alla cugina Santa Elisabetta. Ed Elisabetta, sentendo la sua voce – come si legge nella Sacra Scrittura – “fu colmata di Spirito Santo” ed esclamò con gioia: “Tu sei benedetta tra tutte le donne, e benedetto il frutto del tuo seno! Beata tu hai creduto, perché le cose dette a te dal Signore si compiranno” (Lc. I, 42, 45). Non abbiamo forse il diritto di onorarla se Elisabetta, “piena di Spirito Santo”, l’ha esaltata con tanto entusiasmo? Ed è possibile che ci venga censurato il fatto che per aver innalzato Maria troppo al di sopra di noi, o per esserci inchinati troppo davanti a lei, quando San Luca, riferendosi al bambino Gesù di dodici anni ed i suoi genitori, scrive così: “Subito andò con loro e venne a Nazaret e fu loro sottomesso” (Lc. II, 51). Chi era il soggetto? Il Figlio di Dio. A chi era soggetto? A Giuseppe e Maria. Non dobbiamo forse onorare ed elevare al di sopra di tutti gli esseri creati la creati la Donna che Gesù Cristo ha onorato con l’obbedienza, alla quale si è inchinato in attesa dei suoi comandi?

D) Abbiamo non solo il diritto, ma il vero e proprio obbligo di onorare la Vergine Maria. Questo è dimostrato nel modo più chiaro dal testamento di Cristo. Il Venerdì Santo è il giorno più importante della storia universale. Cristo è inchiodato sulla croce e Maria gli è vicina, perché dove Cristo soffre, sua Madre è lì con Lui. È stata Lei a portarlo nel mondo. Ha voluto essere presente anche alla sua morte. Non è possibile leggere senza emozione il Vangelo di San Giovanni quando si riferisce alle parole pronunciate dal Signore dalla croce: “Donna, ecco tuo figlio! Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre”. E da quel momento il discepolo la prese come madre” (Gv XIX, 26-27). Ecco il testamento del Signore: Madre, sii una madre protettrice, patrona degli uomini, per i quali ho dato il mio sangue e la mia vita; guarda tuo figlio. Figlio, ecco hai tua madre. Lei non è la tua regina, non è la tua imperatrice…, non è mia madre…, no, è tua madre. – E allora, se ci viene chiesto con quali titoli onoriamo la Vergine Maria, in quale passaggio Cristo abbia comandato il suo culto, la nostra risposta è questa: qui lo ha comandato. Quando disse a San Giovanni, e in lui a tutti noi: “Ecco tua madre”. Da quel momento Maria è la nostra Madre celeste. E da quel momento il canto sulle labbra degli uomini non cessa mai. – Ecco i fondamenti dogmatici del nostro culto di Maria. Maria non ha perso il suo potere di Madre di Dio, nemmeno nei cieli, al contrario, lì anzi lo esercita in modo ancora più efficace. La Madre di Dio deve avere, in un certo senso, un ascendente su Dio, nel senso che Dio ascolta le sue preghiere con piacere. Maria prega, intercede incessantemente per noi, perché siamo tutti fratelli e sorelle di Cristo, e quindi siamo anche figli di Maria. E il suo Figlio divino ha affidato tutti noi alla sua cura e alla sua protezione. Che gioia sapere che abbiamo in cielo una Madre di bontà, una potente Protettrice, sempre pronta a prendere nelle sue mani i nostri affari e presentare le nostre suppliche al suo Divino Figlio! –  La Chiesa, fin dalle sue origini, ha effettivamente sperimentato la protezione di questa Madre benevola. Non c’è stato momento della sua vita di due millenni in cui non abbia sentito l’intercessione della Vergine Immacolata. E noi pure la sentiamo, quando corriamo da Lei, alla sua protezione, e chiediamo alla gloriosa e benedetta Vergine di ricevere le nostre suppliche nei giorni di tribolazione. Lei è la nostra Signora, la nostra Avvocata, la nostra Mediatrice. Non si è mai sentito in tutti i tempi che qualcuno che abbia implorato la sua intercessione sia stato rifiutato. Uniamo, dunque, con profondo rispetto l’espressione della nostra gratitudine alle parole dell’Angelo: Ave Maria, figlia prediletta del Padre! Ave, Madre del nostro Redentore! Ave, tempio dello Spirito Santo! Ave, Ave, tu che sei più santa dei cherubini, più sublime dei serafini! Ave, Maria, più splendente del sole, più bella della luna, più splendente delle stelle! Ave Maria, Regina degli Angeli; Ave, porta aperta del Paradiso! Ave, stella del mare. Ave, Maria, speranza dei patriarchi, anelito dei profeti, Regina degli Apostoli, forza dei martiri. Ave Maria, esempio ideale di madri cristiane. Ave, o benevola, avvocata di noi tutti. Ave, Madre di Dio, piena di grazia, il Signore è con te. Con te c’è il Signore, che era prima di te, che ti ha creato, e che Tu hai generato. Ti chiediamo, o Maria: rivolgi a noi questi tuoi occhi misericordiosi, e dopo questo esilio, mostraci Gesù, il frutto benedetto del tuo seno. O misericordiosissima, o graziosissima, o dolce Vergine Maria!

LA VERGINE MARIA (2)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (12) “da LEONE II a GREGORIO II”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (12)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(Da Leone II a Gregorio II)

LEONE II: 17 agosto 682-3 Luglio 683

561-563: Lettera “regi regum” all’imperatore Costantino IV intorno all’agosto 682

Conferma delle decisioni del III Concilio di Costantinopoli contro i monoteliti ed il Papa Onorio I.

561. Abbiamo appreso infatti che il santo e grande sinodo universale (Costantinopoli III) pensava lo stessocome tutto il Concilio riunito intorno a questa santa Sede apostolica (Concilio di Roma a. 680)… e che ha confessato, in accordo con noi: Che nostro Signore Gesù Cristo sia uno della santa ed indivisibile Trinità, che esista da e in due nature, senza confusione, senza separazione, senza divisione; che Egli sia un solo e medesimo Dio perfetto e che sia uno e lo stesso, perfetto Dio e perfetto uomo, rimanendo intatta la proprietà di ciascuna delle due nature che sono unite in Lui; che uno e medesimo abbia operato le cose divine come Dio, ed operato inseparabilmente le cose umane come uomo, con la sola eccezione del peccato; ed il Concilio ha veramente affermato che per questo motivo abbia anche due volontà naturali e due operazioni naturali per le quali la verità delle sue nature è principalmente manifestata, così che la differenza possa essere chiaramente riconosciuta, ed anche la verità delle due nature, a partire dalle quali e nelle quali esiste un solo e medesimo nostro Signore Gesù Cristo; per questo motivo abbiamo effettivamente riconosciuto che questo santo … sesto sinodo … si sia attenuto senza fallo alla predicazione apostolica, che sia in accordo in tutto e per tutto con la definizione dei cinque Concili universali, e che non abbia aggiunto o sottratto nulla alla definizione dei cinque Concili universali, né abbia sottratto nulla alle determinazioni della vera fede, ma che sia andato avanti con grande rettitudine sulla via regale ed evangelica; ed in essi ed attraverso di essi sia stata mantenuta l’elaborazione dei santi dogmi e della dottrina dei Padri approvati della Chiesa cattolica…

562. E poiché (il sinodo di Costantinopoli) ha proclamato in tutta la sua pienezza… la definizione della fedeche anche la Sede Apostolica del beato apostolo Pietro… ha accolto con riverenza, per questo motivo anche Noi e per mezzo del nostro ministero, questa venerabile Sede Apostolica, per unanime consenso,diamo il nostroa ciò che è stato definito da esso, e lo confermiamo con l’autorità delBeato Pietro…

563. E allo stesso modo anatemizziamo gli inventori del nuovo errore, cioè Teodoro, il Vescovo di Farano, Ciro di Alessandria, Sergio, Pirro… e anche Onorio che non ha purificato questa Chiesa apostolica con l’insegnamento della tradizione apostolica, ma ha cercato di sovvertire la fede immacolata in un empio tradimento (testo greco: ha permesso che la Chiesa immacolata fosse contaminata da un empio tradimento).

Benedetto II: 26 giugno 684-8 maggio 685

14° Concilio di Toledo, 14-20 novembre 684.

Le proprietà delle due nature in Cristo.

564. (cap. 8) Ma ora… predichiamo (ai fedeli), riassumendo il tutto in una breve definizione,che essi devono effettivamente riconoscere che le proprietà indivisibili delle due nature rimangono nell’unica Persona di Cristo, il Figlio di Dio, senza divisione né separazione, come pure senza cambiamento, l’una della Divinità, l’altra dell’uomo, l’una in cui è stato generato da Dio Padre, l’altra in cui è nato da Maria Vergine. L’una e l’altra delle suenascite sono dunque complete, entrambe perfette, non possedendo nulla di meno della divinità e non prendendo nulla di imperfetto dell’umanità; Egli non è diviso dal raddoppio delle nature, ma perfetto Dio e perfetto uomo, senza alcun peccato, è l’unico Cristo nella singolarità della Persona.Esistendo dunque come uno in entrambe le nature, risplende nei segni della divinità ed è sottoposto alle sofferenze dell’umanità. Infatti, non è altro che sia stato generato dal Padre ed altro dalla madre, sebbene sia nato in modo diverso dal Padre e dalla madre: tuttavia lo stesso non è diviso tra i due tipi di natura, ma è uno e lo stesso, essendo contemporaneamente Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. Egli vive anche se muore, e muore anche se vive; è impassibile anche se soffre; non soccombe alle sofferenze; non ne è soggetto nella divinità e non vi sfugge nell’umanità; la natura della divinità gli dà il potere di non morire, la sostanza dell’umanità gli dà il potere di non voler morire e di poterlo fare; con l’una condizione è ritenuto immortale, con l’altra, quella dei mortali, Egli muore. È per l’eterna volontà della Divinità che ha assunto l’uomo che ha preso; è per la volontà dell’uomo che ha preso che la volontà umana sia soggetta a Dio. Per questo Egli stesso dice al Padre: “Padre, non la mia volontà, ma la tua sia fatta”‘ (Lc. XXII, 42), mostrando così che l’una è la volontà divina con cui l’uomo è stato assunto, l’altra la volontà dell’uomo con cui si debba obbedire a Dio.

(Cap. 9) Perciò, in accordo con la differenza di queste due nature, dobbiamo anche proclamare le proprietà di due volontà ed attività inseparabili.

(Cap. 10) … Se dunque qualcuno prende qualcosa della divinità da Gesù Cristo, il Figlio di Dio nato dal seno della Vergine Maria, o sottrae qualcosa all’umanità che Egli ha assunto, con la sola eccezione della legge del peccato, e se non crede sinceramente che esista come vero Dio e uomo perfetto in una sola Persona, sia anatema!

GIOVANNI V: 23 luglio 685 – 2 agosto 686

CONONE: 21 ottobre 686 – 21 settembre 687

SERGIO I: 15 dicembre 687-8 Settembre 701

15° Concilio di Toledo, iniziato l’11 maggio 688

Apologia di Giuliano

Dichiarazione sulla Trinità divina e sull’Incarnazione

566. (1) … Siamo venuti a sapere che in questo Liber responsionis fidei nostræ, che abbiamo inviato alla Chiesa romana per mezzo del regionario Pietro, sia apparso al suddetto Papa (Benedetto II) che il primo capitolo fosse stato da noi stabilito in modo imprudente, dove dicevamo a proposito dell’essenza divina:”La volontà genera la volontà come la sapienza genera la sapienza”. Quest’uomo l’ha trascurato in una lettura frettolosa, e quindi ha pensato che avremmo usato queste espressioni in modo relativo o nel senso di un paragone con la mente umana; e quindi è stato indotto ad ammonirci nella sua risposta dicendo: “Sappiamo dall’ordine naturale che il verbo ha origine dalla mente, come la ragione e la volontà; e questi termini non possono essere invertiti dicendo: come la parola e la volontà procedono dallo spirito, così anche lo spirito procede dalla parola o dalla volontà”;ed è a causa di questo paragone che il Romano Pontefice pensava che non si potesse dire “volontà dalla volontà” (ex voluntate).Per quanto ci riguarda, non è nel senso di questo paragone con la mente umana, né in senso relativo, ma secondo l’essenza che abbiamo detto: la volontà dalla volontà (ex voluntate), come anche la sapienza dallasapienza (ex sapientia). Per Dio, infatti, essere è la stessa cosa che volere, e volere la stessa cosa che sapere. Questo non si può dire dell’uomo. Per l’uomo, infatti, altro è ciò che si è senza volere, e un’altra cosa è volere anche senza sapere. Ma non è così in Dio, perché la sua natura è così semplice; e quindi per Lui essere è la stessa cosa che volere e sapere…

567. (4) Per passare anche all’esame del secondo capitolo in cui lo stesso Papa pensava che noiavessimo detto imprudentemente che abbiamo tre sostanze in Cristo, il Figlio di Dio:Come non ci siamo vergognati di difendere ciò che sia vero, così forse alcuni si sono vergognati di ignorare ciò che sia vero. Chi, infatti, non saprebbe che ogni uomo è fatto di due parti? (Cfr. 2 Cor IV,16 Sal LXII, 2)

(5) Contrariamente a questa regola, nelle Scritture troviamo anche che si possa intendere l’uomo nella sua totalità quando di solito viene nominata la carne, o che la perfezione dell’uomo intero possa essere designata quando a volte si parla solo dell’anima. Ecco perché la natura divina e la natura umana ad essa associata possono essere dette tre sostanze in senso letterale e due sostanze in senso figurato.

Ma altro è esprimere l’uomo intero con una proprietà, altra cosa è intenderlo come un tutto di una parte. C’è infatti un modo di parlare che viene spesso usato spesso nelle Sacre Scritture, con il quale si designa il tutto con una parte: così questo uso figurato è chiamato dai grammatici anche “sineddoche”.

La Trinità divina.

568. (Art. 1) Noi crediamo e confessiamo che Colui che è l’autore di tutte le creature contenute nel triplice edificio del mondo e che le conserva sia l’indivisibile Trinità.

(2) cioè il Padre, che è la fonte e l’origine di tutta la divinità; il Figlio, che è l’immagine completa di Dio perché in Lui è stata espressa l’unione con la gloria del Padre, generato ineffabilmente dal seno del Padre prima dell’avvento di tutti i secoli; e lo Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio senza inizio.

569. (3) Sebbene questi tre siano separati dalla distinzione delle Persone, tuttavia non sono mai separati nella Maestà del potere, poiché la loro divinità è dimostrata essere uguale ed inseparabile. E tuttavia, sebbene il Padre abbia generato il Figlio, il Figlio non è uguale al Padre, né il Padre uguale al Figlio, né lo Spirito Santo è uguale al Padre e al Figlio, ma è solo lo Spirito del Padre e del Figlio, Lui stesso uguale al Padre e al Figlio. (4) Non si deve credere che in questa Santa Trinità ci sia qualcosa che sia creato, asservito e servito; né che in Essa sia sorto in qualche modo qualcosa di avventizio o surrettizio, che sarebbe stabilito che un tempo non avrebbe avuto. …

(6) Sebbene per queste Persone, in ciò che sono in relazione a Se stesse, non si possa trovare alcuna possibilità di separazione, c’è però, per quanto riguarda la distinzione, qualcosa per cui il Padre non trae la sua origine da nessuno, il Figlio esiste perché il Padre genera e lo Spirito Santo procede dall’unione del Padre e del Figlio.

(10) E quando diciamo questo, non confondiamo le proprietà delle Persone, né separiamo l’unità della sostanza; né si deve pensare che in questa santa Trinità qualcosa sia maggiore o minore, né che qualcosa sia imperfetta o soggetta a cambiamenti. …

570. (12) Pertanto, in questa Santa Trinità c’è qualcosa che debba essere confessato senza distinzioni. Poiché il Padre ed il Figlio e lo Spirito Santo sono ciascuno per sé, il Padre deve essere creduto senza distinzione come un unico Dio con il Figlio e lo Spirito Santo. Ma per quanto riguarda larelazione, la proprietà delle tre Persone deve essere proclamata in modo distinto, come lo proclama l’Evangelista: Andate ed ammaestrate tutte le nazioni nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. (Mt XXVIII, 19). Infatti, parliamo di “relazione” nella misura in cui una Persona si riferisce all’altra; infatti, quando diciamo “Padre”, non intendiamo la Persona del Figlio, e quando si dice “Figlio” si dimostra che il Padre è inequivocabilmente presente in Lui. (13) Ma con il termine “Spirito Santo”, con il quale non si designa l’intera Trinità, ma la terza Persona della Trinità, la Persona che è nella Trinità, si indica la terza Persona della Trinità; non è del tutto chiaro come, nel senso della relazione, si rapporti alla Persona del Padre e del Figlio; infatti, se parliamo di Spirito Santo del Padre, non si parla in modo correlativo del Padre dello Spirito Santo, per cui non si intende lo Spirito Santo come Figlio; tuttavia, per gli altri termini con cui si designa la Persona dello Spirito Santo, è chiaro che si implichi la relazione. (14) È come “dono” in particolare che intendiamo lo Spirito Santo, che è noto per essere la terza Persona della Trinità, per il motivo che è dato ai credenti dal Padre e dal Figlio, con i quali, secondo la fede, è di una sola essenza; perciò, se parliamo del “dono del donatore” e del “donatore del dono”, la relazione è indubbiamente spiegata; questo, per evitare il biasimo, deve essere preso anche dal termine stesso “Spirito Santo”.

Cristo, il Figlio di Dio incarnato.

571. (16) Perciò, sebbene le opere della Trinità siano inseparabili, noi professiamo che non è stata l’intera Trinità a prendere carne, ma solo il Figlio di Dio che è stato generato dalla sostanza di Dio Padre prima dei secoli, e che alla fine dei secoli è nato dalla Vergine Maria secondo la Parola di Dio. Secondo il testo evangelico, “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. (Gv I, 14) …

(18) … La profezia dell’Angelo, secondo la quale lo Spirito Santo sarebbe sceso su di Lei (la Vergine Maria) e la potenza dell’Altissimo, che è il Figlio di Dio Padre, l’avrebbe adombrata (Lc 1,35) mostra che l’intera Trinità cooperi con la carne del Figlio di Dio.

(19) Infatti, come la Vergine conservava il suo pudore verginale prima del concepimento, così dopo la nascita non ha subito alcun danno alla sua integrità; perché ha concepito come una vergine, ha partorito come una vergine, e dopo il parto ha conservato il pudore dell’incorruzione senza che le venisse tolto.

572. (22) Che il Figlio di Dio, generato dal Padre increato, vero da vero, perfetto da perfetto, uno da uno,tutto da tutto, Dio senza inizio, abbia preso un uomo perfetto da Maria, la santa e inviolata.

(23) Come gli attribuiamo la perfezione dell’uomo, così crediamo che sia un uomo perfetto, così crediamo che in Lui ci siano due volontà, una della sua divinità, l’altra della nostra umanità; (24) ciò è reso pienamente manifesto dalle parole dei quattro evangelisti quando il nostro Redentore parla: “Padre mio, se è possibile che questo calice si allontani da me, ma non come voglio io, ma come vuoi Tu”, (Mt XXVI,39); e ancora: “Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di Colui che mi ha mandato (Gv VI,38)…

(25) Con queste parole mostra anche di aver riferito la sua volontà all’uomo che ha assunto, e quella del Padre alla divinità in cui lo stesso è uno e uguale al Padre: infatti, per quanto riguarda l’unità della divinità, la volontà del Padre non è diversa da quella del Figlio, perché c’è una sola volontà dove c’è una sola divinità. Ma per quanto riguarda la natura dell’uomo assunto, altro è la volontà della sua divinità, altro è quella della nostra umanità. (26) Perciò, dicendo: “Non come voglio Io, ma come vuoi Tu”, (Mt XXVI, 39), Egli mostra chiaramente di non volere che ciò che ha detto avvenga secondo la volontà del sentimento umano, ma che, secondo la volontà del Padre, avvenga secondo la volontà di Dio. Ma questa volontà del Padre non è in alcun modo contraria alla volontà del Figlio, perché per coloro per i quali la divinità è una sola, la volontà non può essere diversa, e dove non può esserci diversità nella natura del Padre, non può essere diversa la volontà del Figlio. Se non c’è diversità di natura, si possono tuttavia enumerare in termini generali le cose che possono essere enumerate.

573. (27) Pertanto, anche se è vero che, a causa di una similitudine comparabile secondo la quale la Trinità è chiamata memoria, intelligenza e volontà, questa parola “santa volontà” sia riferita alla Persona dello Spirito Santo, quando usata in sé, è detta secondo la sostanza. (28) Infatti, il Padre è volontà, il Figlio è volontà, lo Spirito Santo è volontà, così come il Padre è Dio, il Figlio è Dio e lo Spirito Santo è Dio, e molte altre cose simili che vengono dette secondo la sostanza da coloro che venerano veramente la fede cattolica, senza alcuna ambiguità. (29) E come è cattolico dire “Dio da Dio”, “luce da luce”, “luminosità da luminosità”, così è una giusta affermazione della fede cattolica dire “volontà da volontà”, come sapienza da sapienza, essenza da essenza; e come Dio, il Padre, generò Dio, il Figlio, così la volontà, il Padre, generò la volontà, il Figlio. (30) E sebbene secondo l’essenza il Padre sia volontà, il Figlio sia volontà, lo Spirito Santo sia volontà, tuttavia non si deve pensare che secondo la relazione siano una cosa sola; perché altro è il Padre che rimanda al Figlio, altro il Figlio che rimanda al Padre, altro lo Spirito Santo che, poiché procede dal Padre e dal Figlio, rimanda al Padre e al Figlio: non un’altra cosa, ma un’altra; perché coloro che hanno nella loro natura di essere uno nella natura della Divinità, hanno una proprietà peculiare nella distinzione delle Persone….

La risurrezione dei morti.

574. (35) Come con la sua risurrezione ci ha dato un esempio, e che vivificandoci, come dopo due giorni ci ha risuscitati dai morti, così vogliamo credere in tutti i modi che anche noi risorgeremo alla fine dei tempi, non nella forma di un’ombra aerea o in quella di una visione immaginaria, come afferma l’opinione reproba di alcuni, ma nella sostanza della vera carne in cui ora stiamo e viviamo; E al momento del giudizio ci troveremo davanti a Cristo e ai suoi santi Angeli, e ognuno riferirà ciò che ha fatto nel suo corpo, sia in bene che in male (2Co V:10) , e riceverà da Lui o per le sue azioni il Regno e la beatitudine senza fine, o per le sue malefatte la morte della dannazione eterna.

575; L’eminenza e la necessità della Chiesa di Cristo.

(36) La santa Chiesa cattolica, che ha questa fede, lavata dall’acqua del Battesimo, redenta dal prezioso Sangue di Cristo, che non ha alcuna ruga nella sua fede e non porta la macchia di un’opera impura, (Efesini V, 23-27), è davvero ricca di segni d’onore, splendente di virtù e risplendente dei doni dello Spirito Santo. (37) Con Cristo Gesù nostro Signore, suo Capo, di cui è senza dubbio il corpo, essa regnerà in eterno; e tutti coloro che non sono ora in essa o che non saranno in essa, che sono separati da essa o che saranno separati da essa, o tutti coloro che nella malvagità della mancanza di fede avranno negato che in essa i peccati siano rimessi, costoro, se non torneranno ad essa con l’aiuto della penitenza e se non crederanno con una fede non macchiata da alcun dubbio a tutto ciò che il sinodo di Nicea…, l’assemblea di Costantinopoli… e l’autorità del primo Concilio di Efeso ha deciso di accogliere, e che la volontà unanime dei santi Padri di Calcedonia o degli altri Concili, o di tutti i santi Padri che sono vissuti nella retta fede, prescrive di mantenere, sono puniti con una sentenza di dannazione eterna, e saranno bruciati alla fine dei tempi con il diavolo e i suoi consorti su una pira ardente.

