QUARESIMALE (XI)

QUARESIMALE (XI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA UNDECIMA
Nella Feria feconda della Domenica seconda.

Della Penitenza. Si scopre l’inganno e si mostra il pericolo
di perdersi eternamente a chi differisce la conversione.

Quæretis me, et in peccato vestro moriemini
San Giov. Al cap. 8


Confesso il vero, che io deploro la cecità di coloro, i quali differiscono di giorno in giorno la loro conversione col dire, che in ogni età può ridurli il peccatore a penitenza, giacché in ogni età, in ogni tempo sta Iddio con le braccia aperte per stringerlo al seno, purché pentito; deploro dico la vostra cecità se qui siete con tali sentimenti in cuore; e siate risoluti di non turbare il presente con la sollecitudine dell’avvenire, onde vogliate dare, se non gl’ultimi momenti della vostra vita, almeno quelli della vostra vecchiaia al pentirvi. Or sappiate, che se così opererete, sarà tanto certa la vostra dannazione, quanto è certa la vostra presunzione, mentre pretendete la Misericordia Divina legata a’ vostri capricci! Tacete e assicuratevi, che questo vostro pensiero andrà deluso, e ridotti al capezzale proverete avverate le parole di Critto: Quæretis me, in peccato vestro moriemini; e son da capo. La penitenza non v’ha dubbio esser frutto d’ogni stagione. Ella si nell’età più fiorita, come negl’anni più freddi matura al caldo della carità misericordiosa di Dio; se vi piovano le nevi sul capo, se vi scorre per le vene gelo di morte, finché siete in questa vita, siete nell’autunno di penitenza, che a Dio riserva, Omnia poma nova, et vetera; per arida e secca che sia la vecchiaia può, come la verga d’Aron, germogliare in una fiorita e fruttuosa correzione. Qual pianta più sterile della croce d’un ladro, e pure bagnata con sangue del Redentore, gli porse un frutto da trapiantare in Paradiso. Qual ramoscello più piccolo che l’ultimo momento di vita? E pure l’anima, con questo in bocca, divenutole olivo di pace, può, come colomba, da un diluvio d’acque volare all’arca d’eterna salute. Se così è (sento taluno, che mi dice) a che dunque turbare il presente con la sollecitudine dell’avvenire, se goduto il presente può assicurarsi in un momento il futuro? Diasi dunque con ottimo partimento il godere alla vita presente, il pentirsi alla morte; (così costei con voce da Circe). Ma chi non vede esser ciò una tanto certa perdizione, quanto è una vera presunzione; quasi che la Misericordia divina debba esser legata a’ nostri capricci. Tacete , tacete , ed assicuratevi che questo vostro pensiero andrà deluso, se voi, procrastinando la vostra conversione, non vi darete a sollecita penitenza. Date mente alle prove. Quando io parlo che non indugiate a pentirvi alla morte non intendo già di parlare con quelli che sono risoluti di pentirsi veramente alla morte, e non prima, poiché questi già stanno con un piede nell’inferno, per non dire con tutti e due, e per questo sol atto di volontà sono sempre in peccato mortale; intendo di predicare a coloro che indugiando di giorno in giorno, di solennità in solennità, procrastinano la conversione, finché arrivano all’ultima malattia, e quivi invece di convertirsi si dannano. Contro costoro dunque me la prendo, e dico loro, poveri infelici, è possibile, che non conosciate il gran male che voi fate procrastinando la vostra conversione? È vero, sento rispondermi, siamo peccatori, e ben conosciamo che questo nostro differire la conversione conducendoci all’ultima malattia ci conduce sull’orlo della dannazione, ma non per questo diffidiamo di salvarci, merceché la Santa Chiesa ci ha provveduti, in quel tempo di cose pie, come di Benedizioni del Santissimo Rosario, del Cordone del Carmine, della Cintura; tutto è vero, ma contentatevi però che io di voi mi rida mentre in quell’estremo confidate nell’aiuto di queste, per altro sante cose, e frattanto viviate da bestie. Sentite tra gl’insetti v’è un’animale, che chiamasi mille piedi, e pure con mille piedi appena si muove, la ragione si è, perché essendo privo di sangue non ha calore per servirsi di quelli strumenti datigli dalla natura a far moto; anche voi peccatori avrete, allorché sarete moribondi sopra del vostro letto, molte reliquie, brevi e benedizioni, ma perché  non avrete nel cuore una scintilla di carità non vi saranno nulla affatto, giacché viveste male e non avrete in quel punto calor celeste, e così non potrete attuarlo a quei mezzi, acciò vi giovino; avverrà a voi in quell’estremo, come avveniva a David che, nell’ultima sua vecchiaia non arrivava a potersi riscaldare, sicché carico di panni gelava; ma se queste devozioni non bastassero? Voi mi replicate, procureremo d’avere una buona corona di religiosi i quali c’aiutino, ci suggeriscano quanto è necessario per salvarsi. Voi dite bene, che la perizia d’un buon confessore in quell’estremo val molto, e però chiunque brama salute, dovrebbe eleggersi per assiduo regolatore dell’anima sua un uomo; ma tale appunto quale lo vorrebbe assistente al suo morire; val molto in quel tempo, è vero, un buon confessore, ma sappiate che il suo aiuto, quantunque buono, non per questo sarà tale, che possa da sé solo liberarvi dall’inferno, e mandarvi in Cielo. Fu sfidato a duello un certo nobile, non men privo di spirito, che d’esperienza nell’uso della spada. Accettò questi l’invito sulla speranza di chiamare per secondo un suo caro e buon maestro di scherma. Compiva egregiamente le sue parti il maestro, poiché nell’atto stesso di battersi col suo contrario non levava mai gli occhi dal cavaliere, riparate, diceva, quel colpo di sotto, ponetevi in guardia, avanzatevi, ritiratevi, ferite; ma il nobile, quanto ignorante, altrettanto impaurito non eseguiva i documenti del direttore, perché appena ne intendeva la voce. Ferito pertanto a morte, lasciò la vita sul campo con tutta l’affettuosa e valevole assistenza d’un tanto padrino. Voi vi dovete trovare nel fine di vostra vita a fiero duello col nemico comune; ottima sarà l’assistenza d’un santo confessore, v’insinuerà egli atti di fede, di contrizione, di confidenza nel sangue di Gesù; ma voi abbattuti dal male, agitati dalla coscienza, intimoriti dalle tentazioni, appena intenderete i termini di tali atti, mentre mai aveste in costume d’esercitarli, e quel che è peggio, assaliti da diaboliche suggestioni vi lascerete superar dall’inimico che resterà vincitore e padrone dell’anima vostra per tutta l’eternità. Ma Padre, quantunque voi ci poniate nell’inferno, noi però speriamo di non balzarvi, quantunque questa nostra mala vita ci conducesse al capezzale. Il Santissimo Sacramento della Confessione v’è sempre, ci confesseremo prima di morire, ed eccoci salvi. Tutto bene; ma i conti non riusciranno, perché non li fate con Dio, che sdegnato per la vostra mala vita, non vi permetterà questo necessario aiuto. Permetterà Iddio, che voi moribondi siate assistiti da un Sacerdote che, non sapendo la formula dell’assoluzione, vada per il Rituale, e voi frattanto moriate. Così avvenne ad un infelice, che dalle piume saltò alle fiamme; permetterà che il Sacerdote si scordi di darvi l’assoluzione, così occorse in Firenze ad un cavaliere da me conosciuto e non di buona vita. Che tramortifica prima d’assolvervi, così avvenne nella città di Perugia ad un Ecclesiastico. Permetterà che il Sacerdote si dimentichi affatto delle parole necessarie: Ego te absolvo, così avvenne in Torino. Che un’ignorante di prima classe creda non potervi assolvere, così accadde ad un scellerato in Firenze; permetterà, che il Sacerdote venuto alla vostra casa non possa per qualche accidente entrare in camera, così appunto successe ad una donna in Ascoli, e morì senza Confessione. Questi e simili casi permetterà Iddio, che intervengano nella persona di chi vuole indugiare la sua conversione. – Olà, peccatori miei dilettissimi, non vorrei che faceste come il leone, che per non atterrirsi, non vuol guardare all’armi de’ cacciatori; guardate, e guardate bene in quanti modi vi può colpire la Giustizia Divina. Ma su via, voglio che abbiate la sorte di confessarvi, e per questo, che speranza avrete della vostra salute, mentre questa vostra confessione non sarà dissimile a tante altre, nelle quali non avevate dolore vero de’ vostri peccati, sarà simile a quella d’un infelice scolaro narrata da Fra Bernardino da Busti; dice egli, come un infelice scolaro, che più che le scienze, studiava vizi, venne a morte, e tra lacrime e sospiri passò con gli ultimi Sacramenti, lasciando a tutti una speranza assai viva di sua salute, ma perché  non è tutt’oro quel che riluce, poco dopo gl’apparve miseramente dannato, e disse: morii con segni sensibilissimi di pentimento, ma non furono, poiché io non piansi i peccati commessi, ma i gusti, che dovevo perdere, e sappiate che troppo male l’intendono quelli i quali pongono le loro speranze nelle ultime confessioni, essendomi io dannato per non aver avuto dolore, né proposito. Che dite? che fate? che risolvete? Si badi lasciare ancor la mala vita, mentre toccate con mano che se giungerete in tal stato al capezzale, neppur potrà, quali dissi, giovarvi la Confessione. – Padre, Padre, voi mi dite, se non riuscisse far la confessione prima di spirare, si può fare un atto di contrizione, che supplisce a tutto, e basta sia fatto un momento prima di spirare. Un atto di contrizione? E che vi par di dire, o peccatori, quando dite un atto di contrizione? Bisogna che voi v’immaginiate che tanto sia fare un atto di contrizione quanto leggerlo in una cartina stampato. Fare un atto di contrizione, vuol dire dolersi con un dolore il maggiore di tutti i dolori, non dico sensibili, ma apprezzativi de’ vostri peccati. E voi vi tenete in pugno questo dolore, quando in vostra vita sol vi siete doluto di non aver potuto far più peccati? Far un atto di contrizione? Vuol dire avere un proposito di voler patire mille morti, prima che tornare a peccare. E voi vi tenete in pugno questo proposito, mentre in vostra vita non avete fatto altri propositi, che di sfogar le vostre passioni? Fare un atto di contrizione, vuol dire pentirsi d’aver offeso Iddio, non già per timor dell’inferno, non per perdita di Paradiso, non per bruttezza di peccato, ma solo per aver offeso Lui Sommo Bene, e che merita d’esser infinitamente amato. E voi vi tenete in pugno questo pentimento, per puro amor di Dio, mentre in vostra vita non avete fatto che voltar le spalle a Dio, per interesse, per odii, per amori? Voi un atto di contrizione in morte, che mai l’avete fatto in vita? Fare un atto di contrizione vuol dire amare Iddio sopra ogni cosa, e voi ve lo tenete in pugno, mentre in vita avete amato più le ricchezze, che Dio, più gli onori che Dio, più colei che Dio, più colui che Dio! Eh mi meraviglio di voi. –  Se io vi dicessi, allorché sarete moribondi: figlio, per salvarti, bisogna fare un atto di contrizione in lingua greca, voi mi rispondereste, non è possibile, perché mai ho imparato questo linguaggio e voi vorrete far un atto d’amor di Dio in morte, quando mai l’amaste in vita? Ohime, vi piango perduti! E voi sento mi rispondete: non ci vogliamo disperare, perché se non potremo fare questo atto di contrizione, e non avremo lingua da confessarci; sappiamo che alla morte bastano i cenni, basta un chinar di testa, un calar di palpebra, uno stringer di mano, un battersi il petto, questo è d’avanzo, perché in quel punto ci sia data l’assoluzione di qualsivoglia
scelleraggine. Certo, da qualsivoglia Sacerdote; certo! E dove è l’Imperatore Ottone Terzo di questo nome, il quale per rimanere assolto d’una privata ingiustizia accettò da San Romualdo di pellegrinare a piedi nudi al Monte Gargano, ed ivi per un’intera Quaresima vestir sacco, digiunar con rigore, dormire in terra? Dove è quel gran Pacomio, che caduto in disonestà, vuole con suo sommo rossore palesarlo in uno de’ Concili più nobili di Toledo? Dove è quella Fabiola gran Principessa Romana, la quale violata una ordinazione Ecclesiastica, volle con sommo rossore accusarsene sulle porte del Laterano? Se voi foste presenti, vorrei dirvi che potevate aspettare agli ultimi fiati di vostra vita, ed allora ottenere con un sol cenno, quello che tanto vi costò. Olà, olà mi muovo a compassione di non pochi che ignoranti di questa bella dottrina, che bastano i cenni, intraprendano grandi fatiche, aspre penitenze; Fermatevi voi pellegrini che con croci in spalla vi portate al riverito santuario di Loreto; fermatevi o voi che volete con tanto disagio passare a San Giacomo di Galizia, e con tanti pericoli a’ luoghi di Terra Santa; basta che chiniate la testa prima di morire, che stringiate le mani al Sacerdote per ottenere intiera l’assoluzione delle vostre colpe; bastano i cenni, sì, ma non basta, perché questa si confermi da Dio, vi vogliono l’interne disposizioni di dolore e di proposito. E come è possibile che chi ha bevuto l’iniquità come l’acqua, e che chi si pente sol perché non può vivere, l’abbia? Mutate parere, perché questi vostri disegni alla morte non vi riusciranno. Uditemi. Tre sorte di morte si danno e non più: in due è certissima la vostra dannazione, nell’altra è quasi indubitata se a quel tempo riducete la vostra conversione. Se la morte vi viene all’improvviso da un accidente, da un catarro, da una percossa, da una caduta, è finita, siete dannato, perché siete in peccato mortale. Se poi la vostra morte viene con un mal furioso, o di sconvolgimenti di stomaco, o di dolori di viscere, o di spasimi di testa, o simili, voi ben vedete che non potrete applicare ad un negozio di tanta importanza e fuori di voi, senza Confessione vi perderete. –  Che se poi la morte venisse con principii di male assai tenue, sicché vi lasciasse libera la testa, per pensare alle vostre colpe, sciolta la lingua da confessarle, e spiritoso il cuore a dolervene; voi siete in peggiore stato di convertirvi, per che mai vi darete ad intendere, né vorrete credere, che una tale infermità debba portarvi all’altra vita, e per ciò mai vi ci preparerete; farete a guisa d’un pigro viandante, il quale non potendo passare un torrente gonfio di molte acque, ne’ suoi principii va sempre irresoluto, tra se dicendo, le passerò più giù, le passerò più giù, e finalmente deluso, quando delibera di passarlo, non ne trova più il varco. Oltre che, credete voi forse che il demonio, il quale fino a quel tempo avrà goduto il possesso dell’anima vostra felicissimamente per i tanti vostri e gravi e continuati peccati, ha poi per lasciarvi nel più bello, e che gli scappiate dalle granfie? Appunto egli farà con voi ciò che suol farsi nelle ultime giornate campali allorché si viene a guerra finita, non si lascia veruno a quartiere, tutti a combattere, e perché? Perché quella è l’ultima giornata in cui se si perde non vi è più speranza di vincere, e se si vince non vi è più paura di perdere; e però allor si fanno le ultime prove. Così appunto interviene alla nostra morte; sa l’inferno che da quel punto dipende tutto, e però, che non farà allora lucifero? Sapete: ve lo dice il Signore nell’Apocalisse. Descendit ad vos diabolus babens iram magnam, sciens quia modicum tempus habet … vi verrà al letto con una furia e rabbia incredibile, perché sa che ha poco tempo, e se vi perde, è finita. Chiamerà dunque allora tutte le furie d’inferno perché v’assaliscano, v’assalirà con tentazioni di fede, v’assalirà con tentazioni di vendetta, di disonestà, saprà ben’egli rappresentarvi quei balli, quelle veglie, quegli affetti, colui, colei, e vi farà cadere in uno di quei pensieri laidi ai quali avete per l’addietro sempre dato libero l’adito nella mente, certo l’assenso nel cuore. Che rispondete a queste verità? Ecco la risposta troppo confidenziale, se non abbandonate il peccato. In quel punto il Signore mi aiuterà … no! Perché troppo spesso vi siete a Lui ribellati, dopo confessati, dopo avervi di nuovo data la sua grazia; no! Perché son mesi, son anni, che amorosamente vi chiama, che ritorniate alla sua obbedienza, e voi restii non l’ubbidiste; onde Egli farà con voi come si suole con le città ribelli, che non arrendendosi alle chiamate, si manda tutto a ferro e fuoco. No, che non v’aiuterà, perché vedrà che voi ricorrete a Lui non per amore, ma per forza, e vi risponderà, come il gran capitano Jefte rispose agli Ismaeliti: Nonne vos estis, qui odistis me, et dejecistis, nunc venistis, necessitate compulsi; voi (dirà Iddio) m’avete finora odiato, m’avete scacciato con amori con odii, con bestemmie, ed or mi chiamate; non voglio venire, siete forzati, non lo fate di cuore; no, che non vi aiuterà, anzi sentite ed inorridite: vi abbandonerà, di tanto si dichiara per il Profeta reale, mentre, se non vi risolvete a penitenza; udite le parole: Convertentur ad vesperas, famem patientur ut canes; Costoro che tante volte furono da me chiamati a penitenza, e mai si risolsero a farla bene, ora che la vorrebbero fare al capezzale, famem patientur ut canes faranno trattati da cani. Come si trattano i Cani? gli si danno gli avanzi, il peggio; voi avete voluto dare il meglio della vostra vita agli spassi, alle bettole, ai giuochi, alle usure, alle lascivie, e trattar me da cane, dandomi gl’avanzi della vostra vita, ed Io voglio trattar da cani voi, vi metterò una catena alle mani ed ai piedi e vi legherò eternamente nell’inferno: Ligatis manibus pedibus projicite cum in tenebras exteriores. Tanto provò quell’infelice cortigiano, di cui ne porta il funesto successo l’Eminentissimo Baronio ne’ suoi Annali. – Un predicatore apostolico della minima mia Compagnia, predicando la Quaresima in Digiure Città di Borgogna, atterrì tutta l’udienza con un caso formidabile, a cui accrebbe gran credito il Padre guardiano de’ Cappuccini, che nello scendere il predicatore dal pulpito, gli presentò il padre suo compagno, dicendo: eccovi o Padre un testimonio di veduta, e che fu spettatore dell’orribile tragedia. Uditela anche voi, miei uditori, con eguale spavento, ed utile. In un villaggio di Borgogna, un cavaliere, che da gran tempo era abituato nel vizio, resisté sempre alle divine ispirazioni, persuadendosi che prima di morire si sarebbe convertito. Iddio, che lungamente l’aveva tollerato, lo buttò finalmente nel letto con gagliarda febbre, ma neppure allora s’induceva a volersi confessare, benché esortato vivamente dal parroco che l’assisteva; quando rivolgendo l’ammalato gl’occhi, vide scritto a caratteri maiuscoli nel cortinaggio quella sentenza d’Isaia: Quærite Dominum dum inveniri potest, cercate il Signore, mentre si può ritrovare. A tal vista, doveva compungersi, eppure maggiormente s’ostinò immaginandosi che fosse invenzione del curato per condurlo alla Confessione; onde è che minacciando, comandò che si levasse via quel cartello, altrimenti avrebbe messo in pezzi e coltri e tendine, e questo v’era. I domestici, ancorché non vedessero niuna scrittura, per quietare il di lui furore, mutarono quelle in altre cortine, nelle quali con maggior prodigio mirò di nuovo l’infermo espresse quest’altre parole del Salvatore: Quæretis me, non invenietis, mi cercherete senza trovarmi; voi vi crederete che a questo spettacolo si ravvedesse il misero? Appunto non fu così; vie più inviperito gridando e bussando e minacciando si protestò, che a loro dispetto non si sarebbe confessato, non essendo egli ragazzo da temere di spauracchi; furono costretti i parenti a cambiar nuovamente la cortina, ma questa mutazione fu un esporgli avanti gl’occhi la terribile sentenza della sua condannazione, imperocché sulla terza cortina comparve figurata a neri caratteri la minaccia di Cristo Giudice: In peccato vestro moriemini, morirete nel vostro peccato. A questa terza veduta arrabbiatosi più che mai, si contorse con impeto e dopo violenti agitazioni spirò l’anima sciagurata, e nello spirare tutta la casa s’agito con orribil terremoto, come se rovinasse da fondamenti; né solo l’anima se ne andò, ma anche il corpo scomparve, portato via, non si seppe da chi, né dove, ma ognuno se lo poté purtroppo immaginare. A sì formidabile spettacolo rimasero gli astanti pieni d’orrore, e molto più quando, per divina rivelazione si seppe la verità di questi monitorii. La moglie restata vedova, ed una figlia che aveva, uscirono da quella funestissima casa, e corsero alle Carmelitane scalze a prendere vita religiosa; il figlio rimasto erede, rinunziate le sue facoltà, vestì l’abito Cappuccino e fu appunto quegli che, terminata la sopradetta predica, testificò il deplorabile avvenimento affinchè: exemplum effet omnium pœna unius. Imparate a non indugiare la penitenza, se non volete esempii, se non così visibili, certo egualmente spaventoli…

LIMOSINA
Voi sapete che gl’indovini per dar la buona o rea ventura, si fanno dar la mano bene stesa ed aperta, e s’ella è ben formata, ed ha le linee della palma lungamente dritte e stese ne sogliono fare augurio di lunga vita; a me, senza dubbio, darebbe l’animo di saper dire certamente, se la vostra vita sarà eternamente lunga, se vi salverete, si o no, e se starete bene anche in questa vita: vitæ quæ nunc est, et future, e non dubitate che io non colga sul segno; perché parlo con lo Spirito Santo, basta che si osservi, se la vostra mano è ben aperta per sovvenir a’ poveri; se così è, voi siete salvi: eleemosina liberat a morte.

