TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (16) “da GREGORIO VIII ad INNOCENZO III”.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (16)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(da Gregorio VIII ad Innocenzo III)

GREGORIO VIII: 21 ottobre-17 dicembre 1187

CLEMENTE III: 19 dicembre 1187-marzo 1191

CELESTINO III: 30 marzo 1191-8 gennaio 1198

INNOCENZO III: 8 gennaio 1198-16 luglio 1216

Lettera “Cum apud sedem” all’Arcivescovo Umberto di Arles, 15  Luglio 1198

La forma sacramentale del matrimonio.

766. Ci hai chiesto se un muto e un sordo possano sposarsi. A ciò rispondiamo così alla tua fraternità: poiché ciò che è stabilito riguardo al matrimonio da contrarre è dell’ordine del divieto, cosicché chiunque non sia proibito può esservi ammesso, e poiché per il matrimonio è sufficiente il solo consenso di coloro la cui unione è in questione, risulta che se una tale persona desidera contrarre matrimonio, questo può e non deve essergli rifiutato, poiché ciò che non può dichiarare con le parole, può farlo con i segni.

Lettera “Sicut universitatis” al console Acerbus di Firenze, 30 ottobre 1198.

Il duplice potere supremo sulla terra

767. Come Dio, Creatore dell’universo, ha posto nel firmamento del cielo due grandi luminari, il maggiore per presiedere al giorno, il minore per presiedere alla notte, così ha posto nel firmamento della Chiesa universale, che si chiama cielo, due grandi dignità: la maggiore, per presiedere alle anime come nel giorno, e la minore per presiedere ai corpi come nella notte, e queste sono l’Autorità pontificia ed il potere regale. Inoltre, come la luna riceve la luce del sole, ed in verità è più piccola del sole sia per grandezza che per qualità, sia per situazione che per effetto, così anche il potere regale riceve dall’Autorità pontificia lo splendore della sua dignità; più si sforza di guardarla, più si adorna di una grande luce, e più allontana lo sguardo da essa, più perde il suo splendore.

Lettera “Quanto te magis” al Vescovo Ugo di Ferrara, 1 maggio 1199.

1 maggio 1199.

Il vincolo matrimoniale ed il privilegio paolino

768. La vostra fraternità ci ha informato nella sua lettera che uno dei coniugi che passano all’eresia, quello che viene abbandonato, desidera contrarre un secondo matrimonio e procreare dei figli; e avete ritenuto necessario chiederci nella vostra lettera se questo possa essere fatto a ragion veduta. In risposta alla sua domanda, e su consiglio comune dei nostri fratelli, distinguiamo due casi.  – Anche se uno dei nostri predecessori (Celestino III) sembra averla pensata diversamente: quella di due infedeli, uno dei quali si converte alla fede cattolica, e quella di due fedeli, uno dei quali cade nell’eresia o nell’errore degli infedeli. Infatti, se uno dei coniugi infedeli si converte alla fede cattolica mentre l’altro non vuole in alcun modo convivere con lui, almeno non senza bestemmiare il nome di Dio o incitarlo al peccato mortale, colui che viene abbandonato contrarrà un secondo matrimonio se lo desidera; ed è in base a questo caso che comprendiamo ciò che dice l’Apostolo: “Se l’infedele vuole separarsi, si separi; il fratello o la sorella non hanno alcun obbligo in questo caso” (1Cor VII, 15); e così pure il canone che dice: “L’ingiuria al Creatore rompe il vincolo matrimoniale di colui che è abbandonato”.

769. Ma se uno dei coniugi credenti cade nell’eresia o passa nell’errore del paganesimo, non pensiamo che in questo caso colui che è abbandonato possa contrarre un secondo matrimonio finché l’altro vive, anche se ovviamente in questo caso si fa un’offesa maggiore al Creatore. Infatti, anche se c’è indubbiamente un vero matrimonio tra due non credenti, esso non è sigillato; ma tra credenti è indubbiamente vero e sigillato: perché il Sacramento della fede (il Battesimo), una volta conferito, non si perde mai, e sigilla il Sacramento del matrimonio in modo tale da perdurare negli sposi finché il primo rimane.

Lettera “Cum ex iniuncto” agli abitanti di Metz, 12 luglio 1199.

La necessità del Magistero della Chiesa per l’interpretazione delle Scritture delle Scritture.

770. Il nostro venerabile fratello, il Vescovo di Metz, ci ha informato nella sua lettera che sia nella diocesi che nella città di Metz un numero abbastanza grande di laici e di donne, attratti in qualche modo dal desiderio di conoscere le Scritture, hanno fatto tradurre in francese i Vangeli, le epistole di Paolo, il Salterio, i Moralia su Giobbe e diversi altri libri;… (ne è risultato) che nelle riunioni segrete i laici e le donne osano ruttare tra loro e predicarsi l’un l’altro, e disprezzano anche la compagnia di coloro che non si mescolano in queste cose… Alcuni di loro disprezzano anche la semplicità dei loro Sacerdoti e, quando la parola di salvezza viene loro offerta da questi ultimi, mormorano segretamente di averla meglio nei loro scritti e di saperla esprimere con maggiore saggezza. Anche se il desiderio di comprendere le Scritture divine e il desiderio di esortare in accordo con esse non sia da biasimare, ma al contrario sia da lodare, queste persone meritano tuttavia di essere biasimate perché tengono segreti i loro conventi, si arrogano l’ufficio della predicazione, si fanno beffe della semplicità dei Sacerdoti e disdegnano la compagnia di coloro che non si attaccano a tali pratiche. Dio, infatti, […] odia così tanto le opere delle tenebre che ordinò e disse (agli Apostoli): “Quello che vi dico nelle tenebre, ditelo all’aperto; quello che udite nel cavo delle vostre orecchie, proclamatelo dai tetti delle case”, (Mt X,27). Con ciò Egli chiarisce che la predicazione del Vangelo va offerta non in conventicole segrete, come fanno gli eretici, ma pubblicamente nella Chiesa, secondo l’uso cattolico. …

771. Ma i misteri nascosti della fede non devono essere esposti ovunque a tutti, perché non possono essere compresi da tutti, ma solo a coloro che possono afferrarli con mente credente; per questo l’Apostolo dice ai semplici: “Come a piccoli bambini in Cristo, vi ho fatto bere latte, non cibo solido” 1 Cor III, 2 … Infatti, la profondità della Sacra Scrittura è tale che non solo i semplici e i non istruiti, ma anche i sapienti e i dotti non sono in grado di scrutarne appieno il significato. Per questo la Scrittura dice: “Molti di coloro che cercano hanno fallito nella loro ricerca”. (Sal LXIII, 7) La legge divina dell’antichità stabiliva giustamente che una bestia che avesse toccato il monte (Sinai) sarebbe stato lapidato, per cui nessun uomo semplice o non istruito dovrebbe presumere di toccare la sublimità della Sacra Scrittura o di predicarla ad altri. Infatti, è scritto: “Non cercate ciò che è troppo alto per voi”, Sir. III, 22. Per questo l’Apostolo dice: “Non cercate più di quanto dovete cercare, ma cercate la sobrietà”, (Rm XII,3). Infatti, come il corpo ha molte membra, ma non tutte le membra hanno la stessa attività, così la Chiesa ha molti stati, ma non tutti hanno lo stesso ufficio, perché, secondo l’Apostolo, “il Signore ha dato ad alcuni degli Apostoli, ad altri dei profeti, ad altri ancora dei maestri, ecc.”, (Ef. IV, 11). Ora, lo stato di dottore è, in un certo senso, il principale nella Chiesa, e per questo nessuno deve arrogarsi l’ufficio della predicazione in modo indiscriminato.

Costituzione “Licet perfidia Judæorum“, 15 settembre 1199.

Tolleranza verso chi ha una fede diversa.

772. Sebbene l’incredulità dei Giudei debba essere rimproverata in molti modi, tuttavia, poiché attraverso di loro, la nostra fede è confermata nella verità, essi non devono essere oppressi pesantemente dai fedeli… Come non si deve permettere ai Giudei, nelle loro sinagoghe, di presumere qualcosa al di là di ciò che sia permesso dalla Legge, così non si deve pregiudicare ciò che sia permesso loro. Pertanto, anche se preferiscono rimanere nel loro indurimento piuttosto che conoscere le predizioni dei Profeti e i misteri della Legge, e giungere alla conoscenza della fede cristiana, poiché chiedono l’aiuto della nostra difesa, spinti dall’indulgenza della pietà cristiana, Noi seguiamo le orme dei nostri predecessori di felice memoria, Callisto (II), Eugenio (III), Alessandro (III), Clemente (III) e Celestino (III). Accettiamo la loro richiesta e concediamo loro lo scudo della nostra protezione.

773. Infatti, Noi ordiniamo che nessun Cristiano sia costretto con la forza a venire al Battesimo controvoglia o contro la sua volontà; ma se qualcuno di loro viene liberamente a rifugiarsi nella fede cristiana, dopo che la sua volontà sia stata messa alla prova, che diventi Cristiano senza nessuna offesa. Non si creda infatti che nessuno abbia la vera fede del Cristianesimo se si sa che sia arrivato al Battesimo cristiano non spontaneamente, ma contro la sua volontà. Né si permetta a nessun Cristiano di ferire le loro persone senza scrupolo, se non per giudizio del signore del luogo, o di sottrarre loro i beni con la forza, o di alterare i buoni costumi che sono stati finora i loro nella regione che abitano. Inoltre, nessuno li disturbi in alcun modo con bastoni o pietre durante la celebrazione delle loro feste, e nessuno cerchi di esigere da loro servizi non dovuti o di obbligarli a farli, se non quelli che essi stessi erano abituati a rendere in passato. Inoltre, per contrastare la depravazione e l’avidità degli uomini malvagi, decretiamo che nessuno abbia l’ardire di violare un cimitero ebraico, o di disprezzarlo, o di disseppellire corpi già sepolti per trovare denaro… (Chi viola questo decreto viene scomunicato). Tuttavia, vogliamo che godano di questa protezione solo coloro che non si lasciano coinvolgere in macchinazioni per sovvertire la fede cristiana.

Lettera “Apostolicae Sedis primatus” al Patriarca di Costantinopoli, 12 novembre 1199.

La preminenza della Sede romana.

774. Il primato della Sede Apostolica, stabilito non dagli uomini ma da Dio, e ancor più giustamente dal Dio-Uomo, è confermato in verità da numerose testimonianze sia dei Vangeli che degli Apostoli, da cui sono poi scaturite le disposizioni canoniche che affermano unanimemente che la santissima Chiesa consacrata nel beato Pietro, il principe degli Apostoli, abbia la preminenza sulle altre come loro maestra e madre. È lui infatti… che ha meritato di sentirsi dire: “Tu sei Pietro… Ti darò le chiavi del regno dei cieli” (Mt. XVI, 18ss). Infatti, sebbene il primo e principale fondamento della Chiesa sia l’unigenito Figlio di Dio Gesù Cristo, secondo quanto dice l’Apostolo: “Poiché è stato posto un fondamento, all’infuori del quale non se ne possono porre altri, ed è Cristo Gesù” (1Cor III, 11), Pietro è tuttavia il secondo fondamento della Chiesa e viene per secondo, e se non è nemmeno il primo nel tempo, per la sua autorità, ha tuttavia la preminenza tra gli altri di cui l’Apostolo Paolo dice: “Non siete più stranieri e forestieri, ma siete concittadini dei santi e della casa di Dio, edificati sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti” (Ef. II, 20). .. Il suo primato, la Verità stessa lo ha espresso anche da Sé quando ha detto: “Sarai chiamato Cefa” Gv I, 42: anche se questo viene tradotto con “Pietro”, egli viene comunque presentato come il “capo”, in modo che, come il capo ha la preminenza tra le altre membra del corpo, poiché in esso vive la pienezza dei sensi, così anche Pietro eccelle tra gli Apostoli per l’eminenza della sua dignità, ed i suoi successori tra tutti coloro che presiedono le chiese, mentre tutti gli altri sono chiamati a condividere la cura, affinché non perdano nulla della pienezza del loro potere. È a lui che il Signore ha affidato la cura di pascere le sue pecore con una parola ripetuta tre volte, in modo che sia considerato estraneo al gregge del Signore chi non vuole averlo anche come pastore nei suoi successori. Non fece distinzione tra queste e le altre pecore, ma disse semplicemente: “Pasci le mie pecore” (Gv XXI, 17), in modo che si capisse che tutte le pecore erano assolutamente affidate a lui. In Gv XXI, 7 è spiegato allegoricamente: poiché il mare denota il mondo (Sal. CIII, 25) … con il fatto che si gettasse in mare, Pietro manifestò il privilegio del singolare potere del Pontefice, con il quale aveva assunto il governo dell’intero universo, mentre gli altri Apostoli erano come contenuti in una nave, poiché a nessuno di loro era stato affidato l’intero universo, ma a ciascuno erano state assegnate province particolari, o meglio chiese particolari. …(Un’analoga prova allegorica si ricava da Mt. XIV, 28-31 dal fatto che Pietro camminasse sulle acque del mare, mostrando di aver ricevuto potere su tutti i popoli).

775. Che abbia pregato per lui, il Signore lo riconosce quando dice al momento della Passione: “Ho pregato per te, Pietro, perché la tua fede non venga meno. E tu, quando ti sarai convertito, rafforza i tuoi fratelli” (Lc. XXII, 32); con questo intendeva chiaramente che i suoi successori non si sarebbero mai allontanati dalla fede cattolica, ma piuttosto che avrebbero richiamato gli altri ad essa ed anche che avrebbero confermato quelli che vacillavano, e gli concesse il potere di confermare gli altri per il fatto che impone agli altri la necessità dell’obbedienza. … Gli disse anche… come avete letto: “Tutto ciò che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo” (Mt XVI, 19). Ma se trovate che questo fu detto contemporaneamente a tutti gli Apostoli, non fu detto agli altri senza di lui: ma riconoscerete che a lui fu dato dal Signore, senza gli altri, il potere di legare e di sciogliere, cosicché ciò che gli altri non possono fare senza di lui, egli stesso, per il privilegio che gli fu trasmesso dal Signore e per la pienezza di potere che gli fu concessa, può farlo senza gli altri. … (Pietro) vide aprirsi il cielo e scendere un vaso, come un grande telo steso dal cielo alla terra, trattenuto ai quattro angoli e contenente tutti i quadrupedi e i serpenti della terra e tutti gli uccelli del cielo (Atti X: 9-12) … E una voce gli disse per la prima volta: “Ciò che Dio ha reso mondo, non chiamarlo impuro”. “Questo indica chiaramente che Pietro fosse messo a capo di tutti i popoli, poiché questo recipiente significa l’universo e tutto ciò che vi è contenuto, l’insieme delle nazioni, sia Giudei che Gentili.

Lettera Ex parte tua, al Vescovo di Modena, 1200.

La forma sacramentale del matrimonio.

776. Desideriamo che per i futuri matrimoni si osservi quanto segue: se, dopo che c’è stato il consenso “de præsenti” tra persone legittime – che in questi casi è sufficiente secondo le determinazioni canoniche; e se questo solo manca, anche nel caso in cui sia stato ottenuto con l’unione carnale, tutto il resto è vano – le persone legittimamente unite contraggono successivamente un contratto de facto con altri, ciò che è stato fatto in precedenza secondo il diritto non può essere reso nullo.

Lettera “Gaudeamus in Domino” al Vescovo di Tiberiade, all’inizio del 1201.

Matrimoni dei gentili ed il privilegio paolino.

777. Se i gentili che sposano donne imparentate con loro in secondo, terzo o altro grado, essendo così imparentati, debbano rimanere insieme dopo la loro conversione, o se debbano essere separati: questa è la questione sulla quale chiedete di essere informati da uno scritto apostolico. A questo proposito diamo alla vostra fraternità la seguente risposta: poiché il Sacramento del matrimonio esiste per i fedeli e per gli infedeli, come dimostra l’Apostolo quando dice: “Se un fratello ha una moglie infedele ed essa accetta di vivere con lui, non la metta da parte” (1Cor VII, 12); e poiché nei suddetti gradi di parentela il matrimonio è stato contratto lecitamente da infedeli che non sono vincolati dalle determinazioni canoniche (cosa importa a noi, secondo lo stesso Apostolo, giudicare coloro che sono all’esterno? (1 Cor V, 12): per questo motivo, e soprattutto per favorire la Religione e la fede cristiana, che gli uomini potrebbero facilmente essere dissuasi dall’abbracciare le donne, se temessero di essere ripudiati, i fedeli che sono legati in matrimonio in questo modo, possono rimanere lecitamente e liberamente uniti, poiché il sacramento del Battesimo non scioglie i matrimoni, ma toglie i peccati.

778. Ma poiché i pagani dividono l’affetto coniugale tra più mogli contemporaneamente, non è senza ragione che ci si chiede se, dopo la conversione, possano tenerle tutte o quali. Ma questo sembra essere contrario ed ostile alla fede cristiana, poiché fin dall’inizio una costola è stata trasformata in una donna, e la divina Scrittura testimonia che “per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una sola carne” Ef V, 3 – Gen II,24 Mt XIX,5); non dice “tre o più” ma “due”; né dice “si unirà alle donne” ma “alla donna”. E non è mai stato lecito per nessun uomo avere più di una moglie contemporaneamente, a meno che questo non gli sia stato concesso da una rivelazione divina, a volte considerata come una consuetudine, a volte addirittura come un diritto, in base al quale, come Giacobbe è stato esonerato dall’inganno, gli Israeliti dalla rapina e Sansone dall’omicidio, così anche i patriarchi e gli altri uomini giusti, che, come leggiamo, avevano più di una moglie, sono esonerati dall’adulterio. Ma questa concezione è dimostrata pienamente vera anche dalla testimonianza della Verità, che nel Vangelo attesta: “Se uno lascia la propria moglie, se non per fornicazione, e ne sposa un’altra, è un adultero” (Mt XIX, 9; cfr. Mc X, 11). Se, dunque, quando una donna è stata allontanata, la legge le impedisce di sposare un altro, a maggior ragione lo impedisce se è stata mantenuta; da ciò si evince che per entrambi i sessi – poiché non sono considerati in modo diverso – la pluralità nel matrimonio è da riprovare.

779. Ma se un uomo ha ripudiato la sua legittima moglie secondo il suo rito, poiché la Verità ha rimproverato tale ripudio nel Vangelo, non ne potrà mai avere legittimamente un’altra durante la sua vita, anche se si converte alla fede in Cristo, a meno che lei non rifiuti di convivere con lui dopo la conversione, o se acconsente a farlo, ma non senza bestemmiare il Creatore o incitarlo al peccato mortale. In questo caso, a colui che chiede la restituzione dei suoi diritti, anche se si stabilisce che c’è stata una spoliazione ingiusta, tale restituzione sarà rifiutata. Infatti, secondo l’Apostolo, il fratello o la sorella non hanno alcun obbligo in questo caso (1Co VII, 15). Ma se uno si converte alla fede e lei lo segue, essendosi anch’essa convertita, prima che egli abbia preso una moglie legittima, per i motivi suddetti, deve essere obbligato a riprenderla. È vero che, secondo la verità del Vangelo, chi sposa una donna ripudiata commette adulterio (Mt XIX,9), ma colui che ha ripudiato non può rimproverare la donna ripudiata di fornicazione perché, dopo il ripudio, ha sposato un altro, a meno che non abbia fornicato altrove.

Lettera “Maiores Ecclesiæ causas” all’Arcivescovo Humbert di Arles, fine 1201

L’effetto del Battesimo, in particolare il carattere.

780. … Affermano infatti che il Battesimo viene conferito ai bambini piccoli in modo inutile. … Noi rispondiamo che il Battesimo è succeduto alla circoncisione. … Perciò, come l’anima dell’uomo circonciso non fu tagliata fuori dal suo popolo (Gen. XVII: 14), così chi rinasce dall’acqua e dallo Spirito Santo otterrà l’ingresso nel regno dei cieli (Gv. III: 5). Sebbene con il mistero della circoncisione sia stato perdonato il peccato originale e sia stato eliminato il pericolo della condanna, non si è raggiunto il Regno dei Cieli, che è rimasto chiuso a tutti fino alla morte di Cristo; ma con il Sacramento del Battesimo arrossato dal sangue di Cristo, il peccato è perdonato e si raggiunge anche il Regno dei Cieli, la cui porta il sangue di Cristo ha misericordiosamente aperto ai suoi fedeli. Non si può infatti accettare che tutti i piccoli bambini, di cui tanti muoiono ogni giorno, periscano senza che il Dio della misericordia, che vuole che nessuno perisca, abbia previsto un mezzo di salvezza anche per loro… Quello che dicono gli avversari, cioè che la fede o la carità o le altre virtù non vengono infuse nei bambini piccoli perché non danno il loro consenso, non è ammesso dai più in senso assoluto… Altri affermano che per la virtù del Battesimo la colpa venga loro perdonata, ma che la grazia non venga loro conferita; alcuni, invece, dicono che il peccato venga loro perdonato e che le virtù siano infuse in loro, che le hanno, comunque, (v. 904) ma che non ne abbiano l’uso fino all’età adulta… Noi diciamo: è necessario distinguere che c’è un doppio peccato: quello originale e quello attuale, quello originale che si contrae senza consenso e quello attuale che si commette con il consenso. L’originale, quindi, che è contratto senza consenso, è rimesso senza consenso in virtù del Sacramento; ma l’attuale, che è contratto con consenso, non è affatto rimesso senza consenso… La pena del peccato originale è la privazione della visione di Dio, ma la pena del peccato attuale è il tormento della  gehenna eterna….

781. È contrario alla Religione cristiana che chi la rifiuti permanentemente e si opponga costantemente ad essa sia costretto ad accettare ed osservare il Cristianesimo. Per questo motivo altri distinguono, non senza ragione, tra volontà contraria e volontà contraria, e tra costretto ed obbligato, poiché colui che, portato con la forza, attraverso il terrore e la tortura, riceve il sacramento del Battesimo per evitare questi danni, così come colui che accede al Battesimo in malafede, riceve l’impronta del carattere cristiano, e, in quanto consenziente in modo condizionato, e anche se non consenziente in modo assoluto, deve essere obbligato ad osservare la fede cristiana…. Ma chi non ha mai acconsentito e si è sempre opposto, non riceve né la realtà né il carattere del Sacramento, perché contraddire espressamente è più che non acconsentire affatto; né incorre in alcuna colpa chi, pur contraddicendo e opponendosi costantemente, sia costretto con la violenza a sacrificare agli idoli. Per quanto riguarda coloro che dormono [comatosi – ndt.] e coloro che non hanno l’uso della ragione, se prima di perdere la ragione o di addormentarsi [cadere comatosi – ndt. -] persistono nell’opporsi, poiché è evidente che per loro la decisione di opporsi sia duratura, anche se fossero battezzati in questo stato, non ricevono il carattere del Sacramento; sarebbe altrimenti se fossero stati precedentemente catecumeni e avessero avuto l’intenzione di essere battezzati; per questo motivo la Chiesa è solita battezzarli in caso di necessità. Allora l’atto sacramentale imprime il carattere, poiché non incontra l’ostacolo posto dalla resistenza di una volontà contraria.

Lettera “Cum Marthæ circa” all’Arcivescovo Giovanni di Lione,  29 novembre 1202.

La forma sacramentale dell’Eucaristia.

782. Hai chiesto infatti chi, riguardo alla forma delle parole che Cristo stesso ha espresso quando ha transustanziato il pane e il vino nel suo corpo e nel suo sangue, ha aggiunto questa parola nel canone della Messa che tutta la Chiesa usa, e che nessuno degli evangelisti ha espresso, come leggiamo. … Nel canone della Messa questa parola, cioè ‘mistero della fede’, è effettivamente inserita in queste parole. … Certamente vediamo molte cose, sia parole che fatti del Signore, che sono stati omessi dagli Evangelisti e che, come possiamo leggere, gli Apostoli hanno completato oralmente o espresso con la loro azione. … Ora, in questa parola che ha spinto la vostra fraternità a porre la domanda, cioè “mistero della fede“, alcuni hanno pensato di trovare un sostegno ad un errore, dicendo che nel Sacramento dell’altare non è realmente presente la verità del corpo e del sangue di Cristo, ma solo un’immagine, un’apparenza ed una figura, e questo perché la Scrittura indica talvolta che ciò che si riceve sull’altare sia un Sacramento, un mistero ed un esempio. Ma questi sono presi nei lacci dell’errore perché non comprendono correttamente l’autorità della Scrittura e non ricevono con riverenza i Sacramenti di Dio, poiché ignorano sia la Scrittura sia la potenza di Dio (Mt XXII, 29) …  Tuttavia, diciamo “mistero della fede” perché si crede qualcosa di diverso da ciò che si vede e si vede qualcosa di diverso da ciò che si crede. Infatti, si vedono le specie del pane e del vino e si crede alla verità della carne e del sangue di Cristo, nonché alla virtù dell’unità e della carità.

Gli elementi dell’Eucaristia.

783. In questo Ssacramento, tuttavia, bisogna distinguere con cura tre cose: la forma visibile, la verità del corpo e la virtù spirituale. La forma è quella del pane e del vino, la verità quella della carne e del sangue, la virtù quella dell’unità e della carità. Il primo è “Sacramento e non realtà”, il secondo è “Sacramento e realtà”, il terzo è “realtà e non Sacramento”. Ma il primo è il Sacramento di una doppia realtà; il secondo è il Sacramento dell’uno e la realtà dell’altro; il terzo è la realtà di un doppio Sacramento. Crediamo, quindi, che la forma delle parole come si trova nel canone sia stata ricevuta dagli Apostoli da Cristo, e dai loro successori da loro…

L’acqua si mescola al vino nel sacrificio della Messa.

784. Avete anche chiesto se l’acqua insieme al vino si trasforma in sangue. Su questo argomento le opinioni variano tra gli scolastici. Alcuni infatti pensano che, poiché dal costato di Cristo sono fluiti i due principali sacramenti, quello della redenzione nel sangue e quello della rigenerazione nell’acqua, il vino e l’acqua che si mescolano nel calice si trasformano in questi due per virtù divina… Altri, invece, ritengono che l’acqua sia transustanziata in sangue con il vino, poiché mescolata al vino diventa vino… Inoltre, si può dire che l’acqua non diventa vino, ma rimane circondata dagli accidenti del vino precedente… Ma è empio pensare ciò che alcuni hanno avuto la presunzione di pensare, cioè che l’acqua si trasforma in muco… Tuttavia, tra le opinioni sopra citate, si ritiene più probabile quella che afferma che l’acqua si trasforma in sangue con il vino [v. 798].

Lettera “Cum venisset” all’Arcivescovo Basilio di Tarnovo (Bulgaria), 25 febbraio

Il ministro della Cresima.

785. Per crismazione della fronte si intende l’imposizione delle mani, che è anche chiamata Cresima, perché con essa viene dato lo Spirito Santo per la crescita e la forza. Pertanto, mentre il semplice Sacerdote, o presbitero, può compiere altre unzioni, questa non deve essere conferita se non dal sommo Sacerdote, cioè dal Vescovo, perché solo degli Apostoli, di cui i Vescovi sono vicari, si dice che conferiscano lo Spirito Santo con l’imposizione delle mani, (At. VIII,14-25).

Lettera “Ex parte tua” all’Arcivescovo Andrea di Lund, 12 gennaio 1206.

Lo scioglimento di un matrimonio valido per professione religiosa

786. Non vogliamo deviare bruscamente in questa materia dai passi dei nostri predecessori, i quali, consultati, risposero che prima della consumazione di un matrimonio per unione carnale è lecito che l’altro coniuge – anche senza consultarlo – entri in Religione, in modo che colui che rimane possa poi unirsi legittimamente ad un altro: per questo motivo vi consigliamo di osservare proprio questo.

Lettera “Non ut apponeres” all’Arcivescovo Thorias di Trondheim (Norvegia)

La questione del Battesimo

787. Avete chiesto se sia giusto considerare Cristiani quei bambini che, trovandosi in punto di morte e per mancanza di acqua e in assenza di un Sacerdote, sono stati strofinati con spruzzi di saliva sulla testa e sul petto e tra le spalle a titolo di Battesimo, a causa dell’ingenuità di alcuni. Rispondiamo che, poiché nel Battesimo siano sempre richieste due cose, cioè “la parola e l’elemento”, secondo quanto dice la Verità a proposito della parola: “Andate in tutto il mondo e battezzate tutte le nazioni nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mc. XVI, 15 Mt. XXVIII,19), e secondo quanto dice la stessa Verità a proposito dell’elemento: “Chi non nasce dall’acqua e dallo Spirito Santo non entrerà nel regno dei cieli” (Gv. III, 5), non si può dubitare che non abbiano un vero Battesimo non solo coloro in cui le due cose siano omesse, ma anche coloro in cui una di esse sia omessa.

Lettera “Debitum officii pontificalis” al vescovo Bertold (Bertrand) di Metz, 2

Il ministro del Battesimo e il Battesimo di desiderio.

788. Nella tua lettera mi hai informato molto saggiamente che un giudeo in punto di morte, e poiché viveva solo tra Giudei, si immerse nell’acqua dicendo: “Mi battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Ora mi chiedi se questo giudeo, che persevera nella fede cristiana, debba essere battezzato. Per quanto ci riguarda, rispondiamo alla vostra fratellanza in questo modo: poiché ci deve essere una distinzione tra colui che battezza e colui che è battezzato, come risulta dalle parole del Signore agli Apostoli: “Battezzate tutte le nazioni nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt. XXVIII,19), il giudeo in questione deve essere battezzato di nuovo da un altro, in modo che sembri che altro sia colui che battezza ed altro colui che sia battezzato… Tuttavia, se fosse morto immediatamente, sarebbe rientrato subito in patria a causa della sua fede nel Sacramento, anche se non fosse stato a causa del Sacramento della fede.

Lettera “De homine qui” ai dirigenti della Fraternità Romana, 22 settembre 1208.

Celebrazione simulata della Messa.

789. Ci avete chiesto, infatti, cosa ci sembri di un presbitero imprudente che, sapendo di essere in stato di peccato mortale e consapevole della sua colpa, esiti a celebrare le solennità della Messa, che per qualche motivo non può omettere… dopo aver compiuto tutte le altre cerimonie, finge di celebrare la Messa e, avendo soppresso le parole con cui si realizza il Corpo di Cristo, consuma solo pane e vino…. Poiché, dunque, i falsi rimedi siano da respingere in quanto più gravi dei veri pericoli: Sebbene colui che si ritenga indegno, perché consapevole della sua colpa, debba astenersi con riverenza da questo Sacramento, e quindi pecchi gravemente se si accosti ad esso senza riverenza, non c’è dubbio che sembra commettere una colpa ancora più grave chi osi simularlo in modo ingannevole. Infatti il primo, che evita la colpa commettendola, cade nelle mani della sola misericordia di Dio, mentre il secondo, che commette la colpa evitandola, è colpevole non solo nei confronti di Dio, di cui non teme di farsi beffe, ma anche nei confronti del popolo che inganna.

Lettera “Eius exemplo” all’Arcivescovo di Tarragona, 18 dicembre 1208.

La professione di fede prescritta ai Valdesi.

790. Sappiano tutti i credenti che io, Durant de Osca… e tutti i nostri fratelli, crediamo con il cuore, riconosciamo con la fede, confessiamo con la bocca e affermiamo con queste semplici parole: Il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo sono tre Persone, un solo Dio, e l’intera Trinità è coessenziale, consustanziale, coeterna e onnipotente, e ognuna delle Persone della Trinità è pienamente Dio, come è contenuto nell’ “Io credo in Dio” (Symb.  Apost. 30 – Symb. Costant.150 – Quicumque 75). Crediamo anche con il cuore e confessiamo con la bocca che il Padre ed il Figlio e lo Spirito Santo, un unico Dio di cui parliamo, abbia creato, fatto, governi e ordini tutte le cose corporee e spirituali, visibili ed invisibili. Crediamo che l’Autore del Nuovo e dell’Antico Testamento sia uno solo Dio: che, come è detto, dimorando nella Trinità, ha creato dal nulla tutte le cose; e che da Lui sia stato mandato Giovanni Battista, santo e giusto, riempito di Spirito Santo nel grembo di sua madre.

791. Crediamo con il cuore e confessiamo con la bocca che l’Incarnazione non fu

del Padre né dello Spirito Santo, ma solo del Figlio; così che Colui che era nella divinità il Figlio di Dio Padre, fu nell’umanità il Figlio dell’uomo, vero uomo dalla madre, avendo vera carne dal seno materno e un’anima umana ragionevole; allo stesso tempo delle due nature, cioè Dio e uomo, una sola Persona, un solo Figlio, un solo Cristo, un solo Dio con il Padre e lo Spirito Santo, Autore di tutto e dominatore di tutti, nato dalla Vergine Maria da un parto di vera carne; ha mangiato e bevuto, ha dormito e, stanco dopo il viaggio, si è riposato; ha sofferto una vera Passione della sua carne, è morto di una vera morte del suo corpo ed è risorto da una vera Risurrezione della sua carne e da un vero ritorno dell’anima nel corpo; in questa carne, dopo aver mangiato e bevuto, è salito al cielo, siede alla destra del Padre e verrà in esso per giudicare i vivi e i morti.

792. Crediamo con il cuore e confessiamo con la bocca una sola Chiesa, non quella degli eretici, ma la santa Chiesa romana, cattolica ed apostolica, al di fuori della quale crediamo che nessuno si salvi.

793. Non rifiutiamo neppure in alcun modo i Sacramenti che in essa si celebrano e ai quali lo Spirito Santo collabora con la sua inestimabile ed invisibile virtù, anche se sono amministrati da un Sacerdote peccatore, purché la Chiesa lo riconosca; Né disprezziamo gli atti e le benedizioni ecclesiastiche da lui compiuti, ma li accettiamo con animo benevolo come se provenissero dal più giusto degli uomini, poiché la malizia di un Vescovo o di un Sacerdote non danneggia il Battesimo di un bambino, la consacrazione dell’Eucaristia o altri uffici ecclesiastici celebrati per i loro sudditi.

794. Approviamo quindi il Battesimo dei neonati e, se sono morti dopo il Battesimo, prima di aver commesso peccati, confessiamo e crediamo che siano salvi; e crediamo che nel Battesimo tutti i peccati siano rimessi, sia il peccato originale che è stato contratto, sia quelli che sono stati commessi volontariamente. Riteniamo che la Cresima fatta dal Vescovo, cioè l’imposizione delle mani, sia santa e vada ricevuta con riverenza.

795. Crediamo fermamente e incrollabilmente con cuore sincero, e affermiamo semplicemente con parole piene di fede, che il Sacrificio, cioè il pane e il vino, sia, dopo la Consacrazione, il vero Corpo ed il vero Sangue di nostro Signore Gesù Cristo, e che in esso non si compia nulla di più da parte di un buon Sacerdote e nulla di meno da parte di un cattivo Sacerdote, poiché non si compie per merito di colui che consacra, ma per la parola del Creatore e la virtù dello Spirito Santo. Perciò crediamo e confessiamo fermamente che nessuno, per quanto onesto, religioso, santo e prudente, possa o debba consacrare l’Eucaristia o compiere il Sacrificio dell’altare se non sia Sacerdote e se non sia stato regolarmente ordinato da un Vescovo visibile e tangibile. Per questo ufficio, a nostro avviso, sono necessarie tre cose: una persona definita, cioè un Sacerdote appositamente istituito per questo ufficio dal Vescovo, come abbiamo detto; quelle parole solenni che sono espresse dai santi Padri nel canone; e l’intenzione di fede di colui che le pronuncia. Perciò crediamo e confessiamo fermamente che chiunque, senza l’ordinazione da parte del Vescovo, come abbiamo detto, creda e pretenda di essere in grado di compiere il Sacrificio dell’Eucaristia, sia un eretico; partecipi e abbia una parte nella perdizione di Korah e dei suoi complici (Numeri XVI), e debba essere separato dalla santa Chiesa romana. Crediamo che il perdono sia concesso da Dio ai peccatori che si pentono veramente, ed è con grande gioia che siamo in comunione con loro. Veneriamo l’unzione degli infermi con l’olio. Non neghiamo che i matrimoni carnali debbano essere contratti, secondo l’Apostolo (1 Cor VII), e proibiamo assolutamente la rottura di quelli regolarmente contratti. Crediamo e confessiamo che un uomo possa essere salvato anche con la propria moglie, né condanniamo il secondo matrimonio o altri matrimoni. Non condanniamo in alcun modo il consumo di carne. Non condanniamo il giuramento; anzi, crediamo con cuore sincero che sia lecito giurare secondo verità, giudizio e giustizia. (Aggiunta del 1210: Per quanto riguarda il potere secolare, affermiamo che esso può, senza peccato mortale, esercitare un giudizio che comporti spargimento di sangue, purché, nell’esercitare la vendetta, non proceda con odio ma con giudizio, né con imprudenza ma con moderazione).

796. Riteniamo che la predicazione sia molto necessaria e lodevole, ma crediamo che debba essere fatta in virtù dell’autorità o con il permesso del Sommo Pontefice o dei prelati. Ma in tutti i luoghi dove ci siano eretici manifesti che negano e bestemmiano Dio e la fede della Chiesa romana, crediamo che dobbiamo, secondo la volontà di Dio, confonderli con argomenti ed esortazioni, e opporci a loro con la Parola del Signore, con la fronte alta e fino alla morte, come avversari di Cristo e della Chiesa. Le ordinazioni ecclesiastiche e tutto ciò che venga letto o cantato secondo quanto stabilito, lo approviamo con umiltà e lo veneriamo nella fede.

797. Crediamo che il diavolo non sia diventato cattivo per la sua condizione, ma per il suo libero arbitrio. Crediamo e confessiamo con tutto il cuore la risurrezione di questa carne che è nostra e non di un altro. Crediamo e affermiamo fermamente che ci sarà anche un giudizio attraverso Gesù Cristo e che ognuno di noi sarà giudicato dal Signore, secondo ciò che ha fatto in questa carne, e riceverà il castigo o la ricompensa. Crediamo che l’elemosina, il Sacrificio ed altri benefici possano giovare ai defunti. Coloro che rimangono nel mondo e possiedono beni, professiamo e crediamo che saranno salvati se faranno l’elemosina ed altri benefici da ciò che possiedono e se osserveranno i Comandamenti di Dio. Crediamo che, secondo il precetto del Signore, le decime, le primizie e le offerte debbano essere versate al clero.

Lettera ‘In quadam nostra‘ al Vescovo Ugo di Ferrara, 5 marzo 1209.

Acqua mescolata al vino della Messa.

798. Dici di aver letto in una delle nostre lettere decretali (784). che era empio pensare ciò che alcuni hanno avuto la presunzione di dire, cioè che nel sacramento dell’Eucaristia l’acqua si cambia in muco; perché affermano falsamente che non fu l’acqua ad uscire dal costato di Cristo, ma un umore acquoso. Ma anche se tu affermassi che questo sia stato pensato da uomini importanti e degni di fiducia, la cui opinione hai finora seguito con parole e scritti, le ragioni per cui Noi pensiamo il contrario ti costringeranno comunque a dare ragione alla nostra concezione…. Infatti, se dal costato del Salvatore non fosse uscita acqua ma muco, colui che vide e testimoniò la verità, (Gv XIX, 3ss.), non avrebbe certo detto “acqua” ma “muco”… Resta dunque il fatto che quest’acqua, qualunque fosse, naturale o miracolosa, creata in modo nuovo dalla virtù divina o ricavata dai componenti di qualche parte, fosse senza dubbio vera acqua.

Lettera “Licet apud” al Vescovo Enrico di Strasburgo, 9 gennaio 1212.

I giudizi di Dio

799. Anche se tra i giudici secolari si praticano giudizi popolari, come quello dell’acqua fredda, del ferro rovente o del duello, la Chiesa tuttavia non accetta giudizi di questo tipo, perché nella Legge divina è scritto: “Non tenterai il Signore tuo Dio” (Dt VI, 16 Mt IV, 7) .

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (17) “da INNOCENZO III ad ALESSANDRO IV”

LA VERGINE MARIA (3)

Il Vescovo Tihámer Toth

LA VERGINE MARIA (3)

Nihil Obstat: Dr. Andrés de Lucas, Canonico. Censore.

IMPRIMATUR: José María, Vescovo Ausiliare e Vicario Generale. Madrid, 27

27 giugno 1951.

CAPITOLO III

MARIA E LA NOSTRA FEDE

Vicino a Nazareth, l’umile villaggio dove Gesù e la Vergine Maria trascorsero tanti anni, c’è una sorgente; gli abitanti del villaggio la chiamano “Ain Marjam”: La fontana di Maria”; e la tradizione popolare vuole che Maria abbia attinto l’acqua a questa fontana. Ancora oggi è la migliore fontana di tutta la regione; tutti gli abitanti dei dintorni vi si recano per attingere acqua. Portano la brocca di terracotta sulla testa. È così che portano acqua a casa. “Ain Marjam!” “La fontana di Maria!”. È un’espressione molto appropriata per il nostro scopo. Le donne di Nazareth trovano ristoro corporeo nell’acqua che attingono dalla fontana di Maria, e acquistano forza per le loro fatiche quotidiane. Noi Cristiani, che viviamo in tutto il mondo, otteniamo il ristoro spirituale di cui abbiamo bisogno, noi abbiamo bisogno di entusiasmo, magnanimità, purezza, consolazione dalla fonte abbondante del culto mattutino. Le donne di Nazareth portano abilmente sul loro capo il bel vaso argilla, lo trasportano senza farlo cadere e arrivano a casa con il loro prezioso tesoro, l’acqua fresca; anche noi portiamo un vaso di terracotta, il nostro corpo, e in esso portiamo un tesoro prezioso, il nostro spirito immortale; e dobbiamo portarlo lungo i sentieri della vita in modo che non subisca danni, per mantenerlo puro, incolume, intatto e senza scalfitture, fino a quando non raggiungeremo la patria celeste. Come il vero “Ain Marjam”, il culto, sarà l’argomento dei capitoli successivi. Come il culto della Vergine Maria rafforzi la nostra fede, sarà il tema del presente capitolo. Nei capitoli successivi studieremo quest’altro punto: come esso ci aiuti e ci rafforzi nelle lotte della vita morale.

Maria e la nostra fede – è il tema di questo capitolo. Che cosa riceve la nostra fede dal culto mariano? È la domanda che propongo. E rispondo con queste quattro parole: Riceve: I. forza, II. vita, III. unità, IV. bellezza.

I. L’ADORAZIONE RAFFORZA LA NOSTRA FEDE

È caratteristica della Sacra Scrittura di non parlare in modo pomposo. Racconta grandi cose con brevità e semplicità, tanto più inoltre, regolarmente, quando è più concisa e proprio quando proclama le più grandi verità. Della relazione del rapporto della Vergine Maria con la nostra fede e di ciò che possiamo imparare da lei in termini di credenza, la Sacra Scrittura non parla che solo in due semplici frasi, apparentemente insignificanti ma in realtà straordinariamente profonde, che riguardano la Madonna, nel secondo capitolo del Vangelo secondo Luca. L’evangelista descrive come i pastori, al ritorno dalla stalla di Betlemme, raccontino ovunque gli eventi del Natale. “E tutti tutti quelli che vennero a sapere dell’avvenimento si stupirono di ciò che i pastori avevano raccontato loro. Maria, invece, conservava tutte queste cose dentro di sé, meditandole nel suo cuore” (Lc. II, 18-19); e alla fine dello stesso capitolo, dove leggiamo che Gesù, all’età di dodici anni, tornò dal tempio, l’evangelista annota: “E subito andò con loro e venne a Nazaret, e fu loro sottomesso. E sua madre conservava tutte queste cose nel suo cuore” (Lc. II, 51). Così l’evangelista afferma per ben due volte che la Vergine non solo si prese cura corporeo del Bambino Gesù, ma anche che voleva anche educare la sua stessa anima per servire più degnamente il Verbo divino fatto carne. Ha registrato con cura ogni parola, ogni evento, ogni impressione, e li ha conservati con cura. Si mise a ruminare su tutti i meravigliosi eventi: l’annunciazione dell’Angelo, la notte di Natale, le parole della notte, le parole dei pastori e dei magi, la profezia di Simeone e di Anna, il primo vagito di Gesù bambino, tutti i suoi sguardi, tutte le opere della sua mano… Li ha meditati, li ha meditati e li ha conservati con grande cura nel tesoro della sua anima. Ecco, dunque, il primo insegnamento: la cura e il sacrificio con cui Maria mantenne salda la sua fede. Non possiamo infatti pensare che questa fede non abbia richiesto anche a lei – come a tutti noi – sacrificio, fatica e sforzo. Non diciamo che per Maria sia stato facile per lei credere, perché ha vissuto con Gesù. Anche lei aveva giornate nuvolose, come noi! E se di tanto in tanto ci fermiamo con incertezza di fronte ad un evento della nostra vita o di uno o davanti all’uno o all’altro dei dogmi della nostra fede, ricordiamoci che l’evangelista dice la stessa cosa di Maria e Giuseppe … Ma essi non compresero il senso della sua risposta” (Lc. II, 50). È così che anche Maria ha dovuto coltivare la sua fede. I suoi occhi, nonostante la loro purezza, non erano in grado di penetrare tutti i veli che ricoprono i santi misteri della nostra fede. Ma Maria accettò con fervore ciò che sapeva dei misteri del suo Figlio divino, e con la stessa umiltà di cuore accettava anche ciò che non capiva.. Osservando con spirito contemplativo tutte le parole, tutti gli atti e le manifestazioni del suo Figlio divino, ci ha insegnato la via più sicura per conservare e rafforzare la nostra fede.

