CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: MAGGIO 2023

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: MAGGIO 2023

[Abbiamo non solo il diritto, ma il vero e proprio obbligo di onorare la Vergine Maria. Questo è dimostrato nel modo più chiaro dal testamento di Cristo. Il Venerdì Santo è il giorno più importante della storia universale. Cristo è inchiodato sulla croce e Maria gli è vicina, perché dove Cristo soffre, sua Madre è lì con Lui. È stata Lei a portarlo nel mondo. Ha voluto essere presente anche alla sua morte. Non è possibile leggere senza emozione il Vangelo di San Giovanni quando si riferisce alle parole pronunciate dal Signore dalla croce: “Donna, ecco tuo figlio! Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre”. E da quel momento il discepolo la prese come madre” (Gv XIX, 26-27). Ecco il testamento del Signore: Madre, sii una madre protettrice, patrona degli uomini, per i quali ho dato il mio sangue e la mia vita; guarda tuo figlio. Figlio, ecco hai tua madre. Lei non è la tua regina, non è la tua imperatrice…, non è mia madre…, no, è tua madre. – E allora, se ci viene chiesto con quali titoli onoriamo la Vergine Maria, in quale passaggio Cristo abbia comandato il suo culto, la nostra risposta è questa: è qui che lo ha comandato. Quando disse a San Giovanni, e in lui a tutti noi: “Ecco tua madre”. Da quel momento Maria è la nostra Madre celeste. E da quel momento il canto sulle labbra degli uomini non cessa mai. – Ecco i fondamenti dogmatici del nostro culto di Maria. Maria non ha perso il suo potere di Madre di Dio, nemmeno nei cieli, al contrario, lì anzi lo esercita in modo ancora più efficace. La Madre di Dio deve avere, in un certo senso, un ascendente su Dio, nel senso che Dio ascolta le sue preghiere con piacere. Maria prega, intercede incessantemente per noi, perché siamo tutti fratelli e sorelle di Cristo, e quindi siamo anche figli di Maria. E il suo Figlio divino ha affidato tutti noi alla sua cura e alla sua protezione. Che gioia sapere che abbiamo in cielo una Madre di bontà, una potente Protettrice, sempre pronta a prendere nelle sue mani i nostri affari e presentare le nostre suppliche al suo Divino Figlio!]

(Toth Tihamer: La Vergine Maria – 1953)

PIA EXERCITIA

325

Fidelibus, qui mense maio pio exercitio in honorem beatæ Mariæ Virginis publice peracto devote interfuerint, conceditur:

Indulgentia septem annorum quolibet mensis die:

Indulgentia plenaria, si diebus saltem decem huiusmodi exercitio vacaverint et præterea sacramentalem confessionem instituerint, ad sacram Synaxim accesserint et ad mentem Summi Pontificis oraverint.

Iis vero, qui præfato mense preces vel alia pietatis obsequia beatæ Mariæ Virgini privatim præstiterint, conceditur: Indulgentia quinque annorum semel, quolibet mensis die;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem idem obsequium peregerint; at ubi pium exercitium publice habetur, huiusmodi indulgentia ab iis tantum acquiri potest, qui legitimo detineantur impedimento quominus exercitio publico intersint (Secret. Mem. 21 mart, 1815; S. C. Indulg., 18 iun. 1822; S. Pænit. Ap., 28 mart. 1933).

[Ai fedeli che praticheranno un pio esercizio in onore della Beata Vergine Maria, si concedono 7 anni (se in pubblico) o 5 anni (se in privato) di indulgenza per ogni giorno del mese, e indulgenza plenaria s. c. se praticato per almeno 10 giorni]

CANTICUM, HYMNI ET ANTIPHONAE

320

Magnificat anima mea Dominum:

Et exsultavit spiritus meus in Deo salutari meo.

Quia respexit humilitatem ancillæ suæ: ecce

enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes.

Quia fecit mihi magna qui potens est: et sanctum nomen eius.

Et misericordia eius a progenie in progenie timentibus eum.

Fecit potentiam in brachio suo: dispersit superbo mente cordis sui.

Deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles.

Esurientes implevit bonis: et divites dimisit inanes.

Suscepit Israel puerum suum, recordatus misericordia è suæ.

Sicut locutus est ad patres nostros, Abraham et semini eius in sæcula.

(Luc., I, 46).

Indulgentia trium annorum.

Indulgentia quinque annorum, si canticum in festo Visitationis B. M. V. vel quolibet anni sabbato recitatum fuerit.

(5 anni nella festa della Visitazione e in qualsiasi sabato dell’anno)

Indulgentia plenaria s. c.  

(20 sept. 1879 et 22 febr. 1888; S. Paen. Ap., 18 febr. 1936 et 12 apr. 1940).

321

Ave maris stella, Dei Mater alma,

Atque semper Virgo, Felix caeli porta.

Sumens illud Ave Gabrielis ore,

Funda nos in pace Mutans Hevæ nomen.

Solve vincla reis, Profer lumen caecis,

Mala nostra pelle, Bona cuncta posce.

Monstra te esse matrem, Sumat per te preces

Qui pro nobis natus Tulit esse tuus.

Virgo singularis, Inter omnes mitis,

Nos culpis solutos Mites fac et castos.

Vitam præsta puram, Iter para tutum,

Ut videntes Iesum Semper collætemur.

Sit laus Deo Patri, Summo Christo decus,

Spiritui Sancto, Tribus honor unus. Amen.

Indulgentia trium annorum.

Indulgentia plenaria s. c. per un mese.

(S. C. Indulg., 27 ian. 1888; S. Pæn. Ap ., 27 mart. 1935).

322

O gloriosa Virginum, Sublimis inter sidera,

Qui te creavit, parvulum. Lactente nutris ubere.

Quod Heva tristis abstulit, Tu reddis almo germine:

Intrent ut astra flebiles, Cæli recludis cardines.

Tu regis alti ianua, Et aula lucis fulgida:

Vitam datam per Virginem Gentes redemptæ plaudite.

Iesu, tibi sit gloria, Qui natus es de Virgine,

Cum Patre et almo Spiritu, In sempiterna sæcula. Amen.

( e x Brev. Rom.).

Indulgentia trium annorum.

Indulgentia plenaria s. c. per un mese.

(S . Pæn. Ap., 22 nov. 1934).

323

Alma Redemptoris Mater,

quæ pervia cæli Porta manes, et stella maris, succurre cadenti,

Surgere, qui curat, populo: tu quæ genuisti,

Natura mirante, tuum sanctum Genitorem,

Virgo prius ac posterius, Gabrielis ab ore Sumens illud Ave, peccatorum miserere.

(ex Brev. Rom.).

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria, s. c. per l’intero mese

(S. Pæn. Ap., 15 febr. 1941).

QUESTE SONO LE FESTE del mese di MAGGIO 2023

1 Maggio S. Joseph Opificis    Duplex I. classis *L1

2 Maggio S. Athanasii Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

3 Maggio Inventione Sanctæ Crucis    Duplex II. classis *L1*

4 Maggio S. Monicæ Viduæ    Duplex

5 Maggio S. Pii V Papæ et Confessoris    Duplex m.t.v.

6 Maggio S. Joannis Apostoli ante Portam Latinam    Duplex majus *L1*

7 Maggio Dominica IV Post Pascha    Semiduplex Dominica minor *I*

                 S. Stanislai Episcopi et Martyris    Duplex

8 Maggio In Apparitione S. Michaëlis Archangeli    Duplex majus *L1*

9 Maggio S. Gregorii Nazianzeni Ep. Confessoris et Ecclesiæ Doctoris – Duplex

10 Maggio S. Antonini Episcopi et Confessoris    Duplex m.t.v.

11 Maggio Ss. Philippi et Jacobi Apostolorum    Duplex II. classis *L1*

12 Maggio Ss. Nerei, Achillei et Domitillæ Virg.

atque Pancratii Martyrum    Semiduplex

13 Maggio S. Roberti Bellarmino Ep Confessoris et Eccl. Doctoris – Duplex m.t.v.

14 Maggio S. Bonifatii Martyris    Simplex

15 Maggio S. Joannis Baptistæ de la Salle Confessoris    Duplex m.t.v.

                     Feria Secunda in Rogationibus   

16 Maggio S. Ubaldi Episcopi et Confessoris    Semiduplex

                     Feria Tertia in Rogationibus   

17 Maggio S. Paschalis Baylon Confessoris    Duplex

                      Feria Quarta in Rogationibus in Vigilia Ascensionis   

18 Maggio In Ascensione Domini    Duplex I. classis *I*

19 Maggio S. Petri Celestini Papæ et Confessoris    Duplex

20 Maggio S. Bernardini Senensis Confessoris    Semiduplex

21 Maggio Dominica infra Octavam Ascensionis  Semiduplex Dominica minor *I*

22 Maggio Feria II infra Octavam Ascensionis    Ferial

23 Maggio Feria III infra Octavam Ascensionis    Ferial

24 MaggioFeria IV infra Octavam Ascensionis    Ferial *I*

25 Maggio Octavæ Ascensionis    Duplex majus

                   S. Gregorii VII Papæ et Confessoris    Duplex

26 Maggio Feria VI post Octavam Ascensionis    Semiduplex *I*

                   S. Philippi Neri Confessoris    Duplex

27 Maggio Sabbato in Vigilia Pentecostes    Feria privilegiata *I*

                  S. Bedæ Venerabilis Confessoris et Ecclesiæ Doctoris   

28 Maggio Dominica Pentecostes    Duplex I. classis

29 Maggio Die II infra octavam Pentecostes    Duplex I. classis

30 Maggio Die III infra octavam Pentecostes    Duplex I. classis

31 Maggio Beatæ Mariæ Virginis Reginæ  Semiduplex

                  Feria Quarta Quattuor Temporum Pentecostes    Semiduplex

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – “MILITANTES ECCLESIAE”

L’odierna Lettera Enciclica è il compendio di una vigorosa dottrina circa l’educazione dei giovani Cristiani, lievito vivo dei popoli, affidata alle cure e alla sapienza di maestri solidamente Cristiani e fortemente legati ai valori più autentici della dottrina cattolica. La Lettera trae spunto dal centenario della morte di S. Pietro Canisio, splendido modello e faro di sapienza dottrinale cattolica, figura gigantesca che sostenne nella sua gloriosa Compagnia, la rinascita spirituale e culturale della Germania, infestata all’epoca dalla peste e dal veleno ereticale (come del resto lo è ancor più oggi). « … chi, dunque, organizza l’insegnamento in modo tale che non abbia nessun punto di contatto con la Religione, corrompe gli stessi germi del bello e dell’onesto e prepara non un presidio alla patria, ma la peste e la rovina del genere umano. Chi, infatti, tolto di mezzo Dio, potrà ancora trattenere gli adolescenti nel dovere, o ricondurre quelli che hanno deviato dai retti sentieri della virtù e che sono caduti nel baratro dei vizi? È necessario poi che la Religione venga insegnata ai giovani non soltanto in certe ore, ma bisogna che tutta l’educazione sia impregnata del modo di sentire della pietà cristiana. Se questo viene meno, se questo sacro alito non pervade e non scalda l’anima dei docenti e dei discenti, si raccoglieranno pochi frutti dall’insegnamento; e invece ne deriveranno spesso gravi danni. » Queste parole dell’Enciclica andrebbero essere meditate attentamente ed applicate con cura, in particolare oggi in una società in cui i giovani sono dati in pasto a lupi e sciacalli che ne fanno stragi seminando errori ed occultando verità eterne, immutabili e vitali per l’intera società umana, lupi e sciacalli voraci che si annidano soprattutto tra i falsi dottori della falsa chiesa postconciliare e tra i carnevaleschi pseudoreligiosi delle sette sedevacantiste, sedeprivazioniste o “papifallibiliste” degli eredi del massone Lienart e del suo pupillo ingannatore demoniaco, fondatore di una fraternità pseudotradizionalista con cui vengono adescate anime in cerca della vera Chiesa, condannandole all’eterna dannazione.

Militantis Ecclesiæ +
Leone XIII

Lettera Enciclica

III centenario della morte del beato Pietro Canisio
(ora santo)

1 agosto 1897

Il bene della Chiesa militante, e così pure il suo onore, esorta a celebrare più spesso con rito solenne la memoria di coloro che per la loro straordinaria virtù e pietà furono innalzati alla gloria della Chiesa trionfante. Mediante questi segni di onore, infatti, si insinua il ricordo dell’antica santità, cosa sempre opportuna, utilissima poi in questi tempi infausti per la fede e la pietà. E proprio nel presente anno, per la benevolenza della divina provvidenza, è concesso a Noi di rallegrarci per il compiersi del terzo centenario della morte di Pietro Canisio, uomo di eccelsa santità, con l’unico intento di incitare gli animi dei buoni a quelle arti mediante le quali lui stesso venne in aiuto in modo tanto efficace alla società cristiana. Il nostro tempo, infatti, presenta non poche analogie con i tempi nei quali operò il Canisio, quando la bramosia di novità e l’avvento tumultuoso di una cultura più libera furono seguiti dallo smarrimento della fede e dalla decadenza dei costumi. Ad allontanare questa duplice peste da tutti, ma soprattutto dalla gioventù, si adoperò questo apostolo della Germania, secondo dopo Bonifacio, e non solo con opportune predicazioni o con la sottigliezza delle dispute, ma soprattutto con l’istituzione delle scuole e con la stampa di ottimi libri. Avendo seguito i suoi esempi preclari, anche molti altri uomini volonterosi del vostro popolo, usando le medesime armi contro un genere di nemici per nulla grossolano, mai trascurarono, per la difesa e la dignità della Religione, di custodire ogni nobile disciplina e di perseguire con animo ardente ogni esercizio delle arti oneste, con il favore e l’approvazione dei romani Pontefici, che sempre si preoccuparono con grande sollecitudine di custodire l’antica grandezza delle lettere, e di far sì che ogni espressione di umana civiltà ricevesse di giorno in giorno sempre nuovi incrementi. E voi ben sapete, venerabili fratelli, che la cosa che sempre Ci è stata più cara è l’educazione corretta e salutare dell’adolescenza; a questo, per quanto Ci è stato possibile, abbiamo sempre guardato con attenzione. Ora poi utilizziamo volentieri la presente occasione, presentando l’esempio del valoroso condottiero Pietro Canisio agli occhi di coloro che negli accampamenti della Chiesa militano per Cristo, affinché, forti del pensiero che alle armi della giustizia si debbano associare le armi della cultura, possano più energicamente e vittoriosamente servire la causa della Religione. Quanto sia stato gravoso l’impegno assunto da quell’uomo zelantissimo della fede cattolica, appare facilmente a coloro che considerano con attenzione il volto della Germania agli inizi della ribellione luterana. Modificati i costumi, di giorno in giorno sempre più degradati, fu facile il passaggio all’errore; e lo stesso errore poi condusse a maturazione la definitiva rovina dei costumi. Così, a poco a poco, molti si allontanarono dalla fede cattolica; quindi il virus del male si diffuse ampiamente in quasi tutte le province e contaminò uomini di ogni condizione e fortuna, al punto che nella mente di molti si consolidò l’opinione che la causa della Religione in questo regno fosse ormai totalmente perduta, e che non ci fosse ormai più alcun rimedio per curare la malattia. E senza dubbio non ci sarebbe stato più nulla da fare riguardo alle cose supreme, se Dio non fosse intervenuto con efficace soccorso. C’erano ancora in Germania uomini di antica fede, ragguardevoli per la cultura e lo zelo della Religione; c’erano i principi della Casa Bavarese e Austriaca, e soprattutto il re dei romani Ferdinando, primo del suo nome, per i quali era un dato indiscusso la protezione e la difesa con tutte le loro forze della causa cattolica. E Dio donò alla Germania in pericolo un nuovo e di gran lunga il più valido soccorso, la Compagnia di Gesù, nata opportunamente proprio in quella tempesta, e a questa, primo fra i tedeschi, diede il suo nome Pietro Canisio. –  Non dobbiamo qui ora ripercorrere tutti gli aspetti dell’esemplare santità di quest’uomo; con quale impegno si sia preso cura della patria lacerata da dissidi e sedizioni, per ricostituire un comune sentire degli animi e l’antica concordia; con quale ardore abbia combattuto nelle dispute con i maestri dell’errore, con quali discorsi abbia incitato gli animi, quali fastidi abbia sopportato, quante regioni abbia percorso, quante faticose missioni abbia intrapreso per la causa della fede. Prendiamo in considerazione soltanto le armi della cultura; con quale costanza le ha esposte, con quale prudenza, con quale senso di opportunità! Quando ebbe fatto ritorno da Messina, dove si era recato come maestro della parola, subito si impegnò con singolare energia ad insegnare le sacre discipline nelle Università di Colonia, Ingolstadt e Vienna, e seguendovi la via regale della scuola cristiana dei dottori di sicura fama, aprì le menti dei tedeschi alla grandezza della teologia scolastica. Dal momento che in quel tempo i nemici della fede da questa si tenevano lontani con supremo disgusto, poiché su di essa si fondava principalmente la fede cattolica, proprio questo metodo di studio cercò di rimettere pubblicamente in auge nei licei e nei collegi della Compagnia di Gesù, che lui stesso aveva contribuito a realizzare con tanta fatica e lavoro. E lui stesso non si vergognò affatto di calarsi dalla sapienza più alta ai primi elementi degli studi letterari, e di accogliere fanciulli da istruire, scrivendo proprio per loro dei libri di letteratura e delle grammatiche. Contemporaneamente, dalle dimore dei principi, nelle quali teneva le sue orazioni, tornava spesso alle prediche al popolo, al punto che, mentre scriveva le cose più alte, sia in ordine a controversie dottrinali che sui costumi, metteva mano anche alla composizione di opuscoli che rafforzassero la fede del popolo e suscitassero e nutrissero la sua pietà. Degna di grande ammirazione per la sua utilità nel preservare dal laccio dell’errore gli inesperti fu la sua pubblicazione di una Summa della dottrina cattolica, opera densa e concisa, chiarissima nel suo limpido latino, non indegna dello stile dei Padri della Chiesa. A questa splendida Opera, che fu accolta dai dotti in tutti i regni europei con unanime lode, sono inferiori per la mole, ma non per l’utilità, quei due famosissimi Catechismi, scritti da quel santo uomo ad uso degli indotti, uno per istruire sulla Religione i fanciulli, l’altro per istruire su di essa gli adolescenti che si dedicano allo studio delle lettere. Tutti e due, non appena furono pubblicati, conobbero un così grande successo fra i Cattolici, da essere fra le mani di tutti coloro che insegnavano le verità fondamentali della fede cristiana; e non venivano usati soltanto nelle scuole, quasi come latte da sorbirsi dai fanciulli, ma venivano pubblicamente spiegati per l’utilità di tutti nelle chiese. È successo così che il Canisio per trecento anni è stato considerato il maestro comune dei Cattolici di Germania, al punto che nella coscienza del popolo queste due affermazioni avevano lo stesso significato, conoscere il Canisio, e tenere saldamente la verità cristiana. – Questi scritti del nostro Santo indicano chiaramente a tutti i buoni la via da seguire. Sappiamo poi, venerabili fratelli, che questa gloria della vostra gente è magnifica: usatela con sapienza e in modo felice per promuovere con intelligenza e passione l’onore della patria e per conseguire il bene privato e pubblico. In verità è del massimo interesse che chiunque fra di voi è sapiente e buono, si adoperi con forza a favore della Religione; diriga al suo decoro e difesa ogni luce della mente e tutte le risorse delle scienze letterarie; e con il medesimo proposito, colga subito e si impadronisca con la conoscenza di qualsiasi cosa che in ogni ambito porti al bene, sia con l’incremento delle arti che della cultura. Infatti, se mai vi fu un tempo in cui, per la difesa del Cattolicesimo, fosse richiesto in modo speciale una grande cultura e una grande erudizione, questo è proprio il nostro tempo, nel quale un più rapido progresso in ogni campo della cultura umana, offre talvolta ai nemici del nome Cristiano lo spunto per combattere la fede. Per respingere l’attacco di costoro, bisogna far ricorso a forze di pari valore; occupare per primi le posizioni e strappare dalle loro mani le armi con le quali si sforzano di spezzare ogni legame fra le cose divine e quelle umane. I Cattolici interiormente così preparati e a dovere formati, potranno facilmente dimostrare che la fede divina non solo non si contrappone alla cultura umana, ma è anzi di questa come il coronamento e il fastigio. Anche in quelle cose in cui maggiore sembra essere la distanza, o in cui sembra esservi opposizione, la fede può molto facilmente accordarsi con la filosofia e ad essa associarsi, al punto di illuminarsi l’una con l’altra in modo sempre più grande; la natura non è nemica, ma compagna e ancella della Religione. Con il suo aiuto non solo tutte le conoscenze si arricchiscono, ma le lettere e tutte le arti ricevono maggiore vigore e vitalità. Quanto poi pervenga alle sacre dottrine di ornamento e di dignità dalle discipline profane, lo può facilmente comprendere chi ben conosce la natura umana, incline a tutto ciò che colpisce piacevolmente i sensi. Perciò, presso i popoli che eccellono sugli altri per la loro cultura, a stento si presta una qualche fiducia ad una sapienza rozza, e soprattutto i dotti non prestano attenzione a quelle cose che non si accompagnino ad una forma bella ed elegante. Ora noi siamo debitori ai dotti non meno che agli ignoranti: dobbiamo stare con i primi nel combattimento, dobbiamo sostenere questi ultimi quando vacillano e rafforzarli. E’ qui in verità il campo si aprì davanti alla Chiesa con estrema larghezza. Infatti, appena essa riprese vigore dopo le lunghe persecuzioni, vi furono uomini di grande dottrina che con il loro ingegno e la loro scienza illustrarono quella fede che per l’innanzi uomini di grande coraggio avevano suggellato con il loro sangue. In questa lode per primi operarono concordi i Padri, e lo fecero con tale vigore, che non potrà mai esserci nulla di più valido; e lo fecero il più delle volte con espressione dotta, degna delle orecchie dei romani e dei greci, Spronati quasi come da aculei dalla dottrina e dall’eloquenza di costoro, molti in seguito si gettarono con tutte le loro forze nello studio delle sacre verità, e raccolsero un patrimonio così grande di Sapienza cristiana, nel quale, in ogni successivo periodo della Chiesa, gli uomini fossero in grado di trovare tutto quanto potesse loro servire a sradicare le antiche superstizioni, o a distruggere i nuovi flagelli degli errori. In ogni tempo si trovò sempre una grande abbondanza di uomini dotti, anche in quel periodo in cui tutto ciò che vi era di più prezioso fu esposto alla furia e alla rapina dei barbari e quasi cadde nella trascuratezza e nella dimenticanza. Al punto che, se quegli antichi preziosi prodotti della mente e della mano dell’uomo, se quelle cose che un tempo furono in sommo onore presso i Romani e i Greci non andarono completamente perdute, tutto questo deve essere ascritto a merito del lavoro e della diligenza della Chiesa. – Dal momento che lo studio della scienza e delle arti apporta alla Religione una luce così grande, senza alcun dubbio coloro che si sono totalmente consacrati agli studi è necessario che adoperino tutta la loro solerzia non solo per pensare, ma anche per agire, affinché le loro conoscenze non rimangano chiuse in loro stessi e sterili. I dotti, quindi, mettano i loro studi a servizio della comunità cristiana e dedichino il loro tempo libero al bene comune, e così le loro conoscenze non sembreranno restare inconcludenti, ma saranno congiunte con la realtà dell’azione. Questa azione si evidenzia soprattutto nell’educazione dei giovani; e quest’opera è di così grande valore che richiede per sé la maggior parte dell’impegno e della sollecitudine. Proprio per questo, venerabili fratelli, vivamente vi esortiamo affinché vegliate a custodire nelle scuole l’integrità della fede, oppure, qualora fosse necessario, affinché ad essa queste siano con sollecitudine ricondotte; sia quelle di antica fondazione, come quelle che sono state aperte di recente; sia quelle dedicate all’infanzia, sia quelle che vengono chiamate medie ed universitarie. Gli altri Cattolici delle vostre regioni cerchino in primo luogo ed ottengano che nell’educazione degli adolescenti siano garantiti e salvaguardati i diritti propri dei genitori e della Chiesa. – A questo riguardo, bisogna prendersi cura specialmente delle cose che seguono. Prima di tutto, bisogna che i Cattolici abbiano, specialmente per i bambini, delle scuole proprie e non miste [pluriconfessionali], e che siano scelti degli ottimi maestri, assolutamente fidati. L’insegnamento in cui la realtà religiosa è erronea o assente è pieno di pericoli, e vediamo che questo spesso succede nelle scuole che abbiamo chiamato miste. Nessuno si lasci facilmente persuadere che si possa senza pericolo separare la pietà dall’istruzione. Infatti, se nessun periodo della vita umana, sia nelle cose pubbliche che in quelle private, può fare a meno della funzione della Religione, tanto meno può essere privata di quella funzione quell’età inesperta, di fervido ingegno, e posta fra le tante tentazioni della corruzione. Chi, dunque, organizza l’insegnamento in modo tale che non abbia nessun punto di contatto con la Religione, corrompe gli stessi germi del bello e dell’onesto e prepara non un presidio alla patria, ma la peste e la rovina del genere umano. Chi, infatti, tolto di mezzo Dio, potrà ancora trattenere gli adolescenti nel dovere, o ricondurre quelli che hanno deviato dai retti sentieri della virtù e che sono caduti nel baratro dei vizi? È necessario poi che la Religione venga insegnata ai giovani non soltanto in certe ore, ma bisogna che tutta l’educazione sia impregnata del modo di sentire della pietà cristiana. Se questo viene meno, se questo sacro alito non pervade e non scalda l’anima dei docenti e dei discenti, si raccoglieranno pochi frutti dall’insegnamento; e invece ne deriveranno spesso gravi danni. Quasi tutte le discipline hanno i loro pericoli, e questi difficilmente potranno essere evitati dagli adolescenti se alle loro menti e alle loro volontà non vengono posti dei freni divini. Bisogna perciò fare molta attenzione affinché non venga posto in secondo piano ciò che è l’essenziale, cioè il culto della giustizia e della pietà; affinché nella gioventù, costretta soltanto alle cose che si vedono con gli occhi, non si atrofizzi ogni vigore di virtù; affinché i maestri, mentre insegnano con grande fatica le pedanterie dell’istruzione e analizzano sillabe e accenti, non siano poi solleciti di quella vera sapienza il cui “inizio è il timore del Signore”, ed ai cui precetti ci si deve conformare in tutti i momenti della vita. La conoscenza delle molte cose abbia perciò unita a sé la cura della perfezione dello spirito; la Religione informi e diriga a fondo ogni scienza, qualunque essa sia, e colpisca con la sua maestà e soavità, da rimanere così come un pungolo negli animi degli adolescenti. Siccome fu sempre intenzione della Chiesa che ogni genere di studi servisse principalmente alla formazione dei giovani, è necessario che questa materia di studio non solo abbia il suo posto, e un posto speciale, ma è ugualmente necessario che nessuno possa svolgere un insegnamento così importante, se prima non sia stato riconosciuto idoneo a tale insegnamento dal giudizio e dall’autorità della Chiesa stessa. – Ma non è soltanto nelle scuole dei fanciulli che la Religione reclama i sui diritti. Vi fu un tempo in cui negli statuti di ogni Università, in primo luogo di quella di Parigi, era disposto che tutti gli studi fossero orientati alla teologia, in modo tale che nessuno fosse ritenuto giunto al supremo livello della sapienza, se non avesse conseguito la laurea in questa disciplina. Il restauratore dell’età Augustale Leone X, e dopo di lui gli altri Pontefici Nostri predecessori, vollero che l’Ateneo romano e le altre cosiddette Università degli studi, quando ardevano le empie guerre contro la Religione, fossero come solide fortezze, dove, sotto la guida e l’autorità della sapienza cristiana, venissero istruiti i giovani, Un ordinamento degli studi siffatto, che dava il primo posto a Dio e alle cose sacre, portò ottimi frutti; certamente fece sì che i giovani così istruiti fossero maggiormente fedeli al loro dovere. Questo positivo risultato potrà rinnovarsi anche presso di voi, se voi cercherete con tutte le vostre forze di ottenere che nelle scuole medie, nei ginnasi, nei licei e nelle università, vengano assicurati alla Religione i suoi propri diritti. – Non succeda però mai che anche ottimi consigli siano vanificati, e venga intrapresa una inutile fatica, qualora venisse meno l’accordo degli animi e la concordia nell’azione. Che cosa potranno mai fare le forze divise dei buoni, contro l’impeto unito dei nemici? O a che cosa servirà il coraggio dei singoli, dove venga meno una comune regola di condotta? Per questo vi esortiamo grandemente affinché, tolte di mezzo le inopportune controversie e le contese di parte, che possono con facilità dividere gli animi, tutti consentano in modo univoco a procurare il bene della Chiesa, e, riunite le forze, tendano a quest’unica cosa e manifestino un’unica volontà, “cercando si conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace” (Ef IV, 3). – Ci ha persuasi a fare queste ammonizioni la memoria e la commemorazione di un grande Santo; e volesse il cielo che i suoi esempi luminosi si imprimessero negli animi e li muovessero a quel suo amore della sapienza che non può recedere mai dal lavorare per la salvezza degli uomini e dal difendere la dignità della Chiesa, Confidiamo quindi che voi, venerabili fratelli, che in questo avete una particolare sollecitudine, troverete sicuramente tra i dotti numerosi soci e compagni in questo glorioso lavoro. Ma questa nobile impresa, quasi deposta nel loro seno, la potranno soprattutto attuare coloro che sono stati dalla divina provvidenza incaricati del magnifico compito di istruire la gioventù. Se costoro ricorderanno, cosa cara agli antichi, che la scienza separata dalla giustizia debba essere chiamata astuzia piuttosto che sapienza, o meglio, se presteranno attenzione a quanto dicono le sacre Scritture “vani sono… tutti gli uomini nei quali non c’è la scienza di Dio” (Sap XIII, 1), impareranno ad usare le armi della scienza non solo per la loro personale utilità, ma per la comune salvezza. Potranno infine sperare di ottenere, dal loro lavoro e dalla loro operosità, i medesimi frutti che ottenne un tempo Pietro Canisio nei suoi collegi e nei suoi istituti, formare cioè dei giovani docili e virtuosi, ornati di buoni costumi, che detestano con fora gli esempi dei cattivi, e che sono solleciti della scienza e della virtù. Quando la pietà avrà posto nell’animo di questi giovani più solide radici, sarà quasi del tutto scomparso il pericolo che essi possano essere intaccati da opinioni perverse o che possano deflettere dalla loro precedente vita virtuosa. E in costoro che la Chiesa e la società civile ripongono le loro migliori speranze essi saranno in futuro illustri cittadini e, con il loro consiglio, la loro prudenza, la loro cultura potranno essere salvaguardati l’ordinamento civile e la tranquillità della vita domestica. – Per il resto, a Dio ottimo massimo, che è il “Signore delle scienze”, alla sua vergine Madre, che è chiamata “Sede della sapienza”, forti dell’intercessione di Pietro Canisio, che per la gloria della sua dottrina ha così bene meritato dalla Chiesa cattolica, innalziamo le Nostre preghiere, affinché sia possibile essere partecipi dei voti che abbiamo formulato per l’incremento della Chiesa stessa e per il bene della gioventù. Fiduciosi di questa speranza, a voi singolarmente, venerabili fratelli, e a tutto il vostro clero e popolo, auspice dei doni celesti e testimone della Nostra paterna benevolenza, impartiamo di tutto cuore l’apostolica benedizione.

Roma, presso San Pietro, il 1 agosto 1897, ventesimo anno del Nostro pontificato.

DOMENICA III DOPO PASQUA (2023)

DOMENICA III DOPO PASQUA (2023)

Semidoppio. • Paramenti bianchi.

La Chiesa è nella gioia perché Gesù è risuscitato e ci ha fatti liberi (All.). Essa dà quindi gloria a Dio (Intr.) e ne canta le lodi (Off.). « Ancora un poco di tempo e non mi vedrete più, aveva detto Gesù nel Cenacolo, allora piangerete e vi lamenterete; ancora un poco di tempo e mi rivedrete e il vostro cuore si rallegrerà » (Vang.). Gli Apostoli, vedendo Gesù risuscitato, provarono quella gioia che risuona ancora nella liturgia pasquale; e come la Pasqua è un’immagine della Pasqua eterna, questa gioia è la stessa che avrà la Chiesa quando, dopo aver, nel dolore, generato anime a Dio, vedrà Gesù apparire trionfante nel cielo alla fine dei secoli, tempo assai breve, se paragonato all’eternità (Mattutino). « Egli allora cambierà la nostra afflizione in un gaudio che nessuno potrà più rapirci » (Vang.). Questo gaudio santo comincia già su questa terra, poiché Gesù non ci lascia orfani, ma viene a noi per mezzo dello Spirito Santo; e nella grazia sua siamo colmati di gioia nella speranza di una felicità avvenire. Non attacchiamoci ai vari piaceri del mondo, dice San Pietro, noi che siamo stranieri e viandanti avviati verso il cielo al seguito del divino Risuscitato, ma osserviamo i precetti tanto positivi, quanto negativi del Vangelo (Ep.), affinché, facendo professione di Cristianesimo, possiamo evitare quello che disonora questo nome e praticare quanto vi è conforme (Or.) e giungere cosi alla celeste Gerusalemme. « Uno dei sette Angeli mi disse: Vieni e ti mostrerò la novella sposa, la sposa dell’Agnello. E vidi Gerusalemme che scendeva dal cielo, ornata dei suoi monili, alleluia. Come è bella la sposa che viene dal Libano, alleluia » (Respons.). L’eucaristico e divino alimento delle anime nostre protegga i nostri corpi (Postcomm.), affinché mitigando in noi l’ardore dei desideri terrestri, ci faccia amare i beni celesti (Secr.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXV: 1-2. Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.

[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Ps LXV: 3 Dícite Deo, quam terribília sunt ópera tua, Dómine! in multitúdine virtútis tuæ mentiéntur tibi inimíci tui.

[Dite a Dio: quanto sono terribili le tue òpere, o Signore. Con la tua immensa potenza rendi a Te ossequenti i tuoi stessi nemici.]

Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.

[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio 

Orémus. – Deus, qui errántibus, ut in viam possint redíre justítiæ, veritátis tuæ lumen osténdis: da cunctis, qui christiána professióne censéntur, et illa respúere, quæ huic inimíca sunt nómini; et ea, quæ sunt apta, sectári.

[O Dio, che agli erranti mostri la luce della tua verità, affinché possano tornare sulla via della giustizia, concedi a quanti si professano cristiani, di ripudiare ciò che è contrario a questo nome, ed abbracciare quanto gli è conforme.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli: 1 Pet II: 11-19

“Caríssimi: Obsecro vos tamquam ádvenas et peregrínos abstinére vos a carnálibus desidériis, quæ mílitant advérsus ánimam, conversatiónem vestram inter gentes habéntes bonam: ut in eo, quod detréctant de vobis tamquam de malefactóribus, ex bonis opéribus vos considerántes, gloríficent Deum in die visitatiónis. Subjécti ígitur estóte omni humánæ creatúræ propter Deum: sive regi, quasi præcellénti: sive dúcibus, tamquam ab eo missis ad vindíctam malefactórum, laudem vero bonórum: quia sic est volúntas Dei, ut benefaciéntes obmutéscere faciátis imprudéntium hóminum ignorántiam: quasi líberi, et non quasi velámen habéntes malítiæ libertátem, sed sicut servi Dei. Omnes honoráte: fraternitátem dilígite: Deum timéte: regem honorificáte. Servi, súbditi estóte in omni timóre dóminis, non tantum bonis et modéstis, sed étiam dýscolis. Hæc est enim grátia: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

(“Carissimi: Io vi scongiuro che da stranieri e pellegrini vi asteniate dai desideri sensuali, che fanno guerra all’anima. Tenete una buona condotta fra i gentili, affinché, mentre sparlano di voi quasi foste malfattori, considerando le vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno in cui li visiterà. Per amor di Dio siate, dunque, sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Poiché questa è la volontà di Dio, che, operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Diportatevi da uomini liberi, che non fate della libertà un mantello per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio. Onorate tutti, amate la fratellanza, temete Dio, rendete onore al re. Servi, siate con ogni rispetto sottomessi ai padroni, e non soltanto ai buoni e benevoli, ma anche agli indiscreti; poiché questa è cosa di merito; in Gesù Cristo Signor nostro”).

L’obbedienza e l’autorità come principio

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Tutta l’Epistola di questa domenica, terza domenica di Pasqua, è degna del suo autore umano e delle circostanze storiche in cui gli accadde di scrivere. San Pietro, Apostolo dell’autorità tratta precisamente dell’autorità per garantirne i diritti. Ma non si circoscrive nel suo mondo religioso, non chiede obbedienza solo ai pastori d’anime, va oltre si direbbe guardi di preferenza, almeno a momenti, l’autorità civile. Certo egli pensa a quel mondo romano che dopo essere stato il mondo della violenza, volle essere il mondo della legge. E si preoccupa, il Pontefice, ormai romano anch’esso, di quel mondo in cui vive, se ne preoccupa in due modi, per due ragioni. Intanto quel mondo ha un suo valore spirituale, morale, vero e proprio in quanto non è pio e non vuol essere il mondo della violenza bruta e dell’arbitrio personale, quel mondo non bisogna guastarlo per pretesa, neppur per pretesi interessi spirituali superiori come certi fanatici sarebbero pronti a fare; bisogna conservarlo. Il Cristianesimo assume il suo ufficio di conservatore della civiltà. Conservarlo per se stesso, conservarlo anche per creare uno scandalo civile alle coscienze di fronte all’invito religioso del Vangelo. – Ma per conservare quel mondo civile bisogna custodire, rafforzare il principio, uno dei principi su cui regge, che è proprio l’autorità col suo correlativo: l’obbedienza. L’autorità principio unificatore, l’autorità rappresentanza dell’intero collettivo di fronte alla somma degli interessi individuali, somma concorrente. – Il Cristianesimo per bocca dei suoi primi propagandisti più autorevoli, Pietro e Paolo, vi apporta il suggello di una vera e propria consacrazione, il paganesimo, in fondo, ha avuto – se è limitato al concetto di autorità per forza, o delle autorità entusiasmo – nell’un caso e nell’altro, un concetto personale dell’autorità, la persona del monarca (comunque poi si chiami chi comanda). Nel paganesimo, e dovunque il paganesimo, il laicismo civile risorge, comanda il più forte, in ragione ed in nome della sua forza. Il monarca è il potente, uomo o classe. – Che se poi si esce da questa situazione così precaria e avvilente, vuoi per chi comanda, vuoi per chi obbedisce, è per il rotto della cuffia dell’entusiasmo, il mito, il feticcio. Il monarca è Cesare, tutti lo acclamano e lo adulano. Di fronte alla sua autorità personale e mitologizzata l’obbedienza è servilità, una schiavitù dorata, schiavitù sempre. Il monarca nei due casi comanda, s’impone perché è lui. Il padrone sono me. Si fabbrica sull’arena mobile. Se la forza vien meno? Se l’entusiasmo si sgonfia? Che cosa succede? Dove va a finire la società di cui l’autorità è anima, vita, forza stabile, è verso la spersonalizzazione dell’autorità. L’autorità principio sostituita dall’autorità persona. E noi abbiamo di questo sforzo una formula magica nell’epistola di oggi. – « Obbedite ai vostri capi legittimi anche quando, anche se essi sono cattivi ». È l’ipotesi più terribile. La bontà e la qualità che sembra essenziale in chi comanda. Passi pure la mancanza di genio, d’ingegno, ma la bontà! La funzione del comando è proprio una funzione morale e moralizzatrice. E l’Apostolo è ben lontano dal negare in chi comanda l’utilità, la preziosità della bontà. Un buon monarca è il piu grande dono di Dio a un popolo. Ma non bisogna edificare lì; neppur lì, su questa facoltà preziosissima. Guai! Si tornerebbe al personalismo; l’obbedienza è alla discrezione dei sudditi e possono giudicare le qualità personali. E perciò obbedite ai vostri capi sempre, perché sono capi, qualunque siano le loro qualità o i loro difetti… anche ai personalmente cattivi. Purché non comandino il male, purché non si erigano comandando né contro Dio, né contro la coscienza. – I Cristiani sono così i sudditi migliori, i più fidati dell’impero … d’ogni impero, d’ogni stato civile, diremmo oggi in linguaggio moderno. E perciò sono ciechi i governi che combattono il Cristianesimo, si danno la zappa sui piedi. Sono miopi i governi che accarezzano la Religione per secondi fini, sono savi oltreché onesti, i governi che favoriscono senza ipocrisie, equivoci e sottintesi il Cristianesimo: lavorando in apparenza per la Religione, lavorano in realtà abilmente ed efficacemente per sé.

Alleluja

Allelúja, allelúja. Ps CX: 9 Redemptiónem misit Dóminus pópulo suo: alleluja.

[Il Signore mandò la redenzione al suo pòpolo. Allelúia.]

Luc XXIV: 46 Oportebat pati Christum, et resúrgere a mórtuis: et ita intráre in glóriam suam. Allelúja.

[Bisognava che Cristo soffrisse e risorgesse dalla morte, ed entrasse così nella sua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Joannes XVI: 16; 22

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Módicum, et jam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis ejus ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me, et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo: Quid est hoc, quod dicit: Modicum? nescímus, quid lóquitur. Cognóvit autem Jesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quaeritis inter vos, quia dixi: Modicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabímini, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora ejus: cum autem pepérerit púerum, jam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos igitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.”

 (“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Un pochettino, e non mi vedrete; e di nuovo un pochettino, e mi vedrete: perché io vo al Padre. Dissero però tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che è quello che egli ci disse: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto e mi vedrete, e me ne vo al Padre? Dicevano adunque che è questo che egli dice: Un pochetto? non intendiamo quel che egli dica. Conobbe pertanto Gesù che bramavano d’interrogarlo, e disse loro: Voi andate investigando tra di voi il perché io abbia detto: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto, e mi vedrete. In verità, in verità, vi dico, che piangerete e gemerete voi, il mondo poi godrà: voi sarete in tristezza, ma la vostra tristezza si cangerà in gaudio. La donna, allorché partorisce, è in tristezza, perché è giunto il suo tempo, quando poi ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’affanno a motivo dell’allegrezza, perché è nato al mondo un uomo. E voi dunque, siete pur adesso in tristezza; ma vi vedrò di bel nuovo, e gioirà il vostro cuore, e nessuno vi torrà il vostro gaudio”.).