SECONDA PARTE

Ho parlato finora contro di quelli che, indugiando la loro conversione di tempo in tempo, finalmente si riducono in pessimo stato alla morte con una quasi certezza di dannazione, ma perché questi sono la minor parte, voglio aprire gl’occhi con un fatto della Sacra Scrittura a quei che procrastinano di tempo in tempo, e vivono tra peccati, dicono: siccome sono uscito dal peccato altre volte, così ne uscirò questa ancora, e con questa debole speranza indugiano a confessarsi. Voi dunque dite così, allorché siete in peccato, e dalla coscienza, e da’ buoni amici siete esortato a confessarvi. Dio m’assisterà con la sua santissima grazia, come ha fatto altre volte, dandomi forza d’uscire dal peccato; piano, piano, perché questo è un paralogismo: ve l’ha data altre volte … dunque ve la darà sempre? Nego, nego, la conseguenza non tiene, e se non lo credete, udite. Voi ben sapete che Sansone s’era buttato nelle braccia di Dalila meretrice, la quale subornata da’ Filistei, procurò di sapere l’origine della gran robustezza di Sansone per potergliela togliere, e così darlo nelle mani nemiche. Ecco che un giorno, tutta alla domestica, domanda Dalila a Sansone: dimmi, se m’ami, d’onde mai in te tanta robustezza, sicché niuno possa abbatterti? È facile, rispose Sansone, basterebbe legarmi con sette nervi umidi, ed eccomi debole al par degl’altri; non cercò più la rea femmina; procura da’ Filistei questi lacci, e fintasi tutt’amore verso Sansone, gli riesce legarlo, e legatolo grida: a te Sansone, ecco i Filistei Philistin super te Sanson; Sansone scuote le braccia e a guisa di sottil filo di canapa, spezza quelle funi di nervo; Dalila vedendosi svergognata nell’impresa, si lamenta con Sansone, Ecce illusisti mihi, non posso credere che m’ami, se non mi confidi i tuoi segreti; dimmi dunque, e d’onde a te deriva tanta robustezza? questa mi si toglie, risponde Sansone, allorché io sia legato con funi del tutto nuove; e Dalila lo stringe con corde nuove, ed ella stessa grida: Philistiin super te Sanson, e Sansone con un solo divincolamento di persona, ruppe quelle corde come se fossero stati tenuissimi spaghi; Dalila di nuovo fa l’adirata, e poi di nuovo lo prega a compiacerla, che gli dica, dove veramente consista il fondo della di lui forza; Sansone le dice: per dirtela, se vuoi togliermi ogni forza, conviene inchiodarmi per i capelli nel pavimento; Dalila l’inchioda, e poi alza le voci: Philistiin super te Sanson, e Sansone, con un’alzata sola di capo, cava quel gran chiodo dal pavimento come altri farebbe un piccolo fuscelletto dall’arena. Or qua miei uditori, già v’ho narrato il fatto, nel quale voi m’avete a dire, se ravvisate più l’amore, o la pazzia di Sansone, voi mi rispondete: che l’amore è cieco, e perciò aveva condotto ad una sì gran pazzia Sansone, il quale quantunque vedesse apertamente il tradimento, ad ogni modo non sapeva abbandonare quella rea femmina, che lo voleva morto. Né qui si ferma l’infame amore ma nuovamente con lusinghe interrogato, gli scopre la verità e gli dice: tutta la mia forza consiste nella mia capigliatura; Dalila subito richiama i Filistei, lusinga l’amante, fa  che gli si addormenti nelle ginocchia, prende le forbici, taglia i capelli, lo scuote, lo gitta da sé, lo butta nelle mani de’ nemici, e poi grida: Philistiin super te Sanson … Sansone si desta, e stimando di riscuotersi come prima da quelle insidie, dice nel suo cuore: Egrediar sicut antea feci, gli scapperò dalle mani, ma non fu così, perché recesserat ab eo Dominus, onde legato, accecato e strascinato vi perde la vita. Or, cari miei Uditori, come si portò tanta ruina a Sansone, non per altro se non perché era scappato altre volte, perché s’era liberato altre volte: Egrediar sicut antea feci. – Questo paralogismo lo tradì, e questo tradisce la maggior parte degl’uomini. Intendete: la verrà giorno in cui Iddio v’abbandonerà, Dominus recedet … vedete quanto diversamente io discorra da voi; voi dite, che perché Iddio v’ha fatta la grazia altre volte, ve la farà anche adesso; ed io vi dico, che quanto più ve l’ha fatta, tanto più è difficile che l’abbiate un’altra volta. Giovane, uomo, tu hai scampata la morte e del corpo e dell’anima trovato da’ rivali in quella casa; non dire, l’ho scampata una volta, la scamperò la seconda! Donna t’è riuscito una volta mancar di fede senza pericolo, non ti riuscirà; ti sei confessata bene, non tornare, perché Dominus recedet

QUARESIMALE (XII)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – “AD EXTREMIS ORIENTIS ORAS”

In questa Enciclica il Santo Padre, volendo favorire l’espansione dell’annunzio evangelico alle Indie orientali, invita i Vescovi di quelle diocesi particolari a formare Sacerdoti locali, conoscitori delle lingue e dei costumi del popolo in cui sono vissuti e vivono, così da essere accettati di buon grado dai loro conterranei a preferenza degli ecclesiastici europei. Questi sforzi sono stati coronati nel tempo da notevoli successi nella diffusione del Cattolicesimo autentico nel continente asiatico e particolarmente nell’area indocinese, nonostante gravi difficoltà di ogni tipo, le persecuzioni di governi atei ed ostili, le organizzazioni occulte e le false religioni e sette. Questi successi nello stabilire la Religione cattolica in quelle aree lontane sono oggi purtroppo largamente svaniti, grazie all’infiltrazione della setta modernista postconciliare che ha radicalmente stravolto la dottrina, la liturgia, l’officiatura in ogni suo dettaglio, sostituendosi in pratica alla Chiesa di Cristo, e trasformando il suo carapace esterno in una vera sinagoga satanica, vuota di contenuti, priva di grazia santificante e soprattutto priva della possibilità di raggiungere la salvezza eterna. Preghiamo dunque – il pusillus grex – perché, con l’intercessione di S. Tommaso Apostolo, di S. Francesco Saverio e dei Martiri orientali canonizzati, sia quanto prima riportata tra quei popoli e tra tutti i popoli della terra la vera dottrina salvifica cristiana purgata dalle mille eresie vomitate dal conciliabolo cosiddetto Vaticano secondo e dagli antipapi che si sono succeduti in una lugubre catena guidata da lucifero, catena tuttora in corsa vertiginosa verso lo stagno di fuoco, ove finiranno, come annunziato nel Libro dell’Apocalisse, la bestia ed i suoi adepti, i falsi profeti vaticani con i loro “allegri” seguaci, ed il dragone antico schiacciato dal calcagno della Vergine Maria.

Leone XIII
Ad extremas Orientis oras

Lettera Enciclica

Istituzione di collegi per chierici nelle Indie orientali

24 giugno 1893

Alle più lontane regioni d’Oriente, esplorate con successo dai valorosi portoghesi, alle quali tanti cercano di giungere ogni giorno per esercitarvi i loro ricchi commerci, Noi pure, mossi da una speranza assai più alta, fin dall’inizio del Nostro Pontificato abbiamo rivolto la mente e il pensiero. – Si presentano al Nostro animo e suscitano in Noi un sentimento di amore quegli immensi spazi delle “Indie”, nei quali, da tanti secoli ormai, si esercita la fatica degli annunciatori dell’Evangelo, E fra i primi viene in mente il beato Apostolo Tommaso, che a buon diritto è considerato l’autore della prima proclamazione dell’Evangelo agli indiani; e così pure Francesco Saverio che, per lungo tempo, si dedicò con ardore alla medesima opera gloriosa, riuscendo, grazie alla sua incredibile costanza e carità a convertire centinaia di migliaia di indiani dai miti e dalle superstizioni impure del bramanesimo alla fede della retta Religione. Successivamente, seguendo le tracce di quel grande Santo, molti appartenenti ad entrambi gli Ordini del clero, inviati con l’autorità della Sede Apostolica, hanno tentato con dedizione e tentano tuttora di difendere e promuovere le sacre verità e le istituzioni cristiane che Tommaso portò laggiù e che Saverio rinnovò. Tuttavia, in una così vasta distesa di terre quanto grande moltitudine di mortali è ancora lontana dal vero, immersa nelle tenebre di una deplorevole superstizione! Quanto terreno vi è, soprattutto verso settentrione, che potrebbe accogliere il seme dell’Evangelo, ma che non è stato ancora in nessun modo predisposto. Considerando queste cose nel Nostro animo, riponiamo sì la più grande fiducia nella benignità e nella misericordia di Dio nostro Salvatore, Che è il solo a conoscere quando i tempi sono opportuni e maturi per diffondere la sua luce e che vuole sospingere le menti degli uomini sul retto cammino della salvezza col segreto soffio del celeste Spirito: ma pure, per quanto sta in Noi, vogliamo e dobbiamo dare il nostro contributo affinché sì gran parte del mondo avverta qualche frutto delle Nostre veglie. Con questo proposito, facendo attenzione se mai in qualche modo fosse possibile ordinare in maniera più adeguata e accrescere lo stato della Religione cristiana nelle Indie orientali, abbiamo preso con felice successo alcuni provvedimenti destinati a giovare in futuro alla sicurezza del Cattolicesimo. Innanzitutto per quanto concerne il protettorato portoghese sulle Indie orientali, abbiamo sancito un patto solenne, con scambio di reciproche assicurazioni, col re fedelissimo di Portogallo e Algarve, E in seguito a ciò, tolte di mezzo le cause delle contese, sono cessati quei noti dissidi certamente non lievi che per tanto tempo avevano diviso gli animi dei Cristiani. Inoltre, abbiamo giudicato cosa ormai matura e salutare che dalle singole comunità di Cristiani, che in precedenza avevano obbedito ai vicari o prefetti apostolici, si formassero delle vere e proprie Diocesi, che avessero i loro propri Vescovi e fossero amministrate secondo il diritto ordinario. Perciò, con la lettera apostolica Humanæ,, salutis, del 1° settembre 1886, è stata istituita in quelle regioni una nuova gerarchia, che risulta di otto province ecclesiastiche: quella di Goa, onorata del titolo patriarcale, quella di Agra, di Bombay, di Verapoli, di Calcutta, di Madras, di Pondichery, di Colombo. Infine, tutto ciò che possiamo comprendere che sarà laggiù profittevole alla salvezza e gioverà a incrementare la pietà religiosa e la fede, ci sforziamo costantemente di compierlo per mezzo della Nostra Congregazione per la propagazione della fede cristiana. – Ma tuttavia resta una cosa, dalla quale dipende grandemente la salvezza delle Indie; e ad essa vogliamo che voi, venerabili fratelli, e quanti amano l’umanità e la Religione cristiana, facciate maggiormente attenzione. È evidente che l’integrità della fede cattolica in India è insicura, e incerta ne sarà la diffusione, finché mancherà un clero scelto fra gli “indigeni” bene preparati alle funzioni sacerdotali, che possano non solo essere di aiuto ai Sacerdoti stranieri, ma amministrare rettamente da se stessi la Religione cristiana nei loro Paesi. Si tramanda che proprio questo pensiero assillasse Francesco Saverio che, a quanto si dice, era solito affermare che la Religione cristiana non potrà mai avere salde fondamenta in India, senza l’opera assidua di pii e valorosi Sacerdoti colà nati. E facilmente appare chiaro quanto acuta sia stata in ciò la sua vista. Infatti, l’opera degli evangelizzatori europei è impedita da molti ostacoli, soprattutto dall’ignoranza della lingua locale, di cui è difficilissimo acquisire la conoscenza; e parimenti dalla stranezza delle istituzioni e dei costumi, ai quali non ci si abitua neppure in un lungo periodo di tempo: tanto che di necessità i chierici europei si aggirano colà come in terra straniera. E perciò, dal momento che a fatica la moltitudine si affida a gente straniera, è chiaro che assai più fruttuosa sarà l’opera di Sacerdoti indigeni. A costoro infatti sono ben noti le propensioni, l’indole, i costumi del loro popolo: sanno qual è il momento di parlare e di tacere: infine, Indiani quali sono, si aggirano senza alcuna diffidenza fra gli Indiani: cosa questa di cui è appena il caso di dire qual sia il valore, soprattutto nelle situazioni critiche. – In secondo luogo, bisogna avvertire che i missionari giunti da fuori sono troppo pochi per essere sufficienti a prendersi cura delle comunità cristiane ora esistenti. Questo emerge chiaramente dai registri delle missioni; ed è confermato dal fatto che le missioni indiane non cessano mai di invocare e richiedere insistentemente sempre nuovi annunciatori dell’Evangelo dalla Sacra Congregazione per la propagazione della fede cristiana. E se i Sacerdoti stranieri non sono in grado di prendersi cura delle anime neppure per il presente, come potrebbero farlo in futuro, una volta che fosse aumentato il numero dei Cristiani? E infatti non vi è speranza che cresca in proporzione il numero di quelli che l’Europa invia. Se dunque si desidera provvedere alla salvezza degli Indiani e fondare la Religione cristiana con la speranza che duri a lungo in quelle immense regioni, è necessario scegliere fra gli indigeni coloro che siano in grado di assolvere compiti e doveri sacerdotali, dopo aver ricevuto una diligente preparazione. – In terzo luogo, non si deve trascurare un’eventualità, che certo è assai poco verosimile, ma che pure nessuno potrebbe negare che sia nell’ordine delle cose possibili; che cioè possano capitare, in Europa e in Asia, tempi tali che i Sacerdoti stranieri siano costretti da una violenta necessità ad abbandonare le Indie. E se ciò avvenisse, qualora mancasse un clero indigeno, come potrebbe salvarsi la Religione, non trovandosi alcun ministro dei sacri riti sacramentali né alcun maestro della dottrina? Su ciò è fin troppo eloquente la storia della Cina, del Giappone e dell’Etiopia. Infatti più di una volta in Giappone e in Cina, mentre odii e stragi minacciavano la Religione cristiana, la violenza dei nemici, dopo aver ucciso o cacciato in esilio i Sacerdoti stranieri, risparmiò quelli nativi; e questi, conoscendo a fondo la lingua e i costumi della patria e appoggiati dalle loro parentele e amicizie, poterono non solo rimanere senza danno in patria, ma anche curare il servizio sacro e assolvere liberamente in tutte le province quei compiti che attengono alla guida delle anime. Invece in Etiopia, dove ormai si contavano circa duecentomila Cristiani, non essendovi un clero indigeno, una volta che furono uccisi o cacciati i missionari europei, una improvvisa tempesta di persecuzione distrusse il frutto di una lunga fatica. – Infine, bisogna guardare con attenzione all’antichità, e bisogna conservare con scrupolo gli ordinamenti che vediamo essere riusciti salutari. Ed invero, nell’assolvimento dell’ufficio apostolico, già gli Apostoli ebbero il costume e la regola in primo luogo di istruire le moltitudini con gli insegnamenti Cristiani, e poi di iniziare al servizio sacro alcuni scelti fra i fedeli e innalzarli anche all’episcopato. E i Pontefici Romani, seguendo successivamente il loro esempio, hanno sempre avuto l’usanza di raccomandare ai loro inviati apostolici di sforzarsi in ogni modo di scegliere il clero fra gli indigeni là dove si fosse formata una comunità cristiana sufficientemente ampia. Una volta, dunque, che si sia provveduto alla sicurezza e alla diffusione della Religione cristiana in India, bisogna preparare al sacerdozio gli Indiani, i quali possano adeguatamente compiere i sacri riti sacramentali e porsi a capo dei loro fedeli, quali che siano i tempi che verranno. – Per questo motivo i prefetti delle missioni indiane, per Consiglio ed esortazione della Sede Apostolica, fondarono collegi per chierici, ovunque ne ebbero la possibilità. Anzi, nei sinodi di Colombo, Bangalore, Allahabad, tenuti all’inizio del 1887, si è decretato che ogni singola diocesi abbia il suo proprio seminario per l’istruzione degli indigeni; e qualora qualcuno fra i Vescovi suffraganei non possa avere il suo per mancanza di mezzi, offra il vitto a sue spese ai chierici della diocesi nel seminario metropolitano. Codesti salutari decreti i Vescovi si sforzano di tradurli in atto in proporzione delle loro forze: ma si pongono di traverso ad ostacolare la loro straordinaria volontà le ristrettezze economiche e la penuria di Sacerdoti idonei che presiedano agli studi e guidino con sapienza l’insegnamento. Perciò vi è appena qualche seminario, o neppure quello, in cui l’istruzione degli alunni si possa ritenere completa e perfetta: e ciò in questa epoca in cui non pochi governi civili e protestanti non risparmiano nessuna spesa e nessuna fatica al fine di fornire a tutta la gioventù un’educazione accurata e raffinata. Si vede dunque assai chiaramente quanto sia opportuno e quanto sia conveniente al pubblico bene, fondare nelle Indie orientali dei collegi, in cui i giovani abitanti che crescono per la speranza della Chiesa ricevano una completa formazione culturale e siano formati a quelle virtù senza le quali non si potrebbero né santamente né utilmente esercitare i sacri Ministeri. Una volta rimossa la causa delle discordie con gli accordi stipulati, e ordinata l’amministrazione delle diocesi per mezzo della Gerarchia ecclesiastica, se Ci sarà lecito provvedere acconciamente alla formazione dei chierici come ci siamo proposti, Ci sembrerà di avere portato a compimento l’opera intrapresa. Una volta fondati infatti, come abbiamo detto, i seminari per i chierici, vi sarebbe la sicura speranza che di lì verrebbero in gran copia dei Sacerdoti idonei, i quali spanderebbero ampiamente il lume della loro dottrina e della loro pietà, e nel diffondere la verità dell’Evangelo eserciterebbero con competenza il ruolo fondamentale richiesto dal loro zelo. – Ad un’opera così nobile e per di più destinata ad apportare salvezza ad un’infinita moltitudine di uomini, è giusto che gli europei rechino un qualche contributo; soprattutto perché da soli non possiamo far fronte a così grandi spese. È dovere dei Cristiani tenere in conto di fratelli tutti gli uomini, ovunque essi vivano, e non ritenere nessuno fuori dal raggio del loro amore; e tanto più in quelle cose che riguardano la salvezza eterna del prossimo. Perciò vi preghiamo ardentemente, venerabili fratelli, di volere aiutare con i fatti, per quanto sta in voi, il Nostro proposito e i Nostri tentativi. Fate in modo che divenga a tutti nota la situazione della comunità cattolica in quelle così lontane regioni; fate sì che tutti capiscano che occorre fare, qualche tentativo a favore delle Indie; e questa sia la convinzione soprattutto di coloro che ritengono che il miglior frutto del denaro sia la possibilità di servire alla beneficenza. – Sappiamo per certo di non aver implorato invano il generoso zelo dei vostri popoli. Se la liberalità andrà al di là delle spese necessarie per i suddetti collegi, tutto quello che avanzerà del denaro raccolto faremo in modo che venga impiegato in altre iniziative utili e pie. Come auspicio dei doni celesti e testimonianza della Nostra paterna benevolenza, impartiamo con il più grande amore l’apostolica benedizione a voi, venerabili fratelli, al vostro clero e al vostro popolo,

Roma, presso S. Pietro, 24 giugno 1893, anno sedicesimo del nostro pontificato.