* * *

Il culto di Maria rafforza la nostra fede, perché solo adorando il suo Figlio divino Maria può essere onorata, ed anche i fedeli devoti di Maria non perdono la fede nel suo Figlio divino. Ci sono persone che non sanno come perdonarci per che dopo il Padre Nostro preghiamo l’Ave Maria con tanta devozione. Ma io chiedo a queste persone: pensate che preghiamo meno, che diciamo meno i nostri Padri Nostri perché aggiungiamo l’Ave Maria? Ci sono persone che si scandalizzano perché vedono nelle nostre chiese tante candele accanto alle immagini mariane nelle nostre chiese. Ma io chiedo loro: lasciamo le immagini di Cristo nell’oscurità? Non posso credere che se Gesù Cristo apparisse oggi in forma corporea in mezzo a noi – Cristo che durante i trent’anni della sua vita nascosta, ha onorato sua Madre, la Beata Vergine, con pietà e obbedienza, come un figlio non ha mai onorato sua madre – ci rimprovererebbe dicendo: “Lasciate subito la preghiera” dell’Ave Maria, e spegnete subito le candele che bruciano davanti alle immagini di mia Madre”. No, Cristo non direbbe questo. Ma piuttosto, indicando Maria, ci direbbe con certezza: “Ecco tua Madre”. E chi è vicino alla Madre non può essere lontano dal Figlio. A chi è nascosto fino a che punto l’uomo moderno abbia bisogno della vigilanza della Madonna per mantenere la fede? Al giorno d’oggi, quando per l’uomo si aggrappa così facilmente a questo mondo perituro, possiamo rallegrarci di poterci rivolgere a Maria, dicendole con la voce di Dante, l’insuperabile poeta del Cristianesimo: “Regina, che puoi fare tutto ciò che vuoi, fa’ mantenere vivo in me il desiderio dell’eternità e concedi che la tua protezione possa vincere l’attrazione del perituro in me”.

II IL CULTO DI MARIA VIVIFICA LA NOSTRA FEDE

Maria ha conservato la sua fede dentro di sé e questa fede plasmava la sua anima. Questa fede viva di Maria è la seconda importante lezione per noi. Il regno di Dio – disse una volta il Signore – è come il lievito, che una donna ha preso e lo mescolato in tre misure di farina, finché tutta la massa non fu lievitata” (Lc. 13: 21). Questo ci insegna che la nostra fede deve essere il lievito che fermenta tutta la nostra vita. Il Vangelo dice che la Vergine Maria non solo ha preso nota degli eventi della vita di Gesù e delle parole del Signore, ma anche “li meditava nel suo cuore” (Lc. II,19), cioè mentre pregava, lavorava o al riposo, o mentre era occupata, pensava continuamente a loro e in base ad essi modellava la sua vita. Così come è stata Maria a dare corpo al Figlio di Dio sceso sulla terra, così è stato nella vita di Maria che gli insegnamenti del suo Figlio divino presero forma con la massima perfezione possibile.

a) Non c’è mai stato e non ci sarà mai un uomo che nella sua gioia e nel suo dolore, nei suoi desideri e progetti, nelle sue virtù e nei suoi sacrifici, abbia rispecchiato così fedelmente lo spirito del Cristianesimo come la Madonna. Gesù stesso ne ha dato testimonianza. In un’occasione, una donna che lo seguiva tra la folla, vedendo le opere meravigliose del Signore e ascoltando le sue parole divine, esclamò con entusiasmo: “Benedetto il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha nutrito!” (Lc. XI, 27). E il Signore le rispose: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc. XI, 28). Gesù non contraddice la donna. Al contrario, amplifica il significato delle sue parole. Non dice che non c’è motivo di lodare sua Madre, ma che in realtà ci sia un duplice motivo. Primo, perché con la sua maternità è unita a Lui da legami di sangue. In secondo luogo, e in modo più forte, perché attraverso la sua fede ha una parentela spirituale con Lui, perché ha conservato nel suo cuore le sue parole (Lc. II: 19, 51) meglio di tutti i suoi discepoli. Sul primo punto non possiamo imitare Maria. Ma possiamo imitare il secondo. Sappiamo bene come il modo più sicuro per chi vuole seguire Maria, sia l’essere degno di Lei, essere come Lei e assomigliare a Lei: è la fede ardente e abnegante in Gesù Cristo. Una fede che non è fatta di parole o sentimenti, ma anche e soprattutto di vita e potenza divina che trasforma la nostra stessa vita. Guardiamo a ciò che Maria dice ai servitori al banchetto di nozze di Cana. Ascoltate il Signore e “fate quello che vi dirà” (Gv II, 5). Così, se onoriamo Maria, non ci fermiamo a Lei, ma attraverso di Lei andiamo a Cristo.

b) Un altro argomento, un’altra eloquente testimonianza che tutte le manifestazioni del nostro culto ravvivino davvero la nostra fede e sono in definitiva rivolte all’adorazione di Dio e sono sature dell’omaggio che dobbiamo al Signore, è ogni riga del sublime cantico che, sotto il nome di “Magnificat”, risuona ogni giorno in migliaia e migliaia di chiese, un cantico che l’anima della Vergine Maria, inebriata dall’amore divino, cantò per la prima volta nella casa di sua cugina Elisabetta. Quando Elisabetta vide Maria in visita, esclamò sorpresa: “Benedetta Maria tra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? … beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore”. (Lc. II, 5). E allora ecco che dall’anima di Maria prorompe il cantico di eterna bellezza, il Magnificat, che allontana da sé tutte le lodi, tutti gli omaggi, e li offre a Dio. “Magnificat anima mea Dominum” – il cantico risuona sulle labbra di Maria: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore che ha posato lo sguardo sull’umiltà della sua serva…”, qualsiasi cosa sia buona in me, qualsiasi bella virtù, tutto è dono ricevuto dalle mani di Dio, “La cui misericordia si riversa di generazione in generazione su coloro che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio; ha distolto gli sguardi dal cuore dei dei superbi. Ha rovesciato i superbi dai loro troni e ha esaltato gli umili. Ha ricolmato di beni gli affamati, e i ricchi li ha rimandati a mani vuote. È possibile lodare di più l’onnipotenza divina che veglia sul mondo in modo più bello? È possibile di più rafforzare la nostra fede in Dio? – In un’occasione, un uomo gravemente malato si accasciò per strada. Fu portato in ospedale e fu chiamato un Sacerdote per confessarlo. Ma il povero uomo aveva perso da tempo la fede della sua giovinezza, e per quanto il Sacerdote insistesse nel parlare con lui, egli rifiutò con fermezza la parola del ministro di Dio. Ma quando quest’ultimo, dopo aver esaurito tutte le sue risorse, iniziò a parlare della madre del malato, il suo cuore indurito si ammorbidì, e si risvegliò la fede sepolta della sua infanzia. Quanti uomini oggi hanno perso completamente la fede! Parliamo loro della Madre Celeste, in modo che attraverso di Lei possano tornare alla fede. Gridiamo di nuovo a Cristo: “Benedetto il grembo che ti ha portato!”. Ed ascoltiamo la risposta che esce dalle sue labbra divine: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc. XI, 28).

III L’ADORAZIONE COMUNICA L’UNITÀ ALLA NOSTRA FEDE

Il culto mariano ha un altro meraviglioso potere, un’altra benedizione: preserva la l’incolumità, la purezza, l’unità della nostra fede in Cristo.

a) C’è chi, ignorando la storia, afferma il contrario. “Il culto mariano non è una pratica che proviene dal Cristianesimo primitivo. Fino al 431, al Concilio di Efeso, Ella non fu dichiarata “Madre di Dio”, e non molto tempo fa, nel 1854, è stato definito il dogma della sua Immacolata Concezione…”. Quale verità c’è in queste affermazioni? La verità è che la Chiesa ha effettivamente definito nel 431 la divina maternità di Maria e nel 1854 la sua Immacolata Concezione …, ma fin dai suoi inizi ha creduto in esse. La Chiesa definisce dogmaticamente una verità solo se tale verità di fede viene attaccata o messa in discussione. Cosa ci dice la fede sull’Immacolata Concezione? Che la Vergine Maria sia sempre stata esente dal peccato originale. Ma Murillo, circa duecento anni prima della definizione dogmatica, aveva già dipinto trenta magnifici quadri dell’Immacolata Concezione. E il Concilio tridentino la proclamò più di trecento anni prima della definizione dogmatica della Chiesa. E Sant’Efrem l’aveva proclamata quasi quindici secoli prima. Cosa è successo dunque nel 1854? La stessa cosa che accadde poco tempo dopo con il famoso gioiello della Corona inglese, il diamante Koh-i-noor.. Questo diamante, ammirevole ed enorme, era già conosciuto in India nei secoli prima di Cristo, ma ha brillato in tutta la sua bellezza solo a partire dal secolo in cui la regina Vittoria lo fece tagliare di nuovo. Perché, se posso permettermi la frase, la definizione dogmatica dell’anno 1854 non ha prodotto il diamante bimillenario della Immacolata Concezione, non ha fatto altro… che tagliarlo di nuovo.

b) Il culto mariano non solo è compatibile con la nostra fede, ma ne preserva e ne rafforza la purezza e l’unità. Basteranno poche parole per spiegarlo. Chi può onorare Maria? Solo chi crede nel suo santo Figlio. Il pilastro fondamentale della nostra fede è la divinità di Gesù Cristo. Questo è il fatto: “Cristo è il Dio che è sceso fino a noi”, qui poggia l’intero sistema di fede e di morale della Religione cristiana. Coloro che onorano Maria, parlano così: Io onoro Maria perché è stato suo Figlio il nostro Signore Gesù Cristo l’unigenito del Padre, che è sceso sulla terra per salvarci e liberarci dalla condanna attraverso la sua Passione, Colui che è morto per noi, è risorto ed è asceso al cielo… in una parola: onorando Maria, confessiamo tutta la nostra fede cristiana. In modo che il culto mariano sia la corona d’oro che racchiude, come un bellissimo diamante, la la divinità di Gesù Cristo. E come il diamante non viene danneggiato da una bella incastonatura, così al contrario, l’incastonatura accresce ancora di più il valore della pietra. Allo stesso modo, l’adorazione mariana non è solo compatibile con il culto di Cristo, ma lo colloca anche in un contesto più caldo e consapevole. Per noi, se il culto mariano non è la questione principale, non è nemmeno una questione accessoria, senza la quale la nostra fede cattolica non può essere sostenuta. Per noi, la cosa principale è la divinità di Cristo, ma da essa segue necessariamente il culto della Madre di Dio. Se adoro Cristo devo anche onorare sua Madre, e se onoro la Madre di Dio, so come adorare con più fervore il suo Figlio divino.

e) D’altra parte, la storia stessa offre una grande abbondanza di dati per mostrare che coloro che negano la divinità di Cristo non provenivano dai ranghi in cui è onorata Maria, ma al contrario, da quei settori che all’inizio si limitavano a sopprimere il culto della Vergine Madre, e poi sentendosi irrimediabilmente trascinati, sono arrivati a negare la divinità di Cristo. La storia bimillenaria della Chiesa dimostra che quando l’albero della fede cresce in un terreno sano, ha sempre avuto un’abbondanza di fiori e di frutti più belli nel culto mariano; quando il culto mariano è stato indebolito o appassito del tutto, si poteva dedurne che la fede stessa fosse decaduta. Ci sono Cristiani che non onorano Maria, perché – così dicono – il culto mariano  li distrae da Cristo e loro vogliono onorare solo Lui. Eppure, cosa vediamo? Il fatto singolare che dove Maria non viene più onorata, l’adorazione di Cristo diminuisce, ed ancor più, i fondamenti di tutta la fede cristiana. Noi onoriamo Maria e adoriamo il suo santo Figlio. E dove Maria non è più onorata per dare – si dice – più vita e più spazio al culto di Cristo, si discutono i seguenti punti: Cristo era vero Dio o solo uomo? Vale la pena vale la pena di impugnare le armi in difesa del Credo nella sua interezza? Dopo queste considerazioni di particolare interesse è il fatto storico che la falsa riforma del XVI secolo non riuscì ad affermarsi proprio in quei Paesi in cui il culto della Vergine Maria aveva un particolare vigore e fioriva in abbondanza.

d) E, se consideriamo il fatto, vedremo nel culto un mezzo efficace per preservare l’unità della fede. Il centro della famiglia è la madre. Finché vive, anche i figli più grandi che hanno già fondato la loro famiglia da tempo, hanno coesione e si sentono all’unisono. Ma quando lei muore, la famiglia si sfalda. Anche la Vergine Maria è diventata una forza coesiva nella prima comunità cristiana, dopo la resurrezione di Cristo. Gli ATTI DEGLI APOSTOLI (1, 14) riportano questo fatto: “Tutti costoro, essendo d’un sol animo, insieme alle donne e a Maria, madre di Gesù”. Ma il culto successivo era anche la benedetta garanzia dell’unità della nostra fede. Sappiamo che Gesù Cristo aveva una veste senza cuciture di un unico tessuto da cima a fondo (Gv XIX,23), il che, secondo l’usanza di quei tempi, probabilmente era stata tessuta dalla Vergine stessa. È così che il culto ha tessuto la tunica della nostra fede in Cristo. per quasi due millenni …, una fede nella quale non c’è cucitura, né macchia, né rammendo, una fede che è conservata ancora oggi così come l’abbiamo ricevuta da Cristo. Dobbiamo quindi riconoscere che il Cristianesimo che non sa o non vuole onorare la Vergine Maria in modo adeguato, è un Cristianesimo mutilato. Perché cos’altro è il Cristianesimo se non Cristo e la sua opera? E se Cristo è il Verbo eterno del Padre celeste, non bisogna dimenticare che Egli è vissuto sulla terra come Figlio di Maria. Così la nostra santa Madre la Chiesa lo sapeva bene perché ha combattuto così duramente in difesa della dignità di Maria; perché ha lottato tanto perché, ad esempio, ha lottato così insistentemente al Concilio di Efeso per difendere la maternità divina?. Lì non si trattava direttamente e propriamente del titolo di Maria, ma della divinità di Cristo. Sappiamo bene che la Vergine Maria fosse la Madre di Dio, ma non ha mai smesso di essere la “serva del Signore”, “sulla cui umiltà Dio ha posato lo sguardo”. Dio pose il suo sguardo sulla sua umiltà, così che da quel momento in poi sarebbe stata chiamata benedetta da tutte le generazioni”.

IV IL CULTO ABBELLISCE LA NOSTRA FEDE

Accenno ancora una volta, anche se brevemente, alla quarta benedizione dell’adorazione: l’adorazione comunica fascino, calore, poesia, morbidezza e ammirevole interiorità alla nostra fede. Vorrei far notare che nel nostro sentire non sono queste le caratteristiche che danno valore alla nostra fede. Accettiamo e seguiamo la nostra fede, non perché sia bella e gentile, ma perché sia giusta e vera. Dall’incrollabile sistema di argomentazioni molto diverse traiamo la conseguenza che la nostra Religione cattolica sia la vera Religione. La Religione cattolica è la vera Religione: la nostra fede è “culto razionale”. (Lettera ai Romani XII,1). Ma nonostante ciò, anche se confessiamo che la prima e principale fondamento delle nostre convinzioni è la verità, non dimentichiamo nemmeno che gli uomini non hanno solo una testa che cerca la verità, ma anche un cuore che ama il bello, e per questo motivo chiamiamo con il giusto titolo, in aiuto ai nostri argomenti razionali, anche l’intimo, l’affettuoso, accattivante, il bello del nostro culto. Chi non ha sentito quel dolce calore che riempie l’anima, quel calore che si irradia verso di noi dalla lampada che arde silenziosa davanti al tabernacolo, la fiamma delle candele dell’altare, gli accordi dell’organo, la voce delle campane che chiamano i fedeli? E il fatto che le nostre chiese siano così accoglienti e così attraenti, che le nostre cerimonie siano così istruttive e commoventi, che anche i non Cattolici spesso si sentono così a casa tra noi, è in gran parte dovuto al culto di Maria. In ogni Chiesa si vede un’immagine della della Vergine con il Bambino Gesù in braccio…. È possibile presentare il Redentore del mondo in un modo più comprensivo e gentile sia ad un bambino che non sa nulla, sia ad un uomo che abbia studiato duramente? Guardate l’immagine della Madre Addolorata che tiene in grembo il cadavere del Figlio sulle ginocchia? È possibile presentare in modo più commovente il dramma della Redenzione? Guardate quella giovane ragazza del villaggio, che mormorando silenziosamente un’Ave Maria, depone il suo mazzo di fiori di campo davanti all’immagine di Maria. innalzata sul ciglio della strada… È possibile trovare qualcosa di più poetico e ammaliante? E se dovessimo ascoltare l’immensa gamma di sfumature dell’Ave Maria, mentre si innalza verso il cielo ad ogni ora, in ogni minuto di ogni ora, se vedessimo la fiducia che assale il cielo, la paura tremante, la supplica che unisce le mani, che sfugge dalle labbra dei marinai nella tempesta o dei bambini che pregano presso il letto del dolore della madre, o dei soldati che si preparano per l’attacco, o dei pii pellegrini e degli uomini che lottano con la tentazione …, allora sentiremmo veramente la bellezza, il fascino ed il fervore che il culto di Maria apporta alla nostra vita religiosa.  – Comprendiamo bene che quando DANTE, nella terza parte della Divina Commedia, “Il Paradiso”, nel canto XXXIII, inizia la sua cantica più bella, si rivolge alla alla Beata Vergine con queste parole, che sono per sempre bellissime: “Vergine Madre, Figlia del tuo Figlio, la più umile, e allo stesso tempo la più alta di tutte le creature, termine fisso dell’eterno volere, tu sei Colei che ha nobilitato la natura umana a tal punto che il suo Creatore non poteva non poteva non diventare la sua stessa opera. Nel tuo seno si è acceso l’amore il cui calore ha fatto germogliare questo fiore nella pace eterna. Tu sei qui per noi il Sole della carità, e in basso, per i mortali una sorgente viva di speranza. Tu sei così grande, o Signora, e sei di così grande valore che chiunque voglia ottenere una grazia e non ricorra a te, vuole che il suo desiderio possa volare senza ali. La tua bontà non solo soccorre coloro che ti implorano, ma spesso spontaneamente anticipano la supplica. In te si uniscono la misericordia, la pietà, la magnificenza e tutto ciò che di buono c’è in tutte le creature. » – Nell’anno 428 d.C., il Vescovo di Costantinopoli era NESTORIO: egli, dopo esimi e santi predecessori, dopo un San Gregorio Nazianzeno ed un San Giovanni Crisostomo, prese nelle sue mani la guida dei fedeli. Ma alla fine si tolse la maschera della sua anima eretica, precedentemente celata, e con grande scandalo dei fedeli riuniti in chiesa, iniziò a predicare cose come queste queste: “D’ora in poi, non diciamo più che Maria sia la Madre di Dio, per non dare l’impressione di voler fare di questa vergine una divinità, e non facciamo come i pagani, che facevano delle loro madri delle dee”. (Nestor. Serm. V. ap. Mercal, p. 30). Queste parole produssero una grande commozione. Il popolo scoppiò in in una protesta clamorosa, lasciò il tempio insieme ai Sacerdoti, e la folla continuò a mormorare di scandalo in un ondeggiare tumultuoso per le strade. Ben presto si diffuse la notizia dell’offesa a Maria, e tutto il mondo ne cristiano fu scosso. Dai Vescovi di Africa, Asia, Europa, si alzò la voce in segno di protesta: il Papa Celestino convocò i Vescovi d’Italia per un Concilio, e in questo concilio Nestorio fu scomunicato. Poi fu convocato un Concilio ecumenico a Efeso, e nella famosa basilica di quella città, che a quel tempo era già consacrata alla Beata Vergine Maria, furono riuniti sotto la presidenza del legato pontificio, i Vescovi di tutte le parti del mondo, per decidere del Vescovo di Costantinopoli, che aveva osato toccare la dignità di Maria. La seduta si protrasse fino a notte inoltrata, e tutto il popolo attendeva il risultato fuori dalla porta della basilica. Quando si seppe che Maria aveva trionfato, tutta la folla scoppiò in un unico grido di giubilo e, accompagnata da torce e fiaccole, in una processione di trionfo, accompagnarono i Vescovi alle loro case. Nestorio è morto da tempo, ma ci sono ancora oggi mani crudeli che vorrebbero strappare dai templi di Maria la gloriosa aureola della sua maternità divina. Per questo motivo dobbiamo ripetere le ardenti lodi di quei secoli lontani, le lodi che il più esaltato oppositore di Nestorio, il principale protagonista del concilio, SAN CIRILLO, Patriarca di Alessandria, pronunciò ad Efeso, a nome dei suoi confratelli Vescovi, al fine di esaltare la Vergine Madre: “Dio Ti salvi. Madre e Vergine, tempio vivente ed immortale della divinità, tesoro e luce del mondo, ornamento delle vergini, sostegno della vera fede, saldo fondamento di tutte le chiese; Tu che hai dato alla luce Dio ed hai portato con cuore puro Colui che nessun luogo può contenere. Tu, per la quale la Santissima Trinità è lodata e adorata, e per la quale è onorata da tutto il mondo la Santa Croce. Tu, attraverso la quale l’uomo decaduto recupera i suoi diritti all’eredità celeste… Chi sarà mai in grado di lodarti degnamente, Tu che sei al di sopra di ogni lode? O fecondità verginale! O meraviglia inconcepibile! Che tutta la nostra saggezza, tutta la nostra gioia, consista nel temere ed onorare lodando eternamente la Vergine Maria – al Dio Uno e Trino, perché Sua è la gloria nei secoli dei secoli.

LA VERGINE MARIA (4)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (15) “da VITTORE II ad URBANO III”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (15)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(Da Vittore II  a Urbano III)

VITTORE II: 16 aprile 1055-28 luglio 1057

STEFANO IX (X): 3 agosto IO57-29 marzo 1058

NICOLA II: 6 dicembre 1058-27 luglio 1061

Concilio di Roma 1059.

La professione di fede nell’Eucaristia prescritta a Berengario

690. Io Berengario.. riconosco la fede vera ed apostolica, anatemizzo ogni eresia, specialmente quella di cui sono stato finora accusato: essa osa affermare che il pane e il vino che sono posti sull’altare dopo la Consacrazione siano solo un sacramento e non il vero corpo e sangue di nostro Signore Gesù Cristo, e che non possano essere tenuti o spezzati dalle mani dei sacerdoti o schiacciati dai denti dei fedeli in alcun modo sensibile, se non nell’unico sacramento. Ora io sono d’accordo con la santa Chiesa romana e con la Sede Apostolica, e professo con la mia bocca ed il mio cuore che riguardo al Sacramento della mensa del Signore io ritengo quella fede che il signore e venerabile Papa Niccolò e questo santo Concilio, con autorità evangelica e apostolica, mi hanno trasmesso di ritenere e confermare: cioè che il pane e il vino che sono posti sull’altare, dopo la Consacrazione, non siano solo un Sacramento, ma anche il vero Corpo e il vero Sangue di nostro Signore Gesù Cristo, e che siano toccati e spezzati dalle mani dei Sacerdoti e schiacciati dai denti dei fedeli in modo sensibile, non solo nel Sacramento, ma nella verità; lo giudico dalla santa e consustanziale Trinità, e dai santissimi Vangeli di Cristo. Quanto a coloro che si oppongono a questa fede, affermo che con le loro dottrine ed i loro seguaci siano degni di anatema eterno.

Concilio Lateranense, aprile 1060.

Ordinazioni simoniache

691. Il signor Papa Niccolò, che presiedeva il sinodo nella basilica di Costantino, disse: (Paragrafo 1) Decidiamo che non si debba avere pietà dei simoniaci per quanto riguarda il mantenimento del loro rango; al contrario, li condanniamo secondo le sanzioni dei Canoni e dei decreti dei santi Padri e decretiamo, in virtù dell’Autorità Apostolica, che debbano essere deposti.

692. (Paragrafo 2) Riguardo a coloro che sono stati ordinati da simoniaci, non per denaro ma gratuitamente – poiché la questione è stata a lungo dibattuta – sciogliamo ogni nodo di dubbio in quanto non permettiamo a nessuno in futuro di avere dubbi su questo capitolo. … A coloro che finora siano stati consacrati gratuitamente da simoniaci…, permettiamo di rimanere negli Ordini che hanno ricevuto. Tuttavia, in virtù dell’autorità dei santi Apostoli Pietro e Paolo, proibiamo in ogni modo che qualcuno dei nostri successori tracci o stabilisca una regola per sé o per qualcuno dei suoi successori. – Infatti, non è stata l’autorità degli antichi Padri a promulgare ciò ordinandolo o concedendolo, ma è stata la troppo grande angustia dei tempi a costringerci a permetterlo.

693. (Par. 3.) Del resto, se qualcuno si lascia consacrare da uno che non dubiti sia un simoniaco, sia colui che consacra sia colui che è consacrato non devono essere sottoposti ad una sentenza di condanna diseguale, ma entrambi devono essere deposti, fare penitenza e rimanere privi della loro dignità.

694, (Par. 5) Il Vescovo Niccolò a tutti i Vescovi: Abbiamo emanato un decreto riguardante la triplice eresia simoniaca: cioè, riguardo ai simoniaci che ordinano o sono stati ordinati simoniacamente, ai simoniaci che sono stati ordinati simoniacamente da non simoniaci e ai simoniaci che sono stati ordinati non simoniacamente da simoniaci: I simoniaci che sono stati ordinati o che ordinano in modo simoniaco devono essere privati del loro grado secondo i Canoni ecclesiastici. Allo stesso modo, i simoniaci che sono stati ordinati in modo simoniaco da non simoniaci devono essere rimossi dall’ufficio acquisito in modo sbagliato. Per quanto riguarda i simoniaci che sono stati ordinati in modo non simoniaco da simoniaci, concediamo, a causa delle necessità del tempo, che per misericordia possano rimanere nel loro ufficio per imposizione delle mani.

ALESSANDRO II: 1 ottobre 1061-21 aprile 1073.

Lettera “Super causas” al Vescovo Reinaldo di Como, 1063.

Condanna delle ordalie.

695. Ci siamo consultati pubblicamente sul vostro presbitero Guillandus (Gisandus) sospettato dell’omicidio del suo Vescovo, vostro predecessore… Se non ci sono accusatori certi, allora, secondo ciò che impone la giustizia e senza controversie, il presbitero deve ricevere di nuovo tutto ciò che ha perso ingiustamente per questo motivo, sia il sacerdozio che l’insieme dei suoi benefici; ma lasciamo al vostro giudizio, se non ci sono accusatori, che egli presenti di sua iniziativa una giustificazione a due Sacerdoti suoi parenti. – Infine, vogliamo che non usiate e non chiediate in alcun modo la legge popolare che non ha alcuna sanzione canonica, cioè il contatto con l’acqua bollente o ghiacciata, o con un ferro rovente, o con qualsiasi invenzione popolare (perché queste sono pure invenzioni in cui opera l’invidia); inoltre, lo proibiamo fermamente in virtù dell’Autorità Apostolica.

Lettera “Licet ex” al principe Landolfe di Benevento, 1065.

Tolleranza delle convinzioni religiose altrui.

698. Sebbene non dubitiamo che sia per zelo di devozione che vostra eccellenza ordinI di condurre gli ebrei al culto del Cristianesimo, abbiamo tuttavia ritenuto necessario inviarvi la nostra lettera per ammonirvi, poiché sembra che lo facciate per uno zelo disordinato. Infatti il nostro Signore Gesù Cristo, come leggiamo, non costrinse nessuno al suo servizio con la forza, ma, essendo lasciata a ciascuno la libertà di giudicare da sé, tutti coloro che Egli aveva predestinato alla vita eterna non li chiamò fuori dall’errore con un giudizio, ma versando il proprio sangue… Allo stesso modo, il beato Gregorio proibisce in una delle sue lettere che questo stesso popolo sia portato alla fede con la violenza (cfr. 480).

GREGORIO VII: 22 aprile 1073-25 maggio 1085

Concilio di Roma: professione di fede di Berengario di Tours, 11 febbraio 1079.

La presenza eucaristica di Cristo.

700. Io, Berengario credo con il mio cuore e confesso con la mia bocca che il pane ed il vino che sono sull’altare siano, per il mistero della santa preghiera e per le parole del nostro Redentore, cambiati sostanzialmente nella Carne e nel Sangue veri, ripuliti e vivificanti da nostro Signore Gesù Cristo, che dopo la Consacrazione siano il vero Corpo di Cristo, che è nato dalla Vergine, che, offerto per la salvezza del mondo, sia stato appeso alla croce, che sieda alla destra del Padre, e sia il vero sangue di Cristo sgorgato dal suo fianco, non solo in modo figurato ed in virtù del Sacramento, ma nella sua propria natura e verità di sostanza. Come questa breve dichiarazione contiene: come ho letto e come lo intendete voi, così lo credo io, e non insegnerò più contro questa fede. Dio aiuti me e questi santi Vangeli di Dio.

URBANO II: 12 marzo 1088-29 luglio 1099

Lettera “Debent subditi” al Vescovo Pietro di Pistoia e all’abate Rustico di Vallombrosa, 1088.

L’invalidità dell’ordinazione ricevuta da un simoniaco

701. … Come abbiamo appreso dalla sua confessione, Daiberto fu sì ordinato diacono dal simoniaco Guezelo, ma non in modo simoniaco, e per sentenza del beato Papa Innocenzo fu dichiarato, come sappiamo, che, in quanto eretico, Guezelo, che è stato ordinato da eretici, dal momento che non aveva nulla, non poteva dare nulla a colui che gli ha imposto le mani. Confermati dall’autorità di un così grande Papa e rafforzati dalla testimonianza di Papa Damaso, che dice: “È necessario ripetere ciò che è stato fatto male”, poiché le necessità della Chiesa sono pressanti, stabiliamo nuovamente come diacono Daiberto che si è distaccato nel corpo e nell’anima dagli eretici, e che si applica con tutte le sue forze al bene della Chiesa. Riteniamo che ciò non sia da considerarsi una reiterazione, ma solo una piena collazione del diaconato, poiché, come abbiamo detto, chi non ha nulla non può dare nulla.

Lettera “Gaudemus filii” a Lanzo, Rodolfo e altri, 1 febbraio 1091.

702. L’invalidità dell’ordinazione ricevuta da un simoniaco.

Questi, tuttavia, deve essere esaminato in modo assoluto, cioè se (Poppo) sia stato ordinato simoniacamente dalle mani del suddetto Arcivescovo di Treviri. Perché tutto ciò che ha ricevuto da lui in modo straordinario e indegno, lo riteniamo nullo secondo il giudizio dello Spirito Santo ed in virtù dell’Autorità presente in noi: ordiniamo che questi riceva gli Ordini da un Vescovo cattolico. Poiché chi ordina e non ha nulla non ha nulla da dare.

Concilio di Benevento, iniziato il 18 marzo 1091.

Il carattere sacramentale del diaconato

703. Can. 1. Nessuno può più essere eletto Vescovo se non sia stato trovato pio negli Ordini sacri. Ora noi chiamiamo Ordini sacri il diaconato e il presbiterato. Di questi, infatti, leggiamo che la Chiesa primitiva li avesse; solo per essi abbiamo un precetto dell’Apostolo.

PASQUALE II: 14 agosto 1099-21 gennaio 1118

Concilio Lateranense, quaresima del 1102.

Obbedienza alla Chiesa.

704. Anatemizzo tutte le eresie, specialmente quelle che turbano lo stato attuale della Chiesa, che insegnano ed affermano che l’anatema debba essere ignorato e le leggi della Chiesa disattese. E prometto obbedienza al Pontefice della Sede Apostolica, il signor Pasquale ed i suoi successori, prendendo a testimone Cristo e la Chiesa, affermando ciò che la Chiesa santa ed universale afferma e condannando ciò che essa condanna.

Concilio di Guastalla, 22 ottobre 1106

Ordinazioni eretiche e simoniache

705. (4) Già da molti anni l’estensione dell’Impero teutonico è stata separata dall’unità della Sede Apostolica. Ora, in questo scisma, il pericolo è diventato così grande – lo diciamo con grande dolore, che a malapena si trovano alcuni Sacerdoti o chierici cattolici in regioni così estese. Poiché, dunque, molti figli sono gettati in questa devastazione, la necessità della pace cristiana esige che il cuore materno della Chiesa si apra a loro. Sulla base degli esempi e degli scritti dei nostri Padri, che in tempi diversi hanno accolto nei loro ordini Novaziani, Donatisti ed altri eretici, accogliamo nell’ufficio episcopale i Vescovi di questo impero che siano stati ordinati durante lo scisma, a meno che non si dimostrino intrusi, simoniaci o criminali. La stessa cosa stabiliamo per i chierici, qualunque sia il loro ordine, che la loro vita e la loro scienza raccomandano.

Concilio Lateranense, 7 marzo 1110.

Saccheggio dei naufraghi e simonia.

706. Can. 9. Chi saccheggia i beni dei naufraghi, sia escluso dalla soglia della Chiesa come i saccheggiatori ed i fratricidi.

707. Can. 10. (1) Ciò che è stato deciso per i simoniaci, lo confermiamo anche noi, secondo il giudizio dello Spirito Santo, con la nostra Autorità Apostolica. (2) Pertanto, tutto ciò che è stato acquisito, sia negli Ordini sacri che negli affari ecclesiastici, mediante la promessa o il dono di denaro, decidiamo che sia nullo e non potrà mai avere alcun valore. (4) Quanto a coloro che hanno accettato consapevolmente di essere consacrati – o meglio: profanati – dai simoniaci, dichiariamo la loro consacrazione essere totalmente nulla.

708. Can. 15. Prescriviamo inoltre che per il Crisma, il Battesimo e la sepoltura non sia mai richiesto nulla.

GELASIO II: 24.1.1118 – 28.1.1119

CALLISTO II: 2.2.1119 – 13.12.1124

1° Concilio di LATERANO (9° ecumenico)

18-27 marzo-(6 aprile ?)1123

Canoni.

Simonia, celibato, investitura.

710. Can. 1 “Seguendo l’esempio dei santi Padri” e rinnovando il dovere del nostro ufficio, “proibiamo in ogni modo, con l’autorità della Sede Apostolica, che qualcuno sia ordinato o promosso nella Chiesa di Dio per denaro. Se qualcuno abbia ottenuto l’ordinazione o la promozione nella Chiesa in questo modo, sia totalmente privato della dignità ottenuta.

711. Can. 3 (al. 7). Proibiamo assolutamente ai Sacerdoti, ai diaconi e ai suddiaconi di avere concubine o mogli sotto il loro tetto e di convivere con altre donne, ad eccezione di quelle che il Concilio di Nicea (Can. 3) ha permesso di vivere con loro solo per necessità, cioè la madre, la sorella, la zia paterna o materna o altre donne simili, che non possano dare adito ad alcun sospetto giustificato.

712. Can.4 (al. 8). Inoltre, in conformità con l’ordinanza del beato Papa Stefano, stabiliamo che i laici, per quanto religiosi, non abbiano il potere di disporre in alcun modo dei beni ecclesiastici; ma, secondo i Canoni degli Apostoli (can. 38, al. 39), Se dunque qualcuno dei principi o di altri laici si arrogasse il diritto di disporre, regalare o possedere i beni ecclesiastici, sia considerato un sacrilego.

ONORIO II :15.12.1124 – 13.2.1130

INNOCENZO II :14.2.1130 – 24.9.1143

2° concilio LATERANO (10° ecumenico)  iniziato il 4 aprile 1139

Simonia e usura

715. (Can. 2). Se qualcuno ha acquistato una prebenda, un priorato, un decanato, un onore o una promozione ecclesiastica, o una qualsiasi delle cose sacre della Chiesa, come il santo crisma, l’olio santo, o la consacrazione di altari o chiese, a prezzo di denaro, spinto dall’esecrabile passione dell’avarizia, sia privato dell’onore illecito; e sia il compratore che il venditore e l’intermediario siano infamati. E né per il sostentamento, né sotto l’apparenza di una consuetudine, si richieda qualcosa a qualcuno prima o dopo, né il destinatario stesso dia qualcosa, perché questa è simonia; ma goda liberamente e senza alcuna attenuazione della dignità e del beneficio che gli sono stati conferiti.

716. Can. 13. L’insaziabile avidità degli usurai è detestabile e scandalosa agli occhi delle leggi divine e umane, ed è respinta dalla Scrittura nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Perciò la condanniamo e la escludiamo da ogni consolazione della Chiesa, ordinando che nessun Arcivescovo, Vescovo o Abate di qualsiasi ordine, o chierico ordinato, osi ammettere gli usurai ai Sacramenti senza estrema prudenza. siano ritenuti infami per tutta la vita e privati della sepoltura ecclesiastica se non giungono alla resipiscenza.

La falsa penitenza e l’esistenza dei Sacramenti.

717. Tra le altre cose, c’è una cosa che turba profondamente la santa Chiesa: la falsa penitenza. Chiediamo quindi ai nostri fratelli nell’Episcopato e ai Sacerdoti di non permettere che le anime dei laici siano ingannate da false penitenze e quindi incatenate all’inferno. Sembra che una falsa penitenza si verifichi quando, disprezzando la maggior parte dei peccati, si fa penitenza per uno solo, o quando si fa penitenza per uno solo senza rinunciare ad un altro. Per questo è scritto: “Chi ha osservato tutta la legge, ma inciampa in un punto, è colpevole di tutto” (Gc. II,10), cioè in tutto ciò che concerne della vita eterna. Infatti, sia che abbia commesso tutti i peccati, sia che persista in uno solo, non entrerà per la porta della vita eterna. C’è falsa penitenza anche quando il penitente non rinunci ad un ufficio curiale o commerciale che non possa in alcun modo esercitare senza peccato, o se l’odio alberga nel suo cuore, o se non dà soddisfazione a chi ha offeso, o se essendo offeso non perdona l’offensore, o se si prendono le armi contro la giustizia.

718. (Can. 23): “Quanto a coloro che, sotto l’apparenza della religione, condannano il Sacramento del Corpo e del Sangue del Signore, il Battesimo dei bambini, il Sacerdozio e gli altri Ordini ecclesiastici, nonché il vincolo del Matrimonio legittimo, noi li espelliamo dalla Chiesa di Dio e li condanniamo come eretici”,  ed ordiniamo che siano sottoposti al controllo dei poteri secolari. Con il vincolo della stessa condanna leghiamo anche coloro che prendono le loro difese. “

Concilio di Sens. Iniziato il 2 giugno 1140 (1141?).

Errori di Pietro Abelardo.

721.1 Il Padre è piena potenza, il Figlio ha una certa potenza, lo Spirito Santo non è potenza.

722. 2 Lo Spirito Santo non è della sostanza del Padre, ma dell’anima del mondo.

723. 3 Cristo non ha assunto la carne per liberarci dal giogo del diavolo.

724. 4. Né il Dio-uomo né questo Cristo sono la terza persona della Trinità.

725. 5. Il libero arbitrio è sufficiente da solo per un certo bene.

726. 6. Dio può fare solo ciò che fa e permettere ciò che permette, o solo in questo modo o in questo momento e non altrimenti.

727. 7. Dio non deve e non può impedire il male.

728. 8. Da Adamo non abbiamo contratto la colpa, ma solo la pena.

729. 9. Non hanno peccato coloro che hanno crocifisso Cristo senza saperlo.

730. 10. Ciò che viene fatto per ignoranza non può essere imputato a colpa.

731. 11. In Cristo non c’era lo Spirito del timore del Signore.

732. 12. Il potere di legare e sciogliere fu dato solo agli Apostoli, non ai loro successori.

733. 13. Con le opere l’uomo non diventa né migliore né peggiore.

734. 14. Al Padre, poiché non è di nessun altro, appartiene in senso proprio e speciale l’onnipotenza, ma non anche la sapienza e la bontà.

735. 15. Anche il timore religioso è escluso dalla vita futura.

736. 16. Il diavolo suscita suggestioni apponendo pietre o erbe.

737. 17. La venuta alla fine dei secoli potrebbe essere attribuita al Padre.

738. 18. L’anima di Cristo non è scesa all’inferno da sola, ma solo con il suo potere.

739. 19. Né l’opera né la volontà, né la concupiscenza né il piacere che la muovono sono peccaminosi, e non dobbiamo desiderare che si estinguano.

Lettera “Apostolicam Sedem” al Vescovo di Cremona, data incerta.

Battesimo di desiderio

741. Il presbitero di cui hai detto che finì i suoi giorni senza l’acqua del Battesimo, affermiamo senza esitazione che, poiché perseverò nella fede della santa Madre Chiesa e nella professione del Nome di Cristo, fu liberato dal peccato originale e ottenne la gioia della patria celeste. Si legga anche l’ottavo libro di Agostino De civitate Dei dove si legge, tra l’altro: “Il Battesimo è amministrato in modo invisibile quando non è il disprezzo per la religione, ma la barriera della necessità che lo esclude”. Aprite anche il libro del beato Ambrogio De obitu Valentiani che afferma la stessa cosa. Avendo risolto le questioni, dunque, attenetevi alle concezioni dei Padri docenti, e fate presentare costantemente nella vostra Chiesa preghiere ed offerte per il presbitero che avete menzionato.

CELESTINO II: 26 settembre. 1143-8 marzo 1144

LUCIO II: 12 marzo 1144-15 febbraio 1145

EUGENIO III: 15 febbraio 1145-8 luglio 1153

Concilio di Reims, iniziato il 21 marzo 1148

La Trinità divina

745. “Riguardo al primo (capitolo) solo il Romano Pontefice definì, affinché nessun concetto in teologia facesse una separazione tra natura e persona, e affinché non si parlasse di Dio come ‘Essenza divina’ solo nel senso di un ablativo, ma anche nel senso di un nominativo. “

ANASTASO IV: 12 luglio 1153-3 dicembre 1154.

ADRIANO IV: 4 dicembre 1154-1 settembre 1159.

ALESSANDRO III: 7 settembre 1159-30 agosto 1181

Concilio di Tours, iniziato il 19 maggio 1163.

Il prestito ad interesse.

747. (Cap. 2) Molti tra il clero, e lo diciamo con dolore, anche tra coloro che per professione ed abitudine hanno lasciato il presente secolo, certamente si sottraggono al consueto prestito ad interesse perché più chiaramente condannato, ma prendono in pegno i beni dei bisognosi a cui hanno prestato denaro, e ricevono i frutti prodotti oltre il capitale prestato. Perciò l’autorità del Consiglio Generale ha decretato che d’ora in poi nessuno che sia stabilito nel clero abbia l’ardire di praticare questo o qualsiasi altro tipo di prestito ad interesse. E se finora qualcuno ha ricevuto in pegno i beni di qualcuno dopo avergli dato del denaro secondo questa clausola o con questa condizione, deve restituire incondizionatamente i suoi beni al debitore se, tolte le spese, ha già ricevuto il suo capitale dai frutti prodotti. E se ha un deficit, dopo averlo riscosso, la proprietà deve essere restituita gratuitamente al suo padrone. Ma se dopo questo decreto ci sarà qualche ecclesiastico che persevererà in questi detestabili guadagni usurari, sia messo in pericolo il suo ufficio ecclesiastico, a meno che non si tratti di un beneficio della Chiesa che pensava di dover riscattare in questo modo dalla mano di un laico.

Lettera “Ex litteris tuis” al sultano residente a Iconio, 1169.

748. Il corpo di Maria incorrotto dopo la sua morte.

(Maria) infatti concepì senza disonore, partorì senza dolore e partì da qui senza corruzione, secondo la parola dell’Angelo, o meglio: di Dio per mezzo dell’Angelo, affinché sia manifesto che Ella è piena e non semipiena di grazia, e perché Dio, il Figlio, adempia fedelmente l’antico comandamento che ha insegnato un tempo, cioè onorare il padre e la madre, e perché la carne verginale di Cristo, assunta dalla carne della Madre vergine, non differisca del tutto da essa.

Lettera “Cum in nostra” all’Arcivescovo Guglielmo di Sens, 28  Maggio 1170.

749. L’errore di Pietro Lombardo sull’umanità di Cristo.

Quando vi siete insediati nel vostro ufficio alla nostra presenza, vi abbiamo ingiunto a voce di riunire a voi i vostri Vescovi suffraganei a Parigi e di lavorare efficacemente per rimuovere la falsa dottrina di Pietro, ex Vescovo di Parigi, in cui si dice che Cristo, in quanto uomo, non sia un qualche cosa. Per questo chiediamo alla vostra fraternità, con rescritto apostolico, che… convochiate a Parigi i vostri suffraganei e che, insieme a loro e ad altri uomini religiosi e prudenti, vi adoperiate per abrogare completamente la suddetta dottrina, e che prescriviate che i professori e gli studenti che si dedicano alla teologia insegnino che Cristo, così come è un Dio perfetto, è anche un uomo perfetto composto da un’anima e da un corpo.

Lettera “Cum Christus” all’arcivescovo Guglielmo di Reims, 18 febbraio 1177.

L’errore sull’umanità di Cristo.

750. Poiché Cristo, Dio perfetto, è un uomo perfetto, è sorprendente vedere con quale temerarietà qualcuno osi dire che Cristo non sia qualcosa in quanto è uomo. Per evitare che un tale inganno si diffonda nella Chiesa o che si introduca un errore, ordiniamo alla vostra fraternità, con rescritto apostolico… che, in virtù della nostra Autorità e sotto pena di anatema, proibiate a chiunque, d’ora in poi, di osare affermare che Cristo non sia alcunché in quanto uomo, poiché, come è vero Dio, è anche vero uomo, sussistendo da un’anima razionale e da una carne umana.

3° Concilio di LATERANO (11° Œcum. 5-19 (22?) marzo

3a sessione, 19 o 22 marzo

Simonia

751 . Cap. 10. I monaci non devono essere accolti in un monastero per denaro… Se qualcuno, dopo essere stato espulso, ha dato del denaro per essere ricevuto, non andrà fino agli ordini sacri; colui che ha ricevuto questo denaro sarà punito con la privazione del suo ufficio.

Lettera “In civitate tua” all’Arcivescovo di Genova, data incerta.