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

GIOIE E DOLORI

Era l’ultima volta che Gesù parlava a’ suoi discepoli prima di morire. Guardandoli con la tenerezza di un padre che sta per partire, li mette in guardia dai pericoli del mondo, e dalle illusioni di un roseo avvenire. Diceva: « Tra poco e non mi vedrete; un altro poco e mi rivedrete ». Gesù alludeva alla sua morte vicina, e alla sua resurrezione. Gli Apostoli non capivano nulla e Gesù, che leggeva a loro negli occhi, aggiunse: « In verità vi dico che voi gemerete e piangerete; il mondo invece godrà ». Non scandalizzatevi; Cristiani, se Dio ha spartito le cose del mondo così che ai cattivi toccassero le gioie e ai buoni rimanessero soltanto le lacrime e i dolori. Non scandalizzatevi perché nel Vangelo d’oggi c’è una parola che spiega tutto: « Modicum! ». Spesso ci capita d’ascoltare i Cristiani a lamentarsi: « A questo mondo più s’è cattivi e più si ha fortuna. C’è della gente che non va in Chiesa, non rispetta nessuna legge, eppure è sempre beata: non malattie in casa; non odiosità fuor di casa; hanno roba; hanno danaro; hanno tutto. Noi invece non possiamo mai tirare avanti liberamente: è la morte, è una disgrazia, è un affare che va a male, e sempre c’è da piangere… ». Ricordiamoci della parola del Signore: « Modicum »: poco. Quaggiù tutto dura poco. Poco il dolore e poco la gioia. Non dobbiamo attaccare quindi il nostro cuore a cose che durano tanto poco; ma dobbiamo cercare il nostro bene dove durerà sempre: in Paradiso. Meditiamo la parola di Gesù, e ne otterremo conforti e speranze per il travaglio duro della nostra vita. – 1. VOI PIANGERETE MENTRE IL MONDO GODRA’. Quando noi osserviamo la vita pagana delle nostre città, e nei giorni di festa anche nei piccoli paesi, così buoni una volta, ci par di riudire il canto dei voluttuosi, come è scritto nel libro della Sapienza: « Circondiamo le nostre tempia di rose prima che marciscano: non ci sia piacere da noi non provato, non ci sia peccato da noi sconosciuto ». Coronemus nos rosis! È una folla di uomini, di donne, di giovanetti che, a coronarsi di queste rose, si riversano ogni giorno nelle sale dei teatri, dei cinematografî, dei balli… E dentro si vede, si ascolta, si ride, si salta; e si vende l’anima al diavolo. Intanto si perde l’amor della propria casa, dei propri figli; i figli sono spine per questi gaudenti, e allora li rifiutano conculcando ogni legge umana e divina. Coronemus nos rosis! È un’altra folla di persone che avida legge i libri, riviste, giornali. Sono romanzacci dove le infamie più vergognose riempiono le pagine; sono novelle fetide di corruzione e di incredulità; sono figure impudiche che ridestano nei sensi il fuoco delle passioni. A quelle letture la mente si popola di fosche immagini, il cuore si accende a desideri impuri, la notte è profanata da sogni brutti. L’anima è invasa da una nebbia grassa che non lascia intravedere Dio: e non si prega più. Coronemus nos rosis! È un’altra folla ancora che vive soltanto per il gioco, e nel gioco consuma il tempo e magari tutto il denaro della famiglia. Per il gioco commettono ingiustizie, si tralascia il Rosario in famiglia, si perde la Messa e la dottrina cristiana. Quanta gioventù sciupa tutta la festa negli sports! Che cosa ci potranno dare, domani se non hanno mai sentito parlare della loro anima, dei loro doveri? La rosa del piacere si vuole e non la spina del dovere. Voi, invece, o buoni Cristiani, voi soffrite nella mortificazione del vostro corpo e delle vostre passioni, voi soffrite nell’osservanza della legge di Dio. Ed è giusto che sia così, ce lo dice Tertulliano: « Nostræ cœnæ, nostræ nuptiæ nondum sunt » (De Spect., 28). Il tempo dei nostri festini e delle nostre nozze non è giunto ancora, per ciò non possiamo gioire coi mondani. Quaggiù siamo in viaggio: e quando si cammina non ci si può fermare a divertirsi, altrimenti non si arriva più alla mèta. Quaggiù abbiamo dei grandi affari: amare Dio, salvare l’anima. Ma se qualcuno ha la testa nei divertimenti, non può combinare nessun affare buono. Quaggiù è tempo di battaglia: i soldati che in guerra s’abbandonano alle mollezze, come quelli d’Annibale a Capua, non avranno forza per vincere. Consoliamoci però, non sarà sempre così. Anzi questo tempo è breve: Modicum. Un poco, e poi le rose dei mondani marciranno, e le nostre spine fioriranno un’eterna primavera. – 2. IL VOSTRO PIANTO DIVERRÀ GIOIA. Un giorno a S. Giovanni fu concesso di contemplare i Santi in gloria. Stavano nella luce, nella gioia, nel canto, davanti al trono dell’Agnello. Vestivano con lunghe stole bianche ed agitavano nelle mani palme stupende. S. Giovanni rimase estatico. Uno di essi, vedendo senza dubbio lo stupore dell’Apostolo, gli domandò: « Questi che vedi vestiti di bianche stole, chi sono? Donde vennero? ». E Giovanni dovette confessare la propria ignoranza. « Sappi, gli fu detto allora, che essi sono venuti da una grande tribolazione ». Venir dalla tribolazione! Ecco il miglior titolo per godere in Paradiso. Rallegratevi tutti voi che soffrite, perché siete sulla via del gaudio; tra poco ogni vostra lacrima sarà un sorriso; ogni vostra pena una eternità di gioie. È sulla via della gioia quel giovane onesto che, mentre vede i suoi compagni correre ai divertimenti, frequenta la Chiesa e l’oratorio. È sulla via della gioia quel buon padre di famiglia che è pronto a patir anche la fame, pur di non violare la legge del Signore! È sulla via della gioia quella buona donna, dimenticata da tutti, forse disprezzata anche da quelli che tanto ama, che tutto riceve dalle mani di Dio e soffre con rassegnazione. Vediamo ora un’altra scena del Vangelo. La scena è divisa in due. In basso un orribile abisso pieno di fuoco; e nel fuoco un uomo brucia e urla: « Abramo! Abramo! » In alto una regione purissima di luce, di melodie. In quella luce, tra quei fiori, tra le musiche, vi è un altro uomo che beatissimo gode. « Abramo! Abramo! », si urla disperatamente dall’abisso ardente. Abramo ascolta quel pianto lungo e straziante. « Abramo, abbi pietà di me. Mandami Lazzaro e digli che col suo dito mi lasci cadere una goccia d’acqua sulla lingua, ché son tutto una fiamma ». E Abramo a lui: « Ti ricordi quando tu vestivi di porpora e bisso e banchettavi ogni giorno nel tuo palazzo? Allora Lazzaro pieno di ulceri giaceva sulla tua porta, e bramava le briciole cadute dalla tua mensa per placare la sua fame. Ma nessuno gliene dava: solo i cani gli lambivano le piaghe cancrenose. Sappi dunque ché tu in vita avesti le gioie, e Lazzaro ebbe i dolori. Ora, e per sempre, Lazzaro godrà e tu soffrirai ». Ecco, o Cristiani, i due destini dell’uomo: goder per pochi anni e soffrire per tutta l’eternità, oppure, soffrir per pochi anni e godere per tutta l’eternità. Quale scegliete per voi? – La sponda è fiorita e dolce è il pendio. In lontananza si estende radioso il sole che tramonta, un vasto strato d’acqua che somiglia ad uno specchio. Sopra una barchetta abbellita da nastri, dei giovani in abito festivo si divertono graziosamente cantando. Sulla riva, un fanciullo sorride e tende le braccia. « Vieni! Vieni! », dicono i gitanti. « SÌ, SÌ! ». E nel momento in cui il piccolo legno tocca il lido, nel momento in cui il fanciullo si slancia, un braccio vigoroso lo trattiene e lo porta via. È suo padre. « Cattivo! » dice il fanciullo tentando di svincolarsi. Il giorno dopo, una barca vuota e sbattuta dalle onde venne a cozzare contro la sponda. Il fanciullo ancor triste e di cattivo umore, a quella vista comprese la disgrazia a cui era sfuggito; e gettandosi al collo del padre, lo baciò, singhiozzando di tenerezza: « Grazie, Grazie! ». Quante volte ancor noi, mentre sognavamo giorni tranquilli, affari deliziosi, onori, gioie, mentre sognavamo di slanciarsi in barca a traversare, cantando, il lago della vita, abbiamo sentito un braccio vigoroso strapparci dalle nostre illusioni. Era una disgrazia, una malattia, una calunnia, la miseria, l’umiliazione… O meglio, era la vigorosa mano del nostro Padre celeste. Noi in quel momento abbiamo imprecato contro Dio, e forse ancora oggi imprechiamo… Ma verrà un giorno in cui sapremo il perché d’ogni nostra pena e comprenderemo come sarebbe stata la nostra rovina, quella gioia che noi tanto agognavamo. Allora anche noi, come il fanciullo della leggenda, getteremo le braccia in collo a Dio, e piangendo di riconoscenza, gli diremo: « Grazie, buon Dio, d’avermi fatto soffrire! ». — IL DOLORE CRISTIANO. S. Agostino dice che due amori hanno fatto due città del mondo: Civitates duas fecerunt amores duo. L’uno è l’amore di Dio che ha formato la città dei buoni, i quali vivono neldolore e nel rinnegamento d’ogni passione. L’altro è l’amore dell’io che vuol la soddisfazione delle proprie voglie ed ha formato la città del mondo che ama la pazza gioia. Mundus gaudebit. Ma perché Gesù ha voluto serbare il dolore per i buoni? Ecco: dal giorno cheAdamo e Eva si ribellarono per superbia a Dio, nella nostra natura, ferita dal morso del demonio, si levò un istinto peccaminoso che prepotentemente ci spinge verso ciò che è proibito. Sul nostro occhio è venuto come un velo di polvere che ci fa piacere ciò che ci dovrebbe far paura, che ci tinge di bei colori ciò che in realtà è assai brutto. L’inganno di cui si sentiva vittima anche San Paolo quando scriveva: « Non comprendo quel che faccio: poiché il bene ch’io voglio non lo compio, mentre il male che nonvorrei lo faccio ». Per vincere quest’inganno è necessaria un’acqua che deterga quella polvere dai nostri occhi, che ci faccia vedere le cose secondo la fede e non secondo il mondo. Quest’acqua misteriosa sono le lacrime: il dolore. Allora non lamentiamoci della nostra croce, ma portiamola con gioia dietro a Gesù Cristo che ce ne ha dato il primo e insuperabile esempio.Il dolore è la medicina amara che ci guarisce: esso ci stacca dalle cose mondane e ci merita il Paradiso.1. CI SI STACCA DALLE COSE VANE DEL MONDO. A Cortona viveva una donna assai ricca. Il suo nome era tristamente famoso: Margherita. Ella non aveva altra ambizione che quella di apparire, null’altra brama che di godere. Chissà quanti richiami Dio aveva già lanciati al suo cuore ardente: ma sempre invano. Deus quos amat castigat. Una sera Iddio la chiamò col dolore. L’uomo, col quale conviveva, non era tornato come al solito, colle prime ombre della notte: eppure dall’alba era partito col suo cane per la caccia. Margherita s’impensierì, poi si agitò, poi non ebbe più pace in quell’aspettativa crudele. Finalmente s’udì un lungo latrare: era il cane fedele, ma col pelo arruffato, ma con macchie di sangue sul pelo. E con più giri circondò la padrona e coi guaiti le significò che l’invitava a seguirlo. Era notte. E Margherita corse nel buio, per viottoli sassosi e spinosi dietro alla bestia che abbaiava incessantemente. Quando il cane si fermò, nel folto dei cespugli, la donna intravvide il cadavere intriso di sangue. Urlò di dolore, pianse, si stracciò le vesti come una pazza. Ma da quella sera i suoi capelli furono cosparsi di cenere, le sue gote rigate di pianto, le collane e le perle vendute per i poveri, gli abiti di seta cambiati con sacco, la sua splendida dimora abbandonata per la nuda cella del convento. E cominciò a pregare, a vegliare, a macerarsi, ad amar Dio con l’ardenza dei Serafini. La gaudente divenne la penitente, la peccatrice si fece una santa. Chi ebbe tanta forza da strapparla così decisamente dalla sua perduta via? Il dolore! – Ed anche noi possiamo vedere ai nostri giorni queste belle trasformazioni operate dal dolore e dalla croce. Chi ha persuaso quell’uomo, che da molti anni non faceva la Pasqua, ad accostarsi ai sacramenti? La morte di una sua bambina; un disastro finanziario; un’umiliazione in società. Quand’è che quella donna è tornata modesta, seria? Dopo la morte di suo marito, dopo quella malattia che l’ha condotta in fin di vita, dopo quella tribolazione in famiglia. Le disgrazie, le croci ci privano delle gioie quaggiù. Ma che cosa sono questi beni terreni? Sentiamo Salomone: « Ho detto allora a me stesso: godiamo di tutti i beni, andiamo in mezzo a tutte le delizie…; mi feci palazzi e giardini, limpidi laghi bagnavano al basso le mie foreste; possedevo numerosi greggi e le mandrie più belle d’Israele; avevo vasi d’oro e d’argento; avevo servi ed ancelle, cantori e cantatrici. Avevo tutte le delizie degli uomini. Niente ho negato alle brame degli occhi miei, nessuna voluttà ho negato al mio cuore. Chi più di me ha divorato tutto il fremito gioioso dei piaceri, e l’ebbrezza dei sensi? Ed ho veduto che il riso è una menzogna e la gioia un inganno. Niente sotto il sole ha valore: tutto è vanità e amarezza dell’anima ». Il cuore dello stolto sogni la gioia! Mundus gaudebit. Il cuore del sapiente ha cara la tristezza! Vos autem contristabimini. Se il dolore non fa altro che distaccare da una falsa felicità, non lamentiamoci più contro la divina Provvidenza, ma baciamo con riconoscenza quella mano che ci percuote per nostro bene.2. CI MERITA IL PARADISO. In una chiesa di Pisa, Cristo apparve a S. Caterina da Siena, mostrandole due corone: l’una d’oro, l’altra di spine. E le diceva: « Tu devi portare queste due corone ma in tempi differenti: se porti ora quella d’oro, quella di spine l’avrai per tutta l’eternità ». Caterina rispose: « O Signore, voi sapete che la mia scelta è fatta da lungo tempo… ». E stendendo le braccia, prese la corona di spine, la baciò e se la pose in capo. Ecco perché i santi, che sono i veri sapienti della vita, hanno portato con gioia la croce; anzi l’hanno cercata con desiderio. Il fratello di S. Pietro Apostolo era giunto nelle sue peregrinazioni apostoliche fin nell’Acaia, ove s’attirò le ire del proconsole. Fu rinchiuso in un carcere e poi condannato al supplizio della croce. Ma quando, accompagnato dagli sgherri, legato, battuto, egli vide da lontano comparire la sua croce, le protese le braccia ed eruppe in un cantico stupendo: « Salve, crux! quæ diu fatigata, requiescis exspectans me suscipe me, et redde Magistro meo ». Salve, o croce, bramata da lungo tempo! prendimi nelle tue braccia e rendimi a Gesù. Questi devono essere i sentimenti dei veri Cristiani davanti alle tribolazioni della vita. Senza patire non si entra nel regno eterno della gioia. Per multas tribulationes oportet nos intrare in regnum Dei (Atti, XIV, 21). Il Paradiso è l’eredità dei figli di Dio. E non si è figli di Dio, se non si è fratelli di Gesù Cristo, unico Figlio naturale di Dio. Ma come si può pretendere di essere fratelli di Cristo, quando cerchiamo la corona di rose mentre Egli è coronato di spine? Quando ci rifiutiamo di portar, come Lui, la nostra croce? Si quis vult post me venire abneget semetipsum, tollat crucem suam. Prendiamo dunque la nostra croce da portare, ed il pensiero del premio che ci aspetta c’infonderà coraggio: Quia non sunt condignæ passiones huius temporis ad futuram gloriam. – Suor Teresa del Bambino Gesù aveva avuto l’incarico di assistere una suora vecchia e inferma. Tutte le sere alle sei meno dieci doveva interrompere la sua meditazione per condurla in refettorio. Questo servizio le costava assai, perché sapeva la difficoltà o meglio l’impossibilità di contentare la povera inferma. Quando la vedeva scuotere l’orologio a polvere doveva armarsi di santo coraggio e cominciare una sequela di cerimonie. Doveva smuovere e tirare una panca, ma sempre al medesimo modo, sorreggerla per la vita e accompagnarla leggermente. Se per disgrazia le sfuggiva un passo falso, subito si sentiva un aspro rimbrotto « Ma buon Dio, andate troppo lesta, così mi fate rovinare ». Se poi andava piano « Muovetevi dunque, non sento più la vostra mano. Lo dicevo che eravate troppo giovane per accompagnarmi! ». Una sera d’inverno, che faceva freddo ed era buio, mentre compiva questo penoso ufficio, la piccola santa udì venir da lontano il suono armonioso di molti strumenti: e subito si presentò alla sua fantasia la ricca sala dorata, le luci, i profumi, il fruscìo delle vesti di seta e le mille cortesie. Mundus gaudebit! Ed ella era là, sola: nel freddo, nel buio, nello squallore ruvido del chiostro; ella che era pur giovane e ricca; ella che era stata abituata alle squisitezze d’una soave famiglia signorile: era là con gli occhi pieni di lacrime accanto a quella vecchia monaca crucciosa che la tormentava… Vos autem contristabimini! Ma ora la piccola santa non soffre più. Ora ogni cuore le offre un palpito, ogni Chiesa un altare. Ed ella è beata e gloriosa tra le armonie degli Angeli ed il sorriso del suo Sposo diletto Gesù. Così sarà pure dei nostri dolori, se sapremo accettarli come cristiani. Tristitia vestra vertetur in gaudium.

IL CREDO

Credo in unum Deum, Patrem omnipoténtem, factórem cœli et terræ, visibílium ómnium et invisibílium. Et in unum Dóminum Jesum Christum, Fílium Dei unigénitum. Et ex Patre natum ante ómnia sæcula. Deum de Deo, lumen de lúmine, Deum verum de Deo vero. Génitum, non factum, consubstantiálem Patri: per quem ómnia facta sunt. Qui propter nos hómines et propter nostram salútem descéndit de coelis. Et incarnátus est de Spíritu Sancto ex María Vírgine: Et homo factus est. Crucifíxus étiam pro nobis: sub Póntio Piláto passus, et sepúltus est. Et resurréxit tértia die, secúndum Scriptúras. Et ascéndit in coelum: sedet ad déxteram Patris. Et íterum ventúrus est cum glória judicáre vivos et mórtuos: cujus regni non erit finis. Et in Spíritum Sanctum, Dóminum et vivificántem: qui ex Patre Filióque procédit. Qui cum Patre et Fílio simul adorátur et conglorificátur: qui locútus est per Prophétas. Et unam sanctam cathólicam et apostólicam Ecclésiam. Confíteor unum baptísma in remissiónem peccatórum. Et exspécto resurrectiónem mortuórum. Et vitam ventúri sæculi. Amen.

Offertorium

Orémus

Ps CXLV: 2 Lauda, anima mea, Dóminum: laudábo Dóminum in vita mea: psallam Deo meo, quámdiu ero, allelúja.

[Loda, ànima mia, il Signore: loderò il Signore per tutta la vita, inneggerò al mio Dio finché vivrò, allelúia.]

Secreta

His nobis, Dómine, mystériis conferátur, quo, terréna desidéria mitigántes, discámus amáre coeléstia.

[In virtú di questi misteri, concédici, o Signore, la grazia con la quale, mitigando i desiderii terreni, impariamo ad amare i beni celesti.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

Paschalis

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre: Te quidem, Dómine, omni témpore, sed in hac potíssimum die gloriósius prædicáre, cum Pascha nostrum immolátus est Christus. Ipse enim verus est Agnus, qui ábstulit peccáta mundi. Qui mortem nostram moriéndo destrúxit et vitam resurgéndo reparávit. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia cœléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare: Che Te, o Signore, esaltiamo in ogni tempo, ma ancor piú gloriosamente in questo giorno in cui, nostro Agnello pasquale, si è immolato il Cristo. Egli infatti è il vero Agnello, che tolse i peccati del mondo. Che morendo distrusse la nostra morte, e risorgendo ristabilí la vita. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joannes XVI: 16 Módicum, et non vidébitis me, allelúja: íterum módicum, et vidébitis me, quia vado ad Patrem, allelúja, allelúja.

[Ancora un poco e non mi vedrete più, allelúia: ancora un poco e mi vedrete, perché vado al Padre, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Sacramenta quæ súmpsimus, quæsumus, Dómine: et spirituálibus nos instáurent aliméntis, et corporálibus tueántur auxíliis.

[Fai, Te ne preghiamo, o Signore, che i sacramenti che abbiamo ricevuto ci ristòrino di spirituale alimento e ci siano di tutela per il corpo.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (249)

LO SCUDO DELLA FEDE (249)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (18)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

CAPO III

IL SACRIFICIO DIVINO

SECONDA PARTE DEL CANONE.

ART. VI

ORAZIONE VI DEL CANONE:

NOBIS QUOQUE PECCATORIBUS Etc.

Orazione.

Il sacerdote colla mano destra si percuote il petto e dice con voce poco alzata: « A noi pure peccatori, vostri servi, che speriamo nella moltitudine delle vostre miserazioni, degnatevi di donare qualche porzione e società coi vostri santi Apostoli e martiri (Alcuni autori osservano la differenza tra la invocazione fatta dei Santi nell’orazione Communicantes, e quella di questa orazione. Nella prima la Chiesa ha nominato gli Apostoli che fondarono la Religione, e quelli che la difesero col sangue; in questa mette innanzi i nomi dei Santi che la onorarono colle loro virtù nei differenti stati della. vita: quindi s. Giovanni, o il Battista, come il più santo degli uomini, a capo di tutti i Profeti, o Giovanni Apostolo, come vuole Innocenzo III, pel privilegio della verginità; Stefano, come il primo dei Diaconi, Mattia, che rappresenta gli Apostoli e che non fu nominato nell’altra commemorazione, perché non era ancor Apostolo nel tempo della Passione, e si nomina qui dopo Stefano, che lo ha preceduto nel martirio; Barnaba che rappresentamtutti i discepoli; Ignazio tutti i Vescovi; Alessandro tutti i successori di s. Pietro; Marcellino tutti i Sacerdoti; Pietro Esorcista, tutti i ministri minori; Felicita, Perpetua rappresentano le madri e tutte le sante donne; le altre vergini e martiri, gloria del loro sesso vengono rappresentate dalla fanciulla Agata, da Lucia, da Agnese, da Cecilia, da Anastasia. Così la Chiesa conforta tutti i fedeli, e fa loro osservare che in cielo il santo Padre celeste ha preparati molti seggi nell’eterna sua magione, Pigli conforto anche il minimo dei figliuoli; perché mentre l’uno si santifica coll’esercizio delle eroiche virtù, gli altri si santificheranno colla fedeltà nelle opere più minute; e tutti insieme renderanno quella bella varietà, di cui è decorata la Sposa del Signore. Questa è la dottrina insegnata da Gesù Cristo, che i minimi agli occhi del mondo sono talvolta i più grandi eroi agli occhi di Dio, che misura i suoi doni e pesa i meriti colla bilancia della sua giustizia. Sicché nel gran giorno delle rivelazioni vedremo forse, che chi ha convertito i regni, sono le preghiere di una femminetta, che, piangendo a piè dell’altare, diceva sovente col Sacerdote: Nobis quoque peccatoribus), con Giovanni, Stefano, Mattia, Barnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino, Pietro, Felicita, Perpetua, Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia, e tutti i vostri Santi: fra il consorzio dei quali ammetteteci, vi preghiamo, non estimando Voi il merito nostro; ma concedendoci il vostro perdono. (Qui giunge le mani e continua) Per Cristo Signor nostro. » « Per cui Voi, o Signore, sempre create tutti questi beni, (fa tre segni di croce sopra la SS. Ostia ed il SS. Calice nel dire): li + santificate: li + vivificate: li + benedite: e li donate a noi. » (scopre il Calice, genuflette, prende il Sacramento colla destra, tenendo colla sinistra il Calice, fa tre segni di croce coll’ Ostia SS. da un labbro all’altro del Calice, mostrandolo come nostro, dice: « Per + Esso, e con + Esso, ed in + Esso (fa due segni di croce tra il calice ed il proprio petto) a Voi Dio Padre onnipotente nell’unità dello Spirito + Santo (eleva per poco il SS. Calice colla SS. Ostia,) è ogni onore e gloria. (Ripone la SS. Ostia, copre il Calice, genuflette, sorge e dice:) Per tutti i secoli dei secoli. » al popolo risponde:) « Sia così! »

Esposizione dell’orazione Nobis quoque peccatoribus.

Alto silenzio! Si rappresenta l’ora dell’agonia di Gesù in croce. Allora fremeva la natura inorridita: era un tetro silenzio tutto d’intorno: oramai il deicidio era compiuto, e il popolo cominciava a sentirsi atterrito nel vedersi le mani bagnate del Sangue d’un innocente, del Sangue, ah! come lo mostravan quei segni, del Figliuol di Dio. Pur taluni briachi di rabbia insultavano ancor sotto alla croce a Gesù: ed Esso nell’atto di spirar l’anima santa fa quasi causa comune coi suoi nemici: e così come era, colle braccia allargate anche sopra di loro, rompe quel tristo silenzio coir questa preghiera divina: « Padre, perdonate a tutti, anche a questi, ché non sanno ben ciò che fanno! » Fatta questa preghiera, al ladro che gli gemeva allato in quell’ora, da Lui veniva assicurato il paradiso; ed i crocifissori si battevano il petto anch’essi! Con questo pensiero il Sacerdote, in ispirito crocifisso in Gesù Cristo, sta colle braccia prostese sopra tutti i fedeli; e pensando in quell’istante a tanti peccati, che gridano vendetta innanzi al trono di Dio, e fra quelli sentendo anche le sue proprie colpe, lascia cadere giù le braccia sull’altare; e a questo attaccandosi, come ferito nel cuore, alza la voce, si chiama con tutti in colpa e mette tale gemito: « siam peccatori! » Ma che? appunto pei peccatori grida misericordia questo Sangue effuso sull’altare da Gesù. Sangue propiziatore! Mentre il sangue di Abele giusto e di molti Profeti e santi chiama vendetta dalla terra, che ne fu bagnata; questo Sangue di Gesù fa sentire dall’altare accenti di propiziazione! Così mentre per noi grida sull’altare il Sangue di Gesù Cristo, pigliamo cuore e gridiamo noi pure qui d’intorno: « Anche a noi, o Signore, anche a noi peccatori degnatevi dare una parte di paradiso! » Una parte di paradiso adunque cogli Apostoli, coi Martiri, coi Confessori, colle Vergini, colle Madri sante, con tutti i Beati. Nomina qui i santi, i cui nomi sono nell’orazione. (Noi cercammo di esporre la ragione del nominare quelli particolarmente nella nota di sopra). Noi dobbiamo far con essi un vero commercio, una comunione di santi. Hanno essi tanti e così grandi meriti; e noi, per noi, mettiamo innanzi i meriti di Gesù. Perciò giunge le mani il Sacerdote, attaccandosi vivamente a Gesù, quasi dicesse ancora con maggior istanza: « Per Cristo Signor nostro vogliamo coi Santi e con Maria il paradiso, benché peccatori; perché appunto proprio pei peccatori si è sacrificato Gesù. » Qui adunque abbiam ragione di esclamare ancora: « Fortunati i peccatori convertiti quando hanno tale Redentore divino! » – Ora non possiamo a meno di fermarci a considerare la più miracolosa operazione di Dio, vogliam dire la ristorazione e rinnovazione della povera umanità, operata a piè della croce con tale prodigio della creazione assai più grande, come osserva l’Angelico (S. Th. 1, 2, q. 113, a. 9). Poiché, se per creare l’universo bastò la parola onnipotente di Dio; per redimere gli uomini dalla caduta e ristorarli dai veri mali, che sono i peccati, ci volle il Sangue di Dio medesimo. Questo Sangue poi gli restituisce all’innocenza ed alla santità con infinito vantaggio quando si convertono. Ben ora è da parlare colle lagrime, più che colle parole, osservando con s. Cipriano, come appiè della croce anche i malfattori hanno parte alle consolazioni degli innocenti. Appiè della Croce diffatti, si trovava Maria SS. ed il ladro condannato al patibolo, così sotto la croce l’uomo della colpa veniva ravvicinato alla creatura più innocente e più santa; tanto che Gesù or parla col ladro, come parla con Maria SS.; anzi col ladro con maggior pietà; perché, com’egli è più miserabile, cosi ha bisogno di più grande misericordia: e se dice a Maria: « Madre, ecco i vostri figli, ora che mi perdete per loro; » rivolto al ladro: « Figliuolo, gli dice, piglia cuore, oggi tu meco sarai in paradiso! » Così il rimorso, che senza la redenzione doveva terminare nella disperazione, distrutto il peccato sotto la croce di Gesù Cristo, anche il rimorso si cangia in dolore consolante, anzi si solleva a speranza di paradiso! Noi non crediamo di poter spiegare meglio questo pensiero di così grande conforto, che col mettere innanzi tradotta in atto tanta misericordia in un peccatore riottoso fino al punto di morte. Allora quando l’uomo indurito sente il nulla dell’umana impotenza, sopra l’abisso dell’inferno mette un grido di terrore e chiama aiuto!… Accorre il Sacerdote e trova l’anima sepolta in una invecchiata carnalità, dentro un cuore di macigno. Allora quest’operatore di prodigi di grazia, che sull’altare s’indentifica con Gesù Cristo, innalza il Crocifisso a lato del letto: e con Gesù dalla croce mostra al cielo le mani piene di Sangue; con Gesù grida al Padre: « Perdonate a questo meschino: esso ignorava ciò che faceva; e se in esso si è consumata l’umana perversità, noi abbiamo per esso consumato il sacrificio: Consumatum est. » Allora apre misticamente il Costato di Gesù Cristo, e dal Cuor di Gesù fa scendere col Sangue l’Acqua di grazia ristoratrice. – Poi con Gesù chinando come dalla croce il capo a lui sul letto, gli giura all’orecchio, che già in cielo si fa gaudio maggiore pel suo ritorno alla grazia, che non si faccia pel possesso di cento giusti. Si; si fa gaudio perché oggi il figliuolo perduto torna al Padre suo in cielo!… Il moribondo fidato a quel labbro sacramentale e nella serena confidenza con cui gli parla l’uomo di Dio, sul letticciuolo della morte vede brillarsi un raggio di luce celeste…; fino sulla sponda della bara respira un’aura di consolazione… e trova un po’ di riposo nell’agonia!… Poi con un moto di pentimento osa stendere le braccia rassegnate a Dio. Oh! ve’ che una lagrima insanguinata riga le guance riarse dalla morte! Il Sacerdote pronto la raccoglie, e la presenta nel calice di Gesù Cristo al Padre del gran perdono. Il perdono! consoliamoci è già concesso…. Ecco il Sacerdote sclama nella cameretta: « Pace a quelli che abitano in questa casa: è vero che noi non siamo degni: ma fa coraggio, o fratello, accogli il Figliuolo divino, che ti manda il Padre per condurti seco a vita eterna… » (Rit. Rom.). Oh… Oh! Chi è mai allora in quella camera paurosa? Allora là è Gesù crocifisso: e vi è il Sacerdote bagnato del suo Sangue nel Sacrificio: vi sono gli angeli che aspettano: vi sarà certo Maria che guarda dal cielo, e si abbassa appiè della croce col Figlio dei suoi dolori: vi è finalmente il peccatore giustificato, che spira in morte, o meglio! respira nella vita eterna, portatovi nel Costato di Gesù Cristo! L’ uomo non ha egli bisogno di questa fede? Noi benediciamo i bravi Sacerdoti che non risparmiano disagi per correre, forse con pericolo della vita, ad assistere i moribondi. Oh i santi uomini! essi imitano Gesù che pur nelle angosce della sua agonia, dimenticando i suoi tormenti assisteva il ladro morente, con divino amore.

L’ OFFERTA.

Esposizione del!’orazione: Per quem omnia etc.

« Pel Quale Voi sempre tutti questi beni create ecc. ecc. »

Gesù Redentore col distruggere il peccato ristora non solo e ricrea l’umana natura, ma riordina e rinnovella. la creazione, in cui venne il disordine per lo peccato. Il Sacerdote già consolato della riconciliazione dei peccatori, in questo sublime e santissimo istante cogli occhi della fede domina tutto il creato, e lo contempla nel Verbo divino, che tutto sostiene con la parola dell’onnipotenza. Dal Redentore divino vede come effondere si debba su tutte le creature l’influsso vivificante del suo Sangue ristoratore in sacrificio. Questa è l’opinione di molti Padri. Origene diceva (Uezio. Orig, lib. 2, cap. 2, q. 3, n. 20): il Sangue sparso sul Calvario non è stato utile solamente per gli uomini, ma anche agli Angeli, agli astri, ad ogni creatura. S. Gerolamo asseriva (Ep. 59, ad Avitum), che la croce del Salvatore aveva le cose che sono in terra, ed anche quelle che in cielo, pacificate. Al dolcissimo s. Francesco di Sales era di gran consolazione affermare che Gesù Cristo aveva sofferto per gli uomini e per gli Angioli (Lett. lib. 5, p. 38). Finalmente all’uopo nostro diceva s. Giovanni Grisostomo: « noi offriamo pel bene della terra, del mare e di tutto l’universo. » Perché noi saldiamo questo pensiero con tante autorità? Perché ci annoia fermarci in inutili e minute questioni di certi espositori dei riti così santi e di alti misteri significanti.  Su, su per man colla madre, e nella luce del suo tempio, giacché ci è dato vedere nell’intelligenza delle cose divine mentre andiam roteando su questo piccolo mondo, diciam con Origene ancora: l’altare era in Gerusalemme, e il Sangue della vittima bagnò l’universo. Perché piacque a Dio, dice s. Paolo (Colos. I, 20, Eph. I, 10), riconciliar tutte le cose per mezzo di Colui, che è il principio della vita, il primogenito dei morti, avendo pacificato pel Sangue sparso sulla croce quanto è in terra e quanto è in cielo. Basti! Noi adoriamo l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo, e cantiamo colla Chiesa: Terra, pontus, astra, mundus quo lavantur flumine (Inno del ven.). Oh si! la terra, il mare, le stelle, e l’universo tutto, si! tutto s’ha da purificare nel Sangue di Gesù Cristo, Redentore del cielo e della terra: e con tanta abbondanza di redenzione dinanzi, che farà il Sacerdote? Accenna Gesù misticamente crocifisso, e prega il Monarca dell’universo di rinnovar per Gesù tutta la creazione, cioè d’immergerla per Esso nella fiamma del vivificator suo Spirito, e riordinarla tutta a gloria del Creatore, a Sé; ed in essa a noi somministrare tutti i beni, secondo il disegno dell’eterna bontà nella misura della misericordia divina, di cui dà spettacolo sull’altare.

« Pel quale Gesù Voi tutti questi beni create ecc. ecc. »

Bene a ragione: perché è Gesù il Verbo onnipotente; e come per Esso sono fatte tutte le cose, e senza di Esso niente fu fatto; così per Esso solo devesi ristorare, e quasi ricreare la creazione. E lo farà volentieri secondo i segreti disegni di sua sapienza il Padre, che nel primo istante del tempo, nel creare l’universo, mirava già al Sacrificio, che il Verbo suo Figlio gli avrebbe offerto. Egli per questo con tanto amore lavorava la creta, che del suo soffio animava (Apoc. XIII); fino d’ allora pensava che vedrebbe sotto la specie di quei doni presentarsi in offerta l’Unigenito; e già divinamente se ne compiaceva. Bene osserva s. Tommaso, che nel nominare l’atto della creazione il Sacerdote non fa il segno di croce coll’atto di benedire, perché la benedizione di Dio a noi non viene dal primo atto della creazione, ma sì dalla redenzione operata dal mistero della croce (Tetul.) « Li santi+ficate, li vivi+ficate, li bene+dite e li donate a noi ecc. ecc. » Fa tre croci nel pronunciare queste parole. L’abbiamo già detto: la Redenzione è la ristorazione della creazione, che nel ministero della croce fu rinnovellata. « Li santificate » adunque vuol dire: « grande Iddio, per questo vostro Figlio tutte le creature riordinate a servire alla gloria di Voi,Creatore santissimo: così che fino un po’ di pane e un po’ di vino per Lui santificati non sono più dessi, ma diventano Corpo e Sangue suo; restandone solo le specie distinte e separate, a rappresentare la memoria della sua morte in croce: nel cui mistero tutte le cose riordinate e raddrizzate a servizio vostro; e in questo servizio ordinato consiste appunto la santità degli esseri tutti. » – « Li vivificate: » mentre il Verbo spira e mantien negli esseri la vita, qual mistero si opera qui? … I doni di Dio pel Redentore diventano alimento, che vivifica all’immortalità le nostre persone. « Li benedite e li date a noi; » per Gesù Redentore nostro si diffondono di fatto in tutte le creature le benedizioni, e massimamente in noi, a cui col dare il Figlio con bontà meravigliosa e al tutto divina, ci donate l’Autore, e la sorgente di tutte le benedizioni: il quale ricevendo noi degnamente, saremo da Lui santificati, vivificati e benedetti. Il Sacerdote continua l’azione; e pare a noi qui, che ci dica d’attaccarci a Gesù e di contemplare con tutta l’anima in Lui crocifisso il compimento del mistero ineffabile della Redenzione. Grande Iddio! E questo appunto l’istante, in cui si ricorda l’agonia di Gesù! Il Sacerdote si addentra nel mistero , e per farsi più presso, come Maria ss. sotto la croce, e cospergersi l’anima del Sangue di Gesù Cristo, scopre il calice! Alla vista di quel preziosissimo Sangue si prostra per terra adorandolo in compunzione. Con un cuor tutto pieno d’inesprimibili affetti, gettatosi fra le braccia di Dio, gli prende nel seno il Corpo del suo divin Figlio, e tenendolo sollevato sopra quel Sangue, a rappresentarlo così come era agonizzante in croce, fa con esso tre croci in segno delle tre ore di sua agonia (D. Thom. 2 p., q.83, a 5, et Bonav. in expos. Miss.). Vogliamo aggiungere ancora col Dottore angelico, come quelle tre croci ricordano anche le tre orazioni, piene di tanta pietà, che fece Gesù sulla croce. La prima in quella preghiera di carità al tutto divina, in cui diceva al Padre: « perdonate a questi; essi non san ciò che fanno. » La seconda quando disse con tanta tristezza: « Dio mio, Dio mio, m’avete adunque abbandonato? » La terza quando disse con maggior tenerezza: « nelle vostre mani, o Padre, raccomando lo Spirito mio! » Aggiungeremo altre spiegazioni seguenti. Eccoci adunque rappresentato qui innanzi agli occhi Gesù, per tutte quelle tre ore pendente in croce, che gronda vivo Sangue da tante lacerazioni. Segna ancor due croci fuor del calice, per indicare che da quel corpo esce il Sangue, e si separa l’anima nel momento della morte. Inoltre queste tre croci mettono dinanzi all’anima nostra da contemplare Gesù, che patì nel corpo pei flagelli, e per le ferite; patì nell’anima per la tristezza, pel tedio, per l’orrore: patì nell’onore per gli scherni e per le contumelie (S. Thom. 3 p. q. 49, a 5). Poi colle due croci fuori del calice si vuol significare (Merati, lib. I, p. I, pag. 571, et D. Thom. loc. cit.), che nel Redentore santissimo patì Dio impropriamente per l’unione ipostatica del vero Dio e del vero uomo nella sola Persona di Gesù Cristo.. – Patì adunque sì veramente Dio Figlio ma non il Padre e lo Spirito Santo: perciò fa le due croci fuori del calice, per significare che queste due Divine Persone non isparsero il sangue, perché non s’incarnarono. Diciamo ancora a consolazione delle anime devote, che quelle croci (D. Thom., 2 p., q. 85, a. 5.) danno a divedere, che la consacrazione del Corpo ss., e l’accettazione di questo Sacrificio e le grazie copiose che ne derivano, sono frutto della passione divina. Così si può trovar pascolo di tenera pietà nel considerare quelle tre croci fatte e questo punto. Insomma, tutte le create cose con noi debbono dar gloria a Dio. L’uomo, direm con Bossuet, impresta il suo cuore alle creature a lodar Dio umanamente; Gesù impresta il suo cuore a noi uomini a rendergli gloria e grazie divinamente.

Alza fra le mani il ss. Calice e sopra esso il ss. Corpo.

Esposizione di questa ultima Elevazione.

In quest’istante alza il Corpo ss. che là sulla croce pendeva svenato, alza anche di sotto nel calice il Sangue, che appunto sul Calvario grondava sotto la croce, e restava là sparso per terra! Il canone è per terminare. È questo forse il più tenero istante: popolo, popolo, e voi, anime buone, contemplate in silenzio il morente Gesù, che, come spirante misticamente, dall’altare vola in seno al Padre, e gli va a dire tante cose, proprio tutte per tutti noi! Deh! che dirà mai Gesù mostrandosi in quest’atto come una vittima svenata innanzi al Padre?… Padre santo, crediamo che grida col Cuore squarciato Gesù, questi meschinelli che mi ho intorno, sono figlioli del mio Sangue, mi costano tanti dolori, me li copro colle mie Piaghe, me li voglio salvi in paradiso!… » E noi qui con Gesù? Deh, che fortunato istante!… Ecco Gesù elevato dal Sacerdote che stringendo tra le mani la Santa Ostia par si tenga a Lui vivamente attaccato. Si è proprio Gesù che di mezzo a noi gettandosi in braccio al Padre, abbassa a noi l’amorevole sguardo per dirci: O figliuoli del mio Sangue, su qui con me, e sia pur grande l’altissimo Iddio, fate coraggio, insieme con me, colla mia parola istessa chiamatelo col nome di Padre…. e noi affrettiamoci di alzare le grida intorno a Gesù: « o Padre santo! Noi infelici abbiamo la testa tutta piena di cattivi pensieri; ma deh guardate Gesù; vi presenta la testa che fu coronata di spine per noi! Padre! abbiamo gli occhi e la bocca brutti di peccati; guardate il vostro Figlio; vi presenta gli occhi grommati di Sangue per le nostre cattive occhiate, la sua bocca pesta di pugni per le bestemmie, piena di Sangue per gli indegni discorsi! Padre, abbiamo le mani piene d’opere male: guardate Gesù; vi presenta l’una e l’altra mano squarciata e piena di Sangue per le cattive nostre azioni! Padre, abbiamo i piedi contaminati, perché andiamo colle persone pericolose nei luoghi cattivi, andiamo lontani dalla Chiesa, dai Sacramenti, ci andiamo a perdere; guardate il vostro Figlio, vi presenta l’uno e l’altro piede trafitto dai chiodi per noi! Ah Padre santo! Abbiamo il cuore guasto noi; ma Gesù ha qui il Cuore che geme Sangue, il Cuor che arde, e tien sempre viva questa ferita, fin che non ci abbia tutti con Lui ad ardere nell’eterno amore in paradiso » (Alla beata vergine Margarita Alacoque, quando Gesù in una apparizione ordinava che s’istituisse la festa del sacro Cuore suo (come si fece), compariva Egli col Cuor aperto dalla ferita e ardente di fiamme; e tale si vuole dipinto dalla pietà de’ fedeli, che sentono la verità del Mistero, e lo contemplano innamorati, lasciando i giansenisti a cinguettare!). Sarà questa sempre la più amabile preghiera. L’eterno Padre, contemplando sull’altare questo spettacolo del Figliuol suo, che in tanto abisso di umiltà, al cospetto della terra e del cielo, buttandosi sacrificato dinanzi alla Maestà sua divina, La glorifica di così infinita soddisfazione, abbraccia sull’altare il suo Gesù; e vedendosi fra le braccia il Figlio come svenato pei peccati degli uomini, che sono poi alla fine creature così da poco, stringendo fra le mani il Capo languente del suo Gesù: » Figliuol mio, Figliol mio! par che debba esclamare, è troppo ciò che tu fai pel Padre, restituendogli, anche quei figliolini che aveva perduto; » e bacia in volto tremante per amore il Figliuolo, in che si compiace eternamente. Qui è da richiamare alla mente, che nell’atto dell’offerta, nel calice col vino, che doveva diventare Sangue di Gesù, si mescolava un po’ d’acqua, per significare il popolo dei fedeli, che qui si hanno da unire con Gesù, come l’acqua si è col vino mischiata, confusa e insieme offerta. Ora adunque qui Gesù (come dalla croce spirava l’anima in braccio al Padre) si getta dall’altare in braccio al Padre, e gli porta seco in seno le anime dei redenti. Il Padre bacia in fronte il suo Figliuolo e in Lui abbraccia e bacia in fronte anche le povere nostre persone… Ma oimè che tentiam noi…. meschini! con così povere parole umane spiegare cose così sante e al tutto divine?… É meglio nel silenzio del labbro rapiti in cielo contemplare i beati con noi estatici a tanta bontà divina che provano gaudio di sempre nuova beatitudine nel vedere Gesù gettarsi dall’altare in seno al Padre, e dirgli con parola divina: « Padre, questi figliuoli noi vogliamo in beatitudine in paradiso! » – Ecco, ecco, tutti i beati adorano genuflessi, acclamano col loro cantico immortale all’Agnello divino, a Gesù Cristo, e per esso al Padre onnipotente nell’Eterno Amore, onore e gloria per tutti i secoli in paradiso (Apoc. III, 12). Per tutti i secoli in paradiso?… Ah non solo là in paradiso, ma il Sacerdote per dare avviso, che in quest’istante si compie invisibilmente tanto mistero, quanto appunto compie anch’esso il canone santo, alza la voce e ripete: « per tutti i secoli dei seccai, » invitando il popolo di terra a far eco al paradiso. Il popolo risponde: « Amen » Si sì, a Gesù Redentore, Primogenito dei morti, Principe dei re della terra, che così ci ha amati, e ci ha lavati dei nostri peccati col proprio Sangue; che fece noi regno e Sacerdoti suoi: a Dio suo Padre gloria ed impero per tutti i secoli dei secoli (Apoc. 1, 5, 6.). Deh! ammessi a partecipazione di tanto mistero, ascesi sul monte delle divine agonie, immersi nel lavacro del Sangue di Gesù Cristo, fermiamoci sulla sacra vetta un istante col cuore che scoppia, e con Gesù che si slancia in Paradiso, per la via del cielo, rispondiam colle lacrime: « Amen, Amen, sì verremo, sì veniamo a benedirlo là con parole che… ancor non conosciamo! »

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (8) “da Felice III (IV) a …. Vigilio I”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (8)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(Da Felice III (IV) a …. Vigilio I)

FELICE III (IV): 12 luglio  526-22 settembre

370-397 – 2° Concilio di Orange, iniziato il 3 luglio 529.

a) Preambolo

370. – Siamo venuti a conoscenza del fatto che alcuni, nella loro semplicità, vogliano parlare di grazia e di libero arbitrio senza molta attenzione e in un modo che non corrisponde alla regola della fede cattolica. Perciò, secondo l’esortazione e la volontà della Sede Apostolica, ci è sembrato giusto e ragionevole produrre e sottoscrivere di nostra mano, perché siano osservati da tutti, quei pochi capitoli che ci sono stati tramandati dalla Sede Apostolica e che gli antichi Padri hanno raccolto dai libri della Sacra Scrittura, per insegnare a coloro che pensano diversamente da come devono…

b) Canoni

Il peccato originale

371 – Can. 1. Se qualcuno dice che con l’offesa derivante dalla prevaricazione di Adamo, l’uomo non fu interamente mutato nel corpo e nell’anima in uno stato peggiore, e se crede che il solo corpo fosse sottoposto alla corruzione mentre la libertà dell’anima rimase intatta, ingannato dall’errore di Pelagio, contraddice la Scrittura che dice: “L’anima che ha peccato perirà” (Ezechiele XVIII), 20 e: “Non sai che se ti dai a qualcuno come schiavo, per obbedirgli, sei schiavo di colui al quale obbedisci? “. (Rm VI: 16) e: “Si è schiavi di colui dal quale ci si è lasciati vincere” (2 Piet. II, 19.)