GIOVANNI VI: 30 ottobre 701 – 11 gennaio 705

GIOVANNI VII: 1° marzo 705 – 18 ottobre 707

SISINNIO: 15 gennaio – 4 febbraio 708

COSTANTINO I: 25 marzo 708 – 9 febbraio 708

GREGORIO II: 19 maggio 715-11 febbraio 731

Lettera “désiderabilem mihi” a Bonifacio del 22 novembre 726.

Forma e ministro del battesimo.

580. Hai reso noto che alcuni sono stati battezzati senza interrogare il Simbolo, da sacerdotiadulteri e sacerdoti indegni. In questa materia, la vostra carità deve attenersi all’antica consuetudine della Chiesa: se qualcuno non sia stato battezzato nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, non è permesso in alcun modo che sia ribattezzato perché non è nel nome di colui che battezza, ma nel nome della Trinità che ha ricevuto il dono di questa grazia. Ed è necessario attenersi a quanto dice l’Apostolo: un solo Dio, una sola fede, un solo battesimo (Eph. IV, 5). Ma vi raccomandiamo di dare loro con uno zelo ancora più grande, un insegnamento spirituale.

Lettera “ta grammata” all’imperatore Leone III, tra il 726 e il 730

La venerazione delle immagini sacre

581. E tu dici che ci prostriamo davanti a pietre, muri e tavole di legno. Non è così, o imperatore; in esse troviamo un richiamo e uno stimolo: esse innalzano le nostre menti pesanti e spesse verso il cielo, ed è questa la ragione dei loro nomi, dei loro titoli incisi, dei loro tratti distintivi,ma non ne facciamo degli dei, come tu sostieni – e che ciò non accada! – perché non riponiamo in loro la nostra speranza. E se si tratta di un’immagine del Signore, diciamo: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, aiutaci e salvaci. Se è un’immagine della sua santaMadre, diciamo: Tu che hai portato Dio, santa Madre del Signore, intercedi pressoil tuo figlio, nostro vero Dio, per la salvezza delle nostre anime. E per un martire: Santo Stefano, primomartire: tu che hai versato il tuo sangue per Cristo, poiché puoi parlare liberamente con Lui, intercedi perper noi. E per tutti coloro che hanno testimoniato la loro fede nel martirio, questo è ciò che diciamo, queste sono le preghiere che rivolgiamo che offriamo per la loro intercessione; e non è vero, come tu sostieni, o imperatore, che noi chiamiamo i martiri “dèi”.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (13) “da GREGORIO III a BENEDETTO III”

NOVENA A SAN PASQUALE BAYLON

NOVENA A S. PASQUALE BAYLON (inizio 8 maggio, festa il 17 maggio)

m. il 17 mag. 1592, can. da Innoc. XII, 1672.

I. Ammirabile S. Pasquale, che nella umiltà della vostra condizion di guardiano di pecore, non peraltro vi appigliaste allo studio delle umane lettere che per meglio conoscere Iddio e riverir colla recita del piccolo Ufficio la sua SS. Madre, e poi faceste propria delizia il camminar sempre a piedi ignudi, anche fra i dirupi e le spine, il dormire incomodo o sulla terra, o sopra un tavolato, con un tronco per vostro guanciale, e il visitare quotidianamente la santa immagine di Maria, impetrate a noi tutti la grazia di viver sempre staccati da tutte le cose del mondo, di non ambire altra scienza che quella delle legge di Dio, di zelar sempre l’onore della sua SS. Madre, e di avanzarci mai sempre nella evangelica mortificazione, onde assicurarci quel regno che è divinamente promesso a tutti i poveri di spirito. Gloria...

II. Ammirabile S. Pasquale, che, entrato nell’ordine dei Minori, diveniste, sebbene ancor giovine, il modello dei più provetti adempiendo con ogni esattezza tutte le incombenze che vi vennero affidate, ora di portinajo, ora di cercatore, ora di refettoriere; e ad un’aria sempre dolce e mansueta, a una modestia affatto angelica, a uno spirito tutto eroico di penitenza aggiungeste una tenerezza tutta nuova verso dei poveri, a cui non ardiste mai di ricusar la limosina per timor di negarla a G. C. che vuol essere ne’ suoi poveri riconosciuto, ottenete a noi tutti la grazia di adempire con ogni esattezza tutti i doveri del nostro stato, di far sempre in ispirito d’obbedienza quanto ci potesse venire imposto da tutti i nostri maggiori, e di essere sempre cosi mansueti, così caritativi verso dei nostri fratelli specialmente se poveri, da meritarci quelle speciali benedizioni che sono promesse a tutti gli uomini misericordiosi. Gloria …

III. Ammirabile S. Pasquale, che, professando mai sempre divozione specialissima a Gesù Cristo sacramentato, aveste ancora il privilegio di contemplarlo visibile sotto le specie eucaristiche e di alzarvi per fino dalla vostra bara, e spalancare visibilmente i vostri occhi per adorare l’Ostia sacramentata nel Sacrificio che veniva offerto per vostro suffragio, per quelle ammirabili prerogative che voi aveste di penetrare il secreto dei cuori, di rivelare le cose future, di ricondurre sulla strada della salute le anime più sviate, e di restituire alla pristina sanità gli infermi più disperati, impetrate a noi tutti la grazia di zelar sempre col maggior impegno il culto del SS. Sacramento, che è la ricchezza e il decoro del Cristianesimo, onde meritarci per questo mezzo una vita sempre conforme ai vostri santissimi esempii, e assicurarci dopo la morte la partecipazione alla vostra gloria. Gloria

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. BENEDETTO XIV – “UBI PRIMUM”

Il Santo Padre Benedetto XIV, appena insediato sul trono di s. Pietro, inizia il suo glorioso Pontificato, sollecitando i successori degli Apostoli, i Vescovi della santa Chiesa, a compiere il proprio dovere nei confronti del gregge che devono pascolare nel campo dottrinale per condurli all”eterna salvezza, con cura estrema e perfetta abnegazione, onde assolvere pienamente al compito che Gesù Cristo ha loro affidato e di cui chiederà minuzioso resoconto. Solo un esempio vogliamo riportare per meglio comprendere il tenore della lettera: « … invano il Pastore cercherà di difendersi con la scusa che il lupo ha rubato e divorato le pecore mentre egli era assente e ignaro; infatti, se si esamina la questione fino in fondo, appare evidente che nessun male o scandalo si manifesta in una Diocesi tanto abbandonata, che non sia da attribuire a colui che doveva richiamare con le sue ammonizioni i sudditi che uscivano dal retto sentiero, sollecitarli con l’esempio, animarli con le parole, tenerli a freno con l’autorità e con la carità …». Basterebbe leggere questa lettera per capire come gli infiltrati della massoneria nella Chiesa, abbiano lavorato alacremente per eludere tutte le raccomandazioni del Santo Pontefice Romano e svuotare la “sposa di Cristo” di ogni contenuto spirituale salvifico, fino a farne un carapace privo di anima e di un corpo canonicamente valido come oggi appare la falsa chiesa-sinagoga di satana, e questo in apparenza. Sappiamo infatti, che la vera Chiesa sia stata portata in salvo nel deserto dallo Spirito, secondo la profezia in Apoc. XII, e che mai le porte degli inferi prevarranno sulla vera Chiesa, potranno sì combatterla, eclissarla, chiuderla in un sepolcro di apparente sparizione, ma non potranno mai annientarla, perché Essa, come il Cristo fondatore, dopo tre giorni resusciterà più bella e vitale che mai per ricevere la seconda e definitiva venuta del suo divin Fondatore. Cristo ha vinto il mondo, e chi ha fede in Lui e nella sua vera Chiesa, lo vincerà ugualmente con la preghiera, la penitenza e la pazienza, frutto della grazia elargita a profusione da Dio Trino il Creatore onnipotente.

Benedetto XIV
Ubi primum

Allorché piacque a Dio, ricco di misericordia, collocare la Nostra umile persona nella Sede suprema del Beato Pietro e assegnare a Noi, benché nessun merito Ci raccomandi, la vicaria potestà di Nostro Signore Gesù Cristo per il governo di tutta la sua Chiesa, Ci sembrò che alle Nostre orecchie risonasse quella voce divina: “Pascola i miei agnelli; pascola le mie pecore“; cioè che fosse imposta al Romano Pontefice, successore dello stesso Pietro, la missione di guidare non solo gli agnelli del gregge del Signore, che sono i popoli sparsi per tutta la terra, ma anche le pecore, cioè i Vescovi, che, come le madri per gli agnelli, generano i popoli in Gesù Cristo e una seconda volta li partoriscono. – Accettate dunque, Fratelli, con questa nostra lettera, anche le parole del Vostro Pastore. Chiamati al compito di spronare, nella pienezza del mandato affidatoci da Dio, Voi comprendete quanto nei Nostri stessi inviti e nelle Nostre esortazioni Ci stia a cuore di non trascurare nessuno dei Nostri doveri, e quanto grande sia la forza della Nostra paterna carità verso di voi: in forza di essa, siamo portati a desiderare al massimo che dal profitto delle sante pecore provengano gioie eterne ai Pastori.

1. Innanzi tutto, in verità, operate con impegno e con ogni Vostra possibilità affinché l’integrità dei costumi e lo studio del culto divino risplendano nel Clero, e che la disciplina ecclesiastica sia conservata integra e sana, e sia ristabilita là dove sia caduta. È abbastanza noto, infatti, che non vi è nulla che più efficacemente ammaestri, stimoli e infiammi tutto il popolo alla pietà, alla religione e alle norme della vita cristiana quanto l’esempio di coloro che si sono dedicati al Divino ministero. Pertanto, l’acutezza della Vostra mente deve essere rivolta prima di tutto a far sì che con accurata scelta siano iscritti alla milizia clericale coloro dai quali a ragione si può prevedere che la loro vita sia oggetto di ammirazione da parte di quanti camminano nella legge del Signore, procedono di virtù in virtù e con la loro opera portano un vantaggio spirituale alle Vostre Chiese. Per certo, è meglio avere pochi Ministri, ma onesti, idonei ed utili, che molti i quali non siano per nulla destinati all’edificazione del Corpo di Cristo, che è la Chiesa. Voi, Fratelli, non ignorate quanta prudenza richiedano in proposito ai Vescovi i Sacri Canoni; quindi non lasciatevi distogliere da quanto prescritto (che deve essere osservato totalmente) né da qualsiasi rispetto umano, né da inopportune suggestioni dell’ambiente, né da richieste di patrocinatori. Soprattutto bisogna osservare il precetto dell’Apostolo, di non ordinare nessuno troppo frettolosamente, allorché si tratta di promuovere qualcuno ai Sacri Ordini e ai Santissimi Ministeri, dei quali nulla è più divino. Infatti, non basta l’età che le sacre leggi della Chiesa prescrivono per ciascun Ordine, né indiscriminatamente deve aprirsi il passaggio a posizioni più elevate, quasi di diritto, a tutti coloro che siano già stati posti in qualche Ordine inferiore. Voi dovete con grande attenzione e diligenza indagare se il modo di vivere di coloro che hanno preso i primi Ministeri sia stato conforme, e il loro progresso nelle sacre dottrine sia stato tale che veramente si debbano giudicare degni di sentirsi dire: “Sali più in alto“. Quanto è meglio, inoltre, che taluni rimangano ad un grado inferiore, piuttosto che siano promossi ad uno più alto, con maggior pericolo per loro e motivo di scandalo per gli altri.

2. E giacché importa soprattutto che coloro i quali sono chiamati al servizio del Signore siano formati fin dalla giovane età alla pietà, all’integrità dei costumi e alla disciplina canonica (come le pianticelle novelle nel loro inizio), Vi deve quindi stare a cuore che, dove eventualmente non siano ancora stati istituiti i Seminari dei Chierici, vengano istituiti quanto prima possibile, o siano ampliati quelli già esistenti se, data la situazione della Chiesa, vi sia bisogno di un numero maggiore di Alunni, impiegando a questo scopo i mezzi che i Vescovi hanno già il potere di procurare, e ai quali Noi ne aggiungeremo altri se da Voi saremo informati della loro necessità. – In verità è indispensabile che gli stessi Collegi siano vigilati dalla Vostra particolare cura: ispezionandoli spesso; esaminando la vita, l’indole e il progresso negli studi dei singoli adolescenti; destinando maestri preparati e uomini forniti di spirito ecclesiastico per la loro formazione; onorando talvolta le loro esercitazioni letterarie o le funzioni ecclesiastiche con la Vostra presenza; infine concedendo alcuni privilegi a coloro che abbiano dato più evidente prova dei loro meriti ed abbiano riportato maggiore lode. Non Vi pentirete di avere somministrato tale irrigazione a questi arboscelli durante la loro crescita; anzi la Vostra opera Vi porterà consolanti frutti nella copiosa abbondanza di buoni operai. Senza dubbio molto spesso i Vescovi furono soliti lamentarsi che la messe era molta e gli operai pochi; ma forse avrebbero dovuto anche dolersi di non aver dedicato essi stessi lo zelo necessario per formare operai pari e adeguati alla messe. Infatti i buoni e valorosi operai non nascono, ma si fanno; e spetta soprattutto alla solerzia e all’impegno dei Vescovi che si facciano.

3. Inoltre è della massima importanza che la cura delle anime sia affidata a coloro che per dottrina, pietà, purezza di costumi e per insigni esempi di buone opere possono far luce negli altri in tal misura da essere giudicati luce e sale del popolo. Costoro sono veramente i primi Vostri collaboratori nell’istruire, reggere, purificare, dirigere sulla via della salvezza, e incitare alle virtù cristiane il gregge a Voi affidato. Quindi è facile comprendere quanto debba starvi a cuore che siano prescelti all’ufficio parrocchiale coloro che meritatamente siano giudicati i più idonei a dirigere utilmente le folle. Ma soprattutto insistete perché tutti coloro che hanno cura d’anime nutrano di salutari parole (almeno le domeniche e nelle altre feste comandate) le genti loro affidate, secondo la propria e la loro capacità, insegnando tutto ciò che i fedeli di Cristo devono apprendere per la loro salvezza e spiegando gli articoli della legge divina, i dogmi della Fede e inculcando nei fanciulli i rudimenti della Fede stessa, dopo aver rimosso del tutto ogni cattiva abitudine, dovunque si manifesti. E invero, come potranno dare ascolto, se manca il predicatore? O in che modo i popoli potranno comprendere una legge che prescrive un giusto credo e un giusto comportamento, se i pastori di anime saranno stati, in tale ufficio, pigri, negligenti e inoperosi? Non si può comprendere compiutamente con l’animo o spiegare con le parole quanto danno per la Repubblica Cristiana derivi dalla negligenza di coloro, ai quali è affidata la cura delle anime, soprattutto nell’insegnare ai fanciulli il Catechismo. – Sarà poi di grande vantaggio se vi impegnerete in modo che tanto coloro che hanno cura d’anime, quanto coloro che sono destinati a ricevere le confessioni dei penitenti, per alcuni giorni e ogni anno attendano agli esercizi spirituali: certamente in tale pio ritiro si rinnoveranno nella loro vita spirituale e dall’alto saranno rivestiti di virtù idonee a compiere con più premura e alacrità quei doveri che si rivolgono alla gloria di Dio, al profitto e alla salute spirituale del prossimo.

4. In verità già sapete, Fratelli, che per divino precetto fu ordinato a tutti i Pastori di anime di conoscere le loro pecorelle e di nutrirle con la predicazione del verbo divino, con la somministrazione dei Sacramenti e con l’esempio di ogni opera buona; ma non possono affatto adempiere a questi e agli altri doveri pastorali, come è ovvio, coloro che non vigilano, e non assistono il loro gregge, e non custodiscono assiduamente la vigna del Signore alla quale sono stati preposti come custodi. Pertanto, dovete rimanere nel vostro posto di guardia, e conservare nella Vostra Chiesa, o Diocesi, la residenza personale alla quale siete obbligati dal vincolo del Vostro incarico, conforme a quanto dichiarano e prescrivono chiaramente numerosi decreti dei Concili generali e le Costituzioni dei Nostri Predecessori. Guardatevi poi dal credere che sia consentito ai Vescovi essere assenti per tre mesi ogni anno per capriccio o per qualsivoglia motivo. Perché ciò sia lecito ai Vescovi, occorre che una giusta causa richieda una tale assenza, e che ad un tempo si escluda che al gregge possa derivarne alcun danno. – Ricordate inoltre che il futuro Giudice sarà Colui agli occhi del quale tutte le cose sono nude e aperte, perciò fate in modo che la causa sia veramente tale da trovar credito presso questo supremo Principe dei Pastori che quanto prima vi chiederà conto del sangue delle pecore a Voi affidate. In questo processo, invano il Pastore cercherà di difendersi con la scusa che il lupo ha rubato e divorato le pecore mentre egli era assente e ignaro; infatti, se si esamina la questione fino in fondo, appare evidente che nessun male o scandalo si manifesta in una Diocesi tanto abbandonata, che non sia da attribuire a colui che doveva richiamare con le sue ammonizioni i sudditi che uscivano dal retto sentiero, sollecitarli con l’esempio, animarli con le parole, tenerli a freno con l’autorità e con la carità. Chi poi non comprende che è molto meglio affrontare le questioni altrove, quando fosse necessario, per mezzo di altri, piuttosto che dallo stesso Vescovo dimorante fuori della sua Diocesi; e che l’impegno, certo più urgente di tutti, di custodire e dirigere il gregge, sia assolto direttamente dal Vescovo e non attraverso intermediari? Infatti, tali ministri siano pure idonei e stimati quanto si vuole, tuttavia il gregge non è così aduso ad ascoltare la loro voce, come la voce del suo vero pastore; e per vasta esperienza è risaputo che la loro opera vicaria non sostituisce a sufficienza la vigilanza e l’azione dello stesso Vescovo, che è soccorso dalla grazia particolare dello Spirito Santo.

5. A queste cose Vi ammoniamo ed esortiamo, Fratelli, perché come anche in ogni amministrazione domestica nulla è più utile del fatto che lo stesso padre di famiglia guardi bene di frequente tutto, e promuova con la sua vigilanza l’operosità e la diligenza dei suoi, così Vi comandiamo di visitare Voi stessi le Vostre Chiese e le Vostre Diocesi (a meno che intervenga una grave e legittima causa, che imponga che ciò sia affidato ad altri), affinché conosciate Voi stessi le Vostre pecore e il volto del Vostro gregge. – Quella sicurissima sentenza, che sopra abbiamo ricordata, che non è ammessa scusa per il pastore se il lupo mangia le pecore, e il pastore non lo sa, è certamente ispirata da grande paura e terrore. Senza dubbio il Vescovo ignorerà molte cose, molte gli rimarranno nascoste, o quantomeno le apprenderà più tardi del necessario, se non si reca in ogni parte della sua Diocesi. Se di persona non vede, non ascolta, non verifica dovunque, non sa a quali mali porgere la medicina e quali siano le cause di essi e in quale modo possa con lungimiranza provvedere a che essi, una volta repressi, non possano manifestarsi di nuovo. Inoltre, è tale la fragilità umana che nel campo del Signore (la cura del quale è affidata al Vescovo) a poco a poco crescono sterpi, spine ed erbe inutili e dannose, qualora il coltivatore non ritorni spesso a tagliarle; perciò la stessa floridezza, ottenuta con le sue vigili fatiche, con l’andar del tempo finirà per affievolirsi. Ma non è neppure sufficiente che le Diocesi siano da Voi visitate e che con le Vostre opportune disposizioni si provveda alla loro gestione: vi resta ancora il compito di controllare, con ogni sforzo, che sia veramente messo in pratica tutto ciò che durante le visite fu convenuto. Infatti, sarà nulla l’utilità delle leggi, anche se ottime, se ciò che fu stabilito a parole non è tradotto correttamente nei fatti da chi ne ha il mandato. Perciò, dopo che avrete preparato farmaci salutari per espellere o allontanare le malattie delle anime, non per questo il Vostro zelo si attenui, ma dovrete sollecitare con ogni Vostra energia l’applicazione delle disposizioni da Voi impartite; e conseguirete questo scopo soprattutto per mezzo di visite reiterate.

6. Da ultimo, per dire molte cose in breve, Fratelli, è opportuno che in ogni funzione sacra ed ecclesiastica e in ogni esercizio del culto Divino e della pietà, Voi stessi siate promotori, conduttori e maestri, perché sia il Clero, sia tutto il gregge attingano luce quasi dallo splendore della Vostra santità e si riscaldino alla fiamma della Vostra carità. Pertanto nella frequente e devota offerta del tremendo Sacrificio, durante la solenne celebrazione delle Messe, nell’amministrare i Sacramenti, nell’esercizio degli Uffici Divini, nella pompa e nella lucentezza dei templi, nella disciplina della Vostra casa e della Vostra famiglia, nell’amore dei poveri e nell’aiuto che recherete loro, nel visitare e soccorrere gl’infermi, nell’ospitare i pellegrini, infine in ogni manifestazione della virtù Cristiana, sarete Voi il modello del Vostro gregge, in modo che tutti siano Vostri imitatori, come Voi di Cristo, così come conviene ai Vescovi, che lo Spirito Santo pose a governare la Chiesa di Dio, che Egli conquistò col suo sangue. Considerate spesso gli Apostoli, al posto dei quali siete subentrati, per seguire le loro orme nel sopportare le fatiche, le veglie, gli affanni; nel tener lontani i lupi dai Vostri ovili, nell’estirpare le radici dei vizi, nell’esporre la legge evangelica, nel ricondurre a salutare penitenza coloro che hanno peccato. Vi sarà accanto, per certo, Dio onnipotente e misericordioso, il cui soccorso ci rende tutto possibile; a Voi non verrà meno neppure l’aiuto dei Principi religiosi, come senza alcun dubbio crediamo. Inoltre, da questa Santa Sede non Vi mancheranno gli aiuti ogni volta che riterrete necessaria la Nostra apostolica autorità. Pertanto con grande coraggio e con grande fiducia venite a Noi, Voi tutti, che amiamo come fratelli, collaboratori e Nostra corona in nome di Gesù Cristo; venite alla Santa Romana Chiesa, madre, guida e maestra Vostra e di tutte le Chiese, da dove ebbe origine la Religione e dove è la pietra della Fede, la fonte dell’unità dei Sacerdoti, la dottrina dell’incorrotta verità; nulla infatti può essere per Noi più desiderato e più gradito che insieme con Voi essere al servizio della gloria di Dio e affaticarci per la custodia e la diffusione della Fede Cattolica; per salvare le anime verseremmo con somma gioia, se fosse necessario, il Nostro stesso sangue e la Nostra vita. E ora Vi inciti e Vi stimoli nella Vostra corsa la grande e sicura ricompensa che Vi attende. Infatti, quando apparirà il Principe dei Pastori, riceverete l’incorruttibile corona della gloria, la corona della giustizia che è stata riservata ai fedeli interpreti dei misteri di Dio e agli strenui e vigili custodi della casa d’Israele che è la Santa Chiesa dello stesso Dio. Noi che per quanto indegni facciamo le Sue veci in terra, molto affettuosamente benediciamo Voi Fratelli e con paterno amore impartiamo la Nostra stessa Apostolica Benedizione anche al Vostro Clero e al Vostro fedele popolo.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 3 dicembre 1740, anno primo del Nostro Pontificato.