753. Contratto di vendita illecita

Dite che nella vostra città capita spesso che alcune persone si procurino pepe, cannella o altri beni che in quel momento non valgono più di cinque sterline, e che promettano che a una certa data pagheranno sei sterline a coloro dai quali hanno ricevuto questi beni. Ma anche se un tale contratto non può essere chiamato usura a causa di tale forma, i venditori incorrono comunque in un peccato, a meno che non ci sia qualche dubbio sul fatto che la merce varrà di più o di meno al momento del pagamento, e quindi i vostri concittadini avrebbero molta cura della loro salvezza se si astenessero da contratti di questo tipo, perché i pensieri degli uomini non possono essere nascosti a Dio Onnipotente.

Lettera “Ex publico instrumento” Al Vescovo di Brescia, data incerta.

754. Il vincolo del matrimonio

Poiché la suddetta donna è stata effettivamente sposata dal suddetto uomo, ma secondo le sue parole non è stata unita a lui fino ad ora, chiediamo alla vostra fraternità, ordinandolo in uno scritto apostolico, che se il suddetto uomo non abbia conosciuto carnalmente questa donna e questa donna, come ci informate, vuole entrare in un ordine religioso, e dopo aver ricevuto da lei sufficienti garanzie che entro due mesi entrerà in un ordine religioso o tornerà dal marito, voi la assolvete, senza alcuna possibile opposizione o appello, dalla sentenza (di scomunica) da cui è vincolata, in modo che se entrerà in un ordine religioso, ciascuno restituirà all’altro ciò che ha evidentemente ricevuto da lui, e l’uomo stesso, se prenderà l’abito religioso, sarà autorizzato a contrarre un altro matrimonio. Infatti, ciò che il Signore dice nel Vangelo, che non è lecito all’uomo allontanare la propria moglie se non per fornicazione (Mt V, 32 Mt XIX, 9), va inteso, secondo l’interpretazione della santa parola, di coloro il cui matrimonio è stato consumato dall’unione carnale senza la quale il matrimonio non può essere consumato, e quindi se la suddetta moglie non è stata conosciuta dal marito, è lecito che entri in religione.

Lettera (frammenti) “Verum post” all’Arcivescovo di Salerno, data incerta.

Effetti del consenso matrimoniale.

755. Dopo il legittimo consenso “de praesenti” è lecito che uno dei due, anche se l’altro si opponga, scelga il monastero, come del resto i santi sono stati tenuti lontani dal matrimonio da una chiamata, almeno fino a quando non sia esistita tra loro un’unione carnale. E se l’altro che rimane, nonostante la monizione, non vuole mantenere la continenza, gli è permesso di contrarre un secondo matrimonio; poiché non sono diventati una sola carne, l’uno può benissimo passare a Dio e l’altro rimanere nel mondo.

756. Se (tra un uomo e una donna) c’è un consenso lecito “de præsenti“…, in modo che l’uno accolga espressamente l’altro come suo sposo con mutuo consenso e con le parole consuete… che ci sia stato o meno un giuramento, non è permesso alla donna di sposare un altro. E se si è sposata, e anche se ne è seguita un’unione carnale, deve essere separata da quello e costretta dalla severità ecclesiastica a ritornare al primo, e questo anche se altri pensino diversamente e anche alcuni dei nostri predecessori possono aver giudicato diversamente.

Lettera (frammento) al Vescovo Ponzio di Clermont (?), data incerta.

La forma del Battesimo.

757. Se qualcuno immerge un neonato tre volte nell’acqua nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, Amen, e non dice: “Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, Amen”, il neonato non è battezzato.

758. Ma quelli in cui c’è qualche dubbio se siano stati battezzati, saranno battezzati anteponendo le parole: “Se sei battezzato, io non ti battezzo; ma se non sei ancora battezzato, io ti battezzo, ecc…”. “

LUCIO III: 1 settembre 1181- 25 novembre 1185

Concilio di Verona, fine ottobre – inizio novembre 1184.

Condanna degli errori delle sette secolari riguardo al potere della gerarchia della gerarchia.

760. Con questa costituzione, in virtù dell’autorità apostolica, condanniamo tutte le eresie, con qualsiasi nome si chiamino: in primo luogo, quindi, decretiamo che i catari e i patarini siano soggetti a un anatema perpetuo, così come coloro che si chiamano falsamente Umiliati o Poveri di Lione, Passagiani, Giuseppini e Arnoldisti con un nome falso.

761. E poiché alcuni, sotto l’apparenza di pietà… si arrogano l’autorità di predicare… leghiamo con lo stesso vincolo di anatema tutti coloro che, pur essendo stati interdetti o non inviati, osino predicare privatamente o pubblicamente senza aver ricevuto l’autorità della Sede, e tutti coloro che non temono di pensare ed insegnare diversamente riguardo al Sacramento del Corpo e del Sangue di nostro Signore Gesù Cristo, o al Battesimo, o alla Confessione dei peccati, o al Matrimonio, o agli altri Sacramenti della Chiesa, da quanto viene predicato e osservato dalla santissima Chiesa romana, nonché, in generale, tutti coloro che questa stessa Chiesa romana o i vari Vescovi nelle loro diocesi con il consiglio dei chierici, o i chierici stessi quando la sede fosse vacante, hanno giudicato eretici, se necessario, con il consiglio dei Vescovi vicini.

Lettera “Dilectæ in Christo” al Vescovo Simone di Meaux, data incerta

Castrazione

762. La priora ed il convento di Colonantia interpellano la Sede Apostolica per sapere se un giovane, a cui sono stati asportati gli organi sessuali, possa essere ordinato al sacerdozio con il permesso dei canonici. Ansiosi di vedere osservata la distinzione canonica in questa materia, con questo scritto apostolico incarichiamo la vostra fraternità di ricercare la verità con grande diligenza, per sapere se sia stato castrato da nemici o da dottori, o se egli stesso si sia messo le mani addosso perché non sapeva come opporsi al vizio della carne. I canoni ammettono i primi (128 – a) se sono altrimenti idonei, ma ordinano che il terzo sia punito come omicida di se stesso.

URBANO III: 25 novembre 1185 – 19/20 ottobre 1187

Lettera “Consuluit nos” ad un Sacerdote di Brescia, data incerta.

Usura.

764. La vostra bontà ci ha chiesto se nel giudizio delle anime dobbiamo considerare come un usuraio che, non potendo altrimenti prestare, presta denaro nella convinzione che, anche senza l’esistenza di alcun contratto, riceverà più del suo capitale; o se qualcuno incorre nella stessa pena se, come si dice comunemente, non acconsente ad un giuramento finché, anche senza richiederlo, non ne tragga qualche beneficio; e se un mercante debba essere condannato alla stessa pena se vende le sue merci ad un prezzo molto più alto quando il tempo per il pagamento è notevolmente più lungo rispetto al caso in cui il prezzo di acquisto gli venga pagato subito. Ma poiché è chiaro dal Vangelo di Luca cosa ci si debba aspettare in questi casi, quando dice: “Prestate senza aspettarvi nulla in cambio” (Lc. VI, 35), si deve giudicare che queste persone agiscano in modo sbagliato a causa della loro intenzione di trarre profitto – poiché ogni usura e ogni eccedenza nella restituzione sono proibite dalla legge – e nel giudizio delle anime devono essere fermamente esortate a restituire ciò che hanno acquisito in questo modo.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (16) “da GREGORIO VIII ad INNOCENZO III”.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO; S.S. LEONE XIII – “PATERNA CARITAS”

Questa lettera indirizzata ai Vescovi Armeni rientrati nell’obbedienza alla Sede Apostolica di Roma, è piena di gioia per la desiderata unione al Corpo mistico di Cristo, che è in terra la Chiesa Cattolica, di questi fratelli un tempo lontani dall’ovile di Cristo, erranti senza la guida del supremo Pastore, il Vicario di Cristo, il Romano Pontefice. Ecco il vero ecumenismo, l’accoglienza di tutti i popoli, di tutti gli uomini nell’unica Arca di salvezza, la Chiesa cattolica con un atto di fede ed obbedienza a Dio e per Lui al suo Vicario in terra. Ben diverso è l’ecumenismo massonico-modernista che, cambiando significato al termine, lo intende come accettazione di ogni culto, indifferentemente riferito al vero Dio-uomo incarnato, o ad entità dichiaratamente anticristiche, cioè demoniache, come opportunamente ci ricorda il salmo XCV, … gli dei dei gentili sono i demoni. Con questo trucco linguistico, la falsa chiesa modernista, sta attuando il piano massonico degli infiltrati, di omogeinizzare in un solo minestrone i culti religiosi per traghettare poi il tutto verso la pseudo religione unica mondialista, quella dell’anticristo, il falso messia del transumanesimo.

Leone XIII
Paterna caritas

Lettera Enciclica

La paterna carità con la quale abbracciamo tutte le componenti del gregge del Signore è tale, per la sua forza e per la sua natura, che risentiamo, come in un’intima e costante comunione di sentimenti, tutto ciò che accade di propizio o di avverso nel mondo cristiano. Pertanto, come un grande e continuo dolore si era impadronito del Nostro cuore per il fatto che un certo numero di Armeni, principalmente nella città di Costantinopoli, si era separato dalla vostra fraterna società, così sentiamo ora una gioia tutta speciale e ardentemente desiderata nel vedere che tale discordia si è, grazie a Dio, felicemente sedata. Ma mentre Ci rallegriamo della concordia e della pace che vi sono restituite, non possiamo fare a meno di esortarvi a conservare con cura e a sforzarvi anche di accrescere questo grande beneficio della bontà divina. Per ottenere questo, cioè intendere la stessa dottrina e provare gli stessi sentimenti in ciò che concerne la Religione, bisogna che restiate tutti costanti, come lo siete, nell’obbedienza a questa Sede Apostolica; e quanto a Voi, cari Figli, dovete essere fedelmente sottomessi e obbedienti al vostro Patriarca e agli altri Vescovi che hanno il diritto di dirigervi. – Ora, siccome per scuotere questa religiosa concordia spesso viene l’occasione sia di contrasti negli affari pubblici, sia di contestazioni nelle cose private, dovete scongiurare i primi con quel rispetto e quella sudditanza che così lodevolmente manifestate verso il supremo Principe dell’Impero Ottomano, di cui Noi conosciamo bene lo spirito di giustizia, lo zelo per conservare la pace, e le eccellenti disposizioni a Nostro riguardo dimostrate da brillanti testimonianze. – Quanto alle contestazioni e alle rivalità, ne sarete agevolmente liberati se imprimerete profondamente nel cuor vostro e terrete presenti nella vostra condotta i precetti che San Paolo, l’Apostolo delle genti, dà a proposito della perfetta carità, la quale “è paziente e benigna; non è invidiosa, non agisce inconsideratamente, non si gonfia d’orgoglio, non è ambiziosa, non cerca i propri interessi, non si adira, non pensa al male” (1Cor XIII, 4-5). Inoltre questa eccellente e perfetta concordia degli animi vi assicurerà un altro beneficio, perché per merito suo potrete accrescere, come abbiamo detto, e fare sviluppare sempre più i risultati della pace e della restituita concordia. Infatti essa farà rivolgere su di Voi gli sguardi e i cuori di coloro che, pur avendo in comune con Voi la razza e la nazionalità, tuttavia sono ancora separati da Voi e da Noi, e non si trovano nel sacro ovile, di cui Noi abbiamo la custodia. Vedendo l’esempio della vostra concordia e della vostra carità, essi si persuaderanno facilmente che lo spirito di Cristo vige fra Voi, perché Egli solo può unire i suoi a Se stesso in modo tale da formare un solo corpo. Voglia Iddio che essi riconoscano ciò e decidano di ritornare a quell’unità da cui i loro antenati si sono separati! – Certamente accadrebbe loro d’essere inondati da una indicibile gioia vedendo che, per mezzo della loro unione a Noi e a Voi, sarebbero anche uniti a tutti gli altri fedeli che, nel mondo intero, appartengono al Cattolicesimo; comprenderebbero allora che essi si troverebbero negli abitacoli della mistica Sionne, alla quale sola è stato dato, secondo i divini oracoli, di rizzare dovunque le sue tende e stendere su tutta la terra i veli dei suoi tabernacoli. – Per altro sta principalmente a Voi, Venerabili Fratelli, posti alla testa della Diocesi d’Armenia, operare affinché questo auspicato ritorno si realizzi; a Voi, cui non manca, lo sappiamo bene, né lo zelo per esortare, né la dottrina per persuadere. Noi vogliamo pure che i dissidenti siano richiamati da Voi a nome Nostro e sulla Nostra parola; infatti, lungi dall’averne vergogna, conviene grandemente ricondurre alla casa paterna i figli che se ne sono allontanati e che sono aspettati da lungo tempo; anzi, bisogna andar loro incontro e aprire le braccia per stringerli al loro ritorno. Né crediamo che le vostre parole e le vostre esortazioni cadranno nel nulla. Infatti la speranza nel desiderato effetto Ci viene prima dall’immensa misericordia di Dio sparsa fra tutte le genti, e poi dalla docilità e dalle qualità naturali dello stesso popolo Armeno. Numerosi documenti storici attestano quanto esso sia incline ad abbracciare la verità, una volta che l’abbia conosciuta, e quanto sia disposto a ritornarvi se si accorge d’avere deviato. – Quegli stessi che sono separati da Voi nel loro culto si gloriano che il popolo Armeno sia stato istruito nella fede di Cristo da quel Gregorio, uomo santissimo soprannominato l’Illuminatore, che essi venerano in modo particolare come loro padre e loro patrono. Fra loro è rimasto pure memorabile il viaggio che egli fece alla volta di Roma per testimoniare la sua fedeltà e il suo rispetto verso il Romano Pontefice San Silvestro. – Si dice anche che egli sia stato ricevuto con l’accoglienza più benevola, e che ne ottenesse parecchi privilegi. In seguito questi stessi sentimenti di Gregorio verso la Sede Apostolica furono condivisi da molti altri di coloro che ressero le Chiese Armene, come risulta dai loro scritti, dai loro pellegrinaggi a Roma e, principalmente, dai decreti sinodali. È ben degno davvero di essere rammentato, a conferma, ciò che i Padri Armeni, riuniti in Sinodo a Sis l’anno 1307, proclamarono sul dovere di obbedire a questa Sede Apostolica: “Come è proprio del corpo essere sottomesso alla testa, così la Chiesa universale (che è il corpo di Cristo) deve obbedire a colui che da Cristo Signore è stato costituito capo di tutta la Chiesa”. Questo fu confermato e sviluppato ancora più chiaramente nel Concilio di Adana, nel sedicesimo anno del medesimo secolo. – Senza parlare di cose di minore importanza, vi è ben noto ciò che fu fatto nel Concilio di Firenze. I delegati del Patriarca Costantino V, essendosi recati colà per venerare come Vicario di Cristo Eugenio IV Nostro Predecessore, dichiararono di essere venuti a lui che era il capo, il pastore e il fondamento della Chiesa, pregandolo che il capo avesse pietà delle membra, che il pastore riunisse il gregge e confermasse la Chiesa quale fondamento . E presentandogli il simbolo della loro fede, lo supplicavano in questi termini: “Se manca qualche cosa, faccelo conoscere”. – Allora fu pubblicata dal Pontefice la Costituzione conciliare Exultate Deo, con la quale Egli li istruì su tutto quello che giudicava necessario conoscere della dottrina cattolica. I delegati, ricevendo questa Costituzione, affermarono a nome proprio, del loro Patriarca e di tutta la nazione Armena, di aderirvi pienamente e di sottomettersi con cuore docile e devoto, dichiarando a nome dei suddetti, e come veri figli della obbedienza, di “ottemperare fedelmente agli ordini e alle prescrizioni della Sede Apostolica”. Perciò il Patriarca di Cilicia, Azaria, nella sua lettera a Gregorio XIII, Nostro Predecessore, in data 10 aprile 1585, poté scrivere con tutta verità: “Ecco che noi abbiamo trovato i documenti dei nostri antenati sull’obbedienza dei Cattolici e dei nostri Patriarchi al Pontefice di Roma; nel modo in cui San Gregorio l’Illuminatore fu obbediente al Papa San Silvestro”. È per questo che la nazione Armena ricevette con grandi onori i legati di ritorno dalla Santa Sede, e si fece un dovere di osservare fedelmente i precetti della stessa. – Noi nutriamo veramente la fiducia che questi ricordi saranno efficacissimi per indurre parecchi di coloro che sono ancora separati da Noi a ricercare l’unione. In verità, se la causa della loro indecisione o della loro esitazione fosse il timore di trovare meno sollecitudine a loro riguardo presso la Sede Apostolica, o di essere accolti da Noi con minore affetto di quanto essi vorrebbero, invitateli, Venerabili Fratelli, a rammentarsi ciò che hanno fatto i Pontefici Romani, Nostri Predecessori, i quali non si sono mai trovati in difetto di testimonianze circa la loro carità paterna verso gli Armeni. Essi hanno sempre ricevuto con benevolenza quelli di loro che sono venuti in pellegrinaggio a Roma o che qui si rifugiarono; essi hanno anche voluto che fossero aperte per loro case d’ospitalità. Gregorio XIII, come è noto, aveva concepito il disegno di fondare un istituto per l’opportuna istruzione dei giovani Armeni, e se fu impedito dalla morte di mettere in esecuzione questo disegno, Urbano VIII lo realizzò in parte accogliendo, con gli altri allievi stranieri, anche gli Armeni nel vastissimo Collegio da lui istituito per la propagazione della fede. – Quanto a Noi, malgrado la malvagità dei tempi, abbiamo potuto, grazie a Dio, eseguire più largamente il disegno concepito da Gregorio XIII, e abbiamo assegnato agli alunni Armeni un fabbricato assai vasto presso San Nicola da Tolentino, istituendovi, nelle forme volute, il loro Collegio. Questo è stato fatto perché si rispettasse, doverosamente, la liturgia e la lingua dell’Armenia, così commendabile per l’antichità, l’eleganza e il gran numero d’insigni scrittori; e molto più perché un Vescovo del vostro rito dimorasse costantemente a Roma per iniziare alle cose sante tutti gli alunni che il Signore chiamasse al suo particolare servizio. A tale effetto era stata fondata da lungo tempo anche una scuola nel Collegio Urbaniano per l’insegnamento della lingua Armena, e Pio IX, Nostro Predecessore, aveva provveduto a che nel ginnasio del Seminario pontificio romano vi fosse un professore per insegnare agli alunni del paese la lingua, la letteratura e la storia della nazione Armena. – Del resto la sollecitudine dei Pontefici Romani verso gli Armeni non è restata circoscritta entro i confini di questa città, perché nulla è stato loro più a cuore che di togliere la vostra Chiesa dalle difficoltà in cui si trovava, e di riparare i mali che essa ebbe a subire per la perversità dei tempi. Nessuno ignora con quale cura Benedetto XIV si sforzò di proteggere e di conservare intatta la vostra liturgia, come quella delle altre Chiese orientali, e di fare in modo che la successione dei Patriarchi cattolici d’Armenia fosse reintegrata in favore della Sede di Sis. Voi sapete pure che Leone XII e Pio VIII dedicarono le loro cure affinché nella capitale stessa dell’Impero Ottomano gli Armeni avessero un prefetto della loro nazione per gli affari civili, come le altre comunità che appartengono a detto Impero. – Infine è vivo il ricordo degli atti compiuti da Gregorio XVI e da Pio IX per accrescere nel vostro paese il numero delle sedi episcopali, e perché il Prelato armeno di Costantinopoli primeggiasse in onore e dignità. Questo fu fatto, prima istituendo a Costantinopoli la Sede Arcivescovile e Primaziale, e poi decretandone l’unione con il Patriarcato della Cilicia, a condizione che la residenza del Patriarca fosse stabilita nella capitale dell’Impero. E per impedire che la distanza venisse ad indebolire la stretta unione dei fedeli Armeni con la Chiesa Romana, fu saggiamente provveduto a che il Delegato apostolico risieda nella medesima città, per rappresentare il Pontefice Romano. Voi stessi potete dunque essere testimoni della sollecitudine che abbiamo avuto per la vostra nazione, e Noi lo siamo a Nostra volta dell’attaccamento che professate verso di Noi, e del quale abbiamo spesso avuto la dimostrazione. – Quindi, poiché da una parte le qualità del vostro popolo, la pratica degli antenati e tutta la storia dei secoli passati sono fatti per attirare verso questa roccaforte della verità gli Armeni che sono separati da Voi, e con efficacia così grande che non saprebbero essere trattenuti da un più lungo indugio, e dall’altra la Sede Apostolica si è sempre sforzata di avere strettamente unita a sé la vostra nazione, e di richiamarla all’antica unione se qualche volta se ne allontanava, ne conseguono evidentemente validissime ragioni perché Voi, Venerabili Fratelli, vi consigliate, e perché Noi a Nostra volta abbiamo la buona speranza che sia pienamente ristabilita l’antica unione. Ciò tornerà certamente a profitto di tutta la nazione, non solamente per la salute eterna delle anime, ma anche per quella prosperità e quella gloria che si possono legittimamente desiderare sulla terra. La storia attesta infatti che fra i sacri Pastori dell’Armenia hanno brillato di più vivo splendore, come fulgide stelle, coloro che sono stati più strettamente uniti alla Chiesa Romana, e che la gloria della vostra nazione ha toccato il suo apogeo nei secoli in cui la Religione cattolica vi ha prosperato più largamente. – Dio solo, moderatore di tutte le cose, può concedere che questo avvenga secondo i Nostri voti e i Nostri desideri, Lui solo, che “chiama coloro che vuole onorare e ispira sentimenti religiosi a chi vuole” . Con Noi fate salire verso di Lui supplichevoli preghiere, Venerabili Fratelli e diletti Figli, affinché, mossi dalla sua grazia trionfatrice, tutti coloro della vostra nazione che per il Battesimo sono entrati nella società della vita cristiana e che tuttavia sono separati dalla Nostra comunione, Ci ricolmino d’una gioia intera ritornando a Noi, “professando la medesima dottrina, avendo la medesima carità e nutrendo tutti i medesimi sentimenti” (Fil II, 2). Sforzatevi d’avere per ausiliatrice presso il trono della grazia “la gloriosa, benedetta, santa, sempre Vergine Maria, Madre di Dio, Madre di Cristo” perché Ella offra “le nostre preghiere al Suo Figlio, nostro Dio” . Impiegate altresì come intercessore con Lei l’illustre martire Gregorio l’Illuminatore, affinché, quale ministro della grazia divina, compia e consolidi l’opera che egli ha cominciata a prezzo delle sue fatiche e della sua invincibile pazienza nei tormenti. Domandate infine, a imitazione della Nostra preghiera, che la docilità degli Armeni e il loro ritorno all’unità cattolica servano di esempio e di stimolo a tutti quelli che adorano Cristo ma sono separati dalla Chiesa Romana, affinché essi ritornino là donde sono partiti, e vi siano un solo ovile ed un solo Pastore. – Mentre a ciò dedichiamo i Nostri voti e la Nostra speranza, accordiamo, nell’effusione della carità e come pegno della bontà divina, la Benedizione Apostolica a Voi, Venerabili Fratelli, e a Voi tutti diletti Figli.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 luglio 1888, anno undecimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA V DOPO PASQUA (2023)

3DOMENICA V DOPO PASQUA (2023)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La liturgia continua a cantare il Cristo risorto e ci invita, in questa settimana delle Rogazioni, ad unirci a quella preghiera con la quale il Salvatore ha chiesto a Dio di far partecipe, con l’Ascensione, la propria umanità di quella gloria che, come Dio, possiede fin dall’eternità (Off.). Anche noi possederemo un giorno questa gloria, poiché ci ha liberati dal peccato con la virtù del Suo Sangue (Intr., Comm.). Poiché Gesù Cristo partendosi da noi ci ha lasciato come consolazione « di poter pregare in Nome suo, onde la nostra gioia sia perfetta », cosi domandiamo a Dio « per nostro Signore » di non rimanere senza frutto nella conoscenza di Gesù, affinché, credendo alla sua generazione da parte del Padre, (Vang.) noi meritiamo di entrare con Lui nel Regno di suo Padre.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Isa. XLVIII: 20

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiate usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja.

[Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

Ps LXV: 1-2

Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: dà a Lui lode di gloria].

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiáte usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja

[Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

 Orémus.

Deus, a quo bona cuncta procédunt, largíre supplícibus tuis: ut cogitémus, te inspiránte, quæ recta sunt; et, te gubernánte, éadem faciámus.

[O Dio, da cui procede ogni bene, concedi a noi súpplici di pensare, per tua ispirazione, le cose che son giuste; e, sotto la tua direzione, di compierle.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli.

Jac. I: 22-27

Caríssimi: Estóte factóres verbi, et non auditóres tantum: falléntes vosmetípsos. Quia si quis audítor est verbi et non factor: hic comparábitur viro consideránti vultum nativitátis suæ in spéculo: considerávit enim se et ábiit, et statim oblítus est, qualis fúerit. Qui autem perspéxerit in legem perfectam libertátis et permánserit in ea, non audítor obliviósus factus, sed factor óperis: hic beátus in facto suo erit. Si quis autem putat se religiósum esse, non refrénans linguam suam, sed sedúcens cor suum, hujus vana est relígio. Relígio munda et immaculáta apud Deum et Patrem hæc est: Visitáre pupíllos et viduas in tribulatióne eórum, et immaculátum se custodíre ab hoc sæculo.

[“Carissimi: Siate osservanti della parola, e non uditori soltanto, che ingannereste voi stessi. Perché se uno ascolta la parola e non l’osserva, egli rassomiglia a un uomo che contempla nello specchio il suo volto naturale. Contemplato, se ne va, e subito dimentica come era. Ma chi guarda attentamente nella legge perfetta della libertà, e persevera in essa, diventando non un uditore smemorato, ma un operatore di fatti, questi sarà felice nel suo operare. – Se alcuno crede d’essere religioso, e non frena la propria lingua, costui seduce il proprio cuore, e la sua religione è vana. Religione pura e senza macchia dinanzi a Dio e al Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni, e conservarsi incontaminati da questo mondo”].

STUDIO E CURIOSITA.

L’esposizione cristiana — ed è il Cristianesimo che noi, sulle orme degli Apostoli veniamo esponendo in queste spiegazioni — oscilla tra le verità più alte, trascendenti addirittura ed i concetti più umili, più pratici. Qualche volta il pensiero apostolico vola, tal altra cammina per vie piane, quasi trite. Abbiamo volato con Paolo, camminiamo oggi con S. Giacomo. Il quale è molto preoccupato dei pericoli della speculazione pura, anche religiosa. È facile illudersi e credere, per illusione, che il parlare molto di una cosa, o il meditarla profondamente, lo specularvi d’intorno voglia dire amarla per davvero. Illusione funesta sempre; ma più funesta quando la materia della illusione, sia religiosa; quando si creda religiosità o religione perfetta la speculazione teologica la più sottile e più alta. La speculazione ci vuole, perché noi uomini, anche nel campo religioso siamo esseri intelligenti, razionali: vogliamo capire. È un bisogno ed un dovere, è un ossequio a Dio: l’ossequio dell’intelligenza. Ma non basta, ma non è la cosa più importante. Perciò l’Apostolo dice ai fedeli: siate osservanti della Legge, non solo curiosi di essa. Mettetela in pratica, non appagatevi di conoscerla a perfezione. E continua osservando che il fare diversamente, il preferire la speculazione curiosa all’osservanza pratica, il guardare e sentire al fare, ancora il separare quello da questo, è un’illusione, un auto inganno. – E dopo avere insistito su questo concetto fondamentale, non con l’abilità del sofista, ma collo zelo dell’apostolo, conclude in un modo e con una formula anche più severamente e modestamente pratica, che per le sue qualità apparenti, può anche scandalizzare, ma che importa rammentare sempre per fare del buon Cristianesimo, fare della religione autentica. La quale consiste, dice l’Apostolo (e adopera la parola « religione pura ed immacolata presso Dio e il Padre ») nel « visitare i pupilli e le vedove tribolate ed oppresse, custodendo il proprio cuore senza macchia fra la corruttela del nostro secolo ». Visitare i pupilli e le vedove tribolate, oppresse; notoriamente i deboli sono stati il bersaglio della perversità vile. E nessuno è così tipicamente debole come la vedova coi suoi orfanelli. Le anime pagane approfittano di queste debolezze per opprimerle e spogliarle ed angariarle: prendono quel poco che c’è, spogliano di quel nulla che è rimasto. Le anime pagane… le quali proprio così, proprio in questo assalto ostile, cupido avido al poco benessere di questi deboli, si rivelano tali: pagane. Ed è inutile che ostentino così facendo, così trattando il prossimo, sentimenti buoni di adorazione, di amore per il loro Dio, per Iddio. L’abito religioso su queste anime egoistiche è una maschera, che non inganna nessuno, certo non inganna Dio. La pietà verso di lui si rivela e traduce in modo irrefragabile solo nella carità operosa, benefica verso i poveri, anzi verso quei poveri che non sono più poveri, verso quelli dei quali chi fa il bene non ha nulla da umanamente ripromettersi, tanto sono poveri e miseri! I pupilli e le vedove, bersagliati, oppressi. Il linguaggio apostolico è di una singolare chiarezza. Senza questa carità o attuta, o almeno sinceramente voluta, non c’è religione, c’è una lustra di Cristianesimo. Ma basta questa carità, perché si possa dire religiosa un’anima? Basta? Delicato problema, ma a cui si può sicuramente rispondere: Se c’è in un’anima carità sincera, senza secondi fini, senza alterazioni innaturali, c’è la religione, almeno embrionalmente. Non c’è ancora la pienezza, c’è già il principio: non c’è ancora l’albero, c’è già il germe. Non siamo all’arrivo; siamo alla partenza per… verso la religione, verso Dio. Ecco perché noi possiamo predicare a tutti i nostri uditori, a quelli che hanno ancora la fede e a quelli che non l’hanno forse mai avuta, che forse l’hanno disgraziatamente perduta: siate caritatevoli, cioè fate la carità, e avrete nell’anima l’aurora e il meriggio di Dio.

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Alleluja

Allelúja, allelúja.

Surréxit Christus, et illúxit nobis, quos rédemit sánguine suo. Allelúja.

[Il Cristo è risuscitato e ha fatto sorgere la sua luce su di noi, che siamo redenti dal suo sangue. Allelúia.]

Joannes XVI: 28

Exívi a Patre, et veni in mundum: íterum relínquo mundum, et vado ad Patrem. Allelúja.

[Uscii dal Padre e venni nel mondo: ora lascio il mondo e ritorno al Padre. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann XVI:23-30

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Amen, amen, dico vobis: si quid petiéritis Patrem in nómine meo, dabit vobis. Usque modo non petístis quidquam in nómine meo: Pétite, et accipiétis, ut gáudium vestrum sit plenum. Hæc in provérbiis locútus sum vobis. Venit hora, cum jam non in provérbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiábo vobis. In illo die in nómine meo petétis: et non dico vobis, quia ego rogábo Patrem de vobis: ipse enim Pater amat vos, quia vos me amástis, et credidístis quia ego a Deo exívi. Exívi a Patre et veni in mundum: íterum relínquo mundum et vado ad Patrem. Dicunt ei discípuli ejus: Ecce, nunc palam loquéris et provérbium nullum dicis. Nunc scimus, quia scis ómnia et non opus est tibi, ut quis te intérroget: in hoc crédimus, quia a Deo exísti.

[“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: In verità in verità vi dico, che qualunque cosa domandiate al Padre nel nome mio, ve lo concederà. Fino adesso non avete chiesto cosa nel nome mio: chiedete, e otterrete, affinché il vostro gaudio sia compito. Ho detto a voi queste cose per via di proverbi. Ma viene il tempo che non vi parlerò più per via di proverbi, ma apertamente vi favellerò intorno al Padre. In quel giorno chiederete nel nome mio: e non vi dico che pregherò io il Padre per voi; imperocché lo stesso Padre vi ama, perché avete amato me, e avete creduto che sono uscito dal Padre. Uscii dal Padre, e venni al mondo: abbandono di nuovo il mondo, e vo al Padre. Gli dissero i suoi discepoli: Ecco che ora parli chiaramente, e non fai uso d’alcun proverbio. Adesso conosciamo che tu sai tutto, e non hai bisogno che alcuno t’interroghi: per questo noi crediamo che tu sei venuto da Dio”].

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.)

LA PREGHIERA DEL MATTINO E DELLA SERA.

Quando il re Demetrio mandò contro i Giudei un esercito poderoso, un capitano espertissimo, Giuda Maccabeo, raccolse i suoi soldati impauriti, e raccontò loro una visione che li rallegrò tutti. « Non temete! — disse; — nel cuor della notte m’è apparso un personaggio venerando per età e gloria e circonfuso di una magnifica maestà. A me che meravigliato guardavo, una voce disse: « Questi è l’amico dei fratelli e del popolo d’Israele, questi è colui che molto prega per noi e per la città santa: Geremia è, il profeta di Dio ». Allora Geremia, stendendo la destra, mi consegnò una spada d’oro, dicendomi: « Ricevi la spada santa dono di Dio, con la quale abbatterai i nemici d’Israele mio popolo ». Confortati da queste parole, i valorosi attaccarono battaglia, pregando. La vittoria fu compiutamente splendida: ritornando giubilanti attraverso i campi insanguinati s’accorsero che il capitano dei nemici era tra i morti. Allora, alzato un grido di trionfo, benedissero il Signore onnipotente (II Macc., XV). Cristiani, che siete impauriti davanti agli assalti continui delle tentazioni e del mondo, Cristiani che siete oppressi dalle tribolazioni, Cristiani che soffrite stanchi e aggravati, alzate gli occhi al cielo: nella gloria di Dio Padre v’è Uno sempre intento a pregare per noi. Semper vivens ad interpellandum pro nobis (Ebr., VII, 25). Assai più fortunati noi siamo dei guerrieri di Giuda, perché chi intercede senza posa per noi, non è un profeta, non è un semplice uomo, ma è lo stesso Figlio di Dio, Gesù Cristo. Ecco perché Egli stesso, nel suo Vangelo, ha promesso che la nostra preghiera sarà sempre esaudita: « Se voi domandaste qualsiasi cosa al Padre, in mio Nome, non vi sarà negata. Ma finora non avete mai pregato in mio Nome: su! Domandate e avrete; chiedete ed ogni vostra brama sarà compiuta ». La preghiera è la spada d’oro che Cristo consegna a ciascuno di noi: solo con essa supereremo ogni lotta della vita e abbatteremo il nostro nemico d’inferno. Solo con essa si sono formati i Santi: noi ci meravigliamo davanti alla purezza di S. Luigi Gonzaga, all’umiltà di S. Carlo Borromeo, alla carità di S. Filippo Neri, come di cose favolose e impossibili. Sì, sarebbero state davvero cose favolose e impossibili, se questi uomini avessero pregato così poco e così male come noi. – Questa volta non è della preghiera in generale che vi voglio parlare. Già tutti avete sentito e siete convinti che la preghiera sia necessaria all’anima, come al corpo il respiro; che chi prega si salva e chi non prega si danna. Oggi invece vi parlerò di un dovere quotidiano, dovere indispensabile che distingue il Cristiano di fede viva, dal Cristiano di fede morta. Nell’Antico Testamento, v’era una legge che obbligava gli Ebrei ad offrire due sacrifici al giorno: uno all’alba, l’altro al tramonto. Unum offeretis mane et alterum ad vesperum (Num., XXVIII, 4). Nel Nuovo Testamento, noi pure dobbiamo innalzare, al principio e alla fine di ogni giorno, un sacrificio di lodi che appunto si chiama preghiera del mattino e della sera. – 1. LA PREGHIERA DEL MATTINO. Milton, nel suo poema Il Paradiso perduto, descrive Adamo che, appena creato, apre gli occhi a contemplare le meraviglie del mondo. Vede i fiori coloriti, il verde dei boschi, vede l’azzurro del firmamento disteso sulla sua testa, e rapito in estasi manda un grido. « Mi slanciai e saltai verso il cielo come per toccarlo!» fa dire il poeta al primo uomo. Spontaneo come quello di Adamo deve essere, tutte le mattine appena apriamo gli occhi, lo slancio del nostro cuore impaziente di elevarsi a Dio. Comincia un altro giorno: un’altra pagina del libro di nostra vita. Oh se tutte le pagine cominciassero col santo Nome di Dio, di Gesù Salvatore, di Maria madre amorosissima, del nostro Santo protettore, del nostro Angelo custode, come ci troveremmo lieti quando, finita l’ultima pagina, dovremo consegnare il libro nelle mani della Giustizia Divina!…  Tutto prega alla mattina. Ecco ad oriente il cielo si sbianca: non sentite in questo momento come un invito universale a pregare? Venite adoremus Dominum, qui fecit nos! È la voce dei monti che si districano dalle tenebre; è la voce delle valli che come cappe smeraldine, si riempiono di luce; è la voce delle acque vicine o lontane, è la voce dei campi delle piante dei fiori; è la voce dei passeri che garriscono insieme sulla gronda del vostro tetto; è la voce del sole levante, del sole bello radioso, del sole immagine di Dio nel suo grande splendore. Questi milioni di voci, che sorgono da ogni parte della terra, sono voci di adorazione e di ringraziamento: ma è una musica senza parole. Ci vogliono le parole: ma queste non le può dire che l’uomo. Non le potete dire che voi. E non le direte? Iddio ha sempre avuto un gran desiderio delle primizie. Dalla storia sacra conosciamo che i primi frutti del campo erano per Lui; i primi agnelli del gregge; le prime bestie dell’armento; il primo figliuolo d’ogni famiglia era per Lui. Questo suo amore per le cose prime, incontaminate, Dio lo conserva ancora ed esige da noi la primizia di ogni giorno. Il mondano quando si sveglia pensa ai piaceri, perché suo dio è la passione ed a lei offre le sue primizie. L’uomo avaro e affarista pensa all’interesse, perché suo dio è il danaro, e a lui offre le sue primizie. L’uomo superbo e smanioso d’emergere pensa agli onori, perché suo dio è l’ambizione e a lei offre le sue primizie. Ma noi, che siamo Cristiani di nome e di fatto, noi che per Dio abbiamo il Signore del cielo e della terra, il Creatore delle visibili cose e delle invisibili, doniamo a Lui le primizie di ogni nostra giornata. Ci sono alcuni che, per pigrizia o per occupazioni, spesse volte cedono alla tentazione di rimandare le preghiere: « Le dirò dopo; prima devo far questa o quella osa; prima devo mangiare… ». L’esperienza insegna che orazioni tramandate sono orazioni tralasciate. E poi, se anche avessimo a dirle più tardi, non sarebbero primizie e perderebbero molto di valore. Nella santa Scrittura Dio si paragona ad un viaggiatore mattutino che sta in piedi vicino alla porta, e batte perché gli sia aperto. Ecce sto ad ostium et pulso. Cristiani, non siate maleducati con Dio! Non fatelo attendere in anticamera! Ma la prima parola di ogni giorno sia: « avanti, Signor mio e Dio mio ». Per fortuna a questo mondo ci sono cuori generosi. Non solo si accontentano al mattino delle preghiere comuni, ma vogliono offrire a Dio una grande primizia: la S. Messa. Beate queste anime, a cui è dato di capire quello che altri non capiscono. Nel primo scampanio esse ascoltano la squilla del Gran Re e accorrono in Chiesa. Se è vero che il lavoro impedisce a molti d’ascoltare la S. Messa ogni giorno, è non meno vero che altri la trascurano per la sola pigrizia di alzarsi per tempo. Segno è che non riescono a comprendere che tesoro si gettano dietro le spalle. Io ripeterò le parole che S. Ambrogio diceva ai Milanesi: « È una vergogna che il primo raggio del sole vi trovi inerti nel letto, e che la luce venga a colpire occhi ancora imbambolati da una sonnolenta spossatezza; questo raggio ci rimprovera il lungo tempo perduto per i meriti e l’oblazione del Sacrificio spirituale. Prevenite dunque l’aurora!… » (In Ps., CXVIII, n. 22). Si legge nel Vangelo che, essendosi Gesù avvicinato al letto di una fanciulla di dodici anni per risuscitarla, la prese per mano dicendo: « Fanciulla, alzati ». Ecco ciò che vi dice la mattina Gesù: vi comanda d’alzarvi e vi porge la mano. È una mano divina: stringetela, adoratela, baciatela con le vostre preghiere. Così trascorreranno i giorni e gli anni: alla fine dei secoli sentirete ancora la medesima voce, e vedrete la medesima mano: « Alzati! ». Sarà il risveglio di un giorno senza tramonto. – 2. LA PREGHIERA DELLA SERA. Una sera, uno dei più grandi ingegni del medioevo, il celebre Lanfranco, allora studente e più tardi Vescovo di Cantorbery, camminava verso Roano. Nel traversare una foresta, fu assalito e derubato dai ladri che poi lo legarono, mani e piedi, ad un albero e, tiratogli il cappuccio sugli occhi, lo abbandonarono. Tremante di spavento, umido di rugiada notturna, immobile, con gli occhi sotto il nero del cappuccio, comprese d’essere esposto a certa morte. Lontano s’udiva l’urlo di qualche belva randagia… Perduta ogni speranza umana, si ricordò di Dio, si ricordò ch’era sera e che era bene pregarlo. Cominciò le orazioni che fanciulletto tante volte aveva recitate, giunte le manine, a piè del letto; ma dopo le prime parole non seppe proseguire: non le ricordava più. Confuso e vergognoso di se stesso, si rivolse a Dio singhiozzando così: « Come, o Signore, da tanto tempo studio nelle università, e non so a memoria neppure la maniera d’invocarvi e di pregare ». Allora fece voto di consacrarsi a Dio, se fosse potuto scampare da quel pericolo. E così fu, poiché all’alba seguente alcuni viandanti lo liberarono. Lanfranco corse tosto nel convento più vicino e si fece monaco. Ed al tramonto d’ogni sera, quando la campanella invitava a preghiera, egli arrossendo s’inginocchiava. Anche ai nostri tempi, e più numerosi che mai ci sono uomini a cui si può applicare questo racconto in tutta la sua estensione. Anche essi sono in viaggio, devono attraversare la foresta del mondo anch’essi, e nemmeno mancano assassini e bestie feroci. Anch’essi alla fine della loro giornata sono forse caduti nelle mani del nemico delle anime; sono stati presi, legati col legame del peccato… Una cosa sola potrebbe liberarli: la preghiera. Ma essi non sanno più pregare; ne hanno perduta l’abitudine, hanno dimenticato perfino le parole. Da mesi e da anni, alla sera, si gettano stanchi ed infelici a dormire senza mai levare il cuore a Dio, senza neppure un segno di croce forse, così come le bestie sopra il loro strame. Ah, Cristiani, nessuno di noi rimanga in questo povero stato! Alla sera ricordiamoci dell’obbligo di ringraziare Dio che un altro giorno ha concesso alla nostra vita, un giorno pieno talvolta di gioie e talvolta di dolori, e sempre di grazie e di benedizioni. Ricordiamoci dell’obbligo di domandare perdono a Dio di tante offese nuove aggiunte alla grave somma delle vecchie. Infine, ricordiamoci di supplicarlo perché la notte passi tranquilla e il giorno veniente ci trovi migliori. – Tra le orazioni della sera, due pratiche non si possono trascurare: il santo Rosario e l’Esame di coscienza. L’una è una dolce catena di rose mistiche che lega i figli coi genitori e tutta la famiglia con la Vergine Maria; l’altro è un piccolo conto delle perdite e dei guadagni spirituali. « Sentite; — diceva ai primi Cristiani S. Giovanni Crisostomo, — voi tutti avete un registro in cui scrivete ogni giorno le entrate e le uscite; certamente non andrete mai a dormire prima d’aver fatto i vostri conti, ma la vostra coscienza non è anch’essa un libro aperto in cui dovete notare ogni sera il guadagno e la perdita, l’amore e l’ingratitudine? Ogni sera quindi, prima d’addormentarvi, prendete a tu per tu la vostra anima e ditele: « Su anima mia, su facciamo i conti: che bene hai fatto? che male hai fatto? ». Allora vi sorgerà spontaneo l’atto di ringraziamento per l’aiuto ricevuto dal Cielo, l’atto di dolore per la nostra cattiveria, e il sincero proposito di un migliore domani. – Infelici le case ove discende la notte senza preghiera! Intorno ad esse invano s’aggirano gli Angeli invisibili, invano aspettano nella malinconia. Infelici le famiglie dove la madre trascura questo suo dovere, dove il padre manca per divertirsi nelle osterie, dove i figliuoli cresciuti nell’età e nel male sono in giro, chi sa dove… chi sa dove… E ritorneranno a notte alta, sotto le stelle numerose nel cielo: ma nessuna stella è accesa nell’anima loro. « Diciamo le preghiere della sera » disse alla sua donna un padre di famiglia  sofferente da anni di una seria malattia. Da un pezzo nella casa si era dimenticato di pregare, ma dopo che il Signore aveva mandato quella prova, un barlume di fede era ritornato. Appena la madre incominciò le orazioni, rientrarono i figliuoli adulti dai loro divertimenti serali e rimasero a bocca chiusa, distratti. Il povero padre li sogguardava, e lagrime silenziose gli rigavano la faccia patita. « Che hai da piangere? », gli chiese la donna sottovoce. « Io morrò: — rispose amaramente, — e quando sarò sotterra nemmeno un suffragio riceverò dai miei figliuoli: essi hanno dimenticato le preghiere; non sanno pregare più ». La madre allibì, e tremò tutta. Il cuore le diceva ch’ella senza colpa non era della cattiva educazione religiosa dei figli. Oh quanti genitori, sentendosi morire, usciranno in quel grido straziante! « Quando sarò sotterra non un suffragio avrò dai miei figliuoli: essi non pregano, né sanno pregare più! ».  E la colpa di chi sarà stata?.. — I DIFETTI DELLA PREGHIERA. Quando fu eletto papa Gregorio VII, la Chiesa viveva un’ora difficile della sua storia. Il potere civile s’era intruso negli affari ecclesiastici fino ad arrogarsi la nomina dei Vescovi e talvolta dei Pontefici stessi; uomini indegni, più simili a lupi che ai pastori, riuscivano non raramente ad occupare i posti più alti; l’avarizia e il mal costume s’erano diffusi anche tra coloro che avrebbero dovuto dare il buon esempio. Tutto c’era da estirpare e rinnovare nella Chiesa. Invece papa Gregorio, ch’era un santo, pensando che quasi nulla vi fosse da fare, si ritirò per giorni interi a pregare. Poi cominciò a scriver lettere: scrisse ai monaci del convento di Cluny, dove aveva passato alcuni anni della sua giovinezza, scongiurandoli di pregare per lui; scrisse a parecchi suoi amici, che sapeva devoti, domandando la carità di preghiere. « Ma, o santo Padre, — diremmo noi — perché perdete il tempo così? Non vedete come il demonio devasta la Chiesa? Su, lanciate la scomunica ai ribelli di Germania, castigate gli avari, deponete gli intrusi, accorrete… ». – « Sì — ci par che risponda quel grande Papa dal silenzio della sua tomba, — sì, tutto questo va bene; ma prima e sempre e sopra ogni cosa, pregate. Senza preghiera non si fa niente ». Che dire allora di certa gente che si scusa così: « Io non prego perché non ho tempo: ho troppe faccende ». Per quante faccende abbiate, certo non sarete occupati come il Papa san Gregorio. E poi: non sapete che la prima, la più necessaria faccenda è la preghiera? Non sapete che più si prega e più si trova tempo anche per le altre cose? Non sapete che si salva soltanto chi prega? Ecco perché Gesù nel Vangelo ci stimola con insistenza a pregare. « In verità vi dico che qualunque cosa domanderete al Padre in nome mio ve la concederà. Finora nulla avete chiesto in Nome mio: chiedete e otterrete. I vostri  desideri saranno compiuti in gioia  ». « Come si spiega allora, — pensano alcuni, — che molte volte ho pregato ed il Signore ha fatto il sordo con me? » Non diamo la colpa al Signore quando la colpa è tutta nostra: se non abbiamo ottenuto è perché abbiamo pregato male. Non accipitis eo quod male petatis (Giac. IV, 3). E S. Agostino spiega: « Non ricevete o perché voi siete cattivi, o perché domandate cose cattive, o perché pregate malamente ». Non accipitis eo quod mali, mala, male petatis. Consideriamo, ad uno ad uno, questi difetti che rendono vana la nostra preghiera. – 1. EO QUOD MALI. Il re Antioco si vide perduto (II Macc., IX). Era stato scacciato da Persepoli vergognosamente; ed anche i suoi generali, Nicanore e Timoteo, erano stati sconfitti dai Giudei. Il Signore poi, che tutto vede, lo faceva spasimare con un lancinante dolore di visceri. E quasi non bastasse, mentre spingeva a corsa impetuosa il suo cocchio, il cavallo impennatosi lo sbalzò sulla strada, ammaccandolo in tutte le membra. Quando quest’uomo perfido, che aveva sognato di comandare alle onde del mare e di pesare sulla sua stadera le cime dei monti, si vide sbattuto a terra, quando vide la sua carne sfasciarsi e marcire viva in un fetore a cui egli stesso non sapeva più resistere, allora rivolse a Dio la sua preghiera. « È giusto ch’io mi sottometta al Signore… ». E pregandolo, promise che avrebbe dato libertà a Gerusalemme che poco prima aveva pensato di ridurre a cimitero; promise di restituire l’oro e l’argento che aveva sacrilegamente rubato nel tempio; promise di rispettare quei Giudei che non reputava degni neppur di sepoltura ma che avrebbe voluto sterminare e lasciarli in preda agli avvoltoi e alle belve; promise perfino di farsi circoncidere e diventare anch’egli uno del popolo di Dio. Quante promesse! E quale fervore in questa preghiera! Eppure i dolori non cessarono, eppure non guarì. Tra le montagne selvagge e rocciose, lungi dal suo paese, abbandonato da tutti, come l’ultimo miserabile del mondo, disperatamente moriva Antioco, il re. Perché Dio, che è sì buono, non ha esaudito la sua preghiera? Orabat hic autem scelestus (Macc. IX, 13). Con cuore iniquo e senza aver rinnegato alla sua malizia, costui pregava Dio, a quo non esset misericordiam consecuturus, dal quale non avrebbe giammai ottenuto grazia. Pensiamo un poco: noi, che spesso ci lamentiamo di non essere esauditi nella preghiera, come stiamo di coscienza? Come pretendere che Dio ci ascolti se siamo in peccato? Il peccato ci fa servi del demonio: e noi dopo aver servito il demonio, abbiamo il coraggio di domandare la paga al Signore? Il peccato ci fa nemici di Dio: e noi pretendiamo che Egli aiuti i suoi nemici i quali si beffano in Lui, e saranno peggio che prima? Il Signore non è come gli uomini che vedono appena la vernice esterna, ne scruta nel cuore. Possono essere belle e buone le parole che gli diciamo, ma se il nostro animo è cattivo non saremo esauditi; bensì riceveremo il rimprovero che Gesù lanciò in faccia agli ipocriti farisei: « Questa gente mi onora con la bocca, ma il loro cuore è lontano da me. Vi dico che mi onora inutilmente ». (Mt. XV, 8). Quante volte ancor noi abbiamo pregato con la bocca mentre il nostro cuore era lontano: con una creatura, con un divertimento, con una passione, col demonio. Per ciò non fummo esauditi. – 2. EO QUOD MALA. « Finora, — diceva Gesù, — non avete chiesto cosa alcuna nel mio Nome: domandatela e la riceverete ». Che cosa significa domandare nel Nome del Salvatore? Significa chiedere cose che riguardano la nostra eterna salvezza. A quanti Gesù potrebbe rispondere la parola che disse ai figli di Zebedeo: « Voi non sapete cosa domandate » (Mt. XX, 22). Purtroppo, la nostra debolezza ci china verso terra e ci mette la benda sugli occhi circa l’ultimo fine della vita. Infatti, che cosa si domanda da tanti? Forse la luce della verità, forse l’amore della virtù, l’aumento della grazia? No, non è così. Si domanda una vita senza croci, piena di ricchezze, di onori, si domanda che questa terra che è valle d’esilio diventi un paradiso. E spesso questi beni sono la rovina di molte anime. Quanti se non fossero stati ricchi ora sarebbero in Paradiso; quanti se non fossero saliti tanto in alto tra gli uomini, ora non sarebbero discesi tanto in basso tra i demoni; quanti, se a tempo opportuno avessero avuto una croce, una malattia, la morte, ora non gemerebbero per sempre nel fuoco eterno! Ecco perché Iddio, che ha la vista più lunga della nostra, non sempre ci esaudisce quando gli chiediamo i beni del mondo. Chi è quella madre che darebbe a suo figlio per giocare un rasoio, le forbici, gli aghi? E voi pensate che Dio non faccia per le anime nostre quello che anche noi sappiamo fare con i nostri figliuoli? Il Signore disse un giorno a Salomone: « Domandami quel che vuoi e l’avrai ». Oh se facesse a noi questa domanda! Chiederemmo subito una vita lunga come quella di Matusalem, una forza terribile come quella di Sansone; chiederemmo ricchezze infinite. Invece Salomone rispose: « Dammi, o Signore, lo spirito della sapienza che guidi i miei passi sulla retta strada, e non ti abbia ad offendere mai ». E Dio fu commosso da questa risposta e aggiunse: « Giacché non mi hai domandato un bene fugace del mondo, ma un bene eterno, abbiti non solo la sapienza, ma anche un regno florido e ricchezze, e onori, tutto ». Ricordiamo anche noi, quando preghiamo, la parola di Gesù: « Cercate soprattutto il regno di Dio e la sua giustizia; il resto vi sarà dato per giunta ». – 3. EO QUOD MALE PETATIS. La preghiera talvolta non è esaudita perché fatta male: senza umiltà, senza sostanza, senza fiducia. a) Senza umiltà: Due uomini entrano nel tempio a pregare. Uno è un fariseo, l’altro è un pubblicano. Il fariseo, dritto davanti a Dio, non fa che esaltare se stesso e umiliare gli altri: « Grazie, o Signore, che non m’hai fatto un ladro, un ingiusto, un disonesto come gli altri, come quel pubblicano là in fondo ». Il pubblicano invece, là in fondo, non osava neppure levare gli occhi dal suolo e si batteva il petto e singhiozzava: « Signore, sii buono anche con me che son peccatore ». « Guardate — concluse Gesù, narrando la Parabola, — guardate che dal tempio uscì giustificato solo il povero ed umile pubblicano (Lc., XVIII, 14). b) Senza costanza: Un uomo, a mezzanotte in punto, batte alla porta d’un suo amico. « Amico, prestami tre pani. M’è capitata gente che ha fame in casa, ed io non ne ho più, nemmeno una briciola ». L’amico non viene neppure alla finestra e di dentro gli risponde: « Senti, mi dispiace, ma ho già chiuso tutta la casa. Io sono a letto, i miei figli anche: non vorrai farci alzare per darti del pane!… ». L’altro in piedi davanti alla porta chiusa non si scoraggia e comincia a battere. Batte una volta, due, tre… L’amico non può più dormire. Se non per amicizia, ameno per levarsi quella seccatura, si alza e lo esaudisce (Lc., XI, 5). Dunque, bisogna pregare, senza scoraggiarsi, fin quando si ottiene quel che si domanda. Oportet semper orare et numquam deficere. Non lasciamoci vincere dal silenzio del Signore: più tarda la grazia e più bella sarà. Trenta anni ha pregato santa Monica per il suo figliuolo, ma poi quale grazia! Suo figlio fu un santo. c) Senza fiducia: Una donna vien dalla terra di Chanaan per far la sua preghiera a Gesù: « Signore! Figliuolo di Davide, pietà di me, che ho una figlia indemoniata! ». Gesù non la guarda, non le risponde nemmeno una parola. Non respondit ei verbum. Ma essa vuol essere esaudita. Gli va dietro, e non guardata piange, e non ascoltata prega, tanto che gli Apostoli ne sentono compassione: « Maestro — dicono — lasciala andare, non vedi come grida? — Gesù allora si volge e le dice burberamente: « Io son venuto per i Giudei e non per i Cananei ». La povera donna non è vinta da questo reciso rifiuto: vuole essere esaudita e va dietro sempre e non guardata piange e non ascoltata prega. Non capisci, — la rimprovera Gesù, — ch’Io non posso strappare il pane di bocca ai figli per darlo ai cani? ». E quella donna accetta d’essere come un cane, anzi si chiama cagnolino; e nell’impeto della sua fede, risponde: « Sì, è vero, ma i cagnolini hanno le briciole che cadono dalla mensa del padrone, dunque, una briciola, tra quelle che cadono dalla mensa del padrone, anche per me, anche per mia figlia indemoniata una briciola… ». Gesù allora non poté più resistere e le rispose: « La tua fede è grande; sia fatto come tu vuoi ». In quel momento sua figlia guariva. È questa la fiducia delle nostre preghiere? – San Luigi IX, re di Francia, era partito per la crociata. Ma quando con la sua flotta si trovò in mezzo al mare, una burrasca terribile cominciò a flagellare e squassare le navi. Tutti urlavano e piangevano di paura. Il re pallido e tremante s’inginocchiò sul ponte della nave ammiraglia e pregò un istante; poi alzatosi calmo e sorridente disse a tutti che niente di male li avrebbe incolti. « Donde ricavate questa fiducia? », gli domandarono i suoi. Laggiù, — rispose egli, — nel monastero di Chiaravalle in questo istante si prega fervorosamente per noi. Tutto andrà bene ». Cristiani! Quando nella vita attraversiamo certe ore di burrasca, quando l’anima nostra sta per affondare nel male, ricordiamoci allora della preghiera e saremo salvi.