DOMENICA II DI QUARESIMA (2023)

DOMENICA II DI QUARESIMA (2023)

Stazione a S. Maria in Domnica

Semidoppio. – Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

La Stazione a Roma si tiene nella chiesa di S. Maria in Domnica, chiamata così perché i Cristiani si riunivano, in altri tempi, la Domenica nella casa del Signore (Dominicum). Si dice che S. Lorenzo, distribuisse lì i beni della Chiesa ai poveri. Era una delle parrocchie romane del v secolo. Come nelle Domeniche di Settuagesima, di Sessagesima e di Quinquagesima, i testi dell’Ufficiatura divina formano la trama delle Messe della 2a, 3a, e 4a Domenica di Quaresima. – Il Breviario parla in questo giorno del patriarca Giacobbe che è un modello della più assoluta fiducia in Dio in mezzo a tutte le avversità. Assai spesso la Scrittura chiama il Signore, il Dio di Giacobbe o d’Israele per mostrarlo come protettore. « Dio d’Israele, dice l’Introito, liberaci da ogni male ». La Chiesa quest’oggi si indirizza al Dio di Giacobbe, cioè al Dio che protegge quelli che lo servono. Il versetto dell’Introito dice che « colui che confida in Dio non avrà mai a pentirsene ». L’Orazione ci fa domandare a Dio di guardarci interiormente ed esteriormente per essere preservati da ogni avversità ». Il Graduale e il Tratto supplicano il Signore di liberarci dalle nostre angosce e tribolazioni » e « che ci visiti per salvarci ». Non si potrebbe meglio riassumere la vita del patriarca Giacobbe che Dio aiutò sempre in mezzo alle sue angosce e nel quale, dice S. Ambrogio, « noi dobbiamo riconoscere un coraggio singolare e una grande pazienza nel lavoro e nelle difficoltà » (4° Lez. Della 3° Domenica di Quaresima).  – Giacobbe fu scelto da Dio per essere l’erede delle sue promesse, come prima aveva eletto Isacco, Abramo, Seth e Noè. Giacobbe significa infatti « soppiantatore »: egli dimostrò il significato di questo nome allorché prese da Esaù il diritto di primogenitura per un piatto di lenticchie e quando ottenne per sorpresa, la benedizione del figlio primogenito che il padre voleva dare a Esaù. Difatti Isacco benedì il figlio più giovane dopo aver palpato le mani che Rebecca aveva coperte di pelle di capretto e gli disse: « Le nazioni si prosternino dinanzi a te e tu sii il signore dei tuoi fratelli ». Allorquando Giacobbe dovette fuggire per evitare la vendetta di Esaù, egli vide in sogno una scala che si innalzava fino al cielo e per essa gli Angeli salivano e discendevano. Sulla sommità vi era l’Eterno che gli disse: « Tutte le nazioni saranno benedette in Colui che nascerà da te. Io sarò il tuo protettore ovunque tu andrai, non ti abbandonerò senza aver compiuto quanto ti ho detto. Dopo 20 anni, Giacobbe ritornò e un Angelo lottò per l’intera notte contro di lui senza riuscire a vincerlo. Al mattino l’Angelo gli disse: « Tu non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele (il che significa forte con Dio), perché Dio è con te e nessuno ti vincerà » (Il sacramentario Gallicano -Bobbio- chiama Giacobbe « Maestro di potenza suprema »).Giacobbe acquistò infatti la confidenza di suo fratello e si riconciliò con lui.Nella storia di questo Patriarca tutto è figura di Cristo e della Chiesa. – La benedizione, infatti, che Isacco impartì a suo figlio Giacobbe — scrive S. Agostino — ha un significato simbolico perché le pelli di capretto significano i peccati, e Giacobbe, rivestito di queste pelli, è l’immagine di Colui che, non avendo peccati, porta quelli degli altri » (Mattutino). Quando il Vescovo mette i guanti nella Messa pontificale, dice infatti, che « Gesù si è offerto per noi nella somiglianza della carne del peccato ». « Ha umiliato fino allo stato di schiavo, spiega S. Leone, la sua immutabile divinità per redimere il genere umano e per questo il Salvatore aveva promesso in termini formali e precisi che alcuni dei suoi discepoli « non sarebbero giunti alla morte senza che avessero visto il Figlio dell’uomo venire nel suo regno » cioè nella gloria regale appartenente spiritualmente alla natura umana presa per opera del Verbo: gloria che il Signore volle rendere visibile ai suoi tre discepoli, perché sebbene riconoscessero in lui la Maestà di Dio, essi ignoravano ancora quali prerogative avesse il corpo rivestito della divinità (3° Notturno). Sulla montagna santa, ove Gesù si trasfigurò, si fece sentire una voce che disse: « Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo ». Dio Padre benedì il suo Figlio rivestito della nostra carne di peccato, come Isacco aveva benedetto Giacobbe, rivestito delle pelli di capretto. E questa benedizione data a Gesù, è data anche ai Gentili a preferenza dei Giudei infedeli, come essa fu data a Giacobbe a preferenza del primogenito. Così il Vescovo mettendosi i guanti pontificali, indirizza a Dio questa preghiera« Circonda le mie mani, o Signore, della purità del nuovo uomo disceso dal cielo, affinché, come Giacobbe che s’era coperte le mani con le pelli di capretto ottenne la benedizione del padre suo, dopo avergli offerto dei cibi e una bevanda piacevolissima, cosi, anch’io, nell’offrirti con le mie mani la Vittima della salute, ottenga la benedizione della tua grazia per nostro Signore ».Noi siamo benedetti dal Padre in Gesù Cristo; Egli è il nostro primogenito e il nostro capo; noi dobbiamo ascoltarlo perché ci ha scelti per essere il suo popolo. « Noi vi preghiamo nel Signore Gesù, dice S. Paolo, di camminare in maniera da progredire sempre più. Voi conoscete quali precetti io vi ho dati da parte del Signore Gesù Cristo, perché Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione in Gesù Cristo Signor nostro » (Epist.). — In S. Giovanni (I, 51) Gesù applica a se stesso l’apparizione della scala di Giacobbe per mostrare che in mezzo alle persecuzioni alle quali è fatto segno, Egli era continuamente sotto la protezione di Dio e degli Angeli suoi. « Come Esaù, dice S. Ippolito, medita la morte di suo fratello, il popolo giudeo congiura contro Gesù e contro la Chiesa. Giacobbe dovette fuggirsene lontano; lo stesso Cristo, respinto dall’incredulità dei suoi, dovette partire per la Galilea dove la Chiesa, formata di Gentili, gli è data per sposa ». Alla fine dei tempi, questi due popoli si riconcilieranno come Esaù e Giacobbe.La Messa di questa Domenica ci fa comprendere il mistero pasquale che stiamo per celebrare. Giacobbe vide il Dio della gloria, gli Apostoli videro Gesù trasfigurato, presto la Chiesa mostrerà a noi il Salvatore risuscitato.

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XXIV:6; XXIV:3; XXIV:22

Reminíscere miseratiónum tuarum, Dómine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominéntur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.

[Ricordati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai trionfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]

Ps XXIV:1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam.

[A te, o Signore, ho levato l’anima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Reminíscere miseratiónum tuarum, Domine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominentur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.

[Ricordati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai triònfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Orémus.

Deus, qui cónspicis omni nos virtúte destítui: intérius exteriúsque custódi; ut ab ómnibus adversitátibus muniámur In córpore, et a pravis cogitatiónibus mundémur in mente.

[O Dio, che ci vedi privi di ogni forza, custodíscici all’interno e all’esterno, affinché siamo líberi da ogni avversità nel corpo e abbiamo mondata la mente da ogni cattivo pensiero.]

LECTIO

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Thessalonicénses.

1 Thess IV: 1-7.

“Fratres: Rogámus vos et obsecrámus in Dómino Jesu: ut, quemádmodum accepístis a nobis, quómodo opórteat vos ambuláre et placére Deo, sic et ambulétis, ut abundétis magis. Scitis enim, quæ præcépta déderim vobis Per Dominum Jesum. Hæc est enim volúntas Dei, sanctificátio vestra: ut abstineátis vos a fornicatióne, ut sciat unusquísque vestrum vas suum possidére in sanctificatióne et honóre; non in passióne desidérii, sicut et gentes, quæ ignórant Deum: et ne quis supergrediátur neque circumvéniat in negótio fratrem suum: quóniam vindex est Dóminus de his ómnibus, sicut prædíximus vobis et testificáti sumus. Non enim vocávit nos Deus in immundítiam, sed in sanctificatiónem: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

[“Fratelli: Vi preghiamo e supplichiamo nel Signore, che, avendo da noi appreso la norma, secondo la quale dovete condurvi per piacere a Dio, continuiate a seguire questa norma, progredendo sempre più. Poiché la volontà di Dio è questa: la vostra santificazione: che vi asteniate dalla fornicazione, che ciascuno di voi sappia possedere il proprio corpo nella santità e nell’onestà, e non seguendo l’impeto delle passioni, come fanno i pagani che non conoscono Dio; che nessuno su questo punto soverchi o raggiri il proprio fratello: che Dio fa vendetta di tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e dichiarato. Dio, infatti, non ci ha chiamati all’immondezza, ma alla santità: in Cristo Gesù Signor nostro”]

L’ONORE CRISTIANO.

C’è nell’epistola d’oggi una parola che colpisce: l’appello all’onore. Se ne fa tanto commercio, tanto uso ed abuso di questa parola nella letteratura e nella vita mondana. Il mondo considera un po’ l’onore come una sua scoperta, o, almeno, come un suo monopolio. L’onore è nel mondo, o si crede sia, il surrogato laico del dovere. Noi Cristiani, secondo questo modo assai diffuso di vedere, avremmo il dovere, la coscienza; il mondo avrebbe, lui, l’onore. Più trascendentale il primo, più concreto il secondo. E onore vuol dire un nobile senso della propria dignità, un cominciar noi ad avere per noi quel rispetto che pretendiamo dagli altri. – Ebbene San Paolo parla di onore come di un dovere ai primi Cristiani, ai Cristiani d’ogni generazione, come parla di santità. Dio ci vuol santi e noi dobbiamo diventarlo sempre di più come numero e come intensità. « Hæc et voluntas Dei sanctificatio vestra ». Di questa santità l’Apostolo specifica due elementi: purezza e carità, una carità assorbente e riassorbente in sé la giustizia. Purezza! e la purezza è il rispetto al proprio corpo, è la dignità della nostra condotta umana anche nel momento in apparenza più brutale della nostra vita. – C’è chi si lascia degradare nel suo corpo, dalle ignobili passioni, dai miseri istinti di esso; ma c’è chi solleva e nobilita tutto questo: c’è chi possiede e domina nobilmente l’« io » inferiore e animale: trascinarlo in alto, umanizzarlo, divinizzarlo anche. È  una novità. I pagani non le pensano neppure queste belle, grandi cose, tanto sono lontani dal farle. Hanno evertito Dio, poveri pagani! È stata la prima forma di avvilimento e il principio funesto di tutte le altre. Mancò il punto a cui rifarsi, quasi sospendersi, e si rotolò in basso. San Paolo esprime lo schifo, il ribrezzo dei costumi pagani, corrotti e crudeli. Sono le due forme di bestialità su cui egli insiste e dalle quali scongiura i Cristiani di guardarsi, suggerendo le formule dell’onore: custodire onorato anche il proprio organismo, custodendolo santo. « Mori potius quam fœdari: » morire prima di disonorarsi, la cavalleresca formula ci torna alla memoria come una formula di sapore e di origine cristiana. L’onore non è più una convenzione, un quid di cui sono in qualche modo arbitri gli altri e che contro gli altri dobbiamo eventualmente difendere, è invece un quid di cui siamo arbitri noi stessi e che dobbiamo difendere contro gli istinti vergognosi degeneranti: difenderlo in nome e per l’onore stesso di Dio. Il mondo non farà che riprendere questa idea dell’onore per falsificarla strappandola al suo ambiente sacro, laicizzandola. Noi siamo i custodi vigili. Sdegnosi, colle opere più che con le parole, proclamiamo il programma: « mori potius quam fœdari ». Non tutto è perduto, nulla è perduto quando è salvo l’onore.

 Graduale

Ps XXIV: 17-18

Tribulatiónes cordis mei dilatátæ sunt: de necessitátibus meis éripe me, Dómine,

[Le tribolazioni del mio cuore sono aumentate: líberami, o Signore, dalle mie angustie.]

Vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea.

[Guarda alla mia umiliazione e alla mia pena, e perdònami tutti i peccati.]

Tractus Ps CV:1-4

Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus.

[Lodate il Signore perché è buono: perché eterna è la sua misericordia.]

Quis loquétur poténtias Dómini: audítas fáciet omnes laudes ejus?

[Chi potrà narrare la potenza del Signore: o far sentire tutte le sue lodi?]

Beáti, qui custódiunt judícium et fáciunt justítiam in omni témpore.

[Beati quelli che ossérvano la rettitudine e práticano sempre la giustizia.]

Meménto nostri, Dómine, in beneplácito pópuli tui: vísita nos in salutári tuo.

[Ricórdati di noi, o Signore, nella tua benevolenza verso il tuo popolo, vieni a visitarci con la tua salvezza.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.

Matt XVII: 1-9

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus Petrum, et Jacóbum, et Joánnem fratrem eius, et duxit illos in montem excélsum seórsum: et transfigurátus est ante eos. Et resplénduit fácies ejus sicut sol: vestiménta autem ejus facta sunt alba sicut nix. Et ecce, apparuérunt illis Móyses et Elías cum eo loquéntes. Respóndens autem Petrus, dixit ad Jesum: Dómine, bonum est nos hic esse: si vis, faciámus hic tria tabernácula, tibi unum, Móysi unum et Elíæ unum. Adhuc eo loquénte, ecce, nubes lúcida obumbrávit eos. Et ecce vox de nube, dicens: Hic est Fílius meus diléctus, in quo mihi bene complácui: ipsum audíte. Et audiéntes discípuli, cecidérunt in fáciem suam, et timuérunt valde. Et accéssit Jesus, et tétigit eos, dixítque eis: Súrgite, et nolíte timére. Levántes autem óculos suos, néminem vidérunt nisi solum Jesum. Et descendéntibus illis de monte, præcépit eis Jesus, dicens: Némini dixéritis visiónem, donec Fílius hóminis a mórtuis resúrgat.”

[In quel tempo Gesù prese con sé Pietro, e Giacomo, e Giovanni, suo fratello, e li menò separatamente sopra un alto monte; e fu dinanzi ad essi trasfigurato. E il suo volto era luminoso come il sole, e le sue vesti bianche come la neve. E ad un tratto apparvero ad essi Mosè ed Elia, i quali discorrevano con lui. E Pietro prendendo la parola, disse a Gesù: Signore, buona cosa è per noi lo star qui: se a te piace, facciam qui tre padiglioni, uno per te, uno per Mosè, e uno per Elia. Prima che egli finisse di dire, ecco che una nuvola risplendente, li adombrò. Ed ecco dalla nuvola una voce che disse: Questi è il mio Figliuolo diletto, nel quale io mi sono compiaciuto: lui ascoltate. Udito ciò, i discepoli caddero bocconi per terra, ed ebbero gran timore. Ma Gesù si accostò ad essi, e toccolli, e disse loro: Alzatevi, e non temete. E alzando gli occhi, non videro nessuno, fuori del solo Gesù. E nel calare dal monte, Gesù ordinò loro, dicendo: Non dite a chicchessia quel che avete veduto, prima che il Figliuol dell’uomo sia risuscitato da morte.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