372 – Can. 2. Se qualcuno afferma che la prevaricazione di Adamo abbia danneggiato solo lui e non i suoi discendenti, o se dichiara che sia solo la morte corporea la pena del peccato, e non il peccato la morte dell’anima, che attraverso un solo uomo è passata in tutto il genere umano, attribuisce un’ingiustizia a Dio contraddicendo l’Apostolo che dice: “Per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e così la morte è passata in tutti gli uomini, avendo tutti peccato in lui” (Rm V, 12) .

Della Grazia.

373 – Can.3 Se qualcuno dice che la grazia di Dio possa essere data su richiesta dell’uomo e che non sia la grazia stessa a farcela chiedere, contraddice il profeta Isaia o l’Apostolo che dice come lui: “Sono stato trovato da chi non mi cercava, mi sono reso visibile a chi non mi chiedeva” (Rm X,20; cfr. Is LXV, 1).

374 – Can. 4. Se qualcuno sostiene che Dio aspetta la nostra volontà per purificarci dal peccato, e se non ammette che anche la nostra volontà di purificazione è un effetto dell’infusione e dell’azione dello Spirito Santo in noi, resiste allo stesso Spirito Santo che dice attraverso Salomone: “La volontà è preparata dal Signore” (Pr VIII, 35 in LXX) e all’Apostolo nella sua salutare predicazione: “È Dio che opera in noi il volere e l’agire secondo il suo beneplacito” (cfr. Fil II, 13).

375 – Can. 5. Se qualcuno dice che l’aumento della fede, così come il suo inizio, e l’attrazione della fede con cui crediamo in Colui che giustifica gli empi e ci porta alla rigenerazione del santo Battesimo, non sia in noi un dono di grazia, cioè per ispirazione dello Spirito Santo, che raddrizza la nostra volontà portandola dall’infedeltà alla fede e dall’empietà alla pietà, ma che sia naturale per noi, si dimostra l’avversario dei dogmi apostolici, poiché San Paolo dice: “Confidiamo che Colui che ha iniziato in voi quest’opera buona la porti a compimento fino al giorno di Cristo Gesù”: “Per grazia siete stati salvati mediante la fede, e non da voi stessi: è il dono di Dio” (Ef II, 8). Chi dichiara naturale la fede con cui crediamo in Dio arriva a considerare, in un certo senso, come fedeli tutti coloro che sono estranei alla Chiesa di Cristo.

376 – Can. 6. Se qualcuno dice che la misericordia ci viene data da Dio quando, senza la grazia, crediamo, vogliamo, desideriamo, ci sforziamo, lavoriamo, preghiamo, vegliamo, studiamo, chiediamo, cerchiamo e bussiamo alla porta, e non confessa che la nostra fede, la nostra volontà e la nostra capacità di fare queste cose come dovremmo, avvengono in noi per infusione e ispirazione dello Spirito Santo; se subordina l’aiuto della grazia all’umiltà o all’obbedienza dell’uomo, e se non ammette che è il dono stesso della grazia a renderci obbedienti e umili, resiste all’Apostolo che dice: “Che cosa avete che non abbiate ricevuto? “1 Cor IV: 7 e: “È per grazia di Dio che sono quello che sono” 1Co XV, 10.

377 – Can. 7. Se qualcuno pretende di poter concepire, per così dire, con la sola forza della natura un buon pensiero riguardo alla salvezza della vita eterna o di sceglierlo o di dare assenso alla predicazione della salvezza del Vangelo, senza l’illuminazione e l’ispirazione dello Spirito Santo che dà a tutti la sua unzione quando aderiscono e credono alla verità, è ingannato da uno spirito di eresia e non comprende la parola che Dio ha pronunciato nel Vangelo: “Senza di me non potete fare nulla” (Gv XV,5), né le parole dell’Apostolo: “Non che noi stessi siamo in grado di concepire qualcosa che venga da noi stessi, ma ogni nostra capacità viene da Dio” (2 Cor III, 5).

378 – Can. 8. Se qualcuno sostiene che alcuni possono giungere alla grazia del battesimo per misericordia e altri per libero arbitrio, che è chiaro essere viziato in tutti coloro che sono nati dalla prevaricazione del primo uomo, dimostra di essere estraneo alla vera fede. Afferma infatti che questo libero arbitrio non è stato indebolito in tutti dal peccato del primo uomo, o almeno crede che sia stato solo danneggiato, così che tuttavia alcuni uomini possono ancora conquistare da soli, senza la rivelazione divina, il mistero della salvezza eterna. Quanto sia contraria questa dottrina, lo dimostra il Signore, il quale testimonia che non qualcuno, ma nessuno può venire a lui “se il Padre non lo ha attirato” (cfr. Gv VI, 44 ), come dice anche a Pietro: “Beato te, Simone, figlio di Giona, perché non te lo ha rivelato la carne e il sangue, ma il Padre mio che è nei cieli”. 1 Cor XII:3)

379 – Can. 9: “L’aiuto di Dio”. È per dono di Dio che noi pensiamo il bene e teniamo lontani i nostri passi dalla falsità e dall’iniquità; perché ogni volta che facciamo il bene, Dio opera in noi e con noi affinché possiamo operare.

380 Can. 10. L’aiuto di Dio. Anche i rigenerati e i santi devono sempre implorare l’aiuto di Dio per raggiungere il buon fine o per poter perseverare nel bene.

381 – 11. “Il carattere obbligatorio dei voti”. Nessuno consacrerebbe degnamente qualcosa a Dio se non avesse ricevuto da Lui ciò che consacra”, come sta scritto: “E ciò che abbiamo ricevuto dalle tue mani, te lo diamo” 1Cr XXIX,14.

382 – Can. 12″. Come Dio ci ama. Dio ci ama come saremo per suo dono, non come siamo per nostro merito.

383 – Can. 13. Il ripristino del libero arbitrio. Il libero arbitrio ferito nel primo uomo può essere ripristinato solo dalla grazia del Battesimo; “ciò che è andato perduto, lo può ripristinare solo Colui che poteva darlo”. La Verità stessa dice: “Quando il Figlio vi avrà liberati, allora sarete veramente liberi” (Gv VIII, 36).

384 – Can. 14. Nessun miserabile può essere liberato dalla sua miseria, per quanto grande essa sia, se non è prevenuto dalla misericordia di Dio”, come dice il Salmista: “Mi venga incontro la tua misericordia, Signore”, Sal LXXVIII, 8, e ancora: “Dio mio, la sua misericordia mi verrà incontro”, Sal LVIII,11.

385 – Can. 15. Rispetto allo stato in cui Dio lo aveva formato, Adamo era cambiato, ma in peggio, con la sua  iniquità. Rispetto allo stato in cui lo ha ridotto l’iniquità, l’uomo fedele è cambiato, ma in meglio, per la grazia di Dio. Il primo cambiamento è dovuto al primo peccatore, il secondo “cambiamento”, secondo il Salmista, “è dovuto alla destra dell’Altissimo” (cfr. Sal LXXVII, 11).

386 – Can. 16. Nessuno deve vantarsi di ciò che possiede come se non l’avesse ricevuto da un altro, o credere di averlo ricevuto solo perché una lettera è apparsa dall’esterno per essere letta, o ha suonato per essere ascoltata. Infatti, come dice l’Apostolo: “Se la giustizia viene dalla legge, Cristo è morto invano” Gal II, 21: “salendo in alto ha condotto in cattività i prigionieri, ha dato i suoi doni agli uomini” (cfr. Ef IV, 8 – Sal LXVIII, 19. Tutto ciò che si possiede, lo si riceve da lì; chi nega di averlo ricevuto da lì, in realtà non lo possiede o gli sarà tolto” Mt XXV, 29.

387 – Can. 17. Forza Cristiana. La forza dei pagani è prodotta dall’avidità terrena, ma la forza dei Cristiani è prodotta dalla grazia di Dio “riversata nei nostri cuori”, non dalla volontà del libero arbitrio che viene da noi, ma “dallo Spirito Santo che ci è stato dato” Rm V, 5.

388 – Can. 18: “La grazia non può essere impedita da alcun merito. Alle opere buone, se ci sono, è dovuta la ricompensa; ma la grazia, che non è dovuta, precede perché lo siano (ricompensate).

389 – Can. 19: “Nessuno può essere salvato se Dio non mostra misericordia. Anche se la natura umana fosse rimasta nell’integrità in cui è stata creata, non avrebbe potuto conservarla senza l’aiuto del suo Creatore; se dunque non può conservare, senza la grazia di Dio, la salvezza che ha ricevuto, come potrebbe, senza la grazia di Dio, riparare ciò che ha perduto?”.

390 – Can. 20. L’uomo non può fare il bene senza Dio. Dio fa nell’uomo molte cose buone che l’uomo non fa; ma l’uomo non fa nessuna cosa buona che Dio non gli abbia dato da fare.

391 – Can. 21. “Natura e grazia”. Come a coloro che, volendo essere giustificati dalla Legge, si allontanarono dalla grazia, l’Apostolo dice giustamente: “Se la giustizia viene dalla Legge, Cristo è morto invano” Ga II, 21, così a coloro che pensano che la grazia, che la fede in Cristo raccomanda e riceve, sia natura, si dice giustamente: se la giustizia viene dalla natura, “Cristo è morto invano”. Perché la Legge c’era già e non giustificava, e anche la natura c’era e non giustificava. Perciò Cristo non è morto invano, affinché la Legge fosse adempiuta da Colui che ha detto: “Non sono venuto a distruggere la Legge, ma a darle compimento” Mt V, 17, e affinché la natura perduta da Adamo fosse riparata da Colui che ha detto di essere venuto “a cercare e a salvare ciò che era perduto” Lc XIX, 10.

392 – Can. 22: “Ciò che è proprio dell’uomo. Nessuno ha nulla di proprio se non la menzogna e il peccato. Ma se qualcuno ha un po’ di verità e di rettitudine, ce l’ha da quella fonte divina verso la quale, persi nel deserto di questo mondo, dobbiamo sospirare, affinché, inumiditi per così dire da qualche goccia, non veniamo meno nel cammino”.

393 – Can. 23: “La volontà di Dio e dell’uomo”. Gli uomini fanno la loro volontà, non quella di Dio, quando fanno ciò che dispiace a Dio; ma quando fanno ciò che vogliono per servire la volontà divina, anche se fanno ciò che vogliono, è comunque la volontà di Colui che prepara e ordina ciò che vogliono.

394 – Can. 24: “I tralci della vite”. I tralci sono nella vite senza dare nulla alla vite, ma ricevendo da essa ciò che li sostiene: la vite, infatti, è nei tralci in modo tale da fornire loro il cibo necessario alla vita e non riceve nulla da loro. E quindi entrambi, avere Cristo che dimora in loro e dimorare in Cristo, sono utili ai discepoli, non a Cristo. Infatti, se un ramo è stato tagliato, un altro può spuntare dalla radice viva; ma colui che è stato tagliato non può vivere senza la radice” (cfr. Gv XV, 5-8).

395 – Can. 25. L’amore con cui amiamo Dio. Amare Dio è interamente un dono di Dio. Chi ama senza essere amato ha dato da amare. Siamo stati amati senza piacere, affinché diventassimo piacevoli. Perché ha riversato nei nostri cuori l’amore, lo Spirito del Padre e del Figlio, che noi amiamo allo stesso tempo del Padre e del Figlio.

c) Conclusione di Cesario di Arles.

Grazia, cooperazione umana e predestinazione

396 – Così, secondo le frasi della Sacra Scrittura e le definizioni degli antichi Padri, dobbiamo, con l’aiuto di Dio, predicare e credere che il peccato del primo uomo abbia talmente deviato e indebolito il libero arbitrio che da allora nessuno può amare Dio come dovrebbe, né credere o fare del bene a Dio, a meno che la grazia della misericordia divina non lo abbia impedito. Perciò crediamo che i giusti Abele e Noè e Abramo e Isacco e Giacobbe e tutta la moltitudine dei santi dell’antichità, non ricevettero questa fede ammirevole, di cui San Paolo li loda nella sua predicazione Eb XI, 1 (e seguenti), dalla bontà della natura data per la prima volta ad Adamo, ma dalla grazia di Dio. Questa grazia, sappiamo e crediamo, non si trova nel libero arbitrio di tutti coloro che desiderano essere battezzati, anche dopo la venuta del Signore, ma è conferita dalla liberalità di Cristo, secondo la parola più volte ripetuta che San Paolo predica: “Vi è stato dato non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per causa sua” (Fil I, 29), e questo: “Dio, che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno del Signore”, Fil I, 6, e questo: “Per grazia siete stati salvati mediante la fede, e questo non viene da voi stessi, ma è dono di Dio”, Ef 2,8, e ciò che l’Apostolo dice di se stesso: “1 Cor VII, 25 1 Cor 1; non dice: “perché ero”, ma “perché fossi”. E questo testo: “Che cosa avete che non abbiate ricevuto? “1Co IV, 7 e questo: “Ogni dono prezioso e ogni dono perfetto  scende dal Padre della luce” Giacomo I: 17, e questo: Nessuno possiede nulla che non gli sia stato dato dall’alto” Gv III, 27. Ci sono innumerevoli testimonianze nelle Sacre Scritture che potrebbero essere citate per dimostrare la grazia. La preoccupazione per la brevità ha fatto sì che venissero omessi; infatti, molti testi non saranno utili a coloro per i quali un numero ridotto di testi non è sufficiente.

397 – Crediamo anche, secondo la fede cattolica, che dopo aver ricevuto la grazia del Battesimo tutti i battezzati possono e devono compiere, con l’aiuto e la cooperazione di Cristo, tutto ciò che riguarda la salvezza della loro anima, se vogliono impegnarsi fedelmente in questo senso. Non solo non crediamo che alcuni uomini siano predestinati al male dalla potenza divina, ma se ci fosse qualcuno che credesse a un simile orrore, gli diciamo con tutta la nostra riprovazione: anatema! Confessiamo e crediamo anche per la nostra salvezza che in ogni opera buona non siamo noi a cominciare e ad essere poi aiutati dalla misericordia di Dio, ma è Lui, senza alcun buon merito da parte nostra, che per primo ci ispira la fede e l’amore, così che cerchiamo fedelmente il sacramento del Battesimo e dopo il Battesimo siamo in grado di fare con il suo aiuto ciò che gli piace. Per questo motivo dobbiamo credere molto chiaramente che la fede così ammirevole del ladrone chiamato dal Signore nella patria del paradiso (Lc XXIII, 43), quella del centurione Cornelio a cui fu inviato l’angelo del Signore (At X,3) e quella di Zaccheo che meritò di ricevere il Signore in persona, non fu un dono di natura, ma un dono della liberalità della grazia divina.

BONIFACIO II: 22 settembre

Lettera “Per filium nostrum” al Vescovo Cesaire di Arles, 25 25 gennaio 531

Conferma del 2° Consiglio di Orange

398 – (cap. 1)… Non abbiamo tardato a dare una risposta cattolica alla richiesta che avete composto con una lodevole preoccupazione per la fede. Riferisci, infatti, che alcuni dei Vescovi della Gallia concordano sul fatto che tutti gli altri beni provengano dalla grazia di Dio, ma che essi comprendono che la fede con cui crediamo in Cristo è di natura e non di grazia; e – cosa che è empio dire – sarebbe rimasta per gli uomini fin da Adamo in potere del libero arbitrio, e anche ora non ci sarebbe stata conferita. Chiedete che, per eliminare ogni ambiguità, confermiamo con l’autorità della Sede Apostolica questa professione di fede con la quale, al contrario, definite che la retta fede in Cristo e l’inizio di ogni buona volontà siano ispirati, secondo la verità cattolica, nei sensi di ciascuno dalla grazia preveniente di Dio.

399 – (cap. 2). E poiché è vero che molti Padri, e prima di tutti il Vescovo Agostino di benedetta memoria, ma anche i nostri predecessori, i Vescovi della Sede Apostolica, ne hanno trattato così ampiamente che d’ora in poi non ci dovrebbe essere più alcun dubbio sul fatto che anche la fede stessa ci venga dalla grazia, abbiamo pensato di poter fare a meno di una risposta articolata; tanto più che secondo le parole dell’Apostolo che avete citato e in cui dice: Se si dice: “Ho ottenuto misericordia credendo” (1 Cor VII,  25), e altrove: “Vi è stato dato non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per causa sua” (Fil I, 29), è evidente che la fede con cui crediamo in Cristo, così come tutti i beni, siano concessi ad ogni uomo per dono di grazia dall’alto, e non per la forza della natura umana. E di questo ci rallegriamo che anche la vostra Fraternità, nel tenere un colloquio con alcuni Sacerdoti dei Galli, abbia pensato a questo secondo la fede cattolica: In particolare, per quanto riguarda i punti su cui hanno definito con consenso unanime, come da voi riferito, che la fede con cui crediamo in Cristo è conferita dalla grazia preveniente della Divinità; aggiungendo anche che secondo Dio non c’è assolutamente nulla di buono che qualcuno possa volere, o iniziare, o fare, o portare a compimento senza la grazia di Dio, dal momento che il nostro Salvatore dice: “Senza di me non potete fare nulla” Gv XV: 5. Infatti è certo e cattolico che per tutti i beni, di cui il più eminente è la fede, anche quando non vogliamo ancora, la misericordia di Dio ci prevede perché vogliamo, è in noi quando vogliamo, e addirittura ci segue perché restiamo nella fede, come dice il profeta Davide: “Il mio Dio, la sua misericordia mi precede” Sal LIX,11; e ancora: “La mia misericordia è con lui” Sal LXXXIX,25; e altrove: “La sua misericordia mi segue” Sal XXIII,6 . Allo stesso modo il beato Paolo dice: “Chi ha dato per primo, perché gli sia dato in cambio? Tutto infatti viene da Lui, per mezzo di Lui e in Lui”, Rm XI, 35ss.

400 – Siamo quindi molto sorpresi che coloro che pensano in modo opposto siano ancora oggi oppressi dai residui del vecchio errore, tanto da credere che veniamo a Cristo non per il bene di Dio, ma per il bene della natura; e dicono che il bene della natura stessa, che, come sappiamo, è stato corrotto dal peccato di Adamo, sia più autore della nostra fede di Cristo; e non capiscono che stanno contraddicendo la parola del Signore, che dice: Nessuno viene a me se non gli viene dato dal Padre mio”, Gv, VI, 44; ma che contraddicono anche il beato Paolo che grida ai Giudei: “Corriamo alla battaglia che ci è posta davanti, considerando Colui che è l’autore e il perfezionatore della fede, Gesù Cristo”, Eb XII,1 (e seguenti). Poiché è così, non possiamo trovare ciò che essi vogliono attribuire alla volontà umana, senza la grazia di Dio, per la fede in Cristo, poiché Cristo è l’Autore e il perfezionatore della fede. – (Cap. 3) Perciò… approviamo la vostra professione di fede scritta sopra come conforme alle regole cattoliche dei Padri.

399. (cap. 2). E poiché è vero che molti Padri, e prima di tutti il vescovo Agostino di benedetta memoria, ma anche i nostri predecessori, i vescovi della Sede Apostolica, ne hanno trattato così ampiamente che d’ora in poi non ci dovrebbe essere più alcun dubbio sul fatto che anche la fede stessa ci viene dalla grazia, abbiamo pensato di poter fare a meno di una risposta articolata; tanto più che secondo le parole dell’Apostolo che avete citato e in cui dice: Se si dice: “Ho ottenuto misericordia credendo” (1 Cor 7, 25), e altrove: “Vi è stato dato non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per causa sua” (Fil 1, 29), è evidente che la fede con cui crediamo in Cristo, così come tutti i beni, sono concessi a ogni uomo per dono di grazia dall’alto, e non per la forza della natura umana. E di questo ci rallegriamo che anche la vostra Fraternità, nel tenere un colloquio con alcuni sacerdoti dei Galli, abbia pensato a questo secondo la fede cattolica: In particolare, per quanto riguarda i punti su cui hanno definito con consenso unanime, come lei ha riferito, che la fede con cui crediamo in Cristo è conferita dalla grazia preveniente della Divinità; aggiungendo anche che secondo Dio non c’è assolutamente nulla di buono che qualcuno possa volere, o iniziare, o fare, o portare a compimento senza la grazia di Dio, dal momento che il nostro Salvatore dice: “Senza di me non potete fare nulla” Gv 15:5 . Infatti è certo e cattolico che per tutti i beni, di cui il più eminente è la fede, anche quando non vogliamo ancora, la misericordia di Dio ci prevede perché vogliamo, è in noi quando vogliamo, e addirittura ci segue perché restiamo nella fede, come dice il profeta Davide: “Il mio Dio, la sua misericordia mi precede” Sal 59,11; e ancora: “La mia misericordia è con lui” Sal 89,25; e altrove: “La sua misericordia mi segue” Sal 23,6 . Allo stesso modo il beato Paolo dice: “Chi ha dato per primo, perché gli sia dato in cambio? Tutto infatti viene da lui, per mezzo di lui e in lui”, Rm 11,35ss.

400 -. Siamo quindi molto sorpresi che coloro che pensano in modo opposto siano ancora oggi oppressi dai residui del vecchio errore, tanto da credere che veniamo a Cristo non per il bene di Dio, ma per il bene della natura; e dicono che il bene della natura stessa, che, come sappiamo, è stato corrotto dal peccato di Adamo, è più autore della nostra fede di Cristo; e non capiscono che stanno contraddicendo la parola del Signore, che dice Nessuno viene a me se non gli viene dato dal Padre mio”, Gv 6,44; ma che contraddicono anche il beato Paolo che grida agli Ebrei: “Corriamo alla battaglia che ci è posta davanti, considerando colui che è l’autore e il perfezionatore della fede, Gesù Cristo”, Eb 12,1 (e seguenti). Poiché è così, non possiamo trovare ciò che essi vogliono attribuire alla volontà umana, senza la grazia di Dio, per la fede in Cristo, poiché Cristo è l’autore e il perfezionatore della fede. – (Cap. 3) Perciò… approviamo la vostra professione di fede scritta sopra come conforme alle regole cattoliche dei padri.

GIOVANNI II: (2 gennaio533-8 maggio 535)

Lettera “Olim quidem” ai senatori di Costantinopoli, marzo 534

Questioni cristologiche della Comunicazione di espressioni idiomatiche

401 – (l’imperatore Giustiniano) riferisce che sono sorte controversie riguardo alle seguenti tre questioni: (I) se Cristo nostro Dio possa essere detto “uno della Trinità”, cioè una Persona santa delle tre Persone della Santa Trinità. (II) Se Cristo Dio, impassibile secondo la Divinità, abbia sofferto nella carne. (III) Se Maria, sempre vergine, debba essere propriamente e realmente chiamata Madre di nostro Signore e Dio Cristo…

[L’espressione “uno della Trinità ha sofferto“]. Che Cristo sia veramente uno della Santa Trinità, cioè una Persona o sostanza santa, che i greci chiamano ipostasi, delle tre Persone della Santa Trinità, lo dimostriamo chiaramente con queste testimonianze (citate tra l’altro Gn III, 22 1Co VIII, 6; la professione di fede nicena Can.125-126).

[Cristo, “Dio che ha sofferto nella carne“]. Ma che Dio abbia sofferto nella carne, vogliamo confermarlo con queste testimonianze Dt. XXVIII, 66;  Gv XIV, 6 Mal III, 8 Act. III,15 Act XX, 28 1Co II, 8; Cirillo di Alessandria, Anatema 12 Can. 263; Leone I, Tom. à Flavien. Can. 290- 295; tra gli altri).

[Il titolo “Madre di Dio”]. Insegniamo che è giusto che Maria, gloriosa, santa e sempre Vergine, sia chiamata dai Cattolici, in senso proprio e vero, Madre di Dio e Madre di Dio, Verbo incarnato in Lei. Infatti, in senso proprio e vero, è lo stesso, incarnato in questi ultimi tempi, che si è degnato di nascere dalla santa e gloriosa Vergine sua Madre. Pertanto, poiché il Figlio di Dio si è incarnato in Lei in senso proprio ed è nato da Lei, confessiamo che in senso proprio ed effettivo è Dio che si è incarnato ed è nato da Lei. In “senso proprio”, affinché non si creda che il Signore Gesù abbia ricevuto il nome di Dio come titolo di onore o di favore, come pensava Nestorio nella sua stoltezza. In senso proprio, affinché non si creda che Egli abbia assunto in qualche modo una carne immaginaria o irreale, come affermava Eutiche nella sua empietà.

402 – (Riassunto della cristologia) Con ciò si dimostra chiaramente ciò che l’imperatore si aspettava, ciò a cui la Chiesa romana è legata e che tiene in onore, cioè che Cristo nostro Signore, come abbiamo spesso detto, sia uno della santa Trinità, che debba deve essere riconosciuto come di due nature, cioè completo nella divinità e nell’umanità, la carne non esistendo prima per essere unita dopo al Verbo, ma ricevendo in Dio stesso il Verbo il principio che la fa esistere. Poiché la carne del Verbo ha avuto inizio dal corpo della Madre, le proprietà e la verità di ciascuna delle nature, cioè della divinità e dell’umanità, sono state salvate (cfr. 293), confessiamo in modo cattolico il Figlio di Dio, nostro Signore Gesù Cristo, mettendo da parte ogni ulteriore cambiamento e confusione. Infatti, riconosciamo le nature in Lui solo considerando e confessando le differenze di divinità e umanità. Ma parlando di due nature non riconosciamo due persone in Cristo, per cui sembra che operiamo una divisione dell’unione e che ci sia – lungi da noi – una quaternità e non una trinità. – una quaternità e non una trinità, come pensa Nestorio nella sua follia; né confondiamo queste nature unite quando confessiamo l’unica persona di Cristo, come pensa Eutiche nella sua empietà. Ma come la Chiesa romana ha finora ricevuto e venerato il Tomus di Papa Leone e tutte le sue lettere, e i quattro concili di Nicea, Costantinopoli, il primo di Efeso e quello di Calcedonia, così noi li seguiamo, li abbracciamo e li osserviamo.

AGAPETO I: (13maggio 535-22 aprile 536)

SILVERIO: 1 (8)? Giugno 536-11 novembre 537

VIGILIO: (11 novembre 537-7 giugno 555)

Su istigazione dell’imperatrice Teodora, papa Silvestro fu deposto e il 29 marzo Vigilio fu dichiarato suo successore. Solo dopo le dimissioni di Silvestro, l’11 novembre, Vigilio fu legittimato.

Editto dell’imperatore Giustiniano al patriarca Menas di Costantinopoli, pubblicato al Concilio di Costantinopoli nel 543.

Anatemi contro Origene.

403 – 1: Se qualcuno dice o pensa che le anime degli uomini preesistano, nel senso che prima erano spiriti e potenze sante che, stanche della contemplazione di Dio, si siano trasformate in uno stato inferiore; che per questo motivo, essendosi raffreddate nell’amore di Dio e quindi essendo chiamate anime, siano state mandate nei corpi per la loro punizione, sia anatema!

404. – 2: Se qualcuno dice o sostiene che l’anima del Signore esisteva ed era unita al Dio-Verbo prima che si incarnasse e nascesse dalla Vergine, sia anatema!

405. – 3: Se qualcuno dice o sostiene che il corpo di nostro Signore Gesù Cristo fu formato per la prima volta nel grembo della Beata Vergine, e che in seguito Dio Verbo e l’anima, già esistenti, si unirono ad esso, sia anatema!

406 – 4: Se qualcuno dice o sostiene che il Verbo di Dio si è fatto simile a tutti gli ordini celesti, diventando un cherubino per i cherubini e un serafino per i serafini, diventando simile a tutte le potenze superiori, sia anatema!

407 – 5: Se qualcuno dice o sostiene che nella risurrezione i corpi degli uomini risorgeranno in forma di sfera, e non confessa che noi risorgiamo in piedi, sia anatema.

408 – 6 Se qualcuno dice o sostiene che il cielo, il sole, la luna, le stelle e le acque che sono sopra i cieli sono forze animate e ragionevoli (materiali), sia anatema!

409 – 7. Se qualcuno dice o sostiene che Cristo Signore, nell’età futura, sarà crocifisso per i demoni, come per gli uomini, sia anatema!

410 – 8. Se qualcuno dice o sostiene che la potenza di Dio è limitata, o che ha creato quanto poteva abbracciare e pensare, o che le creature sono co-eterne a Dio, sia anatema!

411 – 9. Se qualcuno dice o pensa che la punizione dei demoni e degli empi sia temporanea, e che avrà fine dopo un certo tempo, o se c’è una restaurazione dei demoni e degli empi, che sia anatema!

Lettera “Dum in sanctae” a tutto il popolo di Dio, (5 febbraio 552).

Il Papa, che si era rifugiato a Calcedonia per sfuggire all’imperatore, utilizza queste lettere per opporsi alle attività monofisite dell’imperatore.

Professione di fede di Papa Vigilio

412 – Sappiano dunque tutti che noi predichiamo, sosteniamo e proclamiamo quella fede che fu trasmessa dagli Apostoli e mantenuta inviolata dai loro successori, che il venerabile sinodo dei 318 padri di Nicea accolse con la luce dello Spirito Santo e diede la forma di un simbolo, e che fu poi pubblicata dagli altri tre santi sinodi, cioè quelli di Costantinopoli… di Efeso… di Calcedonia.

413 – Così nostro Signore, contro la ferocia di errori di questo tipo, ha armato dal cielo il ministero pastorale che aveva affidato al beato apostolo Pietro con una triplice ingiunzione, dicendo: “Pasci i miei agnelli”. E giustamente la cura di nutrirli fu affidata a colui la cui eccellente professione di fede fu lodata dalla bocca del Signore… con l’ammirevole brevità di una domanda e di una risposta confessò che uno e lo stesso (Cristo) è Figlio dell’uomo e Figlio di Dio: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Mt XVI, 16, esprimendo con ciò il mistero della santissima Incarnazione, poiché nell’unità della Persona e conservando la proprietà delle due nature era allo stesso tempo uomo e Dio, e rimase ciò che prese al tempo della sua sempre Vergine Madre e ciò che è prima dei secoli nascendo dal Padre. Ma unendosi alla carne, senza confusione, senza divisione, senza cambiamento e sostanzialmente, è venuto Dio Verbo, il nostro Emmanuele, atteso grazie all’annuncio della Legge e dei profeti. “Il Verbo dunque si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, Gv 1,14, tutto in ciò che è suo, tutto in ciò che è nostro, prendendo carne dal grembo materno con un’anima razionale e intellettuale… Si è fatto iniziare in umanità per renderci coeredi della sua eternità; si è degnato di condividere la sorte della nostra natura perché noi partecipassimo alla sua immortalità; si è fatto povero pur essendo ricco perché noi fossimo arricchiti dalla sua povertà (cfr. 2 Cor VIII, 9); ha cancellato il registro accusatorio dei nostri peccati e ha perdonato tutto ciò che è nostro (cfr. Col II, 13s). … affinché il “mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Cristo Gesù” 1 Tm II, 5 liberi dalla maledizione in cui il primo uomo, terreno, era tenuto prigioniero nei legami della morte, essendo il secondo uomo, celeste 1 Cor XV, 47 che schiaccia la morte con la morte.

414 – Il Figlio di Dio ha sofferto per noi, è stato crocifisso nella carne, è morto nella carne ed è risorto il terzo giorno, affinché, rimanendo la natura divina impassibile e mantenendo la verità della nostra carne, potessimo professare sia le sofferenze che i miracoli dell’unico e medesimo Signore, il nostro Dio Gesù Cristo, affinché, considerando la glorificazione del nostro Capo, ciò che il corpo di tutta la Chiesa ha percepito come primizia dai morti nel nostro Capo, cioè in Cristo Dio e Signore, lo attenda anche in coloro che sono sue membra alla venuta della gloria futura. Il nostro stesso Redentore siede dunque alla destra del Padre, uno e medesimo senza confusione delle due nature, senza divisione della persona, e rimanendo, crediamo, in due nature e in due nature, e da lì verrà a giudicare i vivi e i morti.

415 –  Ma il Padre è con questo stesso Figlio unigenito e con lo Spirito Santo una sola cosa nella Divinità e di natura uguale e senza distinzione. La pienezza di questa fede il Signore l’ha comandata agli Apostoli dopo la resurrezione, dicendo: “Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” Mt XXVIII, 19. Ha detto “nel nome”, non ha detto “nei nomi”, affinché in coloro nei quali c’è una sola potenza, una sola forza, una sola divinità, una sola eternità, una sola gloria, una sola onnipotenza, una sola beatitudine, una sola operazione ed una sola natura, rimanga l’integrità di un solo nome. Infatti, nulla nella Divinità è diverso, poiché solo la proprietà manifesta delle Persone è designata dalla distinzione. Tutto ciò che la Trinità è, dunque, rimane una divinità consustanziale e senza differenze.

Costituzione (1), Inter innumeras sollicitudines sui “Tre Capitoli“, all’imperatore Giustiniano, 14 maggio 553.

Condanna degli errori del nestorianesimo in merito a l’umanità di Cristo.

416 – 1. Se qualcuno, salvata l’inconvertibilità della natura divina, non confessa che il Verbo si è fatto carne e che fin dal suo concepimento nel grembo della Vergine ha unito secondo l’ipostasi i principi della natura umana, ma dice che Dio Verbo era come con un uomo già esistente, in modo che così non si creda che la santa Vergine sia veramente la Madre di Dio, ma che questo appellativo sia solo verbale, sia anatema!

2. Se qualcuno nega che l’unità delle nature in Cristo sia fatta secondo l’ipostasi, ma dice invece che Dio Verbo abiti in un uomo che ha un’esistenza separata come in uno dei giusti, e quindi non confessa l’unità delle nature secondo l’ipostasi, per cui Dio Verbo è rimasto e rimane, insieme alla carne che ha assunto, una sola ipostasi o persona, sia anatema!

418 – (3) Se qualcuno nell’unico Cristo divide le parole del Vangelo e degli apostoli, così da introdurre una divisione delle nature che sono unite in lui, sia anatema.

419 – 4. Se qualcuno dice che l’unico Gesù Cristo, vero Figlio di Dio e vero Figlio dell’uomo, ignorava il futuro o il giorno dell’ultimo giudizio, e che poteva conoscere solo ciò che la divinità che abita in lui come in un altro gli rivelava, sia anatema!

420 – 5. Se qualcuno, in riferimento al passo dell’Apostolo in Eb V,7ss, in cui si dice che Cristo conobbe per esperienza cosa significava obbedire e presentò, con un grande grido e lacrime, preghiere e suppliche a Colui che poteva salvarlo dalla morte, attribuisce questo passo a Cristo come spogliato della sua divinità, divenuta perfetta attraverso gli sforzi della virtù, così che sembra introdurre così due Cristi o due Figli; E se non crede che un solo e medesimo Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, in due nature e in due nature inseparabili e indivise, debba essere confessato e adorato, sia anatema.

2° Concilio di Costantinopoli (5° ecumenico) 5 maggio-2 giugno 553

421-438. 8a sessione, 2 giugno 553: canoni.

Anatemi contro i tre capitoli.

421 – 1. Se qualcuno non confessa una sola natura o sostanza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, una sola potenza e una sola forza, una sola Trinità consustanziale, una sola Divinità adorata in tre ipostasi o persone, sia anatema. Perché c’è un solo Dio e Padre, del quale sono tutte le cose, un solo Spirito Santo, nel quale sono tutte le cose.

422. – 2. Se qualcuno non confessa che ci sono due generazioni di Dio Verbo, una prima dei secoli, dal Padre, senza tempo e incorporea, e l’altra negli ultimi giorni, dallo stesso Verbo che è disceso dal cielo e si è incarnato dalla santa e gloriosa Madre di Dio sempre vergine ed è stato generato da lei, sia anatema.

423 – 3. Se qualcuno dice che un altro è il Verbo di Dio che ha fatto miracoli e un altro il Cristo che ha sofferto, o dice che il Dio-Parola è unito al Cristo nato da una donna Ga 4:4 , o che egli è in lui come un altro in un altro; Ma che non sia lo stesso Signore nostro Gesù Cristo, il Verbo di Dio incarnato e fatto uomo, lo stesso autore di miracoli e soggetto di sofferenze che ha volontariamente sopportato nella carne, sia anatema.

424 – 4. Se qualcuno dice che l’unione di Dio Verbo con l’uomo è avvenuta per grazia o per operazione o per uguaglianza di onore, o per autorità, o per trasferimento, relazione o potere; o per benevolenza, come se Dio Verbo si fosse compiaciuto nell’uomo che aveva della sua stoltezza; Oppure secondo l’omonimia per cui i nestoriani, chiamando il Dio-Verbo Gesù e Cristo e nominando l’uomo preso a parte Cristo e Figlio, parlando evidentemente di due persone, fingono di parlare di una sola persona e di un solo Cristo dal punto di vista dell’appellativo, dell’onore, della dignità e dell’adorazione; ma se non si confessa che l’unione di Dio Verbo con la carne animata da un’anima ragionevole e pensante è avvenuta secondo la composizione, cioè secondo l’ipostasi, come hanno insegnato i santi Padri; e se per questo motivo non confessa la sua unica ipostasi, che è il Signore Gesù Cristo, uno della santa Trinità, che sia anatema.

425 – Infatti, questa unione è stata intesa in molti modi; alcuni, seguaci dell’empietà di Apollinare ed Eutiche, sostenendo la scomparsa degli elementi che si sono uniti, propugnano un’unione per confusione; altri, pensando come Teodoro e Nestorio, favorendo la divisione, introducono un’unione di relazione; tuttavia la santa Chiesa di Dio, respingendo l’empietà delle due eresie, confessa l’unione del Dio-Verbo con la carne secondo la composizione, cioè secondo l’ipostasi. Infatti, l’unione per composizione nel mistero di Cristo non solo conserva senza confusione gli elementi uniti, ma non ne ammette nemmeno la divisione.

426 – (Can. 5) Se qualcuno ammette l’unica ipostasi di nostro Signore Gesù Cristo come se implicasse il significato di più ipostasi, e con questo mezzo cerca di introdurre nel mistero di Cristo due ipostasi o due persone, e dopo aver introdotto due persone, parla di una sola persona, secondo la dignità, l’onore o il culto, come scrissero Teodoro e Nestorio nella loro follia; E se calunnia il santo concilio di Calcedonia, come se avesse usato l’espressione “una sola ipostasi” in questo senso empio; e se non confessa che il Verbo di Dio è stato unito alla carne secondo l’ipostasi, e che quindi non c’è che una sola ipostasi o persona, e che è in questo senso che il santo concilio di Calcedonia ha confessato una sola ipostasi di nostro Signore Gesù Cristo, che costui sia anatema. La Santissima Trinità, infatti, non ha ricevuto l’aggiunta di una persona o di un’ipostasi, nemmeno dopo l’incarnazione dell’unico membro della Santissima Trinità, il Verbo di Dio.

427 – (Can. 6). Se qualcuno dice che è in un senso improprio e falso che la santa, gloriosa e sempre vergine Maria è la Madre di Dio, o che lo è per trasferimento, come se un semplice uomo fosse stato generato da lei, ma non nel senso che il Verbo di Dio si è incarnato; ma la generazione dell’uomo da Maria è secondo loro attribuita per transfert a Dio Verbo come unito all’uomo che è nato, e se calunnia il santo Concilio di Calcedonia dicendo che esso dichiara la Vergine Madre di Dio nel senso empio immaginato da Teodoro; O se qualcuno la chiama madre dell’uomo o madre di Cristo, come se Cristo non fosse Dio, ma non confessa che è propriamente e veramente Madre di Dio, perché Dio Verbo, generato dal Padre prima dei secoli, si è incarnato da lei negli ultimi giorni, e fu con questo sentimento religioso che il santo concilio di Calcedonia la confessò Madre di Dio, costui sia anatema.

428 – (Can. 7) Se qualcuno dice “in due nature”, non confessa che nella divinità e nell’umanità si riconosce il nostro unico Signore Gesù Cristo, per significare con ciò la differenza delle nature da cui l’unione ineffabile è stata realizzata senza confusione, senza che il Verbo si sia trasformato nella natura della carne, né che la carne sia passata nella natura del Verbo (perché ciascuno rimane ciò che è per natura, anche dopo la realtà dell’unione secondo l’ipostasi), ma se prende tale espressione, a proposito del mistero di Cristo, nel senso di una divisione in parti, o se, confessando il numero delle nature nel nostro unico Signore, Gesù Cristo, Dio Verbo incarnato, non si limita alla mera considerazione concettuale della differenza dei principi di cui è costituito, differenza che non viene eliminata dall’unione (perché l’uno è dei due e i due dall’uno), ma se usa il numero a tal punto da avere nature separate, ognuna con la propria ipostasi, tale uomo sia anatema!

429 (Can. 8). Se qualcuno, confessando che l’unione della divinità e dell’umanità è stata fatta da due nature, o parlando di una sola natura incarnata di Dio Verbo, non prende queste formule nel senso in cui le hanno insegnate i santi Padri, cioè che, essendo stata fatta l’unione secondo l’ipostasi dalla natura divina e dalla natura umana, ne è risultato un solo Cristo; ma se per mezzo di queste espressioni intende introdurre un’unica natura o sostanza della Divinità e della carne di Cristo, che tale uomo sia anatema!

430. Infatti, quando diciamo che il Verbo unigenito fu unito secondo l’ipostasi, non diciamo che avvenne una sorta di fusione reciproca delle nature; pensiamo che il Verbo fosse unito alla carne, ciascuna delle nature rimanendo piuttosto quella che era. Perciò uno è Cristo, Dio e uomo, lo stesso, consustanziale al Padre secondo la sua divinità, consustanziale a noi secondo la sua umanità. La Chiesa di Dio, infatti, respinge e anatemizza anche coloro che dividono o tagliano in parti il mistero della divina economia di Cristo e coloro che vi introducono confusione.

431 (Can. 9). Se qualcuno dice che Cristo è adorato in due nature, da cui introduce due culti, uno proprio di Dio Verbo, l’altro proprio dell’uomo; o se qualcuno, con l’intenzione di sopprimere la carne o confondere la divinità e l’umanità, si forma l’idea mostruosa di una sola natura o sostanza dei principi uniti, e così adora Cristo: ma se non adora con un’unica adorazione Dio Verbo incarnato con la propria carne, come la Chiesa ha ricevuto fin dall’inizio, tale uomo sia anatema!

432 – (Can. 10). Se qualcuno non confesserà che Colui che è stato crocifisso nella carne, il Signore nostro Gesù Cristo, è vero Dio, Signore della gloria, e uno della santa Trinità, costui sia anatema!

433 – (Can. 11). Se qualcuno non anatemizza Ario, Eunomio, Macedonio, Apollinare, Nestorio, Eutiche e Origene, e i loro empi scritti, e tutti gli altri eretici condannati e anatemizzati dalla santa Chiesa cattolica e apostolica e dai quattro santi Concili sopra menzionati, come pure tutti coloro che hanno tenuto o tengono opinioni simili a quelle dei suddetti eretici, e hanno persistito nella loro empietà fino alla morte, costui sia anatema!