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps LXV: 8-9; LXV: 20

Benedícite, gentes, Dóminum, Deum nostrum, et obœdíte vocem laudis ejus: qui pósuit ánimam meam ad vitam, et non dedit commovéri pedes meos: benedíctus Dóminus, qui non amóvit deprecatiónem meam et misericórdiam suam a me, allelúja.

[Popoli, benedite il Signore Dio nostro, e fate risuonare le sue lodi: Egli che pose in salvo la mia vita e non ha permesso che il mio piede vacillasse. Benedetto sia il Signore che non ha respinto la mia preghiera, né ritirato da me la sua misericordia, allelúia].

Secreta

Súscipe, Dómine, fidélium preces cum oblatiónibus hostiárum: ut, per hæc piæ devotiónis offícia, ad cœléstem glóriam transeámus.

[Accogli, o Signore, le preghiere dei fedeli, in uno con l’offerta delle ostie, affinché, mediante la pratica della nostra pia devozione, perveniamo alla gloria celeste].

Prefatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

Paschalis

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre: Te quidem, Dómine, omni témpore, sed in hac potíssimum die gloriósius prædicáre, cum Pascha nostrum immolátus est Christus. Ipse enim verus est Agnus, qui ábstulit peccáta mundi. Qui mortem nostram moriéndo destrúxit et vitam resurgéndo reparávit. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia cœléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare: Che Te, o Signore, esaltiamo in ogni tempo, ma ancor piú gloriosamente in questo giorno in cui, nostro Agnello pasquale, si è immolato il Cristo. Egli infatti è il vero Agnello, che tolse i peccati del mondo. Che morendo distrusse la nostra morte, e risorgendo ristabilí la vita. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XCV: 2

Cantáte Dómino, allelúja: cantáte Dómino et benedícite nomen ejus: bene nuntiáte de die in diem salutáre ejus, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore, allelúia: cantate al Signore e benedite il suo nome: di giorno in giorno proclamate la salvezza da Lui operata, allelúia, allelúia].

Postcommunio

Orémus.

Tríbue nobis, Dómine, cæléstis mensæ virtúte satiátis: et desideráre, quæ recta sunt, et desideráta percípere.

[Concedici, o Signore, che, saziati dalla forza di questa mensa celeste, desideriamo le cose giuste e conseguiamo le desiderate.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

ORDINARIO DELLA MESSA

TUTTA LA MESSA (L’UNICA “VERA” CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (1)

LO SCUDO DELLA FEDE (251)

LO SCUDO DELLA FEDE (251)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (20)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

CAPO III

IL SACRIFICIO DIVINO

SECONDA PARTE DEL CANONE.

CAPO IV

•••••••••••••••••

LA PARTECIPAZIONE

ossia la Comunione Divina.

ART.  II.

LIBERA NOS ECC.

Orazione.

« Liberateci, ve ne supplichiamo, o Signore da tutti i mali presenti, passati e futuri , e per intercessione della Beata, Gloriosa e sempre Vergine e genitrice di Dio, Maria, e dei Beati Apostoli vostri Pietro e Paolo, ed Andrea, e di tutti i santi (Si segna dalla fronte al petto colla patena e la bacia). Date, propizio, pace nei nostri giorni, affinché per opera della vostra misericordia restiamo sempre liberi dai peccati, e sicuri da ogni perturbazione. (Qui sottomette la patena all’Ostia, scopre il calice, genuflette, sorge, prende l’ Ostia, la spezza per mezzo sopra il calice dicendo): « Pel medesimo Signor nostro Gesù Cristo Figliuol vostro. » (Pone la parte, che ha nella destra sopra la patena: di poi si divide una particella della parte che gli è rimasta nella sinistra, dicendo): « Il quale con Voi vive e regna nell’unità dello Spirito Santo. » (L’altra mezza parte ripone colla sinistra presso alla prima sulla patena, e colla destra poi tenendo la particella sopra il calice, che tiene colla sinistra, dice): « Per tutti i secoli dei secoli. » (Il popolo risponde): « Così sia. »

Esposizione dell’Orazione:

Libera nos etc.

« Liberateci, o Signore, vi preghiamo, da tutti i mali presenti, passati e futuri ecc. ecc. » Quest’orazione non altro essendo che un’aggiunta, anzi un’esposizione dell’ ultima dirnanda dell’ orzione domenicale, per essa la Chiesa c’ insegna che ben si può con Dio Padre dire tutto il nostro cuore e mettergli dinanzi ad uno ad uno tutti i nostri mali, dai quali lo vogliamo supplicare di liberarci per poi abbandonarci rassegnati in braccio alla bontà di così gran Padre amoroso. I tanti mali di noi poveri figli sono i peccati passati, di cui non possiamo mai essere senza timore (1) : poi sono i pericoli e le amarezze che ci angustiano presentemente: finalmente la paura dei mali venturi, i castighi cioè e le pene, che abbiamo tanto ragione di aspettarci dalla giustizia di Dio, e le nuove cadute che temiamo per le proprie infermità, come mali che più ci mettono spavento. – Quest’orazione, sia per la sua antichità, sia per le sue espressioni, accenna ai tempi delle persecuzioni. Allora si recitava insieme con tutto il popolo; e per questo il Sacerdote la dice ancora adesso ad alta voce nel venerdì santo; nel qual dì tutto sacro alla morte del Redentore, alla Chiesa, raccomandate distintamente tutte le varie persone ed i vani oggetti per cui prega nel corso dell’anno, preme di fare quelle raccomandazioni in modo tenerissimo; essendo che in quel giorno lo spettacolo della morte di Gesù, messo così vivamente innanzi, fa concepire speranza di maggiore propiziazione. Noi intanto figuriamoci quei poveri fedeli perseguitati, che col favor delle tenebre si raccoglievano nelle catacombe pei santi misteri. Là non si arrischiavano di alzar la voce, paventando ad ogni istante, che non corressero dentro in quegli antri a slanciarsi sopra loro quelle belve umane, nel perseguitarli inferocite. Là trovandosi insieme intorno all’altare, avevano ogni dì novelle perdite da piangere; alcuno raccontava tristamente, come qualche povero fratello aveva ceduto nel terribile cimento; e insieme piangendolo, lo raccomandavano a Dio. Altri raccontavano i particolari della morte dei loro Vescovi e dei fedeli compagni: chi li aveva osservati ritti là in mezzo del circo col petto ignudo ad aspettare i leoni, le iene, le tigri aizzate dai truci custodi: diceva uno di aver veduto il leone, quando dava dentro nel petto a quel Santo; come versasse le viscere per terra, e barcollando morisse abbracciato all’orribile testa col grido: « Viva Gesù! » Altri diceva della iena: con terribile salto gettarsi sulle spalle di un giovine eroe, e con tremendo ruggito, trascinarlo pell’anfiteatro… mentre i feroci spettatori battevan le mani; ed egli, col collo tra le zanne della fiera, guardando il cielo gridare: « Viva Gesù! » Chi sentiva ancor terrore della tigre accosciata, che acceffava fremente nel vergine petto a quella fanciulla (che ieri qui aveva con essi ricevuta la Comunione), e diceva piangendo, come la buona slanciava le candide braccia verso del cielo; e la tigre gettarle gli unghioni nel viso, ed alzando il terribile ceffo lasciare cadere giù le viscere palpitanti dal muso insanguinato! Chi raccontava del rogo acceso, e come soffiassero dentro col viso infocato i rabidi sgherri: e sopra i crepitanti carboni guizzasse la vampa celestina e rosseggiante: e quei crudeli stendere sul graticolato di ferro rovente, e tener con tenaglie i prodi compagni, con cui avevano là tante notti insieme vegliato: e rosseggiare le membra orribilmente gonfie, e screpolare la pelle, e la carne squagliata cadere giù in stille di fuoco; e sbuffare le fiamme e come serpenti di fuoco e taglienti lamine, girar intorno alla persona: e tra il crepitare dei carboni sotto alle nere ruote del fumo pareva ancora di sentirli tutti gridare: « Viva Gesù! » Alcuni altri poi si portavano sul petto in un vaso il sangue dei martiri, che avevano raccolto dai supplizi; altri gli avanzi, con gran rischio sottratti a chi li faceva disperdere: altri un cadavere santo portato via dalle gogne o tratto fuori dalle cloache, in cui il prefetto lo aveva fatto gettare. Qui purificate con balsami quelle reliquie, si ponevano sotto la mensa, su cui gli spiriti che gli animarono, dal cielo vedrebbero sacrificato Gesù. Così tutti quei buoni, anch’essi minacciati da quegli spettacoli di ferocia, che raccontavano, si stavano prostrati ai piedi dell’ara santa, come agnelletti da essere svenati la dimane, e dopo di avere mangiato il Pane divino, e bevuto al Calice dei forti, sorgevano dall’altare come leoni (così s. Giovanni (Hom. 61, ad Pop.) e s. Cipriano) terribili al diavolo ed agli amici suoi. Deh! in quel furore di tempesta quanto veniva loro bene gridare: « Liberateci, o Signore, dai mali passati, presenti e futuri; » e qui pieni di diffidenza di loro medesimi, confidare a Dio le proprie debolezze e tentazioni e la paura dei mali futuri. Qui col cuor di un figlio che piglia tutte le occasioni di parlar della madre noi facciamo questa osservazione. Tutti i fedeli del mondo cattolico dopo il Pater noster usano sempre a recitare l’ Ave Maria. Bene sta: si termina il Pater noster con una paurosa parola: a malo! In vero coll’inferno spalancato sotto dei piedi, nel pericolo di cader in peccato, ed offendere Iddio Santissimo, colla morte che ci corre incontro ad ingoiarci, l’Ave Maria è il grido dei figliuoli che chiamano la Madre a salvarli e poi è anche il sospiro della speranza di spirare tra le sue braccia. A ragion adunque nell’orazione libera nos si dice subito: « Per l’intercessione della Beata Vergine, genitrice di Dio, e dei beati Apostoli Pietro e Paolo, ed Andrea e di tutti i Santi ecc, ecc. » E poi così vivamente rinnovando la memoria della passione di Gesù Cristo, potevano dimenticarsi che ai piedi della croce stessa, nell’ora del gran Sacrificio, stava Maria? A questa potentissima Regina dei martiri, a questa più tenera delle madri si raccomandavano quei figli in procinto di essere martirizzati, e le correvano in seno con tutte le paure e speranze loro: poi ai beati Pietro e Paolo, e Andrea: a Pietro, su cui fu edificata la Chiesa (Cyp. ep. 71.); a Paolo, che tanto l’ha propagata e sublimemente istruita; ed Andrea, primo chiamato alla sequela del Signore (Bon. rerum liturg. lib. 2, n. 2). A tutti e tre in somma, che la confermarono col proprio sangue; ad essi, che precedendoli al martirio, bevettero il calice di Gesù con tutte le sue amarezze sino all’ultima goccia: poi a tutti i Santi, da cui per un istante eran divisi ancora, facevano supplica di aiutarli di forza in quei cimenti, in cui mentre tenevano dietro ai loro esempi così luminosi, sentivano il peso della propria infermità. Dio della bontà! ecco un mondo che viene a perseguitarci fino nei più reconditi recessi del santuario vostro! Ecco i popoli sconvolti cercano di rovesciarsi sul capo ciò che a loro sta sopra, e tutto sobbissare nella polvere e nel sangue; in questi giorni di procella, tra un passato che crolla, ed un avvenire che non si può formare di getto; noi per Gesù Cristo tranquilli nella vostra immutabilità, noi contempleremo il trionfo, che preparate alla vostra Chiesa sulle rovine dei vostri nemici. Ecco qual è la pace di Gesù; la pace del bambino in seno alla madre. Bella immagine, che parla ai sensi ed al cuore più ancora! Quando una madre prende in braccio il suo bambino, il bambino in quel seno non ha più paura, e dorme tranquillo e riposa dolcemente sul petto: e ne ha ragione, perché veglia per esso l’ amor della madre. Che, se alcun le si facesse vicino, o scuotesse con sorpresa il bimbo per risvegliarlo, come fosse sopra pericolo, gridandogli forte: « Bimbo, sta desto! Perché guai, se la madre ti dimentica un momento; aperte le braccia, cadi a sfracellarti per terra!: » la madre garrirebbe costui acremente; « che? gli direbbe, non lo porto io in seno, che sono sua madre? E l’amor della madre non si dimentica mai, che ha il bambino in braccio: e seppur si dimenticasse, le braccia della madre starebbero conserte per istinto, a tener fermo sul seno il figlio delle viscere sue. » Ed è così. Ora diciamo noi: e chi mai ha creato l’amore in petto alla madre? Iddio (crediamo!), da cui ogni paternità deriva; ed ha tale amore creato, perché sapeva che la creaturina sua di tanto avrebbe bisogno. Viva Dio! Il Creatore dell’amore ben ne avrà ancora in sé tanto serbato, per aver cura dei figli del Sangue del suo Gesù! Egli, così s. Giovanni Grisostomo, dei padri più indulgente, e più di madre tenero, dice per bocca del suo profeta (Is. XLIX, 15), che la madre può forse dimenticarsi del suo bimbo; ma non Egli di noi, che tutti ci porta in cuore. Così noi non possiamo a tenero padre, né a “più sincero amico, né a più potente, che sia Dio, abbandonare noi stessi per vivere più in pace. « Concedeteci propizio pace nei nostri giorni, affinché aiutati dall’opera della vostra misericordia, restiamo sempre liberi dai peccati, e da ogni perturbazione sicuri ecc. ecc. » Pregavano un po’ di pace per quei dì; pace perché potesse stabilirsi il regno di Gesù Cristo: pace, perché la Chiesa non venisse lacerata dalle discordie, e specialmente dalle eresie, amarezze maggiori per lei in quella pressura: ma che al tutto fossero liberati per Gesù Cristo dal peccato e dalle continue paure di tanti nemici, che loro fremevano d’intorno. – Ora per potere accompagnare quest’orazione con disposizioni convenienti ai nostri tempi, osserveremo: che nel recitare quest’orazione il Sacerdote posa le mani sulla mensa, come se si abbracciasse all’ altare per mostrare che sopra vi è Gesù, per cui possiamo con fiducia farci appresso al trono della misericordia per porgere le nostre suppliche (Heb., IV, 16 ). Qui noi pensando che se si mutarono i tempi, i bisogni della Chiesa ora sono forse maggiori, col cuor pieno delle antiche memorie e dei mali nuovi, non cessiamo mai di gridare attaccati all’altare: « Signore, Signore, per pietà liberateci da ogni maniera di mali, che c’invadono da tutte le parti: dai mali passati; e sono i peccati commessi, che ci tengono inquieti sull’esito della nostra salute: dai mali presenti, che sono le nostre passioni, le persecuzioni alla sordina contro i fedeli vostri, la guerra universale contro alla Chiesa, rotta dai nemici nostri e di Voi, che s’ingrossano ogni dì, e diventano ognora più audaci e minacciosi. Liberateci dai mali futuri: prima di tutto dalla perdita della fede, di cui siamo minacciati, conservateci pel vostro regno, e non ci mandate cogli empi in perdizione. E voi, o tenerissima Madre di Dio, al Signore che abbiamo offeso, dite per noi quelle parole di pietà che voi sola sapete: che, se egli è vero che siamo peccatori, siam pure i vostri figli, e voi la più buona madre: e le madri sono sempre madri, anche coi figliuoli che vorrebbero diventar buoni. Voi pure, o beati, Pietro, che dall’alto de’ cieli come capo della Chiesa presiedete ancora alle sue battaglie; Paolo, gran maestro delle nazioni; Andrea, che dalla croce consolavate il popolo fedele colle vostre parole, anche in mezzo ai terrori di morte; voi, Santi tutti, che nella gloria godete la pace, come corona delle combattute battaglie, a noi qui, drappello in combattimenti ottenete una coscienza senza rimorsi, la confidenza nel Dio delle vittorie, e la pace di Gesù Cristo. »

Divisione dell’Ostia. Continua la spiegazione

del!’ orazione: Libera nos ecc.

Chiediamo di poter insistere su questa parte della Messa, così poco avvertita, che pure così grandi e tenerissimi misteri contiene. Noi ci faremo a contemplare questi tre che vi si esprimono; osservando come pel primo si viene a significare esser Gesù Crocifisso fatto pace nostra: Ipse est pax nostra… solvens inimicitias in carne sua (Ephes. II, 14.). Nel secondo si figura la formazione della Chiesa. Nel terzo si ricordano e la risurrezione e la vita eterna in paradiso. Faremo ora di spiegare come si esprimono questi tre misteri in questo punto della Messa: e li noteremo coi numeri per distinguere dessi misteri dalle devote osservazioni.

I° Ecco in fatti come si esprime essere Gesù Cristo la pace nostra. Già prima d’incominciare quest’orazione il suddiacono nella Messa solenne sale sull’altare e rimette all’uopo la patena al diacono: il quale anticamente, come fassi ancora al presente in qualche Chiesa, la mostrava al popolo per invitarlo alla Comunione. Il Sacerdote prende da lui la patena, su di cui ha da deporre il Santissimo per distribuirlo in Comunione ai fedeli. Con essa fa il segno di croce sulla sua persona, e la bacia dicendo: « Date,propizio, pace nei nostri giorni, affinché siam sempre liberi dal peccato, e posti da ogni perturbazione al sicuro. » Col baciar la patena su cui si pone Gesù, viensi ad esprimere, che Gesù nel Sacramento appunto è nostra pace: perché in sulla croce in cui fu posto, Egli disciolse le nostre inimicizie (Eph. II, 14. Coloss. I, 20) nella sua carne crocifissa; è nostra pace, perché ci raccoglie tutti insieme, e vuole che siamo uniti in carità per disporci alla comunione (S. Hier. q. ad Rom.): è nostra pace perché ci ha riconciliati col suo Padre e ci fa adottare per figliuoli: è nostra pace, perché ora ci vuol dare Se stesso in pegno di quella pace che sarà la futura nostra beatitudine. Ecco il mistero accennato pel primo. – Continua l’ orazione: « Per il medesimo Signor nostro, il quale con Voi vive e regna Dio nell’unità dello Spirito Santo. » Ora prima di esporre, come si esprima il mistero, che accennammo, intorno alla formazione della Chiesa, continuando a riscontrarci nella meditazione nostra sulla passione del divin Redentore, premetteremo alcune piissime osservazioni, che all’accennato mistero ci condurranno. Il Sacerdote bacia la patena, la quale significa la lapide del santo Sepolcro; e questo rito esprime la pietà delle donne, che, comprati gli aromi, vennero per ungere Gesù. Esse, poverine! si davano pensiero del gran sasso, che non avrebbero potuto smuovere. Ma Gesù Cristo le consolò. Con quel bacio si esprime la grazia, di che Egli degnolle, nella sua apparizione. Egli le salutò, ed esse verisimilmente gettatesegli innanzi, cercarono di baciargli i piedi santissimi. Intanto il Sacerdote, deposto il SS. Corpo sopra la patena, scopre il calice, l’ adora genuflesso; prende l’Ostia colla mano destra, e la solleva sopra il calice, e nel dividerla in mezzo, dice: « Pel medesimo Signor nostro Gesù Cristo. » Depone la parte, che gli resta nella destra, sopra la patena; poi dalla parte, che egli tien sopra del calice nella sinistra, divide una porzione; e colla destra ritenendola ancora sul calice sollevata, quella che gli resta nella sinistra, depone presso alla prima sulla patena, nel dire: « Il quale con Voi vive e regna nell’unità dello Spirito Santo. » Questo dividere, che fa il sacerdote, dell’Ostia in tre parti, l’abbiam noi dagli Apostoli imparato: anzi da Gesù medesimo, il quale, quando ci donava la SS. Eucaristia nell’ultima cena, la divideva colle sue mani, distribuendola a tutti i discepoli (Matt, XXIV, 26). Così ci dava modo di saziarci tutti a nostra volontà di questo cibo celeste; e di potere tutti insieme noi, umana famiglia, raccoglierci alla mensa del comune Padre e comunicare con Esso nel bacio santo di carità. E siccome l’Eucaristico Sacramento esprime in modo particolare questa riconciliazione universale, ed unione di carità; così Gesù con un miracolo d’amore divinamente ingegnoso lo ordinava in modo, che nel dividere in parti, potessero i suoi fedeli per esso comunicarsi con Dio e con tutti i fratelli, anche quelli che non avrebbero potuto godere la sorte di trovarsi presenti. Anticamente i diaconi erano incaricati di portare agli assenti, agli infermi, e fino nelle carceri ai confessori questo pegno di pace e di carità divina. – Fermiamoci un istante a pensare a quei generosi in carcere per Gesù Cristo, che tornavano forse dagli interrogatorii, in cui si era cercato di convincerli e persuaderli a rinunciare alla fede con quegli eloquenti argomenti, che sono i letti di ferro e le torture danti uno stiramento a slogar loro le ossa, e le ruote dentate facenti un giro a lacerare loro la carne, ad ogni lor franca parola. Tornavano adunque da quelle prove crudeli; ed ecco appunto il diacono aveva ottenuto di penetrare ad essi travestito; e portava in buon punto Gesù, mandato dalla santa Messa coi saluti dei fedeli, che avevano con tanto fervore pregato per loro, e che a loro si raccomandavano. Ben pareva a quei forti di vedere quasi cogli occhi Gesù entrar nel carcere, per dare loro la pace e sostenere con essi le catene, i ceppi, la morte. « Deo gratias, » dicevano quei santi, per dire: « Dio sia benedetto! presto ci ciberemo insieme nel banchetto del Padre celeste in paradiso. » Era pure costume di conservar nelle chiese la SS. Eucaristia; e si trovano nei monumenti dell’antichità cristiane certe custodie in forma di colombe che si tenevano sospese sopra l’altare, dove si riserbava per essere all’uopo distribuita agli infermi, agli assenti e per essere adorata dai fedeli: se la portavano gli anacoreti negli eremi, i fedeli in casa. Si conservano veli e pezzuole ricchissime in cui si ravvolgeva. Ora qui vorrebbe la pietà che noi parlassimo della reale presenza del SS. Sacramento: ma ci riserbiamo di contemplare questo tutto nostro tesoro nel volume III, Prediche e Meditazioni. Del resto tutta questa opera corrisponde a questo scopo cioè mirabilmente stringerci intorno a Gesù e farci con Lui santi qui, per possederlo in paradiso. Ma la santa Messa va di pari passo colla passione di Gesù Cristo: e questa nella passione è l’ora della maggior pietà. Quando, spirato il benedetto Gesù, i crocifissori ed i nemici suoi in quel tenebrore con neri pensieri e con orribile rimorso nell’anima si ritiravano da quel tristo monte taciturni ed atterriti, alcuni di essi già ravvedendosi si fermavano da lungi, ed alzando gli occhi spaventati al Corpo di Gesù pendente da quella croce, si picchiavano il petto, dicendo sommessamente: « Tristi a noi, che abbiam mai fatto! Misericordia, misericordia! » Intanto giravano voci di tremende apparizioni; si diceva, che si eran veduti cadaveri e scheletri fremere orribilmente in gola agli spalancati sepolcri: che s’era spezzata la rupe del Calvario, come è ancor veramente: e il velo del tempio da cima a fondo squarciato. Qui già cominciavano a girare intorno alcuni più amici di Gesù, e farsi più appresso alla croce, ed al vederlo là morto, empire le mani di pianto! Poi si davano faccenda per usare a Gesù quel poco di carità ultima, che per loro si poteva, preparandosi a staccarlo di croce, e ricoverarlo in sepolcro. Maria Maddalena e Giovanni e le pie donne, fissi gli occhi sul morto Gesù, con ansioso lamento stavano tutti esterrefatti ed atterriti, e tratto tratto lasciavano cadere lo sguardo sulla santissima sua povera Madre… E Maria?… Ci manca il cuore a dirne parola! perché fino lo Spirito Santo non volle dir altro che: « stava…. sotto la croce di Gesù la sua Madre Maria!… » – Piovevano ancor le gocce di Sangue, ed intanto già si mettevano all’opera pietosa di deporlo dalla croce, tutti dicendosi in cuore quei buoni, che avrebbero fra poco baciato lui morto fra le braccia della SS. Madre di tutti i dolori! Così adoperavansi in quella infinita pietà. Ed ora appunto il diacono col dare il segno al popolo di farsi vicino, e il Sacerdote nel segnare, che fa, se stesso di croce colla patena col baciarla, e col deporre Gesù sulla patena, fanno segno di prepararci a pianger del cuore sopra Gesù con quella tenerissima pietà, con cui Giuseppe, Nicodemo, e gli altri pii lo deponevano dalla croce. Il cuore ha da fare qui tutta la sua parte. Il Sacerdote, abbiam detto, tiene il corpo di Gesù sollev«««ato sopra del santo calice. Deh! lasciamo correre ancora uno sguardo con quei santi e con Maria SS. sopra Gesù, misticamente qui dinanzi, come sulla croce, spirato. Ecco quel Corpo, che pendeva giù da quei chiodi con orribili squarci! eccolo col Capo sul petto tutto pieno di Sangue, che dalle spine stilla giù ancora grommato. Ve’ quegli occhi lividi e spenti e quella bocca ancora semiaperta, per dirci l’ultima sua parola al cuore. No: Egli è spento! Non dice più parola; ma parlano per noi tutte le sue Piaghe; parla Maria nel suo mar di dolori, che allarga le braccia e le mani per ricoverarselo in seno almeno morto, il suo Gesù!… « O santissima Madre, aspettate; ché per voi faranno i buoni, che vi piangon d’intorno! » Ma chi viene innanzi? Chi?… Un soldato che fieramente lo guarda, e trovatolo estinto, ah! gli dà della lancia nel petto: in quel gran colpo gli squarcia il Cuore. Ah! mette un grido Maria; ché « propriamente, dice s. Bernardo (Sermo de 12 stelle), Maria si ebbe nel cuore quel colpo, non Gesù, che non aveva più l’anima là, mentre la Madre non si poteva da quel Cuore divellere. » Così la ferita del Costato di Gesù, si può dire ferita al cuor di Maria! E Maria a quel colpo lascia cadere giù le braccia: e sotto le braccia, ah! buon Gesù! si trova d’avere con Giovanni noi, divenuti a piè della croce a Lei figliuoli. Oh! sì, che nel vederci ancora qui intorno all’altare rossi del Sangue di Gesù (Io. Chrys. De Sacer 2) deve ben esclamare: « miei figliuoli, che mi costate sì caro, per salvarvi vi voglio riporre in questa mia ferita del Costato divino.» Intanto sgorga giù a terra, misto coll’acqua, l’ultimo Sangue, il Sangue, diremo, più vitale di Gesù, Cristo. Ed ecco come in questo punto si figurano la Chiesa e le sue varie parti, che è il secondo mistero, che abbiam detto significarsi qui nella Messa.

II. Come ad Adamo addormentato fu tratta una costa di petto, e ne fu da Dio creata la madre degli uomini, condannati poi alla morte pel peccato; così dal Costato di Gesù Cristo dormiente in quel sonno di morte, esce purificata e rigenerata nel Sangue divino la Madre dei viventi, la sposa di Dio, la Chiesa (S. August. lib. 2, de Genes. contra Man. v. 24). Ammirando mistero! Nel calice fu infusa l’acqua per esprimere il popolo cristiano. Perché poi quello che era vino, e si mischiava col l’acqua nel calice, ora è vivo Sangue di Gesù Cristo; ed in Gesù la natura umana si tocca, si unisce, si bacia, si accoppia colla Divinità: perciò la natura nostra collegandosi colla Divinità, si rinnovella a vita eterna, ed in Lui si rigenera l’umanità. Piglia adunque in Gesù Cristo capo e cominciamento una nuova generazione: rirnpastandosi nell’acqua del Battesimo, per dirla con Tertulliano, di Spirito Santo la natura umana, ed immollandosi l’umanità nel balsamo vivificatore e ristoratore della Divinità nel divin Riparatore. Ggsù poi trasfonde questo principio divinizzato in noi, come la vite mette il sugo vegetale nel tralcio, che le sta unito (Jo XV., 5). Ad esprimere poi questa generazione rinnovellata, che è la Chiesa, sgorgò fuori del petto squarciato di Gesù Acqua mista col vivo Sangue (Bened. in infas. e Missal.), per fare intendere come nella Chiesa vi sia e il popolo cristiano significato nell’acqua, e con esso vi sia incorporato Gesù, che col Sangue suo comunica a questa madre la potenza di generare figliuoli a Dio in modo purissimo ed ineffabile (S. August. De siinb. et serin. 12 de temp.) per mezzo dei Sacramenti. Si, da questo Sacratissimo Cuore di Gesù Redentore esce quel Sangue divino, che lava nel Battesimo le anime dei rigenerati: che li consacra col Crisma dei forti: che con noi s’imrnedesima nell’Eucarestia: che ci monda e santifica nella Penitenza: che infonde la virtù ad operare prodigi ineffabili nei sacri ministri: che consacra i nostri matrimoni (Uomini animali, che non comprendono le cose di Dio, si preparano con opere indegne e laide ad esse:e consecrati col Sangue di Gesù nel Matrimonio, che s. Paolo chiama il Gran Sacram., che rende così sacra la società coniugale; anzi la civiltà corrotta cerca di sconsacrare, e disvolgere il primo elemento del civile consorzio riducendo ad un atto civile il matrimonio. Ma vi è una fiera che rugge e si getta sulla società a vendicare il sacrilegio, la fiera del divorzio, che strugge le umane famiglie. Tolto via il ritegno del Sacramento, nessuna legge umana può impedire, senza esser tiranna, che coloro che hanno fatto il contratto, non sciolgano il contratto a volontà): che finalmente dà l’ultima mano a ristorare alla vita eterna le nostre persone; quasi nei sette sacramenti, secondo la viva espressione di Tertulliano, rimpastandgsi di Spirito Santo l’umana natura. Sangue propiziatore, di cui sono bagnate le porte, per cui entrano nella Chiesa e nel paradiso coloro che si salvano! Cuore amabilissimo, che fu dato da Gesù a consumare l’opera della redenzione, secondo l’espressione dello Spirito Santo (Eccl. 38, 31): perciò, consumato il divin Sacrificio, si lasciò squarciare il cuore. S. Giovanni Grisostomo e con lui s. Agostino osservano come ne sgorgasse il Sangue misto all’acqua dal cuore, affinché n’uscisse il Sangue a ricrearci, ed immedesimarci con Lui a vita eterna. – Convengono di fatto gl’interpreti, che nella divisione della SS. Ostia in tre parti si rappresentano assai bene le tre porzioni della Chiesa, unite nel gran Capo Divino (S. Thom. 3 p., q. 85, a. 5, et Innoc. III, lib. 5 Myster. Mis:. cap. 3). Nella prima porzione rimessa sull’altare è Gesù Cristo, una delle specie divise, che colla virtù del suo Sangue, dal sacrificio versa e fa discendere continuamente sull’anime del purgatorio il refrigerio, la luce, e la pace (Innoc. III, lib. 4, Myster 3fiss., c. 3.). Nella porzione dell’Ostia SS., che coll’altra mano il Sacerdote depone ed unisce alla prima, è Gesù che dal seno del Padre s’accompagna alla Chiesa militante, che siamo noi; la guida e la sorregge nella battaglia; e pel Sacrificio che fa con essa, la prepara a salire coll’altra porzione al trionfo nella patria celeste. Per essa intanto Egli s’abbassa a regnar sulla terra: perché la Chiesa, che qual Eva novella gli esce dal petto, per la virtù del Sangue di Gesù genera figliuoli, adoratori fedeli, che formano il suo regno in terra, e che gli faran corona in paradiso. Nella porzione, che tien sollevata sopra il calice, è Gesù, che beatifica la Chiesa in Gloria (S. Thom. 3 p. q. 83, a. 5.). Sopra quel calice l’adorano i celesti e si letificano del profumo divino che manda in cielo il Sacrificio del Verbo, Splendor della gloria, che regnando col Padre e collo Spirito Santo, gli alimenta di sua beatitudine in paradiso per tutti i secoli dei secoli. Aggiungeremo a pascolo di pietà un’altra esposizione di s. Bonaventura (Opusc. Pers. 3. expos. Miss., c. 4.), il quale dice, che la particola deposta sull’altare significa che la Carne di Cristo nella passione fu deposta e subì l’azione della morte, e le due parti fuori del calice esprimono l’Anima che restò immortale, e la Divinità pure immortale ed impassibile. – Ora ci resta a dire ‘del terzo mistero espresso in quest’orazione, cioè della risurrezione e della vita eterna.