DOVE E COME GESÙ SI TRASFIGURÒ

Davanti a S. Pietro, a S. Giacomo e a S. Giovanni, Gesù si trasfigurò. Subitamente il suo volto apparve in uno sfolgorio di raggi come il disco del sole, i suoi vestimenti si fecero come neve bianchissima, così che nessun pittore o tintore del mondo potrà renderlo con la sua arte. In quel lume di gloria, a’ suoi lati, vennero Mosè ed Elia e discorrevano con Lui della sua morte di croce ormai imminente. I tre Apostoli udivano le parole dei tre grandi digiunatori di quaranta giorni: le parole del Figlio di Dio che per quaranta giorni e quaranta notti non toccò cibo né bevanda nel deserto; le parole del Legislatore d’Israele che salì sul Sinai fumante e tremante per la presenza dell’Onnipotente ed entrò nella misteriosa nube per quaranta giorni e quaranta notti, le parole del terribile Profeta che, fuggiasco e perseguitato, con un pane ricevuto dall’Angelo, camminò verso la montagna di Horeb quaranta giorni e quaranta notti. Da quello splendore non terreno, da quelle parole non umane, si diffondeva tale una dolcezza nel cuore, che Pietro esclamò: « Signore, che gioia star sempre qui! ». Allora s’udì un comando squillare come una tromba: « Il Figlio d’ogni mia compiacenza è Questo: ascoltatelo! ». Era la voce dell’Eterno, e i discepoli, tremando e adorando, si gettarono bocconi sulla terra, senza più guardare. Ma una mano lieve e una confortevole parola li scosse: « Alzatevi, non temete! ». Pietro, Giacomo e Giovanni aprirono gli occhi sbigottiti, si trovarono davanti Gesù, ma, ora, nel suo dolce aspetto di Figlio dell’uomo. Ecco, o Cristiani, il meraviglioso fatto della trasfigurazione. Ma dove, ma come avvenne? Dove avvenne? sulla cima silenziosa d’un monte. In montem excelsum. Come avvenne? mentre Gesù pregava dum oraret (Lc., IX, 29). Sono due circostanze che dobbiamo raccogliere, perché possono darci insegnamenti utilissimi per l’anima nostra. – IN MONTEM EXCELSUM. a) Nella storia della civiltà umana è evidente una forte aspirazione verso l’alto, e le cime dei monti ne segnano quasi le tappe più importanti. Quando, dopo 150 giorni, le acque del diluvio cominciarono a diminuire, l’arca si posò sul vertice dei monti dell’Armenia. Di là i superstiti all’ira divina discesero a rinnovare il mondo. Quando Iddio volle fare esperimento di Abramo (il più terribile esperimento imposto a cuore d’uomo) lo mandò sul monte: « Prendi, Abramo, l’unico figlio tuo diletto, e sali il monte ch’Io ti mostrerò, ed in vetta me l’offrirai in olocausto ». Quando il Signore volle rivelare il suo Nome agli uomini, apparve in una fiamma di fuoco, di mezzo a un roveto sul monte Horeb. Mosè pasceva le pecore del suo suocero, in quei pressi, lo vide e l’udì. Dalla cima del Sinai, Dio dettò la sua legge eterna: tutta la montagna ardeva come una fornace, ed un suono lungo di tromba annunciava la presenza del Signore. Ed è ancora sul monte che Gesù è salito, per proclamare la nuova legge a commento dell’antica. Sul monte avvenne la moltiplicazione dei pani, sul monte degli olivi avvenne l’agonia, sul monte Calvario la crocefissione. Sul monte l’ascensione al cielo, sul monte Vaticano il cuore della Chiesa. E i gradini dell’altare non simboleggiano forse le balze d’un mistico monte sulla cui vetta posa Gesù nel Saramento? b) L’aspirazione verso le altezze, propria dell’umanità intera, esiste ancora nel cuore di ogni singolo uomo. M. Olier, — narrano i suoi biografi, — spesso sentiva una voce interna mormorargli con soavità imperiosa: « In alto! in alto!». In alto, fin dove? fino a Dio, desiderio dei colli eterni. In alto, fino a trasportare la tua vita umana nella vita divina. E non sentite anche voi, Cristiani, la bramosia di lasciare la valle paludosa dei peccati e delle ingiustizie, per ascendere con Gesù sul monte eccelso? In montem excelsum! « Ma chi mai potrà — esclama Davide — scalare il monte del Signore? » e risponde: « Chi ha mondo il cuore e la mano ». Innocens manibus et mundo corde. Questa innocenza di mani, questa mondezza di cuore, non è altro che la Grazia, la quale abita in ciascun Cristiano che sia senza peccato mortale. Essa è come una fontana che precipita dal cielo in noi, e poi risale fino al cielo portando seco l’anima nostra. Fons aquæ salientis in vitam æternam. Essa è un innesto meraviglioso che trasforma da pianta selvatica e infruttuosa in pianta divina, capace di dar frutti di Paradiso. Essa è come la scala di Giacobbe: chi la possiede in cuore vi può far ascendere fino al trono di Dio tutti i propri pensieri e le proprie azioni. Immaginate due uomini che compiono la medesima azione: ad esempio un segno di croce, un’elemosina; ma l’uno è in grazia, e l’altro no. Davanti agli occhi del mondo nessuna differenza, ma non così davanti agli occhi di Dio. L’azione buona del primo è salita fino alla vita eterna, gli varrà un aumento di felicità in cielo; l’azione del secondo non ha avuto forza per il Paradiso e si è fermata quaggiù. Se tanti Cristiani sapessero la loro ricchezza e la loro grandezza, non rimarrebbero per mesi ed anni, senza rimorso, in disgrazia di Dio! Se tanti Cristiani sapessero la loro ricchezza e la loro grandezza, non così facilmente per un capriccio, per una passione, getterebbero via la Grazia del Signore! In alto il cuore, in alto le mani! trasfiguriamo per mezzo della Grazia i nostri affetti e le nostre azioni. – DUM ORARET. È l’evangelista S. Luca che ricorda come la trasfigurazione di Gesù avvenne proprio mentre pregava. La preghiera, dunque, ha virtù di trasfigurare. Quando Mosè discese dal monte, dopo aver parlato con Dio, dalla sua fronte raggiavano due fasci di luce. E quando la plebe giudea si slanciò furibonda contro il diacono Stefano, egli pregando, apparve ai loro occhi come un Angelo. E quando ancora, a Siracusa, volevano far oltraggio alla vergine Lucia, furono incapaci di smuoverla d’un passo neppure con l’aiuto di validi buoi; poiché ella pregava, il suo corpo era divenuto immobile. E non fu nella preghiera che sulla nuda roccia della Verna S. Francesco ricevette nelle palme delle mani e nelle piante dei piedi e nel costato le piaghe del Signore? E non fu nella preghiera che S. Filippo Neri, nella Pentecoste del 1544, nell’ombra delle catacombe romane, sentì il suo cuore dilatarsi d’amore così che due coste, non valendo più a contenerlo, s’incurvarono? Ora possiamo anche comprendere perché noi non ci trasfiguriamo mai: la nostra mente è sempre tenebrosa di pensieri cattivi e disonesti; il nostro cuore è sempre infangato da rancori, da invidie, da desideri ignobili; la nostra bocca è sempre contaminata da bestemmie, da imprecazioni, da discorsi inverecondi, da mormorazioni, da bugie; le nostre azioni non si staccano mai da terra come i rospi, mai un’elemosina, mai un aiuto disinteressato al prossimo, mai un buon esempio. Ma perché? Perché in noi manca la preghiera a trasfigurarci. Viveva in Damasco un discepolo del Signore, di nome Anania. « Anania! » gli disse il Signore comparendogli in visione, — « levati, e va: nella contrada soprannominata « La diritta » è arrivato un uomo di Tarso di nome Saulo, accecato. Cerca di lui: ecco egli già prega, bisogna donargli la vista ». Anania rispose: « Molti, o Signore, mi hanno parlato di codesto tuo uomo: è un rabbioso persecutore dei tuoi fedeli, e qui in Damasco ha potestà di cacciare in prigione tutti noi ». Ma il Signore replicò: « Non importa, levati e va: ecco già egli prega e da persecutore bisogna trasfigurarlo in Apostolo ». Ed Anania andò, entrò in una casa ove Saulo cieco e persecutore pregava: « Fratello Saulo, mi manda il Signore Gesù a dare la vista a’ tuoi occhi e lo Spirito Santo alla tua anima ». E in quell’istante da’ suoi occhi caddero come delle scaglie e vide; ricevette anche il Battesimo e divenne Apostolo (Atti, IX, 10-19). Oh se una buona volta il Signore vedesse anche noi pregare! pregare spesso, pregare bene! credete forse che gli mancherebbe un Anania da inviarci perché trasfiguri i nostri occhi ciechi davanti alle meraviglie del cielo, e trasfiguri la nostra anima schiava da troppo tempo del demonio? La virtù dell’Altissimo non è diminuita, è la nostra preghiera che è venuta meno. – La voce dell’Onnipotente, che testimoniava per il suo Figliuolo Incarnato, doveva essere tremenda se gli Apostoli, che non avevano avuto timore davanti ad Elia e Mosè, caddero bocconi sulla terra al solo udirla. « Questo è il Figlio d’ogni mia compiacenza: ascoltatelo! ». Ascoltatelo! questa parola passa di secolo in secolo, di generazione in generazione, e questa domenica risuona al nostro orecchio. Ascoltatelo! Che cosa ci dice, ora, il Figlio diletto di Dio? Non altro che queste due cose: « Lascia la valle del peccato salendo in alto nella mia Grazia; trasfigurati con la preghiera ». Ascoltiamolo, dunque! — IL PARADISO. Nella presente vita, anche noi dobbiamo fare quello che ha fatto Gesù con i suoi. Quando i dolori e le disgrazie ci soffocano, quando le tentazioni ci prostrano, e siamo storditi ed esasperati, prendiamo l’anima nostra, conduciamola in alto, facciamole guardare il Paradiso. Le pene si muteranno in gioia. « È tanto il bene che m’aspetto, che ogni pena mi è diletto! » esclamava il Poverello d’Assisi. S. Paolo ci assicura che anche Cristo s’è fatto forte a portar la croce col pensiero del Paradiso. Proposito sibi gaudio sustinuit crucem (Hebr., XII, 2). Così gli Angeli confortarono a morire il martire Timoteo, quando piagato e immerso nella calcina viva, spasimava nell’incendio senza fiamma: « Leva su il capo, — gli dicevano, — e poni mente al Cielo ». Così la gloriosa madre dei Maccabei, dopo il martirio di sei figlioli, confortava l’ultimo suo nato a lasciarsi dilaniare dal tiranno: « Figlio mio ti prego, guarda il cielo » Peto, nate, ut aspicias ad cœlum. (II Macc., VII, 28). Guardiamo anche noi al cielo quest’oggi, che è fatto per noi. Quando riabbasseremo gli occhi, ci sembrerà brutta la terra e sopportabili le penitenze di quaggiù. – 1. CHE COS’È IL PARADISO. S. Agostino aveva deciso di scrivere a S. Gerolamo per domandargli un parere sulla beatitudine del Paradiso. Ma prima che arrivasse la lettera, S. Gerolamo morì. Gli apparve in sogno a dirgli: « Agostino: puoi tu comprendere come si possa chiudere in un pugno tutta la superficie della terra? ». — « No. » — « Puoi tu capire almeno come si possa radunare in un vasetto tutta l’acqua dei mari e dei fiumi? » — « No. » — « E allora non puoi nemmeno capire come mai tanta beatitudine possa entrare nel cuor dell’uomo ». A Bernardetta Soubiroux, dopo aver visto il biancore della veste dell’Immacolata, tutto parve nero. Perfino il sole. Un mercante di stoffe le mostrava alcuni campioni di bianco, cominciando dai meno freschi e lucidi: « Più bianco, » diceva, più bianco ancora! molto più bianco! » Non ne trovò uno che, da lontano almeno, assomigliasse al bianco del vestito di Maria. S. Paolo stesso, dopo aver contemplato Iddio, non seppe balbettare che scarse parole: « Occhio non vide mai! orecchio non udì mai! lingua non disse mai! ». Certo non noi, poveri peccatori, sapremo comprendere di più di questi Santi. Tuttavia, sforziamoci di levare la nostra mente a quel bagliore. Immaginiamo una città, quale la vide S. Giovanni, splendida, d’oro le mura, di gemme le vie; e se tre vi sono, son pietre preziose. Una città senza peccato: niente di inquinato vi può entrare. Come è bello dove non c’è il peccato! nessun disordine mai, mai un furto, mai una bugia, non una calunnia, non una mormorazione; ivi tutti si amano come e più che fratelli. Tutti sono d’un sol cuore, una sola anima, uniti a Dio e uniti tra loro. Per entrare in così bella compagnia, dite, non mette conto di staccarci ora da un compagno cattivo, ritirarsi un poco in solitudine, rinunciare a qualche conversazione pericolosa? Non solo il Paradiso è senza peccato, ma anche è senza le conseguenze del peccato: non malattie; non dolori, non lavori, non la morte, non i rimorsi. « Non ci sarà più la notte, né occorrerà più la lucerna a far luce e neppure il sole: Dio con la sua gioia illuminerà i beati che lo vedranno a faccia a faccia » (Apoc., XXII, 5). Dio asciugherà per sempre gli occhi degli eletti da ogni lacrima: non ci sarà più la morte, più le grida, più il lutto, più il dolore: tutto sarà distrutto e tutto fatto a nuovo ». (Apoc.,, XXI, 4). Il Paradiso è dunque una città senza peccato, e senza le conseguenze del peccato. Ma non basta: là si possiede Dio e Dio ci possiede. Sapete voi che vuol dire possedere Iddio? vuol dire possedere tutti i beni. Mosè aveva detto al Signore: « Mostrami la tua gloria! » E il Signore gli rispose: « Ti mostrerò ogni bene » (Es. XXXIII, 18-19). Avremo tutto, e ricchezze immarcescibili, e onori veraci, e piaceri eterni, e vita senza fine. Non desidereremo più nulla: che se qualcosa d’altro potessimo desiderare  subito ci verrebbe concesso. S. Francesco, il Poverello d’Assisi, crucciato da uno spasimoso dolore di occhi, non poteva dormire; e nella notte, a gran voce, chiedeva un po’ di pazienza. E Dio gli mandò un Angelo con una cetra. Ma come toccò la prima corda col plettro, fu tanta la dolcezza che invase il cuore del Poverello, che supplicò di non suonare più, ché altrimenti sarebbe morto di gioia. S. Pietro vide appena un raggio della luce del Paradiso, nella trasfigurazione e subito dimenticò di mangiare, di bere e ogni cosa pur di rimanere là sempre e contemplare. Questa musica e questa luce noi potremo gustarle eternamente. – 2. COME S’ACQUISTA. La fama di Tommaso d’Aquino varcava le Alpi e in tutta Europa si parlava di lui e de’ suoi libri. Alla sua scuola accorrevano le migliori intelligenze del tempo; mai nessuno aveva parlato come lui, mai nessuno aveva scrutato la scienza di Dio con tale acume di penetrazione. La sorella del Santo, avendo capito la prodigiosa intelligenza del fratello, gli scrisse domandandogli per amore come si possa conquistare il Paradiso. E Tommaso le rispose queste semplici parole: « Con la buona volontà » Davvero. Con la buona volontà nel pregare: Domandatelo e vi sarà dato; cercatelo e l’avrete; picchiate alla sua porta e vi apriranno. Con la buona volontà nel disprezzare le vanità terrene. « Oh come mi sembra brutta la terra, quando penso al cielo! » esclamava frequentemente S. Ignazio. Quando S. Cecilia fu tratta al martirio, il tiranno e il carnefice così la lusingavano :« Cecilia, guarda la tua giovinezza, com’è in fiore! Guarda la beltà de’ tuoi occhi e delle tue chiome! Pensa come andresti felice sposa a un nobile patrizio… Pensa, e risparmiati ». Ma la fanciulla rispose: « Io perdo il fango e trovo l’oro; io cedo un tugurio breve e miserabile e ricevo una reggia immensa come il cielo; io vendo la mia chioma caduca e vana e mi sarà data una capigliatura di raggi di luna e una corona di stelle ». Tugurio miserabile è la terra, fango il nostro corpo, vanità la bellezza e il danaro; una cosa è preziosa grande e bella, una sola: il Paradiso. Con la buona volontà nel superare i pericoli e le fatiche. Alarico, re barbaro, calava in Italia con le sue orde. Quando un monte gli sbarrava la via, e i suoi soldati stanchi si buttavano a terra disperatamente: « Avanti — gridava, — entreremo in Roma ». Quando una fiumana travolgente gli tagliava la corsa rovinosa, e le compagnie indietreggiavano illividite: « Avanti! — gridava, — entreremo in Roma » Quando ancora qualche scompigliata legione romana cercava di trattenerlo, e il suo esercito sfinito ricusava battaglia: « Avanti! — gridava, — entreremo in Roma ». Pensate, Cristiani, che non alla conquista d’una città viziosa e decaduta andiamo noi, ma alla conquista d’una città eterna e divina. Quale difficoltà, quale pericolo, quale tentazione, ci può arrestare? Avanti! entreremo in Paradiso. – Una turba livida di furore, col cuore secco e coi denti stretti, spingeva fuori la cerchia delle mura di Gerusalemme un giovane. Quando furono al luogo dell’esecuzione, tutti afferrarono le pietre e furiosamente le gettavano contro di lui. Egli s’era inginocchiato e guardava in alto: vedeva i cieli aperti, e Dio in gloria e Gesù Cristo sua destra, e tutti gli Angeli e i Santi in giro. I sassi grandinavano intorno e su lui: forse non li sentiva. « Signore, — disse — prendi il mio spirito, e perdona », poi chiuse gli occhi e spirò. Quando le disgrazie, le malattie, le tentazioni, i pericoli dell’anima e del corpo cadranno intorno a noi, come i sassi della lapidazione di Stefano, leviamo gli occhi al Paradiso; vediamo ivi la gloria di Dio e di Gesù Cristo, la gloria di Maria e dei Santi, vediamo il nostro posto ch’è già preparato. « Tanto è il bene che m’aspetto, ch’ogni pena m’è diletto ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 47; CXVIII: 48

Meditábor in mandátis tuis, quæ diléxi valde: et levábo manus meas ad mandáta tua, quæ diléxi.

[Mediterò i tuoi precetti che ho amato tanto: e metterò mano ai tuoi comandamenti, che ho amato.]

Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quæsumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti.

[Guarda, o Signore, con occhio placato, al presente sacrificio, affinché giovi alla nostra devozione e salute.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]


Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus:

Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps V: 2-4 – Intéllege clamórem meum: inténde voci oratiónis meæ, Rex meus et Deus meus: quóniam ad te orábo, Dómine.

[Ascolta il mio grido: porgi l’orecchio alla voce della mia orazione, o mio Re e mio Dio: poiché a Te rivolgo la mia preghiera, o Signore.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut quos tuis réficis sacraméntis, tibi etiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas.

[Súpplici Ti preghiamo, o Dio onnipotente: affinché, a quelli che Tu ristori coi tuoi sacramenti, conceda anche di servirti con una condotta a Te gradita.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (237)

LO SCUDO DELLA FEDE (242)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (11) SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908 »

Art. VII.

LE ORAZIONI SEGRETE ED IL SACERDOTE INTERPRETE DEI BISOGNI DI TUTTI

Poi nell’atto di serrare le braccia, pare che accolga i voti di tutti in cuore portandoli, si volga a trattar segretamente con Dio degli interessi di tutti. Il popolo gli risponde colla orazione:

Suscipiat.

« Riceva il Signore dalle vostre mani il Sacrificio a lode e gloria del Nome suo, anche a vantaggio di noi e di tutta la santa Chiesa. » Il Sacerdote, che recitò sotto voce col popolo la stessa preghiera, gli risponde: « amen, ben sia così. »