434. (Can. 12). Se qualcuno difende l’empio Teodoro di Mopsuestia, che afferma che un altro è il Dio-Parola e un altro il Cristo, il quale, turbato dalle passioni dell’anima e dai desideri della carne, si liberò a poco a poco dalle attrattive inferiori e così, reso migliore dal progresso delle sue opere e divenuto del tutto irreprensibile con la sua condotta, fu battezzato come un semplice uomo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; e, con il battesimo, è stato ritenuto degno di ricevere la grazia dello Spirito Santo e l’adozione filiale; e, come un’immagine regale, è adorato nella persona del Verbo Dio; e dopo la sua resurrezione è diventato immutabile nei suoi pensieri e totalmente irreprensibile. Lo stesso empio Teodoro disse che l’unione del Dio-Parola con Cristo era dello stesso ordine di quella di cui parla l’Apostolo per l’uomo e la donna: “Saranno due in una sola carne” Ef 5,31 . E oltre alle sue altre innumerevoli bestemmie, osò dire che dopo la risurrezione, quando il Signore soffiò sui suoi discepoli dicendo: “E quest’uomo dice anche che la confessione di Tommaso, quando toccò le mani e il costato del Signore dopo la Risurrezione, il “Mio Signore e mio Dio”, Gv 20,28, Tommaso non lo disse di Cristo, ma che stupito per la meraviglia della Risurrezione, Tommaso lodò Dio che aveva risuscitato Cristo.

435. Nella sua interpretazione degli Atti degli Apostoli, lo stesso Teodoro paragona Cristo a Platone, Mani, Epicuro e Marcione; come ognuno di loro, dice, dopo aver inventato la propria dottrina, fece chiamare i suoi seguaci platonici, manichei, epicurei e marcioniti, così, dopo che anche Cristo ha inventato una dottrina, i cristiani sono chiamati come lui. Se dunque qualcuno difende il suddetto empissimo Teodoro e i suoi empi scritti, nei quali ha diffuso le bestemmie menzionate e innumerevoli altre contro il nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo, e non anatematizza lui e i suoi empi scritti e coloro che lo accolgono, lo difendono o dicono che le sue esposizioni sono ortodosse, e coloro che hanno scritto a suo favore e in  coloro che hanno scritto a favore di lui e dei suoi empi scritti, e coloro che hanno o potrebbero avere opinioni simili e sono rimasti fino alla fine in tale eresia, siano anatema.

436 – (Can. 13). Se qualcuno difende le opere empie di Teodoreto contro la vera fede, contro il primo e santo Concilio di Efeso, contro San Cirillo e i suoi dodici capitoli (vedi 252-263); di tutto ciò che ha scritto a favore dell’empio Teodoro, di Nestorio e di altri che hanno le stesse opinioni dei suddetti Teodoro e Nestorio, e che accolgono loro e la loro empietà; e se per loro chiama empi i Dottori della Chiesa che sostengono che l’unione di Dio Verbo è stata fatta secondo l’ipostasi; e se non anatematizza gli scritti empi menzionati, coloro che hanno tenuto o hanno le stesse opinioni di loro, tutti coloro che hanno scritto contro la fede ortodossa o contro San Cirillo e i suoi dodici capitoli, e che sono finiti in tale empietà, che tale uomo sia anatema!

437 – (Can. 14). Se qualcuno difende la lettera che si dice sia stata scritta da Ibas a Maris il Persiano, in cui si nega che il Dio-Verbo incarnato da Maria, la santa e sempre vergine Madre di Dio, si sia fatto uomo; in cui si dichiara che fosse un semplice uomo ad essere generato da Lei, un uomo che chiamano Tempio, come se uno fosse il Dio-Verbo e l’altro l’uomo; dove San Cirillo, l’araldo della vera fede dei cristiani ortodossi, è accusato di essere eretico e di aver scritto gli stessi errori dell’empio Apollinare; dove il primo santo Concilio di Efeso è rimproverato di aver deposto Nestorio senza giudizio e senza indagine. La stessa empia lettera definisce empi e contrari alla retta fede i dodici capitoli di San Cirillo 252-263 e giustifica Teodoro e Nestorio e le loro empie dottrine e scritti. Se dunque qualcuno difende la lettera citata e non anatemizza la lettera e coloro che la difendono e dicono che è ortodossa, almeno in parte, coloro che hanno scritto o scrivono in suo favore o in favore delle empietà che essa contiene in nome dei santi Padri e del santo Concilio di Calcedonia e che rimangono fino alla fine in questi errori, costui sia anatema!

438 – Dopo aver così confessato tutti questi punti che abbiamo ricevuto dalla Sacra Scrittura, dall’insegnamento dei santi Padri e dalle definizioni dell’unica e medesima fede fatte dai quattro santi Concili sopra menzionati; dopo aver condannato gli eretici e la loro empietà, e anche l’empietà di coloro che hanno giustificato o stanno giustificando i tre capitoli sopra menzionati, e che hanno perseverato o continuano a perseverare nel loro stesso errore; se qualcuno si impegna a trasmettere, insegnare o scrivere ciò che è in opposizione alle dichiarazioni che abbiamo formulato, se è un Vescovo o iscritto al clero, poiché agirebbe in modo incompatibile con lo stato sacerdotale ed ecclesiastico, sarà privato dell’episcopato o dell’ufficio clericale; se è un monaco o un laico, sarà anatemizzato.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (da Pelagio I a Bonifacio V) (9)

VISIONI DEGLI ULTIMI TEMPI DELLA SUORA DELLA NATIVITA’

Jeanne le Royer, Suora della Natività (1731-1798)

[resource: http://vincentdetarle.free.fr/catho/jeanne_le_royer.html] *

* [Questo sito riporta diversi messaggi relativi a presunte apparizioni o rivelazioni celesti, la maggior parte dei quali non ha mai ricevuto approvazione da parte di autorità della vera Chiesa cattolica. Pertanto, esse rientrano, come pressoché tutto il sito, sotto l’anatema di Officiorum ac munerum di S. S. Leone XIII e Pascendi di S. Pio X. – Il sito riporta numerosi riferimenti e scritti di personaggi della falsa chiesa modernista gestita dagli antipapi dall’ottobre del 1958 in poi.].

[N.B. Le visioni di J. le Royer sono pubblicate in 4 volumi in lingua francese e redatte da Sacerdoti in diverse edizioni – con l’approvazione dei superiori della Suora – che ne hanno curato la stesura conformemente alla teologia dogmatica e morale della Chiesa cattolica, dalla quale non si discostano minimamente in ogni punto, ed alle Sacre Scritture. All’epoca della pubblicazione non erano ancora in vigore le Costituzioni apostoliche citate di Leone XIII e S. Pio X, per cui l’imprimatur non era indispensabilmente richiesta. I volumi, pur non avendo il riconoscimento ufficiale della Chiesa, meritano comunque di essere letti pur senza richiederne l’assenso “de fide”, ma – come nei decreti di Urbano VIII – con una semplice fede umana – ndr. -]. Anche il grande scrittore francese A. Nicolas nelle sue note “Congetture …” riferisce diversi passi dai volumi della Suora, sovapponendoli e confrontandoli con i Commenti dell’Apocalisse del beato B. Holzhauser, già pubblicati a suo tempo sul blog.

Jeanne le Royer, conosciuta in ambito religioso come Suora della Natività, nacque il 23 gennaio 1731 nel villaggio di Beaulot, vicino a Fougères, in Bretagna, ed entrò nel convento delle Urbaniste l’8 luglio 1852, all’età di 21 anni. Si dice che fin da piccola avesse avuto delle visioni, una più straordinaria dell’altra. La sua educazione fu rudimentale, poiché imparò a leggere ma non a scrivere. Visioni, estasi e profezie caratterizzarono la vita di Jeanne in modo crescente. Un giorno vide il tabernacolo come una fornace. Ma ciò che più stupisce sono le rivelazioni sul futuro. È la profetessa della rivoluzione francese del 1789. Morì in odore di santità il 15 agosto 1798. – Qui riportiamo alcuni brevi estratti riguardanti gli ultimi tempi della vita del mondo. Ci riserviamo di pubblicare più in là, a Dio piacendo, tradotti dagli originali, più ampi ed interessanti interi paragrafi e capitoli.

Visione della Suora della Natività:

I santi ci parlano

“I figli della Chiesa, legati dalla carità, formeranno una specie di repubblica: la più perfetta che si sia mai vista sulla terra”.

Visioni e messaggi di Jeanne Le Royer (1731-1798) sulla fine dei tempi:

(7) La Suora della Natività profetizza il trionfo della Chiesa e della Generazione Santa. La mistica di Fougères vede che, dopo la catastrofe degli ultimi tempi, la Santa Chiesa sussisterà sulla terra, in grande pace ed in profonda tranquillità. La Chiesa non sarà in alcun modo distrutta. I peccatori che avranno conservato qualche residuo di fede, sentiranno la grazia rinascere nei loro cuori. Si convertiranno perfettamente al Signore. Saranno così contriti per le loro colpe che molti ne moriranno di dolore. Saranno tutti santi e l’assemblea dei fedeli risuonerà di ringraziamenti. – Si annuncia anche che le persone che non erano state battezzate e che non avevano mai conosciuto il vero Dio, confluiranno nel cuore della Chiesa e confesseranno a gran voce la loro infedeltà.  – I figli della Chiesa, legati dalla carità, formeranno una sorta di repubblica: la più perfetta che si sia mai vista sulla terra. Non ci saranno leggi civili, né giurisdizione, né polizia esterna: si conoscerà solo l’autorità di Dio. Tutti seguiranno la Legge Santa, per principio di coscienza e di amore, senza deviare da essa in un solo punto. Questa sarà la vera teocrazia; tale sarebbe stato l’unico governo del mondo, se l’uomo non avesse peccato. I beni saranno tenuti in comune, senza distinzione tra i “miei” e i “tuoi”; così che la Chiesa primitiva era solo un abbozzo di questa.  « Questa – dice la santa suora – sarà la nuova patria dei figli di Dio rispetto al resto del mondo. Gli altri vantaggi di questo luogo piacevole saranno goduti entro gli stretti confini di questa nuova terra di Gessen [cfr. Gen. 47], mentre negli altri Paesi, vicini o lontani, ci sarà solo un orribile caos ». Ella vede anche che i fedeli costruiranno per prima cosa dei templi per celebrare i santi misteri. Dio stesso fornirà i materiali per queste chiese ed indicherà il modo in cui debbano essere costruite. “I Sacerdoti ristabiliranno il bellissimo ufficio del culto, celebreranno, predicheranno, istruiranno e non smetteranno mai di preparare i cuori al ritorno del Messia, anche se non potranno conoscere il momento preciso della seconda venuta. Sulla base delle loro parole, Egli sarà atteso giorno per giorno. La Comunione sarà frequente, persino quotidiana, per tutti i fedeli. Il fervore della Chiesa primitiva sarà di gran lunga superato. Ognuno lavorerà più per ragione che per necessità, in modo moderato, con l’unico scopo di mantenere un corpo quasi già celeste e di sostenere una vita che si prevede finisca ogni giorno.  – La cura più grande di tutte sarà il culto degli altari. Si ascolteranno solo inni di gioia e mai canti profani con accenti lascivi.

Visioni e messaggi di Jeanne Le Royer (1731-1798) sulla fine dei tempi:

(6) La tribolazione

SATANA PREPARA I SUOI: LA LEGGE MALEDETTA (IL PATTO SATANICO)

Gli empi invocheranno satana che, nella loro assemblea, dirà loro:

«Non perdiamo altro tempo. Voglio farvi trionfare. Voglio rovinare tutte le nazioni che sono contro di voi. Voglio rendervi padroni dell’universo. Sarete adorati come dei, ricoperti d’oro e d’argento, come la sabbia del mare. – Vi darò un sovrano che sarà potente nelle opere e nelle parole, un sovrano che possederà tutte le scienze con eminenza. Non avrà dieci anni, ma sarà già più potente e più esperto di voi… Ma agirà in tutta la sua potenza solo dopo i trent’anni. Lo farò diventare un dio che sarà venerato come il Messia atteso. Fin dalla sua infanzia lo riconoscerete come vostro re… ».

Il diavolo ancora dirà loro, in quell’assemblea: « Infedeli al vostro Paese e alla vostra legge, ecco cosa siete… e quanto vi conquisto ogni giorno! Nonostante questo, siete infedeli e ingrati nei miei confronti ».

Il patto satanico: « Voglio, come vostro padrone, e pretendo che mi diate la vostra firma. Questa sarà la prova che, d’ora in poi, vi impegnate tutti a sacrificarvi per me, nel tempo e nell’eternità, a servirmi con fedeltà e senza riserve, a conquistarmi sudditi. »

Verrà stipulato un contratto con il quale il diavolo si obbliga a mantenere le sue promesse. « Ognuno – dirà satana – venga ad apporre la sua firma sul contratto e si impegni, con giuramento, ad essermi fedele fino alla morte! »

E questi infelici, pazzi di gioia, incantati dalle promesse del diavolo, deliziati dalle illusioni che gli spiriti della menzogna formeranno nella loro immaginazione, questi infelici firmeranno… volentieri e di gran cuore. Arriveranno a dire: “Se avessimo mille vite, le sacrificheremmo per te!

L’incantatore risponderà: “Non avete mille vite… Voglio solo che rinunciate a tutte le massime che il cosiddetto Figlio dell’Altissimo ha stabilito nella sua Chiesa. Voglio che quelli di voi che sono stati battezzati rinuncino al loro Battesimo… Dovete odiare questo cosiddetto Dio quanto me, ed in futuro dovrete adorarmi con adorazione ed amore: quell’adorazione che Egli esige per sé e che io giustamente merito di più. Vi darò tutto in abbondanza…”.  – Si deciderà di mettere in atto questa infelice legge… Essa contiene così tante bestemmie, imprecazioni e abomini contro il nostro adorabile Salvatore che la Suora non ha osato darne i dettagli. Gli empi esorteranno il popolo a rinunciare a questo Gesù che chiameranno falso profeta. Ma ci vorranno diversi anni prima che usino il rigore attraverso le loro diaboliche truppe di soldati.

LA TRIBOLAZIONE

Poi arriverà la persecuzione suprema e ci saranno tanti martiri quanti ce ne sono stati nei primi tempi della Chiesa. La veggente dice: « Quando i complici dell’anticristo cominceranno a fare la guerra, si collocheranno vicino a Roma, dove trionferanno… Ciò di cui sono certo è che Roma perirà del tutto; il Papa subirà il martirio e la sua sede sarà preparata per l’anticristo. Non so esattamente se questo sarà fatto un po’ prima di lui o dall’anticristo stesso quando entrerà nel corso delle sue vittorie.  – L’anticristo sarà circondato da una legione di demoni che, sotto le sembianze di angeli di luce, verranno a corteggiarlo. Al momento del suo trionfo, Dio invierà San Michele con le sue truppe di Angeli in aiuto della sua Chiesa. L’Arcangelo stesso apparirà per rafforzare i fedeli nella fede. La sua mano li nasconderà in ritiri segreti, dove rimarranno fino alla fine del mondo.  La tortura più comune inflitta ai martiri consisterà nel ripetere loro tutte le circostanze della crocifissione del loro Maestro, nell’odio e nel disprezzo della sua dolorosa Passione. Questa terra diventerà un luogo orribile, coperto da fitte tenebre, in cui si rifugeranno orrendi spettri. I poveri Cristiani che si saranno lasciati sorprendere e che avranno firmato questa legge maledetta, saranno sgomenti e scapperanno, spaventati, da una parte e dall’altra. Tuttavia, al momento della caduta nell’abisso più profondo dell’anticristo e dei suoi complici, Dio risparmierà un certo numero di suoi nemici: quelli che saranno stati i meno criminali. Permetterà loro di cadere a fianco dell’abisso di fuoco. – La grazia di Dio arriverà a coloro che vorranno riceverla. Sarà offerta a coloro che sono caduti accanto all’abisso. Due terzi saranno inghiottiti negli inferi. La metà del terzo conservato si convertirà al Signore. – Questi senza Dio avranno i loro altari ed i loro templi dove i loro sacerdoti cercheranno di imitare le cerimonie della vera religione.

Visioni e messaggi di Jeanne Le Royer sulla fine dei tempi:

(5) La Suora della Natività annuncia il regno dell’anticristo

LO SVILUPPO DEL SATANISMO, I FALSI PROFETI

Gesù: « Alcuni anni prima della venuta del mio grande nemico, satana susciterà falsi profeti, che annunceranno l’anticristo come il vero Messia promesso e che faranno distruggere tutti i titoli del Cattolicesimo… E farò profetizzare i bambini e i vecchi ».

Più si avvicina il regno dell’anticristo, più gli errori di satana si diffonderanno sulla terra e più i suoi satelliti faranno a gara per far cadere i fedeli nelle sue reti… Per copiare al meglio le sante istituzioni della Chiesa, i nemici della Religione creeranno organizzazioni di cosiddette suore, che faranno voto di castità e collaboreranno efficacemente all’azione distruttiva di satana. – Egli darà a queste donne una bellezza straordinaria e farà cose meravigliose attraverso di loro, in modo che tutti gli occhi saranno puntati su di loro; per questo, queste “vergini vestali” saranno considerate come una sorta di divinità. Le “vestali di satana” faranno sfoggio di estasi, predizioni e rivelazioni di cose occulte che tutti potranno ammirare. Si sentirà parlare solo di queste cose prodigiose e di quelle dei falsi maestri, che non di meno si sforzeranno di ingannare il popolo con fatti sensazionali in cui il diavolo avrà un ruolo importante.  – Questi cosiddetti santi, questi tanto onorati “benefattori”, avranno incontri notturni con le donne pseudo-religiose, che hanno fatto voto di castità. Una di queste “vergini vestali” di satana darà alla luce l’anticristo stesso, che probabilmente avrà come padre uno dei principali leader di questi incontri notturni.

LA LEGGE DANNATA

I servi di satana includeranno nella loro LEGGE l’errore che nega l’incarnazione del Verbo di Dio fatto uomo nel grembo della Vergine Maria. Pretenderanno di abolire completamente questo mirabile mistero. – All’inizio, terranno nascosta la loro legge maledetta… Questa legge sarà approvata da tutti i loro complici, ma uscirà solo pochi anni prima dell’arrivo dell’anticristo. Vedo in Dio che i Sacerdoti si stupiranno di questo cambiamento… Tuttavia, i ministri del Signore, più illuminati dallo Spirito Santo, saranno presi dalla paura per l’incertezza in cui si manifesterà… – O Dio! In quale agitazione vedo la Santa Chiesa, quando improvvisamente si accorgerà dei progressi di questi empi… Mai nessuna eresia fu così fatale!

DISORDINI NELLA CHIESA

Molto sangue sarà versato nella Chiesa in difesa di questa verità. I satelliti del diavolo, cioè gli empi, non vorranno soffrire i Sacerdoti, il Santo Sacrificio o gli altari. Non vorranno che appaia alcun segno di Religione; non tollereranno nemmeno un semplice segno di croce da parte di un Cristiano. – Questi empi avranno i loro altari e templi dove i loro sacerdoti cercheranno di imitare le cerimonie della vera Religione. Contraffaranno i Sacramenti. Ma poiché la loro religione è fondata solo sui piaceri dei sensi, disprezzeranno interiormente la vita crocifissa, la mortificazione e le sofferenze. Questi abili ciarlatani faranno a gara nell’inganno per sedurre i semplici che si faranno abbindolare. Questo si manifesterà presto nel loro pubblico disprezzo per la fede e la morale del Vangelo. Capiranno di essere stati scoperti, perché nessuno vorrà più avvalersi del loro ministero e nemmeno comunicare con loro. Ben presto perderanno l’onore e la reputazione presso tutti. La gente comune, invece di onorarli, li respingerà con un certo disprezzo. Quando si vedranno scoperti, andranno a chiedere consiglio ai loro capi nascosti nella città più famosa, a coloro che sono gli autori della loro fede ed i loro legislatori.

IL RITORNO DEI SACERDOTI PENTITI ALLA CHIESA

Ci sarà un’assemblea fatale. Lì, per effetto della grazia, alcuni prenderanno strade diverse e si diranno l’un l’altro: “Non perdiamo altro tempo; andiamo via subito e non ascoltiamo questi”. Diranno agli empi: “Non siamo più tra voi; torniamo alla Chiesa con cuore sincero e penitente”. Fuggiranno a gran velocità, per paura di essere arrestati dai satelliti di satana. Divenuti penitenti, diventeranno fedeli alla grazia e Dio li proteggerà. Non avranno paura di far conoscere, anche pubblicamente, ciò che erano prima. Saranno accolti con misericordia dalla Chiesa. Come i predicatori che predicano a bassa voce, andranno ad istruire i loro parenti, i loro amici e tutti coloro che sanno che hanno tradito con la loro ipocrisia. Sotto le loro azioni, si vedranno conversioni ammirevoli da tutte le parti. Gesù: « I malvagi tramano contro la mia Chiesa, ma secondo i decreti della mia giustizia, periranno e le loro leggi sacrileghe saranno abrogate. Sì… periranno; è deciso; la sentenza è pronunciata! Con il mio braccio potente li scaglierò come un fulmine nell’abisso, dove cadranno con la stessa rapidità e violenza di lucifero e dei suoi accoliti. »

Questa eresia si diffonderà a tal punto che sembrerà avvolgere tutti i Paesi e tutti gli Stati…

Visioni e messaggi di Jeanne Le Royer sui tempi finali:

La cospirazione modernista contro la Chiesa

QUESTI SFORTUNATI SEGUACI DI NUOVE DOTTRINE SI DIRANNO TRA LORO: « Non facciamoci scoprire. Non diciamo di cosa si tratta e qual è il nostro segreto… In apparenza, siamo sottomessi come piccoli bambini indifesi. Accostiamoci ai Sacramenti… Non lottiamo, ma agiamo con pace e dolcezza. »

Quando vedranno che hanno guadagnato un gran numero di discepoli, un numero grande come quello di un grande regno, allora questi lupi famelici usciranno dalle loro caverne, vestiti di pelli di pecora. Oh, come soffrirà la Santa Chiesa! Sarà attaccata da tutte le parti, non solo dagli estranei, ma anche dai suoi stessi figli che, come vipere le strapperanno le viscere e si schiereranno con i suoi nemici. – All’inizio terranno nascosta la loro legge maledetta. Questa legge sarà approvata da tutti i loro complici, ma non verrà fuori fino a pochi anni prima dell’arrivo dell’anticristo.

Vedo in Dio che i Sacerdoti si stupiranno di un tale cambiamento che è avvenuto senza che ci siano state più prediche come al solito. Tuttavia, i ministri del Signore, più illuminati dallo Spirito Santo, saranno presi dalla paura nell’incertezza di come andrà a finire…”.

O Dio! In quale agitazione vedo la Santa Chiesa, quando improvvisamente si accorge dei progressi di questi empi, della loro estensione e del numero di anime che hanno attirato nel loro partito! Questa eresia si diffonderà così tanto che sembrerà avvolgere tutti i Paesi e tutti gli Stati. Nessuna eresia è mai stata così fatale!

La Suora vede ancora che passerà molto tempo, forse mezzo secolo, dal momento in cui tutto è iniziato, al momento in cui la Chiesa se ne accorgerà. All’inizio questa eresia sembrerà magnifica. Si imporrà per la sua apparenza di bontà e persino di religione. Sarà una trappola seducente per molti.  Per avere successo, questi settari mostreranno innanzitutto un grande rispetto per il Vangelo e la cattolicità. Pubblicheranno persino libri di spiritualità… Inoltre, non ci saranno dubbi sulla loro santità. Per spirito di curiosità, le persone che vacillano nella loro fede si lasceranno incuriosire da ciò che accade in queste nuove religioni. Non si è mai visto tanto inganno sotto l’apparenza della religione… Questi orgogliosi ipocriti faranno bei discorsi per attirare anime vane e curiose, che correranno verso tutte queste novità e si lasceranno catturare più facilmente di un pesce nella rete. – Per evitare tante disgrazie, sarà necessario, con l’aiuto della grazia, aggrapparsi inviolabilmente alla fede. Dobbiamo sempre ricordare le nostre prime convinzioni, affinché la santa legge di Gesù Cristo rimanga, fino all’ultimo respiro, il sostegno e la regola di condotta… Per amore di Dio, dobbiamo respingere queste straordinarie singolarità.

La prima edizione (1817) di Vita e rivelazioni di Suor della Natività, volume IV, pp. 125-126, riporta il seguente testo: “Nostro Signore mi fece conoscere, e allo stesso tempo mettere in dubbio, se sarebbe stato alla fine del secolo del 1900, o in quello del 2000. Ma ciò che vidi fu che se il giudizio fosse venuto nel secolo del 1900, non sarebbe venuto che alla fine, e che se passerà questo secolo, il secolo del 2000 non passerà senza che venga, come vidi nella luce di Dio…”.

L’edizione successiva di padre Roberdel, conserva ovviamente questa stessa versione.

[Un facsimile dell’edizione originale del 1817 può essere consultato per una verifica tramite il link: http://books.google.fr/.]

Sarà ancora più grave e pericoloso per la Santa Chiesa che non si accorgerà di questi fuochi così presto.

Visioni e messaggi di Jeanne Le Royer sulla fine dei tempi:

(3) La grande apostasia, il fumo di satana.

LA GRANDE APOSTASIA

Vedo anche che più ci avviciniamo alla fine del mondo, più aumenterà il numero dei figli della perdizione e più diminuirà il numero dei predestinati. Questa diminuzione avverrà:

.1) Dal gran numero di eletti che il Signore attirerà [richiamerà] a sé, per salvarli dalle terribili piaghe che colpiranno la Chiesa,

2) dal gran numero di martiri, che diminuirà considerevolmente il numero dei figli di Dio sulla terra, ma la fede si rafforzerà in coloro che la spada non avrà raccolto.

3) Dalla moltitudine di apostati che rinunceranno a Gesù Cristo per seguire il partito del suo nemico.

[Apparirà la più disastrosa delle eresie. La fede si espanderà di nuovo: alcuni ordini religiosi rinasceranno, in numero ridotto; altri saranno fondati e il loro fervore sarà grande. La maggior parte di questi ordini durerà fino al tempo dell’anticristo, sotto il cui regno tutte le comunità subiranno il martirio, e saranno schiacciate e distrutte.

I FUMI DI sATANA

Poi annunciò un nuovo assalto alla Chiesa, attraverso un’eresia interna di cui diede i primi lineamenti; si riservò per dopo la descrizione completa di questa eresia fatale.

Lo Spirito di satana solleverà contro la Chiesa leghe, assemblee, società segrete… La Chiesa condannerà per prima la loro fatale dottrina.

Poi, gli scagnozzi di satana si nasconderanno nell’ombra e pubblicheranno molte opere che faranno molto male. Tutto avverrà in silenzio, avvolto in un segreto inviolabile.

Sarà come un fuoco che brucia sotto la cenere, senza rumore, e che si diffonderà a poco a poco. Sarà tanto più grave e pericoloso per la Santa Chiesa perché Essa non si accorgerà di questi incendi così presto. Alcuni sacerdoti vedranno il fumo di questo fuoco maledetto. Si solleveranno contro coloro in cui noteranno particolarità di devozione che si allontanano dalle buone usanze della Chiesa.

Tutto ciò deve accadere prima che venga l’Uomo della Perdizione

Visioni e messaggi di Jeanne Le Royer (1731-1798) sulla fine dei tempi: (2)

Prima della venuta dell’anticristo.

Un giorno mi trovavo in spirito in una vasta campagna, tutta sola e con Dio solo, mi apparve Gesù Cristo e dall’alto di un’altura mi mostrò un bel sole fisso su un punto dell’orizzonte. Mi disse con uno sguardo triste: « Il mondo sta passando e si avvicina il momento della mia ultima venuta. Quando il sole tramonta, si dice che il giorno sia passato e la notte stia arrivando. Tutti i secoli sono un giorno davanti a me. Giudica, dunque, quanto debba essere lungo il mondo dallo spazio che il sole deve ancora coprire. Guardai attentamente e giudicai che al sole restavano al massimo due ore.

A una domanda della Suora, Gesù rispose: « Non dimenticare che non si deve parlare del mondo come di mille anni; la sua durata è di pochi secoli. »

« Ma ho visto – aggiunse la sorella – che si riservava la conoscenza precisa di questo numero, e non sono stata tentata di chiedergli di più su questo argomento, contenta di sapere che la pace della Chiesa e la restaurazione della sua disciplina dovevano durare un tempo considerevole.

Prima dell’arrivo dell’anticristo, il mondo sarà tormentato da guerre sanguinose. I popoli si solleveranno contro i popoli; le nazioni, a volte unite, a volte divise, combatteranno per o contro lo stesso partito. Gli eserciti si scontreranno in modo orribile e riempiranno la terra di omicidi e massacri. Queste guerre, interne ed esterne, causeranno enormi sacrilegi, profanazioni, scandali ed infiniti mali. I diritti della Santa Chiesa saranno usurpati; essa riceverà grandi afflizioni. Vedo la terra scossa in vari punti da tremendi tremori. Vedo montagne spaccate con grande rumore e terrore nelle vicinanze. Vortici di fiamme, fumo, zolfo e bitume ridurranno in cenere intere città. Tutto questo deve accadere prima della venuta dell’uomo della perdizione.

Visioni e messaggi di Jeanne Le Royer sui tempi della fine:

Il Grande Giorno del Signore sta arrivando

Il Signore disse un giorno alla Suora della Natività:

« Ti ho scelta fin dalla tua infanzia, per fermare la moltitudine di peccatori che ogni giorno cade all’inferno. Ti ho dato visioni e rivelazioni perché tu le pubblichi e le faccia conoscere alla mia Chiesa… Il tempo è breve. Quello che ti dico qui, figlia mia, sarà letto e raccontato fino alla fine dei secoli.  Il Giudizio generale è vicino e il mio Grande Giorno si avvicina. Ahimè! Quante disgrazie lo colpiranno! Quanti bambini periranno prima di nascere! Quanti giovani di entrambi i sessi saranno schiacciati dalla morte nel bel mezzo della loro corsa! I bambini nel grembo materno periranno con le loro madri. Guai ai peccatori che vivono ancora nel peccato senza aver fatto penitenza! [Quando Nostro Signore dice che il Giudizio è vicino e che il suo Grande Giorno sta per arrivare, non significa, osserva la veggente, che arriverà in un tempo molto breve. Il Signore le rinnova l’affermazione che nessun uomo sulla terra conoscerà con certezza il giorno e l’anno]. Guai! Guai! Guai al secolo scorso! Questo è ciò che Dio ha voluto mostrarmi nella Sua Luce. Ho cominciato a guardare alla luce di Dio il secolo che inizierà nel 1800; con questa luce ho visto che il giudizio non c’era e che non sarebbe stato l’ultimo secolo. Con la stessa luce ho guardato il secolo del 1900, verso la fine, per vedere positivamente se sarebbe stato l’ultimo. Nostro Signore mi fece sapere, e allo stesso tempo mi mise in dubbio, se sarebbe stato alla fine del secolo del 1900 o in quello del 2000.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (7) “Da Simplicio a Giovanni I”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (7)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(Da Simplicio a Giovanni I)

SIMPLICIO: 3 marzo 468-10 marzo 483

Concilio di Arles, 473: lettera di sottomissione del Sacerdote Lucido.

Grazia e predestinazione

330 – La vostra correzione è la salvezza di tutti e la vostra decisione un rimedio. Perciò considero un rimedio sovrano scagionarmi accusando i miei errori passati e tornare all’innocenza con una salutare confessione. Pertanto, secondo i recenti statuti del venerabile Concilio, condanno con voi quell’opinione che dice che l’opera di obbedienza umana non debba essere unita alla grazia divina;

331 – Chi dice che dopo la caduta del primo uomo il libero arbitrio della sua volontà fu totalmente distrutto;

332 – Chi dice che Cristo nostro Signore e Salvatore non abbia sofferto la morte per la salvezza di tutti;

333 – Chi dice che la prescienza di Dio spinga violentemente l’uomo alla morte o che coloro che si perdono si perdano per volontà di Dio;

334 – Chi dice che, dopo aver ricevuto giustamente il Battesimo, chiunque abbia peccato muore in Adamo;

335 – Chi dice che alcuni siano destinati alla morte, altri siano predestinati alla vita;

336 – Chi dice che da Adamo fino a Cristo, nessuno dei Gentili sia stato salvato dalla prima grazia di Dio, cioè dalla legge di natura, in vista della venuta di Cristo, perché in tutti loro il libero arbitrio sia stato perso nel primo padre;

337 – Chi dice che i Patriarchi ed i Profeti o il più grande dei Santi, anche prima del tempo della Redenzione, vivevano nelle dimore del Paradiso;

338 – Chi dice che non c’è né fuoco né inferno…

339 – Tutto questo lo condanno come empio e assolutamente sacrilego. Sostengo la grazia di Dio in quanto tengo insieme lo sforzo dell’uomo e l’azione della grazia, e dichiaro che la libertà della volontà umana non è distrutta, ma attenuata e indebolita, affinché chi si salva sia in pericolo e chi perisce sia salvato.

340. – Allo stesso modo Cristo, nostro Dio e Salvatore, nell’abbondanza della sua bontà, ha pagato il riscatto della morte per tutti, e vuole anche che nessuno perisca, Egli che è il Salvatore di tutti gli uomini, specialmente dei credenti, ricco di tutti quelli che lo invocano Rm X, 12. E poiché in questioni così importanti la coscienza debba essere soddisfatta, ricordo di aver detto prima che Cristo è venuto solo per coloro che sapeva in anticipo che avrebbero creduto (si fa riferimento a Mt XX, 28 Mt XXVI, 28 Eb IX, 27). Ma ora, per l’autorità delle sante testimonianze che si trovano in abbondanza nel campo delle Sacre Scritture e che sono rivelate dalla dottrina degli antichi, confesso volentieri che Cristo è venuto anche per coloro che si sono persi, perché si sono persi contro la sua volontà. E non è opportuno che le ricchezze della bontà infinita e dei benefici divini siano limitate solo a coloro che sono manifestamente salvati. Infatti, se diciamo che Cristo ha portato rimedio solo a coloro che si sono salvati, daremo l’impressione di assolvere coloro che non si sono salvati, che, come sappiamo, devono essere puniti per aver disprezzato la Redenzione.

341 – Affermo anche che, nel corso dei tempi e nell’ordine dei secoli, alcuni siano stati salvati dalla Legge della grazia, altri dalla Legge di Mosè, altri ancora dalla Legge naturale che Dio ha iscritto nei cuori di tutti (cfr. Rm II, 15) nella speranza della venuta di Cristo, ma che fin dall’inizio del mondo nessuno è stato liberato dalla schiavitù originaria se non per intercessione del sacro sangue.

342 – Confesso anche che le fiamme e i fuochi eterni dell’inferno siano preparati per i peccati mortali; infatti, alle colpe umane che permangono fino alla fine, segue giustamente il giudizio divino in cui incorrono coloro che non hanno creduto a questo con tutto il cuore. Io, presbitero Lucido, ho sottoscritto di mio pugno questa lettera, e ciò che è assicurato in essa lo affermo, e ciò che è condannato lo condanno.

Lettera “Quantum presbyterorum” al vescovo Acace di Costantinopoli – Costantinopoli, 10 gennaio 476

L’autorità dei Vescovi romani e dei Concili ecumenici

343 – (Par. 3, Cap. 2). Poiché esiste la dottrina dei nostri predecessori di santa memoria, contro la quale non è lecito contestare, e poiché chiunque pensi rettamente non abbia bisogno di ulteriori spiegazioni, ma tutto sia chiaro e perfetto per istruire chi è stato sedotto dagli eretici o per insegnare a chi deve essere piantato nella vigna del Signore, implorate la fede del principe misericordioso e fate in modo che respinga la proposta di tenere un sinodo. ..(6(3)) Chiedo quindi, caro fratello, che si resista in tutti i modi ai tentativi di canaglie di tenere un sinodo, che non è mai stato convocato se non quando è sorto qualcosa di nuovo nelle menti distorte o quando è apparso qualcosa di dubbio nella spiegazione dei dogmi: In modo che per coloro che si occupano di loro per il bene comune, se c’è qualche oscurità, l’autorità della deliberazione dei sacerdoti possa venire a fare luce, come l’empietà di Ario prima, poi quella di Nestorio, e infine quella di Dioscoro ed Eutiche, li ha costretti a fare. E si deve inculcare che è esecrabile – da cui la misericordia di Cristo nostro Dio e Salvatore ci preserverebbe – riabilitare i condannati contro i giudizi dei sacerdoti del Signore di tutto il mondo e dei due principi regnanti…

FELICE II: 13 marzo 483-1 marzo 492

Lettera “Quoniam pietas” all’imperatore Zenone, 1° agosto 484.

La libertà della Chiesa

345 –  Poiché anche presso le nazioni barbare, che ignorano il nome di Dio, la libertà di ogni legazione è sempre considerata sacrosanta dal diritto delle nazioni, anche per l’attuazione di imprese puramente umane, tutti sanno che a maggior ragione essa avrebbe dovuto essere pienamente salvaguardata da un imperatore romano e cristiano, soprattutto in materia religiosa. … Ma penso che la vostra pietà, pronta a sottomettersi alle proprie leggi piuttosto che a contrastarle, dovrebbe allo stesso modo obbedire ai decreti celesti, senza dimenticare che la sua supremazia sulle cose umane non possa estendersi alle cose divine, che deve ricevere, senza alcun dubbio, dalle mani dei dispensatori stabiliti da Dio. Penso che sia certamente utile per voi lasciare che la Chiesa Cattolica viva secondo le sue leggi durante il vostro principato, e non permettere a nessuno di ostacolare la sua libertà, che vi ha dato il potere reale. È certo, infatti, che la prosperità dei vostri affari vi impone, quando si tratta degli interessi di Dio, di sforzarvi, come Lui ha voluto, di sottomettere la vostra volontà ai Sacerdoti di Cristo e di non farla prevalere su di essi: d’altra parte, dovete imparare i sacri misteri da coloro che ne sono responsabili, e non insegnarli; dovete cedere all’organizzazione della Chiesa, e non prescrivere ad essa regole di diritto umano, né vogliate regnare sulle sue decisioni, alle quali Dio ha voluto, con il giogo della devozione religiosa, sottoporre la vostra clemenza. Si teme infatti che, violando le disposizioni del cielo, si arrivi a disprezzare colui che ne è l’Autore.

GELASIO I: 1 marzo 492-21 novembre 496-347

Lettera “Famuli vestræ pietatis” all’imperatore Anastasio I 494.

Il duplice potere supremo sulla terra

(2) Due sono i principi da cui questo mondo è principalmente governato: l’autorità sacra dei Pontefici e il potere regale; e dei due il peso dei Sacerdoti è tanto più pesante in quanto devono rendere conto alla giustizia divina di coloro che sono i re stessi. Tu lo sai, figlio misericordioso: sebbene la tua dignità ti ponga al di sopra del genere umano, nondimeno chini il capo a coloro che sono preposti alle cose divine, e ti aspetti da loro i mezzi per salvarti; e per ricevere i misteri celesti e dispensarli come dovrebbero essere dispensati, devi, lo sai, secondo la regola della Religione, sottometterti piuttosto che dirigere. Pertanto, in tutto questo dipendete dal loro giudizio e non dovete volerli ridurre alla vostra volontà. Se, infatti, per quanto riguarda le regole dell’ordine pubblico, i capi religiosi ammettono che l’impero vi è stato dato per disposizione dall’alto, e obbediscono essi stessi alle vostre leggi, non volendo, almeno negli affari di questo mondo, apparire contrari a… una decisione esclusa, con quali sentimenti non dovreste, vi prego, obbedire a coloro che sono incaricati della dispensazione dei venerabili misteri? Pertanto, come non è lieve la minaccia per i Pontefici che non si sono espressi per il culto di Dio, come avrebbero dovuto, così non è lieve il pericolo – che non esiste – corso da coloro che, quando dovrebbero obbedire, disprezzano. E se è normale che i cuori dei fedeli si sottomettano a tutti i Sacerdoti in generale che adempiono correttamente ai loro doveri divini, quanto più dovrebbe esserci unanimità intorno alla persona incaricata di questa Sede, alla quale la suprema divinità ha voluto dare la preminenza su tutti i Sacerdoti, e che la pietà universale della Chiesa ha nel frattempo costantemente celebrato? (3) È qui che la vostra pietà si rende conto chiaramente che nessuno, con nessun pretesto umano, potrà mai elevarsi al di sopra della posizione privilegiata di colui che la voce di Cristo ha posto al di sopra di tutti, che la venerabile Chiesa ha sempre riconosciuto e tiene devotamente al primo posto. Le decisioni del giudizio divino possono essere impedite da presunzioni umane, ma non possono essere superate da alcun potere di nessuno.

348 – Concilio di Roma: Atti dell’Assoluzione di Miseno, 13 maggio 495

Il potere della Chiesa di perdonare i peccati.

Poiché è volontà di Dio onnipotente e misericordioso che a nessuna anima che lo desideri sia negato il sollievo dalla misericordia della Chiesa, non c’è dubbio che è per effetto di una disposizione di Dio stesso e di un pentimento ispirato da Dio che l’accoglienza (di Miseno) avviene nel momento in cui una necessità improrogabile ne impone la concessione, tanto più che nostro Signore ha comandato al beato Pietro prima che agli altri: “Tutto ciò che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo”; Poiché è stato anche stabilito che nulla sia  escluso da queste parole, tutti indistintamente possono essere vincolati dal ministero della dispensazione apostolica, e tutti di conseguenza possono anche essere assolti da esso, soprattutto se con ciò si vuole dare a tutti un esempio di vera misericordia apostolica, in modo che tutti coloro che sono stati condannati, se si rassegnano e si allontanano dall’errore … non dubitano che con l’assoluzione saranno liberati dalla loro condanna… Pertanto, per quanto è in potere dell’uomo e con il permesso del Signore, desideriamo offrire rimedi a coloro che li desiderano, lasciando al giudizio divino tutto ciò che non è in nostro potere. E non potranno rimproverarci di aver perdonato l’offesa di una trasgressione ai vivi – cosa che la Chiesa può fare grazie alla generosità di Dio – mentre chiedono che concediamo il perdono anche ai morti – cosa che chiaramente non è in nostro potere. Infatti, poiché è detto: “Ciò che legherai sulla terra”, coloro che è accertato che non sono più sulla terra, Egli li ha riservati al proprio giudizio e non a quello degli uomini; e la Chiesa non ha l’audacia di rivendicare per sé ciò che vede che non sia stato concesso agli stessi beati Apostoli; perché altro è il caso di coloro che sono ancora in vita, altro quello dei morti.

349 – Trattato “Ne forte” sul vincolo dell’anatema, 495.

La remissione dei peccati

(5) Il Signore ha detto che chi pecca contro lo Spirito Santo non sarà perdonato né qui sulla terra né nell’età futura, Mt XII: 32 . Ma per quanti, che hanno peccato contro lo Spirito Santo come vari eretici… e che sono tornati alla fede cattolica, vediamo che hanno ricevuto il perdono quaggiù per la loro bestemmia e che anche per il futuro hanno concepito la speranza di ottenere misericordia? Per tutto questo, il giudizio del Signore non è privo di verità e non sarà in alcun modo considerato annullato, perché per coloro che continuano ad essere tali, si mantiene senza poter essere annullato, mentre non può essere applicato a coloro che sono diventati altri, poiché non è stato pronunciato su di loro. Così anche le parole del beato apostolo Giovanni hanno la loro logica: C’è un peccato che porta alla morte: non dico che si debba pregare per questo; e c’è un peccato che non porta alla morte: dico che si deve pregare per quello. C’è un peccato che porta alla morte per chi rimane in quel peccato; c’è un peccato che non porta alla morte per chi lo abbandona. Non c’è infatti peccato per il quale la Chiesa non preghi di essere perdonata, o dal quale non possa assolvere coloro che se ne allontanano, o che non possa perdonare a coloro che fanno penitenza per il potere datole da Dio – colei alla quale è stato detto:  (cfr. Gv XX, 23); “Tutto ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto anche in cielo” Mt XVIII, 18. In questo sono inclusi tutti i peccati, non importa quanto grandi o di quale natura, ma resta vera la sentenza in cui si dice che chi continua a perseverare in essi non sarà mai sciolto, ma lo saranno quelli che saranno sciolti in seguito.

Decretum Gelasianum, ovvero Lettera decretale sui libri da ricevere e da non ricevere, (data incerta).