III. Ecco glorificato il paradiso, consolati i defunti, santificati i fedeli; il Sacerdote tenendo sospeso sopra il calice il santissimo Corpo, fa con questo sopra il calice stesso tre croci, dicendo: « La pace del Signore sia sempre con voi. » Il popolo risponde: « e collo spirito tuo. » Poi depone entro il calice la sacra particola che tiene in mano. Ma deh! ora che vediamo ancora? L’Ostia SS., che è il Corpo di Gesù, discende per man del Sacerdote nel santo calice, e si frammischia nelle specie col SS. Sangue? Contempliamone il mistero consolantissimo! Qui sull’altare, per rappresentare la mistica morte di Gesù Cristo sta deposto il Corpo sotto le forme delle specie diverse, diviso dal Sangue, per mettere misticamente sotto gli occhi, come era difatti nella morte reale là sulla croce il Sangue tutto versato da quel Corpo pendente, lacero e dissanguato. Ma come Gesù poi nel risorgere riassunse il Sangue nel suo Corpo, che riprese vita: cosi ora qui, secondo Innocenzo III e Benedetto XIV (Inn. III, Myst. Miss. liv. 5, c. 3), nell’atto dell’unire, che si fa dal Sacerdote, il Corpo col Sangue divino nel calice, si esprime appunto la riunione del Sangue col SS. Corpo nel momento della risurrezione. Riassuntosi nel Corpo di Gesù il SS. Sangue, si diffuse nelle vene, e l’anima benedetta allora rianimandolo, fece con quello battere quel Cuore del battito della vita immortale, a cui risorgeva, nella beatitudine della divinità da Lui inseparata. – Tergiamo noi dunque il pianto, e diamo luogo a tutta la consolazione. Nel farsi le tre croci e nell’invocare la pace sopra del calice, si esprime la SS. Trinità, che restituisce l’Anima al Corpo di Gesù, affinché non veda la corruzione (S. Thom. 3 p., q. 43, a. 5. Inn. III, lib. Myst. Miss.). E l’istante in cui l’anima di Gesù discende nel sepolcro, si unisce al Corpo (Sergius Papa apud D. Bon. ia expo. Miss. Inn. III, lib. 6 cap. I.), ne spezza i vincoli di morte; rifiorisce l’aspetto suo di celeste bellezza: l’occhio brilla di una luce divina: palpita il cuore del palpito immortale della beatitudine: si trasfigura carne e diventa impassibile, in istato come di lui agile e spirituale : così risorge a vita il Trionfatore della morte. Balza via la pietra rovesciata dall’Angelo, e lascia vedere dentro il vuoto sepolcro e le sacre bende a terra, segnali di morte trionfata. – Angeli sfolgoranti di splendor brillantissimo annunziano il trionfo di Gesù che è risorto. Ministri di morte, da quella tomba fuggite: fugge anche la morte, e guarda attonita fallito il colpo, e rotta la lancia nella tremenda mano. Ecco i morti escono vivi dai loro sepolcri, van pubblicando colla testimonianza della lor miracolosa risurrezione, che orrende prigioni della morte furono spezzate da una forza da cui essa fu vinta. Approssimiamoci colla più viva ed ardente carità a questo sacro Corpo (Io. Chrys. hom. 24, I ad Cor.). Ma ritorniamo al sacerdote per osservare, con sull’istante di deporre la SS. Ostia nel calice, col Corpo di Gesù tre croci sopra del calice e dice: « la pace † del Signore sia † sempre con noi †. » Con queste tre croci sopra la bocca del calice pare che si vogliano figurare le tre donne, che cercavano di Gesù sull’entrata del santo Sepolcro, di cui la bocca del calice esprimerebbe l’entrata (Inn. III, lib. 6, Myst. Miss. cap. 2.). Significano anche che tutto è crocesignato nella Chiesa, che dalla croce derivano le sue vittorie. Coll’invocare la pace significa, che non solamente pel merito del divin Sacrificio verremo assorti in Dio, e troveremo pel Redentore la pace in unione col Padre, col Figlio, collo Spirito Santo; ma ancora che per Gesù, in seno alla sua Chiesa, per mezzo de’ suoi precetti, consigli e Sacramenti, l’anima con coscienza senza rimorsi, già crocifissa nelle passioni, tranquilla tra le braccia di Dio, gode coi fratelli quella anticipata concordia, che si ha da godere eterna in paradiso (S. Hier. ep. ad Rum.), perché le guerre vengono dalle passioni traboccanti. La pace vera poi si gode dall’anima, quando essa vuole solo quel che vuole Iddio, e come lo vuole Iddio. Il popolo dovrebbe rispondere al Sacerdote con lagrime d’infinita gratitudine: « sia pure così, Amen! » Il Sacerdote poi nell’infondere nel calice santo il Corpo dice:

L’orazione: Hæc commixtio.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (14) “da NICCOLÓ I a LEONE IX”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (14)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(Da Niccolò I a Leone IX)

NICCOLÓ I: 24 aprile 858-13 novembre 867

Concilio di Roma, 862.

L’eresia dei Teopaschiti

635. Cap. 1 (7). Si deve certamente credere e professare veramente, sotto ogni aspetto, che il Signore nostro Gesù Cristo, Dio e Figlio di Dio, abbia sopportato la Passione della croce solo secondo la carne, ma che nella sua divinità sia rimasto impassibile, come insegnano l’Autorità Apostolica e la splendida dottrina dei santissimi Padri.

636. Cap. 2. (8) Quanto a coloro che affermano che il nostro Redentore e Signore Gesù Cristo e Figlio di Dio abbia sopportato la passione della croce secondo la divinità, cosa empia ed esecrabile per le menti cattoliche, siano anatema.

L’effetto del Battesimo

637. Cap. 9 (4) Tutti coloro che affermano che coloro che sono rinati dalla sorgente del santissimo Battesimo credendo al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo, non siano ugualmente lavati dal peccato originale, siano anatema.

Lettera “Proposueramus quidem” all’imperatore Michele, 28 settembre 865

638. Il giudice non sarà giudicato dall’Imperatore, né da tutto il clero, né dai re, né dal popolo… La Prima Sede non sarà giudicata da nessuno…”.

639. Dove avete letto che gli Imperatori, vostri predecessori, avrebbero partecipato alle assemblee sinodali, ad eccezione forse di quelle in cui si discuteva della fede, che è universale, che è comune a tutti, e che riguarda non solo il clero ma anche i laici e tutti i Cristiani? Quanto più un reclamo è rivolto al giudizio di un’autorità superiore, tanto più si deve ricorrere ad un’istanza superiore, finché, passo dopo passo, si giunga a quella Sede il cui giudizio o è modificato in meglio da essa stessa, se l’importanza della questione lo richieda, o è riservato, senza dubbio, al solo giudizio di Dio.

640. Inoltre, se non Ci ascoltate, ne consegue necessariamente che sarete per Noi come Nostro Signore prescrive di considerare coloro che disdegnano di ascoltare la Chiesa di Dio; soprattutto perché i privilegi della Chiesa romana, confermati dalla bocca di Cristo nel beato Pietro, stabiliti nella Chiesa stessa, riconosciuti fin dai tempi antichi, celebrati da santi Sinodi universali e costantemente venerati da tutta la Chiesa, non possono in alcun modo essere diminuiti, limitati e modificati, perché il fondamento che Dio ha posto non può essere cancellato da nessuna impresa umana, e ciò che Dio ha stabilito rimane fermo e solido. .. Quei privilegi, dunque, conferiti a questa santa Chiesa da Cristo, che non siano stati conferiti dai Sinodi, ma solo celebrati e venerati da essi… ci obbligano e ci spingono ad “avere sollecitudine per tutte le chiese” di Dio (2Co XI: 28) .

641. Poiché, secondo i Canoni, il giudizio delle autorità inferiori deve essere deferito all’autorità superiore per essere annullato o confermato, è evidente che il giudizio della Sede Apostolica, per il quale non esiste un’autorità superiore, non debba essere rivisto da nessuno (232), e che a nessuno è permesso di giudicare il suo giudizio. Infatti, i Canoni hanno voluto che si facesse appello ad essa da tutte le parti del mondo; ma a nessuno è permesso di appellarsi al suo giudizio… Se, dunque, si ammette che ciò che riguarda il giudizio del Vescovo di Roma non debba più essere esaminato – perché questa è anche la consuetudine – non neghiamo che il giudizio di questa Sede possa essere modificato in meglio quando qualcosa le sia sfuggito, o da se stessa. Anche l’eccellente Apostolo Paolo, come leggiamo, ha fatto alcune cose in modo eccezionale, che sappiamo che poi le abbia riprovate; ma solo nei casi in cui la Chiesa di Roma, dopo un attento esame, abbia ordinato di farlo, e non quando essa stessa ha rifiutato di permettere che ciò che è stato ben definito fosse esaminato di nuovo…

642. Per quanto riguarda voi, vi chiediamo di non danneggiare la Chiesa di Dio, perché essa non danneggia il vostro Impero, poiché al contrario implora l’eterna Divinità per la sua stabilità e prega con incessante devozione per la vostra conservazione e salvezza. Non arrogatevi ciò che le appartiene, non cercate di sottrarle ciò che è stato affidato ad essa sola: sapete infatti che, come non è opportuno che un chierico, un uomo al servizio di Dio, si immischi negli affari del mondo, così un uomo incaricato degli affari di questo mondo deve rimanere lontano dalle cose sacre. Infine, non sappiamo come coloro che sono autorizzati a presiedere solo alle cose umane e non a quelle divine, osino giudicare coloro che si occupano di cose divine. Questo esisteva prima della venuta di Cristo, quando alcuni erano in modo esemplare sia re che sacerdoti; la storia sacra registra che San Melchisedek lo fosse (Gn XIV,18) e questo il diavolo lo imitava nei suoi membri, colui che cerca sempre di rivendicare per sé, in modo tirannico, ciò che equivale al culto divino, tanto che gli Imperatori pagani erano chiamati allo stesso tempo “Pontefici”. Ma non appena siamo giunti a Colui che è allo stesso tempo vero Re e Pontefice, l’Imperatore non si è più arrogato i diritti del pontificato, né il Pontefice il nome imperiale. Infatti, lo stesso “mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Cristo Gesù” (1 Tm II, 5) ha separato le funzioni dei due poteri secondo le loro attività e le loro distinte dignità – volendo che fossero innalzati dalla loro stessa umiltà e non abbattuti dall’orgoglio umano – in modo che gli Imperatori abbiano bisogno dei Pontefici per la vita eterna e i Pontefici si servano delle leggi dellIimperatore per il corso degli affari puramente temporali: affinché l’attività spirituale sia lontana dalle incursioni carnali, e quindi chi è al servizio di Dio non si immischi in alcun modo negli affari secolari (2Tm III, 4) e che, d’altra parte, chi si immischia negli affari secolari non sia visto presiedere agli affari divini; in modo che allo stesso tempo si provveda alla modestia di entrambi gli ordini, in modo che non si innalzino appoggiandosi l’uno all’altro, e che la funzione sia adattata in ogni caso a ciò che sono le azioni.

Risposte “Ad consulta vestra” ai Bulgari, 13 novembre 866.

La forma essenziale del matrimonio.

643. Cap. 3… Basterà, secondo le leggi, il consenso di coloro di cui si considera l’unione; se questo solo consenso dovesse mancare al momento del matrimonio, tutto il resto, anche se si realizza con la stessa unione carnale, sarà vano, come attesta il grande dottore Giovanni Crisostomo, che dice: “Ciò che fa il matrimonio non è l’unione carnale, ma il consenso”.

Forma e ministro del battesimo.

644. Cap. 15. Voi chiedete se gli uomini che hanno ricevuto il Battesimo da questo (pseudo-sacerdote) siano Cristiani o se debbano essere battezzati di nuovo. Ma se sono stati battezzati nel nome dell’altissima ed indivisibile Trinità, sono veramente Cristiani, e chiunque fosse il Cristiano da cui sono stati battezzati, non è opportuno che siano battezzati di nuovo; perché… “Il Battesimo… anche se conferito da un adultero o da un ladro, giunge come un dono intatto a colui che lo riceve” (356). Ed è per questo che il malvagio, quando fa del bene, non fa più male agli altri ma a se stesso; ed è per questo che è certo che coloro che questo greco battezzava, nessuna parte del danno li raggiungeva, per questo: “È lui che battezza” (Gv 1,33), cioè Cristo, e ancora: “È Dio che dà la crescita” (1Cor III,7(, sottinteso: e non l’uomo.

645. Cap. 71. Nessuno, per quanto impuro possa essere, può rendere impuri i Sacramenti divini, che sono il rimedio che purifica da ogni contaminazione. Allo stesso modo, un raggio di sole che passa attraverso i pozzi neri e le latrine non può ricevere alcuna contaminazione da essi; inoltre, per quanto possa essere il Sacerdote, non può inquinare ciò che è santo; perciò, fino a quando non sarà respinto da un giudizio dei Vescovi, si deve ricevere la Comunione da lui, perché quando i malvagi fanno del bene, fanno del male solo a se stessi, e una fiaccola accesa causa perdita a se stessa, ma agli altri dà luce nelle tenebre. .. Ricevete dunque senza timore il mistero di Cristo da ogni Sacerdote, perché tutto è purificato nella fede.

646. Cap. 104. Voi dite che nel vostro Paese molti siano stati battezzati da un ebreo – non sapete se sia un Cristiano o un gentile – e chiedete quale condotta tenere nei loro confronti. Se sono stati veramente battezzati nel nome della Santa Trinità o solo nel nome di Cristo, come si legge negli Atti degli Apostoli (II, 38 – XIX, 5  – perché è la stessa cosa, come afferma Ambrogio), è stabilito che non debbano essere battezzati di nuovo. Ma prima bisogna accertare se questo ebreo fosse Cristiano o gentile, o se è diventato Cristiano in seguito, anche se crediamo che non si debba trascurare quanto dice il beato Agostino sul Battesimo: “Abbiamo già sufficientemente dimostrato”, dice, “che il Battesimo consacrato dalle parole del Vangelo non sia messo in gioco dall’errore del ministro che ha un’opinione del Padre, del Figlio o dello Spirito Santo diversa da quella che insegna la dottrina celeste”; ed ancora: “In questo numero ci sono anche alcuni che conducono una vita scandalosa o addirittura si dilettano nell’eresia o nelle superstizioni dei gentili; eppure anche lì “il Signore conosce i suoi”” (2Tim II, 19). Perché in questa ineffabile prescienza di Dio, molti di coloro che appaiono all’esterno sono all’interno. E in un altro passo: “Anche le menti lente capiscono, come penso, che nessuna perversione umana, sia del ministro che del soggetto, possa fare violenza al Battesimo di Cristo”; e ancora: “Uno che è separato può passare, così come uno che è separato può possedere, ma passare in modo pernicioso; quanto a colui al quale trasmette, egli può ricevere per la sua salvezza, se non riceve lui stesso essendo separato.

Nessun uso della forza nell’accettazione della fede.

647. Cap.41 Riguardo a coloro che rifiutano di ricevere il bene del Cristianesimo, non possiamo scrivervi altro, se non che dovete persuaderli alla vera fede con monizioni, esortazioni ed istruzioni, piuttosto che convincerli con la forza che il loro pensiero è vanità. Inoltre, non bisogna in alcun modo far loro violenza per farli credere. Infatti, tutto ciò che non proviene da un desiderio non può essere buono (Sal LIII, 8; Sal CXVIII,108;  Sal XXVII,7); infatti, Dio esige una sottomissione volontaria, che si manifestaisolo con atti volontari, perché se avesse voluto usare la forza, nessuno avrebbe potuto resistere alla sua onnipotenza.

La confessione di un crimine non deve essere estorta con la tortura.

648. Cap. 86. Voi dite che nel vostro Paese, quando un ladro o un rapinatore è stato catturato e ha negato l’accusa contro di lui, il giudice gli colpisca la testa con delle verghe e gli punga i fianchi con punte di ferro finché non dica la verità; questo non è assolutamente ammesso né dalla legge divina né da quella umana, perché la confessione non deve essere involontaria ma spontanea, e non deve essere provocata dalla violenza ma pronunciata volontariamente. Se alla fine accade che, dopo aver inflitto questi tormenti, non si scopre assolutamente nulla di ciò che viene imputato a colui che li ha subiti, non arrossite almeno allora e riconoscete in che modo empio giudicate? E allo stesso modo, se un accusato che ha sofferto questo e non può sopportarlo, dice di aver commesso ciò che non ha commesso: a chi, chiedo, si rivolge tutta la portata di tale empietà, se non a colui che lo ha costretto a confessare questo in modo falso? Eppure sappiamo che non confessa, ma parla, colui che dice con la bocca ciò che non ha nel cuore! D’altra parte, quando un uomo libero è stato fermato per un crimine e – a meno che non sia già stato giudicato colpevole di un crimine in precedenza, o che, confessato da tre testimoni, subisca la pena, o che non possa essere confessato – giura sul santo Vangelo che gli è stato presentato di non averlo commesso, sarà assolto, e allora la questione sarà conclusa, come testimonia l’Apostolo delle genti più volte citato quando dice: “per confermare la fine di ogni controversia tra loro, c’è il giuramento”.

ADRIANO II: 14 dicembre 867-14 Dicembre 872

4° Concilio di Costantinopoli IV (VIII ecumenico) 5 ottobre 869-28 febbraio 870

X sessione, 28 febbraio 870: canoni.

La tradizione come regola per la fede.

650. (traduzione del bibliotecario Anastasio)

Can. 1. Volendo camminare con sicurezza nella via diritta e regale della giustizia divina, dobbiamo tenere come torce sempre accese, che illuminino i nostri passi nella sequela di Dio, le disposizioni e i pensieri dei santi Padri. (Versione greca abbreviata: “VGA” – 1. Desiderosi di camminare senza ostacoli nella via diritta e regale della giustizia divina, dobbiamo tenere come torce sempre accese le ordinanze ed il pensiero dei santi Padri).

651. Perciò, come il grande e sapientissimo Dionigi, le guardiamo e le consideriamo come una seconda Parola divina; e allo stesso modo, a proposito di esse, cantiamo con la massima ansia, con il divino Davide: “Il luminoso comandamento di Dio, luce per gli occhi”. Sal XVIII, 9 Sal CXVIII, 105 Prov VI, 23 Is XXVI, 9 . È infatti alla luce che si paragonano giustamente le raccomandazioni e i divieti dei Canoni divini; è per mezzo di essi che distinguiamo il meglio dal peggio, e discerniamo ciò che è utile e redditizio da ciò che non è utile ma dannoso.

652. Pertanto, le regole che sono state trasmesse alla santa Chiesa cattolica e apostolica sia dai santi ed illustrissimi Apostoli che dai Concili ecumenici e locali degli ortodossi, o anche da uno qualsiasi dei Padri che sono portavoce di Dio e dottori della Chiesa, dichiariamo di osservarle e custodirle. Regolando su di esse la nostra morale e la nostra vita, decretiamo che tutti i Sacerdoti, così come coloro che sono annoverati sotto il nome di Cristiani, siano canonicamente soggetti alle punizioni e alle condanne e, d’altra parte, alle reintegrazioni ed alle giustificazioni che sono state definite da queste regole; infatti, per conservare le tradizioni che abbiamo ricevuto oralmente o per iscritto dai Santi che un tempo hanno brillato, il grande Apostolo ci esorta apertamente. ( VGA – Pertanto, le regole che sono state trasmesse alla santa Chiesa cattolica e apostolica sia dai santi e illustrissimi Apostoli che dai Concili ecumenici ortodossi o locali, o anche da un Padre portavoce di Dio e dottore della Chiesa, dichiariamo di osservarle e custodirle. Infatti, il grande Apostolo Paolo ci esorta apertamente a conservare le tradizioni che abbiamo ricevuto oralmente o per iscritto dai santi che un tempo hanno brillato (2Ts II,15).

La venerazione delle immagini sacre.

653. Can. 3. Decretiamo che la sacra immagine di nostro Signore Gesù Cristo, liberatore e salvatore di tutti gli uomini, sia venerata con gli stessi onori del libro dei Santi Vangeli (VGA – 3. Decretiamo che l’immagine di nostro Signore Gesù Cristo sia venerata con gli stessi onori del libro dei Santi Vangeli).

654. Infatti, come tutti raggiungiamo la salvezza attraverso le parole che sono composte dalle sillabe contenute nel libro, così tutti, sia i dotti che i non dotti, beneficiano di ciò che è davanti ai loro occhi attraverso l’azione che queste immagini esercitano con i loro colori. Infatti, ciò che è detto nelle sillabe, l’espressione che impiega i colori lo proclama e lo esalta; ed è giusto, secondo la ragione e la tradizione più antica, per l’onore – perché si riferisce ai modelli stessi – che indirettamente le immagini siano onorate, e venerate come il libro sacro dei santi Vangeli e la figura della preziosa croce. (VGA – Infatti, come tutti ottengono la salvezza attraverso le parole contenute nel libro, così tutti, sia i dotti che gli ignoranti, beneficiano di ciò che è davanti ai loro occhi attraverso l’azione di queste immagini con i loro colori. Infatti, ciò che è detto nelle sillabe, anche la scrittura colorata lo proclama e lo rappresenta con i colori).

655. Se dunque qualcuno non venera l’immagine di Cristo Salvatore e non ne vede la forma, quando egli verrà nella gloria del Padre suo per essere glorificato e per glorificare i suoi santi (2Ts I,10), sia tenuto lontano dalla sua comunione e dalla sua gloria. (VGA – Se dunque qualcuno non rispetta l’immagine di Cristo Salvatore, non vedrà la sua forma alla seconda venuta).

656. Lo stesso vale per chi non venera l’immagine di Maria, sua Madre immacolata e Madre di Dio. Dipingiamo anche le immagini dei santi Angeli, come le divine Scritture li rappresentano a parole; onoriamo e veneriamo anche le immagini degli Apostoli, che sono degni di tante lodi, dei Profeti, dei Martiri, dei Consacrati e di tutti i Santi. Chi non si comporta in questo modo sia anatematizzato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (VGA – Allo stesso modo onoriamo e veneriamo l’immagine di sua Madre immacolata e le immagini dei santi Angeli, come la divina Scrittura le rappresenta a parole, e anche quelle di tutti i Santi; e chi non si comporta in questo modo sia anatematizzato).

L’unicità dell’anima umana.

657. Can. 11. Mentre l’Antico e il Nuovo Testamento insegnano che l’uomo abbia un’unica anima ragionevole e intellettuale, e tutti i Padri e i Dottori che sono i portavoce di Dio nella Chiesa affermano la stessa dottrina, alcuni individui, dedicando i loro sforzi a inventare mali, sono arrivati ad un tale grado di empietà da insegnare impudentemente che l’uomo abbia due anime, e da tentare… di rafforzare la loro eresia con sforzi irrazionali. (VGA- (10). Mentre l’Antico e il Nuovo Testamento insegnano che l’uomo ha una sola anima ragionevole e intellettuale, e tutti i Padri e i Dottori che sono portavoce di Dio nella Chiesa affermano la stessa dottrina, ci sono individui che insegnano che l’uomo abbia due anime, e che rafforzano la loro eresia con dimostrazioni irrazionali).

658. Perciò questo santo Concilio ecumenico […] anatemizza a gran voce gli inventori ed i falsificatori di tale empietà, come pure coloro che condividono le loro opinioni; il Concilio definisce e promulga che nessuno debba assolutamente possedere o conservare in alcun modo i testi degli autori di questa empietà. Se qualcuno avrà l’ardire di agire in contrasto con questo grande e santo Concilio, sia anatematizzato ed escluso dalla fede e dalla Religione cristiana (VGA – Pertanto questo santo Concilio ecumenico anatematizza con voce potente gli autori di tale empietà, così come coloro che condividono le loro opinioni. Se qualcuno in futuro avrà l’audacia di dire il contrario, sarà anatematizzato.

Libertà nella guida della Chiesa.

659. Can. 12. (non esiste più in greco) Poiché i Canoni apostolici e conciliari proibiscono formalmente le promozioni e le consacrazioni di Vescovi effettuate sotto l’influenza e la raccomandazione di arconti, dichiariamo e decidiamo anche, in conformità a questi Canoni, che se un Vescovo, con l’inganno o la tirannia dei potenti, riceve in questo modo la consacrazione della sua dignità, sarà in ogni caso deposto, come un uomo che, non secondo la volontà di Dio, ma secondo la volontà del sentimento carnale, ha voluto possedere o ha accettato la casa di Dio da uomini e attraverso uomini.

660. Can. 17. (lat.) Inoltre, abbiamo respinto a priori come un’affermazione odiosa quella fatta da persone ignoranti: un Sinodo non può essere tenuto senza la presenza di un arconte. Infatti, i sacri Canoni non hanno mai prescritto la presenza di principi secolari ai sinodi, ma solo di Vescovi. E così troviamo che gli arconti non hanno mai partecipato ai Concili, ad eccezione di quelli ecumenici: perché gli arconti secolari non devono essere testimoni di ciò che talvolta accade ai Sacerdoti di Dio. (VGA – 12 Ci è giunta voce che non si possa tenere un sinodo senza la presenza dell’arconte. Ma i sacri Canoni non prescrivono mai che gli arconti secolari siano presenti ai sinodi, ma solo i vescovi. Né troviamo che essi siano stati presenti, ad eccezione dei Concili ecumenici: perché gli arconti secolari non devono essere testimoni di ciò che accade ai Sacerdoti di Dio).

Preminenza romana tra le sedi patriarcali.

661. Can. 21 (non esiste in greco – VGA). La parola di Dio, che Cristo disse ai santi Apostoli e ai suoi discepoli: “Chi accoglie voi accoglie me” Mt X,40 “e chi disprezza voi disprezza me” Lc X,16, crediamo sia stata rivolta anche a tutti coloro che, dopo di loro e sul loro esempio, siano diventati sovrani Pontefici e capi dei pastori nella Chiesa cattolica. Ordiniamo quindi che assolutamente nessuno dei potenti di questo mondo offenda o tenti di cacciare dal suo trono qualcuno di coloro che occupano le Sedi patriarcali, ma che al contrario ognuno li giudichi degni di ogni onore e rispetto, primo fra tutti il santissimo Papa dell’antica Roma, poi il Patriarca di Costantinopoli, quindi quelli di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Inoltre, nessuno scriva o componga scritti e discorsi contro il santissimo Papa di Roma antica, con il pretesto di presunte colpe da lui commesse; cosa che ha fatto recentemente Fozio e molto prima Dioscoro.

662. Chiunque, dunque, mostri presunzione e audacia tali da rivolgere insulti alla Sede di Pietro, il primo degli apostoli, per iscritto o senza scrivere, come hanno fatto Fozio e Dioscoro, subirà una condanna simile ed identica alla loro (VGA – 13) Chiunque mostri audacia tale da rivolgere insulti alla sede di Pietro, il primo degli apostoli, per iscritto o senza scrivere, come hanno fatto Fozio e Dioscoro, subirà una condanna identica alla loro).

663. Se qualcuno con qualche potere secolare, o qualsiasi persona potente, tenterà di allontanare dalla Sede Apostolica il suddetto Papa o uno qualsiasi degli altri Patriarchi, sia anatema.

664. Inoltre, se viene convocato un Concilio ecumenico e sorge qualche disputa sulla santa Chiesa dei Romani, o qualche controversia, è necessario indagare con rispetto e con la dovuta riverenza sul punto della contesa, e poi adottare una soluzione di cui uno si avvantaggia o di cui altri si avvantaggiano, ma mai avere l’audacia di pronunciare una sentenza contro i Sovrani Pontefici dell’antica Roma. (VGA – Ma se viene convocato un Concilio ecumenico e sorge una controversia sulla Chiesa dei Romani, si può, con prudenza e con la dovuta riverenza, indagare sul punto controverso e trovare aiuto o assistenza, ma non si abbia mai l’ardire di pronunciare un’accusa contro i Vescovi dell’antica Roma).

GIOVANNI VIII: 14 dicembre 872-16 dicembre 882

Lettera “Unum est” ai principi di Sardegna, intorno al settembre 873.

La schiavitù degli esseri umani deve essere abolita.

668. C’è una cosa per la quale dobbiamo paternamente ammonirvi; se non la correggerete, incorrerete in un grande peccato, e con esso non aumenterete i guadagni, come sperate, ma piuttosto i danni. Come abbiamo appreso, su istigazione dei Greci, molti di coloro che sono stati fatti prigionieri dai pagani vengono venduti nelle vostre regioni e, dopo essere stati comprati dai vostri connazionali, sono tenuti sotto il giogo della schiavitù; mentre è dimostrato che è pio e santo, come si addice ai Cristiani, che i vostri connazionali, dopo averli comprati dai Greci, li rimandino liberi per amore di Cristo e che ricevano la loro ricompensa non dagli uomini, ma dallo stesso nostro Signore Gesù Cristo. Perciò vi esortiamo e vi ordiniamo con amore paterno, se avete comprato dei prigionieri da loro, di lasciarli liberi per la salvezza delle vostre anime.

MARINO I: 16 dicembre 882-15 maggio 884

ADRIANO III: 17 maggio 884-settembre 885

STEFANO V (VI): settembre 885-14 settembre 891

Lettera “Consuluisti de infantibus“, all’arcivescovo Ludberto di Magonza

Magonza, tra l’887-888.

Condanna delle ordalie.

670. Ci hai consultato a proposito dei bambini che, dormendo nello stesso letto con i genitori, vengono trovati morti, per sapere se i genitori debbano purificarsi con il ferro rovente o con l’acqua bollente, o con qualche altra prova per dimostrare che non li abbino soffocati. I genitori, infatti, devono essere avvertiti ed ammoniti di non mettere questi bambini così teneri nel loro stesso letto, per evitare che, in caso di negligenza, vengano soffocati o schiacciati, e che quindi vengano riconosciuti colpevoli di omicidio. Infatti, sia che la confessione venga estorta con il ferro rovente o con l’acqua bollente, i santi Canoni non l’approvano; e ciò che non è stato stabilito dai santi Padri non deve essere presunto per invenzione superstiziosa. I reati resi pubblici dalla confessione spontanea o dalla deposizione di testimoni sono stati affidati al nostro governo per il giudizio, da quando il timore di Dio ci ha preceduto; ma ciò che è nascosto e sconosciuto deve essere lasciato al giudizio di Colui “che solo conosce il cuore dei figli degli uomini”. (3 Re VIII,39). Ma coloro che si dimostrano colpevoli di un tale crimine o che lo confessano, la vostra carità deve punirli; infatti, se chi ha distrutto con l’aborto ciò che è stato concepito nel grembo materno sia un assassino, quanto più non può scusarsi di essere un assassino chi abbia ucciso un bambino di almeno un giorno.

FORMOSO: 6 ottobre 891-4 Aprile 896

BONIFACIO VI: aprile 896

STEFANO VI (VII): maggio 896-agosto 897

ROMANO: agosto-novembre 897

TEODORO II: dicembre 897

GIOVANNI IX: gennaio 898-gennaio 900

BENEDETTO IV: gennaio (febbraio ?) 900-luglio 903

LEONE V: luglio – settembre 903

SERGIO III : 29 gennaio 904-14 Aprile 911

ANASTASO III: aprile 911-giugno 913

LANDO : luglio 913-febbraio 914

GIOVANNI X: marzo 914-maggio 928

LEONE VI: maggio-dicembre 928

STEFANO VII (VIII): dicembre 928-febbraio 931

GIOVANNI XI: febbraio/marzo 931-dicembre 935

LEONE VII: 3 gennaio 936-13 luglio 939

STEFANO VIII (IX): 14 luglio 939-ottobre 942

MARINO II: 30 ottobre 942-maggio 946

AGAPETO II: 10 maggio 946-dicembre 955

GIOVANNI XII: 16 dicembre 955-14 maggio 964

(A causa della deposizione di Giovanni XII (4/12/963) e di Benedetto V (23/6/964) l’elenco dei papi è diviso. Poiché vi è controversia su quale sia il Papa legittimo, in ciascun caso, sono indicati entrambi)

LEONE VIII: 6 (4 ?) dicembre 963-1 marzo 965

BENEDETTO V: 22 maggio 964 – 4 luglio 966

GIOVANNI XIII: 1° ottobre 965-6 settembre 972

BENEDETTO VI: 19 gennaio 973-giugno 974

BENEDETTO VII: ottobre 974-10 luglio 983

GIOVANNI XIV: dicembre 983-20 agosto 984

GIOVANNI XV: agosto 985-marzo 996

Enciclica “Cum conventus esset” ai Vescovi e agli Abati di Francia e Germania, 3 febbraio 993.

La venerazione dei santi

675. (2).. Di comune accordo abbiamo stabilito che la sua memoria – quella del santo Vescovo Ulrico – sia venerata con pio affetto e fedele devozione: infatti, quando veneriamo e veneriamo le reliquie dei martiri e dei confessori, è Colui di cui sono martiri e confessori che veneriamo; onoriamo i servi, affinché l’onore trabocchi sul Signore, che ha detto: Onoriamo i servi perché l’onore trabocchi verso il Signore che ha detto: “Chi accoglie voi accoglie me” (Mt X, 40), e perché noi, che non confidiamo nella nostra giustizia, possiamo sempre avere l’aiuto di Dio misericordiosissimo attraverso le loro preghiere e i loro meriti. Poiché i salutarissimi precetti divini e gli insegnamenti dei Santi canonici e dei venerabili Padri – con la pia considerazione dell’opinione di tutte le Chiese, ma anche con l’appoggio del Governo Apostolico – hanno sollecitato il raggiungimento di una soluzione utile e sicura, affinché la memoria del suddetto venerabile vescovo Ulrico sia dedicata al culto divino e sia sempre proficua nella più devota esecuzione della lode di Dio.

GREGORIO V: 3 maggio 996 – 18 febbraio 999 Febbraio 999

SILVESTRO II : 2 aprile 999 – 12 maggio 1003

GIOVANNI XVII : giugno – dicembre 1003

GIOVANNI XVIII: gennaio l004 – luglio 1009

SERGIO IV: 31 luglio 1009 – 12 maggio 1012

BENEDETTO VIII: 18 maggio 1012 – 9 aprile 1024

GIOVANNI XIX aprile – maggio 1024 – 1032

BENEDETTO IX: 1032 – 1044 (deposto per la prima volta nel 1044 dopo aver riconquistato il suo seggio per due volte, nel 1045 e nel 1047 fu deposto di nuovo)

SILVESTRO III: 20 gennaio – 10 febbraio 1045

BENEDETTO IX: 10 aprile – 1° maggio 1045

GREGORIO VI: 5 maggio 1045 – 20 dicembre 1046

CLEMENTE II: 25 dicembre 1046 – 9 ottobre 1047

BENEDETTO IX: 8 novembre 1047 – 17 luglio 1048

DAMASO II: 17 luglio – 9 agosto 1048

LEONE IX: 12 febbraio 1049 – 19 aprile 1054

Lettera “Congratulamur vehementer” a Pietro Patriarca di Antiochia, 13 aprile 1053

Professione di fede.

680. Credo fermamente… che la Santa Trinità, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, sia un solo Dio onnipotente, e che tutta la divinità nella Trinità sia coessenziale e consustanziale, della stessa eternità e onnipotenza, di una sola volontà, potenza e maestà: Creatore di tutte le creature, dal quale, per mezzo del quale, nel quale sono tutte le cose (Rm XI, 36), quelle in cielo e quelle in terra, le cose visibili e invisibili. Credo anche che tutte le Persone che compongono la Santa Trinità siano un unico Dio vero, pieno e perfetto.

681. Credo anche che il Figlio di Dio Padre, il Verbo di Dio, che è nato dal Padre da tutta l’eternità prima di tutti i tempi, consustanziale al Padre in tutte le cose, ugualmente onnipotente e co-uguale nella divinità, sia nato nel tempo dallo Spirito Santo, da Maria sempre Vergine, con un’anima razionale; abbia due nature, una eterna dal Padre, l’altra temporale dalla madre; abbia due volontà e due operazioni; è vero Dio e vero uomo, proprio in ciascuna delle nature e perfetto, non avendo subìto né mescolanze né divisione; né figlio adottivo, né essere immaginario; Dio unico e solo, Figlio di Dio in due nature, ma nella singolarità di una sola Persona; impassibile e immortale nella divinità, ma ha sofferto in umanità per noi e per la nostra salvezza con una vera passione della carne ed è stato sepolto; ed è risorto dai morti il terzo giorno con una vera risurrezione della carne; il quarantesimo giorno dopo la risurrezione salì al cielo con la carne con cui era risorto e con l’anima, e siede alla destra del Padre; da lì, il decimo giorno, inviò lo Spirito Santo, e da lì verrà, così come è salito, per giudicare i vivi e i morti, e ricompenserà ciascuno secondo le sue opere.

682. Credo anche nello Spirito Santo, pienamente, perfettamente e realmente Dio, che procede dal Padre e dal Figlio, uguale e co-essenziale in tutto al Padre e al Figlio, di uguale onnipotenza ed eternità in tutto, che ha parlato per mezzo dei Profeti.

683. Questa santa e indivisa Trinità, non in tre dèi, ma in tre Persone ed in una sola natura o essenza, un solo Dio onnipotente, eterno, invisibile e immutabile, io credo e confesso, professando veramente che il Padre è ingenerato, il Figlio unigenito generato, lo Spirito Santo né generato né ingenerato, ma procedente dal Padre e dal Figlio.

684. (Varie🙂 Credo che la santa Chiesa cattolica e apostolica sia l’unica vera Chiesa, nella quale è dato l’unico Battesimo e la vera remissione di tutti i peccati. Credo anche nella vera risurrezione di questa carne che ora porto, e nella vita eterna.

685. Credo anche che l’Onnipotente Dio e Signore sia l’unico autore dell’Antico e del Nuovo Testamento, della Legge, dei Profeti e degli Apostoli; che Dio abbia predestinato solo le cose buone, ma che conosceva in anticipo i buoni ed i cattivi. Credo e professo che la grazia di Dio conosce e segue l’uomo, per cui non nego il libero arbitrio alla creatura ragionevole. Credo e proclamo che l’anima non è una parte di Dio, ma è creata dal nulla e che senza il Battesimo sia soggetta al peccato originale.

686. Inoltre, anatematizzo ogni eresia che si erga contro la santa Chiesa Cattolica, e allo stesso modo chiunque creda che altre scritture, diverse da quelle ricevute dalla Chiesa cattolica, siano da considerarsi autorevoli, o le veneri. Ricevo in tutto e per tutto i quattro Concili e li venero come i quattro Vangeli; perché la Chiesa universale sta nelle quattro parti del mondo saldamente fondata su di essi, come su una pietra quadrangolare (cf. 472). Allo stesso modo ricevo e venero gli altri tre Concili… Tutto ciò che i sette Concili suddetti, santi e universali, hanno ritenuto e approvato, io lo ritengo e lo approvo, e tutti coloro che essi hanno anatemizzato, io li anatemizzo.

Lettera “Ad splendidum nitentis“, a Pietro Damiano, 1054.

La malizia del traviamento sessuale

687. … È opportuno che, come tu desideri, ci avvaliamo della nostra autorità apostolica in modo da togliere ai lettori ogni dubbio angoscioso, e in modo che sia stabilito per tutti che tutto ciò che è contenuto in questo scritto (il Liber Gomorrhianus), che si oppone al fuoco diabolico come all’acqua, è piaciuto al nostro giudizio. Affinché la licenziosità di un desiderio immorale non rimanga impunita, è necessario che venga respinta con l’adeguata severità apostolica e che si cerchi di affrontarla con rigore. Ecco, tutti coloro che si contaminano con uno qualsiasi dei quattro tipi di abominio menzionati, sono allontanati da tutti i gradi della Chiesa immacolata con la giusta censura prevista, e questo secondo il giudizio dei santi Canoni e il nostro. Ma poiché agiamo con grande umanità, vogliamo e ordiniamo, confidando nella divina misericordia, che coloro che, o con le loro mani o tra di loro, abbiano fatto germogliare il loro seme o lo abbiano sparso tra le loro cosce, e che non l’abbiano fatto per lunga abitudine o con molti, se hanno frenato la loro sensualità ed espiato i loro atti infami con una giusta penitenza, siano ammessi in quegli stessi gradi in cui non sarebbero rimasti per sempre se fossero rimasti nella loro decadenza; Agli altri deve essere tolta la speranza di riacquistare il loro grado: Coloro che, o per lungo tempo con se stessi o con altri, o con molti, anche per poco tempo, si siano contaminati con uno dei due abomini che descrivete, o che – cosa abominevole a dirsi e a sentirsi – si siano messi alle spalle degli altri. Se qualcuno osasse giudicare il nostro decreto di sanzione apostolica o inveire contro di esso, sappia che così facendo mette in pericolo il suo stesso rango.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (15) “da VITTORE II ad URBANO III”

LA VERGINE MARIA (2)

Il Vescovo Tihámer Toth

LA VERGINE MARIA (2)

Nihil Obstat: Dr. Andrés de Lucas, Canonico. Censore.

IMPRIMATUR: José María, Vescovo Ausiliare e Vicario Generale. Madrid, 27 giugno 1951.

CAPITOLO II.

SCRUPOLI RELATIVI AL CULTO DI MARIA

Un giorno una signora venne da me dicendo che voleva parlarmi. Io non sono cattolica – mi disse, – ma da dieci anni vengo nella chiesa dell’Università ed ascolto le sue conferenze. Ora non posso più aspettare: voglio essere cattolica. A casa si scatenerà un putiferio, i miei genitori vorranno impedirmi di fare questo passo, tutti saranno contro di me, potrei anche perdere il lavoro che ho; ma non posso più rimandare, devo farlo! – Ho chiesto:  E mi dica, cos’è che l’ha attratta di noi? La verità che più ha catturato la sua anima dal Cattolicesimo? – Diverse cose, rispose. Prima di tutto, il Santissimo Sacramento. A chi legge con attenzione le chiare parole di Gesù Cristo nella Sacra Scrittura: “Questo è il mio corpo”, non gli basta credere che Cristo sia in quel pane. Non è possibile riposo finché non possiamo essere nella Chiesa, che ci dà il corpo di Cristo. Voglio il Cristo che vive intero e completo nel Santissimo Sacramento. Inoltre, sono attratta dalla Confessione, perché sento che la mia anima ha bisogno di di poter parlare in tutta sincerità e ricevere l’assoluzione nel Nome di Dio. – E c’è qualcos’altro che la attrae? – Continuai a interrogarla. – Sì: il culto di Maria. Vedo che Gesù Cristo, quando ha detto a San Giovanni sulla croce: “Ecco tua madre”, ha anche dato una madre a tutti noi, una Madre che dobbiamo onorare ed amare!

* * *

Quelli di noi che per grazia speciale di Dio sono già nati nella Religione cattolica, quelli di noi che hanno, per così dire, respirato aria cattolica fin dal primo respiro, forse non hanno mai realizzato la verità espressa da quest’anima che era alla ricerca di Cristo. Quanta bellezza, quanti e quanto inesauribili tesori sono nascosti nella Chiesa cattolica! Non parlo ora del Santissimo Sacramento, né della Confessione…; essi non entrano nel nostro argomento. Ma mi occupo del culto di Maria, il tesoro nascosto, del cui valore non tutti i Cattolici sono consapevoli, il tesoro che con la sua luminosità e la sua luce ci guida con sicurezza sul cammino che porta a Cristo. Da sempre un segno caratteristico della Chiesa cattolica è stata la fervente adorazione della Madre di Dio. Con gioia, santo orgoglio e cuore riconoscente, abbiamo sempre reso omaggio alla Beata Vergine; eppure alcuni hanno frainteso e interpretato in modo sbagliato il nostro culto, lo hanno frainteso ed hanno sollevato scrupoli contro di esso. Se nell’ultimo capitolo scorso ho mostrato i fondamenti dogmatici su cui si basa il nostro culto, nel presente capitolo, voglio esaminare gli scrupoli che vengono sollevati e propagandati contro di essa. Sappiamo che la nostra fede cattolica non abbia nulla da nascondere; affrontiamo, quindi, apertamente le obiezioni e le difficoltà che possano essere sollevate contro il culto.

I. “CHE FU CONCEPITA DALLO DELLO SPIRITO SANTO”.

La prima difficoltà sorge già intorno alle parole del Credo: “… fu concepita dallo Spirito Santo e nata dalla Vergine Maria”… Vergine Maria! Vergine benedetta! Vergine e, soprattutto, Madre! Questo è il titolo che di solito diamo a Maria, ma abbiamo già incontrato la prima obiezione, la prima difficoltà: la verginità intatta della Madre di Dio!

* * *

A) Non c’è dubbio, affermare questo, riguardo alla nascita di Gesù Cristo, può lasciare perplessi anche gli uomini di buona volontà. Perché secondo la nostra fede, Cristo non è nato come gli altri uomini. Non aveva un padre terreno, è stato concepito dallo Spirito Santo, cioè San Giuseppe e la Vergine Maria – pur essendo uniti in un vero matrimonio – non ebbero vita matrimoniale. Ebbero un solo figlio, Gesù, che era figlio dello Spirito Santo, Egli non era figlio di San Giuseppe, ma solo di Maria. Questo è un fatto eccezionale. La storia dell’umanità non ci offre, né può offrirci, un caso del genere. Non è accaduto secondo le leggi umane… Ma la Sacra Scrittura lo afferma in un modo che non lascia spazio a dubbi, lo afferma in maniera così chiara e decisa che non è possibile sopprimerlo dai nostri dogmi, e chi non lo crede non può essere Cristiano. Quando, dalle labbra dell’Angelo apprese che le sarebbe nato un figlio, Ella chiese ansiosamente: “Come può essere, dal momento che non conosco, né mai conoscerò alcun uomo? (Lc. 1: 34). E l’Angelo risponde molto chiaramente: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, e la potenza dell’Altissimo ti adombrerà, e per questo motivo il Santo che nascerà da te sarà chiamato Figlio di Dio” (Lc. 1, 35). Questo è ciò che scrive SAN LUCA Evangelista. E in SAN MATTEO leggiamo: “Quando sua madre Maria fu promessa sposa a Giuseppe, si scoprì che aveva concepito nel suo grembo per opera dello Spirito Santo” (Mt 1, 18). E quando San Giuseppe è turbato da questo, l’Angelo lo rassicura con queste parole: “Giuseppe, figlio di Davide, non essere turbato nel ricevere Maria, tua sposa, perché ciò che è stato generato nel suo grembo è opera dello Spirito Santo” (Mt 1, 20). È possibile parlare più chiaramente? Quando preghiamo il Credo alludiamo a questi passi della Sacra Scrittura: “Egli è stato concepito dallo Spirito Santo, nato dalla Vergine Maria”. Con questo confessiamo che Cristo è nato in modo molto diverso dagli altri uomini. Non aveva un padre mortale sulla terra; non è stato sottoposto alla legge generale della nascita; sebbene abbia ricevuto il suo corpo da una madre, non lo ricevette come gli altri uomini, perché sua Madre, Maria, era vergine ed immacolata prima della sua nascita, e lo fu anche dopo…. È vero che la nostra povera ragione umana abbia difficoltà a comprendere, ma dobbiamo crederci… è necessario crederci. E colui che non ci crede non può essere Cristiano.