DOMENICA IV DOPO PASQUA (2023)

DOMENICA IV DOPO PASQUA (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La liturgia di questo giorno esalta la giustizia di Dio (Intr., Vang.) che si manifesta col trionfo di Gesù e l’invio dello Spirito Santo. « La destra del Signore ha operato grandi cose risuscitando Cristo da morte » (All.) e facendolo salire al cielo nel giorno dell’Ascensione. È bene per noi che Gesù lasci la terra, poiché dal cielo Egli manderà alla sua Chiesa lo Spirito di verità (Vang.), per eccellenza, che viene dal Padre dei lumi (Ep.). Lo Spirito Santo ci insegnerà ogni verità (Vang., Off., Secr.), esso « ci annunzierà » quello che Gesù gli dirà e noi saremo salvi se ascolteremo questa parola di vita (Ep.). Lo Spirito Santo ci dirà le meraviglie che Dio ha operate per il Figlio (Intr., Off.) e questa testimonianza della splendida giustizia resa a Nostro Signore consolerà le anime nostre e ci sarà di sostegno in mezzo alle persecuzioni. Siccome, secondo quanto dice S. Giacomo, « la prova della nostra fede produce la pazienza e questa bandisce l’incostanza e rende le opere perfette », noi imiteremo in tal modo la pazienza del nostro Dio « e del Padre nostro », nel quale « non vi è né variazione né cambiamento » (Ep.), e « i nostri cuori saranno allora là dove si trovano le vere gioie » (Or.). Lo Spirito Santo convincerà inoltre satana e il mondo del peccato che hanno commesso mettendo a morte Gesù (Vang., Comm.) e continuando a perseguitarlo nella sua Chiesa.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XCVII:1; 2
Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Ps XCVII: 1
Salvávit sibi déxtera ejus: et bráchium sanctum ejus.

[Gli diedero la vittoria la sua destra e il suo santo braccio.]

Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, qui fidélium mentes uníus éfficis voluntátis: da pópulis tuis id amáre quod prǽcipis, id desideráre quod promíttis; ut inter mundánas varietátes ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gáudia.

[O Dio, che rendi di un sol volere gli ànimi dei fedeli: concedi ai tuoi pòpoli di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti; affinché, in mezzo al fluttuare delle umane vicende, i nostri cuori siano fissi laddove sono le vere gioie.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli
Jas I 17-21
Caríssimi: Omne datum óptimum, et omne donum perféctum desúrsum est, descéndens a Patre lúminum, apud quem non est transmutátio nec vicissitúdinis obumbrátio. Voluntárie enim génuit nos verbo veritátis, ut simus inítium áliquod creatúræ ejus. Scitis, fratres mei dilectíssimi. Sit autem omnis homo velox ad audiéndum: tardus autem ad loquéndum et tardus ad iram. Ira enim viri justítiam Dei non operátur. Propter quod abjiciéntes omnem immundítiam et abundántiam malítiæ, in mansuetúdine suscípite ínsitum verbum, quod potest salváre ánimas vestras.


[Caríssimi: Ogni liberalità benefica e ogni dono perfetto viene dall’alto, scendendo da quel Padre dei lumi in cui non è mutamento, né ombra di vicissitudine. Egli infatti ci generò di sua volontà mediante una parola di verità, affinché noi siamo quali primizie delle sue creature. Questo voi lo sapete, miei cari fratelli. Ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare e lento all’ira. Poiché l’uomo iracondo non fa quel che è giusto davanti a Dio. Per la qual cosa, rigettando ogni immondezza e ogni resto di malizia, abbracciate con animo mansueto la parola innestata in voi, la quale può salvare le vostre ànime.]

L’Apostolo S. Giacomo, detto il Minore, era venuto a conoscere che tra i Cristiani convertiti dal Giudaismo e disseminati fuori della Palestina serpeggiavano gravi errori, nell’interpretazione della dottrina loro insegnata, specialmente rispetto alla necessità delle buone opere. Inoltre, in mezzo alle tribolazioni cui andavano soggetti, c’era pericolo che riuscissero a farsi strada le vecchie abitudini. Per premunire contro l’errore questi suoi connazionali dispersi, e per richiamarli a una vita più austera, S. Giacomo scrive loro una lettera. In essa si insiste sulla necessità che alla fede vadano congiunte le buone opere. Si danno, poi, varie norme, perché tanto nella vita privata, quanto nelle relazioni sociali siano guidati da uno spirito veramente cristiano; e vengono confortati nelle loro tribolazioni. L’Epistola è tolta dal cap. 1 di questa lettera. Da Dio deriva ogni bene. Da Lui abbiamo avuto il dono inestimabile della vita della grazia, per mezzo della predicazione del Vangelo, parola di verità. Questa parola di verità ciascuno deve accogliere con prontezza, con semplicità, con spirito di mansuetudine.

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps CXVII:16.
Déxtera Dómini fecit virtútem: déxtera Dómini exaltávit me. Allelúja.

[La destra del Signore operò grandi cose: la destra del Signore mi ha esaltato. Allelúia.]

Rom VI:9
Christus resúrgens ex mórtuis jam non móritur: mors illi ultra non dominábitur. Allelúja.

[Cristo, risorto da morte, non muore più: la morte non ha più potere su di Lui. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem
Joannes XVI: 5-14

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Vado ad eum, qui misit me: et nemo ex vobis intérrogat me: Quo vadis? Sed quia hæc locútus sum vobis, tristítia implévit cor vestrum. Sed ego veritátem dico vobis: expédit vobis, ut ego vadam: si enim non abíero, Paráclitus non véniet ad vos: si autem abíero, mittam eum ad vos. Et cum vénerit ille, árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício. De peccáto quidem, quia non credidérunt in me: de justítia vero, quia ad Patrem vado, et jam non vidébitis me: de judício autem, quia princeps hujus mundi jam judicátus est. Adhuc multa hábeo vobis dícere: sed non potéstis portáre modo. Cum autem vénerit ille Spíritus veritátis, docébit vos omnem veritátem. Non enim loquétur a semetípso: sed quæcúmque áudiet, loquétur, et quæ ventúra sunt, annuntiábit vobis. Ille me clarificábit: quia de meo accípiet et annuntiábit vobis.

[In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: Vado a Colui che mi ha mandato, e nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Ma perché vi ho dette queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ma io vi dico il vero: è necessario per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito, ma quando me ne sarò andato ve lo manderò. E venendo, Egli convincerà il mondo riguardo al peccato, riguardo alla giustizia e riguardo al giudizio. Riguardo al peccato, perché non credono in me; riguardo alla giustizia, perché io vado al Padre e non mi vedrete più; riguardo al giudizio, perché il principe di questo mondo è già condannato. Molte cose ho ancora da dirvi: ma adesso non ne siete capaci. Venuto però lo Spirito di verità, vi insegnerà tutte le verità. Egli, infatti, non vi parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito: vi annunzierà quello che ha da venire, e mi glorificherà, perché vi annunzierà ciò che riceverà da me.]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.)

L’ADDIO DI GESÙ

Finita la cena, — era l’ultima cena che il Figlio di Dio mangiava coi figli degli uomini, — Gesù e gli undici Apostoli s’incamminarono verso il monte degli Ulivi. C’era lassù un orto chiamato il Getsemani, ove il Signore soleva pregare. Quando la silenziosa compagnia, passata la valle del Cedron, cominciò a risalire per una stradetta incassata tra gli ulivi ed i vigneti, Gesù disse agli Apostoli tenerissime cose. E concluse: « Ed ora torno a Colui che mi ha mandato ». Tutti tacevano in angoscia: non era la prima volta, quella sera, che il Maestro parlava di partire. E, quantunque non immaginassero che quella era l’ultima notte di Gesù, tuttavia per i continui accenni che Egli faceva della sua prossima partenza, cominciarono a temere. E quando disse: « Ora torno a Colui che mi ha mandato », si strinse la gola dei discepoli, e nessuno poté rispondere. « Come? », disse Gesù, « non parlate? Vi ho detto che me ne vado e nessuno mi domanda dove? ». Nell’oscurità e nel silenzio della sera per la stradetta ascendente tra i filari d’ulivi e di viti, il Maestro li sentiva lottare coi singhiozzi. Perciò aggiunse: « Perché vi ho detto queste cose, il vostro cuore è gonfio di tristezza. Non affliggetevi: vi dico che è necessario per voi che me ne vada ». Come una madre che deve andare lontano e si vede attorno i figliuoli piangenti, li raccomanda a qualche parente e promette vicino il suo ritorno, così anche Gesù fece due promesse per consolare i suoi Apostoli alla sua partenza. « È necessario per voi ch’io vada; perché s’io non vado, il Paracleto non verrà » — Lo Spirito Santo non poteva venire prima della morte di Cristo perché gli uomini erano ancora schiavi del peccato originale; era necessario che Gesù morendo ci redimesse, affinché lo Spirito Santo, che non abita in un corpo soggetto al peccato, potesse venire in noi. « È  necessario per voi ch’io vada: perché vi possa preparare un posto, e quando lo avrò preparato, ritornerò da voi, e vi prenderò con me; e starete per sempre dove sarò io ». Noi in Paradiso, prima della morte di Cristo, non potevamo andare: era necessario che Gesù morendo entrasse per il primo e ce lo aprisse, perché anche noi dietro a Lui vi potessimo entrare. Dunque, com’è stato buono, più che una mamma, Gesù con noi! Prima di partire ha pensato a noi, per la nostra vita e per la nostra morte. Per la nostra vita ci ha promesso lo Spirito Santo; per la nostra morte ci ha promesso che tornerà Lui a prenderci e a portarci dove Egli sta. Ciò che importa, adesso, è sapere quello che dobbiamo fare perché lo Spirito Santo abiti in noi in questa vita, e perché nell’ora della nostra morte venga Gesù a prenderci e condurci in Cielo. – 1. PERCHÈ LO SPIRITO SANTO ABITI IN NOI. La Vergine siracusana, santa Lucia, fu accusata al governatore Pascasio perché rifiutava la mano d’un giovane idolatra. Essa si difese e disse: « Non ho promesso fedeltà a nessun uomo, ma solo a Dio ». Il governatore, adirato, comandò: « Fra i tormenti la si costringa a tacere! A lui rispose Lucia: « Le parole non mancheranno mai sulle labbra dei servi di Dio. L’ha detto Gesù: Quando vi troverete davanti ai re ed ai magistrati, non angustiatevi per le cose che dovete dire; lo Spirito Santo che è in voi vi suggerirà tutto » – « Dunque, lo Spirito Santo è in te? ». « Sì: coloro che vivono casti e pii sono templi dello Spirito Santo ». Allora il governatore maligno aggiunse: « Penserò a farti cessare di essere casta e pia e non sarai più il tempio dello Spirito Santo ». Ma la vergine, levate le mani e gli occhi al cielo, pregava. Ecco, o Cristiani: perché lo Spirito Santo abiti in noi è necessario vivere pii e casti. Pii: con la frequenza dei Sacramenti, con la preghiera in casa ed in Chiesa. Casto: con l’onestà della vita, con la fuga dalle occasioni cattive, con l’amore alla propria famiglia. È vicina la Pentecoste, la grande festa che ricorda la discesa dello Spirito Santo sopra gli Apostoli: prepariamo i nostri cuori con una vita casta e pia. E se alcuno sentisse pesare sulla sua coscienza una grave colpa, si purifichi con la santa Confessione, altrimenti lo Spirito Santo non verrà in lui e non sentirà gli effetti della sua presenza. « Quando verrà lo Spirito consolatore — ha detto Gesù — Egli v’insegnerà ogni verità ». Beate le anime caste e pie, perché da Lui saranno consolate! In ogni dolore, in ogni croce proveranno una soave dolcezza, perché lo Spirito Santo presente in loro, ascolterà ogni gemito e preparerà per essi una ricompensa eterna. Beate le anime caste e pie, perché da Lui saranno ammaestrate, e comprenderanno come tutte le cose di quaggiù non siano altro che un inganno, e non val la pena d’attaccare il cuore nostro ad esse. – 2. PERCHÈ GESÙ RITORNI NELL’ORA DI NOSTRA MORTE. L’ora più terribile della vita è quella di nostra morte. Soffrire i mali dell’agonia che ci strapperanno stille di freddo sudore; chiuder gli occhi e non riaprirli più a vedere le persone e le cose amate; andar via da questo mondo senza portar via niente con noi, neppure un soldo, neppure un frustolo di pane; e non sapere dove si vada e come sarà… Al di là della morte chi verrà a prenderci? Gesù o il demonio? Oh, se fossimo sicuri che verrà Gesù a condurci dove Egli è, a star sempre con Lui, a non morir più, a godere eternamente, come sarebbe dolce la morte! Sarebbe il termine d’ogni dolore, anzi l’inizio della gioia senza confine. Ebbene, Gesù ha promesso che tornerà a prendere i suoi discepoli per dare ad essi quel posto che si sono guadagnati in Paradiso. Quando il cappellano entrò nella stanza della santa di Lisieux morente, cercò di confortarla ad accettar la morte con rassegnazione. « Padre! — rispose santa Teresa, — non c’è bisogno di rassegnazione se non per vivere. A morire io provo gioia: perché Gesù stesso verrà a prendermi. E quando si è con Gesù non si muore ma si entra nella vita ». Beati quelli che muoiono bene! Morire bene: ecco lo scopo di tutto il nostro vivere. Ma noi sappiamo che nulla s’impara se non con l’esercizio e con la pratica. Come s’impara a fabbricare? fabbricando. Come s’impara a morire? morendo. « Ogni giorno io muoio », diceva San Paolo; ed ogni giorno moriva al mondo, ai piaceri, alle lusinghe del demonio e delle passioni. Da questo si spiega com’egli potesse scrivere: « Io bramo di morire per trovarmi con Cristo ». Cupio dissolvi et esse cum Christo. « Io bramo di morire perché la morte è un guadagno per me » (Filip., I, 21,23). Sulla tomba di Scoto, filosofo francescano, fu scritto « Semel sepultus bis mortuus ». Fu sepolto una volta sola e morì due volte: la prima, mentre viveva facendo penitenza e rinnegando se stesso. Se vogliamo morir bene, anche noi ogni giorno dobbiamo imparare a morire: devono morire nella nostra mente i cattivi pensieri; devono morire sulle nostre labbra le parole cattive di bestemmia, di impurità, di odio, di mormorazione; devono morire nella nostra vita le opere cattive, solo deve vivere in noi la volontà di Dio. Solo così Gesù ritornerà a prenderci nell’ora di nostra morte. – Moriva un bambino di sei anni: s’accorgeva di morire, ma non aveva paura. Volgendosi alla mamma che singhiozzava, ingenuamente le chiedeva: « Mamma, domani, quando sarò in cielo e mi verrà sonno, Gesù a dormire mi metterà nella cuna o mi prenderà sulle sue braccia? ». Sulle braccia di Gesù tu dormi ora, o piccolo innocente! Ma anche noi se sapremo conservare il nostro cuore buono e puro come quello di un bambino, anche noi Gesù prenderà sulle sue braccia, nell’ora di nostra morte. E sia così. — IL GIUDIZIO DELLO SPIRITO SANTO. Gesù conforta così i suoi Apostoli: « No, il mondo non vincerà perché manderò lo Spirito Santo a giudicarlo, e lo convincerà di peccato, di giustizia e di giudizio ». E San Tommaso spiega queste parole oscure dicendo che lo Spirito Santo giudicherà il mondo: de iustitia — ossia delle opere buone omesse; de peccato — che non doveva commettere; de iudicio — ossia dei falsi apprezzamenti del mondo, che disprezza i beni eterni, per stimare i beni fugaci e bugiardi. – 1. DE PECCATO. Una notte nella città di Cambrai le campane suonarono spaventosamente a stormo. I cittadini balzavano dal sonno, s’affacciavano alle finestre con gli occhi sbarrati: un chiarore fosco e sanguigno, un fumo denso entrava in ogni via, suscitando ombre paurose. Giù nelle strade c’era gente che accorreva affannosamente; gente che gridava: « La cattedrale in fiamme ». Sulla piazza della cattedrale era tutto un popolo che impotente vedeva il suo tempio, il simbolo della fede dei padri, rovinare dal sommo. Le lingue di fuoco sfuggivano dalle strombature delle finestre, avvolgevano le lesene, su su fino al cornicione, ed erompevano liberamente sul tetto con un crepitìo di selvaggio trionfo. Tratto tratto qualche rombo sordo e lungo: le volte crollavano in un vortice di fumo e di faville. Le colonne, i capitelli, gli stucchi, le guglie, le statue dei santi, tutto precipitava. In mezzo alla folla, senza una parola, senza una lacrima, il Vescovo, Mons. Reghier guardava… « Che disastro! Che disastro! » urlavano attorno a lui; ed egli rispose: « Disastro: è vero. Ma non è come un peccato ». Il peccato è la ribellione contro Dio che ci ha creati, che ci ha redenti, che ci conserva; è il grido di lucifero: Non serviam! Il peccato è l’ingratitudine più feroce di un figlio verso suo padre che l’ha nutrito con la sua carne, che l’ha dissetato con il suo sangue, che ha dato la sua vita per lui. Filios enutrivi et exaltavi: ipsi autem spreverunt me. Il peccato priva l’anima della sua bellezza, deforma in essa l’immagine di Dio e la spoglia di tutti i meriti che prima s’era con tanta fatica acquistati. Miseros fact populos peccatum (Prov., IV, 34). Il peccato significa il supplizio eterno, in atroci tormenti, nel fuoco e nelle tenebre: il peccato è l’inferno: Ibunt hi in supplicium æternum. Eppure gli uomini peccano tanto facilmente: preferiscono il peccato ai mali del corpo, alla povertà, al disonore, al rinnegamento dei sensi. Non così però i santi: S. Francesco Regis ad un peccatore che non si voleva convertire, così lo scongiurava: « Uccidimi se vuoi, ma non peccare un’altra volta ». Non come il mondo giudicherà lo Spirito Santo quando verrà a convincerlo di peccato: Arguet mundum de peccato. – 2. DE IUSTITIA. S. Giovanni Damasceno racconta che in una città della Grecia v’era una strana costumanza. Ogni anno si andava lontano a cercare uno straniero e, tra il plauso del popolo e i canti e i fiori, lo si portava trionfalmente a reggere la città. E l’infelice s’illudeva beatamente nello splendore del trono e nelle ricchezze della reggia. Ma finito l’anno, la città con urla vergognose lo cacciava in una scogliera brulla in mezzo al mare: senza veste, senza cibo. E là sulla sabbia dell’isola sterile, quell’infelice re d’un anno scontava ad una ad una quelle fugaci ore di gloria. Ma una volta si trasse a reggere la città un uomo che era saggio. Egli non si lasciò lusingare né dagli onori né dai banchetti. Ogni giorno, segretamente, faceva trafugare all’isola fatale e vesti e cibi e oro e pietre e legnami da costruzione. E quando il popolo si levò per cacciarlo via, egli non si fece pregare, ma se ne fuggì contento verso la scogliera ove tante ricchezze lo attendevano. Questo re d’un anno siam noi, sulla terra, o Cristiani; finita la breve vita dovremo passare verso l’isola dell’eternità. Infelice colui che non avrà fatto opere di giustizia: là non troverà né pane, né veste, né casa per la sua felicità, ma troverà lo Spirito Santo a giudicarlo de iustitia quam debuit facere et non fecit. Ma se ogni giorno noi faremo qualche azione buona per l’eternità, qualche mortificazione, qualche preghiera, qualche elemosina per amor di Dio, quando verrà la morte a cacciarci dal regno di questa terra, non ci rincrescerà ma fuggiremo beatamente verso il regno del cielo migliore. Bisogna dunque operare il bene, intanto che siamo vivi. E a questo lo Spirito Santo ci spinge con gemiti inenarrabili. Quante buone ispirazioni, quanti palpiti d’amore, ogni giorno Dio ci concede! È un povero che stende la mano sul nostro passaggio, è il buon esempio di un vicino, è una campana che nel silenzio mattutino ci sforza a balzar dalle coltri e a recarci nella Chiesa a pregare. Hodie si vocem eius audieritis, nolite obdurare corda vestra (Ps., XCIV, 8). – 3. DE JUDICIO. Frate Galdino, arrivato nella casa d’Agnese, per prendere un po’ di fiato, raccontò il famoso miracolo delle noci (MANZONI, Cap. III). La conclusione è veramente graziosa. Padre Macario, passando per una viottola nel campo di un benefattore del convento, vide che stavano sradicando un magnifico noce, perché da anni non dava frutti. Padre Macario persuase il benefattore a lasciar ancora quella pianta nella terra. E il brav’uomo ubbidì, promettendo metà del raccolto per il convento. A primavera fiorì a bizzeffe, e a suo tempo, noci a bizzeffe. Ma il benefattore del convento non ebbe la fortuna di bacchiarle, perché andò prima a ricevere il premio della sua carità. Aveva lasciato però un figliuolo di stampo ben diverso. Costui, un giorno, aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo e, gozzovigliando, raccontava la storia del noce e rideva dei frati, a cui credeva d’avergliela fatta, facendosi nuovo della promessa di suo padre. Que’ giovinastri ebber voglia d’andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e lui li mena su in granaio. Apre l’uscio, va verso il cantuccio dove era stato riposto il gran mucchio, mentre dice: — Guardate; — guarda egli stesso, e vede… che cosa? Un bel mucchio di foglie secche. Povero sciocco: come s’era ingannato. Lo stesso sbigottimento subiranno i poveri mondani, quando lo Spirito Santo li convincerà dei loro falsi apprezzamenti. Arguet mundum de iudicio. Tu credevi d’essere al mondo solo per il corpo, e invece era per l’anima. Tu pensavi d’esser al mondo per diventar ricco, e hai sudato, dì e notte, lealmente e slealmente, ti sei logorato tutta la vita, trascurando ogni dovere per amare, per ammassare… che cosa? Un bel mucchio di foglie secche. Tu pensavi d’essere al mondo per raggiungere un posto, per farti un nome, ed almanaccavi sempre disegni di grandezza e di dominio. E che cosa hai raccolto? Guarda … un bel mucchio di foglie secche. Tu pensavi d’esser al mondo per soddisfare le tue passioni: ed hai creduto trovar gioia nel libero sfogo d’ogni impuro desiderio. E cos’hai raccolto? Guarda… un bel mucchio di foglie marce. – Quando S. Metodio arrivò alla corte del Re dei Bulgari, dipinse in una sala della reggia una scena spaventosa. Dio era nel mezzo con tutta la sua maestà. Di qua, di là, gli uomini pallidi, confusi, angosciati, aspettavano il proprio destino. Il principe ne fu spaventato: « Ricordati o re, — disse il santo — che così tu verrai giudicato ». Il re si convertì. Ricordiamo noi pure, o Cristiani, che saremo giudicati de peccato, de iustitia, de judicio. Questo pensiero ci stia dinanzi sempre a infonderci un santo timore.

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Ps LXV:1-2; LXXXV:16
Jubiláte Deo, univérsa terra, psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja.

[Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: venite e ascoltate, tutti voi che temete Iddio, e vi narrerò quanto il Signore ha fatto all’ànima mia, allelúia.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes effecísti: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur.

[O Dio, che per mezzo degli scambi venerandi di questo sacrificio ci rendesti partecipi dell’unica somma divinità: concedici, Te ne preghiamo, che come conosciamo la tua verità, così la conseguiamo mediante una buona condotta.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

Paschalis
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre: Te quidem, Dómine, omni témpore, sed in hac potíssimum die gloriósius prædicáre, cum Pascha nostrum immolátus est Christus. Ipse enim verus est Agnus, qui ábstulit peccáta mundi. Qui mortem nostram moriéndo destrúxit et vitam resurgéndo reparávit. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia cœléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare: Che Te, o Signore, esaltiamo in ogni tempo, ma ancor piú gloriosamente in questo giorno in cui, nostro Agnello pasquale, si è immolato il Cristo. Egli infatti è il vero Agnello, che tolse i peccati del mondo. Che morendo distrusse la nostra morte, e risorgendo ristabilí la vita. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann XVI:8

Cum vénerit Paráclitus Spíritus veritátis, ille árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício, allelúja, allelúja.