Il Sacerdote appiè della croce elevato tra il popolo e Dio alza le mani al crocifisso, e vuol avvisare che da noi soli non ci possiamo salvare e che per salire al Paradiso bisogna che qui in terra ci attacchiamo a Gesù Cristo. Egli Dio col Padre, Uomo con noi si abbandona al nostro amore nel Sacramento; e noi per farci da Dio ascoltare e tirarci salvi nella sua bontà dobbiamo mettere, massime quando preghiamo, col cuore le nostre teste sotto la sua Testa coronata di spine, le nostre mani sopra le sue Mani piene di Sangue, il nostro Cuore sul Cuore suo per noi ancora aperto. – Quindi il sacerdote è qui interprete di tutto il cuore della Chiesa, e il palpito del cuore di questa Sposa di Dio è la preghiera. Or tocca al Sacerdote dire tutto per Lei, e farle battere il cuore di questo palpito vicino al cuor di Dio. Stanno bene adunque sull’altare, a capo di tutti i fedeli preganti, i Sacerdoti consacrati a Dio, della cui vita la principale occupazione è la preghiera. Essi, dice s. Gregorio Magno (Pastor. par. 1.), sono come i profeti santi, che soliti a parlare con Dio, basta che comincino ad esclamare: « Signore, Signore, » perché il Signore debba loro rispondere: « ecco che sono presente ad ascoltarvi. » Qual consolazione per il popolo fedele aver alla testa uomini fidenti di ottener colle orazioni le grazie che chiedono a Dio. Per questo, prima che si assuma al sacerdozio un fedele, si fa esercitare nell’orazione; poi la Chiesa gli fa promettere solennemente di far continua preghiera presso che in tutte le ore della sua vita, obbligandolo all’ufficio divino, canonica orazione, che significa, il pregare essere l’uffizio, l’impegno il servizio continuo della vita sacerdotale. Fattosi promettere che pregherà, recitando l’ufficio tutti i giorni; crede poterlo mandare alla sua missione, affidato alla guardia della preghiera; sicura che dall’uomo che conversa con Dio almen un’ora ogni dì, tutto è a sperare di bene. Ecco perché s. Bernardo (S. Bernard. lib. 4, De Cons.) al pontefice Eugenio faceva questa raccomandazione: fa che tu assuma al santissimo ministero uomini dell’orazione zelanti, che nel ministero pongano fidanza ben più che nelle loro industrie. Incaricati degl’interessi del popolo innanzi a Dio, devono essere come quegli Angeli, che salivano e scendevano incessantemente per la scala di Giacobbe. Devono discendere per raccogliere i voti e i bisogni del popolo: salire (S. Jo. Chrys., Hom. 79, ad popul. Antioch.) colla preghiera, affine di recarli sino ai piedi del trono di Dio, ed aprire il seno delle sue misericordie sopra le miserie di tutti i fratelli. I loro voti sono i voti di un gran ministro mandato davanti a Dio dalla Chiesa a piangere sulle miserie umane, ad implorar grazie, e trattare della vita eterna de’ suoi figliuoli (Massillon, Conf. I.). In virtù del loro sacerdozio essendo immedesimati con Gesù Cristo; come il Verbo conversa con suo Padre, così essi con Dio, per mezzo di Gesù suo Figliuolo: sicché S. Gregorio Magno concludeva (Lib. 3, cap. 5 in s. Reg.), che l’anima del Sacerdote, più che un’anima pregante, si deve dire una continua preghiera. Imperocché, se l’anima è una potenza in atto, dell’animo del Sacerdote l’atto vitale deve essere uno slancio continuo verso del cielo, e l’orazione è il palpito del cuore sacerdotale. Perciò, quando egli si trova alla testa del popolo sopra l’altare a pregare Dio, allora, sì allora propriamente è nella sua atmosfera, e nel pregare sente di vivere veramente. Alto silenzio nel luogo santo: il popolo genuflesso sul pavimento, gemente in segreto per umiltà, i cuori aperti innanzi a Dio, gli sguardi di tutti all’altare sull’offerta santificata, il dono dei fedeli combattenti posato sulle reliquie dei trionfanti gloriosi a piè della croce, e sotto la croce il Sacerdote colle palme benedette e piene di sacri crismi al ciel alzate! (Fra le varie ragioni, per cui sì recitano le orazioni in secreto, noi accenneremo queste, recate dai diversi espositori. 1° Si vuole esprimere la secreta operazione dello Spirito Santo nell’augusto mistero (Martene, tom. 1, De antig. Eccl. nit.). 2° Si vuol eccitare ed alimentare nel popolo col segreto la maggior venerazione, e tenerlo più raccolto nella meditazione (Conc. Trid. sess. 22, cap. 5). 3° Col silenzio del Sacerdote si vuol esprimere il nascondimento del Salvatore quando non era ancora l’ora sua di patire (Inn. III, lib. 2, Mist. Miss. cap. 54). 4° Si muta poi la voce, massime nel Canone, per imitare quella di Gesù Cristo, il quale ora pregava ad alta voce, come: Padre, perdonate, ecc. Nelle vostre mani raccomando, ecc. Dio mio, Dio mio, ecc; ora favellava alla Madre, al discepolo, al ladro; ora taceva e pregava fra sé.). Ecco, egli è l’uomo di propiziazione, l’angelo del tempio della nuova legge, più che uomo e più che Angelo, è creatura divinizzata nella partecipazione dell’immortal sacerdozio, di cui lo investe dal cielo Gesù, e lo fa dito di Dio potente ad operare il prodigio, che i Cherubini adorano velati sull’altare. Con quel capo che ricorda la corona di spine, egli è il giglio del campo che tra le spine spiega al cielo la candidezza dei pensieri purificati: con quell’anima stanca delle fatiche dell’apostolato, amareggiata dai peccati, pascolata ben sovente d’ingratitudine, mandata dalla Chiesa per confidare a Dio i suoi dolori, è come un mazzetto di mirra, deposto dal petto della mistica sposa in seno a Dio: martire di privazioni, vittima d’amor divino, infiorata dalle più belle virtù, rappresenta al vivo tutta la Chiesa, che dalle sue angustie in terra si getta a trovare pace in braccio alla bontà del suo Iddio. Col cuore infiammato di carità egli si frammette ai Cherubini, che bruciano d’amore tra quei sette candelabri, che ardono eternamente innanzi al sommo Bene: viva immagine di Gesù, Sacerdote e Vittima con esso, si mette col cuore nel sacro suo Costato, e di là manda un grido, che sarà nel più alto de’ cieli ascoltato per la riverenza che gli merita l’essere immedesimato col divin Redentore. – Deh! in quel prego solenne che mai deve e potrà egli dire? Se egli da quell’altezza abbassa lo sguardo alla terra, vede una corona di figliuoli, e in essa vagheggia le sue speranze di averli seco in Cielo. Se guarda in Cielo, scorge sopra quel trono di luce inaccessibile Iddio, che dissipa colla sua mano stessa i baleni, di che sfolgora la sua Maestà, e in quell’oceano di gloria si lascia travedere nell’aspetto di Padre, e sorride amoroso alla famigliola sua diletta. Se guarda in terra, vede a sé d’intorno tutte quelle anime affamate di bene; quei cuori con tante piaghe aperte: e s’affretta di raccoglierle, e lagrime di un popolo sofferente nel calice di benedizione, che viene ad offrire. Se guarda al Cielo, vede il Padre delle misericordie, che a ciascun dei patimenti di un istante di rassegnazione prepara una gioia che non avrà fine. Se torna alla terra, ascolta tanti figliuoli pellegrini, che gridano: « dateci pane e forza per poter reggere nel viaggio insino a Voi. » Mentre in cielo ascolta Gesù che dice al Padre: « Sono essi i figli del mio Sangue!» e Maria che esclama: « anche del mio quei poverini sono figliuoli! » e i santi che esclamano: « e’ sono fratelli; » e vede gli Angeli che scuotono sul capo le palme e le corone nel dire: « coraggio, queste sono per voi! » Allora pieno di confidenza allarga le braccia e s’abbandona dell’animo coi beati comprensori del Paradiso, presenta i bisogni della Chiesa e le sue speranze, piange le sue angustie, e le sue perdite, sospira colle lacrime di tutti gli afflitti, anela coi gemiti dei moribondi, vuole, sì, vuole la vita eterna di tutti. Poi con le più accese preghiere chiede pei suoi figliuoli, e questa e quest’altra grazia.., poi quest’altra ancora… « O gran Monarca del bene, pare che esclami finalmente, no, non vi chiedo più grazie particolari! E che sappiamo noi, che buono sia per noi, bisognosi di tutto, come siamo, e poveri ciechi, che non vediamo ciò che per noi sia meglio? Per effetto della vostra bontà, che ai supplicanti, le desiderate cosa concede (Orat. Domin. IX post. Pent.), deh! fate che vi chiediamo tutto e solo quello che voi vedete essere bene per noi: Voi ispirate le dimande, e la nostra preghiera raddrizzate, correggete, purificate. Padre Santo! noi per tutto il bene nostro ci getteremo in braccio a Voi, e i nostri bisogni vi dica il vostro Amore divino: noi vi mettiamo dinanzi il cuore squarciato di Gesù a dirvi tutto tutto per noi!… Per Lui dateci tutte le grazie; ma la grazia più grande, che vi domandiamo, è di essere per Lui beati a darvi gloria in Paradiso. » – Qui cessa il silenzio, alza la voce e annunzia questo grido, questo sospiro all’eternità a nome di tutti esclamando: « Per omnia sæcula sæculorum » (Questo alzar la voce del Sacerdote e terminare le acclamazioni dell’Osanna, esprime le acclamazioni delle turbe a Gesù entrante in Gerusalemme. (S. Bonav. n. 3 în Expos. Miss. cap. 8, De offert.).

Art. IX.

IL PREFAZIO.

Sul finire delle preghiere secrete il Sacerdote alza la voce qui, come per fare appello ai fedeli che ha d’intorno, quasi loro dicesse: « Non è vero, o figliuoli, che tutti i nostri desideri alla per fine vanno a finir qui, che noi vogliamo essere beati col sommo Bene per sempre in Paradiso? Io credo d’interpretar per bene i voti di tutte le bisognose anime nostre col domandarvi, o gran Padre di tutti i beni, per Gesù nostro qui con noi, e con Voi in gloria, il Paradiso per tutti i secoli, per omnia sæcula sæculorum. » E il popolo. « Amen. Sì, sì è questo appunto, proprio questo, che al tutto noi desideriamo il Paradiso. »

Il sacerdote. « Dominus vobiscum. » Il Signore v’accompagni tutti al Paradiso!

Il popolo. « Et cum spiritu tuo. » O buon padre, sia pure con voi il Signore, ed accompagni l’anima vostra.

Il sacerdote. « Sursum corda. » Per pietà, non vi perdete adunque dietro all’ombra

dei beni, che vanno in dileguo colla fugace instabilità del tempo. Al cielo, al cielo i vostri cuori! – Il Sacerdote, diceva s. Cipriano (De orat. Dom.) fino dai primi secoli della Chiesa, a fine di dare principio alla grande preghiera; dispone i suoi figliuoli con questa prefazione: « elevate i cuori; » lungi i pensieri della carne e del secolo; elevate i cuori vostri, questi cuori, cui niente è atto a riempiere sulla terra da Dio in fuori. Così si avvertono i fedeli che si appressa il formidabile Sacrificio, e tutti i pensieri debbono distaccarsi dalla terra, per unirsi a Dio in cielo, in braccio alla sua bontà (S. Cir. Mystac. 5.).

Il popolo. « Habemus ad Dominum. » I cuori nostri abbiamo già con Dio.

Il Sacerdote. « Gratias agamus Domino Deo nostro. »Ah! sien grazie all’eterno Signore Dio nostro:perché, dice s. Cipriano, noi indegni così volle atanta sua grazia chiamare (Cip. loc. cit.).

Il popolo. « Dignum et justum est. » È troppo degno, è troppo giusto, che gli rendiamo grazie per sempre.

Il Sacerdote. Veramente è troppo degno, e troppo giusto il render sempre grazie al Signore. No, non conviene che solo il Sacerdote, ma il popol suo tutto render deve grazie al Signore (S. Jo. Chrys. Hom. 18, in 2 Cor.).

Perché la gratitudine è la migliore disposizione per prepararci alle maggiori misericordie, che Dio è pronto a donarci: poiché, siccome noi non abbiamo niente che buono sia del nostro; così le nostre orazioni dovrebbero sempre incominciare col rendere a Dio le più umili grazie per tutti i suoi benefizi: essendo che il rendere a Dio tutto il merito di ogni bene è la prima giustizia. Poiché la giustizia sta nella rettitudine della volontà, la quale suol rendere agli altri quello che a loro si deve. Ora, ogni bene viene da Dio, il primo dovere di giustizia è di rendere gloria e grazia a Dio di tutto il bene che ognora ci dona. Perciò così sublimato il Sacerdote, sostenuto dalle preghiere del popolo, di cui è interprete e rappresentante, mandato dalla Sposa di Dio diletta, nell’intuonare il cantico di grazie, si slancia dell’animo in Paradiso esclamando : « Sì, veramente è troppo degno e troppo giusto; giusto non solo, ma salutare che noi sempre ed in ogni luogo rendiamo grazie a voi, o Signore santo, Padre onnipotente: e tali grazie, che, incominciate nel tempo, vogliamo continuarvi nel cielo, o Dio dell’eternità, per mezzo di Gesù Cristo. – È perché il Sacerdote in quell’istante porta il cuor pieno della memoria massime del particolare mistero che si va celebrando; col suo cantico acclama festeggiando quella solennità, che dà pascolo alla devozione dei fedeli. Quindi varia il prefazio col variare delle solennità.

(Nella festa della Natività di Gesù Cristo esclama: « Sì, veramente è degno e giusto di ringraziarvi, perché per il mistero di questo Verbo incarnato, agli occhi della mente nostra splendette una nuova luce della vostra chiarezza, sicché mentre per esso conosciamo visibilmente Iddio, per questo pure siamo rapititi all’amore delle invisibili Cose. »

Nel dì dell’Epifania dice: «Vi dobbiamo ringraziare, perché quando apparve questo Unigenito vostro, allora ebbe noi ristorati della luce della sua immortalità »

Nella Quaresima dice: « O Sigore, che pei meriti di esso Gesù, col corporale digiuno comprimete i vizi, elevate la mente, donate la virtù ed i premi. »

Nelle feste della Croce e della Passione: « O Signore, esclama, che la salute dell’umano genere avete messa sul legno della croce, affinché donde usciva fuori la morte, di là risorgesse la vita, e colui che nel legno vinceva, nel legno pure restasse vinto per Cristo Signor nostro. »

Nella Pasqua poi esclama: « È degno e giusto e salutare in ogni tempo invero rendervi grazie, ma specialmente in questo con maggior gloria esaltarvi, quando appunto fu immolato il Cristo per nostra Pasqua: Egli si è il vero Agnello, che toglie i peccati dal mondo, che la morte col morir suo distrusse, e la vita col risorgere suo ebbe ai suoi riparato. »

Nell’Ascensione poi dice di ringraziarlo: « Per Cristo Signor nostro, il quale dopo la sua risurrezione a tutti i suoi discepoli manifestossi nelle apparizioni ed al loro cospetto elevossi in cielo, per fare della sua divinità noi stessi partecipi. »

Nella Pentecoste rende grazie a Dio « Per Gesù Cristo Signor nostro, che ascendendo sopra tutti i cieli e sedendo alla destra di Lui, lo Spirito Santo promesso diffuse in quel giorno nei figli dell’adozione. »

Nella festa della SS. Trinità e in tutte le domeniche, nelle quali si rende ossequio particolare a quest’augustissimo mistero, ringraziando l’Eterno Padre, adora e confessa le tre Persone in tal modo: « Voi, o Padre, che coll’unigenito Figlio vostro e collo Spirito Santo siete un Dio solo e solo Signore, non nella unità di una persona sola, ma nella Trinità di una sola sostanza; poiché ciò, che rivelando Voi della vostra gloria, abbiam creduto, l’istesso pure del vostro Figlio e dello Spirito Santo noi teniam senza differenza di discrezione. »

Finalmente, rammentando le feste della SS. Vergine, dice teneramente all’Eterno Padre: « E cosa degna, giusta, equa e salutare il ringraziarvi in questa festa (e nomina qui la festa particolare) della beata Maria sempre vergine, tutti insieme qui lodarvi, benedirvi ed esaltarvi. Essa è colei che per opera dello Spirito Santo concepì l’Unigenito vostro, e restandole la gloria della virginità, diffuse nel mondo il lume eterno, Gesù Cristo Signor nostro. »

Nelle feste degli Apostoli ed Evangelisti dice: « E cosa degna, ecc. il supplicare Voi, o Signore, affinché Pastor che siete, non abbandoniate il gregge vostro, ma pei vostri Apostoli con continua protezione lo custodiate. Affinché dai medesimi rettori sia governato, i quali come vicari dell’opera vostra alla medesima avete collocato a presiedere come pastori. »).

Ma il canto di esultanza sempre conchiude col rendere grazie nel più tenero modo per Cristo Signore nostro. Deh! Quanto è grande la confidenza, che lo rianima ad invocare il Divin Salvatore, come strettosi ed identificato col Redentore in tal sublime elevazione, egli si frammischia alle schiere degli spiriti celesti, che assistono indivisibilmente al trono di Dio, e loro congratulandosi annuncia esultante, che lo stesso Verbo, Splendor della gloria, che in loro effonde tanta beatitudine, fattosi uomo, sta ora per stendere la sua mano divina anche a noi sulla terra, per sollevarci al Paradiso. Onde già essendo colla speranza aggregati alla chiesa del cielo anche noi; associati all’immortale radunanza degli eletti di Dio; sortiti all’eterna cittadinanza della celeste Gerusalemme, dove l’eternità sarà per noi con essi il termine della beatitudine: deh! intanto ci lascino pur di qui gli Angeli con loro lodarlo, le Dominazioni adorarlo; e le Potestà stare con esse tremanti innanzi all’Eterno ad ossequiarlo; i cieli, le Virtù dei cieli, i Cherubini ed i Serafini arder con loro dell’incendio dell’Amore Sostanziale; ed in santa esultazione provare fin d’ora il cantico dell’immortalità, incominciando a compiere l’officio dell’eterna beatitudine. Anche noi, domestici di Dio, candidati del Paradiso, facciamo eco al coro dei beati comprensori coll’immortale trisagio:

« È Santo, è Santo, è Santo delle vittorie il Re! Dio, che di tutto ha vanto, Che fu, sarà, qual è. In terra, in ciel solenne Osanna suonerà: Benedetto nel Signore chi pel Verbo al ciel verrà. »

Così in quest’inno di esultanza cantasi la gloria di Dio in tre modi di lode, a cui si frammischia due volte il grido dell’umiltà, che chiede salute coll’Osanna, che vuol dire « salvateci » (Card. Bona, Trat. Ascet. de Missa.). Cioè in prima si esalta la santità, la potenza ed il dominio di Dio acclamandolo tre volte santo Dio in se stesso, nell’augustissima Trinità, Signore degli eserciti, Dominatore del tutto. Poi si dà lode a Dio, celebrando la sua gloria creature coll’escmare, « che della sua gloria sono pieni il cielo e la terra. » E poi infine all’Onnipotente, al Padre di tutti i beni si grida « Osanna; salvateci; » e si acclama « benedetto » al Redentore, che viene a salvare. – Il Sacerdote intanto va già coll’anima in cielo a prostrarsi dinanzi a Dio. Squilla il metallo scosso dal chierico tremante appiè dell’altare, e dà avviso, il Cielo si abbassa alla terra. Le campane echeggiano per l’aria, e proclamano nella regione delle nubi il trionfo del Dio della bontà, che ammette gli uomini a conversare con Lui. Prostesi sul suolo in questo terribile momento adoriamo tremanti il tremendo mistero! …. Il Cielo è aperto sopra la terra. Qui le cose divine alle umane si confondono; e noi frammischiati con gli Angioli, sull’altare come sulla porta del Paradiso, teniamoci stretti col Sacerdote; affrettiamoci di coprire le nostre miserie colla croce di Gesù Cristo (fa il segno di croce), ivi sotto la croce offriamo il tremendo Sacrificio. Qui il Sacerdote, lasciandosi andare col cuore a Dio, è tutto tra il benedirlo e supplicarlo. (Quì abbassa la voce). Oh! par che la sua voce si perda per la via del cielo; e l’anime con esso volino ad incontrare il Salvatore benedetto, e a gridargli innanzi: « Osanna, Osanna, o Signore del cielo, salvateci tutti!… » Silenzio!… Silenzio!…. il Sacerdote e il popolo si smarriscono in Dio!… Anticamente in questo istante si serravano le porte della chiesa: nel rito armeno si cala giù un gran velo, che copre il Sacerdote e l’altare: nel rito latino una nube d’incenso involge il nuovo Mosè, che è sul mistico monte a parlar con Dio, e rende più misterioso e più augusto questo luogo tremendo. L’organo ha cessato i suoi trilli, ma sospira sommessamente; e direste che si fa interprete dei trepidi pensieri, che s’alzano tremanti, ma pur s’ avvicinano a Dio, come tirati a forza dall’amor di Gesù Cristo; direste, che l’organo nostro sta in forse, se debba far sentire la pia armonia agli Angeli assuefatti ai concenti del Paradiso; direste che organo confuso anch’esso, non rende un suono da festeggiare Iddio, che si abbassa, e non sa far altro che gemere in umiltà, e sospirare soavemente! O direm meglio col gran maestro Rossini, con quella sua anima piena di melodie che lo elevano all’armonia del Paradiso; l’organo colla flebile voce umana soavemente penetra nei cuori, li indovina, si fa interprete de’ più delicati affetti, e solleva i palpiti del cuor umano ai rapimenti de’ Cherubini e de’ Serafini, che s’imparadisano col Divin Figliuolo in seno a Dio.

QUARESIMALE (X)

QUARESIMALE (X)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMA
Nella Domenica seconda di Quaresima

Del Paradiso: Tutto si può, e si deve tollerare in questo mondo, per la conquista d’un tanto bene nell’altro.
Et transfiguratus est ante eos. S. Matt. cap. 17.

QUARESIMALE (X)

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QUARESIMALE (X)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMA
Nella Domenica seconda di Quaresima

Del Paradiso: Tutto si può, e si deve tollerare in questo mondo, per la conquista d’un tanto bene nell’altro.
Et transfiguratus est ante eos. S. Matt. cap. 17.