B) In relazione a questo dogma vorrei anche sottolineare una circostanza che avvalora questa nostra convinzione, la corrobora e la rende accessibile al punto che, anche se non siamo in grado di comprendere la maternità verginale di Maria, – perché non saremo mai in grado di capirla – noi siamo forzati ad esclamare: realmente, così doveva venire a noi il Figlio di Dio. Naturalmente…, per ammettere che Cristo è nato come insegna la nostra fede cattolica, cioè: senza padre, da una Madre che ha concepito per opera dello Spirito Santo…, abbiamo bisogno di una fede profonda. Ma, allo stesso tempo, sembra più facile accettare questa nascita insolita che attribuire al Figlio di Dio fatto uomo una nascita comune, ed a farlo venire per la via consueta per la quale i figli degli uomini vengono al mondo. E se comprendiamo questo sublime insegnamento della Chiesa, allora possiamo parlare a buon diritto della Vergine Madre, la Beata Vergine, e possiamo onorare in Lei con profonda umiltà la Vergine Madre. Voi certo conoscete che genitori buoni e retti, hanno a volte un figlio che non assomigli affatto alla famiglia: genitori ferventi, pii, onorevoli, che hanno figli frivoli, prodighi, indegni. Chi può capire un tale segreto? Le ultime conclusioni biologiche affermano che quando i genitori danno vita a un nuovo bambino, questo nuovo figlio, questo nuovo essere umano è innestato fin dal primo momento nel tronco millenario dell’albero dell’umanità, e riceve come triste e misteriosa eredità le tendenze, le disposizioni, buone o cattive, dei genitori, dei nonni e persino di antenati lontani. Chi nasce oggi non può più essere l’uomo primitivo, puro, ideale, come il primo uomo uscito dalle mani del Creatore, ma siamo tutti noi un miscuglio incomprensibile e doloroso delle vite, delle inclinazioni, dei desideri, cadute e peccati dei nostri antenati vicini e remoti. È una triste realtà. E chiedo ora – facendo astrazione dai fondamenti dogmatici- : non era forse necessario che il nostro Redentore, scendendo sulla terra, scegliesse, alla sua nascita, un percorso completamente diverso alla sua nascita? Un percorso che, in un certo senso, lo avrebbe isolato dal tronco marcio e malato dell’umanità. Un percorso che avrebbe presentato un’origine diversa dalle altre, percorso attraverso il quale il “nuovo Adamo”, completamente puro, ideale, che viene immediatamente dalle mani di Dio, proprio come in un giorno lontano venne anche il primo Adamo immediatamente dalle mani del Creatore. Certo…, per ammettere che Cristo è nato come insegna la nostra fede cattolica, vale a dire: senza padre, da una Madre che ha concepito per opera dello Spirito Santo …, abbiamo bisogno di una fede profonda. Ma, allo stesso tempo, sembra più facile accettare questa nascita insolita che attribuire al Figlio di Dio fatto uomo una nascita ordinaria, e farlo venire per la via consueta, per la quale i figli degli uomini vengono al mondo. E se comprendiamo questo sublime insegnamento della Chiesa, allora possiamo parlare giustamente della Vergine Madre, della Beata Vergine, e possiamo in lei con profonda umiltà la Vergine Madre.

II. I “FRATELLI” DI CRISTO

Se è così, allora dobbiamo tutti deplorare nel profondo dei nostri cuori gli indegni attacchi che, nel corso del tempo sono stati diretti contro la Vergine Maria proprio in questo punto, e che volevano mettere in discussione la sua verginità.

A) Ho affermato all’inizio di questo capitolo che la nostra fede cattolica non ha nulla da nascondere, che non abbiamo motivo di essere disturbati da qualsiasi tipo di accusa; Voglio affrontare ora la mormorazione spudorata, con la terribile calunnia che i i nemici ostinati della Beata Vergine Maria vogliono diffondere ovunque ed inculcare nelle anime degli uomini, calunnie che forse non hanno raggiunto molti dei miei lettori, ma che non possiamo omettere, perché devono essere pronti a confutarle se un giorno dovessero sentirle. A chi mi riferisco ora? Agli uomini ostinati che, contro Maria, sussurrano con maligno compiacimento alle nostre orecchie: “Perché parlate continuamente della Vergine Maria quando, oltre a Gesù, ha avuto diversi figli? La chiamate Vergine senza diritto”. Fa venire i brividi l’anima nel vedere con quale gioia, con quale trionfante superiorità siano soliti scagliare questa accusa in faccia ai fedeli, e con citazioni dalle Sacre Scritture, e vedere che i nostri, turbati, non sanno cosa rispondere e tacciono…, coperti di rossore.

B) Ma la Sacra Scrittura parla davvero dei “fratelli di Gesù”? Sì, lo fa. E per meglio mostrare quanto poco Motivo abbiamo di nascondere qualcosa, ho raccolto i passi in cui si parla di loro. In una certa occasione, il Signore era circondato da una grande moltitudine, mentre insegnava. San Marco scrive come segue: “Nel frattempo giunsero sua madre e i suoi fratelli (e stando fuori, lo mandarono a chiamare” (Mc. III, 31). Dunque la madre e i fratelli di Cristo! Leggiamo in un altro passo di San Matteo: “Non è forse il figlio dell’artigiano – domandano in una certa occasione dopo aver ascoltato i suoi saggi insegnamenti. Sua madre non si chiama forse Maria? I suoi fratelli non sono forse Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non vivono forse tutti tra noi?” (Mt XIII, 55,56). Quindi, ancora una volta, i fratelli e persino le sorelle di Cristo! Secondo San Giovanni, Gesù si recò a Cafarnao, e con lui andarono “sua madre, i suoi fratelli e i suoi discepoli” (Gv II, 2). Inoltre, secondo San Giovanni, “anche molti dei suoi fratelli non credettero in lui” (Gv VII, 5). Negli Atti degli Apostoli si parla di Maria, madre di Gesù, e dei suoi fratelli e sorelle (At I,14). Ho elencato i principali passi della Sacra Scrittura in cui si parla dei fratelli e delle sorelle di Gesù. Ma il problema è questo: questi passi vanno compresi? Questi passaggi possono essere intesi nel senso che alludono ai figli di Giuseppe e Maria, fratelli e sorelle di Gesù Cristo, altri figli della Vergine? No, affatto! Chi cita la Sacra Scrittura deve conoscerla. Bene, allora: leggete il passo di San Luca (XXIV, 19) in cui le donne raccontano la la resurrezione di Cristo agli Apostoli, e confrontatelo con un altro brano di SAN GIOVANNI (XIX, 25). SAN LUCA dice: “Maria, madre di Giacomo”. SAN GIOVANNI dice: “Si trovavano nello stesso tempo presso la croce di Gesù, sua Madre e la sorella di sua Madre Maria, moglie di Clopa”. Così la Vergine Maria aveva una parente, il cui nome era anche Maria, moglie di Clopa, ed ebbe un figlio, Giacomo il minore. Anche San Marco (VI, 3) lo chiama anche “fratello” di Cristo, quando è chiaro che era suo cugino. Ed è che nella lingua orientale venivano chiamati e vengono chiamati “fratelli” ancora oggi, anche i parenti lontani, quelli che appartengono alla stessa famiglia. Tra il popolo è comune il dire, e ricopio alcune righe della lettera di uno studente di medicina: “Da buon Cattolico e da ungherese, è anche molto comune che un giovane parli con un altro, che non è nemmeno suo parente, e gli dica: “Dove vai, fratello?”. E quante volte sentiamo dire dalla bocca degli ungheresi: “Dove vai, fratellino?” Conosco bene le Sacre Scritture. In Terra Santa, ho visitato i luoghi santi con la Bibbia in mano. Conosco la mentalità orientale. Vorrei offrire un’eccellente prova riguardo alla parola “fratello”. Nella lingua arabo-turca questa parola “Kardhasim” significa “mio fratello”. Ebbene: il turco intelligente, ed anche il semplice turco che conosce la parentela del suo popolo con gli ungheresi, ci hanno salutato come ungheresi che sapevano che eravamo tali e quindi che eravamo loro “parenti” – in modo molto amichevole, dicendo “kardhasim, kardhasim” e stringendoci la mano. Lì in Terra Santa ed in Arabia “mio fratello” (kardhasim) significa un parente o una persona molto cara. Probabilmente anche noi ungheresi abbiamo preso da lì – dal Turan – l’espressione: “Come stai, dove vai? fratello?”. Cosa? Quel bambino di dieci anni è il tuo fratellino? Ma tu hai già quaranta anni! – Oh sì, è mio nipote. Forse mi si dirà che siamo noi che diamo questa svolta alle Sacre Scritture. No! Le Sacre Scritture una volta chiamano Lot “fratello” di Abramo, e altrove riporta fedelmente che Lot era figlio del fratello di Abramo, cioè suo nipote. Inoltre, di Giacobbe leggiamo anche che era “fratello” di Labano, eppure sappiamo che egli fosse il figlio di suo fratello. Il Cantico dei Cantici (IV, 9) chiama la stessa moglie o sposa “sorella”. – Ma – continuiamo ancora con le obiezioni – la Sacra Scrittura chiama Cristo, in diversi passaggi, come il primogenito di Maria (Mt 1, XXV; Lc. 2II 7). Quindi, in breve, Maria ebbe diversi figli? Per niente. Infatti, chiunque conosca il linguaggio delle Sacre Scritture, sa che è consuetudine chiamare il primogenito il primo figlio, anche se non ne sono venuti altri dopo di lui. Inoltre,  San Paolo chiama Gesù Cristo il Primogenito del Padre (Ebr I, 6). Inoltre, se Gesù Cristo avesse avuto fratelli e sorelle, figli di Maria, chi avrebbe potuto comprendere la delicata scena in cui il Crocifisso lascia la sua sua Madre alle cure di San Giovanni? Se Maria avesse avuto altri figli, perché lasciarla nelle mani di un estraneo? No. La Vergine Maria aveva un unico figlio: nostro Signore Gesù Cristo. E con questo unico Figlio onoriamo Maria. Tutti gli omaggi, tutta la gioia purissima, tutto il culto, tutta l’adorazione con cui i popoli cattolici onorano Maria da migliaia di anni derivano da questo fatto: lei ci ha dato Cristo. E non temiamo ciò che farisaicamente alcuni sembrano temere, cioè che il culto di Maria possa distogliere le nostre anime da Gesù Cristo ed essere un muro, un ostacolo tra noi e Dio, ma.., al contrario, è il nostro stimolo: “Per Mariam ad Jesum” è ciò che confessiamo sempre: “A Gesù attraverso Maria”.

III. CRISTO E MARIA

Esaminiamo più da vicino quest’altra obiezione, che viene spesso sollevata: il culto di Maria è un ostacolo sulla via di Cristo?

A) Sarebbe davvero un ostacolo se fosse vera la calunnia tanto sbandierata, la falsità che non riusciamo mai a confutare: che noi adoriamo la Vergine Maria. A volte tutta la nostra forza di convinzione di fronte ad un’affermazione così errata e ostinata, è inutile, e vano addurre prove. Il fine è sempre lo stesso: venerare Maria. Eppure, con quanta chiarezza il Catechismo ci insegna che noi solo onoriamo, non adoriamo Maria. “Ma tu le dici tante preghiere! – Quanti santuari, quante litanie, quante immagini, quante immagini!” Ma è sufficiente leggere il testo delle preghiere e delle litanie, e andare nei luoghi di pellegrinaggio, per vedere che in nessun luogo noi adoriamo Maria, e che non facciamo altro che rivolgere a Lei le nostre suppliche. C’è il testo tanto amato, l’”Ave Maria”. Chiunque può sentirlo: “Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi…”. Perciò non ti adoriamo, ma ti preghiamo di pregare per noi. Ed ancora: “Prega per noi, o Santa Madre di Dio, affinché possiamo essere resi degni di raggiungere le promesse di nostro Signore Gesù Cristo.”. Quindi: prega per noi! Prega per noi! E nelle litanie diciamo sempre: Pregate per noi, pregate per noi. – Osserviamo la marcata differenza che la Chiesa cattolica fa tra il culto di Dio e il culto di Maria. – Come inizia la litania lauretana: “Dio, Padre celeste, abbiate pietà di noi”. Sì, questa è adorazione. “Dio Figlio Redentore – abbiate pietà di noi”. Sì, anche questa è adorazione. Dio Spirito Santo – abbiate pietà di noi.”. Questa è una voce che adora. Ma poi continua: “Santa Maria…”. E noi cosa diciamo? “Abbi pietà di noi?” No, ma: “Prega per noi”. E così fino alla fine: “Prega per noi”! Alla fine della litania ci rivolgiamo a Dio, e il “Prega per noi” cambia di nuovo: “Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo – abbi pietà di noi”. Ecco come la Chiesa distingue chiaramente tra il culto di Dio e il culto di Maria.

* * *

B) Detto questo, è superfluo sollevare l’altra questione, cioè se il nostro culto mattutino sia prudente, se sia o meno un ostacolo, se chiuda o meno la strada al culto di Gesù Cristo. Non è possibile dare una risposta migliore a questa obiezione delle parole dell’Arcangelo Arcangelo nel salutare Maria. “Come osi pregare l’Ave Maria”, ci viene detto. Rispondiamo: se Dio invia un Angelo per salutare una persona, allora non possiamo essere censurati se anche noi la salutiamo con le stesse parole. E se nelle Sacre Scritture, scritte per ispirazione dello Spirito Santo, c’è una profezia che Maria “sarà chiamata benedetta per tutte le generazioni” (Lc. 1,48), allora coloro che si adoperano per l’adempimento di questa profezia e chiamano beata la Vergine Maria, è possibile che il culto di Maria sia anteposto il culto di Dio e lo ponga al secondo posto? C’è un capolavoro nel mondo la cui magnifica bellezza diminuisce l’ammirazione che proviamo per l’artista? Il maestro è sempre più grande della sua opera, e sappiamo che ciò che c’è di bello, affascinante e virtuoso in Maria è dovuto al suo Maestro, l’infinito Dio. Gesù e la sua santa Madre hanno vissuto insieme con una parentela di sangue ed una parentela di anima. E ora è lecito, per la Religione di Cristo, sciogliere e rompere questi intimi legami? Noi cerchiamo solo Cristo”, dicono gli altri. Anche noi lo cerchiamo. Ma è colpa nostra se, in Cristo, troviamo sempre Maria al suo fianco? Lei è al presepe, davanti ai Magi d’Oriente, nella fuga in Egitto, nella casetta di Nazareth, ai piedi della Croce, alla sepoltura di Gesù. Gesù e Maria si appartengono a vicenda: chi trova Cristo trova anche Maria, e chi smette di onorare Maria smette anche di onorare Gesù e – come dimostra la testimonianza della storia – cessa anche di piegare le ginocchia davanti a Cristo. Secondo l’insegnamento della storia, le madri di uomini eccelsi sono sempre state ricordate con rispetto… Vogliamo ulteriormente spiegare con quali titoli onoriamo la Madre dell’Uomo-Dio, Maria? – Chi non ha mai sentito parlare della madre dei Gracchi? E di Santa Monica, l’eroica madre di S. Agostino? E di Sant’Elena, la madre dell’imperatore Costantino il Grande? Abbiamo bisogno di altri esempi?…. Possiamo pronunciare con rispetto il nome di esse e dobbiamo negare questo onore solo alla Madre di Gesù? Il culto di Maria si oppone al culto di Gesù Cristo? Ah, ma dov’è un figlio che non voglia che sua madre sia onorata? Dov’è un figlio che considera un’offesa che sua madre venga rispettata? Al contrario: io non entrerei volentieri in una casa in cui non fosse permesso a mia madre di entrare. –  Tra le cerimonie di incoronazione in Ungheria, ce n’è una di significato molto interessante e profondo. Quando il Principe Primate incorona il re, nell’antichissima chiesa di Mattia, e pone sulle sue tempie il diadema di Santo Stefano, poggia per un momento con la sacra corona sulla spalla della regina. E nessuno si sorprende di questo, nessuno pensa che sia una negazione dell’autorità del re, ma al contrario. Quanto grande, pensiamo, debba essere l’autorità reale, che può illuminare con il suo splendore coloro che, senza essere il re, sono solo vicini al re! Non è forse naturale che Maria abbia il suo posto accanto a Gesù? Maria non è Dio, non è Cristo, ma è vicina a Lui, perché è sua Madre, e questa vicinanza ci ispira. E se qualcuno sostiene, anche dopo quello che abbiamo detto, che il culto ci distragga dall’adorazione di Cristo, lo imploro di fermarsi per una volta anche con spirito di osservazione, a Firenze, davanti a una delle più belle immagini di Maria, davanti all’impareggiabile dipinto di Raffaello, la Madonna della Sedia. Esaminiamo il volto trasfigurato della Vergine, mentre guarda in basso. Si vede che Ella non guarda l’esterno del Bambino, ma è completamente assorta nella contemplazione del suo volto divino. Il volto di Maria, in questo dipinto, è una delle più sublimi bellezze che l’arte umana abbia mai prodotto. Eppure …, mentre guardiamo Maria, notiamo improvvisamente che il suo sguardo, impregnato di una visione ammirevole, conduce impercettibilmente le nostre anime all’oggetto della visione, il misterioso Bambino divino. Perciò, alla domanda proposta se il culto di di Maria serva da ostacolo al culto di Cristo, la risposta non può che essere opposta. Quante volte onoriamo Maria, onoriamo Cristo; infatti, ci inchiniamo a Maria perché Cristo, il Figlio di Dio, era anche suo Figlio. Amiamo e onoriamo la Vergine Maria, le presentiamo il nostro omaggio e la nostra lode. Ma chi non sa che la pietra angolare, il centro ed il fine ultimo, l’alfa e l’omega di tutta la nostra religiosità è il suo santo Figlio, Gesù Cristo? Chi guarda Maria sente che il suo sguardo si posa su Cristo: chi guarda Maria sale a Cristo. Noi non adoriamo Maria, noi adoriamo solo Dio: a Lei preghiamo, sì, e la supplichiamo, e continueremo a supplicarla in futuro, con amore caldo e filiale, di pregare per noi. “Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi ora e nell’ora della nostra morte”.

LA VERGINE MARIA (3)

11 MAGGIO: SANTI FILIPPO E GIACOMO APOSTOLI

S. FILIPPO APOSTOLO

Otto Hophan: GLI APOSTOLI- Marietti ed. TORINO, 1951. N. H.

Nei cataloghi apostolici degli Evangelisti Matteo e Luca l’Apostolo Filippo viene subito dopo Giovanni. Giovanni e Filippo! Due nomi, due uomini, due… mondi! Su queste pagine irraggiano ancora le luci dell’eternità, che Giovanni ha fissate in alto col suo Vangelo e con la Apocalisse. Egli ha scrutato il divino Mistero più profondamente d’ogni altro fra i Dodici: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Iddio, e il Verbo era Iddio… »’; a ragione gli fu assegnato come simbolo l’aquila. Filippo, che gli vien vicino nel posto seguente, non ha per simbolo un’aquila; un’aquila accanto a lui piuttosto disturberebbe; poiché questo Apostolo è un’indole calma, obiettiva, quasi prosaica; è intento alle realtà palpabili e sensibili della vita; non è né poeta né mistico e in occasione di cerimonie appare maldestro e impacciato. Il Signore costituì il suo Collegio apostolico sapientemente, e come allora anche oggi…! Egli non vuole soltanto dei Giovanni, ma anche dei Filippo; Filippo etimologicamente significa « amico dei cavalli »; e in realtà il regno di Dio sulla terra non ha bisogno solamente di « aquile », ma anche di « cavalli » che tirino i carri scricchiolanti. In un antico scritto, che ci è stato trasmesso sotto il nome di Ippolito (1- 235), dal titolo « Intorno alla fede », gli Apostoli vengono chiamati collettivamente « cavalli di Dio », « poiché questi cavalli hanno tuonato il mistero della salvezza, portando la parola al buon Cavaliere e compiendo il corso della verità ». È strano che gli Atti apocrifi attribuiscano a Filippo dei tratti, che appartengono invece a Giovanni; egli, ad esempio, avrebbe invocato il fuoco dal cielo sugli abitanti increduli della città di Gerapoli, cosa che, calmo com’era per natura, non ha fatto sicuramente lui, ma il violento Giovanni, secondo l’esplicita testimonianza del Vangelo. Gli è pure attribuita la lotta contro l’eresia degli Ebioniti sulla fine del primo secolo cristiano, sebbene anche questa sia stata condotta da Giovanni. Questo scambio di Filippo con Giovanni ha certo il suo fondamento nell’antica tradizione, secondo la quale tutti e due sarebbero stati Apostoli dell’Asia Minore.

POSIZIONE

I primi tre Vangeli ci danno di Filippo esclusivamente il nome; non vi leggiamo nessun’altra notizia. Questo nome è in tutti i quattro cataloghi fisso sempre al quinto posto; tale collocamento ha il suo significato. Filippo non appartiene più al primo gruppo, che seguiva più da vicino il Signore; però viene immediatamente dopo di esso; questo quinto posto nel Collegio dei Dodici gli è assegnato già dalla storia della sua vocazione. Filippo è dunque il capo del secondo gruppo, che risulta inoltre di Bartolomeo, Matteo e Tommaso. Non ci è possibile accertare quali fossero i compiti specifici assegnati ai tre gruppi diversi di Apostoli e ai loro capi durante l’attività pubblica del Signore; il testo di Giovanni VI, 5, di cui dovremo dire presto, come pure la specializzazione di Matteo, ch’era stato precedentemente esattore e uomo di calcolo, potrebbero indurci a pensare che al secondo gruppo era stato commesso soprattutto l’incarico del settore organizzativo ed economico. Circa la condizione familiare dell’Apostolo Filippo, abbiamo delle notizie da una lettera del Vescovo Policrate di Efeso, scritta al Papa Vittore verso l’anno 190: egli sarebbe stato sposato ed avrebbe avuto tre figlie, delle quali due sarebbero morte vergini e martiri, la terza sarebbe stata sepolta a Efeso. Anche l’antico Papia, Vescovo di Gerapoli verso il 130, fa menzione di queste tre figlie, ch’egli avrebbe conosciuto personalmente. Ma qui forse ci troviamo di nuovo dinanzi a uno scambio dell’apostolo Filippo col diacono Filippo; di quest’ultimo si fa parola ripetutamente negli Atti degli Apostoli; egli è detto pure « evangelista », titolo che, secondo la terminologia della Chiesa del tempo, significava un predicatore del Vangelo, che vagava da un luogo ad un altro; e aveva « quattro figlie non maritate, che possedevano il dono della profezia ». Non è dunque difficile che in un’epoca posteriore si siano attribuite all’Apostolo Filippo le figlie del diacono; è vero che per l’Apostolo se ne ricordano solo tre, mentre il diacono ne aveva quattro; è certo però che le gesta riferite dagli Atti degli Apostoli riguardano non l’Apostolo ma il diacono Filippo. Quanto alle relazioni personali di Filippo, il Vangelo ci fa conoscere solo la sua patria: egli era di Bethsaida, villaggio di pescatori sulla riva nord-est o forse su quella occidentale del lago di Galilea. Da questo villaggio di nessuna importanza il Signore chiamò a Sè tre Apostoli; eppure un così singolare privilegio non lo preservò dalle saette dell’ira divina, ne accrebbe piuttosto la responsabilità: Gesù cominciò a indirizzare contro le città, nelle quali s’era compiuta la maggior parte dei suoi miracoli, parole di minaccia, perché non avevanO fatto penitenza: “Guai a te, Corozain! Guai a te, Bethsaida… Io vi dico: nel giorno del giudizio Tiro e Sidone saranno trattate con più indulgenza di voi! “». All’udire quella maledizione del Signore contro la sua terra forse pianse anche Filippo, sebbene freddo per natura. Il fatto ci avverte che la predilezione divina non esclude la riprovazione, qualora le proprie colpe l’abbiano meritata. Col ricordare la patria di Filippo, il Vangelo intende accennare pure ad un’altra relazione: « Filippo era oriundo di Bethsaida, patria di Andrea e di Pietro »; e in realtà gli intimi rapporti fra Filippo e Andrea sono messi in luce ripetutamente nelle pagine del Libro Santo; Ci è anzi lecito supporre che il primo messaggio di Gesù sia stato annunziato a Filippo dal nobile Andrea, suo conterraneo. Questi, nel suo zelo, aveva già guadagnato a Cristo il fratello Pietro; si volse poi a mettere sulla via del Signore anche l’amico suo Filippo; leggiamo infatti che « il giorno seguente Gesù volle andare in Galilea; ivi incontrò Filippo e gli disse: “SeguiMi” ». Ci sorprende il tono così preciso e piuttosto imperativo di questa chiamata; perché Filippo è il primo fra tutti, che si sente rivolgere un ordine così esplicito ed energico di seguire Cristo; non erano stati ancora chiamati neppure Giovanni e Andrea, ma avevano ricevuto solo un invito; doveva forse l’ordine così reciso troncare sull’istante ogni riflessione di Filippo, ch’era un po’ formalista? La pedagogia di Cristo tiene conto, con sapienza e benignità, della caratteristica di ciascuno dei suoi discepoli. La storia della vocazione ci fa vedere Filippo stretto da amicizia anche ad un altro Apostolo, a Natanaele-Bartolomeo. Potrà sembrare singolare che un Apostolo così freddo avesse due amici, uno, per così dire, a destra e uno a sinistra; ma l’esperienza ci insegna che appunto simili nature si vincolano a individui ricchi di sentimento, spintevi dall’intimo bisogno di supplire e completare la loro indole asciutta mediante l’amicizia. I cataloghi degli Apostoli dei tre Vangeli, come pure quello del Canone della Messa rendono onore a questa amicizia col ricordare sempre uniti Filippo e Bartolomeo. Ne conserva il ricordo anche la letteratura apocrifa: Bartolomeo accompagna Filippo nei suoi viaggi apostolici ed è accanto a lui anche nel suo martirio. Essendo amici, s’erano spesso comunicati quello che agitava i loro cuori; certamente, dunque, s’erano svelati l’intenso desiderio del Messia. E adesso era giunta l’ora, in cui l’uno poteva portare all’altro la notizia di Gesù. Fu veramente una grande ora dell’amicizia! Poiché Cristo Signore è il monte luminoso, cui deve tendere ogni profonda amicizia. « Filippo incontrò Natanaele » probabilmente alle porte di Cana, dove Bartolomeo abitava e dove il Signore stava per entrare, e gli disse: “Abbiam trovato Colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, il Figlio di Giuseppe, da Nazareth ” ». Quest’annunzio non è così zampillante dalla fonte come l’unica festiva proposizione di Andrea: « Abbiam trovato il Messia! »; sembra piuttosto da maestro di scuola, odora di libri. L’allegro Natanaele obietta maLiziosetto: « Da Nazareth? che può venire qualcosa di buono da Nazareth? »; Filippo non gli risponde con nessuna apologia di Gesù, vuole invece che l’amico si trovi di fronte al fatto, che ne faccia l’esperienza; e replica secco a Natanaele: « Vieni e vedi! ». E così ci è dato di conoscere l’Apostolo fino in fondo già in questo primo incontro con lui.

CARATTERISTICA

Il testo evangelico ora visto ci descrive già un aspetto della personalità di Filippo; ma l’Evangelista Giovanni ci ha trasmesso di lui altre tre notizie, che in qualche modo facilitano un’idea del suo carattere; l’Evangelista con questo intese certamente usare un’attenzione alle comunità dell’Asia Minore, che erano legate in modo particolare all’apostolo Filippo, perché era stato uno dei loro padri nella fede. La prima di queste notizie ricorre nel racconto della moltiplicazione miracolosa dei pani. La situazione era disperata: « Gesù vide venire a Sé la folla immensa di popolo, cinque mila uomini, non contate donne e fanciulli », con negli occhi il muto grido della fame; « allora Gesù disse a Filippo: “Dove compreremo pane perché questa gente possa mangiare? ». Un leggero sorriso dovette sfiorare il volto del Signore mentre faceva questa domanda, perché Egli non abbisognava dei consigli di Filippo; ma era opportuno che l’impossibilità della refezione di cinque mila persone fosse accertata da quell’Apostolo obiettivo e freddo; col rivolgersi a lui, Gesù mirava anche a risvegliare nel suo animo un timido presentimento dell’azione divina imminente: « Gesù disse questo per metterlo alla prova, poiché Egli sapeva che cosa voleva fare»; ma Filippo non percepì, nell’interrogazione del Maestro, l’intenzione delicata che vi si nascondeva; il sentire e il presagire non è il suo forte. È bravo invece nei calcoli: un’occhiata sola e ha già indovinato che in quel frangente « pane per duecento denari non basta loro, anche se ciascuno ne ricevesse un pezzetto soltanto ». Duecento denari erano forse tutto quello, che conteneva la cassa apostolica portata da Giuda; corrispondevano press’a poco a 28.000 lire della nostra valuta, ma con un potere d’acquisto, ai nostri giorni, quattro o cinque volte tanto. A che scopo sborsare tutto quel denaro? Un bravo economo evita, nella sua saggezza, le spese inutili. Fatti questi calcoli, il caso appariva a Filippo senza speranze; non gli brillò in mente alcuna idea, nemmeno un minimo sospetto, che lo strappasse al suo gelido calcolare, così da balbettare, un po’ perplesso, ma con improvvisa e crescente festosità: Signore, se Tu, se Tu…!; egli fa i conti solo con la « realtà », non con i miracoli. La seconda notizia intorno a Filippo s’incontra nel Vangelo della Domenica delle Palme “. « Fra coloro, ch’erano ascesi, si trovavano anche alcuni greci. Questi si rivolsero a Filippo, ch’era oriundo di Bethsaida in Galilea, e lo pregarono: “Signore, vorremmo vedere Gesù!”. Non conosciamo il motivo, che persuase questi « Greci », dei gentili cioè timorati di Dio, a presentare il proprio desiderio precisamente a Filippo e non ad un altro Apostolo; poté essere il suo nome greco, oppure la sua patria, e il Vangelo sembra alludere a questo motivo, ma poté essere anche un semplice caso; comunque sia, essi non avevano fatto i conti col formalismo di Filippo. Pagani, che vogliono vedere Gesù… Una faccenda scabrosa! Non era stato dato da Gesù stesso l’ordine agli Apostoli: « Non mettetevi sulla via verso i pagani! »; non s’era Egli rifiutato, almeno da principio, di guarire la figlia della Cananea perch’era pagana? « Non è giusto prendere il pane ai figli del popolo eletto e gettarlo ai cagnolini! », e cioè ai pagani; Filippo insomma abbordò il caso con la tediosa esattezza, che s’accompagna quasi sempre con le indoli asciutte. Ma neppure così ne venne a capo; « allora Filippo andò e lo disse ad Andrea »; questi, più longanime e più deciso di lui, non rilevò nella richiesta dei pagani nessuna difficoltà: « Andrea e Filippo andarono e lo dissero a Gesù ». – Quest’indole dell’Apostolo, fredda e impacciata dinanzi alle grandi idee, affiorò un’ultima volta nella sala dell’ultima Cena. Le parole del Signore risuonavano per la sala come rumore d’acque eterne: « Io sono la via e la verità e la vita. Nessuno va al Padre se non per mezzo mio. Se voi Mi conosceste, conoscereste anche il Padre mio. Da questo momento Lo conoscete e L’avete già visto ». Gli ultimi discorsi del Signore nel Cenacolo sono le luci più radiose intorno a Dio, che mai siano state fissate sul cielo dell’umanità; si possono paragonare ai lampi: squarciano la notte e strappano l’impotenza dello spirito umano dinanzi al mistero di Dio. Nel bel mezzo dunque di tanta solennità ecco Filippo con un desiderio che fa davvero pena: « Signore, mostraci il Padre e… ci basta! ». Povero Filippo! Tutto rivolto a osservare e a calcolare, al mondo sensibile e palpabile, non ha afferrato per niente il senso sublime delle parole di Gesù; egli vorrebbe vedere il Padre, di Cui parla Gesù, in una apparizione visibile, come Lo videro Abramo, Giacobbe e Mosè, e « questo basta »; non c’è bisogno di molte altre cose invisibili e inafferrabili. Il Maestro, dinanzi all’incomprensione dell’ingenuo discepolo, rispose con un rimprovero mite, ma insieme soffuso del suo intimo dolore: « Son con voi da sì lungo tempo e tu, Filippo, non Mi conosci ancora? ». Nell’opera « Stromatels » (tappeti) dello scrittore ecclesiastico Clemente Alessandrino, che tanto lesse e viaggiò sulla fine del secondo secolo (m. 214), leggiamo una quarta parola, che avrebbe detta Filippo ed è conservata nel Vangelo. Clemente avrebbe saputo dall’antica tradizione ch’era Filippo quel discepolo, il quale, al momento della chiamata, aveva chiesto la licenza: « Signore, permetti che prima vada e seppellisca mio padre”. Gesù gli replicò: “SeguiMi e lascia i morti seppellire i loro morti” ». Quanto già di Filippo, tipo perplesso, che non scorge i vasti orizzonti a causa di quant’è vicino, ci persuade della intrinseca verosimiglianza della notizia di Clemente, e che quindi le parole surriferite siano state dette realmente dal nostro Apostolo. Gesù, cui è lecito presentare ad ogni uomo delle pretese inesorabili e indeclinabili, tolse il discepolo ad ogni considerazione col preciso comando: « SeguiMi! ». Con tutto questo però avremmo presentato il buon Apostolo Filippo solo come un praticone freddo, statistico e pedante, e il giudizio che ne seguirebbe sarebbe troppo severo; la sua fisonomia apostolica dunque dev’essere ancora molto lumeggiata; poiché, nonostante la sua indole fredda e pratica, egli possedeva pure dello slancio e del cuore e della profondità, ma questi pregi erano in lui quasi nascosti e riservati nel più intimo dell’essere e solo faticosamente erompevano, come una sorgente ostruita. Quanti individui alla « Filippo », che all’esterno sembrano privi di sentimento, soffrono penosamente per la loro indole, che li rende incapaci di tradurre facilmente all’esterno il loro buon fondo interiore! Già la prima parola di Filippo, anche se un po’ cerimoniosa, è percorsa da un’onda calda d’entusiasmo per Gesù: « Abbiam trovato Colui, del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti ». Anche in occasione della moltiplicazione dei pani e dell’incontro con i Greci affiora una reale sollecitudine e non semplice calcolo; nella sua risposta, apparentemente solo oggettiva, tutti devono rilevare anche il dolente tono sottinteso: Pane per duecento denari non è sufficiente, anche se ciascuno dovesse riceverne un pezzetto »; egli non respinse i Greci né fece loro sperare d’essere ascoltati in altro tempo, sebbene la loro spinosa richiesta gli creasse degli impicci; procedette sì con ogni formalità, ma è evidente che gli stava pure a cuore che quei desiderosi « vedessero Gesù ». Filippo è un Apostolo freddo, nasconde però il sentimento più di quello che non si creda; quando si tratta di parole sovrabbondanti è veramente impacciato; ma l’amore dei fatti concreti è incomparabilmente più prezioso che la profusione di parole buone, con le quali parecchi tentano di riscattarsi dall’azione; e invece: « Figlioletti, non amiamo soltanto con le parole e la lingua, ma con i fatti e in verità »; non v’è dubbio che l’amore perfetto si ha solo quando un medesimo caldo palpito dà vita alle opere e alle parole, come era nel Signore, che si mostrava compassionevole verso le folle anche con sentimenti e parole, ma non si arrestava lì, bensì compiva i miracoli dell’amore. – La profondità di Filippo si rivelò nel modo più bello precisamente in quella espressione, che apparentemente fu la sua parola più ingenua: « Signore, mostraci il Padre! ». A ragione osserva il Bossuet : « Mai forse in tutto il Vangelo fu presentata un’esigenza più sublime e… più ardita di questa »; di fatto essa domanda l’ultima cosa, la cosa centrale: il mistero del Padre e del Figlio. Si direbbe quasi che Filippo, così proclive alle realtà palpabili e visibili della vita, sentiva l’insufficienza e l’incapacità del proprio essere e, stimolato dalla sua insoddisfazione, sospirò le profondità di Dio; giacché quanto più uno deve occuparsi di « denari » e di « pani » e di « pagani », tanto più sente pure il bisogno di radicarsi nei divini misteri. E il Signore, che non educò col metro o secondo un unico schema ciascuno dei suoi Apostoli, bensì adattandosi al suo temperamento, proprio Filippo guidò dalle strettezze del suo senno pratico agli ampi orizzonti e alle profondità di Dio. In occasione della richiesta dei Greci, il Maestro aveva già prospettato, nei riguardi del mistero della redenzione, una visione ricca di sublime e profonda verità: « Se il grano di frumento non cade a terra e muore, resta solo; ma se muore, porta molto frutto »; nella sala della Cena, accondiscendendo alle pretese di Filippo, Egli lo condusse sino alle vette della Trinità: « Chi ha visto Me, ha visto pure il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre!”? Non credi ch’lo sia  nel Padre ed il Padre in Me? » E Gesù già su questa terra, nella sua apparizione sensibile, è come la trasparenza del Padre; fin da quaggiù risplende nel suo dire e nel suo operare il Padre; perché dunque Filippo richiede un’apparizione del Padre? Gesù stesso è il riflesso di Lui, la sua apparizione più stupenda. Questa parola, rivolta dal Signore a Filippo, così solenne e pregna di senso, ci conduce ancor più in alto, fin dentro a quell’intimissimo mistero della Trinità, che la teologia greca chiama « perichóresis », circolazione cioè e più letteralmente « girare vicendevole! ». Iddio Padre e Iddio Figlio e Iddio Spirito Santo non sono affatto diverse nature, ma posseggono insieme la medesima divina natura; sono quindi insieme, « l’Uno nell’Altro », il Padre nel Figlio e il Figlio nel Padre; una Persona non può vivere fuori dell’altra; quest’inabitazione però dell’una nell’altra delle tre divine Persone non è un’esistenza immota, ma un giubilante movimento circolare, un eterno procedere e un eterno ritornare alla sorgente; « ognuna delle tre divine Persone è pure a suo modo un punto centrale e focale, al quale le altre due hanno relazione e nel quale si congiungono insieme ». Il Signore condusse Filippo a tali profondità della Divinità, precisamente Filippo! Solo l’Evangelista Giovanni ci ha tramandato in iscritto la parola provocata da Filippo. Filippo non è come Giovanni l’Apostolo con l’aquila, ha però l’anelito di elevarsi come l’aquila. Benedetto ogni Filippo, che anela all’aquila! Anche a lui saranno dette parole di lassù, proprie della vetta, ed esse realmente gli « basteranno ».

ATTIVITÀ

Circa l’opera e la morte dell’Apostolo Filippo, la Sacra Scrittura ci lascia nell’oscurità completa; così si spiega il sorgere dei così detti « Atti di Filippo » sullo scorcio del quarto secolo, compilazione non autentica, conservata in diversi frammenti e anche in diverse recensioni, che riferisce del nostro Apostolo ogni sorta di miracoli e di stranezze. Egli avrebbe predicato Gesù Cristo, ad esempio, in Atene, alla presenza di trecento filosofi greci, che bramavano di sentire delle novità; ci accorgiamo però subito della dipendenza di questa informazione dal discorso dell’apostolo Paolo all’areopago, come è riferito negli Atti degli Apostoli. Filippo sarebbe pervenuto, con un viaggio miracoloso, a Cartagine, che è paragonata alla città di « Azoto », dove, dopo il battesimo dell’eunuco, fu trasportato il diacono Filippo; avrebbe anzi annunziato il lieto messaggio persino ai Galli; s’intendono probabilmente i « Galati », che abitavano presso la Frigia, dove Filippo ha certo faticato. Anche la principale attività dell’Apostolo nella Scizia e nella Frigia e soprattutto la sua morte sono descritte in quest’opera drammaticamente e concedendo assai alla malsana tendenza di voler risvegliare nei lettori le pie sensazioni. Queste favole non rivendicano nessun valore storico, che anzi questi « Atti di Filippo », insieme con altri libri, furono espressamente proibiti da Un decreto del Papa Gelasio (492-496). Secondo il Breviario romano, Filippo lavorò nella Scizia e nella Frigia. Queste notizie s’appoggiano ad antiche tradizioni. La Scizia, sulla costa settentrionale del Mar Nero, l’odierna Ucraina meridionale, dovette essere il teatro dell’operosità missionaria di questo Apostolo per vent’anni; il nome però di questa regione, come terra di missione, ci obbliga a ricordare le riserve avanzate già per l’Apostolo Andrea, col quale Filippo dovette ivi prodigare le sue cure pastorali. Il suo zelo avrebbe preso di mira il culto di Marte che di fatto, secondo la testimonianza della storia, nella Scizia era in casa sua. La Frigia, secondo campo delle sue missioni, aveva per capitale la ricca e celebre Gerapoli; anche la lettera del Vescovo Policrate di Efeso a Papa Vittore, che sopra è stata ricordata, afferma che Filippo lavorò a Gerapoli ed ivi anche morì; pure un’antica iscrizione, scoperta nella necropoli di Gerapoli, ha un accenno a una chiesa consacrata dall’Apostolo Filippo. Vicine alla capitale erano le due città di Colossi e Laodicea, tutte e due ricordate negli scritti del Nuovo Testamento, Laodicea nell’Apocalisse di Giovanni, e Colossi nella lettera, di cui l’onorò l’Apostolo delle genti, Paolo. Giovanni, Paolo, Filippo! Come furono vicine le loro vie apostoliche in queste terre! Ci assale un profondo senso di mestizia quando pensiamo che queste regioni, nelle quali faticarono i primi cinque fra gli Apostoli — ivi infatti sudarono pure Pietro e Andrea —, sono oggi strappate a Cristo. Gli apocrifi, nel riferire dell’attività apostolica di Filippo, tornano con sorprendente frequenza e parecchie varianti alla descrizione della sua lotta con i serpenti o dragoni. Il cultO dei serpenti in quelle regioni risponde a verità storica; anche a Gerapoli il serpente fu custodito come animale sacro nel tempio della dea Cibele e fu onorato con le libazioni. Spieghiamo così perché l’arte di solito rappresenta l’apostolo Filippo impegnato nella lotta contro il dragone; la sua statua al Laterano annunzia la vittoria dell’Apostolo sulla potenza del dragone contorcentesi in virtù della croce. La Croce è così pesante, che schiaccerà sempre il dragone! Fu una singolare coincidenza quella dell’8 maggio 1945, lo storico giorno dell’armistizio: esso segnava il crollo d’un regime sbucato dall’inferno, e proprio in quel giorno la Liturgia, che onorava San Michele, patrono del popolo tedesco, annunziava: « Quando il dragone mosse guerra, Michele combatté contro di lui e riportò vittoria. Alleluia ». – Secondo lo scritto gnostico del terzo secolo « Pistis Sophia », sarebbe esistito anche un « vangelo di Filippo », contenente le rivelazioni del Risorto; ma la Scrittura canonica del Nuovo Testamento non ne sa nulla; tale « vangelo secondo Filippo » dev’essere una falsificazione dei tempi posteriori. Come l’opera di questo Apostolo, così è avvolta nell’oscurità anche la sua morte. Clemente di Alessandria afferma che Filippo, come pure gli apostoli Matteo e Tommaso, morì di morte naturale, mentre altri, e in realtà più numerosi, parlano di martirio. Secondo questi ultimi, Filippo sarebbe stato crocefisso a Gerapoli col capo all’ingiù come Pietro, al tempo dell’imperatore Domiziano o addirittura, secondo qualcuno, sotto l’imperatore Traiano (98-117), all’età di 87 anni. Singolare disposizione! Tutti e tre gli Apostoli oriundi dalla cara e… esecrata Bethsaida morirono in croce! Quanto dev’essere preziosa la croce dinanzi agli occhi del Signore, se Egli ne fa regalo ai suoi primi Apostoli! Sembra che le reliquie di Filippo siano state trasportate a Roma, dove sarebbero state composte, insieme con quelle dell’apostolo Giacomo Minore, nella chiesa dei Dodici Apostoli. Questo sarebbe pure il motivo, per cui la Chiesa latina festeggia insieme i due Apostoli; perché poi ne celebri la festa proprio il primo giorno di maggio (oggi trasportata all’11 maggio), non si saprebbe dire, se non fosse per una sottile ironia; giacché né Filippo né Giacomo Minore sono poeti e cantori della primavera, inclini com’erano piuttosto alla prosa della vita; la loro festa invece secondo la tradizione greca cade il 14 novembre. Negli «Atti di Filippo » apocrifi si legge una lunga e ridondante preghiera per la buona morte, ch’egli avrebbe recitata prima di subire il martirio; fu rielaborata da mano cattolica, ma è ancora riconoscibile la sua origine gnostica: « Cristo, Padre degli Eoni, Re della luce, Tu nella tua sapienza ci hai istruito e ci hai elargito il tuo intendimento; Tu ci hai regalato il consiglio della tua bontà; Tu non ti sei mai allontanato da noi; ci hai concesso la tua presenza della sapienza. Adesso, o Gesù, vieni, e dammi l’eterna corona della vittoria sopra tutte le forze e le potenze nemiche. La loro atmosfera tenebrosa non mi avvolga, affinché io mi apra la via attraverso i torrenti di fuoco e l’abisso tutto! Mio Signore Gesù Cristo, che il nemico non abbia modo di accusarmi dinanzi al tuo tribunale, ma rivestimi della tua veste splendente, del tuo suggello luminoso e in ogni tempo radioso, finché io passi dinanzi a tutti i dominatori del mondo e al dragone maligno, che a noi si oppone! Adesso, dunque, mio Signore Gesù Cristo, fammi incontrare Te nell’aria…! Trasforma la figura del mio corpo nella gloria degli Angeli e fammi riposare nella tua beatitudine, e ch’io riceva quello, che Tu hai promesso ai tuoi santi per l’eternità ». – Molto più semplice e… più profonda è la preghiera, che Filippo effuse veramente nel Vangelo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta! »; nel momento del martirio, dinanzi al portale dell’eternità, che gli si apriva, egli dovette ripetere desioso lo stesso grido. L’anelito più intimo d’ogni creatura umana va al Padre, all’ultimo principio di ogni essere; le tante cose di quaggiù — « denari », « pani » e anche « cinque mila uomini » — non bastano; solo Iddio basta! O santo Apostolo Filippo, vieni in nostro aiuto, perché possiamo giungere a quest’unico e a questo eterno Sufficiente!