La preminenza della Sede romana

350 – Dopo (tutte queste) Scritture profetiche, evangeliche e apostoliche (che abbiamo citato sopra) e sulle quali la Chiesa cattolica, per grazia di Dio, è fondata, abbiamo ritenuto necessario sottolineare anche questo, Che se la Chiesa cattolica, diffusa in tutto l’universo, è l’unica camera nuziale di Cristo, tuttavia la santa Chiesa romana non è anteposta alle altre Chiese dagli editti dei sinodi, ma ha ricevuto il primato dalla parola evangelica del Signore e Salvatore che dice: Vi darò le chiavi del regno dei cieli e tutto ciò che legherete sulla terra sarà legato in cielo e tutto ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. A questo si aggiunse anche la compagnia del beatissimo Apostolo Paolo, il vaso di elezione: non in un altro momento, come dicono stoltamente gli eretici, ma nello stesso tempo, nello stesso giorno, con una morte gloriosa insieme a Pietro, fu incoronato in battaglia, nella città di Roma, sotto l’imperatore Nerone: E allo stesso modo consacrarono a Cristo la suddetta Chiesa romana, e con la loro presenza e il loro venerabile trionfo la anteposero a tutte le altre città del mondo intero.

351 – La prima sede dell’apostolo Pietro è dunque la Chiesa romana, che non ha macchia né ruga o altro, Ef V, 27. La seconda sede, invece, fu consacrata ad Alessandria nel nome del beato Pietro dal discepolo ed evangelista Marco… La terza sede del beato apostolo Pietro è tenuta in onore ad Antiochia, poiché egli visse lì prima di venire a Roma e lì apparve per la prima volta il nome “Cristiani” per la nuova razza (cfr. At 11,26).

L’autorità dei Concili ecumenici

352 – E sebbene nessuno possa porre un fondamento diverso da quello che è stato posto, che è Gesù Cristo (cfr. 1 Cor III, 11), la santa Chiesa, cioè la Chiesa romana, non proibisce che per la sua edificazione, oltre alle Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, che riceviamo secondo la regola, si ricevano anche questi altri scritti, cioè il santo sinodo di Nicea. (il santo sinodo di Costantinopoli… in cui l’eretico Macedonio ricevette la meritata condanna); il santo sinodo di Efeso…; il santo sinodo di Calcedonia… (Ma anche altri sinodi, se ve ne sono, che sono stati tenuti dai santi padri fino al presente, e che noi abbiamo stabilito siano osservati e ricevuti in aggiunta all’autorità di questi quattro).

Libri che devono essere ricevuti.

353 – Così come le opere del beato martire Cipriano, Arcivescovo di Cartagine. Anche le opere… (Vengono citati allo stesso modo Gregorio di Nazianzo, Basilio il Grande, Atanasio di Alessandria, Giovanni Crisostomo, Teofilo di Alessandria, Cirillo di Alessandria, Ilario di Poitiers, Ambrogio, Agostino, Girolamo, Prospero di Aquitania). Allo stesso modo la lettera del beato Papa Leone a Flaviano, Vescovo di Costantinopoli; chiunque, riguardo al suo testo, ne contesti anche un solo punto e non la riceva con riverenza in tutte le sue parti, sia anatema. Allo stesso modo decidiamo che devono essere lette le opere e i trattati di tutti i Padri ortodossi… che non si sono allontanati in alcun modo dalla comunione della Chiesa romana. Allo stesso modo vanno accolte con venerazione le lettere decretali che i beati Papi hanno scritto in vari tempi dalla città di Roma per consigliare i vari Padri. Anche le azioni dei Santi martiri… Ma secondo un’antica consuetudine e una particolare prudenza, non vengono letti nella santa Chiesa romana, perché i nomi di coloro che li hanno scritti sono del tutto sconosciuti e sono considerati dai non credenti e dagli ignoranti come superflui o meno appropriati di quanto non fosse la realtà dei fatti… Per questo motivo…, affinché non ci sia nemmeno la minima occasione di scherno, non vengono letti nella santa Chiesa Romana. Tuttavia, con la suddetta Chiesa, veneriamo con piena devozione tutti i martiri e le loro gloriose battaglie, che sono meglio conosciute da Dio che dagli uomini. Allo stesso modo riceviamo con piena venerazione le vite di Paolo, Antonio, Ilarione e di tutti gli eremiti, ma solo quelle composte dal beatissimo Girolamo. (Il resto dell’enumerazione contiene il seguente avvertimento): se questo arriva nelle mani dei Cattolici, sia preceduto da questa frase del beato Apostolo Paolo: “Esaminate ogni cosa, ritenete ciò che è buono”. Allo stesso modo, Ruffin, un uomo religioso, pubblicò molti libri di un’opera ecclesiastica e interpretò anche alcune Scritture. Ma poiché il venerabile Girolamo lo ha biasimato in alcune cose, riguardo al libero arbitrio, noi pensiamo ciò che sappiamo che pensava il suddetto beato Girolamo, e questo vale non solo per Ruffin, ma anche per tutti coloro che questo uomo più volte citato biasima nel suo zelo per Dio e nella pietà della fede. – Allo stesso modo riceviamo come degne di lettura alcune opere di Origene che il beatissimo Girolamo non respinge. Ma tutto il resto, a nostro avviso, deve essere respinto insieme al suo autore.

Libri che non devono essere ricevuti

354 – Il resto, che è stato composto o proclamato da eretici o scismatici, la Chiesa cattolica e apostolica non lo riceve in alcun modo. (Segue un lungo elenco di Apocrifi, sia in senso stretto, cioè scritti pseudocanonici, sia in senso lato, scritti carichi di eresia). Tutto questo e ciò che vi è di simile, che gli eresiarchi insegnarono o scrissero… i cui nomi non sono stati affatto conservati, dichiariamo non solo respinto ma anche eliminato da tutta la Chiesa romana, Cattolica e Apostolica, e condannato per sempre, insieme ai loro autori e lettori, con il vincolo indissolubile dell’anatema.

355 – Trattato. “Necessarium quoque” contro Eutiche e Nestorio. (data incerta).

Le due nature in Cristo

(Cap. 4) È vero che il Signore Gesù Cristo è una cosa sola, l’uomo interamente Dio e allo stesso tempo Dio interamente uomo, e tutto ciò che appartiene all’uomo, l’uomo-Dio lo fa suo, e tutto ciò che appartiene a Dio, l’uomo-Dio lo possiede; tuttavia, affinché questo sacramento rimanga e non sia annullato da nessun lato, Egli rimane come tutto l’uomo ciò che è Dio, così che come tutto Dio rimane ciò che è l’uomo…

ANASTASO II: 24 novembre 496-17

356 – Lettera “Exordium pontificatus mei” all’imperatore Anastasio I, fine del 496.

La validità dei sacramenti conferiti dagli scismatici.                                 

(Cap. 7) Secondo la consuetudine della Chiesa cattolica, la vostra santissima serenità vorrà gentilmente riconoscere che nessuno di coloro che Acace battezzò o ordinò Sacerdoti o leviti secondo i canoni subisce alcun danno a causa del nome di Acace, così che forse la grazia del sacramento impartita da un uomo iniquo sembrerebbe meno sicura. Infatti, anche se il Battesimo… è stato conferito da un adultero o da un ladro, esso giunge come un dono intatto a chi lo riceve, perché la voce che ha parlato attraverso la colomba esclude ogni macchia di contaminazione umana quando dice: “È lui che battezza…”. “Lc. III,16. Infatti, se i raggi di questo sole visibile, anche passando attraverso i luoghi più ripugnanti, non sono macchiati da alcuna contaminazione da contatto, molto più la potenza di questo sole che ha fatto il sole visibile sarà limitata dall’indegnità del ministro…

(Cap. 9, altri 8) Perciò anche lui… amministrando male buone cose, ha solo danneggiato se stesso. Perché il sacramento inviolabile che è stato dato da lui ha conservato per gli altri la perfezione della sua virtù.

Lettera “In prolixitate epistolæ” al Vescovo Laurentius di Lignido (Illiria),

Professione di fede

357 – Confessiamo dunque che il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio, è nato dal Padre secondo la divinità senza inizio prima di tutti i secoli, ma che in questi ultimi tempi è stato fatto carne dalla santa Vergine Maria ed è diventato un uomo completo per mezzo di un’anima razionale e dell’accoglienza di un corpo, consustanziale al Padre secondo la divinità e consustanziale a noi secondo l’umanità. Perché delle due nature complete è stata fatta l’unità in modo ineffabile. Per questo confessiamo l’unico Cristo come Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, l’Unigenito del Padre e il primogenito dai morti; sappiamo infatti che Egli è il Creatore di tutte le cose, e che dopo il consenso della santa Vergine, quando disse all’angelo: “Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38), si è degnato di costruire per sé in modo ineffabile un tempio e di unirlo a sé; e che questo corpo non lo ha fatto venire dal cielo dalla sua sostanza, ma dalla pasta della nostra sostanza, cioè dalla Vergine. Prendendola e unendola a sé, Dio, il Verbo, non si è trasformato in carne, né è apparso come un essere immaginario, ma ha conservato la sua essenza immutabilmente e senza cambiamenti, e ha unito a sé le primizie della nostra natura. In principio, Dio Verbo, nella sua grande bontà, si è degnato di unire a sé queste primizie della nostra natura, Lui che non si è mostrato mescolato, ma uno e identico in entrambe le nature, come è scritto: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” Gv II, 19. Perché Cristo è distrutto secondo la sostanza che ha preso, e risuscita il suo stesso tempio distrutto, e questo secondo la sostanza divina secondo la quale è anche il Creatore di tutte le cose.

358 – Ma mai, dopo la resurrezione della nostra natura, che è unita a Lui, Egli si è separato dal suo tempio, né può separarsene a causa della sua ineffabile bontà; al contrario, il Signore Gesù Cristo stesso è al tempo stesso passibile ed impassibile, passibile secondo l’umanità, impassibile secondo la divinità. Dio, il Verbo, ha dunque ricostruito il suo tempio e in Lui ha realizzato la resurrezione e il rinnovamento della nostra natura. E questo il Signore Cristo lo mostrò ai suoi discepoli, dopo essere risorto dai morti, dicendo: “Toccatemi e vedrete, perché uno spirito non ha carne e ossa come me” Lc XXIV,39 . Non ha detto “come voi dite che io sia”, ma “ho”, affinché si possa considerare chi possiede e chi è posseduto, e vedere che non si tratta di un miscuglio o di un cambiamento o di una trasformazione, ma di un’unità che è stata fatta. Per questo motivo mostrò anche i segni dei chiodi e la ferita inferta dalla lancia, e mangiò con i discepoli per mostrare in tutto e per tutto come in Lui la nostra natura sia risorta e rinnovata; E poiché secondo la sostanza della beata Divinità Egli è immutabile, inalterabile, impassibile, immortale, non ha bisogno di nulla, ha compiuto tutte le sofferenze e ha permesso che fossero inflitte al suo tempio, che ha innalzato con la sua stessa forza; e con la stessa perfezione del suo tempio ha operato il rinnovamento della nostra natura.

359 – Ma coloro che affermano che Cristo è un uomo apparente, o che Dio è passibile, o che è stato trasformato in carne, o che non aveva un corpo unito a sé, o che lo ha fatto scendere dal cielo, o che è stato una visione, o che, chiamando Dio Verbo mortale, dicono che aveva bisogno di essere risuscitato dal Padre o che abbia assunto un corpo senza anima o un uomo senza spirito, o che le due sostanze di Cristo siano state mescolate per formare una sola sostanza, e che non confessano che nostro Signore Gesù Cristo è due nature senza confusione ma una sola persona, e quindi un solo Cristo e allo stesso modo un solo Figlio, questi la Chiesa cattolica e apostolica anatemizza.

Lettera “Bonum atque iucundum” ai Vescovi della Gallia, 23 agosto 498

L’origine dell’anima e il peccato originale

360 – (Cap. 1, § 2) (Alcuni eretici affermano che) come gli trasmettono i corpi da un’escrezione materiale, così i genitori danno al genere umano il soffio dell’anima… (§ 4). Come possono dunque pensare, contro l’affermazione divina che le anime degli uomini siano state fatte ad immagine di Dio, con una comprensione troppo carnale, che l’anima sia comunicata dall’unione degli esseri umani, quando l’azione di Colui che ha fatto questo fin dall’inizio non cessa ancora, come Egli stesso ha detto: “Il Padre mio opera ancora e Io opero” (cfr. Gv V, 17) … (§ 5) Perché devono capire anche ciò che è scritto: “Colui che vive in eterno ha creato tutte le cose insieme” (Eccli. XVIII:1). Se poi, prima che la Scrittura abbia disposto, secondo le specie particolari, l’ordine e la ragione in ciascuna delle creature, Egli agisce “potenzialmente”, il che non può essere negato, e “come causa in un’opera che si compie nel corso del tempo”, farebbero bene ad accettare una sana dottrina: colui che infonde le anime, Colui che “chiama ciò che non è perché sia” (cfr. Rm IV, 17).

361 – (Cap. 4, § 13) Se forse pensano di parlare piamente e bene credendo di poter dire che le anime siano trasmesse dai genitori in quanto sono profondamente immerse nel peccato, devono, nel fare una saggia separazione, distinguere questo, cioè che i genitori non possono trasmettere altro che il frutto della loro malvagia temerarietà, cioè la colpa e la pena del peccato, che si vede chiaramente nella prole che deriva da questa trasmissione: gli uomini nascono cattivi e deformi. Solo in questo, come si vede chiaramente, non c’entra Dio che, volendo evitare di vederli cadere in una fatale disgrazia, gliel’ha vietata con il terrore della morte e gliel’ha preannunciata. Pertanto, quando parliamo di trasmissione, vediamo chiaramente ciò che viene trasmesso dai genitori e ciò che, dall’inizio alla fine, Dio ha fatto e continua a fare.

SIMMACO: 22 novembre 498-19 – Luglio 514

362 – Lettera “Ad augustæ memoriæ” all’imperatore Anastasio I,tra 506 e 512.

Il doppio potere supremo sulla terra

(8) Confrontiamo, dunque, la dignità dell’imperatore con quella del Pontefice: esse differiscono proprio nella misura in cui il primo si occupa delle cose umane, il secondo di quelle di Dio. Tu, imperatore, sei battezzato dal Pontefice, ricevi la Comunione dalla sua mano, implori le sue preghiere, speri nella sua benedizione e gli chiedi la tua penitenza. In breve, voi avete l’amministrazione delle cose umane e lui vi rende partecipi dei doni di Dio. In modo che la sua dignità sia almeno pari, per non dire superiore. Che il mondo sia testimone di questa procedura, sotto lo sguardo di Dio e dei suoi Angeli; sì, facciamone uno spettacolo al mondo intero, affinché i Sacerdoti trovino in essa un esempio di vita irreprensibile e gli imperatori quello di una pia moderazione. Infatti, è soprattutto ai nostri due uffici che appartiene l’amministrazione del genere umano, e non ci deve essere nulla in essi che possa offendere la divinità, soprattutto perché entrambi gli uffici sembrano essere perpetui, e quindi ci deve essere una sollecitudine per il genere umano da entrambe le parti. Ti prego, o imperatore, di ricordarti che sei un uomo, affinché tu possa usare questo potere che ti è stato concesso da Dio; perché, anche se questo è avvenuto secondo il giudizio degli uomini, deve tuttavia essere esaminato secondo il giudizio di Dio. Forse direte che è scritto che dobbiamo essere soggetti ad ogni autorità (vedere Tito III:1). Ma per noi riconosciamo, mettendole al loro posto, le autorità umane, purché non mettano la loro volontà contro Dio. Inoltre, se tutto il potere viene da Dio, ciò è ancora più vero per colui al quale è stata affidata la responsabilità degli affari divini. Rispettate Dio in noi e noi rispettiamo Dio in voi.

ORMISDA: 20 luglio 514-6 agosto 523

“Libellus fidei” di Papa Hormisdas, inviato a Costantinopoli11 agosto 515

Professione di fede contro gli errori cristologici.

363 – (1) La prima condizione di salvezza è quella di attenersi alla regola della retta fede e di non allontanarsi in alcun modo dai decreti dei Padri. E poiché non si può prescindere dalla parola di nostro Signore Gesù Cristo, che dice: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt XVI, 18), quanto detto è provato dai fatti; infatti la Religione cattolica è sempre stata mantenuta senza macchia dalla Sede Apostolica.

364 – (2) Non volendo quindi separarci in alcun modo da questa speranza e da questa fede, e seguendo in tutto ciò che i Padri hanno decretato, anatematizziamo tutti gli eretici, e in particolare l’eretico Nestorio, che un tempo era vescovo della città di Costantinopoli, condannato nel concilio di Efeso da Celestino, Papa della città di Roma, e da san Cirillo, Vescovo della città di Alessandria; Con questi ultimi anatematizziamo anche Eutiche e Dioscoro di Alessandria, che sono stati condannati nel santo sinodo di Calcedonia, che noi seguiamo e abbracciamo (che, secondo il santo concilio di Nicea, ha proclamato la fede apostolica) (3) A questi aggiungiamo (aborriamo anche) il parricida Timoteo, detto Ælure, e il suo discepolo e seguace in tutto Pietro Alessandrino; E allo stesso modo condanniamo (anche) e anatematizziamo Acacio, già vescovo di Costantinopoli, condannato dalla Sede Apostolica, loro complice e sostenitore, e coloro che sono rimasti in comunione con loro; poiché (Acacio), essendosi unito alla loro comunione, meritava la stessa sentenza di condanna. Allo stesso modo condanniamo Pietro di Antiochia con tutti coloro che lo seguirono e i seguaci di quelli sopra citati.

365. – (4) (Ma) pertanto riceviamo e approviamo tutte le lettere del beato Papa Leone, che ha scritto riguardo alla Religione cristiana. Come abbiamo detto sopra, seguendo in tutto la Sede Apostolica e predicando tutto ciò che essa ha decretato, spero (dunque) di meritare di entrare nella comunione con voi che la Sede Apostolica predica, nella quale comunione risiede, completa vera (e perfetta) la solidità della Religione cristiana; promettiamo (prometto) anche che (in futuro) i nomi di coloro che sono separati dalla comunione della Chiesa cattolica, cioè che non sono in accordo con la Sede Apostolica, non saranno letti durante i santi misteri. (Ma se tentassi di deviare in qualche modo dalla mia professione di fede, confesso che, secondo il mio giudizio, sarei complice di coloro che ho condannato) (5) Questa professione di fede l’ho sottoscritta di mio pugno e l’ho trasmessa (inviata) a te, Ormisda, il santo e venerabile Papa della città di Roma…

366 – Lettera “Sicut ratione” al Vescovo africano Possessore, 13 agosto 520

Autorità sulla dottrina della grazia

(Cap. 5) Ciò che la Chiesa romana, cioè cattolica, segue e osserva riguardo al libero arbitrio e alla grazia di Dio, si può senza dubbio trovare abbondantemente in vari libri del beato Agostino, specialmente (in quelli indirizzati) a Ilario e a Prospero; ma ci sono anche negli archivi ecclesiastici capitoli relativi alla questione, che invieremo se mancano e se li ritenete necessari, anche se chi considera attentamente le parole dell’Apostolo sa chiaramente cosa deve seguire.

Inter ea quæ” all’imperatore Giustino. 26 marzo 521.

La Trinità divina

367 – (Cap. 7) Infatti, se la Trinità è Dio, cioè Padre, Figlio e Spirito Santo, e tuttavia Dio è uno, in particolare, poiché il Legislatore dice: “Ascolta Israele, il Signore tuo Dio è un solo Dio” Dt VI, 4, chi ha un’altra concezione che divide necessariamente la Divinità in più o in particolari imputa la passione all’essenza della stessa Trinità; e. … questo significa o, alla maniera dell’empio paganesimo, introdurre diversi dei, o trasferire una sofferenza sensibile a quella natura che è esente da ogni sofferenza. (Cap. 8) Una è la santa Trinità; non si moltiplica per numero, non cresce per aumento, non può essere compresa dall’intelletto e ciò che Dio è non può essere disgiunto per separazione. Chi, dunque, potrebbe tentare di fare un’empia divisione di quel mistero della sostanza eterna e impenetrabile che nessuna natura, nemmeno di creature invisibili, può esplorare, e ridurre l’arcano del mistero divino ad un calcolo simile a quello umano? Adoriamo il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, la sostanza distintamente indistinta, incomprensibile e indicibile della Trinità; e anche se la ragione ammette un certo numero di Persone, l’unità non lo ammette per l’essenza; e come conserviamo le proprietà della natura divina, così vogliamo conservare anche ciò che è proprio di ciascuna delle Persone, affinché l’unicità della divinità non sia negata alle Persone, né l’unità della natura divina non sia negata alle Persone, né ciò che è proprio dei nomi è trasferito all’essenza. (Cap. (9) Grande e incomprensibile è il mistero della Trinità: Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo, una Trinità indivisa; eppure sappiamo che è proprio del Padre generare il Figlio, che è proprio del Figlio di Dio nascere dal Padre uguale al Padre, e sappiamo anche qual è il proprio dello Spirito Santo.

L’incarnazione del Verbo divino

368. – (Cap. 10) Ora, è proprio del Figlio di Dio che… negli ultimi tempi il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (cfr. Gv 1,14), essendo le due nature unite senza alcuna confusione nel grembo della Vergine Maria, Madre di Dio, cosicché egli, che prima del tempo era Figlio di Dio, divenne Figlio dell’uomo e nacque nel tempo alla maniera degli uomini, aprendo, nascendo, il grembo della madre e, in virtù della divinità, non ferendo la verginità della madre. (Cap. 11) È pienamente degno della nascita di Dio, il mistero che Colui che lo fece concepire senza seme, preservò la nascita da ogni alterazione, conservando ciò che era dal Padre e mostrando ciò che ricevette dalla madre. …

369. (Cap. 12) Perché lo stesso è Dio e uomo, non, come dicono quelli che non credono, con l’introduzione di una quarta persona, ma lo stesso Figlio di Dio è Dio e uomo, lo stesso è potenza e debolezza, umiltà e maestà, che redime ed è stato venduto, legato alla croce e che concede il regno dei cieli, tale nella nostra debolezza da poter essere messo a morte, tale nella sua potenza da non poter essere distrutto dalla morte. (È stato sepolto perché ha voluto nascere come uomo e, poiché era come il Padre, è risorto: ferito e salvatore di chi soffre, uno tra i morti e datore di vita ai morenti, scendendo agli inferi e non lasciando il seno del Padre. Perciò anche quell’anima che ha lasciato a causa della condizione comune, l’ha presto ripresa in virtù della sua singolare forza e del suo mirabile potere.

GIOVANNI I: 13 agosto 523-18 maggio 526.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (8) “da Felice III (IV) a …. Vigilio I”

TU SEI PIETRO (4)

Monsignor Tihamér Tóth

VESCOVO DI VESZPRÉM

“Tu sei Pietro

STORIA E ATTUALITÀ DEL PONTEFICE ROMANO (IV)

1956

CENSURA ECLESIASTICA

Nihil obstat: Dr. Vicente Serrano, Censore

IMPRIMATUR: † JOSE MARIA. Ob. Ausiliario e Vicario Generale

Madrid, 2 marzo 1956

Capitolo IV

IL PAPATO NELLA BILANCIA DELLA STORIA

Se un acattolico vuole offendere un Cattolico, e gli sembra che sia giunto il momento di affondare un pugnale doloroso ed offensivo nel suo cuore, è quando gli dice con tono sprezzante e con un ghigno di disprezzo: “Papista!”. È pienamente convinto di aver fatto centro con i più, perché secondo lui, non c’è vergogna, umiliazione e offesa più grande che sputare su un Cattolico con l’aggettivo “papista”, cioè definirlo dipendente dal Papa. Questi sono gli uomini dalla testa vuota, coloro che non hanno nemmeno un’idea della Storia, perché chi conosce – anche a grandi linee – la storia universale, qualunque sia la sua religione, che sia ebreo o maomettano, non potrà negare il suo rispetto per il Pontificato, per questa istituzione sovrana che ha lavorato come nessun’altra per la cultura spirituale e materiale, per la giustizia ed il diritto. È vero che noi Cattolici credenti non vediamo in questo il più grande merito dei Papi. La nostra gratitudine ed il nostro amore per il Pontificato sono, in primo luogo, per avere conservato pura e trasmessa senza adulterazioni la dottrina di Gesù Cristo, e per essere la “roccia” su cui poggia incrollabile la vera Chiesa. Sì, questi sono i principali motivi di entusiasmo e di gratitudine. – Tuttavia, non sarebbe superfluo esaminare anche i grandi meriti del Pontificato che la Storia riconosce, a vantaggio della cultura e del benessere umano, per rendere il nostro amore ed il nostro rispetto per la persona del Pontefice. Non sarà superfluo, nel presente capitolo, guardare al Papa con occhi meramente umani, soppesando i suoi meriti o demeriti nella bilancia della storia, e che ci si ponga questa domanda: da un punto di vista puramente umano, è davvero vergognoso essere chiamati “papisti”, o possiamo piuttosto dire con santo orgoglio: “Grazie a Dio, sono un papista! In questa esclamazione dobbiamo certamente esplodere se esaminiamo con attenzione i meriti che i Papi si sono guadagnati nel propagare il Cristianesimo: in primo luogo, il Cristianesimo e, in secondo luogo, la cultura.

I Papi ed il Cristianesimo.

A) A cosa servono i Papi? Questa è la domanda che intendiamo delucidare. I malintenzionati osano rispondere in questo modo: “I Papi servono solo a tiranneggiare e a schiavizzare il mondo, sottomettendolo ai ai loro capricci”. Non hanno ragione nell’affermare una cosa del genere. Se il Pontificato esiste, è per darci Cristo, per annunciare al mondo la lieta novella del Vangelo e di comunicare agli uomini la grazia redentrice. Per questo Pietro andò a Roma, per predicare Cristo; per questo morì. Per questo i Papi hanno inviato missionari in tutto il mondo per predicare Cristo. Per questo vennero ad affrontare le potenze della terra e a combattere con loro, ed hanno dovuto essere tagliati fuori ed espulsi dalla Chiesa, solo per questo, per difendere la dottrina di Gesù Cristo. Per questo consentirono il luccichio esteriore che li circonda, e l’omaggio reso alle loro persona, per meglio servire la propaganda del regno di Gesù Cristo. I Papi hanno sempre ricordato con commozione la triplice confessione di amore di Pietro, secondo dopo la quale fu investito da Cristo di un potere sovrano: Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di questi? È stata la domanda del Signore. E Pietro rispose: “Sì, Signore, tu sai che ti amo”. Poi Cristo gli disse: “Pasci i miei agnelli” (Gv XXI,15). Una seconda ed una terza volta Cristo ha richiesto questa confessione d’amore a Pietro, e per la seconda e terza volta ha ripetuto il suo incarico. Come potrebbero i Papi dimenticare che è proprio dall’amore che hanno ricevuto il loro potere trionfale nel mondo? … che devono proclamare l’amore, la pace, la benedizione, la buona novella di Cristo a tutta l’umanità: che al di sopra di ogni malvagità, di ogni male, di ogni odio e inimicizia umana, devono far trionfare l’amore intenso e autosacrificante, eroico di Gesù Cristo?

B) Se vogliamo riassumere in un’unica frase la storia ventennale e secolare dei 263 Papi, potremmo farlo con queste parole del divino Salvatore: “Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore”. Tutti i Papi, Vicari di Gesù Cristo, hanno fatto di queste parole il loro dovere. E quanto hanno fatto e sofferto i Papi per il gregge di Cristo! Le persecuzioni del primo secolo si abbattono sul gregge per distruggerlo. Dov’è il pastore? Il pastore mercenario sarebbe fuggito; ma il buon pastore è con il suo gregge. I Papi stanno con il loro gregge nelle catacombe sotterranee, confermandoli nella fede e andando con i martiri al supplizio, per testimoniare Cristo con il sangue del loro cuore. Leggiamo l’elenco dei Papi, che certamente ci sorprenderà: “Pietro, Pietro, Lino, Clemente, Clemente, Evaristo”…, dopo i nomi di tutti loro la parola “martire”, “martire”, “martire”, “martire”, “martire”. Continuiamo a leggere: “Alessandro, Igino, Pio, Aniceto, Sotero, Eleuterio, Vittore”…, e dopo il nome di tutti loro la parola “martire”, “martire”, martire”… Per ventinove volte viene ripetuto il sorprendente ritornello: “martire”, “martire”. Veramente il Pontificato è sempre stato la forza, l’incoraggiamento e la forza, il respiro e il cuore del Cristianesimo.

b) E sempre, fin dai primi anni della nostra fede, il Pontificato è stato lo splendido faro della nostra fede. Il Pontificato è sempre stato uno splendido faro che ha indicato le rotte, e la piccola nave di Pietro ha lasciato una scia di benedizioni. Questo è quanto affermano diciannove secoli. Roma è il punto di partenza ed il centro della fede e della cultura cristiana. Quante volte, nella storia dei Papi, si è ripetuta la scena di San Pietro che cammina sulla superficie del mare e comincia ad immergersi! La storia registra molti momenti che sono stati allarmanti per la Chiesa. Ricordiamo un periodo nero: il tempo dell’eresia ariana, quando solo il Papa e pochi credenti rimasero fedeli alla fede nella divinità di Gesù Cristo; quasi tutto il mondo divenne ariano. Leggiamo le atroci persecuzioni di Giuliano l’Apostata. Ripercorriamo la storia degli scismi, delle rivoluzioni, il dispotismo di Napoleone… Sempre, quando sembra che le onde stiano per chiudersi sulla testa del Pontefice, si è sempre ripetuto alla fine della scena di la scena di Gesù Cristo con Pietro: E subito Gesù stese la mano, lo prese e gli disse: “Tu, uomo di poca fede, perché esiti?” (Mt XIV, 31). Il fatto che la dottrina di Gesù Cristo si sia mantenuta intatta per mille e novecento anni deve essere ascritto al merito dei Papi. Il fatto che l’incessante lavoro dei missionari abbia conquistato i continenti ed il mondo intero per Gesù Cristo è merito dei Papi. “Se la propagazione del Cristianesimo è un merito”, scrive il protestante Herder (Ideen zur Philosophie der Geschichte, II, 350 (Idee per la filosofia della storia), “i Papi hanno una grande parte di questo merito”. Il fatto che l’Europa non sia caduta davanti agli Unni, i Saraceni, i Tartari e i Turchi, è innanzitutto merito dei Papi.

C) Ci viene in mente uno strano pensiero: cosa succederebbe se Cristo apparisse di nuovo sul monte e andasse in Vaticano? Ah, sì, cosa succederebbe, cosa farebbe Cristo? Se passasse in rassegna con il suo sguardo onniveggente la vita dei 263 Papi, troverebbe anche ombre e debolezze umane in coloro che, pur essendo stati esaltati alla più alta dignità ecclesiastica, erano tuttavia uomini? Li troverebbe? Ah, sì! O il suo sguardo divino non si rattristerebbe a volte, e non brillerebbe forse con con lampi di luce? Ah, sì! Eppure… Anche con la misura più ristretta, a quanti dei 263 Papi si può rimproverare la negligenza del proprio dovere, l’eccessiva mondanità o la mondanità o gravi difetti morali? Forse, al massimo, sei o sette Papi. Tutti gli altri sono stati integri, di grande carattere; molti di loro martiri e santi canonizzati. Se il Signore – che conosce così a fondo le debolezze della natura umana, come nessun filosofo o storico potrà mai conoscerle, e penetra fino in fondo le leggi che presiedono allo sviluppo della storia – passasse il suo sguardo divino attraverso l’intera successione dei Papi, vedendo che l’energia vitale di quel piccolo granello di senape, seminato da Lui, ha portato tante foglie e fiori e magnifici rami sul robusto albero della Chiesa, e rivolgesse all’attuale Pontefice Pio XII – il “Pietro” di oggi – quella domanda che rivolse a San Pietro, chi lo considerano gli uomini, il Papa, prostrandosi in ginocchio, gli ripeterebbe le immortali parole: “Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivente”… Certamente, ripeto, non pronuncerebbe parole di condanna contro il Pontificato, né avrebbe gravi obiezioni da rivolgere ad esso, ma avrebbe certamente ripetuto le parole che disse a Pietro: “Beato te, Pio, perché la mia Chiesa poggia saldamente su di te…”. Questo è il grande valore storico dei Papi: su di loro poggia la Chiesa di Gesù Cristo.

I Papi e la cultura

Tutto ciò che è stato detto finora sui meriti del Pontificato è citato solo tra coloro che amano il Cristianesimo. tra coloro che amano il Cristianesimo, ne apprezzano il valore e lo considerano la più grande benedizione dell’umanità. Ma nella bilancia della storia ci sono altri meriti che costringono anche i non Cristiani a guardare al Papa con il più profondo rispetto. Solo gli analfabeti, che disprezzano la storia della cultura, possono facilmente esprimere giudizi e sentenze di condanna sull’indegnità di questo o quel Sommo Pontefice. Mi sembra meglio dare credito al famoso storico a-cattolico Gregorovius, che così scriveva: “La storia non ha abbastanza titoli distintivi per delimitare anche solo approssimativamente le imprese e la gloria imperitura dei Papi…”. Quali sono i grandi meriti culturali dei Papi?

Quelli che si sono guadagnati A) nel campo della cultura, B) nel campo della verità e C) nella propagazione e nella difesa del diritto. Insisto ancora una volta sul fatto che per noi Cattolici questi non sono i loro meriti principali. Il merito principale risiede nel fatto che essi sono il fondamento roccioso della Chiesa di Gesù Cristo. Ma non ho ritenuto superfluo passare brevemente in rassegna i loro meriti storici, per renderci sempre più consapevoli del nostro rispetto per il vicario di Gesù Cristo in terra.

A) Avremmo bisogno di molti volumi per delineare anche solo ciò che è dovuto alla cultura – sia spirituale che materiale – ai Pontefici di Roma.

a) Innanzitutto, dovremmo fare riferimento a tutta la storia della conversione dei popoli. Il Pontificato è una grande potenza che si estende su tutto il mondo, eppure non ha cannoni o mitragliatrici. E con quanta rapidità ha conquistato il mondo! Ha parlato all’altezzoso romano, dominatore di cento popoli, ed egli ha chinato il capo davanti a Gesù Cristo. Ha parlato al popolo greco, educato con la filosofia di Platone e Aristotele, ed il popolo greco ha chinato il capo davanti a Gesù Cristo. Aristotele, e il popolo greco chinò il capo ed ha abbracciato la nuova ideologia e le nuove norme di vita cristiana. – Parlò alle tribù barbariche che devastavano l’Europa, e anch’esse piegarono il loro collo rigido al giogo di Gesù Cristo. E ovunque apparve la croce, un nuovo mondo morale, sociale e politico sorse sulla mappa dei popoli: sparpagliati, si trovavano in un’unica città. Popoli nomadi e animosi si trasformarono in pacifici coltivatori della terra, delle scienze e delle arti. Solo il Pontificato, attraverso l’unità di fede e di morale, ha potuto realizzare questa unità di pensiero e di morale, questa nobilitazione dei cuori e degli spiriti, che è stato il fondamento, più solido della nostra cultura occidentale, di cui siamo così orgogliosi.

b) Ma, oltre a questa conversione dei popoli, dobbiamo anche menzionare quell’impareggiabile magnificenza e quel gesto di mecenatismo, insuperato da qualsiasi istituzione, con la quale i Papi riuscirono a dare impulso alle scienze e alle arti. Chiunque visiti Roma si trova ad ogni passo davanti a edifici, statue e magnifiche fontane erette dai Papi. Chi abbia visto le mirabili sale del Vaticano ed i suoi mausolei pieni di incomparabili tesori artistici, ed ha trascorso qualche ora nell’immensa biblioteca o nell’archivio vaticano, non ha bisogno di molte spiegazioni per rendersi conto di ciò che debba al Papato la più nobile cultura umana. Qualsiasi semplice manuale di storia dell’arte proclama eloquentemente le lodi dei grandi protettori di Bramante, Raffaello, Michelangelo, Bernini, Maderna, in altre parole, le lodi dei Papi. Chiunque visiti il museo di antichità in Vaticano noterà con sorpresa che le fondamenta di tutto il nostro sapere e della nostra educazione classica sono state salvate dalla distruzione dai musei vaticani. Ciò che tutti noi conosciamo in una semplice riproduzione dai libri di testo di seconda elementare, possiamo vederlo lì nella sua forma originale: il gruppo di Laocoonte, Arianna che dorme coperta da una magnifica veste dalle bellissime pieghe, l’Apollo del Belvedere, la statua di Zeus di Otricolo e molte altre opere di arte antica di altissimo livello. Pio XI ha giustamente elencato nella sua Enciclica “Deus scientiarum Dominus”, pubblicata nel 1931, tutta una serie di Università che devono la loro esistenza al Papato. Molti saranno sorpresi di sapere che le seguenti Università sono state fondate dai Papi: quelle di Bologna, Parigi, Oxford, Salamanca, Tolosa, Roma, Padova, Cambridge, Pisa, Perugia, Colonia, Heidelberg, Lipsia, Montpellier, Ferrara, Lovanio, Basilea, Cracovia, Vilnius, Graz, Valladolid, Messico, Alcalá, Manila, Santa Fe, Lima, Guatemala, Cagliari, Lemberg, Varsavia.

B) E non minore è il merito dei Papi nella propagazione e nella difesa della verità.

a) La soluzione dei problemi temporali e terreni dipende sempre dalla concezione che abbiamo  delle cose eterne. La politica, l’educazione, la vita sociale, la vita giuridica e morale sono legate alla risposta che diamo alle domande ultime. Il merito imperituro dei Papi è quello di aver educato l’Occidente cristiano ad una tradizione culturale forte, sicura e unitaria, attraverso la conservazione intatta delle verità religiose. – Sono sempre stati i Papi a proclamare e difendere in questo mondo il primato dello spirito sulla materia, dell’anima sul corpo, quello della moralità sull’interesse, quello del diritto sul potere, quello della giustizia sull’acquiescenza. A chi può sfuggire il fatto che nel rispetto di queste verità, la vita umana, sociale e collettiva, come pure quella personale, sia diventato il primo fattore culturale dell’umanità?

b) A causa delle grida di aiuto che l’umanità lancia nella sua sfrenata ricerca delle fallacie delle idee sbagliate, abbiamo conosciuto il valore culturale del Pontificato nella propagazione della verità. Tutti i progetti, i desideri e l’essere dell’uomo antico erano strettamente uniti al soprannaturale. L’uomo moderno ha voluto rompere i legami di questa unione, ha creduto di essere autosufficiente e di potersi redimere da solo. Tuttavia, dopo incessanti sconvolgimenti sociali e continue rivoluzioni, oggi sta di nuovo riconoscendo che anche per il giusto ordinamento della vita naturale e terrena, l’unica solida garanzia è l’umile sottomissione all’ordine soprannaturale. Solo la concezione del mondo, proclamata dai Papi fin da mille e novecento anni fa, può appianare i contrasti e porre fine alle incertezze, e dare risposte soddisfacenti ai molteplici problemi della vita. Se i Papi non avessero fatto altro che innalzare la fiaccola della verità, solo questo sarebbe bastato per considerarli i più grandi benefattori dell’umanità.

C) Ma si sono anche guadagnati meriti illustri nella difesa del diritto.

a) Raffaello, il grande pittore famoso in tutto il mondo, ha lasciato, tra i suoi affreschi in Vaticano, uno splendido sull’incontro tra Attila e Papa Leone I. L’esercito devastante degli Unni sta avanzando da Venezia verso Roma e minaccia di travolgere l’intero mondo civilizzato. In una situazione di urgenza, Papa Leone va ad incontrare Attila per chiedergli un po’ di pietà. Questo incontro di alto profilo si svolse a Mantova nell’anno 452. Nell’affresco di Raffaello, si vede un vecchio dai capelli grigi (San Pietro) accanto al Papa, che minaccia il principe distruttore con una spada sguainata in un’immagine simbolica, che ben illustra l’incrollabile coraggio con cui i Papi hanno sempre alzato la voce in difesa del diritto. Questa difesa del diritto era certamente ciò che pensava  il famoso Veuillot, pubblicista francese, quando scrisse: “Privando il mondo di Pietro, verrà la notte, una notte in cui si formerà, crescerà e salirà sul trono …. Nerone”. – I Papi non solo pubblicarono la dottrina di San Paolo, Paolo, secondo il quale il potere legale dello Stato è mantenuto dalla grazia di Dio (Rm XIII,1), ma si sforzarono di pubblicarla di fronte agli eccessi dello Stato. I Papi condannarono, da un lato, quella forma di sovranità popolare che che deriva tutto il potere dal popolo; ma condannarono anche la dottrina dell’onnipotenza statale, che fa derivare tutto il potere dallo Stato. I Papi non hanno mai smesso di insegnare la relazione tra diritto e morale, impedendo così che le questioni giuridiche si trasformassero in questioni di potere. Il diritto è ciò che è giusto; ma ciò che è giusto è prescritto dalle leggi eterne di Dio e non dal capriccio umano. Pertanto, chi ama Dio rispetterà anche la legge; l’uomo religioso è, quindi, il miglior cittadino. Proclamando e difendendo questo modo di pensare, il Papa rendeva un importante servizio al diritto. Nelle più grandi crisi della vita dei popoli, i Papi non trascurarono di alzare la voce in difesa di un’autorità superiore, dell’autorità sociale, dei doveri sociali e dell’ordine giuridico, gettando le basi di una vita sociale degna dell’uomo. “Nel Medioevo dice il noto storico Leo Henkik, – che non è cattolico (Geschichte des Mittelalters, II, 19 – Storia del Medioevo) – i veri baluardi della libertà politica erano i Papi”. Eppure, questa fiera posizione è costata loro così tanti sacrifici e sofferenze che quasi tutti i Papi avrebbero potuto dire ciò che Gregorio VII disse prima di morire: “Ho amato la verità e odiato l’iniquità; perciò muoio in esilio”. Pertanto, se Gregorovius, il famoso storico di Roma, che non è un cattolico, ha potuto scrivere: “La religione cristiana è stata l’unico baluardo contro il quale si è schiantata la marea dei popoli barbari”, non sarà certo difficile comprendere quest’altra sua affermazione: “Il rispetto che i popoli del Medioevo mostravano nei confronti della città di Roma era illimitato”. Sì, era illimitato perché l’umanità trovava nel Pontefice la migliore garanzia di un giudizio sereno e giusto.

b) Anche oggi ci sono molti che attaccano il Papa: perché? Sono feriti dalla fede cristiana? No. Lo attaccano perché il Pontificato è il principale rappresentante dei principi dell’autorità. Questo è sempre stato il motivo principale degli attacchi al Papa. – Le scuole di pensiero dissolute sono state ben consapevoli che il pontificato stesso è l’unico baluardo che debba essere seriamente preso in considerazione. – Per capire bene cosa significhi il Papato per la cultura e per l’umanità, bisogna considerare dove saremmo arrivati senza il suo aiuto, che ne sarebbe stato dell’Europa se fosse mancata questa potente difesa della cultura, della verità e del diritto? Se fosse mancato questo araldo del primato dello spirito e questo più vigoroso rappresentante del rispetto dell’autorità? Non sono io ad affermarlo, ma il famoso discepolo di Kant, Herder, che nel suo libro intitolato “Ideen zur Philosophie Geschichte der Menschheit”, “Ideas zur Philosophie Geschichte der Menschheit”, “Idee per la filosofia della storia dell’umanità”, scrive: “Il fatto che gli Unni, i Saraceni, i Tartari, i Turchi e i Mongoli non abbiano inghiottita per sempre l’Europa, è opera del Pontificato. Senza la gerarchia romana, l’Europa sarebbe probabilmente diventata preda dei despoti, teatro di continui litigi, o un deserto mongolo”.

* * *

Permettetemi, amati lettori, di ripetere alla domanda: dobbiamo vergognarci se uomini incolti ci chiamano sprezzantemente “papisti”? “È forse motivo di vergogna per noi che la nostra fede poggi sulla roccia di un’istituzione così incomparabile? O è piuttosto fonte di vergogna che alcuni non siano nemmeno a conoscenza dei fatti storici, che sono per sempre memorabili, per i quali il Pontificato si è guadagnato l’eterna gratitudine del di ogni uomo colto?

Sarebbe difficile riassumere ciò che l’umanità deve al Pontificato. Gli deve il fatto che la fede di Cristo sia giunta a noi indenne, intatta. Deve ad esso il fatto che la morale cristiana sia proclamata nella sua interezza ed incolume. Deve ad esso l’estensione del regno di Cristo. Gli deve tutta la cultura cristiana, le arti e le scienze. Gli deve gratitudine per la sua vigilanza e la sua tenacia nel custodire i tesori più preziosi, che sono la sua ricchezza ed il suo ornamento: la vita familiare, l’educazione, la giustizia reciproca. È proprio negli ultimi decenni che gli occhi dell’umanità si sono spesso rivolti a Roma: nel fiume di sangue della guerra e nel mare di miseria del dopoguerra. Come una roccia sopra le onde, il Trono pontificio si erge in alto, rafforzato da un’autorità raddoppiata, in mezzo ad una autorità, in mezzo ad un mondo in cui i troni secolari sono stati frantumati in schegge e sembra avviarsi a perire in assenza di autorità o per il dispotismo dei forti. La tiara papale brilla, quando accanto ad essa decine di corone reali sono cadute nella polvere.