[Quando verrà il Paràclito, Spirito di verità, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, allelúia, allelúia]

Postcommunio

Orémus.
Adésto nobis, Dómine, Deus noster: ut per hæc, quæ fidéliter súmpsimus, et purgémur a vítiis et a perículis ómnibus eruámur.

[Concédici, o Signore Dio nostro, che mediante questi misteri fedelmente ricevuti, siamo purificati dai nostri peccati e liberati da ogni pericolo.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (250)

LO SCUDO DELLA FEDE (250)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (19)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

CAPO III

IL SACRIFICIO DIVINO

SECONDA PARTE DEL CANONE.

CAPO III

LA PARTECIPAZIONE

ossia la Comunione Divina.

L’eterno è riconciliato coi peccatori. Il Padre celeste ha in seno il Figlio, che tornato dalla terra, gli porta in braccio colla sua divina l’umana natura, con quelle Piaghe che fan compassione, ricordandogli le piaghe della povera umanità, di cui fa parte l’umanità sua stessa, che in Sé ha assunta Gesù. E qui crediamo che Egli dica al Padre, che quei poveri suoi fratelli hanno troppo bisogno di Dio. Dall’altare, intanto, se li chiama intorno, e mediatore tra noi e Dio prega per noi, e a noi mette sul labbro la sua parola divina a dir tutto quello che non sa dire la parola umana, quasi ci dicesse in segreto: « andate là, fate coraggio, domandate tutto: ché vi sarà dato. Con voi pregherò Io stesso. » – Oh sì! ci voleva proprio solo Gesù per esprimere tutti gli affetti divini e gli immensi bisogni dell’anima nostra. Così per mezzo delle auguste cerimonie, che accompagnano il santo Sacrificio, la Chiesa ci ha fatto passare dall’apparecchio all’istruzione, dall’istruzione all’offerta e dall’offerta alla consacrazione, in cui si avvicinò al Redentore nostro. Qui è da ricordare, come Gesù le tante volte raccomandava di pregare. Un bel dì gli Apostoli a Lui: « Maestro, dissero, Voi ci raccomandate tanto di pregare; ma non sappiamo pure che dire; insegnateci Voi… » « Bene, disse Gesù, venite qui con me. » E, ci par di contemplarlo nel tirarseli tutti d’intorno sul monte, e inginocchiarsi in mezzo di loro, e levati gli occhi e le mani al cielo, dir loro con quella sua grazia: « dite su, con me: o Padre!… ; » e gli Apostoli a rispondere « o Padre ! » E Gesù: « Padre nostro, che siete nei cieli; » e gli Apostoli avranno taciuto… E Gesù: « dite su, Padre nostro… ; » e gli Apostoli, pare a noi, almen Pietro con quell’anima ardente avrà detto per tutti: « o Gesù Cristo: mai no, noi chiamar Dio nostro Padre?… Noi con una lingua di fango, con un cuor di terra… noi! dire Padre nostro! Ditelo Voi: Padre mio: e noi, Padre del nostro Maestro, del Vostro Figlio Gesù!… » Ma Gesù, che volle mettersi tutto con noi, e il suo Sangue versarci in cuore, pare di sentirlo a dire: « Figliuoli del Sangue mio, come io son nel Padre, io sono in Voi; fate coraggio, chiamate Dio col nome di Padre. » Ed insegnava il Pater noster. – Orazione al tutto divina! No, nessun filosofo, niuna scuola, niuna religione ha sognato mai di dire agli uomini: chiamate Dio col nome di Padre! Vogliamo bene osservare qui, che tutte le volte che nella divina officiatura si prega col Pater noster, si recita sempre questa orazione in segreto: mentre nella Messa per contrario, prima di cominciarla, si rompe il silenzio, per avvisare il popolo di accompagnar questa preghiera; e poi si recita ad alta voce: « Pater noster. » L’economia della Chiesa può darci di quest’uso la spiegazione. Ella soleva nei primi secoli tenere nascosti i più alti misteri agli infedeli, ed anche ai catecumeni, fino all’ora che dovevano esser promossi al Battesimo. Quest’uso di un prudente segreto era detto Disciplina arcani: la disciplina del secreto (Ben XIV.). Utile, anzi necessaria disciplina a quei tempi, in cui essendo i Cristiani dispersi in mezzo ai popoli pagani, uomini di grossa mente e d’idee troppo materiali nel fatto della religione; il manifestare i più sublimi misteri sarebbe stato un esporli alle derisioni, ed al sacrilegio, e dare occasione alle più bizzarre interpretazioni ed a mostruose contraffazioni, di cui restano i saggi nelle eresie degli Gnostici e d’altri antichi erranti. Quindi, l’orazione domenicale non si faceva conoscere se non ai provati: perché in essa chiamandosi Padre Iddio, si temeva, non forse volessero quelli che non erano ancora bene illuminati, fare del Dio del cielo un dio di sozze generazioni, di cui il paganesimo aveva più che troppi esempi sconcissimi. Era perciò l’ultima che s’insegnava ai catecumeni immediatamente avanti all’amministrazione del Battesimo. Si voleva che fossero ben fermi, prima che lor si confidasse quella preghiera, ed illuminati così da potere comprendere com’essa fosse il compendio di tutte le cattoliche verità, o il breviario, siccome la chiama Tertulliano, di tutta l’evangelica dottrina: perché si recitasse colle debite disposizioni. Ora abbiamo osservato, come alle officiature intervenivano coi catecumeni anche gl’infedeli: perciò quando si aveva da esprimere questa veramente confidenza, che ci ha fatta Iddio di sua bocca divina, se ne dava il segno, si sospendeva il salmeggiare, e si recitava in secreto. Nella Messa invece a quest’ora erano presenti i soli fedeli, le porte erano chiuse, tenuti lontani i profani. Qui adunque si potevano esporre i più teneri misteri, ed era lecito trattar con Dio colla libertà di figliuoli, incorporati in Gesù Cristo: e quindi l’alzar, ora che era tempo, della voce del Sacerdote, era un fare invito ai fedeli di aprir tutto il cuore col loro Padre Divino. Ecco di fatto come gl’incoraggia a pregare così nelle seguenti parole:

Oremus: Præceptis salutaribus ecc. ossia l’invito a recitare l’Orazione domenicale.

« Preghiamo: avvisati dai salutari precetti, e formati alla scuola divina del Vangelo, osiamo dire: Padre nostro ecc. ecc. »

Esposizione dell’invito: Præceptis ecc.

Abbiamo detto, che i fedeli a questo punto del Sacrificio si trovano tra le braccia di Dio: ed il Sacerdote loro fa qui invito a confidargli il cuore con tutti i suoi bisogni: e questo vuol dire pregare. Gli Apostoli appresero da Gesù Cristo, l’ora del Sacrificio essere propizia per effonder l’anima innanzi a Dio col Pater noster (Hieron. lib, 3, ad Pel.).

Oremus: Preghiamo adunque tutti in comune, e le dimande nostre siano in nome di tutti, affinché il Signore ascolti: ché quando ciascun privato prega per sé, prega nello stesso tempo per tutti i suoi fratelli (Io. Chrys. Hom. De Lazaro.). Vedendoci trattati da Dio con miracoli di tale bontà, noi non dobbiamo sapere far altro che gettarci ai suoi piedi, e in parole piene di pietà sfogare il dolore di averlo offeso. Se non che il Sacerdote si rammenta a conforto, che l’altissimo Iddio ci ha fatto dire dal suo Figlio: che per Mediatore abbiamo Lui presso del Padre in cielo: poiché è proprio Gesù col suo labbro benedetto, che ci fece il bel racconto, che sarà sempre il più gran conforto dei peccatori anche più disgraziati. Giova il ripeterlo qui a pascolo di tenerezza (Luc. 15.). Era una volta, dice Gesù, uno sciagurato di figlio, che fattosi tutto il suo bene dare dal padre, ed al più buono dei padri voltate le spalle, gettossi coi mondani a sollazzo, e tutto che possedeva mandò a male nella voragine dei vizi. Perduto ogni bene di Dio: ridotto sul lastrico, in tanta miseria che disputava le ghiande agli immondi ciacchi, li per morire di fame; si ricordò allora di avere ancora un padre, che trattava tanto bene sino gli ultimi servitorelli. Sorge e si avvia alla sua casa. Il buon padre allora innanzi alla casa passeggiava sotto l’ombra del suo viale, e doveva sospirare appunto il ritorno del figliuolo, che piangeva perduto: quando da lungi vede venire su un poverino, tutto lacero, e coperto di cenci cadenti, insozzato di fango, cogli irti capelli, consunto dall’inedia, colle gote riarse. Egli guarda…. Oh! gli par di conoscere…. quel peregrino da niente… che viene innanzi peritoso, impaurito… Ah possibile!… Oh Dio!… il cuor gli vuol saltare fuori dal petto… Eh! Proprio il suo povero figlio! Il padre non va, no, si getta con un salto incontro…. lo abbraccia al collo, lo stringe al petto, l’innonda di baci in quella foga d’affetti!… « Oh! padre, esclama il povero figlio, ho fatto tanto male! » Ma il padre gli chiude la bocca a furia di baci… « Oh padre! vi ricordate quel di… in cui vi ho abbandonato?…» Ma il padre gli risponde a calde lagrime: « mi ricorderò sempre del dì in cui sei ritornato! » « Ah padre! vi debbo far schifo, così sozzo che sono! » Ma il padre: « presto la mia veste più bella!… » Gliela getta addosso, e lo copre tutto di quel ricco paludamento! Il figliuolo colla testa china a pianger forte: e il padre sotto a ricevere le lacrime sul suo volto: e gli ribaciava la bocca!… Padre, sarò l’ultimo servitore in casa vostra!… Ma il padre, stringendolo al seno, lo mena in casa… e grida: « Presto il gran convito; è questo per la mia casa il più bel dì, il mio povero figliuolo era scappato, adesso è ritornato!… era perduto, adesso non lo perdo più! » Deh! non andiamo più in là: è meglio che noi diciamo: « O Gesù, v’abbiamo inteso per bene! » Questa non è istoria, ma un racconto, che vi suggerisce il vostro cuore, e con tenerissimo ingegno lo avete inventato Voi, per metterci sotto gli occhi ciò che vuol fare a noi il Padre divino, a cui Voi ci ritornate. Anche noi sciagurati, lasciato Dio, che è benedetto in eterno, cercammo beni ingannevoli, lontano dal Padre di tutti i beni, affamati di peccati, divenimmo abbietti in vita di colpe…. brancolammo in mezzo a quelle schifezze… Ah! che orror di miseria! Eh via, eh via, siamo ricondotti da Voi in seno al Padre… Per Voi ci è concesso, oh siate benedetto, Redentore pietosissimo! sì ci è concesso lo spirito di adozione (3 Ioan. III, I.), e tanta carità da poter chiamarci, ed essere veramente noi i figliuoli, e chiamarlo con Voi Padre nostro! (Avvertiamo, che l’esposizione del Pater noster fu da noi tratta da s. Cipriano, Tertulliano, s. Giovanni Grisostomo ecc., come anche da s. Teresa. – Può sembrare a taluno che qui interrompiamo troppo la spiegazione della Messa: ma, più noi crediamo di far cosa grata ai pii e colti nostri lettori coll’esporre, come in un quadro circondato dai commenti inspirati ai santi autori, che citiamo dalla loro pietà illuminata, il Pater noster, compendio delle verità cattoliche. Questa divina preghiera, le cui parole sono come tanti palpiti del Cuor di Gesù, basti a mostrare che è divina la Religione Cristiana a chi ha mente d’ intendere.). Invero i precetti evangelici dice s. Cipriano, sono i fondamenti che sostengono l’edifizio della nostra speranza, sono gli appoggi della nostra fede, e gli alimenti del nostro cuore. Ben volle Dio, che molte cose ci fossero dette dai profeti suoi servi; ma maggiori ce ne ha fatto insegnare dal Figlio suo, mettendoci in bocca Egli stesso la sua orazione. – Noi parliamo con essa al Padre divino colle parole del Figlio, e gli mettiamo innanzi i nostri bisogni colla supplica scritta col Sangue del suo Gesù: o meglio è il Consustanziale suo Figlio, che batte al Cuore del Padre divino, perché apra ed introduca seco noi altri figliuoli, che tien per mano di fuori. Il Padre ci vuol ricevere in seno, e vuole che ci assidiamo al convito. La preghiera della nostra fede sorga adunque diritta a Dio sotto la forma di figliale affezione. Ecco che mentre non a Mosè, non al popolo tutto d’Israele mai rivelò il Nome suo ineffabile: possiamo noi il Creatore dell’universo invocare col più tenero dei nomi, e gli gridiamo: « O Padre. » – « Perciò (S. Teresa.) quando vedremo il cielo, ripeteremo. è quella la vostra casa, o Padre: quando prenderemo in mano le vesti, i cibi, e tutto che Voi ci date, ripeteremo con allegrezza: quanto siete buono, o Padre! Quando alcuna cosa ci darà pena o travaglio, noi diremo rassegnati; eh! vuol essere per noi la buona cosa, perché ce la manda il Padre. Mio buon Dio, ci siete proprio Padre! mi guardo d’intorno, sono in casa di mio Padre; stendo lebraccia, e mi sento in seno all’amabile provvidenza di mio Padre; ché tale si è fatto conoscere Dio, quando col darci il Figliuol suo per nostro fratello, ci adottò tutti per figli. » Perciò quando noi tutti fratelli ci presentiamo qui dinanzi col Primogenito a capo di noi, allora col Padre (così Tertulliano) invocando il Figliuolo Gesù, invocando la Madre che è la Chiesa, formando con essi una sola famiglia in terra, ripeteremo piangendo di consolazione: « O Padre nostro. » –  Col dire nostro noi riconosceremo per nostri fratelli (così s. Gio. Grisostomo) i tanti figliuoli dello stesso Dio: dunque chi avrà cuore di oltraggiare i suoi fratelli? Anzi, uniti tutti insieme colla concordia e colla carità, mentre Gesù ci ordinava la preghiera in comune, perché noi siamo un corpo solo; terremo per mano la Chiesa, che dicemmo Madre in terra; ma il Padre nostro siete Voi, « Che siete nei cieli. » Siamo adunque adottati da Dio per figli? Questa è angusta e sublime adozione, che ci dà il diritto di pretendere tutti i beni del Padre Celeste! (così s. Gio. Grisostomo) Paragona, o mio fratello, quello che siamo per natura con quello che la bontà del nostro Dio ci ha fatto. Noi usciti dal nulla, fatti di terra, noi preda del tempo, ieri non esistevamo, e ora abbiamo Iddio per Padre in cielo. Ma noi chiamandolo Padre, siamo in obbligo di diportarci come figliuoli di Lui, sicché anche esso si compiacerà di esserci Padre, come noi ci onoriamo di essergli figli. Viviamo come se fossimo templi in cui abita Dio, ed essendo celesti e spirituali, non ci occupiamo, se non di cose celesti e spirituali. Deh! pigliamo l’ali della fede per volare da questa terra d’esilio in seno al Padre in cielo (ancora s. Gio. Grisostomo) perché questa è voce di libertà e piena di fiducia di quanti credettero in Dio, a cui diede la potestà di divenire suoi figli (Sacram. di Gel. Pap.).

« Sia santificato il vostro nome. » Padre, siam peccatori, è vero, ma rapiti in seno alla vostra Divinità, attoniti innanzi alla vostra grandezza, inabissati nella vostra bontà; Padre, ora per noi che vi conosciamo così bene, il maggior bisogno del nostro cuore è la gloria di Voi, che tanto la meritate. Siate adunque conosciuto, amato, servito e benedetto da tutte le creature: e la vostra santità (s. Gio. Gris.) sia di tutto glorificata nelle opere nostre, che siano degne di un tale Padre. Così risplenda la vostra luce in noi, affinché gli uomini vedano le opere nostre in terra, e diano gloria a voi in cielo (s. Gio. e s. Cipriano). Là in cielo quella corona di Angeli non resta mai dall’esclamare: « santo, santo, santo. » Deh! anche noi candidati degli Angeli, qui coi nostri voti dalla terra rispondendo, ci associamo al coro dei beati in cielo; le voci e le opere nostre accordando a quest’inno sublime di tutte le creature, a Voi, o Padre e Signore dell’universo, sia gloria da questa universale armonia (Tertulliano). Noi, dunque, dice ancora s. Giovanni Grisostomo, acclamiamo santo il Nome di Dio; non già perché noi possiamo aggiungergli santità; ma come acclamiamo ai principi, chiamandoli imperatori e re, per manifestare l’approvazione nostra, che essi siano al possesso di tale dignità: così noi manifestiamo meglio a Dio il desiderio nostro, ben pregandolo subito dopo, che Egli estenda per tutto l’universo il suo regno, colle parole: « Venga il regno vostro. » Dice qui s. Cipriano: non appartiene ad altri che ad un’anima pura questa dimanda. Voi avete udita la sentenza di Paolo: non regni il peccato nel corpo vostro mortale (Rom. VI). Posciaché avremo purificate le nostre azioni, i nostri pensieri, le nostre parole, diciamo a Dio: « Venga il vostro regno. » Perché gemendo sotto le catene dei sensi e delle passioni, preghiamo Dio, che ci liberi dal peccato, sicché diventiamo servi della giustizia. Così in queste parole diciamo di non volere legare il nostro cuore ai beni passeggieri e caduchi di questa vita; e di non tener per beni, se non quelli che sono immortali (Gio. Grisostomo). Ben regna Dio in eterno; ma noi supplichiamo, che Egli regni nell’anima nostra, che ha conquistata col Sangue suo; e sia Esso la nostra risurrezione, al dir dell’Apostolo: perché risuscitando con Esso, noi formeremo il regno suo celeste. Desideriamo finalmente (Tertull.), che Egli anticipi il regnare, e non ci prolunghi il servire. Semplici parole, ma fondamenti di una Religione, che guida gli uomini a regnare eternamente in Dio. Con esse chiediamo il compimento degli eletti nella consumazione dei secoli. « Venga adunque più presto che sia possibile il regno vostro, desiderio di noi Cristiani, confusione dei vostri nemici, allegrezza degli Angeli. Ché per questo regno noi combattiamo. » Ancora, vogliamo aggiungere con s. Teresa, queste sono di quelle celesti cortesie, di che le anime ricambiano Dio,  dicessero: Signore, voi fate tanto per regnare nei nostri cuori; anche noi, anche noi sospiriamo solo il vostro regno. Accennando dunque il paradiso (s. Teresa): « là, diciamo, è il regno del nostro Padre. Voi intanto, o Signore, stendete anche qui sulla terra il regno conquistato dal Sangue di Gesù Cristo. Fate che la vostra Chiesa raccolga nel suo seno tutti gli uomini, nostri fratelli. Oh! quanti di loro sono nella schiavitù del peccato: redimeteci tutti nella libertà del regno della vostra giustizia, e portateci a regnare con Voi in paradiso. » (S. Gio. Grisostomo). –  Quando l’anima è disposta così, (s. Teresa) lascia tutta a Dio la cura di sé, e delle cose sue. E a Lui dice come s. Caterina da Siena: abbiate Voi pensiero di me, ché io avrò pensiero di Voi. Facciamo ben dunque il maggior nostro interesse, quando ci rimettiamo a Dio, che vuol pigliarsi cura di noi, anzi si obbliga a farlo, più tosto che non affannarci da noi che non possiamo allungare di un centimetro un capello della nostra testa. L’anima non ha da fare altro che ripetere:

« Sia fatta la vostra volontà come in cielo, così in terra. » Come se dicessimo, così s. Cirillo (Mystag. 6,): « O Signore, possa io eseguire i vostri voleri sulla terra, come gli Angioli li eseguiscono in cielo. Oh via: facciamo veramente da figliuoli di Dio, lasciandoci dal suo Spirito condurre. » « Signore concedeteci (s. Gio. Grisostomo) che conformiamo totalmente la nostra vita a quella dei Santi, che sono già in cielo: così non facciamo mai, se non quello, che Voi volete. Date sostegno alle virtuose risoluzioni delle anime nostre, che pur vorrebbero essere vostre, ma trovano debolezza nei corpi. Si sforzano esse di correre, per unirsi a Voi nelle regioni celesti, ma il peso di questa carne arresta il loro volo, e le fa ricadere in terra. Siate Voi il nostro sostegno, e ciò che sembra eccedere le forze di nostra natura, ci diverrà facile. » Non domandiamo adunque che Dio faccia ciò che vuole (s. Cip.): e chi mai può impedire che Dio faccia ciò che gli talenta. Ma noi preghiamo, perché Egli adempia il volere suo in tutti, anche negli infedeli. Anche la povera volontà umana gli raccomandiamo; che le faccia volere ciò che è buono: sicché, come Gesù nell’Orto, anche nei più duri cimenti, quando sentiamo il peso delle debolezze della nostra carne, sotto di esso mandiamo tal grido al Padre: « non la nostra mala, sì la vostra buona volontà sia fatta! » Pronti con Gesù anche ad immolarci interamente ai voleri del divin Padre. Attacchiamoci adunque alla croce con Gesù Cristo, e colla pazienza corriamo alla corona. Questo è l’essere coeredi con Gesù Cristo. Fermi nella certezza (Tertull.) che la somma volontà di Dio è la salute di quelli, che Egli ha adottati, noi staremo fra le braccia del suo amore, affinché ci porti al cielo; tranquilli come i bambini in grembo alla madre. E di fatto. a chi possiamo affidarci meglio che al braccio di così amabile provvidenza, che di ogni più minuto essere si prende così sollecita cura? É sapientissimo il Signor nostro, e conosce tutto ciò che è bene; è onnipotente e può operarlo: è buono fino a salvarci col sacrificarsi per noi. Ah! gridiamo in braccio a Lui. « Fate Voi, fate Voi tutto che volete per recare a salute i figli vostri. » Bello è il pensiero di santa Teresa: Pongasi l’anima ai piedi del Padre, Signore e Sposo, come l’amabile Ester e quivi dica: « Signore, sono la serva che desidera nient’altro, che fare la vostra volontà. » Ed il Signore nella sua celeste clemenza (Tertull.) si degnerà sollevarci .come figliuole e spose.