Non si può, no, grida l’Apostolo, giunto al terzo Cielo, avere vera notizia di ciò, che sia Paradiso, perché “Nec oculus vidit, nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit, queæ Deus præparavit diligentibus se”. Ma non per questo voglio trascurare gli inviti di San Giovanni nell’Apocalisse, che con chiave d’oro c’apre il Paradiso: Ostendit nobis Sanctam Civitatem Jerusalem. Inoltriamoci dunque a rimirare questa Patria eterna de’ Beati, giacché a tanto ci consiglia San Girolamo, scrivendo ad Eustachio: Paradisum mente perambula, ch’è quanto dicesse scorri pure il Paradiso non con occhio corporeo, che tanto non vale, ma col lume della Fede. La fede dunque dia a noi questa mane e qualche notizia del Paradiso, e contentatevi, che io pratichi con voi, quel che fece colui, riferito da Jerocle Greco, il quale per far venire in cognizione di qual bellezza fosse il suo Palazzo, ne mostrò una sola pietra: Così io con il santo lume della Fede non più vi mostri che una pietra di Paradiso, che vale a dire un grado solo di Gloria, e questo v’assicuri, che supera quanto di bene possa immaginarsi, non che trovarsi in tutto l’Universo; dal che arguirete se sia bene tollerare ogni travaglio in questo mondo, per la conquista d’un tanto bene nell’altro. Ecco dunque, che ancor io vi porto in mostra una piccolissima pietra di quella celeste Gerusalemme, acciocché dalla di lei preziosità abbiate un sbozzo del Paradiso. L’Angelico San Tommaso me la pone in mano con assicurarci che un sol grado di Gloria, vale più che tutto il Creato e creabile: Bonum gratiæ etiam minima unius animæ particularis, majus est, quam omnia bona naturæ totius Úniversi. – Posta questa verità, figuratevi pure un gran signore che a niuno ceda nella sublimità de’ natali e tutti superi nelle aderenze d’illustri parentele. Dategli per abitazione nella città regina del mondo un palazzo sì sontuoso che superi di gran lunga quel regio de’ monarchi della Cina, ove, al riferire de’ storici, contavansi sessanta nove camere tutte alla stesa, una più bella dell’altra, e fra queste quattro, vedeansi tra le principali, essendo la prima coperta a lamine di rame artificiosamente storiato di finissimo argento, la seconda d’oro, la terza e la quarta ove il principe dimorava, rimiravasi tutta tempestata di perle e gemme preziose. Possieda questo signore per ornamento della sua reggia, mense intarsiate di diamanti, scrigni tempestati di rubini, ed abbia gioie in tal numero che possa, niente inferiore ad Ottone Augusto, dispensare a chi gl’aggrada un milione e due cento mila scudi, che egli donò alla capella di Giove Capitolino, e superiore al tanto rinomato Nipote di Lillio possa adornarsi con un milione e mezzo, che con tante appunto vi comparve in un ballo; abbia altresì per sua mera delizia entro il nobile suo giardino, quell’albero, che da Luitprando fu veduto, ed ammirato nel gran Salone di Costantinopoli: Era questo tutto di bronzo, e carico d’augelli d’oro, che dolcemente a forza d’arte cantavano; oppure quell’altro veduto con ammirazione da Marco Polo nella Reggia del Gran Khan, mercè che era d’oro massiccio, e gli pendevano per frutti, grosse perle: ne pare manchi ad un signore di tanta maestà il seguito di nobile e numerosa servitù; gli si concedano pure oltre al numero ben grande di cavalieri e principi che lo assistano nelle anticamere, quei seicento paggi, de’ quali Antioco si servì nel regio convito di Dafne. Erano questi tutti vestiti di broccato a gala, e tutti coronati di gemme e con gran vasi d’oro andavano per tutto spargendo preziosi unguenti. Or ditemi, uditori, il possesso di tanta ricchezza e di tesori sì immensi posseduti da un signore sì grande, possono forse paragonarsi ad un grado di Gloria, che si goda in Cielo? Appunto perché quante furono, sono, e saranno gioie, tesori nel mondo non bastano, sborsati a’ primi Medici delle Università più accreditati, per fare, che non vi travagli in vita un affanno di petto, un dolor di testa, un crucio di denti, dove che un sol grado di Gloria vi dà il possesso di tesori infinitamente maggiori, e di più, vi libera da quanti possano immaginarsi mali nel mondo. Padre! Deh sentite, che volete signora? O s’io potessi avere la minima parte di quelle gioie, mi parerebbe di godere non un grado di Gloria, ma un intero Paradiso; bene, io vi rispondo, e per questo, che ponete di qua il Paradiso negli ornamenti, nelle vanità, non l’avrete di là.
Passo avanti, e giacché il mondo come insaziabile non solo vuole le ricchezze, ma per essere ancor più beato, ama di dominare, voglio vedere se non potendosi un grado di Gloria eguagliare con tanti tesori, possa almeno paragonar con l’assoluto dominio di gran parte del mondo. Diasi adunque à questo signore non solo questa vostra Provincia ricca di terre sì illustri, e di città sì nobili, ma un regno, un impervio, anzi l’Europa tutta, che vale a dire: abbia il possesso di quanto con assoluto comando dominino un Pontefice Romano, due Imperatori, d’Occidente uno in Vienna di Germania, d’Oriente l’altro in Constantinopoli di Romania; di quanto possiedono sette regi, due granduchi, sei repubbliche, dodici Principi Ecclesiastici, e tanti duchi d’altezza, con i due serenissimi marchesi di Brandemburgo e Baden. Or bene, tutto questo gran Dominio può paragonarsi ad un grado di Gloria? Appunto, appunto, aggiungete pure ai Regni, e Imperi d’Europa, quanti ne vantano con l’Asia, l’Africa, e l’America, e poi afferite con tutta verità, che vale più un solo grado di Gloria, che non è tutto il possesso d’un mondo intero, perché un grado di Gloria vi dà infinitamente più, e vi costituisce monarchi di tal grandezza, che formando di tutte le umane grandezze una sola grandezza, è un nulla, a paragone di quella, in cui vi costituisce un grado di Gloria. O grado di Gloria, che gran bene porti a chi ti possiede e pure colui dentro di sé dice: potessi io avere non un mondo, ma un piccolo comando,
che volentieri rinuncerei a questo grado di Gloria, perché così potrei soddisfare alle mie vendette, e compiacere a’ miei sensi. Ah stolti, ah pazzi, che così sprezzate i gradi di Gloria? Se bene mi consolerei quando i peccatori per un piacere peccaminoso facessero gettito d’un bene che nulla più valesse di quel che valga questa terra; ah che maggiore è la perdita, mercè che un grado di Gloria non solo vale più di tutta la terra, ma di tutto il Cielo, di tutta la material città de’ Beati. Il Paradiso, come saprete, è quella Città posta in una bellissima pianura, la quale occupa dodici mila stadii, che vale a dire, mille e cinquecento miglia per lunghezza, ed altrettanto per larghezza. In questa Città solamente si ammira ogni bellezza, ogni preziosità, essa solamente può chiamarli Civitas perfecti decoris. L’oro, che tra noi fregia le stanze più nobili, ivi lastrica le strade più popolari; e le gemme che qua giù si portano sul capo, son colassù calpestate dal piede. Su avarizia portati con gl’occhi in Cielo, già che non puoi entrarvi con i piedi, sporgi il capo dentro ad uno di quei finestrini, per i quali Daniele di Babilonia vagheggiava un giorno Gerusalemme; mira un poco se le ricchezze che colassù si possiedono, sono da posporsi alla terra; pensa un po’ se meritano che tu le getti per quell’affetto disordinato che hai alla roba; per quell’interesse che ti stringe le mani, finché non soddisfi né mercedi, né pii legati. Uditori miei, tenete pur fissi gl’occhi nelle ricchezze celesti, e poi siate sicuri, che 7sprezzerete la terra. Accadrà per appunto à voi, come à colui che avendo prima studiata la Geografia, e formato sommo concetto della terra perché  l’aveva sentita dividere in tante provincie, regni, ed imperii, andato poi a prender lezione da un astrologo si sentì supporre la terra stessa per un punto che sta nel centro de’ Cieli; di che meravigliato, non si soddisfece, finché sentì per risposta l’uno, e l’altro non discostarsi dal vero poiché chi contempla la terra da se sola ha ragione di stimarla per grande, ma chi la paragona con i cieli, non può non disprezzarla per piccola, e pure e terra e cielo sono un nulla à paragone d’un grado di Gloria. O Dio e può trovarsi chi per un bene da nulla sprezzi quella Gloria che gli porta un sì gran bene? Passiamo avanti, e dopo aver consegnato a quel monarca e terra e cielo, tutto inferiore ad un grado di Gloria, giacché Nullius rei sine socio jucunda est possessio, gli si dia per compagno un esercito d’Angeli vestiti di luce, di vergini bianche come gigli di Martiri imporporati di palme, di confessori candidi al par delle nevi. Più gli sia dato, e finisca di coronare la sua gioconda conversazione la più bella, la più eccellente, la più santa di tutte le creature che siano mai uscite dalle mani di Dio, dico Maria, che sola sola potrebbe farvi gioire d’allegrezza, avendo Ella forza d’incatenare ogni cuore. Eppur, tutto ciò, chi’l crederebbe, è inferiore ad un grado di Gloria, giacché, come dice Agostino, un grado di Gloria: Est majus bonum quam Cælum, Terra et quidquid in illis includitur. Perché  tutte queste cose vi dà il grado di Gloria e di più vi concede eternamente goderle. Un grado di Gloria sì guadagnato con una limosina, con una corona, con un’opera pia fatta per Gesù, è un bene incomparabilmente maggiore, eppure si sprezzano questi beni di Paradiso, e vogliono i fuggitivi della terra, finché parmi sentire chi, bestemmiando, dica che Grazia di Gloria in Cielo? Il nostro Paradiso lo vogliamo in terra tra i comodi, tra le delizie, tra’ piaceri. Dio immortale! E  se è vero, come è verissimo, che il possesso de’ beni, il dominio del mondo, il godimento della Patria de’ Beati, con la conversazione de’ Santi e della Vergine stessa, tutto inferiore ad un grado di Gloria che si goda in Cielo, che farò io per darli paragone che vaglia? Orsù mi sia lecito di dire che per eguagliare, se non per superare questo grado di Gloria, cavi Iddio con la sua Onnipotenza dal nulla, e dia l’essere a nuovi mondi di gran lunga superiori. Voi ben sapete che Iddio scherzò allorché sbalzò dal nulla questa gran macchina del mondo, con porvi un globo di fuoco che con i suoi raggi di luce sgombrasse quelle tenebre, che erant fuper faciem terra; scherzò allorché diede commissione al sole di provvedere di luce; la luna, che con i suoi raggi d’argento scemasse qualche poco l’oscurità della notte; scherzò quando sparse per il cielo lucidissime stelle; furono scherzi la formazione d’una terra sì vasta, d’un mare si smisurato, perché allor si diportò come Ludens in Orbe terrarum. S’alleni, per così dire, l’Onnipotenza, e se allora adoperò un dito della sua destra, impieghi ora la mano ed il braccio, e faccia comparire non uno, ma mille mondi, faccia che in essi la terra non più produca né triboli di disgusti, né spine d’amarezze, ma solo germogli, rose di contentezze, faccia un mare, che sempre in calma, mai minacci tempeste, dal quale siano esiliati i naufragi e ad ogni scoglio possa dirsi: qui abbiamo il porto, stenda i cieli che con la loro serenità continua, mantengano il brio delle allegrezze, non si veda mai folgoreggiare per aria un lampo, niun tuono spaventi, niun fulmine precipiti, e quivi vi sia dato vivere sani e robusti per mille anni, al fine de quali, senza provare agitazione di morte, sia trasportato il vostro spirito con somma quiete sopra del cielo, e giunto ad una di quelle dodici porte di diamante, spalanchisi ad un tratto, e rimbombando sonore le trombe, giulivi vi escano incontro con angeliche squadre di Martiri, torme di sacri confessori, drappelli di caste vergini e vi ricevano, narrandovi con lingue di Paradiso le grandezze di quella abitazione veramente regia. Eppure, tutto ciò non può formare quella piccola pietra che v’ho portata qui in mostra d’un sol grado di Gloria. E come è possibile, sento chi mi dice che un grado di Gloria contenga in se un bene sì smisurato, che superi quanto finora s’è detto? Così è, eccovi la risposta: prendete un diamante e ponetelo a confronto con tutti i marmi più belli della terra, e voi vedrete in quel diamante una tale prerogativa che non troverete in tutti i marmi immaginabili, cioè a dire uno scintillar sì luminoso che vi sembrerà una piccola stella della terra, e questa luce sì nobile mai mai troverete in tutti i marmi del mondo. Or così va, miei uditori, chi godrà un grado di Gloria avrà, per mezzo di quello, o Dio, che non avrà? O grado di Gloria quanto sei stimabile! Eppure tanti ti sprezzano. O Pater Abram, Pater Abram; Ahimè, queste sono voci d’Inferno; E perché turbare i discorsi di Paradiso? Son voci d’Epulone, che pretendi da Abramo? Non altro che una stilla di Paradiso: Mitte Lazarum ut intingat extremum digiti in aquam, refrigeret linguam meam. Tu deliri, o Epulone, mentre per estinguere le ardenti fiamme, che ti abbruciano, nulla più domandi d’una stilla? Io so che il Mongibello quando con le ardenti sue fiamme entra nell’Onde, le divora, ed il Mar Tirreno agl’assalti del Vesuvio mette in fuga e tu sciocco, con una stilla d’acqua pretendi estinguere l’inferno? Taci, stolto che sei! Tacete voi, risponde a noi Sant’Agostino. Tacete, sì si, una sola goccia, un sol grado di quelle stillate dolcezze del Paradiso, delle quali parlò in spirito Gioele, allorché disse: In illa die stillabunt montes dulcedinem, una sola, dice, di quelle gocce, basta non solo a smorzare, ma a disfare tutto l’inferno, e mutarlo in Paradiso; ecco le parole del Santo Dottore: Tota dulcescerer damnatorum amaritudo. – Cada una sola stilla di quei torrenti di Paradiso nell’inferno ed eccolo un Paradiso, non più abitato da’ demoni, ma dagl’Angeli; non più tenebre, ma luce; non più catene, ma libertà; non più dolori, non più spasimi, ma sanità perfetta, godimenti inenarrabili. Tota dulcesceret damnatorum amaritudo. O quam magna, esclami pure ogn’uno col Profeta, multitudo dulcedinis tuæ Domine! Ma sento chi mi dice: noi più di proposito brameremmo questo gran bene, se n’avessimo più distinta notizia, se sapessimo più distintamente ciò che sia questo grado di Gloria! Che sarà mai dunque questo grado di Gloria, mentre non porterà seco solo vedere le pompe trionfali di quelle Gerarchie Celesti che faranno corteggio al Re Sovrano, né pure rimirare i Santi vestiti di Corpo glorioso, sì penetrante che potrà passare per mezzo d’ogni monte, come ora il sole passa per un cristallo sì agile, che potrà in un subito calare dal Paradiso in terra, così impassibile, come impassibile è l’anima; così luminoso, che se un Beato mettesse fuori del Cielo una mano, basterebbe per illuminare tutto l’universo cento volte più che fa il sole: Fulgebunt justi sicut sol in Regno Patris eorum, mentre non sarà rimirare Maria sempre Vergine, il di cui sembiante ci terrà incatenati i cuori; Maria, Maria nostra Avvocata, nostra Signora, nostra Protettrice, le di cui bellezze sono il miracolo de’ miracoli, finché come scrive Sant’Ignazio Martire in una delle sue lettere, mentre Maria era ancora in terra, concorrevano a truppe i popoli per vederla. Che sarà dunque questo grado di gloria, che sarà? Sarà vedere un abisso di splendori in un teatro di maestà, in un centro di gloria Iddio, videbitis eum sicuti est. E che vuol dire, uditori miei, vedere Iddio? Chi mi avvalora il pensiero, chi mi purga la lingua, sicché io possa in parte spiegarvi quel che vedrete vedendo Dio? Vedrete quello che è la Beatitudine universale di tutte le creature; vedendo Lui non pensate già di vedere niuno di questi oggetti creati; Egli increato, questi materiali; Egli purissimo spirito, questi difettosi; Egli perfettissimo, e pure tutto ciò, che vedrete fuori di Lui, immaginatevi che voi tosto vedrete; vedendo Lui, vedrete Dio. Oh chi potesse ridire che sarà del vostro cuore a quel primo sguardo? Oh che deliqui d’amore voi sentirete! Che vampe di carità, che rapimenti, e che estasi! Che dolcezze! Allora sì, che adorerete tanta Maestà, e quasi reputandovi indegni di sì gran bene, vorrete sospirare, vorrete piangere per un certo solito sfogo di tenerezza, ma non vi farà permesso, no: Non audietur ultra vox fletus, et vox clamoris, crediatelo ad Isaia. Che direte allor, che vi vedrete Beati, che vale a dire al possesso di tutti i beni per goderli non solo perfettamente, ma eternamente? Allora tutta giubilo nel suo cuore, dirà quella verginella: beata quell’ora, beato quel punto in cui voltai le spalle a quell’amante, ricusai i suoi regali, ributtai le sue imbasciate; beata me, che ho conservato intatto il giglio della mia verginità. Allora, sopraffatta dal giubilo, esclamerà quella maritata: o quanto feci bene a sopportare le tirannie del mio consorte, mi strappazzò con parole, mi percosse più volte, non fui moglie, fui serva, fui schiava, ma la mia pazienza? Ecco dove m’ha portata: al possesso di tutti i beni per goderli perfettamente, eternamente. Son finite le grida, son finiti i dolori, ecco il giubilo, ecco il contento! Allora, pieni d’allegrezza esclameranno quegl’uomini, quelle donne: felici noi per quel punto in cui demmo la pace all’inimico; felici noi perché non imbrattammo le nostre mani con roba altrui; felici noi perché portammo rispetto alle Chiese; felice l’ora in cui abbandonai quel compagno sì dissoluto; felice quel punto in cui abbandonato il mondo, mi ritirai nel chiostro. Ah, che se per me venisse mai un’ora così beata, che mi vedessi ammesso nel possesso di tanta gloria, ancor io, in qual sentimenti, in quali atti, in quali parole proromperei? Se mi sarà permesso accostarmi a quel Soglio Divino: Et veniam ad Solium ejus. Io voglio dire al mio Dio; che vorrei dire, se sopraffatto dall’amore, mi converrebbe attonito tacere. Taccio, ma mentre io fò silenzio; tu peccatore, tu peccatrice alza gl’occhi, e poi dirottamente piangendo esclama con dolorosa voce: Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me! Son belli quei Palazzi alla Reale, ma non sono per me; li demeritai allor che profanai le mie sale con veglie e balli; le mie Stanze con giuochi; le mie camere più segrete con replicate disonestà. Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me. Son belli quei diamanti, quelle perle, quelle gioie che t’adornano, ma non per me; le demeritai allor che feci gettito della più bella gioia che si prezzi in Cielo: la santa virginità; Paradiso sei bello, ma non sei per me. È nobile la conversazione di quei tanti Angeli, di quei tanti Cherubini, e quei tanti Serafini, che ardono di santo Amore verso del loro Iddio, ma non è per me, che sempre avvampai di amor profano in odio al mondo, in odio a Dio. Paradiso sei bello, ma non sei per me: Non è per me la compagnia di quei Santi confessori perché chiamato al par di loro alle solitudini del Chiostro, vi stetti con gl’affetti nel secolo, innalzato alla dignità di Sacerdote mi portai al Sacro Altare con rozza mente, con laido cuore, maneggiai Cristo al par del fango. Paradiso sei ben bello, ma non sei per me; non è per me la compagnia di quei Santi penitenti nel mondo, mentre io vi son vissuto tra crapule e lussi; non è per me poter fissare gl’occhi in quei drappelli di caste vergini, molto meno nell’amabile volto di Maria, mentre io con occhio anche sacrilego tramai insidie alla castità più custodita. Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me perché, troppo interessato, non mi curai delle tue ricchezze per aver la roba altrui; non sei per me, perché troppo avido d’onori, ricusai le tue eterne dignità. Paradiso non sei per me, perché troppo vana stimai più la mia caduca bellezza che la tua; non sei per me: troppo fui irriverente nelle Chiese, troppo dedito alle vendette, troppo disubbidiente a’ miei maggiori, disprezzatore de’ Sacerdoti, e sempre diedi mal esempio alla mia famiglia; da me impararono i figli le bestemmie, le mormorazioni, le disonestà; da me impararono le figlie ad amoreggiare dalle finestre, nelle porte, per le strade; io li precedevo nella, io l’istigavo agl’ornamenti, io li posi sull’orlo de’ precipizi, io gli feci perdere con l’onore anche l’anima, e però Paradiso sei bello, ma non sei per me. Misero peccatore, misera peccatrice, e non ti crepa il cuore alla rimembranza di dover dire, se non muti vita … Paradiso sei bello, ma non sei per me: muta vita, lascia l’iniquità rinuncia al demonio, osserva i Comadamenti per poter alla tua morte proferire queste parole di giubilo Paradiso, Paradiso sei bello, e sei per me; sei bello, e sei per me.