E se l’umanità è così sciocca da continuare a suicidarsi e ad inseguire il fuoco fatuo delle filosofie seducenti e delle monete fallaci, continua a dissipare follemente i migliori tesori e i valori spirituali raccolti nell’antichità, anche così, in mezzo alle macerie caotiche di una società e di culture in disfacimento, l’istituzione del Pontificato resterà in piedi e svetterà, così come le piramidi d’Egitto si ergono e si stagliano ancora sull’Egitto, sugli strati di sabbia con cui i secoli le hanno ricoperte una dopo l’altra.

* * *

Amico lettore: ringraziamo il Signore che siamo “papisti”… anche noi!

Ave, Santa Roma!

La città eterna attira i pellegrini con un’attrazione incessante. Non si può visitare Roma senza incontrare pellegrini provenienti da tutto il mondo. Al di fuori della Terra Santa, calpestata dalle divine suole di Gesù Cristo, e al di fuori della patria in cui sono sepolti i nostri antenati, non c’è luogo in tutto il mondo così caro ai Cristiani come questa città santa. Ma ciò che amiamo non è la capitale di un antico impero mondiale. Né amiamo la città, museo di tesori artistici incomparabili. Ciò che amiamo è la “pietra” di Roma, la roccia su cui Cristo ha costruito la sua Chiesa. Amiamo il cuore che vi batte e che trasmette il sangue della vita cristiana a tutti i membri della Chiesa universale, che si estende in tutto il mondo. Amiamo il capo che comanda e e ordina a Roma e che proclama la dottrina di Cristo. Amiamo la mano paterna che si leva a Roma per benedire il mondo intero. In questo sta il fascino misterioso e attraente della “Roma eterna”.

“Ave, Ave, Santa Roma”, gridavano entusiasti i pellegrini nell’anno 1300, durante il Giubileo del primo Anno Santo, dopo una lunga e faticosa marcia, quando, finalmente, sotto i raggi del sole al tramonto, intravidero dal sole al tramonto, la città santa dall’alto del monte Mario. Ave, Roma santa”, esclama oggi ogni credente che medita su ciò che le anime cristiane devono a Roma. La caratteristica dei fedeli Cattolici è sempre stata, in tutto il mondo, il loro fervente e amorevole attaccamento alla Città Eterna. Questo è un fatto così noto che non è necessario soffermarsi su di esso. Sarà invece più istruttivo studiare le cause di tale fatto e porsi questa domanda. Perché ci chiamiamo Cattolici romani, cioè perché amiamo la Città Eterna? Ovvero, perché amiamo Roma con tanto fervore? La nostra risposta sarà duplice: in primo luogo, amiamo Roma perché è lì che batte il cuore della Chiesa e, in secondo luogo, perché è lì che vive il capo della Chiesa.

La Chiesa vive lì!

A Roma batte il cuore della Chiesa

Diciamo, innanzitutto, che siamo Cattolici romani e che amiamo Roma perché lì batte il cuore della Chiesa; perché: a) come questa città è stata lo scenario del glorioso passato del Cristianesimo, così b) in modo analogo, rimane oggi il luogo di culto del Cristianesimo.

A) Il passato glorioso del Cristianesimo era indissolubilmente legato al nome di Roma.

a) L’antica Roma pagana doveva anche essere bella; ma quanto era misera l’anima umana lì! I Romani illustri vivevano in palazzi di marmo ornati d’oro. d’oro: leggevano Omero, Orazio, Virgilio. Nel Foro la vita traboccava di febbri d’agitazione; un tempio si scontrava con l’altro…: ma anche le porte del Colosseo si aprirono, e l’imperatore, il politico, il guerriero, lo scrittore, il poeta, il sacerdote e le vestali guardavano con l’avidità di occhi che saltavano fuori dalle orbite per la lotta tra la vita e la morte dei gladiatori. E la folla – circa 90.000 uomini – riunita nel Colosseo ululava e ruggiva. Il Colosseo ululava e ruggiva di indignazione quando i gladiatori si trattavano con delicatezza o finivano di combattere rapidamente. Quegli spettatori volevano vedere sangue, sangue umano che colava a lungo. Loro, i sacerdoti, le sacerdotesse! Loro, i grandi statisti! E se il vincitore guardava verso il palco imperiale implorando la vita del suo avversario, che rotolava a terra, pieno di ferite mortali, il pollice della mano dell’imperatore si girava verso il basso, con un gesto sanguinario: nessuna pietà, uccidetelo, uccidetelo, uccidetelo!

Questa era la Roma pagana.

b) Ma un giorno un pescatore di Betsaida venne a Roma per una delle strade magnifiche; il suo nome antico era Simone, ma a quel tempo si chiamava Pietro. Su un’altra strada regale i soldati romani conducevano un prigioniero inviato da Festo, procuratore della Giudea; il suo nome era Paolo di Tarso. E mentre Pietro e Paolo varcavano le porte della grande città pagana, la storia la storia del mondo si capovolse. La Roma che un tempo era stata un nido e un semenzaio di sensualismo, di giochi gladiatori, di idoli pagani, divenne da quel momento in poi il punto di partenza e il propagatore di una nuova cultura, nobile e santa come lo era e lo è lo spiritualismo cristiano: Roma fu da allora in poi il cuore della Chiesa. E poiché tutto il sangue va al cuore, il mondo intero iniziò il suo pellegrinaggio a Roma. È la città più antica che ha visto la gente affluire a frotte quando ancora non si parlava di traffico turistico. Era il cuore della Chiesa! Per questo motivo Roma è diventata la “Città eterna”. Sì, è eterna. Ma ciò che è eterno in essa è solo quello che proviene da Pietro e Paolo. Da allora Roma è stata un luogo sacro per noi. Migliaia e migliaia di compagni Cristiane sono morte nel suo Colosseo, dilaniati dai denti di leoni, tigri, pantere e orsi. Migliaia di Sacerdoti, Vescovi, madri, fanciulle, bambini e vecchi sono morti per la vittoria della croce, per la causa di Cristo. Dalle loro tombe la nuova Roma, la Roma santa, la Roma eterna.

B) Roma è stata la scena dei primi secoli del Cristianesimo. è la fonte più abbondante delle energie che sono all’origine della sua attuale fioritura.

a) L’Italia, e all’interno dell’Italia Roma, hanno esercitato per secoli una forza attrattiva su popoli e individui. È possibile che i Cimbri, i Teutoni e i Celti siano stati attratti dalla loro patria settentrionale, nebbiosa e fredda, solo dal calore del cielo del sud pieno di sole; ed è possibile che molti viaggiatori moderni visitino l’Italia per i suoi tesori artistici. Ma è possibile affermare che la maggior parte dei treni espressi e dei lunghi convogli di pellegrini che si precipitano a Roma non vanno nella Città Eterna per godere del suo sole ed ammirare i suoi tesori artistici, ma, piuttosto, proprio come nell’antichità, la gente veniva a Roma per ricevere norme giuridiche, politiche, artistiche ed economiche, per poi tornare nella loro patria lontana con un nuovo spirito di lavoro, in un modo simile a quello di Roma, che è il centro della cristianità, così che, in modo simile, i Cristiani di oggi si recano a Roma in modo che, risvegliati spiritualmente dal cuore della Chiesa, possano poi tornare con nuova energia alle faccende e alle lotte quotidiane della vita! – Si dice che Goethe, quando fece il suo famoso viaggio in Italia, andò a Roma in fretta, quasi senza fermarsi. In realtà non si trattava di un viaggio, ma di una fuga; fuggire dall’atmosfera angusta e meschina, carica di nebbie dell’incertezza, verso la luce di una concezione risoluta e ampia del mondo. – Questo è ciò che sente il pellegrino romano. Sente come sia ringiovanito spiritualmente; come la sua anima si riempia di pensieri grandiosi ed edificanti quando contempla da vicino i valori e le misure assolute di eterna validità. I fedeli non vanno a Roma come turisti, ma come pellegrini pentiti, come pellegrini assetati, come esseri deboli in cerca di un rafforzamento spirituale. Perché chi andasse a Roma solo per vedere l’arte, andrebbe con gli occhi bendati e vagherebbe con l’anima chiusa. Cosa significano i tesori deperibili di una Roma artistica rispetto ai problemi eterni dell’esistenza, ai quali l’altra Roma dà risposte, la Roma santa, la Roma eterna?

b) Non è possibile descrivere, bisogna vivere le sensazioni che lì si impadroniscono della nostra anima. Siete davanti alla tomba di colui che che ha parlato con Gesù Cristo. Siete nella città dove il Vangelo è stato predicato incessantemente da quando il primo Papa vi ha messo piede. Vi trovate nella Roma cristiana, fondata non da Romolo e Remo, come si dice della Roma pagana, ma da Pietro e Paolo. Lì si respira l’aria di Cristo e si è impregnati dell’azione vivificante del Vangelo, il lievito divino che ha reso cristiana l’anima pagana, come ha trasformato il pantheon degli dei in un tempio dei martiri, in Santa Maria sopra Minerva. il tempio pagano di Minerva, ed in Santa Sabina il tempio pagano di Diana.

c) E a questo punto vorrei sottolineare un pensiero: Roma è diventata la madre comune di tutti i Cristiani, senza che nessuno di loro debba rinnegare la propria nazione.

Sì, perché quando andiamo a Roma, non andiamo con l’intenzione di visitare la capitale d’Italia, ma per raggiungere il cuore del mondo cristiano. Questo è l’unico modo per capire che i pellegrini che si trovano a Roma, lungi dal dimenticare la propria patria, da nessuna parte pensano ad essa con tanta pietà, e in nessun luogo cantano il loro inno nazionale con più fuoco come lì, nella città santa ed eterna della cristianità.

Sottoscriviamo, dunque, tutte le parole del grande scrittore francese De Maistre, che mette questo paragrafo nel suo libro intitolato Du Pape, Del Papa: “O santa Chiesa romana! Finché potrò fare uso della mia lingua, Dio ti salvi, madre immortale della scienza e della santità, e madre immortale di, salve magna parens! Tu hai diffuso la luce fino agli estremi confini della terra, dove ogni potere ostinato non ha posto alcun ostacolo alla tua influenza, e spesso anche a dispetto di esso. Sei stato Tu a porre fine ai sacrifici umani, alle usanze barbare ed ignominiose, alla notte dell’ignoranza; e dove i tuoi inviati non sono riusciti a giungere, là manca la cultura umana. I vostri sono gli uomini eccelsi. I vostri insegnamenti purificano la scienza dal veleno dell’indipendenza e dell’orgoglio, che la rendono sempre pericolosa e spesso dannosa. I tuoi Papi saranno presto riconosciuti come i primi fattori della cultura umana, i creatori della cultura umana, i creatori della cultura umana, i creatori della cultura umana creatori della monarchia e dell’unità europea, guardiani dell’unità europea, guardiani della monarchia e dell’unità europea, guardiani delle arti, fondatori e difensori nati della libertà civica, distruttori della schiavitù, nemici della tirannia, benefattori del genere umano”.

A Roma vive il Capo della Chiesa

Amiamo Roma non solo perché in essa batte il cuore della cristianità, ma anche perché in essa vive il Capo della Chiesa; in essa vive: A), il Papa; B), il nostro Santo Padre.

A) Amiamo Roma perché a Roma vive il Papa.

a) E chi è il Papa? Cosa pensa di lui la Chiesa cattolica? Perché quello che il mondo pensa di lui lo vediamo ad ogni elezione del Papa. La stampa di tutto il mondo pubblica grandi articoli, fa delle combinazioni per indovinare chi sarà il nuovo Papa, cosa ci si possa aspettare da lui, quale orientamento politico seguirà… Questo è ciò che pensa il mondo. E la Chiesa?

Ordina una messa speciale da celebrare al momento dell’elezione:

Missa pro eligendo Summo Pontifice“, “Messa per l’elezione del Sommo Pontefice”; e la preghiera di questa santa Messa dimostra in modo magnifico ciò che la Chiesa si aspetta dal Papa. Rivediamo questa preghiera: che Papa chiede la Chiesa? Uno spirito ardente di artista, un grande costruttore, un grande politico, un diplomatico? Un grande politico, un diplomatico? Nessuno di questi, ma un Papa che, attraverso la sua fervente sollecitudine per le nostre anime – “pio in nos studio” – sia sempre accettabile agli occhi della divina deferenza e degno di rispetto agli occhi del popolo. È così che la Chiesa prega per il Papa. E abbiamo imparato questa preghiera da Gesù Cristo stesso, che una volta disse a San Pietro: “Simone, Simone! ecco, satana ti insegue per vagliarti come il grano”. Ma Io ho pregato per te, affinché la tua fede non perisca; e tu, quando ti sarai convertito, rafforza i tuoi fratelli.” (Lc XXII,31-32). – Che parole incomparabili, Cristo ha pregato per Pietro! Cristo prega per il Papa, perché conosce il suo immenso valore: il destino eterno di milioni e milioni di anime immortali dipende dalla sua infallibilità, dalla sua fede incrollabile. Da Cristo i fedeli cristiani hanno imparato a pregare anche per il Papa.. Si racconta che, quando Pietro soffriva in prigione, la Chiesa incessantemente Dio per lui (Atti XII, 5).

b) Ma dalle parole di Cristo ricaviamo un’altra cosa: l’obbedienza al Papa, incomparabilmente più sottomessa e traboccante di pietà filiale, che ha sempre caratterizzato i popoli in cui c’è una vita veramente cristiana. Infatti, se Cristo ha incaricato il Papa di confermare i suoi fratelli nella fede, è giusto che a noi venga comandato di essere figli obbedienti del Papa, la cui missione divina è quella di guidarci ed orientarci nella nostra fede.

Che “obbediamo ciecamente al Papa“? Sì, signore! Così così come ogni uomo che non è pazzo è abituato ad obbedire ciecamente alla sua testa, e non alla sua mano o alla sua lingua. Perché le mani, i piedi e il corpo della Chiesa siamo noi, i fedeli. Il Capo è Cristo e il suo Vicario è il Papa. – Rivedete ciò che la Lettera agli Efesini dice di Gesù Cristo: ” Tutto infatti (il Padre) ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa,la quale è il suo corpo,la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose.” (Efesini 1, 22-23). Chi non sa che il Capo della Chiesa è Cristo e che il Vicario di Gesù Cristo in terra è il Papa? Noi amiamo Roma perché in essa abita il Papa, il Vicario di Gesù Cristo.

B) Ma il nostro amore ha radici molto più profonde. Non solo il Papa è il capo visibile della Chiesa, il suo governatore, ma anche il Padre amoroso di tutta la cristianità, il nostro Santo Padre; ed è proprio questa espressione che spiega appieno tutto il nostro tenero amore che i fedeli ferventi fedeli hanno sempre professato per Roma.

a) Gli stessi Cattolici sono pervasi da un profondo rispetto e da un’emozione del tutto particolare quando incontrano il Santo Padre in udienza. Quanti hanno vissuto un’esperienza simile a quella del potente ministro di Luigi Filippo re di Francia, Thiers, che durante la sua permanenza a Roma a Roma chiese un’udienza al Papa, ma a condizione che, essendo un protestante, non dovesse inginocchiarsi davanti al Pontefice e baciargli la mano. Quando questa richiesta fu comunicata a Gregorio XVI, questi rispose sorridendo: “Fate come piace a Thiers”. Il presidente del Consiglio dei ministri francese entrò e, trovandosi di fronte al Papa, sentì un forte richiamo, un sentimento forte e indefinibile invadere la sua anima. Si inginocchiò davanti a lui e gli baciò il piede. Il Papa gli chiese in tono di grande dolcezza: “Signor Ministro, è inciampato in qualcosa?”. E il ministro francese rispose con grande arguzia: “Veramente, siamo tutti ad inciampare nella grandezza del Papato”. Questo è ciò che provano anche i non Cattolici quando si trovano faccia a faccia con il Papa.

b) Cosa devono provare i fedeli quando pronunciano queste parole: “Nostro Santissimo Padre”? “Che nome sublime e piissimo! Quante cose dicono queste tre parole: “Padre nostro santissimo”! Prima di tutto, sono parole di fiducia. Tu sei è la roccia su cui poggia la nostra fede. Tu sei il fondamento su cui è costruita la nostra casa familiare, la Chiesa cattolica. Tu sei l’uomo su cui poggia la nostra Chiesa, l’arco della Chiesa universale. Tu sei il pastore che guida il cammino della nostra anima. Tu sei il cuore che batte in noi. Ma queste parole sono anche un segno di profondo amore. Tu sei il capo della grande famiglia, e tutti noi ci sentiamo a casa con te. Tu sei il padre, e i tuoi figli vengono da te da tutto il mondo. Accanto a te c’è “la patria delle anime”, come Sienkiewtcz chiamava Roma. Non c’è stato nessun altro regno al mondo con una tale varietà di lingue e una storia così ricca; i cui membri erano così diversi sia esteriormente che nella loro formazione culturale interiore, come la Chiesa cattolica. E tutta questa varietà è mirabilmente unita in un unico punto centrale della Chiesa: il Papa. Egli è il supremo legislatore, la guida, la roccia, il fondamento, il centro, il Vicario di Cristo!

c) Leggiamo la descrizione di quella visione sublime di cui al capitolo LX del profeta Isaia: Alzati Gerusalemme, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere. Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio. (Is LX,1-4) Sembra di assistere alla scena di un’udienza generale dei pellegrini che il Santo Padre concede in occasione di un Anno Santo. Come se i colori vividi di Isaia fossero stati ispirati da essa! Migliaia e migliaia di persone riempiono con nervosa attesa le magnifiche sale secolari del Vaticano; persone provenienti da tutti gli angoli della Chiesa universale, e come fratelli in Gesù Cristo, con le loro anime immerse nella preghiera, sono fianco a fianco e attendono il Padre comune di tutti, il Papa. Bianchi e gialli, europei, asiatici, Egiziani, pellegrini dell’India orientale, tutti insieme. La loro lingua è diversa, il loro vestito, diversa è la forma dei loro occhi, diversa è la cultura, ma una è la loro fede, uno è il loro Cristo, e uno è il loro Vicario, che sta già venendo nella sua veste bianca, che già risplende da lontano…; tutti si inginocchiano e baciano la mano del padre che benedice; non c’è quasi nessuno che non abbia le lacrime agli occhi. Ora tutti sentono la gioia di essere Cattolici. Che orgoglio santo appartenere a questa Chiesa universale! Che serenità sapere che la mia fede poggia sulla Chiesa universale, sulla “pietra”, su quella pietra sulla quale Gesù Cristo ha posto le fondamenta della sua Chiesa e ha promesso che “le potenze dell’inferno non prevarranno mai contro di essa”!

* * *

Una delle strade più famose di Roma si chiama Via Appia. È una strada triste, fiancheggiata da tombe che sorgono sotto pini e cipressi. Ad un incrocio, una piccola cappella segna il luogo in cui, secondo la tradizione, Pietro, fuggito da un’isola, si sarebbe rifugiato. Pietro, che era fuggito dalla prigione mamertina e intendeva lasciare Roma, incontrò il Signore Gesù Cristo macchiato di sangue e gli chiese, con l’animo commosso: Quo vadis, Domine, “Dove vai, Signore?”. Al che Gesù Cristo rispose queste bellissime e indimenticabili parole: “Vado a Roma, per farmi crocifiggere una seconda volta”. Pietro allora capì Gesù Cristo e tornò in città e, disprezzando la morte, lavorò per Cristo, fino al giorno in cui fu crocifisso il 29 giugno dell’anno 67, con la testa rivolta verso il basso, nel circo di Nerone, non lontano dalla sua tomba attuale, nella Basilica del suo nome. Il primo Papa diede la vita per Cristo nella città di Roma. A Roma vive ancora oggi il 263° successore di Pietro. E da allora, ubi Petrus, ibi Ecclesia; ubi Ecclesia, ibi Vita aeterna, “dove c’è Pietro, c’è la Chiesa, e dove c’è la Chiesa, c’è la vita eterna”. Queste parole sempre belle del grande vescovo di Milano, Sant’Ambrogio, non solo risplendono sulla cupola del Duomo di Milano, iscritte in lettere d’oro, ma vivono anche in lettere d’oro, ma vivono anche, in modo prodigioso e indelebile, in tutte le anime cristiane. Come non capire perché una tale moltitudine di pellegrini cristiani affluisca a Roma e perché, al primo sguardo sulla cupola della grande Basilica di San Pietro, scoppiano in questo grido entusiasta: “Ave, santa Roma“? Ave, Roma santa! Sotto il tuo pavimento attraversano i corridoi sotterranei, le catacombe sotterranee, le catacombe che custodiscono le tombe dei martiri cristiani che hanno dato la loro vita per Gesù Cristo. Santi sono questi corridoi, perché proclamano forte e chiaro con le loro immagini bibliche e le loro scene liturgiche, dipinte con linee crude, primitive e spigolose, che la nostra fede è la stessa di quella del popolo cristiano, che la nostra fede è la stessa di quei martiri e di quei primi fedeli, e perché è in questi corridoi, intrisi di sangue di martiri, che la nostra religione affonda le sue radici. Ave, Roma santa! In te sorge, sopra la tomba di San Pietro, la sua Basilica.

Ave, Roma santa! In te c’è la Basilica di San Giovanni con l’iscrizione cattolica sulla facciata. L’iscrizione cattolica sulla sua facciata: “Madre e capo di tutte le chiese.”.

Ave, Roma santa! In te si erge l’enorme obelisco di Piazza San Pietro, che proclama al mondo intero: Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat“, “Cristo vince, Cristo regna, Cristo regna”.

Ave, Roma santa! In te batte il cuore della Chiesa e in te vive il capo di questa stessa Chiesa. Ecco perché dal profondo della nostra anima scaturisce sempre la preghiera, che sulle ali di una melodia che inviamo al cielo: “Dove giace la tomba di San Pietro e dove batte il cuore di Roma, da mille labbra, su mille lingue, dolcemente e fervidamente una preghiera: Custodisci, o Signore, il nostro santo Padre, il Vicario di Gesù Cristo”.

VIVA IL SANTO PADRE IMPEDITO!!

FESTA DI S. MARCO EVANGELISTA (2023)

25 APRILE

FESTA DI S. MARCO EVANGELISTA (2023)

I. Litanie Maggiori. — Paramenti viola.

STAZIONE A S. PIETRO

La Chiesa celebra oggi due solennità che non hanno alcun rapporto tra loro. Le Litanie Maggiori e la Festa di san Marco, istituita posteriormente. A Roma, vi era un tempo, il 25 aprile, la solennità pagana dei Robigalia. Essa consisteva principalmente in una processione che usciva dalla città per la porta Flaminia, si dirigeva verso il Ponte Milvio e terminava in un santuario suburbano situato sulla via Claudia, dove s’immolava una pecora in onore di un dio o di una dea Robigo (Dio o dea della ruggine. DELEHAVE (H), Les Légendes hagiographiques, 1927, p. 170).

La Litania Maggiore fu la sostituzione d’una cerimonia cristiana alla cerimonia pagana. Il percorso ci è reso noto da una convocazione di S. Gregorio il Grande. È quasi identico a quello della processione pagana. Tutti i fedeli di Roma si recavano alla chiesa di S. Lorenzo in Lucina, la più vicina alla porta Flaminia. La processione usciva da questa stessa porta, faceva stazione a S. Valentino, traversava il ponte Milvio, poi girava a sinistra verso il Vaticano. Dopo essersi fermata a una croce, si recava nella basilica di S. Pietro per la celebrazione. dei Santi Misteri. Questa litania si recita in tutta la Chiesa per allontanare i flagelli, e attirare la benedizione di Dio sulle messi. «Dègnati dare e conservare i frutti della terra, te ne preghiamo, ascoltaci », canta la Chiesa traversando processionalmente le campagne. L’intera Messa mostra quel che può ottenere la preghiera assidua, quando in mezzo alle nostre avversità (Orazioni, Off.) ricorriamo con fiducia al nostro Padre celeste (Ep., Vang., Comm.).

2. S. Marco, Evangelista.

Doppio di 2. cl. – Paramenti rossi.

Marco, discepolo di S. Pietro, è uno dei quattro Evangelisti (Or.) che scrissero, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, un riassunto della vita di Gesù. Il suo racconto comincia con la missione di Giovanni Battista, » la cui voce si è fatta udire nel deserto »; lo si rappresenta con un leone coricato ai suoi piedi, perché il leone, uno dei quattro animali simbolici della visione d’Ezechiele (Ep.), fa risuonare il deserto dei suoi ruggiti. Fu uno dei settantadue discepoli (Vang.) e andò in Egitto dove per primo annunciò il Cristo ad Alessandria, La predicazione del suo Vangelo, che il suo martirio venne a confermare, lo fece entrare nella gloria (Segr.). Il suo corpo fu trasportato a Venezia, di cui è il patrono dal IX secolo. Roma possiede una chiesa dedicata a S. Marco, dove si fa Stazione il lunedì della terza settimana di Quaresima. Profittiamo degli insegnamenti di S. Marco, che scrisse il Vangelo del Cristo e lo predicò, e ricorriamo alle sue preghiere (Or.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Orémus,
Aufer a nobis, quǽsumus, Dómine, iniquitátes nostras: ut ad Sancta sanctórum puris mereámur méntibus introíre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.
[Togli da noi, o Signore, le nostre iniquità: affinché con ànimo puro possiamo entrare nel Santo dei Santi. Per Cristo nostro Signore. Amen.]
Orámus te, Dómine, per mérita Sanctórum tuórum, quorum relíquiæ hic sunt, et ómnium Sanctórum: ut indulgére dignéris ómnia peccáta mea. Amen.

 [Ti preghiamo, o Signore, per i mériti dei tuoi Santi dei quali son qui le relíquie, e di tutti i tuoi Santi: affinché ti degni di perdonare tutti i miei peccati. Amen.]

Introitus

Ps LXIII:3
Protexísti me, Deus, a convéntu malignántium, allelúja: a multitúdine operántium iniquitátem, allelúja, allelúja.

[Nascondimi dalle insidie dei malvagi, o Dio, alleluia; dal tumulto dei malfattori, alleluia, alleluia.]


Ps LXIII:2
Exáudi, Deus, oratiónem meam cum déprecor: a timore inimíci éripe ánimam meam.

[Ascolta, o Dio, la mia voce tra i gemiti; preserva la mia vita dal timore del nemico.]

V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in sǽcula sæculórum. Amen.

Protexísti me, Deus, a convéntu malignántium, allelúja: a multitúdine operántium iniquitátem, allelúja, allelúja.

[Ascolta, o Dio, la mia voce tra i gemiti; preserva la mia vita dal timore del nemico.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Orémus.
Deus, qui beátum Marcum Evangelístam tuum evangélicæ prædicatiónis grátia sublimásti: tríbue, quǽsumus; ejus nos semper et eruditióne profícere et oratióne deféndi.


[O Dio, che hai reso glorioso il tuo santo evangelista Marco, con la grazia della predicazione del vangelo: concedi a noi di trarre sempre profitto dal suo insegnamento, e di essere difesi dalla sua preghiera.]
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.

Orémus.

Pro rogationibus
Præsta, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, qui in afflictióne nostra de tua pietáte confídimus; contra advérsa ómnia, tua semper protectióne muniámur.

[Nelle nostre pene, noi ci rifugiamo fiduciosi nella tua misericordia, o Dio onnipotente, e tu, concedi a noi, contro ogni male protezione e difesa.]

Lectio

Léctio Ezechiélis Prophétæ.
Ezech 1:10-14
Similitúdo vultus quátuor animálium: fácies hóminis, et fácies leónis a dextris ipsórum quatuor: fácies autem bovis a sinístris ipsórum quátuor, et fácies áquilæ désuper ipsórum quátuor. Fácies eórum et pennæ eórum exténtæ désuper: duæ pennæ singulórum jungebántur et duæ tegébant córpora eórum: et unumquódque eórum coram fácie sua ambulábat: ubi erat ímpetus spíritus, illuc gradiebántur, nec revertebántur cum ambulárent. Et similitúdo animálium, aspéctus eórum quasi carbónum ignis ardéntium et quasi aspéctus lampadárum. Hæc erat visio discúrrens in médio animálium, splendor ignis, et de igne fulgur egrédiens. Et animália ibant et revertebántur in similitúdinem fúlguris coruscántis.
R. Deo grátias.

[Ecco l’aspetto di ciascuno dei quattro esseri viventi: tutti e quattro avevano faccia di uomo e di leone alla loro destra; tutti e quattro avevano faccia di bove a sinistra; al disopra di tutti e quattro v’era la faccia dell’aquila. Così era il loro aspetto. Le loro ali si stendevano in alto, due ali di ciascuno si univano, e due coprivano il corpo. Ciascuno di essi andava in direzione della sua faccia, andavano dove portava l’impeto dello spirito, e nel camminare non si volgevano indietro. In quanto alla forma di questi esseri viventi, il loro aspetto era come fuoco di carboni ardenti e come lampade accese. Ecco quanto vedevo scorrere nel mezzo di quei viventi: splendore di fuoco, e dal fuoco uscir folgori. Ed essi andavano e venivano a somiglianza di folgori lampeggianti.]

Alleluja

Ps 88:6
Confitebúntur cœli mirabília tua, Dómine: étenim veritátem tuam in ecclésia sanctórum. Allelúja.

[I cieli cantano le tue meraviglie, o Signore, e la tua fedeltà nell’assemblea dei santi. Alleluia.]
Ps XX: 4.
Posuísti, Dómine, super caput ejus corónam de lápide pretióso. Allelúja.

[Gli hai posto in capo, o Signore, una corona di pietre preziose. Alleluia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam.
R. Glória tibi, Dómine.
Luc 10:1-9
In illo témpore: Designávit Dóminus et alios septuagínta duos: et misit illos binos ante fáciem suam in omnem civitátem et locum, quo erat ipse ventúrus. Et dicébat illis: Messis quidem multa, operárii autem pauci. Rogáte ergo Dóminum messis, ut mittat operários in messem suam. Ite: ecce, ego mitto vos sicut agnos inter lupos. Nolíte portare sácculum neque peram neque calceaménta; et néminem per viam salutavéritis. In quamcúmque domum intravéritis, primum dícite: Pax huic dómui: et si ibi fúerit fílius pacis, requiéscet super illum pax vestra: sin autem, ad vos revertátur. In eádem autem domo manéte, edéntes et bibéntes quæ apud illos sunt: dignus est enim operárius mercéde sua. Nolíte transíre de domo in domum. Et in quamcúmque civitátem intravéritis, et suscéperint vos, manducáte quæ apponúntur vobis: et curáte infírmos, qui in illa sunt, et dícite illis: Appropinquávit in vos regnum Dei.

[In quel tempo: Il Signore scelse anche altri settantadue discepoli e li mandò a due a due innanzi a sé in ogni città e luogo dove egli era per andare. E diceva loro: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai per la sua mietitura. Andate! Ecco, io vi mando come agnelli in mezzo a lupi. Non portate né borsa, né sacca, né sandali; e per la strada non salutate nessuno. In qualunque casa entrerete, dite prima di tutto: “Pace a questa casa”. E se ci sarà un figlio di pace riposerà su di lui la pace vostra, altrimenti ritornerà a voi. E nella stessa casa restate, mangiando e bevendo di quel che vi dànno; perché l’operaio è degno della sua mercede. Non girate di casa in casa. E in qualunque città entrerete, se vi accolgono, mangiate di quel che vi sarà messo davanti e guarite gli infermi che ci sono, e dite loro: “Sta per venire a voi il Regno di Dio”».]

OMELIA

SAN MARCO (Omelia)

(Otto Hophan: Gli Apostoli, trad. G. Scattolon; Marietti ed. 1951.N. h. M. Fantuzzi, C. E. D. – Impr. A. Mantiero Vesc. di Treviso, 15 oct. 1949)