« Dateci oggi il nostro pane quotidiano. »

Oggi non mettiamoci in pena per la dimane pronti ogni giorno alla partenza; atteggiati sempre come viaggiatori, i quali non più si fermano che un istante, per concedere alla natura il necessario. Ché non abbiamo qui la città permanente, ma siamo in via per giungere alla futura. Signore, dateci adunque la provvisione del dì. Dateci (s. Cipr.) il pane che supera ogni sostanza, che mantiene la vita spirituale dell’anima nostra ogni giorno. In tutti gl’istanti abbiamo bisogno di Dio; come bimbi giriamo intorno alla mensa, ed aspettiamo dalle mani del Padre il sostentamento, che solo può dare Egli; il quale apre la mano, e tutti gli esseri animati ricevono l’alimento. – Abbiamo adunque un Padre che pensa a noi: e noi riposiamo sulla sua provvidenza (s. Cipr.). Noi abbiam domandato il regno suo e la sua giustizia: tocca a Lui di compiere la sua promessa, di aggiungerci tutto che per noi sia bene. Se noi non gli balziamo fuori delle braccia, ci potrà Egli lasciar perire nel suo seno? Ma qui noi domandiamo il Pane vivo, disceso dal cielo, Gesù che adoriamo nel Sacramento, perché il pane della vita è Cristo Gesù (s. Cipr.) « Dateci oggi » potevano ben dire con maggior verità quei fervorosi antichi Cristiani, e lo possono ancora parecchi devoti, i quali nel desiderio eccessivo della Comunione, e per viva tenerezza di cuore non possono tener le lagrime: anzi colla bocca aperta del cuore insieme e del corpo, fino delle midolle anelano al loro Dio, fonte vivo: non sapendo altrimenti gustare, né empierne la propria fame, se non hanno con tutta dolcezza e spirituale avidità preso quel Corpo divino (Im. di Crist. Lib. 4); essendo per loro il più acerbo castigo l’esser per pochi dì della Comunione privati. La Comunione adunque, la s. Comunione è quotidiana. Deh adunque non stiam digiuni in punizione di qualche nostra colpa! (S. Cipr.). Diciamo bensì: dateci il pane quotidiano, perché sempre ci conviene domandare l’immunità dal peccato, per modo che siamo degni delle celesti vivande (Sacram. di Gelas. P.). – Pigliamo la beata usanza, tutte le volte che diciamo: Panem nostrum quotidianum, di gettarci in braccio a Gesù con una Comunione spirituale, e dire col cuore: « dateci il pan della vita il Vostro Corpo. » Ben s’intende che è il pane della vita eterna, che gli domandiamo: perché, se domandassimo il pane da mantenerci solo per la vita presente, non sarebbe che l’alimento, che ci munisce per andare al supplizio (Tertull.). Il perché (dice s. Teresa) io non mi posso persuadere, che si domandi il pane materiale, tanto più che ad un tanto Padre non istà bene il domandar tali cose basse, che Egli dà alle creature inferiori, senza che le domandino. Anzi Egli ci ha avvisati di chieder prima le cose del regno suo; ché del restante la divina Maestà si prenderebbe pensiero. Domandasi adunque il pane della dottrina evangelica colle virtù; ed il SS. Sacramento, in cui il cuor nostro si pasce di Dio stesso. Perciò quando gli domandiamo che ci dia il pane quotidiano e sopra sostanziale, è lo stesso che dirgli; « Vogliamo Voi, o Signore, perché niente ci può bastare senza di Voi. » Quindi è da prendere la beata usanza, tutte le volte che recitiamo il Pater noster, di slanciarci, dicendo queste parole, in cuore a Gesù nel santo ciborio, e dirgli contriti ed innamorati: « dateci il nostro pane! » Cioè si dovrebbe fare ognora con questa vivissima giaculatoria la Comunione spirituale. Perché veramente è questo il pane nostro, il Pan del padre: e tutta la vita cristiana dev’essere un sospirare a Lui per vivere solo di Dio (S. Cirillo Mist. 5).

« Rimettete a noi i nostri debiti, siccome noi li rimettiamo ai nostri debitori. »

Dice s. Giovanni Grisostomo: parole son queste di un senso assai profondo e formidabile, ed è come se colui che prega, dicesse a Dio: « Signore, io per me ho rimesso ciò che mi si doveva, anche Voi rimettete a me quel che vi debbo: ho dato, ed anche Voi ora date a me: ho perdonato, ed anche Voi ora perdonate a me. Che se non ho dato nulla al mio prossimo, se non gli ho rimesso il suo debito, non mi rimettete il mio: se ho maltrattato il mio fratello, non risparmiate me meschino: se mi son dimostrato duro verso di lui o spietato, trattatemi pure senza pietà: in una parola usate verso di me quella misura, che ho usato verso il mio prossimo. E vi sarà chi non voglia perdonare ancora? Ben dunque si dovrebbe (per lo men male) consigliare gli infelici, che son fermi di non voler perdonare, che non ardissero di pregare a Dio coll’orazione, che Cristo ha loro insegnato, chiamandolo Padre, e tanto meno lasciarsi trovare presenti al divin Sacrificio. Guai a loro! eglino si tirerebbero in capo la più esecrata maledizione, che il diavolo potesse contro a lor mandar dall’inferno. Nel grande atto di sacrificare a Dio l’immacolato Agnello di pace che leva i peccati del mondo ed impetra agli uomini misericordia, il Sacerdote in nome e persona dei fedeli, che sono presenti, fa al Padre la grande orazione, con la quale prega, che Dio voglia, per i meriti del suo Figliuolo, perdonare a noi i nostri peccati, come noi ai nostri fratelli perdoniamo le offese. Dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus ,debitoribus nostris. Ah! questo sarebbe quasi un fulmine: perché ciò importa, che essendo noi duri ed inflessibili al voler perdonare, anche Dio faccia con noi il somigliante: ed è un invitare e provocare la divina giustizia a fulminarci la sentenza d’eterna riprovazione, suggellata dal Sangue di Gesù Cristo, che in quell’atto doveva suggellare il riscatto della pace e della grazia a noi meritata; ed è un dire: Dio giusto! perché siete giusto e verace, come noi non vogliamo perdonare, e così voi in eterno non ci perdonate; della qual cosa niente di più orribile si può immaginare. Adunque se alcuno di costoro si trova alla Messa, esca, fugga di presente dal luogo santo, si separi dalla comunione dei fedeli della vittima per loro offerta: costui staria men male coi diavoli nell’inferno. Ah! Dunque, vinciamo ogni difficoltà e perdoniamo. Preghiamo, preghiamo che Dio ci conceda la grazia di perdonare. – Quando invece perdonando ci abbracciamo all’altare, e mostrando Gesù al Padre, gli possiam dire: « tuttoché peccatori non vogliamo temere di nostra salute, questo nostro Signore Gesù ha obbligato la fede sua dicendoci: se voi avrete rimesso agli uomini i loro peccati, il Padre Celeste rimetterà i debiti vostri. » (Matt. n. 14). S. Giovanni l’Elemosiniere stava sull’altare, e nell’atto di presentar l’offerta si ricordò dell’avviso di Dio di lasciar sull’altare l’offerta e di correre prima a riconciliarsi e poi venire a compier l’azione: e non poté più restarvi tranquillo. Corse giù dall’altare, cercò di un diacono che si credeva da lui offeso: al tutto volle con lui riconciliarsi: allora tornò contento a far l’offerta nella speranza di ottenere misericordia, col poter dire con sincerità: « perdonate a me, come io agli altri ho perdonato. »

« Non c’inducete in tentazione. »

Assaliti continuamente (s. Cipr.) o dal demonio, o dai nostri simili, o dai nostri sensi, siamo ad ogni istante in pericolo di soccombere, se non abbiamo ricorso alla grazia dell’onnipotente Iddio. Ma coraggio! Gesù ci ha manifestato che il demonio nulla può conta di noi, se non in quanto lo permette Iddio. Preghiamo adunque (s. Cipr.), non già di non essere mai tentati: guai all’uomo che non fu mai tentato! Egli nulla sa (Eccl. 34), e non è sperimentato. Ma preghiamo che Dio porti in mano l’anima nostra: ché quando ci terrà saldi la mano di Dio, noi cammineremo sopra gli abissi, e monteremo sopra il capo alle tempeste, e in mezzo agli attacchi dei nostri sensi troveremo occasione a sempre nuove vittorie. Quindi conchiude qui Tertulliano: « fate orazione. » Alcuni andarono soggetti alla tentazione, perché abbandonarono il Signore e si diedero piuttosto a dormire che a pregare. Preghiamo adunque che ci liberi dalle tentazioni, o dandoci grazia di non essere tentati, o dandoci grazia di non essere vinti. Il popolo risponde: « Liberateci dal male. » Liberateci cioè dal demonio, dal peccato e dalla eterna dannazione, orribilissimo di tutti i mali. Anche Gesù, per confortarci nel sentimento di nostra debolezza, pregava il padre, lo liberasse dai mali che gli soprastavano. Preghiamo pure il Padre, che ci liberi dal male, d’ogni mal di colpa e di pena, da tutto ciò, che crede Egli essere per noi male. La preghiera dice s. Cipriano, termina con queste parole, che ne sono il compendio. Non rimane più niente che si possa chiedere a Dio, giacché, impetrata la protezion di Dio contro il male che ci avversa, siam sicuri da tutti gli assalti del demonio e del mondo. Il Sacerdote risponde: « così sia. » Padre, Signore, Iddio, deh! per vostra grazia ci concedete tutto, di che vi preghiam nell’orazion vostra. Poi seguita l’orazione: Libera nos, detta Embolismo, cioè interposizione od intercalazione, perché ripiglia (Card. Bona, Rer. litur. lib. 2, n. 2) in certo qual modo la parola Libera nos, e si diffonde a numerare i mali, da cui si chiede di essere liberati; essendo come uno sfogo, che si prende l’animo nel versare in cuore al Padre delle misericordie la confidenza delle proprie miserie.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (11) “da EUGENIO I ad AGATONE”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (11)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(Da Eugenio I a Agatone)

EUGENIO I: 10 agosto 654 – 2(3 ?) giugno 657

VITALIANO: 30 luglio 657 – 27 gennaio 672

ADEODATO II: 11 aprile 672-17 (16 ?) Giugno 676

11° “Concilio di Toledo”, iniziato il 7 novembre 675

Professione di fede.

La Trinità divina.

525. (1) Confessiamo e crediamo che la santa ed ineffabile Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, sia un solo Dio per natura, di una sola sostanza, di una sola natura, di una sola maestà e di una sola potenza.

(2) E professiamo che il Padre non sia né generato né creato, ma  ingenito. Non trae la sua origine da nessuno, da cui il Figlio è nato e lo Spirito Santo ha ricevuto la processione.  È quindi la fonte e l’origine di tutta la Divinità.

(3) Egli è anche il Padre della sua stessa essenza, che dalla sua ineffabile sostanza generò il Figlio, e tuttavia non ha generato altro che ciò che Egli stesso è (Lui, il Padre, cioè la sua ineffabile Essenza), ha anche ineffabilmente generato il Figlio dalla sua sostanza): Dio (generò Dio), la luce, la luce, da Lui dunque “ogni paternità in cielo e in terra”. (Ef III,15)

526. (4) Affermiamo anche che il Figlio sia nato dalla sostanza del Padre senza inizio, prima dei secoli, e tuttavia non sia stato creato; perché né il Padre è mai esistito senza il Figlio, né il Figlio mai senza il Padre.

(5) E tuttavia il Padre non è dal Figlio come il Figlio è dal Padre, perché il Padre non ha ricevuto la generazione dal Figlio, come il Figlio l’ha ricevuta dal Padre. Il Figlio è dunque Dio dal Padre, ma il Padre non è Dio dal Figlio. È il Padre del Figlio, ma non è Dio attraverso il Figlio. Il Figlio è Figlio del Padre e Dio attraverso il Padre. Il Figlio, tuttavia, è uguale in tutto e per tutto a Dio, il Padre, perché non ha mai iniziato né cessato di nascere.

(6) Crediamo anche che Egli sia di una sola sostanza con il Padre; per questo si dice che è homoousios al Padre, cioè della stessa sostanza del Padre; in greco homos significa “uno” e ousia “sostanza”; le due parole insieme significano “una sola sostanza”. Dobbiamo credere che il Figlio sia stato generato e che non è nato dal nulla o da un’altra sostanza, ma dal seno del Padre, cioè dalla sua sostanza.

(7) Eterno è il Padre, eterno è il Figlio. Se il Padre è sempre stato, ha sempre avuto un Figlio, di cui era il Padre. Per questo confessiamo che il Figlio è nato dal Padre senza un inizio.

(8) Tuttavia questo stesso Figlio di Dio, in quanto generato dal Padre, non lo chiamiamo “parte della sua natura divisa”, ma affermiamo che il Padre perfetto ha generato il suo Figlio perfetto senza senza diminuzione o divisione, perché appartiene alla sola Divinità non avere un Figlio disuguale.

(9) Questo Figlio è Figlio di Dio per natura, non per adozione, e dobbiamo credere che il Padre non lo abbia generato né per volontà né per necessità, perché in Dio non c’è necessità e la volontà non precede la sapienza.

527. (10) Crediamo anche che lo Spirito Santo, che è la terza Persona della Trinità, sia Dio, uno e uguale al Padre e al Figlio, della stessa sostanza e anche della stessa natura; tuttavia, non è né generato né creato, ma procede da entrambi ed è lo Spirito di entrambi.

(11) Crediamo anche che lo Spirito non sia né innato né generato, in modo che non venga considerato, se diciamo che non è generato, che affermiamo due Padri, o se diciamo che sia generato, predichiamo due Figli; eppure Egli è un’entità che non è stata creata, e non si dica che sia solo lo Spirito del Padre, ma che sia lo Spirito del Padre e del Figlio.

(12) Infatti, non procede dal Padre verso il Figlio, né procede dal Figlio per santificare le creature, ma sembra aver proceduto sia dall’uno che dall’altro, perché è riconosciuto come la carità o la santità di entrambi.

(13) Crediamo, quindi, che lo Spirito Santo sia inviato da entrambi, come il Figlio è inviato dal Padre; ma non è considerato inferiore al Padre e al Figlio, come il Figlio testimonia di essere inferiore al Padre e allo Spirito Santo a causa della carne che ha assunto.

528. (14) Questo è il modo di parlare della Santa Trinità: bisogna dire che non è triplice, ma trina. Non si può dire che la Trinità sia in un solo Dio, ma che un solo Dio sia Trinità.

(15) Nei nomi delle persone che esprimono le relazioni, il Padre è riferito al Figlio, il Figlio al Padre, lo Spirito Santo a entrambi: quando si parla delle tre Persone in considerazione delle relazioni, si ritiene che siano una sola natura o sostanza.

(16) Non affermiamo tre sostanze come tre Persone, ma una sola sostanza e tre Persone.

(17) Il Padre, infatti, è Padre non in relazione a se stesso, ma in relazione al Figlio; il Figlio è Figlio non in relazione a se stesso, ma in relazione al Padre. Allo stesso modo, lo Spirito Santo non si riferisce a se stesso, ma al Padre e al Figlio, ma al Padre e al Figlio, perché è chiamato Spirito del Padre e del Figlio.

(18) Allo stesso modo, quando diciamo “Dio”, non esprimiamo una relazione con un altro, come quella del Padre con il Figlio o del Figlio col Padre, o dello Spirito Santo col Padre ed il Figlio, ma si dice “Dio” soprattutto in riferimento a se stesso.

529. (19) Se ci viene chiesto di ciascuna delle Persone, dobbiamo confessare che è Dio. Si dice che il Padre è Dio, che il Figlio è Dio, che lo Spirito Santo è Dio, ciascuno in particolare; eppure non sono tre dèi, ma un solo Dio.

(20) Allo stesso modo si dice che il Padre è onnipotente, il Figlio è onnipotente, lo Spirito Santo è onnipotente; eppure, non sono tre onnipotenti, ma un solo onnipotente, come noi professiamo una sola luce ed un solo principio.

(21) Confessiamo e crediamo che ogni Persona in particolare sia pienamente Dio e che tutti e tre siano un solo Dio; abbiano una sola divinità, una sola maestà, una sola potenza indivisa, uguale, che non diminuisce in ciascuno, né aumenta in tutti e tre; infatti, non è minore quando ogni Persona viene chiamata Dio in particolare; non è maggiore quando le tre Persone sono chiamate un solo Dio.

530. (22) Questa santa Trinità, che è un unico vero Dio, non è al di fuori del numero ma non èracchiuso nel numero. Nelle relazioni tra le Persone appare il numero; nella sostanza della Divinità non si può cogliere nulla che possa essere contato. C’è quindi un’indicazione di numero solo nelle relazioni tra le Persone, ma non c’è numero per loro, perché sono riferite a se stesse.

(23) Per questa Santa Trinità è quindi necessario un nome di natura, che non può essere usato al plurale nelle tre Persone. Per questo crediamo a quanto dice la Scrittura: “Grande è il nostro Signore e grande è la sua potenza e la sua sapienza è senza numero” (Sal CXLVI,5).

(24) Il fatto che diciamo che queste tre Persone siano un unico Dio non significa che possiamo dire che il Padre sia lo stesso del Figlio, o che il Figlio sia il Padre, o che Colui che è lo Spirito Santo sia il Padre o il Figlio.

(25) Perché colui che è il Figlio non è il Padre e colui che è il Padre non è il Figlio, né lo Spirito Santo è il Padre o il Figlio; eppure il Padre è ciò che è il Figlio, il Figlio ciò che è il Padre, il Padre e il Figlio sono lo stesso dello Spirito Santo, cioè un solo Dio per natura.

(26) Infatti, quando diciamo che il Padre non è uguale al Figlio, ci riferiamo alla distinzione delle Persone. Ma quando diciamo che il Padre è lo stesso del Figlio, il Figlio è lo stesso del Padre, lo Spirito Santo è lo stesso del Padre e del Figlio, esprimiamo che ciò appartiene alla natura o alla sostanza con cui Dio è, perché sono sostanzialmente uno: distinguiamo sì le persone, ma non dividiamo la Divinità.

531. (27) Riconosciamo dunque la Trinità nella distinzione delle Persone; professiamo l’unitàper la natura o sostanza. Questi tre sono dunque uno nella natura, non nella Persona.

(28) Tuttavia, non dobbiamo concepire queste tre Persone come separabili, poiché crediamo che nessuna di Esse sia mai esistita, né abbia mai compiuto alcuna opera né prima dell’altra, né dopo l’altra, né senza l’altra.

(29) Esse sono infatti inseparabili sia in ciò che sono sia in ciò che fanno, poiché tra il Padre che genera, il Figlio che è generato e lo Spirito Santo che procede, non crediamo che ci sia alcun intervallo di tempo in cui Colui che genera avrebbe preceduto di un momento il generato, o il generato avrebbe mancato colui che genera, o lo Spirito Santo, nel procedere, sarebbe apparso dopo il Padre ed il Figlio.

(30) Perciò dichiariamo e crediamo che questa Trinità sia inseparabile e distinta. Parliamo di tre Persone, come definite dai nostri Padri, perché siano conosciute come tali, non perché siano separate.

(31) Infatti, se consideriamo ciò che la Sacra Scrittura dice della Sapienza: “Ella è lo splendore della luce eterna” Sap VII, 26), così come vediamo che lo splendore è un tutt’uno con la luce, inseparabilmente, così confessiamo che il Figlio non possa essere separato dal Padre.

(32) Come non confondiamo queste tre Persone, la cui natura è una ed inseparabile, così dichiariamo anche che non possano essere separate in alcun modo.

532 (33) La Trinità stessa, infatti, si è degnata di mostrarcelo così chiaramente che anche nei nomi con cui ciascuna Persona è stata designata, Egli non ha permesso che l’una fosse compresa senza l’altra. Il Padre, infatti, non può essere conosciuto senza il Figlio e il Figlio non viene scoperto senza il Padre.

(34) La relazione stessa, nella sua denominazione personale, impedisce la separazione delle Persone e, quando non le nomina, le indica insieme. Nessuno può intendere uno di questi nomi che non sia costretto a capire anche gli altri.

(35) Essendo dunque questi tre uno e questo uno tre, ciascuno conserva tuttavia la sua proprietà. Il Padre ha l’eternità senza nascita, il Figlio ha l’eternità con la nascita e lo Spirito Santo ha la processione senza nascita, con l’eternità.

L’incarnazione.

533 (36) Crediamo che di queste tre Persone, solo la Persona del Figlio abbia assunto una vera natura umana, senza peccato, dalla santa e immacolata Vergine Maria, per la liberazione del genere umano; Egli è nato da Lei secondo un nuovo ordine, secondo una nuova nascita: un nuovo ordine, perché invisibile nella sua divinità, appare visibile nella carne; una nuova nascita, perché una verginità intatta non ha conosciuto il contatto virile ed ha fornito la materia del suo corpo fecondato dallo Spirito Santo.

(37) La ragione non può comprendere questo parto della Vergine; nessun esempio lo illumina. Se la ragione lo comprende, non è ammirevole; se gli esempi lo illuminano, non sarà più speciale.

(38) Tuttavia, non è necessario credere che lo Spirito Santo sia il Padre del Figlio, perché Maria ha concepito all’ombra di questo stesso Spirito Santo, poiché non debba sembrare che il Figlio abbia due Padri: è certamente empio dire questo.

534 (39) In questa mirabile concezione, la Sapienza, dopo essersi costruita una dimora, “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. (Gv I, 14). Tuttavia, questo Verbo non si è trasformato o cambiato nella carne, in modo che Colui che voleva essere uomo cessasse di essere Dio; ma “il Verbo si è fatto carne in modo che in Lui non ci sia solo il Verbo di Dio e la carne dell’uomo, ma anche un’anima umana ragionevole, e che tutto ciò che è Dio si dica a proposito di Dio e tutto ciò che è uomo, a proposito dell’uomo.

(40) Nel Figlio di Dio crediamo che vi siano due nature, quella della Divinità e quella dell’umanità, che l’unica Persona di Cristo le abbia unite in sé in modo tale che è impossibile separare la divinità dall’umanità e l’umanità dalla divinità.

(41) Pertanto, Cristo è perfetto Dio e perfetto uomo nell’unità di una sola Persona. Tuttavia, dicendo che ci siano due nature nel Figlio, non facciamo in modo che ci siano due Persone in Lui, per non aggiungere alla Trinità – Dio non voglia – una quaternità.

(42) Dio Verbo, infatti, non ha preso la persona dell’uomo, ma la sua natura, e nella Persona eterna della Divinità ha assunto la sostanza temporale della carne.

535. (43) Allo stesso modo crediamo che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo abbiano una sola sostanza, senza dire che la Vergine Maria ha partorito l’unità di questa Trinità: Ella ha partorito solo il Figlio, che solo ha assunto la nostra natura nell’unità della sua Persona.

(44) Dobbiamo anche credere che l’Incarnazione del Figlio di Dio sia stata realizzata da tutta la Trinità, perché le opere della Trinità non possono essere divise. Tuttavia, il Figlio da solo ha preso la forma di servo (Phil. II,7) nella singolarità di persona, non nell’unità della natura divina; in ciò che è proprio del Figlio, non in ciò che è comune alla Trinità:

(45) questa forma è stata unita all’unità della Persona, in modo che il Figlio di Dio e il Figlio dell’uomo siano un unico Cristo. Allo stesso modo Cristo, nelle sue due nature, è composto da tre sostanze, quella del Verbo, che deve essere riferita alla sola essenza di Dio, quelle del corpo e dell’anima che appartengono al vero uomo.

536. (46) Egli ha dunque in sé la duplice sostanza della sua divinità e della nostra umanità.

(47) Poiché è venuto da Dio Padre senza un inizio, si dice che sia solo nato, perché non è stato fatto né predestinato; ma poiché è nato dalla Vergine Maria, si deve credere che sia nato, fatto e predestinato.

(48) Ma in Lui sono mirabili entrambe le generazioni, perché è stato generato dal Padre senza madre prima dei secoli, e perché alla fine dei secoli è stato generato da una madre, senza un padre. In quanto Dio, ha creato Maria; come uomo, è stato creato da Maria. È padre e figlio di Maria sua madre.

(49) Allo stesso modo, poiché è Dio, è uguale al Padre; essendo uomo, è inferiore al Padre.

(50) Allo stesso modo dobbiamo credere che Egli sia più e meno di se stesso. Nella forma di Dio, il Figlio è più di se stesso, perché ha assunto l’umanità a cui la divinità è superiore; ma nella forma di schiavo, è meno di se stesso, cioè nell’umanità che è riconosciuta come inferiore alla Divinità.

(51) Infatti, come la carne che ha assunto lo rende inferiore non solo a suo Padre, ma anche a Se stesso, così anche secondo la sua divinità, per la quale è uguale al Padre, Egli e il Padre sono più che uomo, che solo la Persona del Figlio ha assunto.

537 (52) Allo stesso modo, si cerca di capire se il Figlio possa essere allo stesso tempo uguale allo Spirito Santo e più grande di Lui, poiché si ritiene che sia talvolta uguale al Padre e talvolta inferiore al Padre, risponderemo: secondo la forma di Dio, è uguale al Padre ed inferiore al Padre, secondo la forma di Dio, è uguale al Padre e allo Spirito Santo; secondo la forma di schiavo, è inferiore al Padre e allo Spirito Santo, perché non si è incarnato né lo Spirito Santo né Dio Padre, ma solo la Persona del Figlio.