SAN GIACOMO APOSTOLO MINORE

In tutti e quattro i cataloghi degli Apostoli Giacomo Minore occupa il nono posto; è dunque nel Collegio apostolico in testa a un nuovo e terzo gruppo, al gruppo dei cugini e del… , traditore di Gesù. Marco lo chiama « Minore » per distinguerlo dall’altro apostolo di nome Giacomo, il figlio di Zebedeo e fratello dì Giovanni; probabilmente era minore per età, forse era anche più piccolo di statura — « minor » può significare tutte e due le cose — rispetto a « Jakobus maior », ch’era il più anziano e il più alto dei due; vedremo se a questo «minor = più Piccolo » competa anche un significato simbolico. Con gli uomini di quest’ultimo gruppo non ci si presentano solo dei nuovi visi, ma s’inserisce nella serie dei Dodici una nuova categoria; noi siamo abituati a chiamare gli Apostoli i « poveri pescatori di Galilea », indistintamente; di fatto però il gruppo degli uomini, che stanno intorno a Gesù, è più vario e più ricco non solo per i caratteri, ma anche per la professione e per la posizione sociale dei singoli, come del resto le trattazioni viste finora possono aver dimostrato; con questo terzo gruppo ottengono un posto ed hanno voce in quel venerando Consesso del mondo anche i contadini: Giacomo, Giuda e Simone pure erano rappresentanti dell’agricoltura. Il Vangelo veramente non ci dà diritto di tirare una simile conclusione, perché appunto di questi tre parenti di Gesù non ci dice una sillaba, fatta eccezione del loro nome; solo di Giuda Taddeo abbiamo una breve espressione conservataci da Giovanni; in compenso però Giacomo e Giuda Taddeo hanno lasciato dietro di sé due lettere, che fanno parte della Scrittura del Nuovo Testamento e almeno indirettamente rivelano parecchio anche dei loro autori. In queste lettere infatti, quasi come sulle vesti di Esaù, è diffuso il profumo dei campi in fiore, l’aroma della zolla fumante e vi posa sopra la luccicante rugiada del cielo. La tinta campagnuola e pittoresca di queste lettere designa quali autori dei contadini; nessun pescatore e nessun esattore e nemmeno un erudito, ma solo un campagnuolo, ch’è familiare alla natura e alle sue cure, scrive frasi come le seguenti: « Il sole si leva col suo ardore e brucia l’erba; la sua fioritura avvizzisce e il suo bell’aspetto svanisce… Chi non manca nel parlare, è un uomo perfetto, ch’è in grado di frenarsi completamente. Noi — noi! — mettiamo la briglia in bocca ai cavalli, perché ci obbediscano; così conduciamo l’intero animale… Perseverate in pazienza, o fratelli, sino all’avvento del Signore. Ecco, il contadino aspetta il prezioso frutto della terra e persevera in pazienza, finché abbia ottenuto la pioggia temporanea e serotina ». – L’ipotesi suggerita da simili espressioni trova la sua conferma in un documento storico di Egesippo, della metà del secondo secolo, che ci è stato conservato dallo scrittore ecclesiastico Eusebio; secondo questo documento, l’imperatore Domiziano (81-96) fece venire a Roma due nipoti dell’Apostolo e fratello del Signore Giuda Taddeo, loro nonno, e pronipoti dell’Apostolo e fratello del Signore Giacomo Minore, loro prozio, perché sospetti d’alto tradimento; sottoposti ad interrogatorio, essi esposero all’imperatore il loro modesto patrimonio fondiario, costituito da 39 plethren — un plethron equivaleva a 0,095 di ettaro — di terreno arativo e gli fecero vedere le loro mani callose; dopo di che quel Domiziano, che li aveva ritenuti come pericolosi parenti di Gesù di Nazareth, li rilasciò senza preoccupazioni, perché  se ne tornassero in patria; se ora ricordiamo che, secondo la successione semitica, i beni di famiglia rimanevano quasi immutati alla stirpe, troveremo molto verosimile che su quei 39 plethren di terreno arativo si fossero già affaticati, mangiando il pane nel sudore della propria fronte, il nonno Giuda Taddeo e i suoi fratelli Giacomo e Simone. Il Signore, dunque, ha chiamato anzitutto dei pescatori e dei contadini per farne degli Apostoli, e questo quanto è significativo! Tutti e due, il pescatore e il contadino, si sono abituati a duro lavoro e ad ancor più dura pazienza, giacché né l’uno né l’altro può strappare a forza un nonnulla; a tutti e due dev’esser dato; quale scuola preparatoria all’apostolato! Il contadino però, a differenza del pescatore, ha sotto i suoi piedi un suolo solido, non fluido; rispetto quindi al pescatore è meno arrendevole e anche meno capace di adattamento; è invece lento, cauto e tenacemente attaccato alla tradizione. Il contegno rigidamente conservativo di Giacomo Minore in parte va certamente spiegato con la sua professione.

FRATELLO DEL SIGNORE

Perché si distingua da Giacomo Maggiore, il figlio di Zebedeo, Giacomo Minore è detto in tutti e quattro i cataloghi degli Apostoli « figlio di Alfeo ». Egesippo chiama questo Alfeo anche Klopas, Kleophas; si tratta forse di un secondo nome o anche semplicemente di una diversa pronuncia dello stesso nome Alfeo. Questa notizia d’un Alfeo, chiamato anche Kleophas, ha un appoggio anche nel Vangelo. Gli evangelisti infatti Marco e Giovanni nominano alcune delle pie donne, che perseveravano presso la croce di Gesù, e fra loro Marco ricorda una « Maria, la madre di Giacomo Minore », mentre Giovanni ricorda una « Maria, ch’era sorella della madre di Gesù, la moglie di Kleophas »; queste due Marie, accuratamente determinate per mezzo del figlio da Marco e da Giovanni per mezzo del marito, sono molto probabilmente la medesima donna; se così, Kleophas è da identificare con Alfeo, poichè Giacomo Minore era figlio d’un Alfeo. Per questo Alfeo-Kleophas non abbiamo a nostra disposizione notizie bibliche; parecchi vedono in lui uno dei discepoli di Emmaus, che in realtà portava il nome di Kleophas; Egesippo direbbe ch’egli era fratello di San Giuseppe, il padre nutrizio del Signore; già da questo lato avremmo un certo rapporto di parentela del nostro Giacomo con Gesù. – Maria, madre di Giacomo e moglie di Cleofa, da Giovanni è detta espressamente « sorella di sua madre » (della madre di Gesù); forse era una sorella corporale di Maria, Madre di Dio, sebbene in questa ipotesi ne seguirebbe la difficoltà che si trovassero nella stessa famiglia due sorelle col medesimo nome di Maria; oppure era una cugina della Madonna o almeno cognata di Lei attraverso suo marito Cleofa; in ogni caso, era una parente. Le relazioni di parentela di questa nobil donna con la Madre di Gesù ebbero la loro espressione nella cordiale partecipazione alla vita e alla passione del Signore. Nella relazione di quanto avvenne sul Calvario, Matteo la esalta, perché come l’altra madre di Apostoli, la madre dei figli di Zebedeo, Salome, ella « aveva seguito Gesù fin dalla Galilea per prestarGli servizio ». Stette con le altre buone donne accanto alla croce e prese fra le sue le mani della sua povera e sublime sorella per persuaderla che non era affatto sola, anche se in quel momento il suo Figlio e il suo tutto moriva; con Maria Maddalena, ella fu l’ultima, la sera del Venerdì Santo, ad allontanarsi dal sepolcro e fu anche la prima, all’alba del dì di Pasqua, a stare presso il sepolcro, portando i doni dell’amore, gli aromi e gli unguenti per la salma. Ebbe per questo, insieme alle altre donne, la felicità del primo Alleluia e fu anzi ritenuta degna d’una cara apparizione dello stesso Risorto, dopo la quale si affrettò a portare il lieto messaggio agli Apostoli. Anche Giacomo Minore dunque ebbe veramente un’ottima madre, una seguace del Signore, che Gli rimase fedele sino alla croce; può essere che anche lui, come la maggior parte degli apostoli di tutti i tempi, sia stato preparato per Gesù da sua madre e che la pia donna stessa considerasse una felicità della sua vita, se Gesù avesse accettato da lei il suo Giacomo. – Nella Scrittura del Nuovo Testamento si fa parola ripetutamente anche di fratelli di Giacomo; Marco, ad esempio, nella relazione del Venerdì Santo e del giorno di Pasqua, chiama sua madre una volta « la madre di Giacomo Minore e di Giuseppe », un’altra volta solo « la madre di Giuseppe », la terza volta soltanto « la madre di Giacomo ». Anche Giuda nella sua lettera si presenta come « fratello di Giacomo » e in rapporti di parentela con lui è messo pure nei cataloghi degli Apostoli di Luca. Questi medesimi nomi: Giacomo, Giuda e Giuseppe, ai quali s’unisce ancora quello di Simone, s’incontrano come fratelli già nel Vangelo, dove compaiono specialmente come « fratelli di Gesù »; vi leggiamo infatti che i Nazzareni, sorpresi dinanzi alle grandi opere di Gesù, si domandano indignati e stupiti: « Donde può Egli aver tutto questo… Non è il falegname, il figlio di Maria e il fratello di Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simone? ». A questo punto sorge spontanea la questione circa il senso dell’espressione «fratelli di Gesù » nel testo citato e anche in altri del Vangelo; dobbiamo pure toccarne una seconda: se Giacomo, fratello di Gesù, sia la stessa persona dell’Apostolo Giacomo Minore, il figlio di Alfeo, questione per la quale s’è versato tanto inchiostro. Noi sappiamo già dalla fede che, quando nel Vangelo si fa ripetutamente menzione di « fratelli di Gesù », questi non si devono intendere fratelli e sorelle corporali di Lui, ma suoi parenti in grado più lontano. Nel Vangelo stesso infatti è ben manifesto il sublime proposito di Maria « di non conoscere uomo »; ora questa frase fu difesa dalla Chiesa, sin dalle epoche più remote, come una perla preziosa a prova della perpetua verginità della Madonna; d’altra parte l’espressione « fratelli di Gesù » non ci costringe in nessun modo a ritenerli fratelli e sorelle corporali, poiché il termine « fratello » nella lingua dell’antico e nuovo Oriente è ambiguo, come, ad esempio, presso di noi il vocabolo « cugino »; quel termine designa non solo fratelli e sorelle in senso stretto, ma anche in senso largo, come nipote, cognato, cugino e talora indica persino rapporti di amicizia e comunanza fra popoli; si può quindi concludere a fratelli corporali solo quando siano notificati anche i nomi dei genitori. Si noti inoltre che i « fratelli di Gesù » non sono mai chiamati figli di Maria, i Nazzareni invece dicono, sottolineando, « Gesù, il figlio di Maria » ed in quello stesso testo, dove enumerano i suoi « fratelli ». Nella ipotesi di veri fratelli, sarebbe ancor più inesplicabile la preghiera, che il Signore rivolse dalla croce a Giovanni: « Ecco tua madre! » e il conforto dato a Maria: « Donna, ecco tuo figlio! »; non disse: un figlio!, ma: tuo figlio! Se la Vergine avesse avuto altri figli, il Signore non avrebbe affidata a Giovanni la cura di sua Madre, che rimaneva sola; gli altri figli avrebbero dovuto prendersi cura di lei in forza della Legge. E in fine possiamo provare che l’espressione « fratello di Gesù » non solo può significare « cugino », ma deve avere questo senso, arguendo proprio dal fratello di Gesù Giacomo; con una probabilità infatti, che si può dire certezza, si dimostra ch’egli si identifica con Giacomo l’Apostolo. Nel capitolo d’introduzione agli Atti degli Apostoli Luca enumera solo due Giacomo, non tre: Giacomo, il figlio di Zebedeo, e Giacomo, il figlio di Alfeo; nel capitolo decimosecondo riferisce la morte di Giacomo Maggiore; in quelli che seguono scrive ancora d’un Giacomo, ma senza alcuna aggiunta, che lo distingua da altri dello stesso nome; eppure balza evidente dai testi che doveva trattarsi d’una personalità molto stimata, d’una autorità anzi posta a guida della chiesa di Gerusalemme; se in essa Luca avesse scorto un terzo Giacomo, fratello del Signore, diverso dall’Apostolo Giacomo Minore, ce lo avrebbe fatto capire certamente in qualche modo, lui, l’Evangelista della precisione. Alla stessa conclusione ci conduce un’espressione della lettera ai Galati. Paolo scrive della sua prima visita, dopo la conversione, a Gerusalemme, ove rimase presso l’Apostolo Pietro, e poi continua: « Ma non vidi nessun altro Apostolo, a eccezione — in greco: ei’ mé — di Giacomo, il fratello del Signore »; Paolo, dunque, annovera il fratello del Signore Giacomo fra gli Apostoli; l’interpretazione ovvia, evidentissima del testo è questa, ogni altra sarebbe artificiosa, e tanto più, perché a Paolo, col testo addotto, importava dimostrare alla comunità di Galazia, che non aveva in lui troppa fiducia, la sua comunione con gli Apostoli più anziani. Infine, non si potrebbe in nessun modo spiegare il posto di direzione, che nella Chiesa apostolica occupava il fratello del Signore Giacomo, se egli non fosse stato uno dei Dodici; gli autori stessi, che non vogliono riconoscere l’identificazione del fratello del Signore con l’Apostolo, sono costretti ad ammettere che il primo, « anche se, dopo la morte del figlio di Zebedeo, non fu accolto dagli altri Apostoli nel loro Collegio, tenne tuttavia un posto uguale all’apostolico ». Anche secondo il « Vangelo degli Ebrei », che risale al primo secolo, Giacomo, fratello del Signore, partecipa all’ultima Cena; è considerato quindi come uno dei Dodici. Provata così la identificazione del fratello del Signore con l’Apostolo dello stesso nome, resta pure dimostrato inequivocabilmente che egli era figlio di Alfeo e di Maria, sorella della Madre di Gesù; è dunque la Bibbia stessa a provarci che Giacomo, il « fratello » di Gesù, non era figlio della Madre di Dio, Maria, e neppure un figlio di Giuseppe da un precedente matrimonio, come vorrebbe una leggenda, che si conserva nel così detto « Protoevangelo dell’apostolo Giacomo »; era invece figlio di parenti loro, della « sorella » cioè della Madre di Gesù e del fratello del padre nutrizio Giuseppe, La Chiesa greca fa distinzione ancor oggi fra il fratello di Gesù e l’Apostolo Giacomo, celebrando la festa del primo il 25 ottobre e quella dell’Apostolo il 9 dello stesso mese; le testimonianze però della tradizione, cui essa s’appoggia, non hanno valore, mentre la sentenza contraria è sostenuta già da Clemente Alessandrino, Origene e specialmente da Girolamo. Nel corso del Vangelo « i fratelli di Gesù » prendono spesso, nei suoi riguardi, un proprio atteggiamento, ch’è in contrasto con quello degli altri Apostoli. Ecco, per esempio, come scrive Marco: « Vennero sua Madre e i suoi fratelli. Si fermarono fuori e Lo fecero chiamare… Egli rispose: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Guardò allora a coloro, che sedevano a Lui dintorno e disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Poiché chi fa la volontà di Dio, questi Mi è fratello, sorella e madre ». Anche più tardi, nel cuore della vita pubblica. Giovanni può riferire ancora: « Neppure i suoi fratelli credevano in Lui ». Non dimentichiamo però di avvertire qui che Gesù contava certamente altri « fratelli », oltre a quei due o tre, che aveva fatti Apostoli, perché, come abbiamo visto, « fratello » poteva essere detto ogni parente anche lontano; e nondimeno il Sacro Testo non vieta la supposizione che persino quelli dei suoi « fratelli », che aveva elevati alla sublimità dell’apostolato, incontrassero per la loro fede in Cristo particolari difficoltà. Come suoi cugini infatti, erano stati gli amici quotidiani della sua giovinezza, i compagni dei suoi giochi e dei suoi canti, se non erano seduti anche alla stessa mensa e avevano riposato nel medesimo giaciglio; secondo un’antica tradizione, la mamma loro Maria, la moglie di Cleofa, dopo la morte prematura di suo marito, s’era trasferita presso sua sorella, la Madre di Gesù, nella casa di Nazareth; erano dunque vissuti in troppo intimi contatti umani col loro Cugino, nel quale mai avevano avvertito, sebbene fosse educato e raccolto, nulla di straordinario. Quando furono con Lui nella vita pubblica, si rallegrarono della sua fortuna coll’ingenuo orgoglio d’una parentela povera, che aveva generato un grande; ma quanto a intelligenza della missione spirituale e anzi divina di Gesù, essi, e proprio perché « fratelli » di Lui, ebbero da percorrere un cammino più lungo che non gli altri Apostoli. In tutti e quattro i cataloghi essi stanno agli ultimi posti; ve li avrà confinati la delicatezza del Signore; ma è possibile che per questa assegnazione all’ultimo gruppo abbia contribuito pure la fede lenta e faticosa di questi suoi cugini; Pietro, il primo nella serie, fu primo anche nella fede. Nella sua prima lettera ai Corinti Paolo menziona una particolare apparizione, che il Signore nel tempo pasquale concesse a Giacomo; il «Vangelo degli Ebrei » dice persino d’un giuramento, che Giacomo fece dopo l’ultima Cena, di non mangiare più pane finché non avesse visto Gesù risorto; ebbe dunque bisogno d’uno speciale soccorso per rassodarsi nella fede, come Tommaso o anche più di lui, giacché non fu assente, come questi, quando il Signore accondiscese a manifestarsi a tutti gli Apostoli? Ci è lecito pensare che Giacomo giungesse alla felicità d’una fede completa in Gesù, anche come « Signore e Dio », soltanto in virtù dell’accennata apparizione, quando fu a quattr’occhi col suo « Fratello »; una relazione puramente esterna con Gesù, fosse pure fisica, non basta a creare dei veri ed intimi rapporti con Lui, talora anzi è piuttosto d’impedimento che di aiuto. Il sangue è meno — minor! — della grazia; solo chi si lega a Gesù con la fede e con l’amore Gli è veramente fratello, sorella e persino madre, come Maria, che era congiunta a Lui e per sangue e per amore.

VESCOVO DI GERUSALEMME

Giacomo Minore è paragonabile a una stella ascendente, che comincia a brillare solo quando le stelle precedenti sono tramontate. Nel Vangelo non compare mai in scena, nemmeno con una sola parola; altrettanto si dica dei primi dieci anni negli Atti degli Apostoli; sta improvvisamente nella luce della storia solo dopo l’uccisione di Giacomo Maggiore nel 42 e la fuga di Pietro da Gerusalemme verso « un altro luogo »; questi, nella notte agitata della sua liberazione, lasciò nella casa di Marco l’ordine: « Annunziate questo a Giacomo e agli altri fratelli ». Già questo particolare accento su Giacomo fa concludere a una sua eminente posizione nella chiesa madre di Gerusalemme; come una « colonna » della Chiesa lo ricorda anche Paolo. Lo scrittore di storia ecclesiastica Eusebio afferma espressamente che Giacomo fu il primo Vescovo della Città Santa, e questo fatto appare chiaramente anche negli Atti degli Apostoli; tutte le volte infatti che Paolo riferisce dei suoi viaggi in Gerusalemme, menziona anche Giacomo e una volta anzi come l’unico Apostolo presente, e sempre come reggente la Chiesa della capitale; ora questa presidenza era sicuramente il posto più importante della Chiesa apostolica, poiché Gerusalemme era davvero la città santa, nella quale aveva faticato e sofferto il Signore stesso, in essa era risuscitato e da essa era asceso al Cielo; era dunque il cuore del giovane Cristianesimo. Era riservato a Gerusalemme quell’onore, che, a causa della sua colpa, più tardi passò a Roma; stava scritto nell’antica profezia: « Da Gerusalemme uscirà la Legge e la parola del Signore »; e questa divina elezione e il regno di Dio indugiavano a trasferirsi dalla prediletta Gerusalemme ad altra terra anche al tempo di Giacomo, nonostante la città deicida avesse gridato il suo esecrando: « Tolle, tolle — sia tolto di mezzo! ». Il fatto, dunque, che il Signore stesso, secondo la sentenza del Grisostomo, o i compagni d’apostolato, secondo quella di Girolamo, abbiano affidato il governo di questa Chiesa regale al nostro Apostolo e non a Pietro o a Giovanni o ad Andrea, sta a dimostrare la grande considerazione, in cui egli era tenuto. La sua parentela col Signore e ancor più il suo zelo straordinario anche per la Legge antica lo fecero certo apparire ai suoi colleghi come l’elemento più adatto per coltivare, sul suolo pietroso dello stesso Giudaismo, il meraviglioso albero del Cristianesimo. Nella « Dottrina degli Apostoli », antico scritto sirìaco, la consacrazione cristiana della regione da parte di Giacomo è descritta in termini raramente così solenni: « Gerusalemme e tutti i dintorni della Palestina, i territori dei Samaritani e dei Filistei, la terra dell’Arabia e della Fenicia e il popolo di Cesarea ricevettero la consacrazione del sacerdozio dall’Apostolo Giacomo, il legislatore e la guida della Chiesa apostolica, fondata a Gerusalemme, sul Sion ». La dignità però della sede episcopale di Gerusalemme non ci deve far dimenticare il peso, che s’accompagnava ad essa; il posto di Giacomo era importantissimo, ma anche il più difficile in tutta la Chiesa apostolica. A Gerusalemme vivevano ancora gli uccisori del Signore e il loro odio continuava ad ardere né accennava a scemare; il fanatismo religioso, ch’è il più accanito fra tutti, li spinse a perseguitare anche gli Apostoli, ch’essi ritenevano traditori della fede avita, e tanto solo per amore d’un sospeso alla croce; solo il calmo e saggio consiglio di Gamaliele, aveva stornato dagli Apostoli la sorte del loro Maestro; frattanto la proibizione di predicare, che il Sinedrio aveva loro intimata, non era mai stata revocata e ad ogni ora poteva legittimare una nuova persecuzione sanguinosa. Stefano, il nobile diacono e il primo martire della Chiesa primitiva, fu per la comunità di Gerusalemme come un santo avviso, che ammoniva di tenersi preparati anche alla morte per amore di Cristo; la sua lapidazione fu di fatto il segnale « per una grande persecuzione della Chiesa in Gerusalemme » che, condotta da Saulo furibondo, arrecò a quella primitiva comunità tanto terrore e tanto dolore. Quanto l’ambiente fosse mal disposto nei riguardi della comunità cristiana, anche dieci anni dopo la risurrezione del Signore, lo prova pure la persecuzione mossa dal re Erode Agrippa I: « Per piacere ai Giudei » aveva fatto giustiziare Giacomo Maggiore e aveva decretata la medesima sorte per Pietro. Giacomo dunque, nella sua qualità di Vescovo di Gerusalemme, copriva un posto veramente penoso; soggiornava, come Daniele, nella fossa dei leoni, che lo potevano aggredire ogni momento. Leggiamo nel Martirio coptico dell’Apostolo ch’egli, al momento della spartizione del mondo, aveva chiesto i territori dei pagani; è una leggenda; è possibile però che, immerso in riflessioni su quella città, sulla quale il Signore aveva pianto, abbia spinto spesso lo sguardo verso le regioni lontane, dove i suoi compagni d’apostolato giravano riponendo nei granai del Padre messi più abbondanti di lui, fermo a Gerusalemme, in quella città del mattino e della… sera. – E tuttavia anche il suo compito fu sublime, il più rispettabile anzi di tutti gli altri, ché egli poté portare a Cristo le reliquie del popolo eletto, al quale Iddio aveva giurato le sue promesse. E quanto sia stato il suo successo, lo prova la parola semplice, che rivolse a Paolo: « Tu vedi, o fratello, quante migliaia di Giudei hanno creduto ». Ci chiediamo allora in qual modo poté raccogliere e riporre per Cristo una messe così consolante in quel campo, ch’era stato tanto gravemente battuto dalla grandine. Prescindiamo dalla grazia, che s’era riservata anche fra gli increduli Israeliti « sette mila uomini, che non piegarono il loro ginocchio dinanzi a Baal »; quelle sante reliquie furono conquistate da Giacomo stesso, dalla sua pietà e dal suo rispetto per il sentimento giudaico, che abbracciava anche il modo esterno di condursi. Tutte le relazioni antiche mettono in risalto il santo tenore di vita di Giacomo. «Dai tempi del Signore sino ai nostri giorni », scrive Egesippo nel quinto libro dei suoi « Memorabili », « egli fu detto da tutti “il Giusto”. Egli fu santo sin dal seno materno. Non bevette vino o altra bevanda inebriante né mangiò mai nulla di vivo. Sul suo capo non passarono le forbici, non si unse con olio né frequentò i pubblici bagni. A lui solo era concesso di entrare nel Santuario (del Tempio). Non indossò neppure panni di lana, bensì di lino. Per il lungo tempo passato ginocchioni, la pelle delle sue ginocchia divenne dura come quella d’un cammello. In considerazione di questa sua ricchezza di santità fu chiamato “il Giusto e il baluardo del popolo” ». Questa condotta ascetica — Giacomo fu certamente nazireo per tutta la vita, legato quindi a certi voti di astinenza —, che oltrepassava di gran lunga anche quella dei Farisei, dovette lasciare appunto nel popolo giudaico una forte impressione. – Ai tempi di Girolamo sopravviveva ancora (420) la tradizione che le folle dei Giudei si pigiassero intorno a Giacomo per toccare anche solo l’orlo della sua veste. Eusebio nella sua Storia Ecclesiastica adduce un passo dello storico ebreo Giuseppe Flavio, secondo il quale l’Apostolo sarebbe asceso, nell’opinione dei Giudei, a tale fama di santità, che essi nella distruzione di Gerusalemme ravvisarono una punizione di Dio per il supplizio, che pochi anni prima avevano inflitto a lui. Per quel popolo, così tenacemente attaccato ai suoi usi religiosi da giungere sino al ripudio del proprio Messia piuttosto che rinnegarli, non ci voleva un Apostolo da meno del nostro. In lui i Giudei videro, come in un modello vivente, che l’adesione a Cristo non era un tradimento, ma il compimento della fede dei padri. Nessuno stava in ginocchio nel Tempio più a lungo di Giacomo, che vi passava il giorno e la notte, come la profetessa Anna; nessuno era più di lui meticoloso in fatto di fedeltà alla Legge; la sua venerazione per l’Antico Patto si rivela ancor oggi nella sua lettera, che molti, sebbene a torto, dicono più del Vecchio che del Nuovo Testamento; rinvia infatti continuamente agli scritti e alla storia del popolo eletto. Egli quindi, così fedele alla Legge e rigido conservatore, fu come un ponte della Provvidenza e un’ultima grazia per Gerusalemme: riunendo in se stesso i due Testamenti, come un secondo Mosè, ebbe il compito di condurre il popolo dal Vecchio Testamento alla terra promessa del Nuovo; in questo sta il significato e la grandiosità dell’opera sua. Non dobbiamo nasconderci certo che questo accostamento di Vecchio e Nuovo Testamento, di Sinagoga e Chiesa in Giacomo doveva mettere sull’attenti: non ci sarà pericolo, per questa via, che il Vecchio soffochi il Nuovo Testamento? O riuscirà la Chiesa a svincolarsi da quell’attacco al Tempio? La storia delle prime sette cristiane, quali quella degli Ebioniti e dei Quartodecimani, sta a provare quanto poteva essere pericoloso l’affetto dei giudeocristiani per i loro usi religiosi. « Con vino nuovo si riempiono otri nuovi », e la Chiesa appartiene al mondo, e non solo alla sua culla nell’angolo della Palestina. Ma a questo scopo la Provvidenza di Dio si scelse un altro uomo, Paolo; egli è il padre degli etnicocristiani, come Giacomo è la guida dei giudeocristiani; Giacomo ebbe affidata Gerusalemme, Paolo Roma. Son per questo i due degli avversari.., o piuttosto dei fratelli, con diversi compiti commessi loro dal medesimo Signore?

AVVERSARIO DI PAOLO?

Ritenere Giacomo come un « giudeocristiano d’animo angusto », cui Paolo sia stato l’uomo « inviso », contradice assolutamente ai documenti biblici. Per quanto egli personalmente abbia potuto osservare la Legge mosaica sino all’ultimo apice, tenne tuttavia ben saldo il principio cristiano, che la salvezza viene da Gesù e non da Mosè, e considerò Paolo come « fratello »; e questo in lui era eroismo, perché appunto su quel gregge di Gerusalemme, che egli doveva pascere, era un giorno piombato quel giovane lupo e « aveva trascinato via uomini e donne, e li aveva gettati in carcere». Non vogliamo però negare che fra Giacomo e Paolo esistessero delle tensioni, non per colpa personale, ma per la diversità dei loro compiti. Negli Atti degli Apostoli li incontriamo in rapporti fra loro tre volte. La prima volta nel Concilio apostolico, che doveva definire la questione più grave della storia della Chiesa: se anche gli etnicocristiani fossero obbligati a osservare la Legge mosaica. Pietro aveva già fatto uso della sua pienezza di potere per sciogliere — non solo per legare! — e aveva dichiarato: « Perché volete tentare Iddio e porre sulle spalle ai discepoli un giogo, che nè i nostri padri né noi abbiamo potuto portare? No, noi crediamo di ottenere la salvezza per mezzo della grazia del Signore Gesù, come anche loro ». In quel momento gli occhi di tutti si rivolsero a Giacomo; nell’attesa di sentire a quale concezione avrebbe dato il suo voto favorevole quell’Apostolo stimato e conservatore più di tutti, le due parti rattennero il respiro; la giudaica sperava, la favorevole agli etnici temeva. E Giacomo si alzò e parlò: «Fratelli, ascoltatemi! Simone ha esposto come Iddio abbia mosso il primo passo per conquistare al suo Nome un popolo tra i pagani. S’accordano con questo le parole dei Profeti. Sta scritto infatti: “Poi edificherò di nuovo la tenda rovinata di David, restaurerò le sue macerie, la erigerò nuovamente. Allora gli altri uomini cercheranno il Signore, tutti i popoli, sui quali è invocato il mio Nome. Così dice il Signore, che questo opera “. Questo è l’eterno decreto. Per questo, secondo il mio parere, non si deve addossare ai pagani, che si convertono a Dio, nessun carico, ma però si deve esigere da loro che si astengano dalla contaminazione per mezzo degli idoli, dalla fornicazione, dal soffocato e dal sangue. Perchè Mosè da tempo immemorabile ha i suoi predicatori in ogni città; egli è letto ogni sabbato nelle sinagoghe » Queste parole, le prime che ascoltiamo dalla bocca di Giacomo, furono di grande importanza: « Non si deve imporre ai pagani nessun peso ulteriore! ». Rigido con se stesso, egli era abbastanza generoso per aprire ai gentili la porta della libertà dei figli di Dio. Anche cinque o sei anni dopo, ricordando quell’adunata apostolica, Paolo scriverà con evidente sollievo, nella lettera ai Galati : « Giacomo, Kefas e Giovanni, ch’erano ritenuti come colonne, porsero a me e a Barnaba la mano dell’alleanza »; ove Giacomo lo ricorda al primo posto, prima ancora di Pietro, perché egli aveva temuto soprattutto il voto di Giacomo; il sì di quest’ultimo nella controversia aveva doppio peso. Giacomo e Paolo si diedero la mano! Sarebbero state incalcolabili le tristi conseguenze per la Chiesa di Cristo, se in quella circostanza i due Apostoli non fossero venuti a un accordo; ma l’amore di Cristo può far convergere nell’unità anche un Giacomo e un Paolo. Osservando più attentamente la dichiarazione del nostro Apostolo, ci accorgiamo che essa non gli dovette riuscire facile; il suo cuore propendeva per il no; ma fu così leale, che in una questione definita in senso contrario da Dio stesso, dai Profeti e dall’esperienza, votò contro se stesso; non poté certo far a meno di limitare il suo voto con quattro clausole, che per questo son dette « clausole di Giacomo>>; con esse voleva rimuovere gli urti più gravi, che i contatti con gli etnicocristiani potevano provocare nei giudeocristiani; ed esse, nell’interesse della comunità cristiana, furono accolte nel decreto apostolico e ne fu segnalata la motivazione agli etnicocristiani: « Se vi guardate da queste cose, farete bene» in ordine al fraterno accordo con i giudeocristiani. Una o due delle quattro disposizioni, quella per esempio di starsene lontani dai conviti sacrificali dei gentili e l’astinenza da ogni relazione sessuale illegittima, come era in uso presso i pagani, si capiva facilmente che doveva valere anche per gli etnicocristiani; non era invece per loro evidente ed era meno facile a tradursi in atto l’esigenza che si mangiasse sempre carne monda e la proibizione del sangue, la cui commestione dal sentimento semitico era ritenuta detestabile ormai da millenni. Sarebbe tornato di gradimento se Giacomo, nel suo discorso, avesse avuto anche solo una paroletta di riconoscimento per l’opera di Paolo, che sedeva in quella nobile assemblea ancora impolverato e stanco, si può dire, per il suo primo viaggio apostolico; ma egli si riferì solo a Simone Pietro, sebbene immediatamente prima del suo discorso «Barnaba e Paolo raccontarono quali grandi segni e miracoli Iddio aveva operato per mezzo di loro fra i gentili » . Giacomo e Paolo sono ricordati insieme una seconda volta nella lettera ai Galati, in occasione del conflitto di Antiochia, del quale abbiamo scritto più sopra . Paolo, eccitato, rimprovera a Pietro la sua condotta inconseguente: « Perchè prima che fossero giunti alcuni della compagnia di Giacomo, egli (Pietro) frequentava la mensa in comune con i pagani; dopo il loro arrivo invece si ritirò e si separò per paura dei circoncisi. Con lui simularono anche gli altri giudei; persino Barnaba si lasciò trascinare dal loro infingimento ». « Della compagnia di Giacomo » ! Questo testo non ci dà il diritto di fare Giacomo responsabile dei raggiri dei giudaizzanti nella chiesa di Antiochia, con i quali tendevano a distogliere Pietro dalla libertà e semplicità del Vangelo per ricondurlo alla ristrettezza della Legge; Giacomo pensava rettamente e lealmente; nondimeno la parola indignata di Paolo accenna a lui come a quella persona, cui i giudaizzanti, anche se a torto, si appellavano di continuo come a un teste ufficiale; rimanendo egli personalmente così fermo nella rigida osservanza della Legge, dava un esempio, che nelle mani degli avversari dell’Apostolo delle genti diveniva un’arma potente. In realtà egli non si sarebbe mai concessa la libertà di Pietro, tanto meno quella di Paolo, né mai si sarebbe seduto alla mensa con gli etnicocristiani per mangiare uccelletti arrostiti o, peggio, carne porcina; si atteneva meticolosamente alle prescrizioni, che Mosè stabilisce nel capitolo undecimo del Levitico; e non è neppure impossibile che ai giudeocristiani egli desse il consiglio di non lasciarsi sviare dall’osservanza dei costumi paterni, beneficiando delle libertà concesse agli etnicocristiani. Giacomo fu giudeo per i Giudei, ma non fu pure gentile con i gentili — minor! —, come lo fu invece Paolo, di lui più aperto e sciolto. In questo senso certo, ma solo in questo ‘senso è da Paolo messo in relazione col conflitto di Antiochia. – Paolo e Giacomo stanno di fronte l’uno all’altro per l’ultima volta nel capitolo ventunesimo degli Atti degli Apostoli. Paolo, sempre magnanimo, portò a Giacomo la grande colletta raccolta fra le comunità etnicocristiane per soccorrere la Chiesa madre di Gerusalemme. Di questa visita, ch’è l’ultima fatta dall’Apostolo delle genti alla Città Santa, Luca poté scrivere la consolante relazione: « Dopo il nostro arrivo a Gerusalemme, i fratelli ci accolsero con gioia. Il giorno seguente Paolo venne con noi da Giacomo, presso il quale si radunarono tutti gli Anziani. Egli li salutò e poi riferì loro, sin nei particolari, quello che Iddio aveva operato per mezzo del suo lavoro fra i pagani. Quand’essi ebbero appreso tutto questo, lodarono Iddio. Però gli dissero… » Però! Di nuovo dunque un «però », di nuovo un’esitazione e una limitazione e… una richiesta, certamente, diciamolo pure, con ottima e fraterna intenzione. Si trattava di questo: nel mondo giudaico s’era sparsa la voce che « tu insegni a tutti i Giudei, che si trovano fra i gentili, l’apostasia da Mosè ed esigi che non facciano circoncidere i loro figli e che non vivano più in nessun modo secondo gli usi legali »; era una esagerata e diffamatoria generalizzazione. Anche Paolo infatti aveva avuto dei riguardi per i Giudei, tanto che aveva fatto circoncidere persino il suo discepolo Timoteo; ma non poteva dissimulare, per la sua concezione fondamentale, che la Legge non era necessaria alla salvezza dei giudeocristiani più di quello che lo fosse per gli etnicocristiani; ora questa sua posizione aveva provocato nell’animo giudaico tale tensione contro di lui, che c’era da temere per la sua vita, specialmente poi in una festività così solenne come la Pentecoste, che riuniva in Gerusalemme giudei di tutto il mondo. Fu questa sollecitudine per la sua vita che spinse a fargli una proposta, la quale, se non veniva da Giacomo, fu però da lui appoggiata: « Fa quello che ti proponiamo: quattro uomini fra di noi si sono obbligati con un voto. Unisciti a loro, purificati con loro e sostieni per loro le spese, perché possano farsi tagliare i capelli. Tutti allora comprenderanno che non v’è nulla di vero nelle voci, che sul tuo conto si sono diffuse, che tu piuttosto osservi fedelmente la Legge ». La proposta era una vera pretesa materialmente e ancor più moralmente. Per sé e per gli individui, che si volevano accollare a lui, Paolo doveva offrire in sacrificio un agnello, una pecora e un montone, cui inoltre s’aggiungevano i corrispondenti sacrifici incruenti; solo dopo di questi era sciolto il voto contratto del nazireato, la cui conclusione ufficiale consisteva nel taglio dei capelli. Ma per Paolo dovette costare molto di più tutta quella messa in scena: egli non era contrario al voto in sé, ché per sua libera determinazione s’era fatto nazireo già; ma nelle circostanze del momento un simile modo di agire significava confessare un torto non commesso, una vittoria dei suoi nemici e un funesto turbamento delle sue comunità etnicocristiane. Può essere che Giacomo districasse il collega da questi scrupoli con benevoli parole; lui pure nel Concilio apostolico aveva detto un sì doloroso a favore degli etnicocristiani; non avrebbe dovuto anche Paolo sostenere un sacrificio per i giudeocristiani? La carità di Cristo e la fede nella sua unica Chiesa vinse di nuovo; « Paolo si unì agli uomini, si purificò con loro e il giorno dopo andò nel Tempio. Ivi annunziò il termine del tempo del voto; poi fu offerto il sacrificio per ciascuno di loro ». Quel consiglio buono, col quale Giacomo aveva tentato di scongiurare il pericolo, che sovrastava alla vita di Paolo, fu per questi fatale; perché proprio al momento di sciogliere il voto, egli fu preso nel Tempio e quasi quasi veniva ucciso. Dovrà dunque ringraziar di questo Giacomo? Esattamente! Giacomo appianò a Paolo la via… di Roma, poiché quella prigionia, che durò due anni, ebbe termine col viaggio di Paolo a Roma, che egli tanto aveva desiderato di vedere. Giacomo, precisamente lui apre a Paolo la via di Roma! Gerusalemme, la culla, trasmette il Cristianesimo all’altra sponda, al vasto mondo. Ma anche Paolo fu fatale per Giacomo: Eusebio riferisce che i Giudei, quando si videro delusi in forza dell’appello di Paolo all’imperatore, presero le vendette su Giacomo, uccidendolo in cambio di Paolo; così questi giunse al martirio per l’opera di Giacomo e Giacomo per quella di Paolo.

LA LETTERA DI GIACOMO

La lettera di Giacomo è la prima delle sette lettere, che son dette « cattoliche ». Esse sono chiamate « cattoliche = universali » per distinguerle da quelle di Paolo, perché non sono, come le paoline, dirette a comunità particolari o a individui, ma, almeno nella loro maggioranza, a una comunità più estesa, in forma di encicliche. Due sono di Pietro, tre di Giovanni, una di Giacomo e una di Giuda Taddeo. La loro successione nelle edizioni odierne della Bibbia si attiene all’ordine degli Apostoli, che segue Paolo nel testo addotto della lettera ai Galati: Giacomo, Kefas e Giovanni “, ai quali è da aggiungere ancora Giuda. Quest’ordine, se si eccettua la lettera di Giuda, corrisponde pure all’epoca della loro composizione. La lettera di Giacomo, la prima delle sette lettere cattoliche, è anche il primo scritto del Nuovo Testamento; risale a un’epoca anteriore allo stesso Concilio apostolico, forse all’anno 48, perché non vi s’incontrano ancora allusioni alla grave questione, che la comunità cristiana avrebbe presto sollevata: se la Legge mosaica avesse ancora valore; la sua antichità risulta pure dalla sua probabile utilizzazione da parte di Pietro; si confronti, ad esempio, Giacomo I, 3 con I Pietro I, 7, o Giacomo IV, 6 con I Pietro V, 6. L’autore presenta se stesso come « Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo »; non si dice né « apostolo » nè « fratello del Signore »; ma appunto quest’umile passar sotto silenzio titoli così eccellenti depone per la genuinità della lettera; un altro Giacomo qualsiasi infatti, di nessuna importanza, si sarebbe attribuite quelle distinzioni per sorreggere una falsificazione; « il vero Giacomo » invece — questa ben nota espressione veramente dovette essere coniata per Giacomo Maggiore, nella lite per l’autenticità delle sue reliquie — non aveva bisogno di ostentare i suoi privilegi; bastava il suo nome a conciliargli piena autorità. E l’autorità egli la rivendica a sé stesso: in una lettera non lunga, che non conta più di 108 versi, s’incontrano 54 ordini, così che a ogni secondo verso è avanzata una richiesta energica, seria, non proposti solo degli avvisi avvolti in guanti di seta, e i destinatari di quegli imperativi sono anche ricchi insociali e ingiusti. « Orsù, o ricchi, piangete e gemete per la miseria, che verrà su di voi! La vostra ricchezza è putrefatta, le vostre vesti sono state rose dalla tignuola. Il vostro oro e argento si sono arrugginiti… Ecco, la mercede, che voi avete defraudata agli operai, che han mietuto i vostri campi, grida e il grido dei mietitori è penetrato sino all’orecchio del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e nella voluttà vi siete ben nutriti nel giorno dell’occisione. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi resiste >>. Queste espressioni tanto energiche, che rivelano di nuovo il contadino, potevano ben essere gridate da Giacomo nel suo e… nel nostro tempo, mentre lui stesso era dinanzi al popolo un modello vivente d’ogni giustizia e ascetica sobrietà. La lettera è indirizzata alle « dodici tribù nella diaspora» . Sotto questo termine s’intendono i giudeocristiani nella « dispersione », che vivevano cioè fuori della Terra Santa, quelli anzitutto della Fenicia e della Siria. La pastorale sollecitudine del Vescovo di Gerusalemme non si limitava esclusivamente al gregge custodito sotto i suoi occhi nella prima comunità, ma si estendeva anche a tutti quelli, che, essendo cristiani delle « dodici tribù », si trasferivano fra i pericoli delle regioni lontane. Al tempo dell’Apostolo i giudeocristiani non versavano in quelle tristi condizioni,nnelle quali vennero a trovarsi quindici anni più tardi, quando Paolo fece loro pervenire con la lettera agli « Ebrei » la sua parola di esortazione e di conforto, affinché rimanessero fermi in Cristo; tuttavia quei neocredenti stavano già nella crisi dell’inizio; il primo fervore era ridotto a una smorta fiamma; un tenore di vita inconseguente e le tribolazioni dall’esterno avevano fruttato l’indebolimento dell’uomo cristiano. Giacomo, con la sua lettera, volle ricondurre i compagni di origine e di fede al primo zelo: « Stimate pura gioia, fratelli miei, se incappate nelle diverse prove. Sapete che la prova della vostra fede opera la pazienza; la pazienza poi perfezionerà un’opera, affinchè diveniate perfetti e irreprensibili e sotto nessun rispetto manchevoli». La lettera di Giacomo non presenta quella nota personale, che riscontriamo, ad esempio, nelle lettere di Paolo, e per questo s’è voluto giudicarla come una raccolta semplicemente di sue pie sentenze, che sarebbero state disposte l’una accanto all’altra, secondo un filo logico, sciolto però e variante con rapidità; Lutero ne biasimò anche la forma: « La lettera getta là disordinatamente una cosa sull’altra »; l’aveva già detta « epistola di paglia » per il contenuto, perchè diametralmente opposta alla sua dottrina sulla giustificazione operata dalla semplice fede, solo dunque per difficoltà personali e aprioristiche. La lettera è invece quanto mai pratica e plastica, non certo costruita con lo studio su di un leggio; affronta uno dopo l’altro i problemi della vita cristiana. Com’è al naturale e deliziosa la descrizione del diverso comportamento dinanzi ai poveri e ai ricchi! « Fratelli miei, tenete libera la. vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo della gloria da riguardi di persona! Se nella vostra adunanza entra un uomo con anello d’oro, con vestito lussuoso e subito dopo un povero con veste sudicia, e voi guardate a colui ch’è in abito sfarzoso e gli dite: “Tu sta comodo qui “, mentre al povero dite: “Tu sta là dritto “, oppure: “Siediti giù, sotto lo sgabello dei miei piedi “, non avete pronunciato dentro di voi un giudizio parziale? ». La lettera di Giacomo è specialmente di tanta attualità per il suo carattere spiccatamente sociale; si potrebbe chiamare la Magna Charta del quarto stato, il precedente biblico delle encicliche pontificie « Rerum Novarum » e « Quadragesimo Anno ». Resterà classico per tutti i tempi il testo sull’importanza e il dominio della lingua: « Chi non manca con le parole, è un uomo perfetto, capace di tenere in freno anche tutto il corpo… La lingua è un membro piccolo, ma si vanta di grandi cose… Con essa benediciamo il Signore e Padre, e con essa malediciamo gli uomini, che sono creati a immagine di Dio. Dalla stessa bocca esce benedizione e maledizione >>. La lettera di Giacomo offre una importante testimonianza biblica, che è poi anche l’unica, per il sacramento dell’Estrema Unzione: «V’è qualcuno fra di voi ammalato? Chiami a sè i presbiteri della Chiesa; questi preghino su di lui e lo ungano con olio nel Nome del Signore. La preghiera piena di fede sarà di salvezza all’ammalato e il Signore lo solleverà. E se egli ha in sè dei peccati, gli saranno rimessi ». L’obiettivo principale della lettera, che trapela da tutte le richieste, è un cristianesimo vivo e fattivo, in opposizione a un semplice cristianesimo di chiesa rammonito; questa nefasta separazione fra fede e vita, fra teoria religiosa e pratica religiosa non potrebbe essere condannata più energicamente di quanto l’ha fatto il nostro Apostolo: «Traducete la parola in fatti e non ascoltatela solo, altrimenti ingannate voi stessi… Pietà pura, immacolata dinanzi a Dio e Padre si ha quando si aiutano gli orfani e le vedove nelle loro necessità e ci si conserva puri da questo mondo… Che giova, fratelli miei, se uno dice che ha la fede, ma non ha opere? Può forse la fede renderlo felice?… Se la fede non ha opere è morta ». Ora però ci siamo imbattuti in un altro passo, nel quale Giacomo e Paolo sembrano nuovamente in conflitto fra di loro; e di fatto le parole ora addotte sono state rilevate come una contradizione e una smentita delle profonde concezioni intorno alla fede, al peccato e alla giustificazione, che Paolo va esponendo sopratuttonnella lettera ai Romani. E in realtà non scrive egli esattamente il contrario di quanto insegna Giacomo, quando dice: « Noi siamo persuasi che l’uomo è giustificato per mezzo della fede, indipendentemente dalle opere della Legge… Chi compie opere, a costui la mercede viene computata non a titolo di grazia, ma secondo il merito >>? Ma l’opposizione di Giacomo e Paolo è anche nelle loro lettere soltanto apparente; tutti e due fanno uso delle stesse parole: fede, opere, giustificazione, ma in un senso diverso; Paolo esalta la fede viva, Giacomo biasima la fede morta; Paolo valuta come nulle le opere della legge mosaica, Giacomo esige come necessarie le opere della vita cristiana; Paolo attribuisce alla grazia la prima chiamata alla giustificazione, Giacomo esorta alla cooperazione con la grazia perchè s’accresca la giustificazione. Quello che Paolo insegna con sublimi svolgimenti di pensiero, Giacomo nelle sue semplici proposizioni non lo nega affatto; e quello che scrive Giacomo lo sottoscrive anche Paolo, perchè anch’egli esige in ogni sua lettera le opere della vita cristiana. La dottrina dunque dei due Apostoli è la medesima, solo l’accento è collocato diversamente: Paolo accentua la grazia, Giacomo le opere. Questo spostamento d’accento era già dovuto alla diversità del compito: Giacomo doveva stimolare del Cristiani, ch’erano pigri nell’operare, Paolo invece doveva reprimere dei Cristiani orgogliosi delle opere; ma esso aveva certo una radice più profonda nella diversità soggettiva di Paolo e di Giacomo: il primo, nella luce abbagliante della sua conversione nei pressi di Damasco, aveva compreso in misura più luminosa di tutti gli altri l’impotenza dell’uomo e l’onnipotenza di Dio; era stato condotto a Cristo dalla grazia, non dalla Legge, e quest’esperienza religiosa continuò poi a vibrare in tutti i suoi scritti; Giacomo invece non conobbe questo brusco passaggio, egli andò a Cristo per la via dritta e piana, per lui « la Legge era stata pedagogo a Cristo»; non aveva dunque nessun motivo di opporre l’una all’altra, la Legge alla Grazia. Così nella sua lettera, ch’è l’unico scritto che ci sia pervenuto di lui, si riflette fedelmente la personalità dell’autore: la sua condizione nella lingua e nelle immagini, e la sua spiritualità nelle concezioni. Del resto Paolo nella prima lettera ai Corinti ha scritto delle parole, che lo mettono in pieno accordo con Giacomo nella dottrina: « Io sono quel che sono per la grazia di Dio; la sua grazia però, ch’è toccata a me, non è rimasta in me inefficace; io anzi ho lavorato più di tutti gli altri; ma non io, bensì la grazia di Dio con me ».