San Marco non appartiene agli Apostoli, dei quali la serie augusta si conchiude con Paolo, l’« ultimo », il «minimo », come egli stesso si ritiene nella sua umiltà’. Marco però è Evangelista, il secondo dei quattro Evangelisti, che insieme col terzo, Luca, come lui non Apostolo, è preso nel mezzo fra gli evangelisti-apostoli Matteo e Giovanni quasi a protezione e sostegno; lo troviamo già in cataloghi antichi del quarto e quinto secolo dopo Paolo, ma prima dei settanta discepoli, perché non era quanto un Apostolo, ma era di più d’un semplice discepolo. Marco nei Libri Sacri del Nuovo Testamento è ricordato dieci volte, ora solamente col suo nome ebraico Giovanni, ora soltanto col nome romano Marco, ora col doppio nome Giovanni-Marco; e, come per il suo grande maestro Saulo-Paolo, anche per lui un po’ alla volta il nome ebraico scomparve nell’ombra, prevalse il nome di Marco, finché a Roma questo divenne il suo nome esclusivo. Il Synaxarion quale padre suo indica un certo Aristobolo; la Sacra Scrittura ricorda soltanto la madre e in modo da far concludere che il padre morì per tempo, non prima però del Giovedì Santo. Egli dovette rimaner senza il padre esattamente in quegli anni in cui aveva il massimo bisogno di lui; ché nemmeno la migliore delle madri può compensare del tutto il padre; ne manca per natura la mano ferma, cosciente delle mete e anche dura, se necessario; e si direbbe che questa deficienza abbia avuto il suo riflesso nell’educazione di Marco meno virile, meno coerente e sicura. Siamo indotti a rilevarlo dal fatto del suo ritorno alla madre, mentre gli si delineavano dinanzi gli strapazzi del primo viaggio apostolico; il prete romano Ippolito (+ 235) ha per il nostro Evangelista l’appellativo « kolobodaktylos — dal dito monco »; è vero però che l’espressione potrebbe alludere ad una mano piccola, esile, e il senso potrebbe essere: mani piccole non possono serrarsi in pugni pesanti, atti a dominare le difficoltà. La madre di Marco, Maria, era una donna religiosa, colta e ricca; anche fosse vero, secondo l’informazione d’uno scritto arabico, che aveva perduto il suo vistoso patrimonio, nondimeno al tempo della sua vedovanza era ancora così benestante che possedeva una grande casa in Gerusalemme, messa dal suo pio sentimento a disposizione della giovane comunità cristiana, perché vi tenesse le sue adunanze. Secondo lo storico della Chiesa Niceforo, Maria sarebbe stata una « sorella » di Pietro, o « una figlia della zia della moglie di Pietro », come con complicata espressione precisa, in fatto di parentela, lo scritto arabico or ora ricordato; e a dir vero, un rapporto di parentela, per quanto largo, di Pietro spiegherebbe bene le sue relazioni con la casa di Maria e anche la sua evidente benevolenza per Marco. Questa donna, riferisce il Synaxarion arabico, era di molto talento ed istruì lei stessa il figlio, cui insegnò la lingua greca, la francese (latina?) ed ebraica. E fece molto bene, perché il suo Marco, secondo i disegni della Provvidenza sarebbe divenuto un giorno l’interprete di Pietro. Quante volte il Signore dona alle mamme un presentimento dei suoi piani sublimi! Riprendiamo con gusto all’idillio e all’ideale della cara vita familiare di questa gentile signora col suo figlio Marco; ella raccoglieva tutto il suo vedovo amore sul suo Marco, suo figlio, suo sole, e suo tutto; e Marco stendeva le sue mani delicate e il suo giovane cuore all’amore di sua madre, che l’andava plasmando. La Sacra Scrittura ricorda anche un altro vincolo di parentela del nostro Marco: egli era « il cugino — anepsiòs, consobrinus — di Barnaba »; questa espressione di solito è tradotta con « cugino », ma potrebbe tradursi anche con « nipote », e quindi Barnaba, che gli Atti degli Apostoli esaltano quale « uomo esimio, ripieno di Spirito Santo e di fede », sarebbe stato lo zio di Marco e probabilmente da parte del padre, giacché egli pure, secondo l’esplicita testimonianza della Scrittura, apparteneva alla tribù di Levi. Marco era ricco, colto, bello, circondato da cure e custodito, il beniamino di tutti. Gli « Atti di Marco », uno scritto della metà del quarto secolo, lo esaltano come un uomo « di buona indole e soffuso di divina bellezza »; descrivono poi il suo simpatico esteriore dicendo: « Era di portamento nobile e svelto; aveva belli gli occhi e un volto dal color d’oro, come un campo di grano, il naso non ricurvo ma diritto e sopracciglia aderenti ». Chi dalla vita è trattato ruvidamente, è tentato d’amaramente invidiare individui in tal modo illuminati dal sole, quasi vengano viziati dalla sorte; ma perché non ci dovrebbero essere anche le persone felici e belle? Esse sono una ricchezza del mondo povero e un raggio singolarmente fulgido del perfetto Iddio. Anche Marco fu un prediletto della natura e lo fu pure della grazia, che importa ancor più. – MARCO E GESÙ. Ma quanta parte dipende dalla famiglia, nella quale un uomo cresce! La casa può essere la sua eterna benedizione, come può pure divenire motivo della spaventosa rovina. Marco, favorito da Dio e dall’azione della Provvidenza, fu adagiato entro alla culla del Cristianesimo; egli crebbe insieme col recente Cristianesimo e nello stesso luogo; Marco e la giovane società di Cristo son come fratelli gemelli. Secondo un’antica tradizione degna di fede, la sala fortunata, nella quale si compirono i più augusti Misteri, quali la celebrazione della Cena il Giovedì Santo, le apparizioni del Risorto nei giorni pasquali, il soffio dello Spirito Santo nella bufera di Pentecoste, era la sala della casa materna di Marco; nelle supreme ore cristiane egli stava là, non certo come uno di coloro che circondavano Gesù direttamente, ma almeno come uno che è ammesso; poiché chi avrebbe potuto allontanare un buon giovane, specialmente se si trattava del figlio della padrona di casa, tanto ospitale? Silenzioso dunque, stupito, tutt’occhi e tutt’orecchi, egli visse con gli altri i sublimissimi eventi e, anche se non comprese il loro significato — non lo compresero del tutto nemmeno gli Apostoli —, presagì però che quivi, nella casa della madre sua, s’avveravano cose divine e nella sua sensibile anima di ragazzo s’impressero incancellabilmente le scene più stupende del Vangelo. – Quando i due Apostoli Pietro e Giovanni, nel pomeriggio del Giovedì Santo, gli tennero dietro ostinatamente per tutte le vie sino a casa, mentre s’allontanava dalla fonte, dove s’era portato per attingere acqua, egli si guardò attorno attonito; fin d’allora egli fu presente a Gesù, poiché con ragione si suppone che fosse Marco quel giovane, con la brocca d’acqua, che il Signore diede ai due Apostoli come segno: « Seguitelo! E dov’egli entra, ivi dite al padrone di casa: “Il Maestro ci fa chiedere: Dov’è la stanza, nella quale Io possa mangiare la Pasqua con i miei Discepoli?”. Egli vi farà vedere una grande stanza superiore, arredata di divani per la mensa. È già pronta; ivi preparate per noi ». Con la gioia ed il fervore d’un ragazzetto, cui è dato di prestare dei servizi insoliti, Marco aiutò Pietro e Giovanni nel preparare la cena pasquale; li aiuterà anche più tardi, nel preparare il vero Agnello pasquale per gli uomini. E giunse la sera; arrivavano gli altri dieci Apostoli, seri, silenziosi, oppressi, così gli sembrava, e s’avvicinavano alla casa; venne poi il Signore, pallido ma dignitoso. Mentre veniva accolto, Egli posò la mano sul capo di Marco, quella mano, che al domani sarebbe stata trafitta; poi Maria, la mamma, allontanò dal gruppo di quelle persone il figlio; ma chi vorrebbe rimproverarlo, se ben presto fu di nuovo dinanzi alla porta chiusa della sala? Sentì le parole sublimi, da lontano soltanto, certamente, non vicino come Giovanni, che più tardi le mise in iscritto; indietreggiò spaventato, quando Giuda aprì violentemente la porta e gli passò dinanzi precipitoso; messosi a letto, non s’addormentò e udì i passi che si dileguavano; che convenga seguire…? – Tre giorni dopo, di soppiatto, gli stessi individui vennero nella medesima sala; veramente non erano proprio gli stessi, perché erano venuti spiando come malfattori e sconvolti come fossero dei disperati; nessuno aveva avuto per lui uno sguardo o una parola di saluto. Quando da lassù, nella sala, giunse all’orecchio del nostro giovane lo strepito come d’un’esplosione di terrore e subito poi di festa, egli corse su, presso la porta chiusa, compresse il suo scarno corpo contro la parete, spiò attraverso una sottile fessura e fu colpito da tanta luce, che i suoi occhi ne soffrirono. Marco termina la prima stesura del suo Vangelo con la relazione della apparizione del Risorto alle pie donne: « Paura e timore s’erano impadroniti delle donne. Per il grande timore, non ne fecero parola a nessuno »; forse in queste singolari espressioni freme pure la prima esperienza pasquale di Marco stesso. La casa dei suoi genitori doveva essere per la terza volta il teatro d’una sublimissima grazia nel giorno di Pentecoste. Giovane com’era, sulle prime dovette sentirsi poco sicuro, quando « improvvisamente si levò un rumore dal cielo, come se giungesse una violenta bufera, il quale riempì tutta la casa, dov’essi erano raccolti ». Poi calarono le lingue fiammeggianti e una di esse accese del fuoco dello Spirito Santo anche Marco e gli infuse quella chiarezza e vigoria, che vampeggia ancor oggi nel suo Vangelo. Oh, come è vero che nella vita d’un uomo molto dipende dalla casa, dov’egli è a casa! – È vero che la stessa Sacra Scrittura attesta solo che la casa di Maria, la madre di Marco, servì, come una prima Chiesa, per le assemblee della prima comunità cristiana in Gerusalemme al tempo della persecuzione di Erode Agrippa (41-44); per questo ricevette il titolo onorifico di « madre di tutte le chiese », di  ‘Santa Sion » e di « chiesa degli Apostoli », e in un’epoca posteriore fu edificata nel suo posto una vasta Chiesa, nella quale venne inclusa anche la casa dell’Apostolo Giovanni, detta « Dormitio Mariæ Virginis — il rimpatrio della Vergine Maria » —, situata lì vicino. Questa indicazione però della Scrittura illumina quanto afferma la tradizione. Se Maria, la nobile e religiosa signora, mise a disposizione della comunità cristiana la sua casa, è probabile che l’avesse aperta già al Signore, i primi Cristiani anzi, proprio per questo si sarebbero ritrovati insieme tanto volentieri in quella casa, perché essa era stata consacrata cioè dallo stesso Signore e dallo Spirito Santo. – Anche queste riunioni dei primi Cristiani nella casa di sua madre furono per Marco, giovane allora in fiorente sviluppo, una ricca sorgente di grazia e decisive per la sua vita. Quivi gli Apostoli andavano e venivano e trattavano delle loro sollecitudini, dei loro piani e successi; quivi si rifugiarono i primi Cristiani di Gerusalemme nei giorni penosi delle persecuzioni da parte del Sinedrio, di Paolo e di Erode. Inobliabile restò per Marco soprattutto quella notte di pasqua, durante la quale l’intera giovane Chiesa pregava per la salvezza di Pietro dalle mani di Erode, assetate di sangue: fu picchiato alla porta del cortile; « la fanciulla Rode accorse e stette ad ascoltare; riconobbe la voce di Pietro, ma per la gioia dimenticò di aprire la porta; rientrò correndo e annunziò che Pietro stava alla porta. Quelli le replicarono: “Sei ben fuori di te!”; ma lei insisteva a dire ch’era così; allora pensarono: “È il suo Angelo”; ma Pietro continuava a picchiare. Allora aprirono, videro e sbigottirono. Egli fece loro cenno con la mano di fare silenzio e raccontò loro come il Signore l’avesse liberato dal carcere » (Act. XII, 1-17). Per lo più bussare ad una porta significa pure bussare a un cuore; Marco, con cuore grande e festante, aveva aperto la porta al Signore e a Pietro, e li vide entrare venire verso di sé come verso ad una primavera; aprì loro anche il suo cuore? – Tenero e sensibile del ragazzo. Nel suo Vangelo egli ha notato un particolare, ch’è in se stesso senza importanza, ma che s’incontra solamente in lui: « Dopo di che (dopo cioè la cattura sul Monte degli Olivi), tutti Lo abbandonarono e fuggirono. Un giovanetto però, che indossava sul nudo corpo un lenzuolo soltanto, Lo seguì; quando lo si volle acciuffare, lasciò andare il lenzuolo e se ne fuggì nudo »! Si ammette abbastanza comunemente che in questo episodio del Vangelo Marco, come un artista nel suo quadro, abbia delineato se stesso; e quante cose ci svela questo piccolo autoritratto! Nella grande notte dell’ultima Cena, egli non aveva potuto dormire, come sua madre invece aveva desiderato e sollecitato, perché aveva percepita la tensione, che gravava su quella notte; aveva intercettate parecchie espressioni del discorso d’addio e a un certo momento gli sembrò di sentire un risonar di spade; se la svignò da casa, ma di soppiatto per non scontrarsi col volere della mamma e in tenuta certamente strana, ma era notte e aveva il sangue caldo. Protetto dall’oscurità, trovò sul Monte degli Olivi un nascondiglio, donde ascoltò confuso il gemito del Maestro, il russare dei Discepoli e lo strepito degli sbirri, che accerchiarono Gesù con spade e bastoni. – E qui, in questo primo e unico fatterello, nel quale Marco stesso compare nel Vangelo, è già manifesta la sua affezione per Gesù. Gli Apostoli fuggirono; gli stessi Pietro e Giovanni seguirono soltanto da lontano; ma il caro Marco si tenne vicino, da presso a Gesù. In quel momento gli occhi divini del Signore, ancor pregni di mestizia per il tradimento di Giuda, si rischiararono un po’ e si riposarono con compiacenza su quel nobile giovanetto. Quando i soldati stesero i loro pesanti pugni per colpire quest’ultimo e giovanissimo amico di Gesù, egli lasciò nelle loro mani il ridicolo lenzuolo e rimase nudo. E questa nudità, come un simbolo, indica già l’avvenire: Marco, il nostro giovanetto custodito, curato, delicato, per amore di Gesù abbandonerà tutto e con la sua spogliazione dimostrerà ch’egli è un autentico discepolo del Maestro: non aprì a Gesù solo la porta di casa, Gli aprì pure la porta del suo cuore. – MARCO E PAOLO. Marco e Paolo s’incontrarono probabilmente per la prima volta quando, nell’anno 44, Barnaba e Paolo portarono a Gerusalemme la generosa colletta della comunità etnicocristiana di Antiochia per i bisogni della povera Chiesa madre. Barnaba, lo zio, dovette presentare suo nipote Marco allo sguardo indagatore di Paolo con soddisfatta compiacenza; e il nipote, quand’ebbe udito della vita cristiana dei convertiti dal paganesimo, se ne scese ad Antiochia, quasi come un dono prezioso, che Gerusalemme offriva in compenso della colletta ricevuta. Da anni, infatti, ormai Marco s’era scelto Gesù quale scopo supremo della sua vita; adesso era divenuto un giovanotto robusto e brillante di circa venti primavere, che, come un albero di maggio, voleva portare frutto; le lontane regioni lo allettavano, gli suscitavano in cuore entusiasmo e gioia, cui forse s’aggiungeva pure un po’ di spirito d’avventura; e delle avventure ardite, liete e penose, non mancano nemmeno nel seguire Cristo. Era capitato bene; proprio in quel tempo Barnaba e Paolo intendevano cimentarsi nel rischio del primo viaggio apostolico; gli Atti degli Apostoli a questo punto inseriscono la notizia: « Avevano con loro quale assistente Giovanni (Marco) », non per i loro servizi personali, ma, in senso biblico, quale ministro della Parola, per l’amministrazione del Battesimo e per gli altri aiuti connessi con l’opera missionaria; dalla prima lettera ai Corinti sappiamo però che Paolo riteneva la predicazione come compito suo proprio; Marco, felice come un giovane sacerdote, regalava a piene mani la sua prima benedizione. Ma il viaggio andava oltre a quello che egli aveva immaginato; Cipro fu ben presto attraversata ed evangelizzata, e Paolo si spingeva più innanzi; anzi la sua intenzione di spingersi, attraverso il Tauro, nell’altipiano di Pisidia e Licaonia nell’Asia Minore non si palesò che lassù a Perge. Il viaggio importava una marcia al minimo di dieci giorni di cammino faticoso e altrettanto pericoloso, giacché nell’antichità la stessa scortese pianura di Panfilia era infamata e temuta a motivo dei suoi abitanti bellicosi e rapinatori; persino i Romani riuscirono ad avvicinarsi alle popolazioni semibarbare del Tauro soltanto dopo lunga fatica. Gli Atti degli Apostoli a questo punto ci fanno sapere di Marco: « Si separò da Paolo e Barnaba e tornò a Gerusalemme ». Ce ne domandiamo il perché. Il Sacro Testo stesso però allude ad un motivo: quello che spaventò il buon Marco fu semplicemente l’inaudita fatica del viaggio apostolico; i disagi già sostenuti in Siria, a Cipro e sino a Perge gli avevano fatto provare che l’andare in missione era molto di più che un’allegra e devota avventura; finora aveva resistito, ma non si sentiva in grado di prendere parte anche alla seconda tappa del viaggio. Ci è lecito disapprovare il ritorno di Marco come una fuga vile? Solo a pochi è concesso di affermarsi come eroi già al primo assalto; anche l’eroe deve formarsi attraverso l’aspra lotta e la molteplice rinuncia; il nostro amabile giovane invece fu strappato in età troppo immatura e troppo alle svelte al suo genere di vita nobile, abituato bene e forse un po’ viziato; e venne meno. Ma se un giovane vien meno una volta, verrà poi meno sempre? – Paolo e Barnaba, i due vecchi e fedeli amici, non si staccarono sicuramente solo a motivo di Marco; una profonda amicizia quale la loro non si spezza per un episodio così insignificante. « Si venne (fra Paolo e Barnaba) a un’aspra tensione — non solamente a “una divergenza di opinioni”, come spesso, ripiegando, si traduce, perché il greco “paroxysmés” significa veramente di più che opinione diversa soltanto —, e la conseguenza fu che si separarono l’uno dall’altro; Barnaba fece viaggio con Marco per Cipro, Paolo invece si elesse Sila e s’incamminò con lui per il suo viaggio ». Ci rallegriamo con Marco, perché almeno uno credette ancora in lui, il buon Barnaba; che sarebbe stato di lui, se tutti l’avessero condannato come un vile? Quali decisioni per una giovane vita, se nell’ora opportuna una persona retta offre la sua mano perché prosegua e perché ascenda! La separazione nondimeno lascia dopo di sé un senso di scontentezza, persino il letichino Girolamo lamenta che questa lite fra Paolo e Barnaba fa vedere due grandi nella loro umana meschinità. – Allontanandoci però un poco dalla scena incresciosa, lo sconcerto diminuisce; gli uomini retti traggono vantaggio anche dalle vicende ingiuste; alla fine anche quella lite per causa di Marco tornò a maggior vantaggio di tutti. Questi, che non aveva ancora smesso di sognare, per quell’allarme di Paolo fu salutarmente scosso dai castelli in aria della sua bella giovinezza; si vide d’un tratto posto dinanzi all’inesorabile aut-aut: o uomo o vigliacco; tenne conto della dolorosa ma salutare lezione dell’Apostolo ed « essa lo fece migliore », scrive il Crisostomo; il rimprovero: «Non è venuto con noi nell’opera » gli stava conficcato nello spirito come un pungolo; dimostrerà in seguito ch’esso non aveva più ragione d’essere. Dal canto suo Paolo mutò parere nei riguardi di Marco. Scrive di lui in tre passi del suo epistolario; nella breve lettera a Filemone lo nomina come « collaboratore » al primo posto, persino prima di Luca; ai Colossesi, ai quali l’invia con degli incarichi, raccomanda caldamente: « Per riguardo a Marco avete già ricevuto istruzioni; se viene a voi, accoglietelo amichevolmente » e poco prima della morte, quasi come ultimo desiderio, domanda instantemente a Timoteo… Marco! « Porta con te Marco! Posso ben aver bisogno dei suoi servizi ». E infine nemmeno Barnaba nutrì alcun rancore per Paolo, ce lo attesta un passo della prima lettera ai Corinti. – La provvidenza di Dio è così sapiente e benigna, da tendere nel telaio dei suoi piani di salvezza le nostre stesse imperfezioni, e così tramutò anche quella lite umana in benedizione divina: la separazione e il raffreddamento fra Paolo e Barnaba ebbero per conseguenza che l’evangelizzazione s’inoltrò nel mondo in due direzioni anziché in una soltanto. Marco e Paolo! Oggi, ripensando a loro, non possiamo trattenerci da un sorriso, ed essi stessi dovettero sorridere, quando, circa dieci anni dopo, si diedero la mano al di lì, a Roma. Tutti e due divennero più grandi per l’aiuto che l’uno porse all’altro: Paolo a motivo di Marco divenne più mite e Marco a motivo di Paolo divenne più uomo. Il popolo fedele onora Marco quale « signore dell’atmosfera » e patrono contro i fulmini e la grandine; in un’antica benedizione del tempo era ricordato espressamente il suo nome: ci prova tutta l’amabilità di Marco il fatto ch’egli, nonostante il torto patito, ritornò nuovamente a Paolo e si fece, dimentico di sé, suo collaboratore. Ma egli è così: un cielo azzurro, che neppure il fulmine e il tuono di Paolo poterono offuscare. Oh, avessimo noi molti Marco! – MARCO E PIETRO. Marco è come un’edera verdeggiante, che dei suoi viticci ricopre festosamente le due torri principali della Chiesa, Pietro e Paolo; anche Pietro infatti stette in rapporti speciali con lui. La Sacra Scrittura veramente parla in un unico luogo di questi rapporti, ma con una parola, che dice quanto molte pagine. Pietro, terminando la sua prima lettera alle comunità dell’Asia Minore, scrive: «Vi saluta la Chiesa con voi eletta di Babilonia e Marco, mio figlio »; questa sola espressione ci richiama i vincoli d’amicizia intimi e di lunga data fra i due. Egli fu certamente a Roma con Pietro, quando questi, negli anni 63-64, scrisse la sua prima lettera, e questo è pure confermato dai testi riguardanti Marco dell’epistolario paolino. Pietro, il pescatore del lago di Tiberiade schietto, ma sempre un po’ goffo, fu certamente lieto d’avere presso di sé, qual « protonotario pontificio » nel senso etimologico della parola, suo « figlio Marco », che era un segretario abile, elegante e premuroso. E questi — è il patrono anche dei notai e degli scrivani — gareggiava in servizi, felice di poter esibire al semplice Pietro la prova della sua attitudine, che Paolo invece aveva respinta. I suoi rapporti cordiali con Pietro sono richiamati da una narrazione apocrifa, la quale riferisce del suo soggiorno, certo leggendario, ad Aquileia, ma poi per la nostalgia di Pietro non avrebbe più resistito e se ne sarebbe tornato a Roma, dov’era il suo amico, padre e Pontefice. L’antichità cristiana, a cominciare da Papia (+ 130), chiamò Marco l’« interprete — hermeneutés-interpres — di Pietro », titolo, che potrebbe indurci a ritenere che egli abbia tradotto in greco o in latino i discorsi tenuti dall’Apostolo agli uditori romani in lingua aramaica; questi però possedeva certamente la lingua greca, almeno quanto era necessario per farsi intendere dai suoi ascoltatori; è probabile quindi che quel titolo « interprete di Pietro » rimandi alla redazione scritta fatta da Marco della predicazione orale di Pietro; l’antico Papia stesso riferisce che Marco mise in iscritto i detti e i fatti di Gesù, predicati da Pietro. Ci troviamo così dinanzi al monumento più bello e più importante dell’amicizia fra i due: il Vangelo di Marco. – MARCO EVANGELISTA. Marco a Roma fu pregato dai cavalieri imperiali di mettere per iscritto le istruzioni, che Pietro aveva loro impartite; quando questi ne venne a conoscenza, non ne impedì il suo interprete né lo incoraggiò; Eusebio però, rifacendosi a Clemente, riferisce che Pietro poi approvò espressamente il Vangelo completo e stabilì che se ne desse lettura nelle chiese. Gli scrittori ecclesiastici più antichi, più vicini ai tempi apostolici sono unanimi nel mostrare l’intima connessione del vangelo di Marco con la predicazione di Pietro, Tertulliano anzi lo chiama senz’altro « il Vangelo di Pietro ». Passando a considerare il Vangelo stesso, possiamo affermare che gli occhi vivaci e buoni di Pietro ci rivolgono il loro sguardo quasi da ogni riga. Il contenuto e l’indole del suo insegnamento li conosciamo abbastanza bene attraverso le sue otto prediche contenute negli Atti degli Apostoli e le sue due lettere; ora il Vangelo di Marco appare esserne l’eco fedele. – Matteo e Marco! Nei loro Vangeli si rispecchiano chiaramente anche gli autori; il Vangelo di Marco quindi, lascia a desiderare quanto ad adattamento, forbitezza e bell’ordine, che caratterizzano il Vangelo del pubblicano, amante del sistema e dello schema; il secondo Vangelo è impetuoso come lo stesso Pietro, non ingegnoso nella distribuzione del materiale, non delicato nell’espressione; non importa molto a Pietro scambiare un nominativo con un accusativo, di tralasciare una parola, di annettere direttamente una muova sezione; un insegnante di lingue s’indispettirebbe e farebbe scorrere molto inchiostro rosso; che consolazione per gli scolari! – Come attesta l’antichità cristiana, Marco scrisse il suo Vangelo per gli etnicocristiani, specialmente per quelli di Roma, « spinto dalle preghiere insistenti dei Cristiani di Roma, perché volesse lasciar loro un ricordo scritto delle istruzioni proposte da Pietro a viva voce ». – Un largo influsso nella struttura del secondo Vangelo l’ebbe anche l’accolta di lettori romani e di qui dipende la sua divergenza sotto molti aspetti da quello di Matteo. Marco, avendo per destinatari immediati del suo Vangelo degli etnicocristiani, omise molta parte di quello, che Matteo, scrivendo per i giudeocristiani, aveva messo in risalto della vita tanto ricca di Gesù per provare la sua messianità; la comunità cristiana di Roma non se ne intendeva e non aveva l’interesse dei Cristiani di Palestina quanto all’adempimento delle profezie del Vecchio Testamento, per le questioni della legge mosaica e per i conflitti di Gesù con i Farisei. Marco tralascia questi dettagli; non ha quindi il discorso sul monte, non il discorso « Guai a voi! »; in lui non incontriamo neppure la parola « Legge », che nel Vangelo di Matteo ha una parte così importante; quando deve ricordare istituzioni e usi giudaici, si dà premura di spiegarli ai lettori, che li ignorano. Gli interessa di far conoscere ai Romani non tanto le parole di Gesù quanto piuttosto le sue opere; il loro animo calmo e pratico è guadagnato al Signore più rapidamente dai fatti di Lui che non per mezzo di dottrine; ecco perché nel secondo Vangelo troviamo in prima linea i miracoli e perché nel riferirli Marco generalmente non fa abbreviazioni. In modo singolarmente perspicuo e attraente descrive i miracoli sugli ossessi, poiché la virtù divina del Signore si rivela quanto mai possente nella repressione del demonio e per i Romani, che sapevano della potenza diabolica, era tanto efficace. Attenendosi a questi criteri, Marco delineò nel suo Vangelo una figura di Cristo, che inonda di giubilo e di orgoglio ogni cuore cristiano: ci dipinse Cristo Re! Il primo versetto intona con accordo vigoroso il tema di tutto il Vangelo: « Il Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio»; e ai piedi della croce, confermando e ammirando, il centurione romano risponde come un’eco lontana e grida: « Veramente quest’Uomo era il Figlio di Dio ». – MARCO MISSIONARIO. Pietro era morto, Paolo era morto, ma Gesù « rimane lo stesso ieri, e oggi, e in eterno »; anche dopo la morte dei due Principi, cui Marco aveva servito con fedeltà e cui forse aveva chiusi gli occhi affranti, l’opera del Re continuò per mezzo del discepolo. Numerose testimonianze attestano che annunziò il lieto messaggio in Egitto, ove anche fondò la chiesa di Alessandria, della quale fu il primo presule. – È abbastanza frequente la notizia di Marco inviato da Roma in Egitto, dove avrebbe portato il suo Vangelo già scritto; Giovanni Crisostomo invece, secondo il quale Marco avrebbe scritto il Vangelo soltanto in Egitto, è solo ad affermarlo. L’antica tradizione, secondo la quale Marco lasciò l’Egitto l’ottavo anno di governo dell’imperatore Nerone — l’anno 62 —, stabilendovi come capo della chiesa di Alessandria Aniano, prima calzolaio, è conciliabile con i dati biblici, i quali esigono ch’egli si trovasse a Roma al più tardi l’anno 62. Che apostolato movimentato il suo! Cipro! Roma! Egitto! Roma! Asia Minore! Roma! Alessandria! Com’è divenuto ricco e attivo! Un giorno, quando con Paolo doveva attraversare il Tauro, gli era venuto meno l’animo; e adesso gareggia quasi col suo rigido maestro nel travaglio della peregrinazione apostolica. Marco dà ragione a tutti coloro, che non si sgomentano per il fallimento dei giovani. – Egli morì probabilmente nell’anno 14° dell’impero di Nerone e, secondo una relazione, di morte naturale, secondo un’altra come martire. Gli « Atti di Marco » descrivono il suo rimpatrio così: mentre, nella festa di Pasqua, che in quell’anno cadeva il giorno 24 aprile, stava celebrando le funzioni solenni, fu preso dai pagani, che in quel giorno stesso celebravano la loro festa in onore di Serapide, fu legato con funi al collo e in questo modo straziante fu trascinato per le vie di Alessandria; poi il corpo lacerato fu gettato in carcere, dove nella notte un Angelo confortò il Martire: « Marco, ministro di Dio, il tuo nome è scritto nel libro della vita eterna e la tua memoria non si cancellerà in perpetuo; gli Angeli custodiranno la tua anima e il tuo corpo non imputridirà nella terra »; il giorno appresso il crudele tormento fu ripetuto; Marco vi soccombette e il suo corpo fu bruciato. La Chiesa romana il 25 aprile, giorno della sua morte, ne accompagna la festa con una processione rogazionale attraverso le verdeggianti campagne e fra gli alberi in fiore: non fu anche Marco come un albero fiorente, bello ma in pericolo nel fiore della sua giovinezza? Volesse il Cielo che tutti gli alberi di maggio portassero a maturazione i frutti copiosi e pregiati di Marco! La leggenda delle sue reliquie, che dovrebbe essere sorta veramente soltanto nel secolo nono, fa l’impressione d’essere bizzarra: dopo la conquista dell’Egitto da parte dei Saraceni, l’imperatore Leone l’Armeno (813-820) proibì ogni traffico con Alessandria; ma, nonostante l’ingiunzione di questo divieto fatta dal doge Giustiniano (827-830), i due distinti veneziani Bono e Rustico si portarono ad Alessandria, dove trovarono i Cristiani in grande preoccupazione; essi allora decisero di rubare i resti mortali dell’Evangelista per sottrarli a un eventuale colpo di mano degli increduli e portarli al sicuro in terra cristiana; per dissimulare il pio inganno, indossarono le reliquie di Santa Claudia, vergine, del mantello di seta di Marco e su d’un’imbarcazione riuscirono a portare felicemente il bramato tesoro delle reliquie a Venezia. Vogliamo lasciare ai Veneziani San Marco! Anche presso di loro egli trova tutto bello, come nel tempo della sua giovinezza: la maestosa basilica che gli eressero (976-1071), la piazza meravigliosa che seppero crearle dinanzi, come una sorella della piazza di San Pietro a Roma — Pietro e Marco! —. Che ha da che fare il leone con Marco? È il simbolo di lui come evangelista, perché nel primo capitolo del suo Vangelo scrive del « deserto », dove il leone ha la sua patria. Marco e il leone! In un dipinto del Pinturicchio il leone guarda, come fosse un uomo, tristemente, perché può solamente ruggire, non può essere anche così amabile com’è Marco. E ancor più mirabile è quest’altra cosa, che il « kolobodaktylos », il Marco dalle dita piccole e delicate, abbia nella sua persona e nella sua opera qualche cosa della forza del leone. – E in questo forse sta il mistero e la grandezza di Marco, ch’egli cioè, ch’era stato tanto circondato da cure, sia divenuto per Cristo e in Cristo un leone.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps 88:6
Confitebúntur cœli mirabília tua, Dómine: et veritátem tuam in ecclésia sanctórum, allelúja, allelúja.

[I cieli cantano le tue meraviglie, o Signore, e la tua fedeltà nella assemblea dei santi, alleluia, alleluia.]

Secreta

Beáti Marci Evangelístæ tui sollemnitáte tibi múnera deferéntes, quǽsumus, Dómine: ut, sicut illum prædicátio evangélica fecit gloriósum: ita nos ejus intercéssio et verbo et ópere tibi reddat accéptos.

[Nella festa del tuo santo evangelista Marco ti presentiamo questa offerta, Signore: come la predicazione del vangelo lo rese glorioso, così la sua intercessione renda noi a te graditi in parole ed opere.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.
de Apostolis
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre: Te, Dómine, supplíciter exoráre, ut gregem tuum, Pastor ætérne, non déseras: sed per beátos Apóstolos tuos contínua protectióne custódias. Ut iísdem rectóribus gubernétur, quos óperis tui vicários eídem contulísti præésse pastóres. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia cœléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps 63:11
Lætábitur justus in Dómino, et sperábit in eo: et laudabúntur omnes recti corde, allelúja, allelúja.

[Il giusto gioisce nel Signore, in Lui si rifugia; e ne menano vanto tutti gli animi retti, alleluia, alleluia.]

Postcommunio

Orémus.

Tríbuant nobis, quǽsumus, Dómine, contínuum tua sancta præsídium: quo, beáti Marci evangelístæ tui précibus, nos ab ómnibus semper tueántur advérsis.
I[l tuo sacramento, o Signore, sia a noi un continuo aiuto: e, per le preghiere del tuo santo evangelista Marco, ci protegga sempre da ogni avversità.]

Pro rogationibus
Vota nostra, quǽsumus, Dómine, pio favóre proséquere: ut, dum dona tua in tribulatióne percípimus, de consolatióne nostra in tuo amóre crescámus.
[Compi, Signore, con paterna bontà, le nostre preghiere: perché nutriti e consolati nella nostra sofferenza dai tuoi santi doni, cresciamo nel tuo amore.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa).

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LITANIE DEI SANTI

Kyrie eleison,

Christe eleison,

Kyrie eleison.

Christe, audi nos;

Christe, exaudi nos;

Pater de cœlis Deus, Miserere nobis,

Fili redentor mundi Deus, Miserere nobis.

Spiritus Sancte Deus, Miserere nobis.

Sancta Trinitas unus Deus, Miserere…

Sancta Maria, ora pro nobis.

Sancta Dei Genitrix, ora

Sancta Virgo virginum, ora

Sancte Michael, ora

Sancte Gabriel, ora

Sancte Raphael, ora

Omnes sancti Angeli et Archangeli, orate

Omnes sancti beatorum Spirituum Ordines, orate

Sancte Joannes Baptista, ora

Sancte Joseph, ora…

Omnes sancti Patriarchæ et Prophetæ, orate…

Sancte Petre, ora…

Sancte Paule, ora…

Sancte Andrea, ora…

Sancte Jacobe, ora…

Sancte Joannes, ora…

Sancte Thoma, ora…

Sancte Jacobe, ora…

Sancte Philippe, ora…

Sancte Bartholomæe, ora…

Sancte Matthæe, ora…

Sancte Simon, ora…

Sancte Thaddæe, ora …

Sancte Mathia, ora …

Sancte Barnaba, ora…

Sancte Luca, ora…

Sancte Marce, ora…

Omnes sancti Apostoli et Evangelistas, orate…

Omnes sancti Discipuli Domini, orate…

Omnes sancti Innocentes, orate…

Sancte Stephane, ora…

Sancte Laurenti, ora…

Sancte Vincenti, ora…

Sancti Fabiane et Sebastiane, orate…

Sancti Joannes et Paule, orate…

Sancti Cosma et Damiane, orate…

Sancti Gervasi et Protasi, orate …

Omnes sancti Martyres, orate…

Sancte Silvester, ora…

Sancte Gregori, ora…

Sancte Ambrosi, ora…

Sancte Augustine, ora…

Sancte Hieronyme, ora…

Sancte Martine, ora…

Sancte Nicoláe, ora…

Omnes sancti Pontifices et Confessores, orate …

Omnes sancti Doctores, orate …

Sancte Antoni, ora

Sancte Benedicte, ora…

Sancte Bernarde, ora

Sancte Dominice, ora

Sancte Francisce, ora

Omnes sancti Sacerdotes et Levitæ, orate …

Omnes sancti Monachi et Eremitæ, orate …

Sancta Maria Magdalena, ora…

Sancta Agatha, ora …

Sancta Lucia, ora …

Sancta Agnes, ora …

Sancta Cæcilia, ora…

Sancta Catharina, ora

Sancta Anastasia, ora

Omnes sanctæ Vìrgines Viduæ, orate…

Omnes Sancti et Sanctæ Dei, intercedite pro nobis.

Propitius esto, parce nobis, Domine.

Propitius esto, exaudi nos, Domine.

Ab omni malo, libera nos Domine.

Ab omni peccato libera nos,…

Ab ira tua, libera…

A subitanea et improvisa morte, libera …

Ab insidiis diaboli, libera nos …

Ab ira, et odio et omni mala voluntate, libera nos…

A spiritu fornicationis, libera …

A fulgure et tempestate, libera …

A flagello terræmotus, libera …

A peste, fame et bello, libera …

A morte perpetua, libera …

Per misterium sanctæ incarnationis tuæ, libera …

Per adventum tuum, libera …

Per nativitatem tuam, libera …

Per baptismum et sanctum jejunium tuum, libera …

Per crucem et passionem tuam, libera …

Per mortem et sepolturam tuam, libera …

Per sanctam resurrectionem tuam, libera …

Per admirabilem ascensionem tuam, libera …

Per adventum Spiritus Sancti Paracliti, libera …

In die judicii, libera …

Peccatores, te rogamus, audi nos.

Ut nobis parcas, te rogamus …

Ut nobis indulgeas, te rogamus

Ut ad veram poenitentiam nos perducere digneris, te rogamus …

Ut Ecclesiam tuam sanctam regere et conservare digneris, te rogamus …

Ut [domnum apostolicum] et omnes ecclesiasticos ordines in sancta religione conservare digneris, te rogamus…

Ut inimicos sanctæ Ecclesiaæ humiliare digneris, te rogamus…

Ut regibus et principibus christianis pacem et veram concordiam donare digneris, te rogamus …

Ut cuncto populo christiano pacem et unitatem largiri digneris, te rogamus …

Ut nosmetipsos in tuo sancto servitio confortare et conservare digneris, te rogamus …

Ut mentes nostras ad cœlestia desideria erigas, te rogamus …

Ut omnibus benefactoribus nostris sempiterna bona retribuas, te rogamus…

Ut animas nostras, fratrum, propinquorum, et benefactorum nostrorum ab æterna damnatione eripias, te rogamus …

Ut fructus terræ dare et conservare digneris, te rogamus …

Ut omnibus fidelibus defunctis requiem æternam donare digneris, te rogamus …

Ut nos exaudire digneris, te rogamus …

Fili Dei, te rogamus …

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, parce nobis, Domine.

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, exaudi nos, Domine.

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis.

Christe, audi nos.

Christe, exaudi nos.

Kyrie eleison.

Christe eleison.

Kyrie eleison.

Pater noster, (secreto)

… et ne nos inducas in tentationem,

Sed libera nos a malo.

Salmo 69

Deus, in adjutórium meum intènde; * Domine ad adjuvàndum me festina. Confundàntur, et revereàntur,* qui quærunt animam meam: Avertàntur retrórsum, et erubéscant, * qui volunt mihi mala: Avertàntur statim erubescéntes, * qui dicunt mihi: Euge, éuge. Exùltent et læténtur in te omnes qui quærunt te, * et dicant semper: Magnificétur Dóminus: qui diligunt salutare tuum. Ego vero egénus, et pàuper sum: * Deus, àdjuva me. Adjùtor meus, et liberator meus es tu: * Domine ne moréris. – Glòria Patri, etc.

V. Salvos fac servos tuos,

R. Deus meus speràntes in te.

V. Esto nobis, Dòmine, turris fortitùdinis,

R. A facie inimici.

V. Nihil proficiat inimicus in nobis.

R. Et filius iniquitàtis non appónat nocére:

V. Dòmine, non secundum peccata nostra fàcias nobis.

R. Neque secundum iniquitàtes nostras retribuas nobis.

V. Oremus prò Pontifice nostro Gregorio,

R. Dominus consérvet eum, et vivificet eum et beàtum faciat eum in terra, et non tradat eum in anima inimicórum éjus.

R. Oremus prò benefactóribus nostris.

R. Ritribùere dignàre, Dòmine, òmnibus nobis bona facientibus propter nomen tuum vitam ætérnam. Amen.

V. Oremus prò fidélibus defùnctis.

R. Requiem ætérnam dona eis, Dòmine, et lux perpétua luceat eis.

V. Requiescant in pace.

R. Amen.

V. Pro fratribus nostris abséntibus.

R. Salvos fac servos tuos, Deus meus, speràntes in te.

V. Mitte eis, Dòmine, auxilium de sancto:

R. Et de Sion tuére eos.

V. Domine, exaudi oratiónem meam.

R. Et clamor meus ad te veniat.

V. Dominus vobiscum.

R. Et cum spiritu tuo.

Oremus

Deus, cui próprium est miseréri semper et parcere: sùscipe deprecatiònem nostram, ut nos, et omnes fàmulos tuos, quos delictorum caténa constringit, miseràtio tuæ pietàtis clementer absólvat. [O Dio, che soltanto Tu usi sempre misericordia e largisci perdono, accogli la nostra preghiera affinché la tua generosa e pietosa bontà liberi noi e tutti i tuoi servi dalle catene del peccato.]

Exàudi, quæsumus, Domine, sùpplicum preces. A confiténtium tibi parce peccatis; ut pàriter nobis indulgéntiam tribuas benignus et pacem. [Esaudisci, o Signore, le nostre supplici preghiere e perdona i peccati di coloro che a Te li confessano, accordando pure a noi tutti benignamente il perdono e la pace.]

Ineffàbilem nobis, Dómine, misericórdiam tuam cleménter osténde: ut simul nos et a peccàtis omnibus éxuas, et a pœnis, quas pro his meremur, eripias. [Mostraci, o Signore, la tua ineffabile misericordia! essa ci liberi da tutti i peccati e ci sottragga alle pene che meritiamo.]

Deus, qui culpa offénderis, pœniténtia placàris; preces populi tui supplicàntis propitius réspice, et flagella tuæ iracùndiæ, quas prò peccàtis nostris meremur, avèrte. [O Dio, che sei offeso dalla colpa e placato dalla penitenza, rivolgi benigno lo sguardo al tuo popolo supplice ed allontana i flagelli del tuo sdegno, che abbiamo meritato con i nostri peccati.]

Omnipotens sempitèrne Deus, miserére famulo tuo Pontifici nostro Gregorio et dirige eum secundum tuam clementiam in viam salutis ætérnas: ut, te donante, tibi placita cupiat, et tota virtute perficiat. [O Dio onnipotente ed eterno, abbi pietà del tuo servo Gregorio, nostro Papa, e conducilo nella via della eterna salvezza secondo la tua clemenza: col dono della tua grazia egli ricerchi ciò che Tu desideri e lo adempia con tutta la sua forza.]

Deus, a quo sancta desidéria, recta Consilia, et justa sunt opera: da servis tuis illam, quam mundus dare non potest, pacem; ut et corda nostra mandatis tuis dedita, et hostium sublata formidine, tempora sint tua protectione tranquilla. [O Dio, sorgente di desideri santi, di retti giudizi, di opere giuste, elargisce ai tuoi servi la pace che il mondo non può dare affinché i nostri cuori assecondino i tuoi comandamenti e, liberi dal timore dei nemici, per la tua protezione viviamo giorni di tranquillità.]

Ure igne Sancti Spiritus renes nostros, et cor nostrum, Domine: ut tibi casto corpore serviamus et mundo corde placeàmus. [Purifica, o Signore, col fuoco dello Spirito Santo i nostri sensi e i nostri affetti, affinché possiamo servirti con corpo puro e piacerti per mondezza di cuore.]

Fidelium Deus omnium conditor et redemptor, animàbus famulorum famularumque tuàrum, missionem cunctorum tribue peccatorum: ut indulgéntiam, quam semper optavérunt, piis supplicationibus consequàntur. [O Dio, creatore e redentore di tutti i fedeli, concedi alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la remissione di tutti i peccati, affinché, pel mezzo delle nostre fervide suppliche, ottengano il perdono che hanno sempre desiderato.]

Actiones nostras, qæsumus Domine, aspirando præveni, et adjuvàndo proséquere: ut nostra oràtio et operàtio a te semper incipiat, et per te cœpta finiàtur. [Previeni, o Signore, le nostre azioni con la tua ispirazione e accompagnale col tuo aiuto, affinché ogni nostra preghiera e ogni nostra attività sempre da Te abbia inizio e, intrapresa, per Te giunga a compimento.]

Omnipotens sempitèrne Deus, qui vivorum dominaris simul et mortuorum, omniumque misereris quos tuos fide et opere futuros esse prænoscis: te supplices exoràmus; ut prò quibus effundere preces decrévimus, quosque vel præsens sæculum adhuc in carne rétinet, vel futurum jam exutos corpore suscepit, intercedéntibus omnibus Sanctis tuis, pietastis tuæ cleméntia, omnium delictorum suorum venia consequàntur. Per Dominum nostrum Jesum Chrìstum, etc. [O Dio onnipotente ed eterno, che regni sui vivi e sui morti ed hai misericordia verso tutti coloro che per la fede e le opere prevedi saranno tuoi, umilmente Ti raccomandiamo coloro per i quali intendiamo pregare, sia che la vita presente ancora li trattenga nel corpo, sia che, spogliati del corpo, li abbia già accolti la vita futura; fa’ che ottengano dalla tua misericordiosa clemenza il perdono dei loro peccati per l’intercessione di tutti i tuoi Santi. Per il ….]

V. Dóminus vobiscum.

R. Et cum spiritu tuo.

V. Exàudiat nos omnipotens et miséricors Dominus.

R. Amen.

V. Et fidélium ànimæ per misericórdiam Dei requiescant in pace.

R. Amen



25 Aprile: SAN MARCO EVANGELISTA

SAN MARCO EVANGELISTA

(Otto Hophan: Gli Apostoli, trad. G. Scattolon; Marietti ed. 1951. N. h.: M. Fantuzzi, C. E. D. – Impr.: A. Mantiero Vesc. di Treviso, 15 oct. 1949)

Marco in questo libro non sta accanto a Paolo per caso o per una allegra ironia come nel celebre quadro del Dürer; questo posto gli spetta realmente. Egli non appartiene più agli Apostoli, dei quali la serie augusta si conchiude con Paolo, l’« ultimo », il « minimo », come egli stesso si ritiene nella sua umiltà. Marco però è Evangelista, il secondo dei quattro Evangelisti, che insieme col terzo, Luca, come lui non Apostolo, è preso nel mezzo fra gli evangelisti-apostoli Matteo e Giovanni quasi a protezione e sostegno; lo troviamo già in cataloghi antichi del quarto e quinto secolo dopo Paolo, ma prima dei settanta discepoli, perché non era quanto un Apostolo, ma era di più d’un semplice discepolo. Marco nei Libri Sacri del Nuovo Testamento è ricordato dieci volte, ora solamente col suo nome ebraico Giovanni, ora soltanto col nome romano Marco, ora col doppio nome Giovanni-Marco; e, come per il suo grande maestro Saulo-Paolo, anche per lui un po’ alla volta il nome ebraico scomparve nell’ombra, prevalse il nome di Marco, finché a Roma questo divenne il suo nome esclusivo. È vero che i critici ritennero di dover distinguere due o anche tre Marco: Giovanni Marco, che s’accompagnò a Paolo; Marco, che accompagnò Pietro e scrisse il secondo Vangelo; e in realtà alcuni dati si possono conciliare solamente con un po’ di fatica; ma gli Scritti Sacri non offrono nessun motivo per questa distinzione; un pacato esame dei diversi testi mostra ch’è possibile ordinare nel corso della vita d’un unico e medesimo Marco le indicazioni apparentemente contrastanti; ne riparleremo ancora, ma frattanto possiamo aggiungere che oggi il doppio Marco è comunemente abbandonato. – Marco era per origine ebreo, ma nacque probabilmente fuori della Palestina; in una compilazione liturgica della chiesa coptica, il Synaxarion arabico, leggiamo che la terra della sua infanzia fu la « Pentapoli », la regione delle cinque città dell’antichità: Cirene, Apollonia, Barka, Tauchira ed Euesperida. Lo stesso Synaxarion quale padre suo indica un certo Aristobolo; la Sacra Scrittura ricorda soltanto la madre e in modo da far concludere che il padre morì per tempo, non prima però del Giovedì Santo. Egli dovette rimaner senza il padre esattamente in quegli anni, in cui aveva il massimo bisogno di lui; ché nemmeno la migliore delle madri può compensare del tutto il padre; ne manca per natura la mano ferma, cosciente delle mete e anche dura, se necessario; e si direbbe che questa deficienza abbia avuto il suo riflesso nell’educazione di Marco meno virile, meno coerente e sicura. Siamo indotti a rilevarlo dal fatto del suo ritorno alla madre, mentre gli si delineavano dinanzi gli strapazzi del primo viaggio apostolico; delle informazioni antiche poi, anche se non del tutto indubbie, ci riferiscono pure un altro fatterello della sua giovinezza, che non sarebbe avvenuto, se il padre gli fosse stato a fianco: si troncò lui stesso il pollice per rendersi inabile al servizio nel Tempio secondo la legislazione del Vecchio Testamento, giacché era obbligato al servizio sacerdotale, come discendente della tribù di Levi; quest’ultima notizia ci viene riferita dall’antico prologo al Vangelo di Marco, che risale al quarto secolo. Povero pollice! Ma forse questa leggenda attribuisce all’evangelista Marco un’automutilazione, che, nell’eccesso del suo fervore ascetico, aveva fatta un Marco monaco; quantunque il prete romano Ippolito (+ 235) ha per il nostro Evangelista l’appellativo « kolobodaktylos — dal dito monco »; è vero però che l’espressione potrebbe alludere ad una mano piccola, esile, e il senso potrebbe essere: mani piccole non possono serrarsi in pugni pesanti, atti a dominare le difficoltà. La madre di Marco, Maria, era una donna religiosa, colta e ricca; anche fosse vero, secondo l’informazione d’uno scritto arabico, che aveva perduto il suo vistoso patrimonio, nondimeno al tempo della sua vedovanza era ancora così benestante che possedeva una grande casa in Gerusalemme, messa dal suo pio sentimento a disposizione della giovane comunità cristiana, perché vi tenesse le sue adunanze. Secondo lo storico della Chiesa Niceforo, Maria sarebbe stata una « sorella » di Pietro, o « una figlia della zia della moglie di Pietro », come con complicata espressione precisa, in fatto di parentela, lo scritto arabico or ora ricordato; e a dir vero, un rapporto di parentela, per quanto largo, di Pietro spiegherebbe bene le sue relazioni con la casa di Maria e anche la sua evidente benevolenza per Marco. Questa donna, riferisce il Synaxarion arabico, era di molto talento ed istruì lei stessa il figlio, cui insegnò la lingua greca, la francese (latina?) ed ebraica. E fece molto bene, perché il suo Marco, secondo i disegni della Provvidenza sarebbe divenuto un giorno l’interprete di Pietro. Quante volte il Signore dona alle mamme un presentimento dei suoi piani sublimi! Riprendiamo con gusto all’idillio e all’ideale della cara vita familiare di questa gentile signora col suo figlio Marco; ella raccoglieva tutto il suo vedovo amore sul suo Marco, suo figlio, suo sole, e suo tutto; e Marco stendeva le sue mani delicate e il suo giovane cuore all’amore di sua madre, che l’andava plasmando. La Sacra Scrittura ricorda anche un altro vincolo di parentela del nostro Marco: egli era « il cugino — anepsiòs, consobrinus — di Barnaba »; questa espressione di solito è tradotta con « cugino », ma potrebbe tradursi anche con « nipote », e quindi Barnaba, che gli Atti degli Apostoli esaltano quale « uomo esimio, ripieno di Spirito Santo e di fede », sarebbe stato lo zio di Marco e probabilmente da parte del padre, giacché egli pure, secondo l’esplicita testimonianza della Scrittura, apparteneva alla tribù di Levi. Quanto egli si sia mostrato benevolo e fedele a suo nipote, lo veniamo a conoscere dalle relazioni degli Atti: piuttosto che mettere dalla parte del torto Marco, rinunciò all’amicizia dell’Apostolo gigante, Paolo. Se ora mettiamo insieme tutti questi brevi, vari e singolari elementi, ne risulta una figura di giovane lieta e solatia: Marco era ricco, colto, bello, circondato da cure e custodito, il beniamino di tutti. Gli « Atti di Marco », uno scritto della metà del quarto secolo, lo esaltano come un uomo « di buona indole e soffuso di divina bellezza »; descrivono poi il suo simpatico esteriore dicendo: « Era di portamento nobile e svelto; aveva belli gli occhi e un volto dal color d’oro, come un campo di grano, il naso non ricurvo ma diritto e sopracciglia aderenti ». Chi dalla vita è trattato ruvidamente, è tentato d’amaramente invidiare individui in tal modo illuminati dal sole, quasi vengano viziati dalla sorte; ma perché non ci dovrebbero essere anche le persone felici e belle? Esse sono una ricchezza del mondo povero e un raggio singolarmente fulgido del perfetto Iddio. Anche Marco fu un prediletto della natura e lo fu pure della grazia, che importa ancor più.