(53) Allo stesso modo crediamo che questo Figlio, come Persona, sia distinto ma inseparabile dal Padre e dallo Spirito Santo; come natura sia distinto dalla natura umana che ha assunto. Allo stesso modo, insieme alla natura umana, costituisce una Persona; con il Padre e lo Spirito Santo, è la natura o sostanza della Divinità.

538 (54) Tuttavia, dobbiamo credere che il Figlio non sia stato inviato solo dal Padre, ma anche dallo Spirito Santo, poiché Egli stesso dice per mezzo del Profeta: “Ecco, ora il Signore ha mandato me e il suo Spirito.” (Is XLVIII,16).

(55) Si riconosce anche che è stato mandato da Se stesso, perché indivisibile non è solo la volontà, ma l’operazione di tutta la Trinità.

(56). Colui che era chiamato unigenito prima dei secoli, è diventato il primogenito nel tempo: unico in ragione dell’Essenza divina, unigenito a motivo dell’essenza divina, primogenito a motivo della natura della carne che ha assunto.

La redenzione.

539 (57) Nella forma di uomo che assunse, crediamo che Egli fu, secondo la verità del Vangelo, concepito senza peccato, nato senza peccato, morto senza peccato, che da solo è “diventato peccato” per noi, cioè un sacrificio per i nostri peccati.

(58) Tuttavia, Egli ha sofferto la Passione per noi, rimanendo intatta la sua divinità. Fu condannato a morte, morì di una vera morte di carne sulla croce; e il terzo giorno, risuscitato con il suo stesso potere è risorto dalla tomba.

Il destino dell’uomo dopo la morte.

540 (59) Così l’esempio del nostro Capo ci porta a confessare che ci sia una vera risurrezione della carne per tutti i morti.

(60) Non crediamo che risorgeremo in un corpo etereo o in un altro tipo di carne, secondo i deliri di alcuni, ma in quella carne con cui viviamo, esistiamo e ci muoviamo.

(61) Nostro Signore e Salvatore, dopo aver fornito il modello di questa santa risurrezione, ha riconquistato con la sua Ascensione il trono paterno che la sua Divinità non aveva mai abbandonato.

(62) Seduto alla destra del Padre, è atteso per giudicare tutti i vivi e tutti i morti per la fine dei tempi.

(63) Da lì verrà con tutti i Santi [Angeli ed uomini] per giudicare e rendere a ciascuno la ricompensa che gli è dovuta, secondo ciò che ciascuno ha fatto nel corpo, sia in bene che in male. (2 Co V, 10).

(64) Crediamo che la Santa Chiesa cattolica, redenta con il suo sangue, regnerà con Lui per sempre.

(65) Riuniti in questa Chiesa, crediamo e professiamo un solo Battesimo per la remissione di tutti i peccati.

(66) In questa fede crediamo sinceramente nella risurrezione dei morti e attendiamo le gioie dell’età futura.

(67) Non ci resta che chiedere questo nella nostra preghiera: quando, dopo l’esecuzione e la fine del giudizio, il Figlio avrà consegnato il suo Regno a Dio suo Padre (1Cor XV, 24), possa renderci partecipi di esso, affinché, per la fede che ci unisce a Lui, possiamo regnare con Lui senza fine.

541 (68) Questa è l’affermazione della fede che professiamo. Per mezzo di essa, le dottrine di tutti gli eretici sono annientate; con essa si purificano i cuori dei fedeli; con essa si arriva gloriosamente a Dio… [nei secoli dei secoli. Amen.]

DONO: 2 novembre 676 – 11 aprile 678

AGATONE: 27 giugno 678 – 10 gennaio 681

Lettera Consideranti mihi agli Imperatori, 27 marzo 680

La Trinità divina.

542. Questa è dunque la fede evangelica e apostolica e la tradizione che ne è la regola: noi confessiamo che la santa e indivisibile Trinità, cioè il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, si di una sola divinità, di una sola natura e sostanza o essenza, e proclamiamo anche che sia di una sola volontà naturale, di una sola forza, operazione, signoria, maestà, potenza e gloria. E tutto ciò che è stato detto di questa stessa santa Trinità per quanto riguarda l’essenza, istruiti in ciò dalla dottrina che è la regola, noi vogliamo intenderlo al singolare come un’unica natura delle tre Persone consustanziali.

Il Verbo incarnato.

543. Ma quando professiamo la nostra fede riguardo ad una di queste tre Persone della santa Trinità, il Figlio di Dio, Dio Verbo, e del mistero della sua adorabile economia nella carne, spieghiamo, secondo la tradizione del Vangelo, tutto ciò che appartiene all’unico e medesimo Signore, il nostro Salvatore Gesù Cristo, in una duplice maniera, cioè, proclamiamo le sue due nature, quella divina e quella umana, dalle quali e nelle quali Egli esiste ugualmente secondo un’unione mirabile ed inseparabile. Confessiamo anche che ognuna delle sue nature abbia la sua proprietà naturale: che il Divino possieda tutto ciò che è divino, e l’umano tutto ciò che è umano, con l’eccezione del peccato. E riconosciamo che entrambe appartengono all’unico e medesimo Dio, Verbo incarnato, cioè divenuto uomo, senza confusione, senza separazione, senza cambiamento; solo l’intelligenza discerne ciò che è unito, a causa dell’errore che la confusione rappresenterebbe. Infatti, detestiamo allo stesso modo la blasfemia della divisione e quella della mescolanza.

544. Ma quando confessiamo due nature, nonché due volontà naturali e due operazioni, non diciamo che siano contrarie l’una all’altra o che siano in opposizione tra loro, né che siano per così dire separate in due Persone o ipostasi; ma diciamo che lo stesso Gesù Cristo, così come ha due nature, ha anche in sé due volontà e due operazioni naturali: cioè, ha in comune la volontà e l’operazione divina da tutta l’eternità con la volontà e le operazioni dall’eternità con il Padre coessenziale, e che la volontà e l’operazione umana l’ha presa temporalmente da noi con la nostra natura.

545. Inoltre, la Chiesa apostolica di Cristo … riconosce, a motivo delle proprietà naturali, che ciascuna di queste nature di Cristo sia completa, e tutto ciò che si riferisce alle proprietà delle nature lo confessa come due volte dato, dal momento che nostro Signore Gesù Cristo stesso è sia Dio completo che uomo completo, sia da e in due nature…Di conseguenza… confessa e proclama che in Lui vi sono anche due volontà naturali e due operazioni naturali. Infatti, se si intendesse la volontà come personale, si dovrebbe anche, dato che parliamo di tre Persone nella Santa Trinità, che parlare di tre volontà personali e tre operazioni personali (il che è assurdo e totalmente empio). Ma se,come implica la verità della fede cristiana, la volontà è naturale, dove si parla di questo della Santa ed Inseparabile Trinità, sarà necessario riconoscere anche, quindi, un’unica volontà naturale ed un’unica operazione naturale. Ma quando confessiamo nell’unica Persona di nostro Signore Gesù Cristo, mediatore tra Dio e gli uomini (1Tm II, 5), due nature: la divina e l’umana, in cui Egli esiste ugualmente dopo l’ammirabile unione, così come confessiamo due nature, confessiamo regolarmente anche le sue due volontà naturali e le sue due operazioni naturali.

Concilio di Roma, Lettera dogmatica sinodaleOmnium bonorum spes” agli imperatori, 27 marzo 680.

La Trinità divina.

546. Noi crediamo in Dio Padre… e nel suo Figlio… e nello Spirito Santo, Signore e vivificante, che procede dal Padre, che è co-adorato e con-glorificato con il Padre e con il Figlio: la Trinità nell’unità e l’unità nella Trinità, cioè nell’unità dell’essenza, ma nella Trinità delle Persone o ipostasi. Confessiamo Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo, non tre dèi, ma un solo Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo; non la l’ipostasi di tre nomi, ma una sola sostanza delle tre ipostasi; Esse possiedono un’unica essenza o sostanza o natura, cioè un’unica Divinità, un’unica eternità, un’unica potenza, un’unica signoria, un’unica gloria, un’unica adorazione, un’unica volontà essenziale e un’unica ed una sola operazione della stessa santa ed indivisibile Trinità, che ha creato, ordina e conserva.

547. Confessiamo che l’unico di questa stessa santa e coessenziale Trinità, Dio Verbo, che nacque dal Padre prima dei secoli, negli ultimi secoli discese dal cielo per noi e per la nostra salvezza, e si fece carne dallo Spirito Santo e da Maria santa, immacolata e gloriosa, sempre Vergine, nostra Signora, veramente e propriamente Madre di Dio secondo la carne, che cioè nacque da Lei e divenne veramente uomo; lo stesso è vero Dio e lo stesso è vero uomo, Dio da Dio Padre, ma uomo dalla Vergine Madre, incarnato da quella carne che aveva un’anima razionale ed intellettuale; lo stesso è consustanziale a Dio secondo la Divinità e consustanziale a noi secondo l’umanità, simile a noi in tutto tranne che nel peccato; fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, patì e fu sepolto e risuscitò. ..

548. Riconosciamo, dunque, che un solo e medesimo Gesù Cristo nostro Signore, l’unigenito Figlio di Dio, esiste di due e in due sostanze senza confusione, senza mutamento, senza divisione e senza separazione, non essendo mai abolita dall’unione la differenza delle nature, ma al contrario rimanendo inalterate le proprietà delle due nature, che concorrono in una sola persona ed in una sola ipostasi; non è diviso o scisso in una dualità di Persone, né è confuso in una sola natura composta. Ma riconosciamo che un solo e medesimo Figlio, Dio Verbo, nostro Signore Gesù Cristo, non è un altro in un altro, né un altro e un altro, ma è lo stesso in due nature, cioè in Divinità ed umanità, anche dopo l’unione ipostatica. Infatti, né il Verbo fu mutato nella natura della carne, né la carne fu mutata nella natura del Verbo, poiché entrambi rimasero ciò che erano per natura, poiché la differenza delle nature unite in Lui, da cui è composto senza confusione, senza separazione, senza cambiamento, la riconosciamo solo per riflessione: ‘una infatti dalle due, ed entrambe da una perché l’elevazione della Divinità così come l’umiltà della carne sono allo stesso tempo, ciascuna dalle due nature, conservando intatta la sua proprietà anche dopo l’unione, e ‘l’una e l’altra forma facendo in comunione con l’altra ciò che le è proprio: il Verbo operando ciò che appartiene al Verbo, e la carne eseguendo ciò che appartiene alla carne: l’uno brillando nei miracoli, l’altro soccombendo sotto gli oltraggi’. (v. n. 294). Perciò, come confessiamo che Egli abbia veramente due nature o sostanze, cioè la Divinità e l’umanità, senza confusione, divisione o cambiamento, così confessiamo che abbia due volontà naturali e due operazioni, poiché la regola della pietà ci insegna che un solo e medesimo Signore Gesù Cristo è perfetto Dio e perfetto uomo (vv. 501-522). Ci viene infatti dimostrato dalla regola di pietà, ciò che è stato stabilito dalla tradizione apostolica ed evangelica e dall’insegnamento dei santi Padri, e che la santa Chiesa cattolica ed apostolica e i venerabili Sinodi riconoscono.

3° Concilio di Costantinopoli (6° ecumenico)

7 novembre 680-16 settembre 681.

Condanna dei monoteliti e di papa Onorio I

550. Dopo aver esaminato le lettere dogmatiche scritte da Sergio, un tempo patriarca di questa città imperiale, ed affidato alla protezione di Dio, a Ciro, allora Vescovo di Phasis, così come a Onorio, un tempo Papa dell’antica Roma, come anche la lettera scritta da quest’ultimo, Onorio, in risposta allo stesso Sergio [cf.487], e avendo constatato che esse contraddicono totalmente gli insegnamenti apostolici dei santi Concili e di tutti i santi Padri riconosciuti, e che essi seguono piuttosto le false dottrine degli eretici, li respingiamo totalmente e li aborriamo come dannosi per le anime.

551. Per quanto riguarda coloro, cioè, di cui rifiutiamo le empie dottrine, abbiamo giudicato cheanche i loro nomi siano banditi dalla santa Chiesa, cioè i nomi di Sergio… il quale ha iniziato a scrivere di questa empia dottrina, di Ciro di Alessandria, di Pirro, di Paolo e Pietro, e di coloro che hanno presieduto la sede di quella città affidata alla protezione di Dio e che la pensavano come questi; poi anche quella di Teodoro, già Vescovo di Faran; tutte queste persone sono state citate da Agatone, il santissimo e beatissio Papa dell’antica Roma, nella sua lettera all’Imperatore [542-545] e da lui respinti in quanto contrari alla nostra fede ortodossa; e decretiamo che anche questi sono soggetti ad anatema.

552. Ma con loro siamo dell’opinione che Onorio, già Papa dell’antica Roma, debba essere bandito dalla santa Chiesa di Roma e di colpirlo con l’anatema, perché abbiamo trovato nella lettera scritta da lui a Sergio che seguisse in tutto l’opinione di quest’ultimo e confermasse i suoi empi insegnamenti.

XVIII sessione, 16 settembre 681.

Definizione delle due volontà e operazioni in Cristo.

553. Il presente Santo Concilio Ecumenico ha fedelmente ricevuto e accolto a braccia aperte la relazione fatta dal santissimo e benedetto Papa dell’antica Roma Agatone al nostro religiosissimo e fedelissimo Imperatore Costantino, che per nominativamente rifiutava coloro che predicavano e insegnavano, come è stato mostrato sopra, una sola volontà e una sola attività nell’economia del Cristo, nostro vero Dio fatto carne [cfr. 542-545]; allo stesso modo ha ricevuto anche l’altra relazione sinodale inviata sotto lo stesso santissimo Papa dal santo sinodo dei centoventicinque Vescovi amati da Dio alla Sua divinamente saggia Serenità (cfr. 546-548). Che queste relazioni fossero in accordo con il santo Concilio di Calcedonia (vv. 300-306) e con il Tomo di Leone, il santissimo e benedetto Papa della stessa antica Roma, indirizzato a San Flaviano (vv. 290-295), che questo Concilio chiamava pilastro dell’ortodossia.

554. Erano in accordo anche con le lettere sinodali scritte dal beato Cirillo contro l’empio Nestorio ed inviate ai Vescovi orientali. Secondo i cinque Concili santi ed ecumenici ed i santi Padri approvati, questa definisce e confessa unanimemente il nostro Signore Gesù Cristo, nostro vero Dio, uno della santa, consustanziale e vivificante Trinità, perfetto in divinità e perfetto, allo stesso modo, in umanità; veramente Dio e veramente uomo, allo stesso modo, fatto di un corpo e di un’anima; consustanziale e consanguineo; consustanziale con il Padre nella Divinità e consustanziale con noi, in tutto simile a noi, tranne che per il peccato (Heb, IV: 15).

555. Generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e negli ultimi giorni per noi e per la nostra salvezza, lo stesso, dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria, che è di diritto e realmenteMadre di Dio, secondo l’umanità; un solo e medesimo Cristo, Figlio, Signore, unigenito, riconosciuto senza confusione, senza mutamento, senza separazione, senza divisione; la differenza delle nature non essendo in alcun modo abolita a causa dell’unione, ma anzi la proprietà di ciascuna natura è conservata e contribuisce ad una sola Persona e ad una sola ipostasi. Egli non è né separato né diviso in due persone, ma è un solo e medesimo Figlio, l’unigenito, Dio Verbo, il Signore Gesù Cristo, come i profeti hanno detto di Lui molto tempo fa, come Gesù Cristo stesso ci ha insegnato e come il Credo e come ci ha tramandato il Credo dei santi Padri.

556. Allo stesso modo proclamiamo in Lui, secondo l’insegnamento dei santi Padri, due volontà naturali e due attività naturali, senza divisione, senza cambiamento e senza confusione. Le due volontà naturali non sono, come hanno detto gli empi eretici, opposte l’una all’altra, tutt’altro. Ma la sua volontà umana segue la sua volontà divina ed onnipotente, non vi si oppone, ma si sottomette ad essa. La volontà della carne doveva essere mossa e sottomessa alla volontà divina, secondo il sapientissimo Atanasio. Infatti, così come la sua carne è detta essere ed èla carne di Dio Verbo, così la volontà naturale della sua carne è detta essere la volontà di Dio Verbo, come Egli stesso dichiara: “Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà del Padre che mi ha mandato”. (Gv VI, 38). Dichiara che la volontà della sua carne è la sua, poiché la carne è diventata sua. Infatti, così come la sua carne animata, tutta santa e immacolata, non è stata soppressa essendo divinizzata, ma è rimasta nel proprio limite e nel proprio scopo, così anche la sua volontà umana, essendo divinizzata, non è stata soppressa. Anzi, è stata salvaguardata, secondo la parola di Gregorio il Teologo: “Infatti l’atto di volontà di colui che è considerato Salvatore non si oppone a Dio, essendo totalmente divinizzato”.

557. Noi glorifichiamo le due attività naturali, senza divisione, senza cambiamento, senzaconfusione, in nostro Signore Gesù Cristo, nostro vero Dio, cioè un’attività divina ed una umana, secondo Leone, l’ispirato di Dio, che afferma molto chiaramente: “Ogni natura fa in comunione con l’altra ciò che è proprio della sua natura”, il Verbo operando ciò che è del Verbo, e il corpo ciò che è del corpo” [v. 294]. In effetti non concederemo che esista un’unica attività naturale di Dio e della creatura per non elevare il creato alla sostanza divina e abbassare la sublimità della natura divina al livello che genera esseri. Riconosciamo infatti che i miracoli e le sofferenze sono quelli dell’uno e dell’altro, secondo l’una e l’altra natura di cui è composto e in cui ha il suo essere, come diceva l’ammirabile Cirillo (cfr. 255 260, 271-273, 423)

558. Conservando totalmente ciò che è senza confusione o divisione, proclamiamo il tutto in una formula concisa: credendo che l’uno della Trinità sia anche, dopo l’incarnazione, il nostro Signore Gesù Cristo, il nostro vero Dio, diciamo che abbia due nature che risplendono nella sua unica ipostasi. In essa, durante la sua esistenza secondo l’economia, ha manifestato i suoi miracoli e le sue sofferenze, non in apparenza, ma in verità. La differenza naturale in questa stessa ipostasi è riconoscibile in quanto che ogni natura vuole e compie ciò che le è proprio in comunione con l’altra. Per questo motivo glorifichiamo due volontà naturali e due attività naturali, che contribuiscono entrambe alla salvezza del genere umano.

559. Avendo formulato questi punti con totale precisione e accuratezza, definiamo che a nessuno è permesso proporre un’altra confessione di fede, cioè scriverla, comporla, meditarla o insegnarla ad altri. Per quanto riguarda coloro che osano comporre un’altra confessione di fede, di diffondere, insegnare o trasmettere un altro simbolo a coloro che desiderano convertirsi dal paganesimo, dal giudaismo, o da qualsiasi eresia, alla conoscenza della verità, o introdurre un qualsiasi nuovo linguaggio o un’espressione inventata per invalidare i punti che abbiamo appena definito,se fossero Vescovi o chierici, sarebbero esclusi, i Vescovi dall’episcopato e i chierici dal clero;se fossero monaci o laici, sarebbero colpiti da anatema.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (12) “da LEONE II a GREGORIO II”

IL SACRO CUORE DI GESÙ (65)

IL SACRO CUORE (65)

P. SECONDO FRANCO

SACRO CUORE DI GESÙ

TORINO – Tipgrafia di Giulio Speirani e fligli – 1875

V° per delegazione di Mons. Arciv. Torino, 1 maggio 1875, Can. Ferdinando Zanotti.

Perehè si presti un cultò speciale al Cuore Santissimo Gesti Cristo.

La prima domanda che si fa da molti, quando si sentono proporre la divozione al Cuore SS. di Gesù, suole esser questa. Qual ragione vi ha di onorare specialmente il Cuore di Gesù Cristo? Sia pure un oggetto degno d’infinita lode, tuttavia non basta adorare, come sempre si è fatto, tutto intero il nostro Signor Gesù Cristo? Si potrebbe rispondere semplicemente che, avendo Nostro Signore fatto conoscere che gli era carissimo un tal culto, ed essendovi noi confortati da Santa Chiesa, questo è bastante perché l’abbracciamo con ogni fiducia. Ma vi sono ragioni saldissime che a ciò fare ci muovono, che sarà utile il considerare e varranno eziandio per solido fondamento a quel che diremo dappoi. Queste ragioni si possono brevemente accogliere in questo. 1° Che la fede ci mostra adorabile il Cuor divino. 2. Che la pietà peculiarmente il domanda. 3. Che lo stesso Cuor divino soavemente ci attrae.

I. La Fede cristiana ci mostra adorabile il Cuor divino. La fede cristiana insegna che in Gesù Cristo vi sono due nature, le quali sussistono in una sola Persona, che è quella del divin Verbo. Che quindi Gesù Cristo sia che si risguardi secondo la natura divina, sia secondo l’umana, deve essere adorato collo stesso supremo culto di latria, con cui si adora la divinità. Una adoratione Deum Verbum incarnatum cum propria ipsius carne adorat, sicut ab initio Dei Ecclesiæ traditum est. Così il V. Conc. tenuto in Laterano. E la ragione di ciò è che sebbene l’umanità sacrosanta del Redentore per sé medesima non sia Dio, né  si confonda colla divinità, tuttavia come è Umanità assunta dal Verbo, il quale è Dio, così deve essere col Verbo adorata in quel modo medesimo onde si adora Iddio. – Esprime questa dottrina di Santa Chiesa mirabilmente S. Giovanni Damasceno. « Uno è Gesù Cristo perfetto Iddio, perfetto uomo, cui noi col Padre e collo Spirito Santo adoriamo di una sola adorazione insieme alla sua Carne immacolata. Né ricusiamo di adorare la carne, poiché l’adoriamo nella Persona del Verbo che in sé l’ha assunta: né per questo adoriamo una creatura, poiché non adoriamo la carne presa da sé sola, ma come congiunta alla divinità e perché le due Nature di Lui sono unite nella Persona del divin Verbo ». Così il Santo. Di che se ne trae che come tutto il nostro Gesù, cioè la Persona del Verbo colle due Nature Umana e Divina che le sono proprie, sono l’oggetto assoluto ed adeguato di ogni nostro culto, così l’umanità sua sacrosanta con tutte le parti che la compongono, in quanto è fatta natura del divin Verbo, è oggetto della nostra adorazione parziale. Or posto ciò quel Cuore è certamente adorabile. Ma se è adorabile perché non l’adoreremo? Tutto sta che vi siano ragioni speciali per farlo, e queste vi sono oltre ogni dire efficaci.

Il. La pietà cristiana ce lo domanda a gran voce. Conciossiaché non potendo noi adorare l’Umanità SS. di Gesù Cristo se non secondo le manifestazioni che esso si compiace di farne (dacché possiamo solo adorarlo in quanto lo conosciamo) in quel Cuore le manifestazioni di Gesù ci appaiono più belle, più tenere, più commoventi che tutto altrove. Infatti, come e dove è che ci si manifesta Gesù? Nella sua vita mortale Ei ci si presenta sotto le forme amabili ora di bambino per noi lattante, ora di fanciullo per noi affaticato, ora di giovane per noi nascoso in una bottega, ora di annunziatore della parola di vita eterna e quindi in tutti questi stati noi siamo in caso di adorarlo. Nella sua Passione ci si dà a vedere agonizzante nell’orto, coronato di spine, lacero da flagelli, confitto su di una Croce e riscuote in tutti quegli stati la nostra adorazione. Nella divina Eucaristia ci appare e medico delle nostre piaghe, e amante sviscerato di tutti noi, e cibo sostanziale delle anime e pegno di eterna vita: e secondo che lo conosciamo, qui pur l’adoriamo. Nel Cielo Gesù ci mostra la sua SS. Umanità rivestita di gloria, alla destra del Padre, e ci rappresenta la carità, la misericordia, la benignità onde ama ciascuno di noi come capo le sue membra, come arbore i suoi rami, come Redentore i suoi riscattati, ed è, come è chiaro, oggetto di tutte le nostre adorazioni. Ma dove ci presenti poi il suo Cuore squarciato da cruda lancia, che versa fino le ultime stille di acqua e sangue che in lui si contengono, che ci rammemora come tutto ci abbia dato quel che possedeva sino al Cuore, che tutto si è immolato fino allo squarciamento del Cuore, che tutti ci offre i suoi doni e le sue grazie sino ad aprirci per ogni rifugio e conforto il suo medesimo Cuore, come non dovrà a sé rapire tutti i nostri affetti? E di quale argomento più tenero ed affettuoso può occuparsi la pietà cristiana? Potrà mai un’anima che senta meno indegnamente di Gesù non sentirsi attratto soavemente a riamarlo, ad adorarlo, a glorificarlo?