GRANDE NEL REGNO DEI CIELI

La lettera agli Ebrei, diretta da Paolo ai giudeocristiani verso l’anno 63, un anno dopo cioè la morte di Giacomo, mostra quanto fosse grave la situazione, nella quale era venuto a trovarsi il nostro Apostolo, come vescovo di Gerusalemme, negli ultimi suoi anni. I giudeocristiani erano minacciati dal grave pericolo di ricadere nuovamente nel giudaismo; nei Giudei s’era riacceso l’odio fanatico contro Cristo; guizzavano già i primi bagliori della guerra giudaica, vicina ormai a scatenarsi sul popolo, che su di sè e sopra i suoi figli aveva invocato il Sangue di Cristo. Giacomo osservava col cuore affranto il compiersi del destino della sua gente; spirava l’ultimo termine, perché il Giudaismo nei riguardi del Messia persisteva ancora tenacemente incaponito nell’atteggiamento assunto il Venerdì Santo: « Sia tolto di mezzo! ». Eppure quanto s’era adoperato — certamente più di tutti gli altri Apostoli — perché anche quel suo gregge trovasse la via a Cristo! Quanta pazienza e quale riguardo gli aveva prodigato per non ferirlo nei suoi sentimenti religiosi! Piuttosto che mancare di attenzione verso di esso aveva chiuso un occhio su penose tensioni nei rapporti col collega Paolo. Nondimeno anche lui fu raggiunto dalla sorte, che il Signore aveva vaticinata ai suoi Discepoli: « Vi si caccerà dalle sinagoghe. Anzi viene l’ora, nella quale chiunque vi uccide crede di rendere un servizio a Dio >>; anche Giacomo, proprio lui, anzi lui solo fra tutti gli Apostoli fu ucciso dal Giudei; e in lui, l’Apostolo e il fratello di Gesù, fu rigettato una volta ancora Cristo stesso, il giorno della sua morte fu il suggello definitivo del Venerdì Santo. – Possediamo due relazioni molto antiche intorno alla morte dell’Apostolo Giacomo, una dello storico ebreo Giuseppe Flavio e l’altra dello scrittore ecclesiastico Egesippo. Nella prima si riferisce: quando, dopo la morte del procuratore Festo, non vi fu per un certo tempo nessun luogotenente nel paese, il sommo sacerdote Anano II profittò di questo tempo di vacanza per perdere Giacomo, fratello di Gesù. Invitò lui e alcuni altri dinanzi al Sinedrio, li incolpò di infrazioni alla Legge, li fece condannare e lapidare. Era l’anno 61 o 62, trent’anni circa dopo l’Ascensione; Giacomo contava allora, secondo Epifanio, 96 anni. Egesippo amplifica questa relazione oggettiva dello storico con particolari, che in parte sono leggenda, in parte sono presi a prestito dal Vangelo e dagli Atti degli Apostoli “; secondo la sua relazione dunque i Farisei avrebbero preteso che Giacomo nella festa di Pasqua spiegasse al popolo dal pinnacolo del Tempio — ci ricordiamo della storia delle tentazioni di Gesù —, « quale fosse la porta di Gesù, il crocifisso », per poter così stornare i Giudei dalla fede in Lui qual Messia; Giacomo apparentemente avrebbe consentito, ma, giunto in alto, avrebbe proclamato Gesù quale Messia e giudice del mondo dinanzi a tutto il popolo; allora i maggiorenti giudei, inquieti e furenti per timore che la moltitudine potesse essere persuasa da quella predica, avrebbero precipitato Giacomo dal tetto del Tempio e, ormai mezzo morto, l’avrebbero coperto di pietre, mentre egli, come Stefano, pregava per i suoi uccisori. Quando un sacerdote dei Recabiti, commosso da quell’eroismo, volle respingere quei furibondi, gridando: « Smettete, che fate? Il Giusto prega persino per voi », un gualchieraio avrebbe afferrato il suo rulletto e avrebbe fracassato all’Apostolo il capo. Per questo, per simboleggiare la sua passione, l’arte rappresenta Giacomo Minore con una mazza o una stanga da gualchieraio. La sua salma fu sepolta accanto al Tempio, ove al tempo ancora di Egesippo era eretto il « suo cippo)) 67. Una notizia invece di Gregorio di Tours trasferisce il suo sepolcro sul Monte degli Olivi, dove sarebbe stato deposto con Zaccaria, il padre del Battista, e col vecchio Simeone “. Quando l’imperatore Giustino II (565-578) trasportò le ossa del fratello del Signore Giacomo nella chiesa di San Giacomo, costruita nuova a Costantinopoli, avrebbero trovato ivi il loro sepolcro anche Simeone e Zaccaria; veramente Girolamo, ch’era tanto pratico dei luoghi, non sapeva nulla al suo tempo d’una tomba di Giacomo sul Monte degli Olivi. Una tradizione posteriore la mostrava nella valle di Giosafat, in direzione sud-est del Tempio; la spelonca, scavata nella roccia e divisa in più camere sepolcrali, è indicata anche oggi come « sepolcro di Giacomo ». La Chiesa latina, sino dal secolo sesto, celebra la festa dell’ascetico Giacomo insieme con quella del freddo Filippo il giorno primo maggio, così pieno di poesia! Si spiega questa festa comune ai due Apostoli, sebbene non compaiano mai uniti né nella Sacra Scrittura né negli apocrifi, col fatto che Roma nel secolo sesto eresse ai due la basilica, che oggi veramente porta il titolo « degli Apostoli>> in generale; e poichè la sua consacrazione fu fatta il primo di maggio, questo giorno nel rito romano è consacrato al ricordo dei due Apostoli. Ci inchiniamo pensosi dinanzi alla veneranda spoglia dell’Apostolo Giacomo, che giace fracassato sulla piazza del Tempio, come un sacro vaso dell’ultima grazia, un martire insieme del Vecchio e del Nuovo Testamento. Fra dieci anni anche il Tempio sarà abbattuto e ridotto in frantumi in punizione della grazia respinta; il Vangelo invece prenderà il suo libero corso, senza « clausole >> e riguardi, in tutte le direzioni del mondo, verso tutti i popoli. La Provvidenza tanto buona volle risparmiare a Giacomo il dolore di vedere il tramonto di Gerusalemme e il tramonto del tempo antico; egli però, l’Apostolo del Giudaismo morente, sta dinanzi al nostro tempo e dinanzi.., alle nostre anime e santamente ci ammonisce e ci scongiura di cambiare il tramonto di Cristo, che minaccia anche noi, in una sua ascesa; « perchè, se Iddio non ha risparmiato i rami naturali (Israele), non risparmierà neppur te. Riconosci dunque la benignità e la severità di Dio. La severità verso i caduti, la benignità di Dio verso dite, supposto che tu perseveri nella benignità di Dio, altrimenti sarai tagliato via anche tu ». La missione di Giacomo, dell’Apostolo di un’epoca, che volgeva alla fine, fu meno grande — minor! — di quella del fratello e compagno suo Paolo, dell’Apostolo delle genti, che ascendevano alla grazia del Cristianesimo; non fu però meno.difficile, e Giacomo non la condusse a termine meno fedelmente. Anch’egli, « il Minore », è un grande nel regno dei Cieli.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (13) “da GREGORIO III a BENEDETTO III”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (13)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(Da Gregorio III a Benedetto III… )

GREGORIO III: 18 marzo 731-28 (29?) – Novembre 741

Lettera “Magna nos habuit” al vescovo Bonifacio, 732 ca.

Battesimo di dubbia validità.

582. Per quanto riguarda coloro che hai detto essere stati battezzati daI pagani, se è così, ti ordiniamo di battezzarli di nuovo nel nome della Trinità. … Ma ti ordiniamo anche che siano battezzati coloro che dubitano se siano stati battezzati o meno, o che siano stati battezzati da unpresbitero che sacrifichi a Giove e mangi carne sacrificale.

583. Avete chiesto se è lecito offrire oblazioni per i morti.La santa Chiesa ritiene che ognuno possa presentare oblazioni per i suoi morti veramente Cristiani, e che i presbiteri possano ricordarli. E anche se tutti siamo soggetti al peccato, è opportunoche il Sacerdote si ricordi dei Cattolici defunti ed interceda per loro. Ma questo non sarà permesso agli empi, anche se fossero Cristiani.

ZACCARIA: 10 (3?) dicembre 741-22 (15?) Marzo 752

586. Lettera “Suscipientes sanctissimae fraternitatis” all’Arcivescovo Bonifacio di Magonza, 5 novembre 744.

Simonia

(2) Abbiamo trovato (in una lettera di Bonifacio al Papa)… che ci è stato riferito da te che noi saremmo dei corruttori dei canoni e che cercheremmo di abrogare le tradizioni dei Padri, e che così facendo – Dio non voglia! – avremmo ceduto con i nostri chierici all’eresia simoniaca, accettando ricompense, o chiedendo a coloro a cui conferiamo il pallio di concederci ricompense chiedendo loro denaro, … (A Bonifacio viene chiesto di non scrivere più cose del genere), perché riteniamo impudente e offensivo che ci venga attribuito ciò che aborriamo totalmente. Lungi da noi e dai nostri chierici vendere per denaro ciò che abbiamo ricevuto per grazia dello Spirito Santo. … Anzi, anatematizziamo tutti coloro che osino vendere per denaro un dono dello Spirito Santo.

Concilio di Roma, terza sessione, 25 ottobre 745.

587. La discesa di Cristo agli inferi.

…Clemente, che nella sua stupidità rifiuta le determinazioni dei santi Padri e tutti gli atti sinodali, e che introduce anche il giudaismo per i Cristiani quando afferma che si può prendere in moglie la vedova di un fratello defunto, e che, inoltre, proclama anche che il Signore Gesù Cristo, scendendo agli inferi ne abbia tratto i pii e gli empi, deve essere spogliato di tutti gli uffici sacerdotali e gettato nelle catene dell’anatema.

588. Lettera Virgilius e Sedonius” all’arcivescovo Bonifacio di Magonza 1 luglio 746 (745?).

L’intenzione e la forma richiesta per il Battesimo.

Ci è stato riportato che in questa provincia c’era un Sacerdote che ignorava totalmente la lingua latina e che, quando battezzava, non conoscendo la pronuncia latina, diceva, distorcendo la lingua “Baptizo te in nomine Patria et Filia et Spiritus Sancti”. E per questo motivo la vostra venerabile fraternità ha pensato di ribattezzare. Ma… se colui che battezzava, mentre battezzava, pronunciava come abbiamo appena detto, non per introdurre l’errore o l’eresia, ma solo per ignoranza della lingua romana, noi non possiamo accettare che siano ribattezzati…

589. Lettera “Sacris liminibus“, all’Arcivescovo Bonifacio di Magonza 1 maggio 748.

L’intenzione e la forma richieste per il Battesimo.

In questo (Sinodo degli Inglesi) è stata manifestamente prescritta con fermezza e dimostrata con cura che chiunque fosse purificato senza l’invocazione della Trinità non avesse il Sacramento della rigenerazione. Questo è vero, perché se qualcuno si immerge nella fonte del Battesimo senza l’invocazione della Trinità, non è perfetto, e se non è stato battezzato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. … I Sacerdoti del suddetto sinodo vollero che fosse osservato anche che se qualcuno, nel Battesimo, ometta di nominare una sola delle Persone della Trinità, non possa essere un Battesimo, il che è certamente vero; perché chi non ha confessato una delle Persone della Trinità non può essere un perfetto Cristiano.

STEFANO II (III): 26 mars 752-26 Aprile 757

Risposte di Qierzy (Oise), 754

La forma del Battesimo.

592. (Risposta 14). Quanto a quel presbitero che battezzava in modo così rude: Io mi immergo nel nome del Padre, e mi immergo nel nome del Figlio e mi immergo nel nome dello Spirito Santo, e che anche come Sacerdote non sa se sia stato un Vescovo a benedirlo: costui, che ignora la sua ordinazione, deve assolutamente essere deposto; ma i bambini che ha battezzato, anche se in modo rude, dal momento che sono stati battezzati nel nome della Santa Trinità, rimangano in quel Battesimo.

PAOLO I: 29 maggio 757 – 28 giugno 767

STEFANO III (IV): 7 agosto 768 – 24 gennaio 772

ADRIANO I: 9 febbraio 772-25 Dicembre 795

Lettera “Institutio universalis” ai Vescovi di Spagna, tra il 785 febbraio el 791.

L’errore degli adozionisti.

595. … Dalla vostra regione ci è giunta la triste notizia che alcuni dei Vescovi che soggiornano lì, Eliphand ed Ascaricus, con altri che sono d’accordo con loro, non arrossiscono di confessare il Figlio di Dio come figlio adottivo, sebbene nessun eresiarca abbia osato pronunciare una simile bestemmia, ad eccezione di quell’empio di Nestorio, che ha confessato il Figlio di Dio essere un semplice uomo …

Predestinazione.

596. Ma non è vero quello che dicono altri nelle loro file, cioè che la predestinazione alla vita o alla morte sia in potere di Dio e non nostro. Alcuni dicono: “Perché ci sforziamo di vivere, visto che è in potere di Dio?” altri dicono: “Perché preghiamo Dio di non essere vinti dalla tentazione”, visto che è in nostro potere grazie al libero arbitrio? ” In verità non possono né giustificarlo né sentirne la ragione, dal momento che non conoscono gli scritti del Beato Fulgenzio al presbitero Eugippio contro le parole di un pelagiano: “Dio ha dunque predisposto nell’eternità della sua immutabilità opere di misericordia e di giustizia […]; ha quindi predisposto meriti per gli uomini che debbano essere giustificati; per gli stessi uomini, che devono essere glorificati, ha preparato per loro delle ricompense; ma per i malvagi non ha preparato volontà o opere malvagie, ma tormenti giusti ed eterni. Questa è la predestinazione eterna delle opere di Dio a venire, e noi la proclamiamo con tanta fiducia quanto sappiamo che ci venga sempre proposta dalla dottrina apostolica.

2° Concilio di NICEA (7° ecumenico)

24 settembre – 23 ottobre 787

7a sessione, 13 ottobre 787.

Definizione sulle immagini sacre

600. … Avanzando sulla via regale ed aggrappandoci all’insegnamento divinamente ispirato dei nostri santi Padri e alla tradizione della Chiesa cattolica, che noi riconosciamo essere quella dello Spiritoche abita in essa, decidiamo, con tutta la precisione e l’accuratezza possibile, che per quanto riguarda larappresentazione della croce preziosa e vivificante, siano collocate le venerabili e sante immagini, mosaici o opere di qualsiasi altro materiale idoneo, nelle sante chiese di Dio, su oggetti o  paramenti sacri, sui muri e sui quadri, nelle case e sulle strade; l’immagine dinostro Signore, Dio e Salvatore Gesù Cristo, quella della nostra Signora senza macchia, la santa Madre di Dio, quella degli Angeli, degna del nostro rispetto, quella di tutti i Santi e i giusti.

601. Anzi, più li vediamo, grazie alla loro rappresentazione in immagini, più siamo portati a ricordare e ad amare i modelli originali e a rivolgere loro un saluto ed una venerazione rispettosa; non la vera adorazione propria della nostra fede, che è propria solo della natura divina,ma come si fa per la rappresentazione della croce gloriosa e vivificante, per i santi Vangeli e per tutti gli altri oggetti sacri; ed in loro onore si porteranno incensi e lumini, secondo il pio costume degli antichi. Perché “l’onore tributato all’immagine va al modello originale,e chi venera l’immagine venera in essa la Persona di Colui che essa rappresenta”.

602. Così sono confermati gli insegnamenti dei nostri santi Padri, la tradizione della Chiesa cattolica, una Chiesa che da un capo all’altro della terra ha accolto il Vangelo; così ci atteniamo a Paolo, che ha parlato (in 2 Cor II,17) a tutta la divina assemblea degli Apostoli e alla santità dei nostri Padri, tenendo fede alle tradizioni che abbiamo ricevuto (2Th II, 15); così cantiamo profeticamente gli inni che celebrano la vittoria della Chiesa: “Rallegrati, o figlia di Sion, alza la voce, o figlia di Gerusalemme, esulta e rallegrati con tutto il cuore; il Signore ha tolto dall’intorno a te le ingiustizie dei tuoi avversari dalla mano dei tuoi nemici; il Signore è re in mezzo a te; non vedrai più il male.”, e la pace sarà su di te per sempre (So III,14ss.).

603. Coloro che osano pensare o insegnare diversamente, o che seguono i maledetti eretici, disprezzano le tradizioni della Chiesa e immaginano qualche novità, o rifiutano uno qualsiasi degli oggetti consacrati offerti allaChiesa, Vangeli, rappresentazioni della croce, immagini o sante reliquie di un martire; oppure immaginanomanovre tortuose ed ingannevoli per rovesciare qualcosa nelle legittime tradizioni della Chiesa cattolica; oppure far servire oggetti sacri o monasteri sacri a scopi profani: a tutti questi, se sono Vescovi o chierici, ordiniamo di essere deposti; se sono monaci o laici, di escluderli dalla comunione.

8a sessione, 23 ottobre 787.

Elezioni ai sacri ministeri

604. Qualsiasi elezione di un Vescovo, di un Sacerdote o di un diacono fatta dai principi è nulla, secondo ilcanone (Canone degli Apostoli 30) che dice: Se un Vescovo, ricorrendo a principi secolari, entra per mezzo di questi inpossesso di una chiesa, sia deposto e con tutti coloro che accettano la sua comunione. Infatti, colui che debba essere elevato all’Episcopato deve essere eletto dai Vescovi, come è stato deciso dai santi Padri riuniti a Nicea, nel canone (can. 4) che dice: È molto opportuno che un Vescovo sia stabilito da tutti i Vescovi della provincia; se ciò dovesse risultare difficile, o per necessità urgenti, o per la lunghezza del cammino, è necessario in ogni caso che tre Vescovi si riuniscano nello stesso luogo, e anche gli assenti diano il loro voto ed esprimano il loro consenso per iscritto – e poi procedere all’ordinazione. La piena autorità su ciò che venga fatto è datain ogni provincia al metropolita.

Sulle immagini, l’umanità di Cristo e la tradizione della Chiesa

605. Ammettiamo le immagini venerabili; chi non le giudica tali, lo sottoponiamo all’anatema.

606. Se qualcuno non confessa che Cristo nostro Dio sia circoscritto secondo l’umanità, che sia anatema…

607.

Se qualcuno non ammette le presentazioni del Vangelo fatte con immagini, sia anatema…

608. Se qualcuno non saluta queste immagini, fatte nel nome del Signore e dei suoi santi, sia anatema.

609. Se qualcuno rifiuta tutta la tradizione scritta o non scritta della Chiesa, sia anatema…

Lettera “Si tamen licet” ai Vescovi di Spagna, tra il 793 e il 794.

L’eresia dell’adozionismo

610. La giustificazione addotta per l’eresia dell’adozione di Gesù Cristo, il Figlio di Dio, deve essere respinta come altre cose, perché si basa su argomenti falsi; in essa si può leggere la zizzania delle parole eretiche da una penna disordinata. Questo la Chiesa cattolica non l’ha mai creduto, non l’ha mai insegnato e non ha mai acconsentito a coloro che l’hanno creduto falsamente.

611. Infatti, egli stesso (Cristo) ha reso noto, a proposito di se stesso, di chi è Figlio, quando ha detto di aver proclamato agli uomini il nome del Padre. Egli dice: “Ho rivelato il tuo Nome agli uomini che mi hai dato dal mondo” Gv XVII,6 . Il Nome del Padre è stato fatto conoscere una volta agli uomini quando si è fatto conoscere come il vero Figlio, non putativo, proprio e non adottivo. Ma è necessario notare che si dice: “agli uomini che mi hai dato”. Di quegli uomini, infatti, che il Padre gli aveva dato e che aveva eletto prima della costituzione del mondo, non fanno parte coloro che lo confessano come figlio adottivo e non come Figlio suo, come se per un momento fosse stato estraneo al Padre o si fosse allontanato da Lui prendendo carne, mentre era un’unica volontà del Padre e del Figlio che il Verbo si facesse carne, come sta scritto: “Fa’ che io faccia la tua volontà; Dio mio, io l’ho voluta” Sal XXXIX, 9. Per questo dice altrove: “Salgo al Padre mio e Padre vostro” Gv XX, 17. Dice proprio “mio” e “vostro”, cioè suo non per grazia ma per natura, ma nostro per grazia di adozione. Inoltre, il Figlio non è mai stato, perché il Padre non è mai stato. Sempre e ovunque lo chiama espressamente suo Padre. Il Padre mio – dice – opera fino ad ora e anch’io opero” (Gv V, 17); e ancora: “Padre, glorifica il tuo Figlio, affinché il tuo Figlio glorifichi te” (Gv XVII, 1), e: “Quello che il Padre mio mi ha dato è più grande di tutte le cose” (Gv X, 29). – Ma se nelle loro astute prevaricazioni pensano che tutto ciò che abbiamo esposto sia da riferire solo alla divinità del Figlio di Dio, dicano dove Egli ha mai detto con un sentimento comune a noi “Padre nostro”. “Il Padre vostro – dice – sa di cosa avete bisogno”. Non dice “nostro”, come se fosse stato adottato con noi per grazia. E altrove: “Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt V, 48). Perché non ha detto “nostro”? Perché Egli è altrimenti nostro ed altrimenti suo. Poi dice ancora: “Se voi, che siete cattivi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà uno spirito buono a coloro che lo pregano? “Lc XI, 13 ecc. Poi Paolo, il vaso scelto, dice: “Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi”, Rm VIII, 32. Sappiamo infatti che non è stato consegnato secondo la divinità, ma secondo il suo essere vero uomo.

Concilio di Francoforte (sul Meno), intorno al giugno 794.

a) Lettera sinodale dei Vescovi del regno dei Franchi ai vescovi di Spagna.

612. .. Infatti, all’inizio della vostra lettera troviamo scritto che affermate: “Confessiamo e crediamo che Dio, il Figlio di Dio, sia stato generato dal Padre prima di tutti i secoli e senza inizio, coeterno e consustanziale, non per adozione ma secondo la discendenza”. Allo stesso modo, nello stesso luogo leggiamo: “Confessiamo e crediamo che, fatto da donna, fatto sotto la legge, Gal IV,4, non è Figlio di Dio per discendenza ma per adozione, non per natura ma per grazia. Questo è il serpente che si nasconde tra gli alberi da frutto del paradiso per ingannare tutti gli incauti…”.

613. Allo stesso modo, ciò che avete aggiunto di seguito, non lo abbiamo trovato affermato nella professione di fede del simbolo niceno: “in Cristo due nature e tre sostanze” Lettera “regi regum” all’Imperatore Costantino IV intorno all’agosto 682 e “uomo deificato” e “Dio umanizzato“. Qual è la natura dell’uomo, se non l’anima e il corpo? O qual è la differenza tra “natura” e “sostanza”, per cui dovremmo parlare di tre sostanze e non semplicemente, come dicono i santi Padri, confessare nostro Signore Gesù Cristo vero Dio e vero uomo in una sola Persona? Ma la persona del Figlio è rimasta nella Santa Trinità; a questa Persona è stata unita la natura umana, così che c’è una sola Persona, Dio e uomo, non un uomo divinizzato e un Dio umanizzato, ma Dio uomo e l’uomo Dio: per l’unità della Persona, un solo Figlio di Dio, e lo stesso Figlio dell’uomo, Dio perfetto, uomo perfetto. L’uomo è perfetto solo con l’anima e il corpo…; né neghiamo che in Cristo siano realmente presenti questi tre elementi, cioè la divinità, l’anima e il corpo. Ma poiché Egli è veramente chiamato Dio e uomo, nel nome “Dio” è designato tutto ciò che è di Dio, e in quello di “uomo” è compreso tutto ciò che è uomo. Perciò è sufficiente confessare in Lui l’uno e l’altro: la perfetta sostanza della divinità e la perfetta sostanza dell’umanità… L’uso ecclesiastico è di nominare in Cristo due sostanze, quella di Dio e quella di uomo….

614. Se dunque è vero Dio colui che è nato dalla Vergine, come può essere figlio adottivo o schiavo? Infatti non osate confessare Dio come schiavo o come figlio adottivo; e anche se il profeta lo chiamò schiavo, non fu per la condizione di servitù, ma per l’obbedienza dell’umiltà con cui divenne per il Padre “obbediente fino alla morte”.

b) Capitolare del Concilio.

Condanna degli adozionisti.

615. Can. 1… All’inizio dei capitoli l’empia e blasfema eresia dei vescovi Elifandro di Toledo e Felice di Urgel e dei loro seguaci, che nel loro falso pensiero affermavano per il Figlio di Dio un’adozione: cosa che tutti i suddetti santissimi Padri con una sola voce contraddissero e respingessero, e decisero che questa eresia dovesse essere estirpata del tutto dalla santa Chiesa.

LEONE III: 27 dicembre 795-12 giugno 816

Concilio del Friuli, 796 o 797: professione di fede. Symbolo.

La Trinità divina.

616. (Dopo il Simbolo di Costantinopoli segue questo): Ma la santa Trinità, perfetta, inseparabile, ineffabile e vera, cioè il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, la confesso senza divisione nell’unità della natura, perché Dio è trino e uno; cioè trino per la distinzione delle Persone, uno per la sostanza inseparabile della Divinità. Crediamo, quindi, che queste tre Persone… non siano solo in apparenza o come ipotizzato, ma vere, sussistenti, coeterne, coeguali e consustanziali…

617. Il Padre, vero Dio, è veramente e propriamente Padre, che da Se stesso, cioè dalla sua sostanza, ha generato il vero Figlio fuori dal tempo e senza inizio, coeterno, consustanziale e coeguale con Lui. E il Figlio, vero Dio, è veramente e propriamente Figlio, che è stato generato dal Padre in tutti i secoli… E mai il Padre fu senza il Figlio, né il Figlio senza il Padre. … – E lo Spirito Santo, vero Dio, è veramente e propriamente lo Spirito Santo: non generato né creato, ma procedente dal tempo e inseparabile dal Padre e dal Figlio. Era, è e sarà sempre consustanziale, coeterno e uguale al Padre e al Figlio. E mai il Padre o il Figlio sono stati senza lo Spirito Santo, né lo Spirito Santo senza il Padre e il Figlio.

618. Perciò le opere della Trinità sono sempre inseparabili, e nella Trinità non c’è nulla di diverso, dissimile o disuguale; nulla è diviso nella natura, nulla è confuso nelle Persone, nulla è maggiore o minore, nulla è prima o dopo, nulla è superiore; ma una sola e medesima potenza, una sola e medesima maestà, per sempre coeterna e consustanziale….

Cristo, Figlio di Dio per natura, non per adozione.

619. Ma di questa ineffabile Trinità, solo la Persona del Verbo, cioè del Figlio… è scesa dal cielo da cui non si è mai allontanata. Si è incarnato per mezzo dello Spirito Santo e si è fatto vero uomo dalla sempre vergine Maria, e rimane vero Dio. E la nascita umana e temporale non ha pregiudicato questa nascita senza tempo, ma il vero Figlio di Dio e il vero Figlio dell’uomo sono nell’unica Persona di Cristo Gesù; Egli non è: altro che è Figlio dell’uomo e altro che è Figlio di Dio, ma uno e lo stesso è Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, in entrambe le nature, quella divina e quella umana, vero Dio e vero uomo; non è un Figlio di Dio putativo, ma vero; non un figlio adottivo, ma il suo stesso Figlio, perché mai la natura umana che ha assunto lo ha allontanato dal Padre. Perché solo Lui è nato senza peccato, perché solo Lui si è incarnato, uomo nuovo, dallo Spirito Santo e dalla Vergine immacolata. Egli è consustanziale a Dio Padre nella sua natura, cioè divina; consustanziale anche alla madre, senza macchia di peccato, nella nostra natura, cioè umana. Perciò confessiamo che in ciascuna delle due nature Egli sia Figlio di Dio e non figlio adottivo, perché, senza confusione e senza separazione, avendo assunto la natura umana, uno e lo stesso è Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. È Figlio del Padre per natura secondo la divinità, e Figlio della madre per natura secondo l’umanità, ma propriamente Figlio del Padre in entrambi.

PASQUALE I: 25 gennaio 817 – 11 febbraio 824.

EUGENIO II: febbraio – maggio 824 – agosto 827

VALENTINO: agosto – settembre 827

GREGORIO IV: settembre (?)827 – gennaio 844

SERGIO II : gennaio 844 – 27 gennaio 847

LEONE IV : 10 aprile 847 – 17 luglio 855

Concilio di Pavia, 850.

Il Sacramento dell’unzione degli infermi.

620. (8) Anche questo salutare Sacramento, che l’Apostolo Giacomo raccomanda dicendo: “Se qualcuno di voi è malato?… gli sarà perdonato” (Giacomo V, 14), deve essere fatto conoscere al popolo con un’abile predicazione: si tratta infatti di un mistero grande e desiderabilissimo, con il quale, se viene chiesto con fede, il peccato viene perdonato e di conseguenza anche la salute corporale viene ristabilita… Ma bisogna sapere che se l’ammalato si dà alla penitenza pubblica, non può ricevere il rimedio di questo mistero, se prima non abbia ottenuto la riconciliazione e non ha potuto ricevere il corpo e il sangue di Cristo. Infatti, a colui al quale sono proibiti gli altri Sacramenti, non sarà in nessun caso permesso di usare questo.

Concilio di Quierzy, maggio 853

Libero arbitrio e predestinazione dell’uomo.

621. Cap. 1. Dio onnipotente creò l’uomo integro, senza peccato e dotato di libero arbitrio, e lo pose in Paradiso, con l’intenzione di farlo dimorare nella santità della giustizia. L’uomo, avendo abusato del suo libero arbitrio, peccò e cadde, e divenne “una massa di perdizione” (Sant’Agostino), di tutto il genere umano. Ma Dio, buono e giusto, ha scelto da questa massa di perdizione, secondo la sua prescienza, quelli che ha predestinato per grazia (Rm VIII, 29; Eph I, 11) alla vita, e li ha predestinati alla vita eterna; gli altri, quelli che il giudizio della sua giustizia ha innalzato nella massa di perdizione, sapeva in anticipo che si sarebbero persi, ma non li ha predestinati alla perdizione; tuttavia, li ha predestinati ad un castigo eterno, perché è giusto. E per questo si parla di un’unica predestinazione, che ha a che fare o con il dono della grazia o con il castigo della giustizia.

622. Cap. 2. Abbiamo perso il libero arbitrio nel primo uomo, e lo abbiamo ricevuto per mezzo di Cristo nostro Signore, e il libero arbitrio lo abbiamo per il bene, aiutato dalla grazia, e il libero arbitrio lo abbiamo per il male, abbandonati dalla grazia. Ma il libero arbitrio lo abbiamo, perché è liberato dalla grazia e guarito dalla corruzione per mezzo della grazia.

623. Cap. 3. Dio onnipotente vuole che “tutti gli uomini”, senza eccezione, “siano salvati” (1 Tm II, 4), anche se non tutti sono salvati. Il fatto che alcuni si salvino è un dono di Colui che salva; il fatto che alcuni si perdano è la retribuzione di coloro che si perdono.

624. Cap. 4. Come non c’è stato, non c’è e non ci sarà nessun uomo la cui natura non sia stata assunta in Cristo Gesù nostro Signore, così non c’è, non c’è stato e non ci sarà nessun uomo per il quale Egli non abbia sofferto, anche se non tutti sono redenti dal mistero della sua Passione. Il fatto che non tutti siano redenti dal mistero della sua Passione non riguarda la grandezza o l’abbondanza della Redenzione, ma la parte degli infedeli e di coloro che non credono in quella fede che “opera per mezzo della carità”, (Gal V, 6); perché il calice della salvezza degli uomini, composto dalla nostra debolezza e dalla potenza divina, contiene ciò che è utile per tutti; ma se non si beve da esso, non si è guariti.

Concilio di Valencia, 8 gennaio 855.

Predestinazione.

625. Can. 1… Evitiamo, con ogni sforzo, nuove espressioni e discorsi presuntuosi che possono avere più effetto nell’accendere la brace delle dispute e degli scandali tra i fratelli che nell’apportare qualsiasi edificazione nel timore di Dio. Tuttavia, senza esitare, ascoltiamo con riverenza e sottomettiamo le nostre menti con obbedienza a quei maestri che trattano la parola di verità in modo pio e giusto, e a coloro che hanno spiegato le Sacre Scritture in modo particolarmente luminoso, cioè a Cipriano, Ilario, Ambrogio, Girolamo, Agostino e altri che riposano nella pietà cattolica, e con tutte le nostre forze abbracciamo ciò che hanno scritto per la nostra salvezza. Infatti, sul tema della prescienza di Dio e della predestinazione, e su altre questioni per le quali è apparso che i fratelli abbiano provato non poco scandalo, riteniamo di dover tenere ben fermo solo ciò che per la nostra gioia abbiamo tratto dal grembo materno della Chiesa.

626. Can. 2. Noi riteniamo fedelmente che “Dio conosca ed abbia conosciuto in anticipo da tutta l’eternità sia il bene che il bene avrebbe fatto, sia il male che il male avrebbe commesso”, perché abbiamo la parola della Scrittura che dice: “Dio eterno che conosce le cose nascoste, che conosce tutte le cose prima che siano”; e ci compiacciamo di ritenere che “sapeva in anticipo, in modo assoluto, che i buoni sarebbero stati buoni per la sua grazia, e che avrebbero ricevuto per questa stessa grazia la ricompensa eterna; e sapeva in anticipo che i malvagi sarebbero stati malvagi per la loro stessa malvagità, e che sarebbero stati condannati dalla sua giustizia alla pena eterna”; come secondo il Salmista: “Perché Dio ha potenza e il Signore ha misericordia, che dà a ciascuno secondo le sue opere” (Sal. LXI, 12ss.), e come nella dottrina apostolica: “A coloro che con la perseveranza nel bene cercano la gloria, l’onore e l’incorruttibilità, la vita eterna; ma a coloro che per ribellione non aderiscono alla verità, riponendo la loro fiducia nell’iniquità, ira e sdegno, tribolazione e angoscia per ogni anima umana che commette il male” (Rm II, 7-10). Nello stesso senso lo stesso dice altrove: “Nella rivelazione del Signore nostro Gesù Cristo dal cielo con gli angeli della sua potenza, che si vendicherà con fuoco ardente di coloro che non conoscono Dio e non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, i quali subiranno la pena eterna nella rovina,… quando verrà per essere glorificato nei suoi santi e per essere ammirato in tutti coloro che credono” (2Ts I,7-10).

627. Inoltre, la prescienza di Dio non ha imposto a nessun malvagio una necessità che gli avrebbe impedito di essere altro, ma ciò che sarebbe stato per sua volontà, in quanto Dio che conosce tutte le cose prima che siano, lo sapeva in anticipo a motivo della sua onnipotente ed immutabile maestà. “Né crediamo che qualcuno sia condannato a causa di un giudizio che egli (Dio) ha emesso in anticipo, ma a causa della propria iniquità. E questi malvagi non periscono perché non hanno potuto essere buoni, ma perché non hanno voluto esserlo e con il loro vizio sono rimasti nella massa della dannazione, o per demerito originario o anche per demerito attuale”.

628. Can. 3. Anche sul tema della predestinazione abbiamo deciso, e lo manteniamo fedelmente, secondo l’Autorità Apostolica che dice: “Il vasaio non ha forse il potere di fare della stessa pasta un vaso destinato ad essere un vaso nobile e un altro destinato ad un uso ignobile? ” (Rm IX, 21), aggiungendo subito: “Se dunque Dio, volendo mostrare la sua ira e manifestare la sua potenza, sopportò con grande pazienza i vasi d’ira pronti o preparati per la perdizione, per mostrare le ricchezze della sua grazia nei vasi di misericordia che ha preparato per la gloria” (Rm IX, 22 ss.). Affermiamo con fiducia la predestinazione degli eletti alla vita e la predestinazione degli empi alla morte; nell’elezione di coloro che devono essere salvati, tuttavia, la misericordia di Dio precede il merito, mentre nella dannazione di coloro che devono perire, il demerito precede il giusto giudizio di Dio. “Con la predestinazione Dio ha determinato solo ciò che Egli stesso avrebbe fatto o con la misericordia gratuita o con il giusto giudizio”, secondo la Scrittura, che dice: “Egli ha fatto ciò che sarà”, (Isaia XLV:11; Sept.); nei malvagi, tuttavia, Egli conosceva in anticipo la loro malvagità, perché proveniva da loro; non l’ha predestinata, perché non proveniva da Lui.

629. Ma il castigo che segue il loro demerito, come Dio che vede tutte le cose in anticipo, lo conosceva e lo destinava in anticipo, perché è giusto, Colui presso il quale, come dice Sant’Agostino, c’è sia un giudizio fisso che una certa prescienza per ogni cosa. A questo corrisponde la parola del Saggio: “I giudizi sono preparati per gli schernitori e le mazze che colpiscono per i corpi degli stolti” (Pr XIX, 29). Da questa immutabilità della prescienza e della predestinazione di Dio, per cui le cose future sono già avvenute ai suoi occhi, si possono comprendere anche le parole dell’Ecclesiaste: “Ho visto che tutte le opere che Dio ha fatto rimangono per sempre”. Non si può aggiungere né togliere nulla a ciò che Dio ha fatto, perché sia temuto” (Qo III, 14). Ma che ci siano uomini predestinati al male dalla potenza divina”, in modo che, per così dire, non possano essere altro, “non solo non lo crediamo, ma se c’è qualcuno che vuole credere una cosa così malvagia, con tutta la nostra detestazione”, come anche il Concilio di Orange, “gli diciamo: anatema”.

630. Cap. 4. Anche riguardo alla Redenzione per mezzo del Sangue di Cristo: a causa del grandissimo errore che è sorto su questo argomento, tanto che alcuni, come indicano i loro scritti, definiscono che sia stato versato anche per quegli empi che, dall’inizio del mondo fino alla Passione del Signore, sono morti nella loro empietà e sono stati puniti con la dannazione eterna, e che contro questa parola profetica: “Io sarò la tua morte, o morte, io sarò il tuo flagello, nel ferro” (Os XIII, 14), abbiamo deciso che dobbiamo semplicemente e fedelmente ritenere e insegnare secondo la verità del Vangelo e degli Apostoli che dobbiamo ritenere che questo premio sia stato dato solo per coloro di cui nostro Signore stesso dice: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna” (Gv III, 14-16), e l’Apostolo dice: “Cristo è stato offerto una volta per tutte per togliere i peccati di molti” (Eb IX, 28).

631. Per quanto riguarda i quattro capitoli che sono stati imprudentemente accettati dal consiglio dei nostri fratelli, a causa della loro inutilità e persino dannosità, e dell’errore contrario alla verità; ma anche gli altri) – diciannove capitoli, frutto di un ragionamento inetto e che – anche se se ne vantano – non sono sostenuti da alcuna erudizione secolare, in cui si trova più un’invenzione del diavolo che un qualsiasi argomento di fede: le sottraiamo completamente all’ascolto devoto dei fedeli e, affinché siano preservati in tutto da queste e simili cose, le proibiamo con l’autorità dello Spirito Santo; riteniamo inoltre che coloro che introducono novità debbano essere castigati per non essere colpiti ancora più duramente.

632. Allo stesso modo riteniamo che sia necessario affermare con molta fermezza che tutta la moltitudine dei fedeli che sono stati rigenerati “con acqua e Spirito Santo” (Gv III, 5), che sono stati così realmente incorporati nella Chiesa e, secondo la dottrina apostolica, battezzati nella morte di Cristo (Rm VI, 3), sono stati lavati dai loro peccati nel suo sangue; Perché non ci sarebbe stata in loro una vera rigenerazione se non ci fosse stata anche una vera Redenzione; perché nei Sacramenti della Chiesa non c’è nulla di vano, nulla di ingannevole, ma tutto è vero e sostenuto dalla sua verità e sincerità. Tuttavia, di questa stessa moltitudine di fedeli e di redenti, alcuni si salvano con la salvezza eterna, perché per grazia di Dio sono rimasti fedeli alla sua Redenzione, portando nel cuore la parola del Signore stesso: “Chi persevererà fino alla fine sarà salvo (Matt. X, 22. XXIV, 13). Gli altri, che non hanno voluto rimanere nella salvezza della fede ricevuta all’inizio, e che hanno preferito cancellare la grazia della Redenzione con una dottrina od una vita depravata piuttosto che conservarla, non raggiungono in alcun modo la pienezza della salvezza e il conseguimento della beatitudine eterna. Rm VI, 3 Gal III, 27 Eb X, 22 Eb. 22 sgg. 26, 28 segg..)

633. Cap. 6. Allo stesso modo, riguardo alla grazia per la quale coloro che credono sono salvati, e senza la quale la creatura ragionevole non è mai vissuta in modo beato, e riguardo al libero arbitrio ferito dal peccato nel primo uomo, ma restaurato e guarito dalla grazia del Signore Gesù, confessiamo nel modo più fermo e con piena fede quella stessa cosa che i santi Padri, con l’autorità delle sante Scritture, ci hanno insegnato a ritenere, ciò che hanno professato il Concilio africano (222) e il Concilio di Orange (370-397), ciò che hanno sostenuto i beatissimi Pontefici della Sede Apostolica (238-249) per la fede cattolica, e anche per quanto riguarda la natura e la grazia non ci permettiamo in alcun modo di andare in un’altra direzione. Per quanto riguarda le argomentazioni insensate ed i pettegolezzi delle donne anziane (1Tm IV, 7) e la poltiglia dei seguaci di Scoto, – che ripugnano in modo nauseante alla purezza della fede in ciò che in questi tempi pericolosi e difficili e, per aumentare ulteriormente il nostro lavoro, è aumentata in modo miserabile e deplorevole fino a spezzare la carità – la rifiutiamo completamente affinché le menti cristiane non siano corrotte da essa e non si allontanino dalla semplicità e dalla purezza della fede che è in Cristo Gesù (2Co XI, 3) e nella carità di Cristo esortiamo la carità fraterna a frenare il suo udito guardandosi da tali cose.

BENEDETTO III: luglio 855-17 aprile 858.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (14) “da NICCOLÓ I a LEONE IX”