MARCO E GESÙ

Ma quanta parte dipende dalla famiglia, nella quale un uomo cresce! La casa può essere la sua eterna benedizione, come può pure divenire motivo della spaventosa rovina. Marco, favorito da Dio e dall’azione della Provvidenza, fu adagiato entro alla culla del Cristianesimo; egli crebbe insieme col recente Cristianesimo e nello stesso luogo; Marco e la giovane società di Cristo son come fratelli gemelli. Secondo un’antica tradizione degna di fede, la sala fortunata, nella quale si compirono i più augusti Misteri, quali la celebrazione della Cena il Giovedì Santo, le apparizioni del Risorto nei giorni pasquali, il soffio dello Spirito Santo nella bufera di Pentecoste, era la sala della casa materna di Marco; nelle supreme ore cristiane egli stava là, non certo come uno di coloro che circondavano Gesù direttamente, ma almeno come uno che è ammesso; poiché chi avrebbe potuto allontanare un buon giovane, specialmente se si trattava del figlio della padrona di casa, tanto ospitale? Silenzioso dunque, stupito, tutt’occhi e tutt’orecchi, egli visse con gli altri i sublimissimi eventi e, anche se non comprese il loro significato — non lo compresero del tutto nemmeno gli Apostoli —, presagì però che quivi, nella casa della madre sua, s’avveravano cose divine e nella sua sensibile anima di ragazzo s’impressero incancellabilmente le scene più stupende del Vangelo. – Quando i due Apostoli Pietro e Giovanni, nel pomeriggio del Giovedì Santo, gli tennero dietro ostinatamente per tutte le vie sino a casa, mentre s’allontanava dalla fonte, dove s’era portato per attingere acqua, egli si guardò attorno attonito; fin d’allora egli fu presente a Gesù, poiché con ragione si suppone che fosse Marco quel giovane, con la brocca d’acqua, che il Signore diede ai due Apostoli come segno: « Seguitelo! E dov’egli entra, ivi dite al padrone di casa: “Il Maestro ci fa chiedere: Dov’è la stanza, nella quale Io possa mangiare la Pasqua con i miei Discepoli?”. Egli vi farà vedere una grande stanza superiore, arredata di divani per la mensa. È già pronta; ivi preparate per noi ». Con la gioia ed il fervore d’un ragazzetto, cui è dato di prestare dei servizi insoliti, Marco aiutò Pietro e Giovanni nel preparare la cena pasquale; li aiuterà anche più tardi, nel preparare il vero Agnello pasquale per gli uomini. E giunse la sera; arrivavano gli altri dieci Apostoli, seri, silenziosi, oppressi, così gli sembrava, e s’avvicinavano alla casa; venne poi il Signore, pallido ma dignitoso. Mentre veniva accolto, Egli posò la mano sul capo di Marco, quella mano, che al domani sarebbe stata trafitta; poi Maria, la mamma, allontanò dal gruppo di quelle persone il figlio; ma chi vorrebbe rimproverarlo, se ben presto fu di nuovo dinanzi alla porta chiusa della sala? Sentì le parole sublimi, da lontano soltanto, certamente, non vicino come Giovanni, che più tardi le mise in iscritto; indietreggiò spaventato, quando Giuda aprì violentemente la porta e gli passò dinanzi precipitoso; messosi a letto, non s’addormentò e udì i passi che si dileguavano; che convenga seguire…? – Tre giorni dopo, di soppiatto, gli stessi individui vennero nella medesima sala; veramente non erano proprio gli stessi, perché erano venuti spiando come malfattori e sconvolti come fossero dei disperati; nessuno aveva avuto per lui uno sguardo o una parola di saluto. Quando da lassù, nella sala, giunse all’orecchio del nostro giovane lo strepito come d’un’esplosione di terrore e subito poi di festa, egli corse su, presso la porta chiusa, compresse il suo scarno corpo contro la parete, spiò attraverso una sottile fessura e fu colpito da tanta luce, che i suoi occhi ne soffrirono. Marco termina la prima stesura del suo Vangelo con la relazione della apparizione del Risorto alle pie donne: « Paura e timore s’erano impadroniti delle donne. Per il grande timore, non ne fecero parola a nessuno »; forse in queste singolari espressioni freme pure la prima esperienza pasquale di Marco stesso. La casa dei suoi genitori doveva essere per la terza volta il teatro d’una sublimissima grazia nel giorno di Pentecoste. Giovane com’era, sulle prime dovette sentirsi poco sicuro, quando « improvvisamente si levò un rumore dal cielo, come se giungesse una violenta bufera, il quale riempì tutta la casa, dov’essi erano raccolti ». Poi calarono le lingue fiammeggianti e una di esse accese del fuoco dello Spirito Santo anche Marco e gli infuse quella chiarezza e vigoria, che vampeggia ancor oggi nel suo Vangelo. Oh, come è vero che nella vita d’un uomo molto dipende dalla casa, dov’egli è a casa! – È vero che la stessa Sacra Scrittura attesta solo che la casa di Maria, la madre di Marco, servì, come una prima Chiesa, per le assemblee della prima comunità cristiana in Gerusalemme al tempo della persecuzione di Erode Agrippa (41-44); per questo ricevette il titolo onorifico di « madre di tutte le chiese », di  ‘Santa Sion » e di « chiesa degli Apostoli », e in un’epoca posteriore fu edificata nel suo posto una vasta Chiesa, nella quale venne inclusa anche la casa dell’Apostolo Giovanni, detta « Dormitio Mariæ Virginis — il rimpatrio della Vergine Maria » —, situata lì vicino. Questa indicazione però della Scrittura illumina quanto afferma la tradizione. Se Maria, la nobile e religiosa signora, mise a disposizione della comunità cristiana la sua casa, è probabile che l’avesse aperta già al Signore, i primi Cristiani anzi proprio per questo si sarebbero ritrovati insieme tanto volentieri in quella casa, perché essa era stata consacrata cioè dallo stesso Signore e dallo Spirito Santo. – Anche queste riunioni dei primi Cristiani nella casa di sua madre furono per Marco, giovane allora in fiorente sviluppo, una ricca sorgente di grazia e decisive per la sua vita. Quivi gli Apostoli andavano e venivano e trattavano delle loro sollecitudini, dei loro piani e successi; quivi si rifugiarono i primi Cristiani di Gerusalemme nei giorni penosi delle persecuzioni da parte del Sinedrio, di Paolo e di Erode. Inobliabile restò per Marco soprattutto quella notte di pasqua, durante la quale l’intera giovane Chiesa pregava per la salvezza di Pietro dalle mani di Erode, assetate di sangue: fu picchiato alla porta del cortile; « la fanciulla Rode accorse e stette ad ascoltare; riconobbe la voce di Pietro, ma per la gioia dimenticò di aprire la porta; rientrò correndo e annunziò che Pietro stava alla porta. Quelli le replicarono: “Sei ben fuori di te!”; ma lei insisteva a dire ch’era così; allora pensarono: “È il suo Angelo”; ma Pietro continuava a picchiare. Allora aprirono, videro e sbigottirono. Egli fece loro cenno con la mano di fare silenzio e raccontò loro come il Signore l’avesse liberato dal carcere » (Act. XII, 1-17). Per lo più bussare a una porta significa pure bussare a un cuore; Marco, con cuore grande e festante, aveva aperto la porta al Signore e a Pietro, e li vide entrare venire verso di sé come verso a una primavera; aprì loro anche il suo cuore? – Non ignoriamo che una nota dell’antico Papia sembra affermare che Marco non conobbe affatto di persona Gesù: « Non vide il Signore nella carne e nemmeno Lo udì »; ma questa e simili testimonianze antiche, che trattano di Marco come Evangelista, vogliono solamente dire ch’egli non fu, come gli Evangelisti Matteo e Giovanni, testimonio immediato oculare e auricolare degli avvenimenti evangelici; il così detto Frammento Muratoriano lascia persino intravvedere che egli di quando in quando fu presente alle scene del Vangelo. Epifanio e alcuni altri antichi scrittori ecclesiastici scorgono in Marco uno dei settantadue discepoli, uno anzi di quelli, che defezionarono dal Signore nella sinagoga di Cafarnao, dopo il discorso eucaristico, e più tardi nuovamente riconquistato da Pietro; ma tali asserzioni sono confutate dall’età stessa molto giovanile di Marco. Egli dunque vide il Signore, ma ancora con gli occhi grandi del bambino e col cuore tenero e sensibile del ragazzo. Nel suo Vangelo egli ha notato un particolare, ch’è in se stesso senza importanza, ma che s’incontra solamente in lui: « Dopo di che (dopo cioè la cattura sul Monte degli Olivi), tutti Lo abbandonarono e fuggirono. Un giovanetto però, che indossava sul nudo corpo un lenzuolo soltanto, Lo seguì; quando lo si volle acciuffare, lasciò andare il lenzuolo e se ne fuggì nudo »! Si ammette abbastanza comunemente che in questo episodio del Vangelo Marco, come un artista nel suo quadro, abbia delineato se stesso; e quante cose ci svela questo piccolo autoritratto! Nella grande notte dell’ultima Cena, egli non aveva potuto dormire, come sua madre invece aveva desiderato e sollecitato, perché aveva percepita la tensione, che gravava su quella notte; aveva intercettate parecchie espressioni del discorso d’addio e a un certo momento gli sembrò di sentire un risonar di spade; se la svignò da casa, ma di soppiatto per non scontrarsi col volere della mamma e in tenuta certamente strana, ma era notte e aveva il sangue caldo. Protetto dall’oscurità, trovò sul Monte degli Olivi un nascondiglio, donde ascoltò confuso il gemito del Maestro, il russare dei Discepoli e lo strepito degli sbirri, che accerchiarono Gesù con spade e bastoni. – E qui, in questo primo e unico fatterello, nel quale Marco stesso compare nel Vangelo, è già manifesta la sua affezione per Gesù. Gli Apostoli fuggirono; gli stessi Pietro e Giovanni seguirono soltanto da lontano!; ma il caro Marco si tenne vicino, da presso a Gesù. In quel momento gli occhi divini del Signore, ancor pregni di mestizia per il tradimento di Giuda, si rischiararono un po’ e si riposarono con compiacenza su quel nobile giovanetto. Quando i soldati stesero i loro pesanti pugni per colpire quest’ultimo e giovanissimo amico di Gesù, egli lasciò nelle loro mani il ridicolo lenzuolo e rimase nudo. E questa nudità, come un simbolo, indica già l’avvenire: Marco, il nostro giovanetto custodito, curato, delicato, per amore di Gesù abbandonerà tutto e con la sua spogliazione dimostrerà ch’egli è un autentico discepolo del Maestro: non aprì a Gesù solo la porta di casa, Gli aprì pure la porta del suo cuore.

MARCO E PAOLO

Marco e Paolo s’incontrarono probabilmente per la prima volta quando, nell’anno 44, Barnaba e Paolo portarono a Gerusalemme la generosa colletta della comunità etnicocristiana di Antiochia per i bisogni della povera Chiesa madre. Barnaba, lo zio, dovette presentare suo nipote Marco allo sguardo indagatore di Paolo con soddisfatta compiacenza; e il nipote, quand’ebbe udito della vita cristiana dei convertiti dal paganesimo, se ne scese ad Antiochia, quasi come un dono prezioso, che Gerusalemme offriva in compenso della colletta ricevuta. Da anni, infatti, ormai Marco s’era scelto Gesù quale scopo supremo della sua vita; adesso era divenuto un giovanotto robusto e brillante di circa venti primavere, che, come un albero di maggio, voleva portare frutto; le lontane regioni lo allettavano, gli suscitavano in cuore entusiasmo e gioia, cui forse s’aggiungeva pure un po’ di spirito d’avventura; e delle avventure ardite, liete e penose, non mancano nemmeno nel seguire Cristo. Era capitato bene; proprio in quel tempo Barnaba e Paolo intendevano cimentarsi nel rischio del primo viaggio apostolico; gli Atti degli Apostoli a questo punto inseriscono la notizia: « Avevano con loro quale assistente Giovanni (Marco) », non per i loro servizi personali, ma, in senso biblico, quale ministro della Parola, per l’amministrazione del Battesimo e per gli altri aiuti connessi con l’opera missionaria; dalla prima lettera ai Corinti sappiamo però che Paolo riteneva la predicazione come compito suo proprio; Marco, felice come un giovane sacerdote, regalava a piene mani la sua prima benedizione. Ma il viaggio andava oltre a quello che egli aveva immaginato; Cipro fu ben presto attraversata ed evangelizzata, e Paolo si spingeva più innanzi; anzi la sua intenzione di spingersi, attraverso il Tauro, nell’altipiano di Pisidia e Licaonia nell’Asia Minore non si palesò che lassù a Perge. Il viaggio importava una marcia al minimo di dieci giorni di cammino faticoso e altrettanto pericoloso, giacché nell’antichità la stessa scortese pianura di Panfilia era infamata e temuta a motivo dei suoi abitanti bellicosi e rapinatori; persino i Romani riuscirono ad avvicinarsi alle popolazioni semibarbare del Tauro soltanto dopo lunga fatica. Gli Atti degli Apostoli a questo punto ci fanno sapere di Marco: « Si separò da Paolo e Barnaba e tornò a Gerusalemme ». Ce ne domandiamo il perché. Qualcuno ha affermato che Marco era disgustato, perché Paolo sempre più chiaramente aveva assunta la direzione della missione; e di fatto d’or innanzi negli Atti si dirà sempre: « Paolo e Barnaba» e non più: « Barnaba e Paolo »; altri ha voluto scorgere in quel ritorno una protesta di Marco contro la missione di Paolo fra i gentili, libera dalla Legge; il Sacro Testo stesso però allude a un altro motivo: quello che spaventò il buon Marco fu semplicemente l’inaudita fatica del viaggio apostolico; i disagi già sostenuti in Siria, a Cipro e sino a Perge gli avevano fatto provare che l’andare in missione era molto di più che un’allegra e devota avventura; finora aveva resistito, ma non si sentiva in grado di prendere parte anche alla seconda tappa del viaggio. Il Synaxarion arabico più sopra ricordato conferma questa interpretazione, scrivendo: « Quando Marco, andando in giro per accompagnare Paolo e Barnaba, constatò quanti colpi e disprezzi essi dovevano tollerare, li abbandonò in Panfilia e tornò a Gerusalemme»; e un’omilia del nono secolo ce lo dipinge con squisita ingenuità: « Marco disse fra sé: questi uomini non hanno requie; preferisco tornarmene a mia madre; presso di lei troverò da mangiare. La mamma sua però ne sentì gran dolore ». Le mamme…! Ci è lecito disapprovare il ritorno di Marco come una fuga vile? Solo a pochi è concesso di affermarsi come eroi già al primo assalto; anche l’eroe deve formarsi attraverso l’aspra lotta e la molteplice rinuncia; il nostro amabile giovane invece fu strappato in età troppo immatura e troppo alle svelte al suo genere di vita nobile, abituato bene e forse un po’ viziato; e venne meno. Ma se un giovane vien meno una volta, verrà poi meno sempre? In questo sta la colpa di Paolo nei riguardi di Marco, perché, a causa di quell’unica ora di debolezza, gli negò la propria fiducia e lo disanimò, contro il monito ch’egli stesso rivolge ai padri. Quando infatti Marco, nell’anno 49, tre o quattro anni forse dopo il doloroso episodio di Perge, valendosi della mediazione di Barnaba, si fece annunziare per il secondo viaggio apostolico, Paolo gli rispose con un brusco rifiuto: « Paolo non ritenne opportuno di assumere colui, che dalla Panfilia li aveva lasciati in asso e non era andato con loro all’opera »; egli temeva evidentemente che l’incerto giovane se ne andasse da loro una seconda volta per tornarsene a casa o che comunque, nelle difficoltà imprevedibili e forse straordinarie del nuovo viaggio, tornasse più di ostacolo che di aiuto. Eppure, la richiesta di Marco avrebbe dovuto colpire Paolo; era così evidente che il povero giovane cercava, mediante un’attiva prestazione, di riparare il mal fatto e di redimersi dai suoi piccini sentimenti. Il ricordato Synaxarion riferisce: « Quando Paolo e Barnaba tornarono a Gerusalemme e raccontarono della conversione dei pagani e quali miracoli Iddio avesse operato per mezzo di loro, Marco si pentì di quanto aveva fatto per irriflessione »; l’informazione anzi leggendaria dello Pseudo-Marco dice persino che da principio il nostro giovane non aveva affatto osato presentarsi a Paolo; poi per tre sabati consecutivi lo pregò ginocchioni del suo perdono; invano! Dinanzi a questo duro comportamento di Paolo non possiamo sottrarci all’impressione che influissero su di lui non solo dei reali motivi, ma anche dei motivi personali. L’offrirsi di Marco per il secondo viaggio apostolico cadde subito dopo il conflitto di Antiochia; un momento fatale! Paolo, infatti, non aveva ancora potuto inghiottire che in quella circostanza non fosse stato con lui nemmeno il suo amico Barnaba: «Persino Barnaba si lasciò trascinare da quella simulazione »; e Marco fu vittima di quell’irritazione, egli, come si dice, fece traboccare il vaso. – Paolo e Barnaba, i due vecchi e fedeli amici, non si staccarono sicuramente solo a motivo di Marco; una profonda amicizia quale la loro non si spezza per un episodio così insignificante. « Si venne (fra Paolo e Barnaba) a un’aspra tensione — non solamente a “una divergenza di opinioni”, come spesso, ripiegando, si traduce, perché il greco “paroxysmés” significa veramente di più che opinione diversa soltanto —, e la conseguenza fu che si separarono l’uno dall’altro; Barnaba fece viaggio con Marco per Cipro, Paolo invece si elesse Sila e s’incamminò con lui per il suo viaggio». Ci rallegriamo con Marco, perché almeno uno credette ancora in lui, il buon Barnaba; che sarebbe stato di lui, se tutti l’avessero condannato come un vile? Quali decisioni per una giovane vita, se nell’ora opportuna una persona retta offre la sua mano perché prosegua e perché ascenda! La separazione nondimeno lascia dopo di sé un senso di scontentezza, persino il letichino Girolamo lamenta che questa lite fra Paolo e Barnaba fa vedere due grandi nella loro umana meschinità. – Allontanandoci però un poco dalla scena incresciosa, lo sconcerto diminuisce; gli uomini retti traggono vantaggio anche dalle vicende ingiuste; alla fine anche quella lite per causa di Marco tornò a maggior vantaggio di tutti. Questi, che non aveva ancora smesso di sognare, per quell’allarme di Paolo fu salutarmente scosso dai castelli in aria della sua bella giovinezza; si vide d’un tratto posto dinanzi all’inesorabile aut-aut: o uomo o vigliacco; tenne conto della dolorosa ma salutare lezione dell’Apostolo ed « essa lo fece migliore », scrive il Crisostomo; il rimprovero: «Non è venuto con noi nell’opera » gli stava conficcato nello spirito come un pungolo; dimostrerà in seguito ch’esso non aveva più ragione d’essere. Dal canto suo Paolo mutò parere nei riguardi di Marco. Scrive di lui in tre passi del suo epistolario; nella breve lettera a Filemone lo nomina come « collaboratore » al primo posto, persino prima di Luca; ai Colossesi, ai quali l’invia con degli incarichi, raccomanda caldamente: « Per riguardo a Marco avete già ricevuto istruzioni; se viene a voi, accoglietelo amichevolmente » e poco prima della morte, quasi come ultimo desiderio, domanda instantemente a Timoteo… Marco! « Porta con te Marco! Posso ben aver bisogno dei suoi servizi ». E infine nemmeno Barnaba nutrì alcun rancore per Paolo, ce lo attesta un passo della prima lettera ai Corinti. – Non torna ad onore degli Apostoli né giova alla nostra utilità passare timidamente sotto silenzio il loro lato troppo umano. Che essi siano stati dei lottatori, costituisce la loro grandezza e la nostra consolazione; ma la provvidenza di Dio è così sapiente e benigna, da tendere nel telaio dei suoi piani di salvezza le nostre stesse imperfezioni, e così tramutò anche quella lite umana in benedizione divina: la separazione e il raffreddamento fra Paolo e Barnaba ebbero per conseguenza che l’evangelizzazione s’inoltrò nel mondo in due direzioni anziché in una soltanto. Marco e Paolo! Oggi, ripensando a loro, non possiamo trattenerci da un sorriso, ed essi stessi dovettero sorridere, quando, circa dieci anni dopo, si diedero la mano al di lì, a Roma. Tutti e due divennero più grandi per l’aiuto che l’uno porse all’altro: Paolo a motivo di Marco divenne più mite e Marco a motivo di Paolo divenne più uomo. Il popolo fedele onora Marco quale « signore dell’atmosfera » e patrono contro i fulmini e la grandine; in un’antica benedizione del tempo era ricordato espressamente il suo nome: ci prova tutta l’amabilità di Marco il fatto ch’egli, nonostante il torto patito, ritornò nuovamente a Paolo e si fece, dimentico di sé, suo collaboratore. Ma egli è così: un cielo azzurro, che neppure il fulmine e il tuono di Paolo poterono offuscare. Oh, avessimo noi molti Marco!

MARCO E PIETRO

Marco è come un’edera verdeggiante, che dei suoi viticci ricopre festosamente le due torri principali della Chiesa, Pietro e Paolo; anche Pietro infatti stette in rapporti speciali con lui. La Sacra Scrittura veramente parla in un unico luogo di questi rapporti, ma con una parola, che dice quanto molte pagine. Pietro, terminando la sua prima lettera alle comunità dell’Asia Minore, scrive: «Vi saluta la Chiesa con voi eletta di Babilonia e Marco, mio figlio »; questa sola espressione ci richiama i vincoli d’amicizia intimi e di lunga data fra i due. Ordinariamente essa viene interpretata della paternità spirituale di Pietro, conseguita con l’amministrazione del battesimo a Marco; ma questo solo fatto, cui probabilmente è da aggiungere pure una certa parentela naturale, non basta a spiegare gli intimi rapporti fra Pietro e Marco; fra di loro vigeva anche una parentela dell’anima; Marco anzi, sotto molti aspetti, ci fa l’impressione d’un Pietro giovane, rinato, perché come lui è vivace, vispo, amabile e come lui fu una volta debole; se nel suo Vangelo poté rendere così fedelmente la predicazione di Pietro, lo si deve sicuramente anche al fatto che l’indole di Pietro rispondeva così bene alla sua, propria. – È difficile determinare il momento preciso, dal quale Pietro e Marco presero a vivere insieme. Alcuni pensano già all’anno 42: la notte, in cui Rode, la fanciulla distratta, fece finalmente entrare Pietro, Marco, il figlio della casa, si sarebbe unito all’Apostolo e l’avrebbe accompagnato nella fuga « nell’altro luogo », ripetendo, per così dire, il suo nobile accompagnamento di Gesù nella notte del Monte degli Olivi; a questo riguardo, può sorprendere che Pietro nella sua lettera alle comunità del « Ponto, Galazia, Cappadocia, Asia e Bitinia » aggiunga l’unico saluto di Marco; lo conoscevano esse di persona? Qualora egli, nella circostanza della liberazione dell’Apostolo, l’avesse seguito anche sino a Roma, questo suo primo soggiorno romano sarebbe stato sicuramente breve, poiché i dati biblici esigono ch’egli si trovasse pronto in Antiochia al più tardi nell’anno 45, per il famoso e funesto viaggio con Paolo sino a Cipro e a Perge. Marco potrebbe essersi accompagnato a Pietro anche dopo finito il suo viaggio apostolico con Barnaba a Cipro e quindi verso il 51-52; una sua attività in Egitto, di cui scriveremo ancora, non vi si opporrebbe. Egli fu certamente a Roma con Pietro, quando questi, negli anni 63-64, scrisse la sua prima lettera, e questo è pure confermato dai testi riguardanti Marco dell’epistolario paolino. Pietro, il pescatore del lago di Tiberiade schietto, ma sempre un po’ goffo, fu certamente lieto d’avere presso di sé, qual « protonotario pontificio » nel senso etimologico della parola, suo « figlio Marco », che era un segretario abile, elegante e premuroso. E questi — è il patrono anche dei notai e degli scrivani — gareggiava in servizi, felice di poter esibire al semplice Pietro la prova della sua attitudine, che Paolo invece aveva respinta. I suoi rapporti cordiali con Pietro sono richiamati da una narrazione apocrifa, la quale riferisce del suo soggiorno, certo leggendario, ad Aquileia, ma poi per la nostalgia di Pietro non avrebbe più resistito e se ne sarebbe tornato a Roma, dov’era il suo amico, padre e Pontefice. L’antichità cristiana, a cominciare da Papia (+ 130), chiamò Marco l’« interprete — hermeneutés-interpres — di Pietro », titolo, che potrebbe indurci a ritenere che egli abbia tradotto in greco o in latino i discorsi tenuti dall’Apostolo agli uditori romani in lingua aramaica; questi però possedeva certamente la lingua greca, almeno quanto era necessario per farsi intendere dai suoi ascoltatori; è probabile quindi che quel titolo « interprete di Pietro » rimandi alla redazione scritta fatta da Marco della predicazione orale di Pietro; l’antico Papia stesso riferisce che Marco mise in iscritto i detti e i fatti di Gesù, predicati da Pietro. Ci troviamo così dinanzi al monumento più bello e più importante dell’amicizia fra i due: il Vangelo di Marco.

MARCO EVANGELISTA

Marco scrisse un Vangelo, il secondo nell’ordine attuale dei Vangeli canonici. Il primo e principale testimonio ne è il vecchio Papia, la cui testimonianza però è più antica di lui, perché s’appoggia alla dichiarazione del « presbitero Giovanni », dell’Apostolo cioè di questo nome. Ecco com’essa dice: « Anche questo diceva il presbitero (Giovanni): Marco, un interprete di Pietro, ha messo in iscritto esattamente tutto quello, di cui si ricordava. Però (scrisse) quello, che dal Signore è stato detto o fatto, non secondo l’ordine. Marco cioè non ha udito il Signore né Lo ha accompagnato; ma più tardi, come già detto, ha udito Pietro, che disponeva i suoi insegnamenti secondo i bisogni e non come uno, che dia un’esposizione scritta dei discorsi del Signore. Così Marco non ha affatto peccato, se scrisse alcunché così, come si ricordava. Poiché solo d’una cosa ebbe cura, di non omettere nulla di quello che aveva udito o di non dire in questo il non vero ». A. questa antichissima testimonianza se ne aggiungono altre molto importanti, come ad esempio quella di Clemente Alessandrino (+ 231): Marco a Roma fu pregato dai cavalieri imperiali di mettere per iscritto le istruzioni, che Pietro aveva loro impartite; quando questi ne venne a conoscenza, non ne impedì il suo interprete né lo incoraggiò; Eusebio però, rifacendosi a Clemente, riferisce che Pietro poi approvò espressamente il Vangelo completo e stabilì che se ne desse lettura nelle chiese. Gli scrittori ecclesiastici più antichi, più vicini ai tempi apostolici sono unanimi nel mostrare l’intima connessione del vangelo di Marco con la predicazione di Pietro, Tertulliano anzi lo chiama senz’altro « il Vangelo di Pietro ». Passando a considerare il Vangelo stesso, possiamo affermare che gli occhi vivaci e buoni di Pietro ci rivolgono il loro sguardo quasi da ogni riga. Il contenuto e l’indole del suo insegnamento li conosciamo abbastanza bene attraverso le sue otto prediche contenute negli Atti degli Apostoli e le sue due lettere; ora il Vangelo di Marco appare esserne l’eco fedele; confrontandolo, per esempio, col discorso che l’Apostolo disse in casa di Cornelio, abbiamo l’impressione d’avere dinanzi una descrizione e uno sviluppo di quanto a grandi linee Pietro aveva abbozzato in casa del primo pagano accolto nella Chiesa. Marco narra con forza e colore la preparazione al lieto messaggio mediante la predicazione del Battista, il battesimo e le tentazioni di Gesù, la vocazione dei primi discepoli (capitolo 1, 1-20); segue lo svolgimento dell’attività in Galilea: il giorno dei miracoli a Cafarnao, i primi cinque conflitti con i Farisei, il ministero sul lago e le peregrinazioni intorno ad esso — il Vangelo del pescatore! — (capitoli 1, 21-8, 26); la conclusione del ministero galilaico: la professione di Pietro e la rivelazione del mistero della croce (capitoli 8, 27-9, 50); infine il compimento: il viaggio a Gerusalemme, la Domenica delle Palme e la Pasqua (capitoli 10, 1-16, 20). – Ma desideriamo vedere in qual modo il Vangelo di Marco si regoli con lo stesso Pietro. Modo abbastanza singolare! Si fa spesso parola di lui, più diffusamente che dagli altri Evangelisti; ma quando si tratta della sua preminenza e dei suoi privilegi, Marco si fa muto; non poté certamente evitare di concedergli il primo posto nel catalogo degli Apostoli, ma il fratello suo Andrea, non lo collocò al secondo posto, come fanno Matteo e Luca, bensì al quarto. Marco sembra pure ignorare che il suo maestro una volta camminò miracolosamente sulle onde del lago, che con un miracolo gli fu pagata la tassa e con un altro gli fu riempita la barca di pesci sino a sprofondare, che gli fu promessa una speciale preghiera del Signore. Ancor più meraviglia che nel secondo Vangelo non s’incontrino neppure quelle parole essenziali, che costituiscono il fondamento della grandezza propria di Pietro: « Tu sei Pietro, la roccia, e su questa roccia Io edificherò la mia Chiesa. A te darò le chiavi del regno dei Cieli »; e invano vi cercheremmo anche quelle altre, notate da Giovanni: « Pasci le mie pecore! Pasci i miei agnelli! ». Al contrario, quando si tratta di qualche cosa di sgradito e che fa arrossire, come ad esempio della natura irriflessiva di Pietro, della sua replica audace, del suo sonno sul Monte degli Olivi e anzitutto della sua triplice negazione, che ancor oggi fa arrossire ogni suo amico, allora Marco racconta tutto esatto e circostanziato. Il caro discepolo deve aver avuta spesso la tentazione di sopprimere qualche scena troppo penosa per il padre e amico suo Pietro, ma questi nella sua umiltà non tollerò che lo facesse. Ci richiama a questa umiltà di Pietro, che emerge dal Vangelo di Marco, già il Crisostomo: « Marco, il discepolo di Pietro, non ha messo in iscritto questo importante episodio — il saldo dell’imposta con un miracolo  —, perché con esso era congiunto un grande onore per Pietro; ha scritto invece il suo rinnegamento; quello che metteva in vista lo ha taciuto; forse il suo maestro gli aveva proibito di far sapere le cose mirabili riguardanti la sua persona ». Comunque, Pietro non decantò certamente le sue prerogative, che quindi non entrarono neppure nel vangelo di Marco; di qui una prova dal Vangelo stesso della sua genuinità. – Ma anche il suo stile e la sua lingua ci ricordano Pietro. Il vocabolario del secondo Vangelo ricorre lo stesso anche nelle lettere e nei discorsi del Principe degli Apostoli; la sola paroletta « euthys-subito », che in questo Vangelo non ricorre meno di 43 volte, tradisce Pietro, ch’era un sanguigno così pronto, che lo si potrebbe chiamare l’Apostolo « Subito ». Quanta vivacità e chiarezza poi nella narrazione di Marco e come è evidente che si compiace nella descrizione! Si leggano, ad esempio, le relazioni della guarigione della mano rattrappita, della guarigione del fanciullo ossesso e soprattutto il drammatico episodio dei duemila porci nella regione dei Geraseni: l’obiettivo Matteo riferisce tranquillo: « Gli spiriti cattivi Lo pregarono: “Se ci cacci, mandaci nel branco di porci”. Egli rispose loro: “Andatevene!”. Allora se n’andarono ed entrarono nei porci. Di conseguenza l’intero branco si precipitò giù per il declivio nel lago e annegò nelle onde ». Marco invece con più forza, occhi attenti e orecchi protesi descrive: « Lo spirito cattivo gridò ad alta voce: “Che ho da fare con Te, Gesù, Figlio di Dio, dell’Altissimo? Io Ti scongiuro per Iddio di non tormentarmi…”. Poi lo pregava insistentemente di non cacciarlo via dalla regione. Sul pendio del monte pascolava una gran mandria di porci. Allora lo pregarono: “Permettici di entrare nei porci”. Lo permise loro. La mandria allora di circa duemila capi si precipitò giù per il pendio nel lago e nel lago affogò ». –  Matteo e Marco! Nei loro Vangeli si rispecchiano chiaramente anche gli autori; il Vangelo di Marco quindi, lascia a desiderare quanto ad adattamento, forbitezza e bell’ordine, che caratterizzano il Vangelo del pubblicano, amante del sistema e dello schema; il secondo Vangelo è impetuoso come lo stesso Pietro, non ingegnoso nella distribuzione del materiale, non delicato nell’espressione; non importa molto a Pietro scambiare un nominativo con un accusativo, di tralasciare una parola, di annettere direttamente una muova sezione; un insegnante di lingue s’indispettirebbe e farebbe scorrere molto inchiostro rosso; che consolazione per gli scolari! Già Papia osservava questa deficienza « nell’ordine », e intendeva precisamente la noncuranza letteraria del secondo Vangelo. Che interesse poteva avere per Pietro? Non era suo metodo badare accuratamente che la sua predica si presentasse in due parti con tre pensieri ciascuna, che fluisse con l’armonia del ritmo, che non le mancassero i geniali giochi di parole; la sua bocca sovrabbondava della pienezza del suo cuore, e Marco mise in iscritto le cose dette appunto come erompevano dal cuore del maestro, sciolte e fresche come una gorgogliante sorgente. – Gli studi sulla caratteristica del secondo Vangelo hanno sempre più imposto il silenzio a quelle teorie razionalistiche, secondo le quali bisognava distinguere fra il Vangelo dell’Urmarco e il Vangelo del Marco odierno; ché nel secondo Vangelo attuale è impresso troppo profondamente il sigillo di Marco-Pietro perché lo si possa negare, senza dire del fatto controllabile da ognuno dell’uso del Vangelo da parte già dei più antichi scrittori ecclesiastici. Oggi sono ancora discussi i versetti 9-20 dell’ultimo capitolo. Essi mancano nei due manoscritti greci più antichi e in qualche traduzione orientale molto antica; ricorrono anche, in questa sezione finale, delle espressioni sconosciute al resto del Vangelo; nondimeno non è possibile addurre una prova convincente che i versetti in questione non abbiano per autore Marco, poiché la stragrande maggioranza dei manoscritti — 160 contro 7 — ha la medesima finale del secondo Vangelo odierno; potrebbe darsi che, come Giovanni, anche Marco abbia terminato il suo Vangelo con l’attuale conclusione soltanto in un tempo posteriore; tutti del resto concedono ch’egli non poté terminare col versetto 16, 8. – Come attesta l’antichità cristiana, Marco scrisse il suo Vangelo per gli etnicocristiani, specialmente per quelli di Roma, « spinto dalle preghiere insistenti dei Cristiani di Roma, perché volesse lasciar loro un ricordo scritto delle istruzioni proposte da Pietro a viva voce ». Una tradizione orientale, conservataci da Diounisio bar Salibi, dice a questo riguardo: «Poiché i Romani sapevano che Pietro voleva andarsene per predicare in altri luoghi, lo pregarono di scrivere un Vangelo; egli però non assecondò il loro desiderio, perché non ne aveva il tempo, giacché, in qualità di capo dei predicatori, doveva predicare il suo Vangelo al popolo giudaico e ai pagani; temeva anche che i fedeli, per accogliere il suo, mettessero in disparte i tre (altri) Vangeli, perché egli era il capo e il primo; e infine, a causa del suo rinnegamento, egli si riteneva indegno di scrivere il Vangelo. Per questo pregò che scrivesse Marco, suo discepolo, e questi riferì tutto quello, che aveva ascoltato dalla sua bocca ». Quest’informazione erra certamente in quanto presenta il Vangelo di Marco come l’ultimo dei quattro Vangeli; non è né l’ultimo né il primo, ma, per la quasi unanime testimonianza della tradizione, è il secondo; l’epoca della sua redazione deve cadere fra gli anni 51-62, fu certamente scritto prima della morte di Pietro (+ 67), come assicurano Clemente Alessandrino e gli altri antichi scrittori ecclesiastici. – Un largo influsso nella struttura del secondo Vangelo l’ebbe anche l’accolta di lettori romani e di qui dipende la sua divergenza sotto molti aspetti da quello di Matteo. Marco, avendo per destinatari immediati del suo Vangelo degli etnicocristiani, omise molta parte di quello, che Matteo, scrivendo per i giudeocristiani, aveva messo in risalto della vita tanto ricca di Gesù per provare la sua messianità; la comunità cristiana di Roma non se ne intendeva e non aveva l’interesse dei Cristiani di Palestina quanto all’adempimento delle profezie del Vecchio Testamento, per le questioni della legge mosaica e per i conflitti di Gesù con i Farisei. Marco tralascia questi dettagli; non ha quindi il discorso sul monte, non il discorso « Guai a voi! »; in lui non incontriamo neppure la parola « Legge », che nel Vangelo di Matteo ha una parte così importante; quando deve ricordare istituzioni e usi giudaici, si dà premura di spiegarli ai lettori, che li ignorano. Gli interessa di far conoscere ai Romani non tanto le parole di Gesù quanto piuttosto le sue opere; il loro animo calmo e pratico è guadagnato al Signore più rapidamente dai fatti di Lui che non per mezzo di dottrine; ecco perché nel secondo Vangelo troviamo in prima linea i miracoli e perché nel riferirli Marco generalmente non fa abbreviazioni. In modo singolarmente perspicuo e attraente descrive i miracoli sugli ossessi, poiché la virtù divina del Signore si rivela quanto mai possente nella repressione del demonio e per i Romani, che sapevano della potenza diabolica, era tanto efficace. Attenendosi a questi criteri, Marco delineò nel suo Vangelo una figura di Cristo, che inonda di giubilo e di orgoglio ogni cuore cristiano: ci dipinse Cristo Re! Il primo versetto intona con accordo vigoroso il tema di tutto il Vangelo: « Il Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio»; e ai piedi della croce, confermando e ammirando, il centurione romano risponde come un’eco lontana e grida: « Veramente quest’Uomo era il Figlio di Dio ». Il Vangelo di Marco presenta questo titolo « Figlio di Dio » senza spiegarne la profondità, come invece fa Giovanni; però, anche se l’Evangelista non istruisce espressamente circa la preesistenza e l’uguaglianza sostanziale di Gesù col Padre, tutti i lineamenti della figura di Gesù da lui tracciata rimontano alla Causa prima e alla origine divina; poiché l’onnipotenza, che inerisce a Gesù, non è a casa sua che in Dio soltanto. Il Vangelo di Marco, essendo il più corto di tutti, è pure il meno usato fra tutti; e nondimeno esso ha anche per la nostra epoca e soprattutto per il mondo maschile la sua utilità particolare: la figura di Cristo, che s’è levata sopra il nostro secolo, grande, serena, sublime, è la figura del Vangelo di Marco, è Cristo, il Figlio di Dio, pieno di potere e di forza; Cristo, il Re troneggiante; Cristo il Signore del mondo. Vicini a un eroismo menzognero, i nostri occhi si sono aperti alla grandezza di Cristo; dinanzi a Lui e dinanzi a Lui soltanto pieghiamo con orgoglio il nostro ginocchio: « Veramente quest’Uomo è il Figlio di Dio! ».

MARCO MISSIONARIO

Pietro era morto, Paolo era morto, ma Gesù « rimane lo stesso ieri, e oggi, e in eterno »; anche dopo la morte dei due Principi, cui Marco aveva servito con fedeltà e cui forse aveva chiusi gli occhi affranti, l’opera del Re continuò per mezzo del discepolo. Numerose testimonianze attestano che annunziò il lieto messaggio in Egitto, ove anche fondò la chiesa di Alessandria, della quale fu il primo presule. Questa tradizione è attendibile, anche se i due luminari della chiesa alessandrina, Clemente e Origene, serbano a questo riguardo assoluto e curioso silenzio. Alessandria e Antiochia! Antiochia, la città di Paolo e Alessandria, la città di Marco! Si direbbe che la tensione fra Paolo e Marco si fosse comunicata anche alle loro città. Ambedue, infatti, le città furono centri della cultura cristiana e anzitutto della scienza biblica, in contrasto però fra loro; la scuola alessandrina indagò il senso allegorico delle Sacre Scritture, la scuola antiochena invece quello storico. Per un ministero di Marco in Egitto abbiamo a nostra disposizione alcuni anni fra il 52 e il 62 e poi nuovamente gli anni, che seguirono al rimpatrio deI Principi degli Apostoli. Se interroghiamo le più antiche informazioni riguardo all’epoca, in cui andò in Egitto, e la durata del suo ministero ivi esercitato, otteniamo risposte diverse. È abbastanza frequente la notizia di Marco inviato da Roma in Egitto, dove avrebbe portato il suo Vangelo già scritto; Giovanni Crisostomo invece, secondo il quale Marco avrebbe scritto il Vangelo soltanto in Egitto, è solo ad affermarlo. L’antica tradizione, secondo la quale Marco lasciò l’Egitto l’ottavo anno di governo dell’imperatore Nerone — l’anno 62 —, stabilendovi come capo della chiesa di Alessandria Aniano, prima calzolaio, è conciliabile con i dati biblici, i quali esigono ch’egli si trovasse a Roma al più tardi l’anno 62. Possiamo dunque affermare come molto probabile che Marco si sia portato ad Alessandria verso l’anno 54 e abbia esercitato il ministero ecclesiastico come presule della città sino all’anno 62. Se dovessimo prestare orecchio alle chiacchiere, che intorno all’opera di Marco in Egitto si leggono negli « Atti di Marco », scritti verso la metà del quarto secolo, a lui sarebbe stato assegnato l’Egitto fin dal momento della separazione degli Apostoli, per primo avrebbe predicato il Vangelo in tutta la regione e poi in Libia, nella Marmarica, nell’Ammoniaca, l’oasi di Giove Ammon, e nella Pentapoli, la terra della sua infanzia; indi ricevette in ispirito l’ordine di mettersi in cammino verso Alessandria per presentarsi al Faraone; all’entrata in città, le scarpe gli si rompono; si rivolge a un calzolaio; riparandole, questi si ferisce seriamente; Marco lo guarisce con un miracolo, lo istruisce intorno al Figlio di Dio Gesù Cristo; a questo punto il calzolaio lamenta, rimpiangendo, che i ragazzi egiziani vengono istruiti soltanto nell’Iliade e nell’Odissea; Marco amministra ad Aniano e alla sua famiglia il battesimo e lo consacra vescovo della chiesa di Alessandria, prima ch’egli debba sottrarsi con la fuga alle insidie degli idolatri sdegnati. Secondo la leggenda scappa poi nella Pentapoli, ma i documenti storici, quali la lettera di Pietro, quella ai Colossesi e quella a Filemone, esigono ch’egli in questo tempo sia a Roma; di qui fu inviato da Pietro o da Paolo in Asia Minore per una missione; nell’anno 66/67 Paolo prega e ottiene che dall’Asia Minore, ritorni di nuovo a Roma, donde, dopo la morte dei Principi degli Apostoli, parte nuovamente per Alessandria, dove lavora nella propria vigna; le antiche informazioni, infatti, sono unanimi nell’attestare un’attività di Marco ad Alessandria in due tempi. Che apostolato movimentato il suo! Cipro! Roma! Egitto! Roma! Asia Minore! Roma! Alessandria!. Com’è divenuto ricco e attivo! Un giorno, quando con Paolo doveva attraversare il Tauro, gli era venuto meno l’animo; e adesso gareggia quasi col suo rigido maestro nel travaglio della peregrinazione apostolica. Marco dà ragione a tutti coloro, che non si sgomentano per il fallimento dei giovani. – Egli morì probabilmente nell’anno 14° dell’impero di Nerone e, secondo una relazione, di morte naturale, secondo un’altra come martire. Gli « Atti di Marco » descrivono il suo rimpatrio così: mentre, nella festa di Pasqua, che in quell’anno cadeva il giorno 24 aprile, stava celebrando le funzioni solenni, fu preso dai pagani, che in quel giorno stesso celebravano la loro festa in onore di Serapide, fu legato con funi al collo e in questo modo straziante fu trascinato per le vie di Alessandria; poi il corpo lacerato fu gettato in carcere, dove nella notte un Angelo confortò il Martire: « Marco, ministro di Dio, il tuo nome è scritto nel libro della vita eterna e la tua memoria non si cancellerà in perpetuo; gli Angeli custodiranno la tua anima e il tuo corpo non imputridirà nella terra »; il giorno appresso il crudele tormento fu ripetuto; Marco vi soccombette e il suo corpo fu bruciato. La Chiesa romana il 25 aprile, giorno della sua morte, ne accompagna la festa con una processione rogazionale attraverso le verdeggianti campagne e fra gli alberi in fiore: non fu anche Marco come un albero fiorente, bello ma in pericolo nel fiore della sua giovinezza? Volesse il Cielo che tutti gli alberi di maggio portassero a maturazione i frutti copiosi e pregiati di Marco! La leggenda delle sue reliquie, che dovrebbe essere sorta veramente soltanto nel secolo nono, fa l’impressione d’essere bizzarra: dopo la conquista dell’Egitto da parte dei Saraceni, l’imperatore Leone l’Armeno (813-820) proibì ogni traffico con Alessandria; ma, nonostante l’ingiunzione di questo divieto fatta dal doge Giustiniano (827-830), i due distinti veneziani Bono e Rustico si portarono ad Alessandria, dove trovarono i Cristiani in grande preoccupazione; essi allora decisero di rubare i resti mortali dell’Evangelista per sottrarli a un eventuale colpo di mano degli increduli e portarli al sicuro in terra cristiana; per dissimulare il pio inganno, indossarono le reliquie di Santa Claudia, vergine, del mantello di seta di Marco e su d’un’imbarcazione riuscirono a portare felicemente il bramato tesoro delle reliquie a Venezia. Vogliamo lasciare ai Veneziani San Marco! Anche presso di loro egli trova tutto bello, come nel tempo della sua giovinezza: la maestosa basilica che gli eressero (976-1071), la piazza meravigliosa che seppero crearle dinanzi, come una sorella della piazza di San Pietro a Roma — Pietro e Marco! —, le vie azzurre che s’intrecciano attraverso la città, le imbarcazioni dagli svolazzanti nastri variopinti, i mandolini che tanto soavemente s’insinuano nell’orecchio e nel cuore; questo paradiso sta davvero bene per Marco! Libero l’animo da ogni pensiero e desiderio, l’occhio dalla gondola dondolante si ricrea nella bellezza di Venezia, che sale dal mare come una prima visione dell’Oriente. Ma resta ancora il leone! Che ha da che fare il leone con Marco? È il simbolo di lui come evangelista, perché nel primo capitolo del suo Vangelo scrive del « deserto », dove il leone ha la sua patria. Marco e il leone! In un dipinto del Pinturicchio il leone guarda, come fosse un uomo, tristemente, perché può solamente ruggire, non può essere anche così amabile com’è Marco. E ancor più mirabile è quest’altra cosa, che il « kolobodaktylos », il Marco dalle dita piccole e delicate, abbia nella sua persona e nella sua opera qualche cosa della forza del leone. – E in questo forse sta il mistero e la grandezza di Marco, ch’egli cioè, ch’era stato tanto circondato da cure, sia divenuto per Cristo e in Cristo un leon