III. Lo stesso Cuor divino ci attrae. Gesù stesso offrendoci il Cuore ci porge il più caro invito che possa farci ad adorarlo, ossequiarlo, amarlo. Che cosa è infatti il SS. Cuore di Gesù? È il principio immediato di tutte le sue opere e di tutti i suoi patimenti. Perché mai Gesù si affaticò per trentatré anni in sulla terra? Perché fondò la Chiesa, perché operò la Redenzione con sì smisurati patimenti, perché ci dischiuse il Cielo, insomma perché tanto fece e tanto patì per noi? L’unica risposta che si può dare a tante interrogazioni non è poi mai altra che pure questa: perché il suo Cuore pietoso arse per noi di amore smisuratissimo. In quel Cuore vi è dunque la cagione, il principio di tutto quello che ha fatto e patito per noi. Cagione che supera in eccellenza l’effetto che ne provenne, perocché più è che Gesù si sia degnato di amarci che non è che ci abbia colmati di grazie, se pur è vero, come è verissimo che più del dono valga il donatore. Di che possiamo dire con verità che il suo Cuore è il compendio ed il fiore più bello di tutte le sue opere. Ne è il compendio perché tutte muovono dall’amore del suo Cuore il quale le elesse, le volle, ne sopportò le necessarie fatiche per eseguirle, ne fece diremo così le spese. Ne è il fiore più bello perché è quello che pone il colmo a tutte le sue degnazioni. Se è amabile Gesù che vagisce in fasce, quel che più ci ferisce è che quei vagiti sono per nostro amore. Se è bello Gesù già tutto sparso di sudore nella sua bottega, quel che più ci muove è il pensare che per amore di noi Egli lavora. Se è mirabile Gesù che percorre la Giudea, che dirozza gli Apostoli, che fonda la Chiesa, il più soave di quello spettacolo è l’amore con cui viene divisando sì belle imprese. E così contemplando Gesù in croce, o nella divina Eucaristia, o lassù nel Cielo quel che più ci commuove è l’amore paziente, l’amor prigioniero, l’amore che ci prepara le sedi celesti. Quanti debiti adunque abbiamo con quel Cuore sacrosanto che tanto ci ha amato! Quante ferite d’amore partono verso di noi da quel buon Cuore!

Cor Jesu flagrans amore nostri, infiamma cor nostrum amore tui.

I. Qual sia l’oggetto materiale della devozione

al SS. Cuore.

Che il Cuore SS. di Gesù sia adorabile l’abbiamo considerato già. Si può ora richiedere in qual modo cel proponga ad adorare la S. Chiesa. Al che è da rispondere brevemente che essa ci presenta come oggetto materiale di questo culto quel Cuore SS. quale si trova in Gesù Cristo, e come oggetto spirituale l’amore smisurato che Gesù ci ha portato e ci porta incessantemente. Per l’uno e per l’altro capo cotesta devozione riesce ammiranda. Considerate frattanto l’oggetto materiale, e vedrete che ad adorarlo peculiarmente cel persuadono d’accordo 1° la sua dignità, 2° la nostra riconoscenza, 3° la pietà nostra.

.1° La sua dignità. Il Cuore in G. Cristo è un cuore vivo, è un cuore congiunto a tutta l’Umanità sacrosanta di Gesù Cristo. Ora quel Cuore non trae la vita naturale se non dall’anima, la quale è senza dubbio l’anima più perfetta che sia uscita dalle mani di Dio creatore. La umanità di G. C. di cui è parte sì precipua il Cuore, è sostentata, come abbiam detto, dalla Persona del divin Verbo, quindi è l’Umanità del Figliuolo di Dio; e se è così, come è certamente, il Cuore di Gesù Cristo è il Cuore di Dio. Quindi la divinità sebbene non distrugga il cuore umano, pure inondandolo di sé medesima, lo innalza, lo sublima ad una dignità infinita. La porpora diventa nobile allorché è portata da un Monarca: ma non cessa per questo di essere sempre separabile da lui, poiché è cosa estrinseca al medesimo. Non è così del Cuore del nostro Gesù. Esso è stato coll’Umanità sacrosanta sì fattamente congiunto alla Persona del Figlio di Dio che è e sarà in eterno il Cuore di Dio. Il Verbo divino che in sé medesimo è immutabile per mezzo di questo cuore palpita, si rallegra, si affligge, si consola, va soggetto a tutte le affezioni della nostra vita mortale, e la nostra umanità di rincontro in Gesù Cristo in maniere al tutto ineffabili è ammessa alle ricchezze, alla gloria, alla maestà della Divinità. Quale oggetto non è pertanto quel Cuore divino anche preso solo materialmente! Come non accarezzerà volentieri ognuno di noi questo Cuore che è accarezzato così intimamente, dalla divinità che l’ha fatto Cuore suo in eterno?

II. La nostra riconoscenza. Due sono senz’alcun dubbio i maggiori beni che noi abbiamo ricevuto da Dio in questa valle di lagrime, lì dono della S. Fede e la divina Eucaristia. La Fede perché è la radice di tutti gli altri doni, e la porta per cui solo si entra a parteciparne e senza di cui è al tutto impossibile il mai pervenire a piacere al Signore: la divina Eucaristia perché contiene non solo le grazie più elette che Dio comunica agli uomini, ma la fonte stessa, l’autore medesimo della grazia N. S. Gesù Cristo. Ora questi due doni volle il Signore che immediatamente ci pervenissero dal Cuore dolcissimo di Gesù Cristo trafitto in croce. Conciossiaché qual è il mistero che sul Calvario si è compiuto? L’Evangelio ci fa sapere che trapassato il costato e ferito il Cuore di Gesù, prontamente ne sgorgò acqua e sangue. Or che cosa è quell’acqua, che cosa è quel sangue? Ah non è soltanto l’ultima prova di quell’affetto per cui Gesù ci volle dare fino all’ultima stilla il sangue delle sue vene, ma per sentimento di tutti i Padri è la grazia della Fede che vien raffigurata in quell’acqua che ne diviene nel Battesimo lo strumento, è il dono della Eucaristia simboleggiato in quel sangue che a noi si comunica nei santi misteri. Cosi lo notò tra molti altri S. Giovanni Grisostomo, osservando che prima noi siamo mondati coll’acqua, poi col sangue siamo consacrati. Primum enim aqua diluimur, deinde sanguine dedicamur. Il perché se vi ha un Sacramento il quale mi ha purificato dalla colpa, mi ha infusa la fede, la speranza,la carità, mi ha conferito l’onore sublimissimo d’esser Figliuolo di Dio, che mi ha conferito il diritto all’eterna eredità, iolo debbo a quel Cuore sacrosanto che mel’ha concesso. Se posso ora con invidiadegli Angeli accostarmi a Gesù Cristo, cibarnele carni immacolate, beverne il preziosissimosangue ed attingere dalla fontestessa ogni maniera di grazie io lo debboal Cuore SS. di Gesù che nell’amor suome le ha dischiuse. Quale riconoscenza nondovrebbe essere la mia! Come potrei mirarequel Cuore senza sentirmi grato a’suoi doni, e come ricevere i suoi donisenza risalir subito alla sorgente da cuimi sono provenuti?

III. La nostra pietà. Dovrei andare anche più oltre: questi smisurati beni mi provengano dal Cuore di Gesù non solo, ma dal Cuore di Gesù ferito e squarciato. Deh! che cosa è questa? Una piaga sanguinolente in mezzo ad un Cuore, e ad un Cuor divino! Chi avrebbe potuto farla se Egli già non l’avesse voluta? Poteva forse l’umana barbarie giungere fino a quell’estremo? E donde avrebbe preso la forza quand’anche ne avesse avuto l’ardire? Ah, quel Cuore è ferito perché ha voluto, e del volerlo ne fa cagione una ferita immensamente più profonda che già gli aveva fatto il suo inestimabile amore. Così lo considera l’amante S. Bernardo, dicendo: Mira come il nostro dolce Gesù a guisa di rosa sia tutto fiorente. Contemplane tutto il corpo ed osserva se v’abbia parte di Lui che non mostri il color sanguigno della rosa. Sono rosei i piedi e le mani, roseo costato altresì, benché sia più pallido il colore, poiché frammista al sangue vi scaturì eziandio dell’acqua. Ora quel colore è indizio dell’ardentissima sua carità. Rubet in indicium ardentissintæ charitatis. Il dolore e l’amore fanno a gara: questo per ardere maggiormente, quello per maggiormente patire. Contendunt passio et charitas, ista ut plus ardeat, illa ut plus rubeat. Che se questo è vero di tutte le ferite sacrosante del Redentore, comenol sarà peculiarmente del suo Cuore dolcissimoche è pure il centro della sua carità?Oh le altre ferite le ha tollerateperché era ferito il suo Cuore, ed all’amoredi questo Cuore dobbiamo tutte le altre sue pene. Gli è però che i Santi trovano che se tutte le piaghe di Gesù sono altrettante porte di salute per gli uomini, quella del Cuore è la più spaziosa ed amena: se tutte le piaghe di Gesù sono fontane donde derivano le grazie e le consolazioni celesti, la piaga del Cuore è quella che mena le acque più abbondanti e più deliziose: se tutte le piaghe di Gesù sono un luogo dolcissimo di rifugio pei peccatori, il suo Cuore è il più sicuro ed il più favorevole. Sanno essi che questa è la cagione intima delle altre sue ferite e però in esse amano di riposarsi tranquillamente di preferenza. Oh perché non prenderemo anche noi a fare altrettanto? Quando ripensiamo ai benefici che Gesù ci ha compartiti, soprattutto alla fede che ci ha donata, all’Eucaristia che per noi ha istituita, perché, dico, non rimonteremo alla sorgente da cui tutto ci è provenuto? Quando mireremo alle sue piaghe perché non ci arresteremo di preferenza al suo Cuore? E perché non ricorreremo a lui nelle nostre necessità più urgenti? Se tanto ha fatto già per noi, Ei ci dimostra quel che sia ancora disposto a fare. Quel Cuore è sempre lo stesso, sempre ci ama, sempre per noi si adopera. Deh! adoperiamoci. ancor noi una volta ad amarlo!

Cor Jesu pro me vulneratum miserere mei.

II. Qual sia l’oggetto spirituale della devozioue al SS.. Cuore.

Il Cuore di Gesù è oggetto di adorazione in sé medesimo perché è il Cuore del Verbo di Dio. Ma di che cosa inoltre è simbolo naturale. Chiunque veda un cuore non può non sentirsi risvegliare il concetto dell’amore. Trattandosi poi di un cuore impiagato, aperto, sormontato da una croce, come è quello di Gesù, il concetto dell’amore infinito che ci ha portato, riesce evidente. Ed appunto per richiamarci alla mente cotesto amore, Egli ci ha offerto il suo SS. Cuore, ed intende coll’offrircelo di provocare i nostri cuori ad un’affettuosa corrispondenza. Qual è dunque l’amore, che ci ricorda? Un amore che non ha limiti 1° nella durata; 2° nella efficacia; 3° nella soavità.

I. Non ha limiti nella durata. Non erano ancora i cieli, non era ancora la terra, non esistevano ancora né Angeli né uomini, e Gesù Verbo divino già era. In principio erat Verbum. E là nel seno delPadre, tra gli splendori della divina gloriaviveva col Padre e collo Spirito Santo infinitamentebeato. Però da tutta l’eternitàEgli aveva già presente il nostro esserefuturo, la nostra caduta, la nostra rovinaed aveva presente altresì tutto quello cheper nostro rimedio avrebbe operato. Né in qualunque modo l’aveva presente, macon infinita compiacenza prendeva dilettodel bene che avrebbe fatto a ciascuno di noi. Vedeva quel che per noi avrebbe patito, quel che avrebbe meritato, la larghezzadivina con cui ce ne avrebbe conmille maniere di grazie, di Sacramenti,di dottrine, di esempi applicati i frutti edi tutto ciò si compiaceva infinitamente.Vedeva i vantaggi che ce ne sarebbero ridondatidi santificazione nella vita presente,di gloria nella vita avvenire e sene rallegrava. Chi lo mosse ad una degnazionecosi smisurata? I nostri meriti? Eche meriti vide in noi carichi d’iniquità?Forse la nostra natura lo esigeva? Ma ecome può richiedere la natura doni chetanto sono sopra ogni natura? Nulla lopoté muovere fuori di quella bontà infinitaper cui si compiacque di amarci diun amore tutto gratuito. E così per tuttaun’eternità si contentò di amarci. In charitate perpetua dilexi te. (Jer. 31, 3). Mio Dioche cosa è questa? Il Verbo di Dio chepensa a me da tutti i secoli, che mi tienpresente, che con tutto sé mi ama? Ah. Uomini, uomini, che v’intenerite se unapersona vi si mantiene fedele ad amarvi qualche anno, sarete dunque freddi perun amore che ha durato un’eternità? Igenitori più affettuosi, gli sposi più teneri,gli amici, i fratelli più affezionati vi hannoamato qualche anno, Gesù Verbo divinovi ha amato un’eternità e solo per Lui nonavrete una fibra che si risente di amore?Oh quando comprenderete che ad un amore eterno ci vuole nulla meno per contraccambioche un’eternità di amore?

II. Non ha limiti nell’efficacia. L’amore che da tutta l’eternità mi portò Gesù non è stato sempre racchiuso in lui solo, ma fu per noi divinamente operoso. Conciossiaché questo lo mosse, dice S. Gregorio, a dare passi da gigante in nostro favore. Mosso dall’amore il Verbo divino venne a vestirsi della nostra umanità quale uno di noi. Qual eccesso di amore che un Dio si sia sottoposto a tutte le infermità di una creatura, quale noi siamo! Né prese la nostra umanità, intorniata di quelle delizie che pur poteva offrire questa misera terra, ma la elesse nelle condizioni più misere di povertà, di abbiettezza, di nascondimento. Dalla vita misera passò più oltre e venne ai dolori, alle agonie, alle ambasce d’una crudelissima morte. Quali prove di amore non sono queste! Eppure di abisso passò ad altro abisso. Non gli bastò di nascondere la sua divinità sotto le spoglie dell’umanità, l’amore gli fe’ nascondere anche questa sotto le specie di poco pane e di poco vino nel mistero Eucaristico per poter così rimanere lungo i secoli a nostro conforto. Di tutte queste opere immense poi quale fu il vantaggio che per noi intese? Volle che noi dalla schiavitù del demonio fossimo redenti, volle che di figliuoli d’ira diventassimo figliuoli di Dio, volle che di miseri condannati che eravamo alle eterne pene fossimo ravviati invece ad una eterna beatitudine. A questo fine accumulò meriti e poi ce ne fece comunicazione. Radunò soddisfazioni e poi le fece nostre. Sparse il suo sangue divino e poi con esso diede valore alle nostre opere, ai nostri patimenti di meritare la vita eterna. Quale operosità nell’amore di Gesù Cristo! Eppure o disconoscere queste verità volgarissime della nostra S. Fede, o confessare che l’amore di Gesù è stato come un amore eterno, così un amore efficacissimo a nostro riguardo. Ed è di qua che le anime amanti non si contentano di amar Gesù a parole, ma procurano di operare per Lui, di mortificarsi per lui, di non darsi posa per lui fino a sacrificarsi per Lui totalmente. Ah se Gesù vi chiedesse qualche particolar sacrificio, sarebbe questo il giorno da non negarglielo.

III. Non ha limiti nella soavità. La grandezza dell’amore di Gesù alla fortezza divina con cui ci ama congiunge una ugual tenerezza. Imperocché se Gesù avesse voluto solo la nostra salvezza ei la poteva ottenere impiegando anche solo un atto della sua divina volontà. Ma ciò non gli bastava se non mostrava altresì la tenerezza dell’amor suo. Che cosa elesse adunque? Volle impiegarvisi con invenzioni si dolci, sì tenere, sì amorose che ottenessero l’effetto, e mostrassero tutto insieme la sua tenerezza infinita. Il Verbo divino poteva salvare gli uomini senza farsi uomo, ma volle abbracciare strettamente la natura nostra assumendola in sé, esaltarla, dignificarla, accarezzarla, divinizzarla. Perché cosi? Ah ci saremmo sentiti più amati avendo un Dio Uomo al pari di noi. Fattosi già uomo poteva con una preghiera, con una lagrima, con un sospiro redimerci a tutto rigor di giustizia, perché dunque le spine, i flagelli, la crocifissione, la morte? Se poco gli avessimo costato, ci saremmo forse creduti amati poco: ora Egli vuole che conosciamo l’infinita tenerezza che ha per noi, quindi colla immensità delle pene ce l’ha dimostrata. Non era necessario che Gesù rimanesse con noi lungo i secoli: perocché qualunque gran bene avrebbe potuto farcelo senza la sua presenza reale nell’Eucaristia. Ma troppo maggiore affetto dimostra quel bene che si fa in persona: quindi Gesù vuol essere Lui a venire da noi, Lui a guarirci, Lui a mondarci, Lui a santificarci: e vuole di presenza trattenersi con noi, e cuore a cuore con noi comunicarsi. Sono queste tenerezze ineffabili della carità di Gesù. Ora non vi sembra che un amore sì lungo, sì smisurato, si affettuoso non meriti qualche corrispondenza? Sappiate adunque che appunto per rendere questa è stata istituita la devozione al suo Cuore divino. In questi tempi di tanta freddezza Ei vuole ristorare il regno della carità. Aspirate adunque ad esser dei primi che si consacrano a sì bella impresa e se ne allontani solo colui che creda non esser dovere di un Cristiano rendere amor per amore. Ma chi invece intenderà che il più grande ed il più dolce nostro dovere è di amarlo per quell’amore che ci ha portato, vede altresì quanto debba amare quel SS. Cuore.

Diligam te fortitudo mea.

GNOSI, LA TEOLOGIA DI sATANA (66): LA TEOSOFIA (2)

LA  TEOSOFIA (2)

(Enciclopedia APOLOGETICA della RELIGIONE CATTOLICA – QUARTA ED. – Trad. T. Dragone, Ed. PAOLINE, ALBA 1953. Impr. Parigi 1948, ed. it. Impr. 1953, P. Gianolio)

CAPITOLO III. – PRATICHE DELLA TEOSOFIA

I tre scopi. -La Società Teosofica, nel programma che presenta ai suoi possibili aderenti, espone i suoi scopi (Programma ufficiale posto nell’Appendice del libro della Blavatsky, The Key; Programma ufficiale 1912, ne La Société Théosophique: son objecte et son utilité, (ausiège de la Soc. Théos. de France). Lo stesso programma alla fine delle opere della Besant e altri. Sulle variazioni della stesura cfr. MARTINDALE, o. c., p. 32):

1. « Costituire il nucleo di una fratellanza universale dell’Umanità senza distinzione di razze, di credo, di sesso, di casta o di colore ». Nei programmi recenti, non figura più la parola « casta ». certamente per non urtare i pregiudizi indù.

2. « Promuovere lo studio delle letterature, delle religioni, delle scienze arientali: arie e altre ». I nuovi programmi fissano così questo secondo paragrafo: Promuovere lo studio comparato delle religioni, delle filosofie e delle scienze: the study of comparative religion, philosophy and science ».

3. a Indagare le leggi non ancora spiegate della natura ed i poteri psichici dell’uomo, scopo che è perseguito soltanto da una parte dei membri della Società. Nei nuovi programmi, invece di « poteri psichici », si legge: « poteri latenti dell’uomo ». Questa modifica mira certamente a impedire la confusione dei teosofi con gli spiritisti e con tutti quelli che cercano i « fenomeni psichici » isolati dal concatenamento generale, ascetico e morale della teosofia.

« L’adesione al primo di questi scopi è richiesta soltanto a quelli che vogliono far parte della Società » (nuovi programmi). In seguito, praticando le altre due regole, e specialmente la terza, avranno la possibilità di diventare veri teosofi ». – «Nessuno è escluso dalla Società perché non crede agli insegnamenti teologici Si può perfino respingerli tutti, eccetto il principio della fraternità umana…» (ivi). – Il terzo scopo esprime in termini generali le pratiche necessarie alla formazione del vero teosofo, pratiche che ora studieremo (Seguiremo le indicazioni date dalla Besant nel libretto: Le Sentier du disciple).

HELENE BLAVATSKY

La disciplina. – « L’aspirante teosofo deve assoggettarsi alla disciplina Karma Yoga (ivi, p. 18: Yoga: unione; Karma: azione. È l’« unione con la Legge divina il sé umano ed il sé cosmico » raggiunta con « l’azione » metodica), del Sentiero della prova, poi del Sentiero del discepolo propriamente detto (cfr. A. BESANT, La Sagesse Antique, p. 447), che lo condurranno progressivamente fino allo stato di pieno sviluppo e di attitudine al Nirvàna. Qui, non possiamo pensare di descrivere tappa per tappa la lunga formazione, che può anche continuare per incarnazioni successive (Besant, Le Sentier, p. 113.). Indichiamone almeno le tendenze generali. Un controllo delle passioni: collera, amore, avidità dei beni materiali, etc. Bisogna imparare a essere moderati, calmi, puri, e soprattutto combattere e sviluppare la bontà estesa a tutti gli esseri, che deriva dalla convinzione che quanti formano unità nel Sé unico (ivi, p. 20 s., p. 44, e l’art. cit. dell’Encyclopcedia of religion and Ethics, p. 300, col. 2.) – Questa riforma dei costumi e del carattere è accompagnata e condizionata da una disciplina dello spirito. Bisogna imparare « a controllare il mentale turbolento », a combattere la dispersione dello spirito negli eventi del mondo sensibile. Viene esplicitamente raccomandata la pratica della « meditazione » come « concentrazione » del pensiero sopra un unico oggetto e lotta contro le distrazioni, come pure la sorveglianza sulla condotta, che assomiglia molto all’esame di coscienza. Compiute tutte queste preparazioni, il discepolo è maturo per ricevere l’insegnamento di un mahàtma: gli si apre il Sentiero del discepolo; è degno di trovare il Maestro e lo troverà. E il Maestro, con la sua chiaroveggenza superiore lo distinguerà in mezzo alla folla degli uomini. Potrà accadere che il discepolo non veda fisicamente il suo Maestro e, « nello stato normale di veglia », forse immaginerà di calcare da solo il sentiero, ma il Maestro sarà là, e in certe circostanze, in certi stati, come nel sonno fisico, ne percepirà e sentirà la presenza ». – Sotto l’influsso e la direzione del Maestro, si compirà l’iniziazione vera e propria, che farà cadere le « illusioni capitali »: prima quella di credere alla realtà del mondo empirico; poi « l’illusione della personalità » e l’iniziato finirà col dirsi: « lo sono Quello; io sono Brama ».