LIMOSINA

Iddio per Isaia pone in vendita il Paradiso: Properate emite. Bisogna miei uditori, comprare il Cielo, non vi sgomenti la preziosità sua, poiché ciascuno di noi ha tanto di capitale che basta per una tal compra, non vi vuole più, dice San Pier Crisologo, che un pezzo di pane, un poco di limosina distribuita a’ poveri si può spender meno? Deus Regnum suum fragmento panis vendit et quis excusare poterit non ementem, quem tanta vilitas venditionis accusat? E pure si trova chi ne pure a prezzo sì vile vuole comprare il Paradiso. Ah Dio! Vende, Iddio a poco prezzo i piaceri del Cielo, non vi è chi li voglia; vende il demonio i piaceri del mondo a gran prezzo, ed ognuno compera, si spende ne’ giuochi, ne’ conviti, nelle feste, nelle pompe, nelle vanità, sarebbe poco, nelle vendette, nelle disonestà, e per il Paradiso non solo non vi è oro, né argento, ma neppur rame per sovvenir la povertà d’un mendico.

SECONDA PARTE.

Il Cielo, uditori, al dire dell’Evangelista, s’acquista per via di negozio, di traffico: Simile est Regnum Cælorum homini negotiatori: Se ciò è vero, come è verissimo, voi ben sapete, che è legge di buon negoziante trasportare in Paese straniero quelle merci, che colà non sono, e di là portare quelle che nel proprio o non nascono o non si lavorano. Bisogna dunque se vogliamo guadagnare il Cielo per via di traffico, come ci addita il Redentore, che noi colassù mandiamo quelle merci che v’hanno spaccio, e che ivi non si trovano. Desistete, o ricchi, d’accumular più quell’oro, che racchiudete in cassa, e sol lucrate in vani ornamenti, in superflue vanità. Avari, non occorre con nuove usure, con traffici illeciti accrescere le vostre ricchezze, non manca oro in Cielo, già v’ho detto, che tutte le Grade Piazze son fabbricate Ex auro purissimo. Donne, quelle pietre preziose, quei diamanti, quelle perle che con tanta vanità v’adornano, non vi comprano il Cielo, perché colassù fino le porte, le mura, le torri sono gemme: Porte nitent margaritis, omnes muri tui, et turres Jerusalem gemmis edificabuntur. Ambiziosi, non tramate più la rovina del prossimo per salire a quella dignità, a quel posto, non mancano titolati e grandi nel Cielo, mentre tutti i Beati sono un popolo di regi: Percipite Regnum vobis paratum a Patre meo. Uditori, ori, gemme, onori non hanno spaccio in Paradiso perché di queste merci il Paradiso n’abbonda. Dunque se volete guadagnarlo col traffico, portate colassù le merci che non vi sono: In Cielo non v’è pianto, non v’è dolore; in Cielo non v’è tempo, essendovi l’eternità … Non erit ibi luctus, neque dolor erit ultra: Dunque per ottenere il Cielo vi vogliono lacrime di cuor contrito, dolori di patimenti, di tribolazioni tollerate con pazienza. Queste sono le merci che hanno spaccio nel Cielo, e queste ci otterranno il Paradiso. Eccovi il modo d’ottenere il Cielo, guadagnarselo con portare di là la mercanzia che non v’è, che vale a dire patimenti; e se così farete, Isaia vi assicura, che qui vicerit possidebit hæc: tutto questo sì gran bene del Paradiso è per voi, di grazia non vi lasciate accecare da i diletti peccaminosi di qua, che presto v’invola la morte, ma solo attendete agl’eterni dell’altra vita. Volete, che io v’insegni un altro modo per guadagnare il Paradiso? Fissate spesso gl’occhi colassù, perché così vivrete bene, ed il Paradiso sarà vostro. Tito e Domiziano, ambedue figli del vecchio Imperatore Vespasiano, furono fra di loro sì differenti, e riuscirono di natura e di costumi sì varii, che Tito fratello maggiore al dir di Svetonio fu chiamato: Delitiæ Generis humani, e Domiziano: Flagitium Generis humani. Per rendersi buono e di costumi sì retti Tito, v’ebbe gran parte la prudenza del suo Aio, che per molto tempo gli assisté. Fattosi notte conduceva costui il giovinetto Tito in una loggia; indi dicevagli: Volgete gl’occhi alle stelle; vedete quella figura formata di vent’otto Stelle, si chiama Ercole , ed ha ottenuta quella stanza colassù in cielo, perché nel mondo atterrò molti mostri; ve l’otterrete ancor voi, se riporterete vittoria di quei vizi che infettano il mondo. Udite: quell’altra costellazione formata di ventisei sfavillanti lumiere, si chiama Perseo, e fu quel giovane sì generoso, che fece guerra alle Gorgoni, e con un colpo di lancia sviscerò l’Orca Marina, liberandone Andromeda, sicché non fosse divorata; or così appunto sfavillerete ancor voi se col braccio della vostra autorità difenderete l’onore delle matrone, e la pudicizia delle donzelle. Date ancora un’occhiata a quelle due figurine composte ambedue di nove stelle; sono Castore e Polluce, e voi ancora v’avrete questo splendore se qui nel mondo fomenterete la pace, e v’amerete con i sudditi: volete altro anche con volgere gl’occhi a queste menzogne; si rese Tito principe sì buono, vi delitiæ generis humani vocaretur. Deh date un’occhiata a quei Giusti del Paradiso, … Qui fulgent quasi stelle in perpetuas æternitates, e chi vi tiene, chi v’impedisce? Vedete colà quella matrona coronata di tanta gloria, ella è Francesca Romana. Chi v’impedisce o vedove un simil posto? Vedete colassù quella Cunegonda, chi v’impedisce o maritate un simil possesso? Chi o donzelle? mirate le Lucíe! Chi o contadini? mirate un’Isidoro! Suspice Cælum, dice Agostino, et accipies Cælum. – Mi giova credere, che alla mia predica siano molti e molte che abbiano da vedere fra poco la Gloria che io non ho saputo descrivere. S’io sapessi chi sono, oh con che ossequio li rimirerei; qual santa invidia m’occuperebbe il cuore, vorrei fino baciar la terra che calpestano. Ma ahi, che sento mutarmi l’allegrezza in pena; così non fosse: vi saranno anche molti e molte che non la vedranno mai … s’io sapessi quali sono! Vorrei scendere da questo pulpito e, afferratili per un braccio, dir loro: Ah infelice, vuoi dunque perdere il Paradiso, abitazione sì bella, la compagnia de’ Santi, di Maria, di Dio, per non lasciare quella maledetta amicizia, per non restituire quella roba, per non perdonare a quell’inimico? Leggo pure in Erodoto di quell’Egistrato Eleo che, tenuto legato da una catena ad un piede da’ demoni, per poter correre alla bramata libertà, recise quel piede che gliela impediva; e tu non avrai animo, non per una libertà, che finisce, ma per l’eternità, di troncare quei legami lascivi? non l’avrai? Andate dunque a casa, e questa sera sull’imbrunir di notte, dite, mirando il Cielo: Sei pur bello Paradiso, ma forse non sarai per me.

QUARESIMALE (XI)



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Non si può, no, grida l’Apostolo, giunto al terzo Cielo, avere vera notizia di ciò, che sia Paradiso, perché “Nec oculus vidit, nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit, queæ Deus præparavit diligentibus se”. Ma non per questo voglio trascurare gli inviti di San Giovanni nell’Apocalisse, che con chiave d’oro c’apre il Paradiso: Ostendit nobis Sanctam Civitatem Jerusalem. Inoltriamoci dunque a rimirare questa Patria eterna de’ Beati, giacché a tanto ci consiglia San Girolamo, scrivendo ad Eustachio: Paradisum mente perambula, ch’è quanto dicesse scorri pure il Paradiso non con occhio corporeo, che tanto non vale, ma col lume della Fede. La fede dunque dia a noi questa mane e qualche notizia del Paradiso, e contentatevi, che io pratichi con voi, quel che fece colui, riferito da Jerocle Greco, il quale per far venire in cognizione di qual bellezza fosse il suo Palazzo, ne mostrò una sola pietra: Così io con il santo lume della Fede non più vi mostri che una pietra di Paradiso, che vale a dire un grado solo di Gloria, e questo v’assicuri, che supera quanto di bene possa immaginarsi, non che trovarsi in tutto l’Universo; dal che arguirete se sia bene tollerare ogni travaglio in questo mondo, per la conquista d’un tanto bene nell’altro. Ecco dunque, che ancor io vi porto in mostra una piccolissima pietra di quella celeste Gerusalemme, acciocché dalla di lei preziosità abbiate un sbozzo del Paradiso. L’Angelico San Tommaso me la pone in mano con assicurarci che un sol grado di Gloria, vale più che tutto il Creato e creabile: Bonum gratiæ etiam minima unius animæ particularis, majus est, quam omnia bona naturæ totius Úniversi. – Posta questa verità, figuratevi pure un gran signore che a niuno ceda nella sublimità de’ natali e tutti superi nelle aderenze d’illustri parentele. Dategli per abitazione nella città regina del mondo un palazzo sì sontuoso che superi di gran lunga quel regio de’ monarchi della Cina, ove, al riferire de’ storici, contavansi sessanta nove camere tutte alla stesa, una più bella dell’altra, e fra queste quattro, vedeansi tra le principali, essendo la prima coperta a lamine di rame artificiosamente storiato di finissimo argento, la seconda d’oro, la terza e la quarta ove il principe dimorava, rimiravasi tutta tempestata di perle e gemme preziose. Possieda questo signore per ornamento della sua reggia, mense intarsiate di diamanti, scrigni tempestati di rubini, ed abbia gioie in tal numero che possa, niente inferiore ad Ottone Augusto, dispensare a chi gl’aggrada un milione e due cento mila scudi, che egli donò alla capella di Giove Capitolino, e superiore al tanto rinomato Nipote di Lillio possa adornarsi con un milione e mezzo, che con tante appunto vi comparve in un ballo; abbia altresì per sua mera delizia entro il nobile suo giardino, quell’albero, che da Luitprando fu veduto, ed ammirato nel gran Salone di Costantinopoli: Era questo tutto di bronzo, e carico d’augelli d’oro, che dolcemente a forza d’arte cantavano; oppure quell’altro veduto con ammirazione da Marco Polo nella Reggia del Gran Khan, mercè che era d’oro massiccio, e gli pendevano per frutti, grosse perle: ne pare manchi ad un signore di tanta maestà il seguito di nobile e numerosa servitù; gli si concedano pure oltre al numero ben grande di cavalieri e principi che lo assistano nelle anticamere, quei seicento paggi, de’ quali Antioco si servì nel regio convito di Dafne. Erano questi tutti vestiti di broccato a gala, e tutti coronati di gemme e con gran vasi d’oro andavano per tutto spargendo preziosi unguenti. Or ditemi, uditori, il possesso di tanta ricchezza e di tesori sì immensi posseduti da un signore sì grande, possono forse paragonarsi ad un grado di Gloria, che si goda in Cielo? Appunto perché quante furono, sono, e saranno gioie, tesori nel mondo non bastano, sborsati a’ primi Medici delle Università più accreditati, per fare, che non vi travagli in vita un affanno di petto, un dolor di testa, un crucio di denti, dove che un sol grado di Gloria vi dà il possesso di tesori infinitamente maggiori, e di più, vi libera da quanti possano immaginarsi mali nel mondo. Padre! Deh sentite, che volete signora? O s’io potessi avere la minima parte di quelle gioie, mi parerebbe di godere non un grado di Gloria, ma un intero Paradiso; bene, io vi rispondo, e per questo, che ponete di qua il Paradiso negli ornamenti, nelle vanità, non l’avrete di là.
Passo avanti, e giacché il mondo come insaziabile non solo vuole le ricchezze, ma per essere ancor più beato, ama di dominare, voglio vedere se non potendosi un grado di Gloria eguagliare con tanti tesori, possa almeno paragonar con l’assoluto dominio di gran parte del mondo. Diasi adunque à questo signore non solo questa vostra Provincia ricca di terre sì illustri, e di città sì nobili, ma un regno, un impervio, anzi l’Europa tutta, che vale a dire: abbia il possesso di quanto con assoluto comando dominino un Pontefice Romano, due Imperatori, d’Occidente uno in Vienna di Germania, d’Oriente l’altro in Constantinopoli di Romania; di quanto possiedono sette regi, due granduchi, sei repubbliche, dodici Principi Ecclesiastici, e tanti duchi d’altezza, con i due serenissimi marchesi di Brandemburgo e Baden. Or bene, tutto questo gran Dominio può paragonarsi ad un grado di Gloria? Appunto, appunto, aggiungete pure ai Regni, e Imperi d’Europa, quanti ne vantano con l’Asia, l’Africa, e l’America, e poi afferite con tutta verità, che vale più un solo grado di Gloria, che non è tutto il possesso d’un mondo intero, perché un grado di Gloria vi dà infinitamente più, e vi costituisce monarchi di tal grandezza, che formando di tutte le umane grandezze una sola grandezza, è un nulla, a paragone di quella, in cui vi costituisce un grado di Gloria. O grado di Gloria, che gran bene porti a chi ti possiede e pure colui dentro di sé dice: potessi io avere non un mondo, ma un piccolo comando,
che volentieri rinuncerei a questo grado di Gloria, perché così potrei soddisfare alle mie vendette, e compiacere a’ miei sensi. Ah stolti, ah pazzi, che così sprezzate i gradi di Gloria? Se bene mi consolerei quando i peccatori per un piacere peccaminoso facessero gettito d’un bene che nulla più valesse di quel che valga questa terra; ah che maggiore è la perdita, mercè che un grado di Gloria non solo vale più di tutta la terra, ma di tutto il Cielo, di tutta la material città de’ Beati. Il Paradiso, come saprete, è quella Città posta in una bellissima pianura, la quale occupa dodici mila stadii, che vale a dire, mille e cinquecento miglia per lunghezza, ed altrettanto per larghezza. In questa Città solamente si ammira ogni bellezza, ogni preziosità, essa solamente può chiamarli Civitas perfecti decoris. L’oro, che tra noi fregia le stanze più nobili, ivi lastrica le strade più popolari; e le gemme che qua giù si portano sul capo, son colassù calpestate dal piede. Su avarizia portati con gl’occhi in Cielo, già che non puoi entrarvi con i piedi, sporgi il capo dentro ad uno di quei finestrini, per i quali Daniele di Babilonia vagheggiava un giorno Gerusalemme; mira un poco se le ricchezze che colassù si possiedono, sono da posporsi alla terra; pensa un po’ se meritano che tu le getti per quell’affetto disordinato che hai alla roba; per quell’interesse che ti stringe le mani, finché non soddisfi né mercedi, né pii legati. Uditori miei, tenete pur fissi gl’occhi nelle ricchezze celesti, e poi siate sicuri, che sprezzerete la terra. Accadrà per appunto à voi, come à colui che avendo prima studiata la Geografia, e formato sommo concetto della terra perché  l’aveva sentita dividere in tante provincie, regni, ed imperii, andato poi a prender lezione da un astrologo si sentì supporre la terra stessa per un punto che sta nel centro de’ Cieli; di che meravigliato, non si soddisfece, finché sentì per risposta l’uno, e l’altro non discostarsi dal vero poiché chi contempla la terra da se sola ha ragione di stimarla per grande, ma chi la paragona con i cieli, non può non disprezzarla per piccola, e pure e terra e cielo sono un nulla à paragone d’un grado di Gloria. O Dio e può trovarsi chi per un bene da nulla sprezzi quella Gloria che gli porta un sì gran bene? Passiamo avanti, e dopo aver consegnato a quel monarca e terra e cielo, tutto inferiore ad un grado di Gloria, giacché Nullius rei sine socio jucunda est possessio, gli si dia per compagno un esercito d’Angeli vestiti di luce, di vergini bianche come gigli di Martiri imporporati di palme, di confessori candidi al par delle nevi. Più gli sia dato, e finisca di coronare la sua gioconda conversazione la più bella, la più eccellente, la più santa di tutte le creature che siano mai uscite dalle mani di Dio, dico Maria, che sola sola potrebbe farvi gioire d’allegrezza, avendo Ella forza d’incatenare ogni cuore. Eppur, tutto ciò, chi’l crederebbe, è inferiore ad un grado di Gloria, giacché, come dice Agostino, un grado di Gloria: Est majus bonum quam Cælum, Terra et quidquid in illis includitur. Perché  tutte queste cose vi dà il grado di Gloria e di più vi concede eternamente goderle. Un grado di Gloria sì guadagnato con una limosina, con una corona, con un’opera pia fatta per Gesù, è un bene incomparabilmente maggiore, eppure si sprezzano questi beni di Paradiso, e vogliono i fuggitivi della terra, finché parmi sentire chi, bestemmiando, dica che Grazia di Gloria in Cielo? Il nostro Paradiso lo vogliamo in terra tra i comodi, tra le delizie, tra’ piaceri. Dio immortale! E  se è vero, come è verissimo, che il possesso de’ beni, il dominio del mondo, il godimento della Patria de’ Beati, con la conversazione de’ Santi e della Vergine stessa, tutto inferiore ad un grado di Gloria che si goda in Cielo, che farò io per darli paragone che vaglia? Orsù mi sia lecito di dire che per eguagliare, se non per superare questo grado di Gloria, cavi Iddio con la sua Onnipotenza dal nulla, e dia l’essere a nuovi mondi di gran lunga superiori. Voi ben sapete che Iddio scherzò allorché sbalzò dal nulla questa gran macchina del mondo, con porvi un globo di fuoco che con i suoi raggi di luce sgombrasse quelle tenebre, che erant fuper faciem terra; scherzò allorché diede commissione al sole di provvedere di luce; la luna, che con i suoi raggi d’argento scemasse qualche poco l’oscurità della notte; scherzò quando sparse per il cielo lucidissime stelle; furono scherzi la formazione d’una terra sì vasta, d’un mare si smisurato, perché allor si diportò come Ludens in Orbe terrarum. S’alleni, per così dire, l’Onnipotenza, e se allora adoperò un dito della sua destra, impieghi ora la mano ed il braccio, e faccia comparire non uno, ma mille mondi, faccia che in essi la terra non più produca né triboli di disgusti, né spine d’amarezze, ma solo germogli, rose di contentezze, faccia un mare, che sempre in calma, mai minacci tempeste, dal quale siano esiliati i naufragi e ad ogni scoglio possa dirsi: qui abbiamo il porto, stenda i cieli che con la loro serenità continua, mantengano il brio delle allegrezze, non si veda mai folgoreggiare per aria un lampo, niun tuono spaventi, niun fulmine precipiti, e quivi vi sia dato vivere sani e robusti per mille anni, al fine de quali, senza provare agitazione di morte, sia trasportato il vostro spirito con somma quiete sopra del cielo, e giunto ad una di quelle dodici porte di diamante, spalanchisi ad un tratto, e rimbombando sonore le trombe, giulivi vi escano incontro con angeliche squadre di Martiri, torme di sacri confessori, drappelli di caste vergini e vi ricevano, narrandovi con lingue di Paradiso le grandezze di quella abitazione veramente regia. Eppure, tutto ciò non può formare quella piccola pietra che v’ho portata qui in mostra d’un sol grado di Gloria. E come è possibile, sento chi mi dice che un grado di Gloria contenga in se un bene sì smisurato, che superi quanto finora s’è detto? Così è, eccovi la risposta: prendete un diamante e ponetelo a confronto con tutti i marmi più belli della terra, e voi vedrete in quel diamante una tale prerogativa che non troverete in tutti i marmi immaginabili, cioè a dire uno scintillar sì luminoso che vi sembrerà una piccola stella della terra, e questa luce sì nobile mai mai troverete in tutti i marmi del mondo. Or così va, miei uditori, chi godrà un grado di Gloria avrà, per mezzo di quello, o Dio, che non avrà? O grado di Gloria quanto sei stimabile! Eppure tanti ti sprezzano. O Pater Abram, Pater Abram; Ahimè, queste sono voci d’Inferno; E perché turbare i discorsi di Paradiso? Son voci d’Epulone, che pretendi da Abramo? Non altro che una stilla di Paradiso: Mitte Lazarum ut intingat extremum digiti in aquam, refrigeret linguam meam. Tu deliri, o Epulone, mentre per estinguere le ardenti fiamme, che ti abbruciano, nulla più domandi d’una stilla? Io so che il Mongibello quando con le ardenti sue fiamme entra nell’Onde, le divora, ed il Mar Tirreno agl’assalti del Vesuvio mette in fuga e tu sciocco, con una stilla d’acqua pretendi estinguere l’inferno? Taci, stolto che sei! Tacete voi, risponde a noi Sant’Agostino. Tacete, sì si, una sola goccia, un sol grado di quelle stillate dolcezze del Paradiso, delle quali parlò in spirito Gioele, allorché disse: In illa die stillabunt montes dulcedinem, una sola, dice, di quelle gocce, basta non solo a smorzare, ma a disfare tutto l’inferno, e mutarlo in Paradiso; ecco le parole del Santo Dottore: Tota dulcescerer damnatorum amaritudo. – Cada una sola stilla di quei torrenti di Paradiso nell’inferno ed eccolo un Paradiso, non più abitato da’ demoni, ma dagl’Angeli; non più tenebre, ma luce; non più catene, ma libertà; non più dolori, non più spasimi, ma sanità perfetta, godimenti inenarrabili. Tota dulcesceret damnatorum amaritudo. O quam magna, esclami pure ogn’uno col Profeta, multitudo dulcedinis tuæ Domine! Ma sento chi mi dice: noi più di proposito brameremmo questo gran bene, se n’avessimo più distinta notizia, se sapessimo più distintamente ciò che sia questo grado di Gloria! Che sarà mai dunque questo grado di Gloria, mentre non porterà seco solo vedere le pompe trionfali di quelle Gerarchie Celesti che faranno corteggio al Re Sovrano, né pure rimirare i Santi vestiti di Corpo glorioso, sì penetrante che potrà passare per mezzo d’ogni monte, come ora il sole passa per un cristallo sì agile, che potrà in un subito calare dal Paradiso in Terra, così impassibile, come impassibile è l’anima; così luminoso, che se un Beato mettesse fuori del Cielo una mano, basterebbe per illuminare tutto l’universo cento volte più che fa il sole: Fulgebunt justi sicut sol in Regno Patris eorum, mentre non sarà rimirare Maria sempre Vergine, il di cui sembiante ci terrà incatenati i cuori; Maria, Maria nostra Avvocata, nostra Signora, nostra Protettrice, le di cui bellezze sono il miracolo de’ miracoli, finché come scrive Sant’Ignazio Martire in una delle sue lettere, mentre Maria era ancora in terra, concorrevano a truppe i popoli per vederla. Che sarà dunque questo grado di gloria, che sarà? Sarà vedere un abisso di splendori in un teatro di maestà, in un centro di gloria Iddio, videbitis eum sicuti est. E che vuol dire, uditori miei, vedere Iddio? Chi mi avvalora il pensiero, chi mi purga la lingua, sicché io possa in parte spiegarvi quel che vedrete vedendo Dio? Vedrete quello che è la Beatitudine universale di tutte le creature; vedendo Lui non pensate già di vedere niuno di questi oggetti creati; Egli increato, questi materiali; Egli purissimo spirito, questi difettosi; Egli perfettissimo, e pure tutto ciò, che vedrete fuori di Lui, immaginatevi che voi tosto vedrete; vedendo Lui, vedrete Dio. Oh chi potesse ridire che sarà del vostro cuore a quel primo sguardo? Oh che deliqui d’amore voi sentirete! Che vampe di carità, che rapimenti, e che estasi! Che dolcezze! Allora sì, che adorerete tanta Maestà, e quasi reputandovi indegni di sì gran bene, vorrete sospirare, vorrete piangere per un certo solito sfogo di tenerezza, ma non vi farà permesso, no: Non audietur ultra vox fletus, et vox clamoris, crediatelo ad Isaia. Che direte allor, che vi vedrete Beati, che vale a dire al possesso di tutti i beni per goderli non solo perfettamente, ma eternamente? Allora tutta giubilo nel suo cuore, dirà quella verginella: beata quell’ora, beato quel punto in cui voltai le spalle a quell’amante, ricusai i suoi regali, ributtai le sue imbasciate; beata me, che ho conservato intatto il giglio della mia verginità. Allora, sopraffatta dal giubilo, esclamerà quella maritata: o quanto feci bene a sopportare le tirannie del mio consorte, mi strappazzò con parole, mi percosse più volte, non fui moglie, fui serva, fui schiava, ma la mia pazienza? Ecco dove m’ha portata: al possesso di tutti i beni per goderli perfettamente, eternamente. Son finite le grida, son finiti i dolori, ecco il giubilo, ecco il contento! Allora, pieni d’allegrezza esclameranno quegl’uomini, quelle donne: felici noi per quel punto in cui demmo la pace all’inimico; felici noi perché non imbrattammo le nostre mani con roba altrui; felici noi perché portammo rispetto alle Chiese; felice l’ora in cui abbandonai quel compagno sì dissoluto; felice quel punto in cui abbandonato il mondo, mi ritirai nel chiostro. Ah, che se per me venisse mai un’ora così beata, che mi vedessi ammesso nel possesso di tanta gloria, ancor io, in qual sentimenti, in quali atti, in quali parole proromperei? Se mi sarà permesso accostarmi a quel Soglio Divino: Et veniam ad Solium ejus. Io voglio dire al mio Dio; che vorrei dire, se sopraffatto dall’amore, mi converrebbe attonito tacere. Taccio, ma mentre io fò silenzio; tu peccatore, tu peccatrice alza gl’occhi, e poi dirottamente piangendo esclama con dolorosa voce: Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me! Son belli quei Palazzi alla Reale, ma non sono per me; li demeritai allor che profanai le mie sale con veglie e balli; le mie Stanze con giuochi; le mie camere più segrete con replicate disonestà. Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me. Son belli quei diamanti, quelle perle, quelle gioie che t’adornano, ma non per me; le demeritai allor che feci gettito della più bella gioia che si prezzi in Cielo: la santa virginità; Paradiso sei bello, ma non sei per me. È nobile la conversazione di quei tanti Angeli, di quei tanti Cherubini, e quei tanti Serafini, che ardono di santo Amore verso del loro Iddio, ma non è per me, che sempre avvampai di amor profano in odio al mondo, in odio a Dio. Paradiso sei bello, ma non sei per me: Non è per me lacompagnia di quei Santi confessori perché chiamato al par di loro alle solitudini del Chiostro, vi stetti con gl’affetti nel secolo, innalzato alla dignità di Sacerdote mi portai al Sacro Altare con rozza mente, con laido cuore, maneggiai Cristo al par del fango. Paradiso sei ben bello, ma non sei per me; non è per me la compagnia di quei Santi penitenti nel mondo, mentre io vi son vissuto tra crapule e lussi; non è per me poter fissare gl’occhi in quei drappelli di caste vergini, molto meno nell’amabile volto di Maria, mentre io con occhio anche sacrilego tramai insidie alla castità più custodita. Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me perché, troppo interessato, non mi curai delle tue ricchezze per aver la roba altrui; non sei per me, perché troppo avido d’onori, ricusai le tue eterne dignità. Paradiso non sei per me, perché troppo vana stimai più la mia caduca bellezza che la tua; non sei per me: troppo fui irriverente nelle Chiese, troppo dedito alle vendette, troppo disubbidiente a’ miei maggiori, disprezzatore de’ Sacerdoti, e sempre diedi mal esempio alla mia famiglia; da me impararono i figli le bestemmie, le mormorazioni, le disonestà; da me impararono le figlie ad amoreggiare dalle finestre, nelle porte, per le strade; io li precedevo nella, io l’istigavo agl’ornamenti, io li posi sull’orlo de’ precipizi, io gli feci perdere con l’onore anche l’anima, e però Paradiso sei bello, ma non sei per me. Misero peccatore, misera peccatrice, e non ti crepa il cuore alla rimembranza di dover dire, se non muti vita … Paradiso sei bello, ma non sei per me: muta vita, lascia l’iniquità rinuncia al demonio, osserva i Comadamenti per poter alla tua morte proferire queste parole di giubilo Paradiso, Paradiso sei bello, e sei per me; sei bello, e sei per me.