L’illuminazione. – Allora « sarà giunto al contatto assoluto con la realtà » e non conoscerà più teoricamente, ma per esperienza, « come fatti reali », « come fenomeni della natura verificati da lui stesso » gl’insegnamenti della teosofia, quali « la grande verità della reincarnazione », quella del Karma, l’esistenza dei mah’àtma, ecc. In che modo? Mediante lo sviluppo di quelle « facoltà latenti » di cui parla il programma teosofico e che fu perseguito in tutto il corso della formazione del discepolo. (Cfr. Le Sentier; v. pure in L’évolution de la vie et de la forme, della BESANT, un curioso parallelo tra la scienza moderna, che osserva dei fatti esteriori dai quali trae le sue induzioni, e la scienza antica, che la teosofia si propone di restaurare, in cui l’uomo conosce le cose attraverso il proprio interno, attraverso « la vita che è in lui stesso… perché solo la vita può rispondere alle vibrazioni di ciò che vive: la sua opera consiste nello sviluppare se stesso, nell’estrarre dagli abissi della propria natura i poteri divini che vi sono celati… Basta fare degli strumenti » – p. 25). Il termine sarà uno stato di « onniscienza » che si estende a tutta la realtà conoscibile nell’universo, al quale appartiene l’iniziato, con poteri corrispondenti e proporzionati, cioè l’« onnipotenza » nel medesimo universo. D’altronde, questi poteri saranno esercitati soltanto per il bene degli altri e per il progresso dell’umanità, poiché l’individuo perfetto non può avere altri scopi. A questo punto supremo, l’uomo sarà divenuto un budda e potrà entrare nel Nirvàna quando vorrà. – I teosofi non finiscono di parlare delle varie specie di « chiaroveggenza » acquistate durante la formazione, poiché con le intuizioni dei piani eterico » e « astrale » si vede attraverso gli oggetti opachi, si sente attraverso i muri, si percepisce Paura che avvolge i corpi viventi come una bruma luminosa e che, con le sue piccole varietà, permette di diagnosticare a colpo sicuro i pensieri e i sentimenti d’una persona e penetrare i segreti delle coscienze (LEADBEATF.R, La Clairvoyance, p. 34 s., 49 s.). A queste altezze, si fa la conoscenza degli « spiriti della natura »: gli elfi e le fate del folklore; s’incontrano anime disincarnate, ecc.. In una zona ancor più elevata, chiamata « piano mentale », si manifestano « gli spiriti superiori » (Angeli o Arcangeli del Cristianesimo), i grandi Iniziati, gli Adepti, con la cui guida il discepolo, giunto a questo piano. si può istruire (ivi). Sarebbe fastidioso entrare nei particolari di tutte le divisioni e suddivisioni di questi piani soprafisici e delle percezioni che vi si ottengono. Leadbeater su questo argomento ha scritto un intero volumetto, dove ci spiega dottamente le varie chiaroveggenze e il modo di servirsene: chiaroveggenze che conducono fino ai fatti lontani nello spazio e nel tempo, e perfino sul passato più remoto (l’Atlantide!) (Cfr, le intenzioni della Blavatsky sul continente misterioso – G. T., p. 64); chiaroveggenze che conducono sul futuro, ecc. Per far accettare più facilmente la realtà di queste facoltà sopranormali, egli si appella abilmente ai fatti finora poco studiati di telepatia, di presentimento, di trasmissione del pensiero, ecc. Mentre questi fatti, quali si presentano all’osservatore volgare, appaiono sporadici e quasi completamente sottratti alla direttiva della volontà umana, la teosofia pretende di insegnare un metodo per produrli e dirigerli con sicurezza (V. alcuni esempi del modo con cui Steiner intende la chiaroveggenza, il suo metodo e i suoi oggetti. G. T., pp. 137-141; 171, nota 2, p. 172 s.; p. 183 s..; Steiner conosceva per esempio nei particolari la storia dell’Atlantide, questo continente che avrebbe occupato parte dello spazio coperto attualmente dall’Atlantico e che assieme alla civiltà che fioriva in essa sarebbe scomparta in un cataclisma. Questa civiltà non ha nessun segreto per il « veggente », e Steiner ci avverte molto seriamente che « il tempo » di cui parla « non è conosciuto attraverso nessun documento… Qui ci occupiamo di occultismo, e non di critica storica’. La Science occulte, pp. 232, 235). Questi sono i punti capitali dell’insegnamento teosofico; essi comportano sviluppi dettagliati e prolissi sull’antropologia (costituzione dell’essere umano mediante sette principi) e sulla cosmologia (origine ed evoluzione dei mondi), nei quali non ci interessa entrare. Si possono trovare riassunti nelle opere speciali.

ANNIE BESANT

CAPITOLO IV. – APPREZZAMENTO

Errori filosofici e religiosi. – Anche senza insistere, gli errori della dottrina teosofica risultano da se stessi. Il panteismo, la negazione di un Dio personale e distinto dal mondo, il rigetto esplicito della creazione. l’identità dell’io con Dio, un’evoluzione che finisce nella fusione del finito nell’Infinito; d’altra parte, la realtà non solo del mondo sensibile, ma dei fatti di coscienza più personali, è ridotta a un’illusione; le individualità Particolari sono confuse in un » Sè » unico. Sono questi gravi errori che una sana filosofia deve confutare. (Tutti i soliti concetti diabolici di cui abbiamo ampiamente parlato nei numeri precedenti al riguardo della “gnosi” teologia di satana – ndr. -). Ma siccome ora non scriviamo un manuale di filosofia, non ci accingiamo a trattare questioni che appartengono alla filosofia generale e che richiederebbero uno sviluppo troppo vasto per trovar posto in quest’articolo. Quindi, rimandiamo il lettore ai libri che le espongono. Questi errori filosofici capitali interessano già profondamente la fede, ma ad essi la teosofia ne aggiunge, nel campo propriamente religioso, altri non meno gravi. Le teorie della reincarnazione e di un Karma cieco sostituito alla giustizia personale di Dio; l’affermazione che la sorte definitiva dell’uomo non viene decisa alla sua morte fisica e la correlativa negazione di un cielo e di un inferno eterni; il rigetto categorico della preghiera, del valore della penitenza, dell’idea d’un’espiazione, d’una redenzione operata dalla morte di Cristo; perfino Gesù abbassato al livello di un uomo molto evoluto, privato della Divinità unica, assoluta, esclusiva che Egli possiede col Padre e con lo Spirito Santo; infine, l’esoterismo che riserva ad un’élite la vera conoscenza religiosa e permette di dare ai dommi un senso completamente diverso da quello definito e che la Chiesa vi annette: osservando con un colpo d’occhio l’insieme di questo ammasso di errori, ci si accorge che, tra gli articoli della nostra fede, ve ne siano ben pochi che la teosofia non scalzi alla base e che essa formi un corpo di dottrine radicalmente incompatibili con la credenza cattolica: in breve, ne è la contraddizione positiva. Non possiamo non stupire altamente che vi siano persone illuse al punto di credere di poter conciliare le due cose. Ed è vero, come fu detto, che il Cristiano, per farsi teosofo, deve apostatare, tanto che la Chiesa la quale, nel corso dei secoli, ha condannato in modo speciale parecchi di questi errori, ha ragione di mettere i suoi fedeli in guardia contro tutta la teosofia, di proibire di entrare nelle sue associazioni e di leggerne le pubblicazioni, che perciò stesso sono tutte all’Indice (Decreto del Sant’Uffizio, 18 luglio 1919).

Origini torbide. – La madre della teosofia moderna è la signora Blavatsky che, col preteso influsso dei misteriosi mahàtma, la concepì e la diede alla luce. Ora è facile ammettere che questa donna russa eccentrica e sfacciata non abbia nessun carattere di un messia, di un messaggero di Dio. Lo stesso si deve pensare dell’inquieta Besant. Abbiamo alluso a certi scandali che macchiarono gl’inizi della Società Teosofica. Ci sono prima di tutto le soperchierie di cui fu convinta la signora Blavatsky, la quale assicurava che i mahàtma avevano inviato lettere e anche doni ai loro discepoli. Ora, con una buona perizia, fu riconosciuto che le lettere furono scritte da lei stessa; venne scoperto che il « santuario » di Adyar era un trucco e che, tra il resto, conteneva un armadio a doppio fondo, dov’erano cautamente nascosti i doni dei mahàtma. L’inchiesta condotta dall’Hodgson sul posto per conto della Società per le ricerche psichiche di Londra giunse a risultati gravi sul conto dei fondatori della teosofia moderna, e conclude: « Da parte nostra, consideriamo la Signora Blavatsky né come lo strumento di veggenti segreti né come una volgare avventuriera; pensiamo che abbia acquistato diritto al titolo di un ricordo permanente come uno degli impostori più consumati, ingegnosi e interessati ricordati dalla storia » (Prcceedings of the Society for Psychical Research, vol. III, 1885, p. 207, G. T., p. 80.). Per apprezzare tutto il valore di questo verdetto, è bene ricordare che la Società per le ricerche psichiche per principio non è ostile ad ammettere fatti anormali e scientificamente inspiegabili, e anzi, ha il compito di ricercarli, e dopo l’inchiesta, ne riconobbe alcuni come veri. I suoi membri sono in uno stato di spirito che risponde in modo molto esatto a quello rappresentato in Francia dal professor Ch. Richet (Olcott, qualificato dalla signora Blavatsky come « sciocco » al dire di Hodgson, non possedeva « una grande capacità per apprezzare una prova di fatto » (Proceedings, tom. cit., p. 311). Quanto alla Besant, certamente meno ingenua e che certamente era a conoscenza dell’affare di Adyar, restò tuttavia per tutta la sua vita discepola fedele della signora Blavatsky.). – Alla morte della signora Blavatsky, seguì uno scandalo d’ordine morale. Uno dei dottori della teosofia, il Leadbeater, venne accusato di aver insegnato il vizio ai suoi giovani allievi col pretesto del progresso delle facoltà occulte. Fu tradotto davanti a una commissione di teosofi, non riuscì a giustificarsi e venne escluso come indegno dalla Società (1906); ma, poco dopo, la Besant, divenuta presidente, lo fece reintegrare e, dopo una qualsiasi sconfessione e la promessa di non ricominciare (!) se lo assunse come collaboratore intimo. Di questa collaborazione apparvero i frutti. Scoppiò un terzo scandalo, che potrebbe venir qualificato come effetto di follia. D’accordo con la Besant, Leadbeater scelse an giovane indù per farne un mahatma; dopo iniziato, venne dichiarato Budda, reincarnazione di Cristo, ecc., e fu fatto adorare da una folla di teosofi (1911). I congiunti del giovane intentarono un processo a Leadbeater e alla Besant per aver sviato un minorenne; molti membri della Società non poterono sopportare più a lungo queste pazzie e diedero le dimissioni. Il che non impedì alla Besant e al suo collaboratore di conservare il loro ufficio e di occupare sempre ano dei posti maggiori tra i dottori della teosofia attuale. – Sarebbe ingiusto attribuire a Steiner qualche responsabilità nel perpetrare questi atti scandalosi, che però non poteva ignorare. E se l’ultimo affare, quello del nuovo Budda, contribuì verosimilmente a distaccarlo dalla Società, i primi due fatti non gl’impedirono di entrarvi o di restarci ed esserne perfino il propagandista fervente. A nostro avviso, questo è un gruppo di fatti che gettano una luce assai torbida sugli ambienti dove nacque e si sviluppò la teosofia moderna.

Affermazioni gratuite. – La teosofia non presenta i titoli che giustificano l’insegnamento che sono l’autorità dell’insegnante o una dimostrazione proposta all’intelligenza dei discepoli. La teosofia si appella all’autorità dei mahàtma, che però esistono solo nelle favole, creati dal bisogno d’ingannare grossolanamente. Le uniche autorità reali in teosofia sono quelle delle signore Blavatsky e Besant e dei loro collaboratori, come Leadbeater e altri, i quali tutti hanno un’autorità molto debole. Anche Steiner si richiama a maestri misteriosi che gli sarebbero apparsi, all’occorrenza anche in forme banali. Possiamo essere scettici sulla realtà della loro esistenza e del loro carattere soprannaturale, e per chiunque gli creda, resta in campo unicamente l’autorità del dottor Steiner, che non s’impone affatto col carattere dell’infallibilità. – La teosofia dimostra quello che afferma? Questa dimostrazione potrebbe poggiare su argomenti accessibili alla ragione naturale e normale dell’uomo, desunti, per esempio, da fatti storici ben accertati, analoghi ai « motivi di credibilità » che precedono l’adesione alla rivelazione cristiana. I teosofi talvolta tentano dimostrazioni di questo genere e i « fenomeni meravigliosi » fatti vedere ad Adyar o altrove decisero numerose conversioni alla teosofia. Ma abbiamo veduto la qualità di queste meraviglie. Si traggono argomenti anche dal valore intrinseco della dottrina, dal « lume che essa proietta su tutti i problemi della vita », da « tutto l’insieme delle sue verità » che racchiude quanto i filosofi e le religioni del mondo intero hanno di buono. Disgraziatamente però, come abbiamo visto, le soluzioni date dai teosofi ai grandi problemi vitali sono tutt’altro che soddisfacenti: il panteismo, la negazione della personalità umana, ecc. gettano ombra anziché far luce, e frutti di grande fantasia sono i loro tentativi di accostare la teosofia alle grandi filosofie o religioni; la loro erudizione vuol essere accolta con cautela; la leggenda rosa-crociana è piena di favole; gli elementi affastellati in questi tentativi di sincretismo sono totalmente eteroclitici. E, come afferma Steiner, la storia in uso nella teosofia non ha nulla in comune con una scienza critica. Che mezzo resta dunque per convincere? La sola esperienza, l’intuizione. La teosofia primitiva e l’antroposofia proclamano di non volersi imporre come un domma, senza l’esperienza personale di ciascuno e ci comandano di non ammettere nulla che non sia a verificato da noi stessi ». Ma allora, è inutile osservare che, in questo caso, gli argomenti addotti sopra sono superflui; e se tutto dipende dall’esperienza personale, non si venga a parlarci d’altro né del carattere « tradizionale » della dottrina, né del suo valore intrinseco, né dell’autorità dei mahàtma o di altri maestri. Si tratta soltanto di vedere ciò che si presenta nel piano astrale, mentale, ecc. Prendendo quindi queste intuizioni in se stesse, la loro natura è molto sospetta, poiché, innanzitutto, sono intuizioni che vengono dirette. Il discepolo sa già in anticipo quello che deve vedere e, prima di cominciare egli stesso l’esperienza, ha già l’itinerario tracciato e descritti i siti e i personaggi che incontrerà. Direi che tutti i discepoli hanno con sé lo stesso Baedecker teosofico, onde non ci stupisce se tutti vedono o credono di vedere le stesse cose. Si aggiunga che le intuizioni vengono acquistate con uno speciale allenamento mediante prolungati esercizi volontari, che equivalgono a un metodo d’autosuggestione. Rimbaud si allenava all’allucinazione e riuscì ad averne (« Mi abituai all’allucinazione semplice: vedevo molto francamente una moschea al posto di un’officina.., un salone al fondo di un lago ». Une saison sa enfer. Alchimie du verbe, p. 70.). Gli studenti teosofi o antroposofi seguono la stessa via, non senza pericolo per la sanità mentale . – Infine, queste intuizioni sono incontrollabili e riguardano oggetti fuori dell’esperienza comune, e quindi, non temono smentite. Puoi dire tutto quello che vuoi dell’Atlantide e della sua civiltà, perché nessuno potrà mai andare a vedere. Questo significa che la certezza delle credenze teosofiche poggia sulle nuvole dell’immaginazione (Anche la mistica cristiana riconosce visioni sensibili o immaginative, che però è ben lungi dal porre al posto supremo: anzi, i dottori, e san Giovanni della Croce per primo, li guardano con occhio estremamente diffidente e mettono in guardia i devoti sulle illusioni che possano causare. Tanto più la Chiesa non fa riposare su di esse la certezza dei suoi dommi.).

CONCLUSIONE

La teosofia ebbe innegabili successi. Ora, ci si può chiedere come mai essa, così com’è, abbia potuto ingannare tante persone. È probabile che una parte del successo si possa attribuire al suo apparato scientifico. La teosofia non promulga dogmi da credere sulla sua parola, ma invita ciascuno a verificare personalmente le sue affermazioni, conforme al gusto di certezza positiva e sperimentale predominante ai nostri giorni (I), lusingando l’autonomia intellettuale di cui l’uomo moderno è così geloso. Eliminata ogni autorità spirituale, ciascuno elabora egli stesso il suo credo. – Tuttavia, crediamo che non sia questa la spiegazione principale. La nostra civiltà è molto sviluppata in senso pratico, utilitario, materiale, senza saziare, anzi irritando i bisogni spirituali dell’uomo e lasciando aperto un vuoto nelle anime. Che cosa potrà colmarlo? la fede cristiana? Ma questa, in molti, è scomparsa  o vacilla e, per un grande numero, se pure è ancora fede cristiana, si riduce ad un vago sentimentalismo diffuso su un fondo di estrema ignoranza religiosa. Perciò, si spiega come i nostri contemporanei accolgano facilmente tutte le dottrine che promettono di aprire una finestra sul mistero delle cose, sul divino, sull’aldilà, sui destini d’oltretomba. Ora, sappiamo quanto la teosofia sia generosa di simili promesse… Cattolici che conoscono solo alla superficie la loro religione nativa ed i tesori spirituali che essa racchiude, urtati dall’aspetto tutto esteriore e giuridico che essa riveste in certuni, desiderosi di trovare qualcosa di più profondo che non sanno definire, si lasciano affascinare dagl’inviti della teosofia senza preoccuparsi di esaminare i titoli, come il naufrago che si aggrappa al primo oggetto che trova, ma in realtà non sanno a che cosa si aggrappano. – Prima di tutto, molti ignorano le torbide origini del movimento teosofico, e per questo, malgrado il carattere ripugnante di certi particolari, noi seguendo il P. de Grandmaison, ci siamo creduti in dovere di far conoscere queste origini. La teosofia distribuisce programmi a prima vista inoffensivi e che inoltre stuzzicano la curiosità promettendo interessanti rivelazioni. Chi assiste alle adunanze o legge le opere teosofiche, ascolta bellissime declamazioni sull’ascensione delle anime, sulla necessità di disciplinare la propria vita, di domare i bassi istinti, ecc. D’altronde, questa propaganda di fronte ai credenti assicura che le loro convinzioni non saranno toccate e che potranno essere conservate immutate, e questo basta a rassicurarli. Ma c’è una questione preliminare che è bene trattare. Chi parla così? L’oratore, il teosofo scrittore, o almeno i primi iniziatori, i fondatori, i dottori, sui quali si basa, meritano fiducia? Un Leadbeater è qualificato per fare l’elogio della purezza? Una Blavatsky, una Besant sono qualificate per predicarci la sincerità e la rettitudine? Possono costoro essere considerati come inviati da Dio, con la missione di trasmettere i suoi messaggi e di guidarci a Lui?… Ma lo spirito critico dei nuovi adepti non arriva fino a questo punto. D’altronde, ai Cattolici vengono celati la qualità o i legami massonici dei dirigenti, né vengono posti in vista l’aperta ostilità delle due fondatrici contro la Chiesa, il disegno superbo di Steiner di fronte all’ortodossia. – Molti di coloro che si accostano alla teosofia o all’antroposofia non sanno proprio con chi trattano. –  Tuttavia, separiamo la dottrina dai suoi rappresentanti. Gli ampi orizzonti teosofici affascinano molti spiriti, che vengono invitati a varcare il cerchio ristretto dei loro abituali orizzonti per gettarsi nell’Infinito. Il panteismo appare grandioso, profondo, perfino poetico, specialmente quando è espresso nella bella lingua dei libri sacri dell’India, i cui estratti, scelti abilmente, costellano le pubblicazioni teosofiche. L’intelligenza, che ama riposare in qualcosa di completo, si trova davanti ad un sistema speculativo e insieme morale, ascetico, che si dice mistico; da parte sua, l’amor proprio è contento di poter superare il livello mentale dell’uomo volgare come pure quello dei semplici Cristiani docilmente sottomessi alla loro Chiesa, i quali, si pensa, non vanno oltre la lettera dei loro dommi; piace far parte di un circolo di « iniziati », depositari di profondi segreti, d’un’élite di « chiaroveggenti »… Né ci si ferma ad esaminare se l’essenza di ciò che si abbraccia non sia viziata da contraddizioni ed incoerenze. Molti spiriti, anche colti e perfino brillanti, non sono capaci di questa riflessione o sono troppo pigri per impegnarvisi. – Soprattutto, s’impongono le pretese « spirituali » della teosofia che non ha abbastanza anatemi per il materialismo contemporaneo, per la nostra civiltà meccanica ed industrializzata, per le basse aspirazioni dell’umanità media; si presenta come una scuola di alta spiritualità e di « mistica », e forse proprio per questo seduce le anime belle. Si, esse vengono realmente sedotte, poiché alla teosofia manca soprattutto il senso dello spirituale autentico. Lo spirito moderno aborrisce dall’astratto, che tuttavia rappresenta una vasta zona dell’immateriale, e si getta perdutamente sull’esperienza concreta, senza distinguere bene l’esperienza sensibile dall’altra. Siffatta confusione appare, per esempio. anche qua e là negli scritti di un Bergson. I teosofi, che sono spiriti molto meno raffinati, ci cascano in pieno e nel modo più grossolano, come abbiamo dimostrato altrove, a proposito di R. Steiner. – La confusione risalta crudamente nella Blavatsky, nella Besant e loro consorti. La teosofia afferma di ridurre tutto allo spirito e si dice « idealista », ma concepisce perfino lo spirito come una materia, e nell’identificazione di questi due principi, la fusione è a vantaggio della materia, poiché lo spirito, secondo la teosofia, in definitiva non è che materia più fine, più delicata e sortile, una specie di materia vaporizzata. Così i vari piani che s’incontrano durante le tappe dell’iniziazione sono tutti costituiti dalla materia la quale, a mano a mano che si sale, diventa soltanto meno pesante e meno « densa » (A. BESANT, La Sagesse Antique, pp. 171, 184, 208 e passim.). Anche i pensieri hanno colori vari e contorni lineari e forma materiale, tendono alla a perfezione geometrica », e sono realmente piccoli corpi proiettati all’esterno dal soggetto pensante, lanciati fuori come pallottole che talvolta rimbalzano e tornano a colpire il loro autore (Rimbalzano lungo la traiettoria già percorsa… per gettarsi sul loro creatore con una forza proporzionale a quella della loro proiezione – ivi, p. 1091). Tutto questo preteso « spirituale » è solo « vibrazione », proprio come la materia di certe teorie fisiche moderne. La vibrazione è il carattere universale della vita, da quella divina fino a quella latente dei minerali. Tutto è vibrazione » (A. Besant); la « ragione pura » è « costituita da vibrazioni » (La Sagesse Antique, p. 208); « l’energia del Logos creatore [è] un moto vorticoso incomparabilmente rapido [e che] buca lo spazio » ((ivi, p. 71. Per far vedere fino a che punto possa giungere la grossolanità della concezione trascriviamo ancora questo testo che tocca il burlesco e dove la metafisica più sublime della teosofia prende la forma di una illustrazione di embriologia: « Quando la Monade umana emerge dal seno del Logos, pare che un sottile filamento di luce, isolato da una guaina di sostanza buddica, si stacchi dal luminoso oceano dell’Atma. A questo filo è sospesa una scintilla circondata da un involucro ovoidale, ecc. » La Sagesse Antique, p. 260.). Pare basti questo per aprire gli occhi di chi pensa di trovare nella teosofia un mezzo per il progresso spirituale. Da questo e dagli altri punti di vista, chiunque cerchi di tirare i veli speciosi che coprono la teosofia troverà in essa soltanto il vuoto.

G. d. T. de Tonquédec.