LIMOSINA

Iddio per Isaia pone in vendita il Paradiso: Properate emite. Bisogna miei uditori, comprare il Cielo, non vi sgomenti la preziosità sua, poiché ciascuno di noi ha tanto di capitale che basta per una tal compra, non vi vuole più, dice San Pier Crisologo, che un pezzo di pane, un poco di limosina distribuita a’ poveri si può spender meno? Deus Regnum suum fragmento panis vendit et quis excusare poterit non ementem, quem tanta vilitas venditionis accusat? E pure si trova chi ne pure a prezzo sì vile vuole comprare il Paradiso. Ah Dio! Vende, Iddio a poco prezzo i piaceri del Cielo, non vi è chi li voglia; vende il demonio i piaceri del mondo a gran prezzo, ed ognuno compera, si spende ne’ giuochi, ne’ conviti, nelle feste, nelle pompe, nelle vanità, sarebbe poco, nelle vendette, nelle disonestà, e per il Paradiso non solo non vi è oro, né argento, ma neppur rame per sovvenir la povertà d’un mendico.

SECONDA PARTE.

Il Cielo, uditori, al dire dell’Evangelista, s’acquista per via di negozio, di traffico: Simile est Regnum Cælorum homini negotiatori: Se ciò è vero, come è verissimo, voi ben sapete, che è legge di buon negoziante trasportare in Paese straniero quelle merci, che colà non sono, e di là portare quelle che nel proprio o non nascono o non si lavorano. Bisogna dunque se vogliamo guadagnare il Cielo per via di traffico, come ci addita il Redentore, che noi colassù mandiamo quelle merci che v’hanno spaccio, e che ivi non si trovano. Desistete, o ricchi, d’accumular più quell’oro, che racchiudete in cassa, e sol lucrate in vani ornamenti, in superflue vanità. Avari, non occorre con nuove usure, con traffici illeciti accrescere le vostre ricchezze, non manca oro in Cielo, già v’ho detto, che tutte le Grade Piazze son fabbricate Ex auro purissimo. Donne, quelle pietre preziose, quei diamanti, quelle perle che con tanta vanità v’adornano, non vi comprano il Cielo, perché colassù fino le porte, le mura, le torri sono gemme: Porte nitent margaritis, omnes muri tui, et turres Jerusalem gemmis edificabuntur. Ambiziosi, non tramate più la rovina del prossimo per salire a quella dignità, a quel posto, non mancano titolati e grandi nel Cielo, mentre tutti i Beati sono un popolo di regi: Percipite Regnum vobis paratum a Patre meo. Uditori, ori, gemme, onori non hanno spaccio in Paradiso perché di queste merci il Paradiso n’abbonda. Dunque se volete guadagnarlo col traffico, portate colassù le merci che non vi sono: In Cielo non v’è pianto, non v’è dolore; in Cielo non v’è tempo, essendovi l’eternità … Non erit ibi luctus, neque dolor erit ultra: Dunque per ottenere il Cielo vi vogliono lacrime di cuor contrito, dolori di patimenti, di tribolazioni tollerate con pazienza. Queste sono le merci che hanno spaccio nel Cielo, e queste ci otterranno il Paradiso. Eccovi il modo d’ottenere il Cielo, guadagnarselo con portare di là la mercanzia che non v’è, che vale a dire patimenti; e se così farete, Isaia vi assicura, che qui vicerit possidebit hæc: tutto questo sì gran bene del Paradiso è per voi, di grazia non vi lasciate accecare da i diletti peccaminosi di qua, che presto v’invola la morte, ma solo attendete agl’eterni dell’altra vita. Volete, che io v’insegni un altro modo per guadagnare il Paradiso? Fissate spesso gl’occhi colassù, perché così vivrete bene, ed il Paradiso sarà vostro. Tito e Domiziano, ambedue figli del vecchio Imperatore Vespasiano, furono fra di loro sì differenti, e riuscirono di natura e di costumi sì varii, che Tito fratello maggiore al dir di Svetonio fu chiamato: Delitiæ Generis humani, e Domiziano: Flagitium Generis humani. Per rendersi buono e di costumi sì retti Tito, v’ebbe gran parte la prudenza del suo Aio, che per molto tempo gli assisté. Fattosi notte conduceva costui il giovinetto Tito in una loggia; indi dicevagli: Volgete gl’occhi alle stelle; vedete quella figura formata di vent’otto Stelle, si chiama Ercole , ed ha ottenuta quella stanza colassù in cielo, perché nel mondo atterrò molti mostri; ve l’otterrete ancor voi, se riporterete vittoria di quei vizi che infettano il mondo. Udite: quell’altra costellazione formata di ventisei sfavillanti lumiere, si chiama Perseo, e fu quel giovane sì generoso, che fece guerra alle Gorgoni, e con un colpo di lancia sviscerò l’Orca Marina, liberandone Andromeda, sicché non fosse divorata; or così appunto sfavillerete ancor voi se col braccio della vostra autorità difenderete l’onore delle matrone, e la pudicizia delle donzelle. Date ancora un’occhiata a quelle due figurine composte ambedue di nove stelle; sono Castore e Polluce, e voi ancora v’avrete questo splendore se qui nel mondo fomenterete la pace, e v’amerete con i sudditi: volete altro anche con volgere gl’occhi a queste menzogne; si rese Tito principe sì buono, vi delitiæ generis humani vocaretur. Deh date un’occhiata a quei Giusti del Paradiso, … Qui fulgent quasi stelle in perpetuas æternitates, e chi vi tiene, chi v’impedisce? Vedete colà quella matrona coronata di tanta gloria, ella è Francesca Romana. Chi v’impedisce o vedove un simil posto? Vedete colassù quella Cunegonda, chi v’impedisce o maritate un simil possesso? Chi o donzelle? mirate le Lucíe! Chi o contadini? mirate un’Isidoro! Suspice Cælum, dice Agostino, et accipies Cælum. – Mi giova credere, che alla mia predica siano molti e molte che abbiano da vedere fra poco la Gloria che io non ho saputo descrivere. S’io sapessi chi sono, oh con che ossequio li rimirerei; qual santa invidia m’occuperebbe il cuore, vorrei fino baciar la terra che calpestano. Ma ahi, che sento mutarmi l’allegrezza in pena; così non fosse: vi saranno anche molti e molte che non la vedranno mai … s’io sapessi quali sono! Vorrei scendere da questo pulpito e, afferratili per un braccio, dir loro: Ah infelice, vuoi dunque perdere il Paradiso, abitazione sì bella, la compagnia de’ Santi, di Maria, di Dio, per non lasciare quella maledetta amicizia, per non restituire quella roba, per non perdonare a quell’inimico? Leggo pure in Erodoto di quell’Egistrato Eleo che, tenuto legato da una catena ad un piede da’ demoni, per poter correre alla bramata libertà, recise quel piede che gliela impediva; e tu non avrai animo, non per una libertà, che finisce, ma per l’eternità, di troncare quei legami lascivi? non l’avrai? Andate dunque a casa, e questa sera sull’imbrunir di notte, dite, mirando il Cielo: Sei pur bello Paradiso, ma forse non sarai per me.

QUARESIMALE (XI)

IL SACRO CUORE DI GESÙ (63)

IL SACRO CUORE (63)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE TERZA.

Sviluppo storico della divozione.

CAPITOLO SETTIMO

DALLA MORTE DI MARGHERITA MARIA AI NOSTRI GIORNI

VI. – LE TENDENZE ATTUALI DELLA DEVOZIONE

Non mi pare che si possa segnalare, nei primi decenni del nostro secolo, né un nuovo sviluppo, né tendenze propriamente nuove della divozione. Ma, come succede ordinariamente, la scossa data alle anime dallo scatenarsi della guerra mondiale, dal pericolo imminente in cui si è trovata la patria, dai lutti innumerevoli, dalle inquietudini e calamità di ogni sorta, questa scossa ha rianimato il senso religioso e il senso patriottico; nello stesso tempo, ravvivando il sentimento dell’unità nazionale e della solidarietà fra il presente e il passato, essa ha fatto risalire alla superficie della coscienza francese (non mi occupo qui che della Francia) molte idee deposte nel corso degli anni sul fondo di questa coscienza, sempre pronte a ricomparire (se son mai scomparse) presso quelli che vivono la vita cristiana nella sua pienezza. Da ciò una intensità più grande, un orientamento particolare del movimento, visibile soprattutto per due o tre idee, due o tre pratiche, che, senza essere nuove, hanno preso nuovo rilievo in questi ultimi tempi. Voglio parlare della preghiera nazionale al sacro Cuore, dell’intronizzazione del sacro Cuore nella famiglia, delle consacrazioni militari.

I. La preghiera nazionale. — Abbiamo visto, nel corso di questo studio, il desiderio manifestato da nostro Signore a santa Margherita Maria di un omaggio regale al suo divin Cuore (edifizio, consacrazione riparatrice, stendardo) e gli sforzi fatti nel passato per rispondere alle intenzioni di Gesù. La prima parte del programma (edificio espiatorio, in cui doveva farsi la consacrazione) è stata magnificamente realizzata con la costruzione della Basilica di Montmartre. L’opera era quasi terminata e già il Cardinale Amette aveva espresso il suo desiderio e la sua speranza di consacrare solennemente la Basilica del Voto nazionale per la festa di santa Margherita Maria (17 ottobre 1914), quando la guerra scoppiò. La grandiosa cerimonia, che doveva riunire tutto l’episcopato francese e a cui tutta la Francia cattolica doveva esser rappresentata, fu rimessa a più tardi. Ma il movimento verso il sacro Cuore fu unanime fra i Cattolici ferventi. La preghiera pubblica andava a tutti i Santi protettori della patria: alla SS. Vergine, a S. Michele, a S. Dionigi e a Genoveffa, a S. Clotilde e a S. Luigi, a S. Giovanna D’Arco e ad altri ancora, secondo le devozioni locali o particolari; ma, d’ordinario il sacro Cuore aveva il primo posto. I giorni di preghiera nazionale sono stati quasi tutti contrassegnati dalla consacrazione al sacro Cuore. E questa consacrazione, si può dirlo, è stata veramente nazionale; nazionale per lo slancio unanime delle anime, nazionale per l’intenzione di tutti. – La Francia ufficiale non vi si è associata. Ma questa stessa astensione non ha fatto che rendere più sensibile la necessità dell’espiazione e dell’ammenda onorevole; non solo per le colpe individuali, ma anche per quelle della nazione. Questo carattere di espiazione è stato particolarmente segnato nella formula che fu letta in tutte le chiese di Francia, nelle cerimonie dell’11 giugno 1915 e del 26 marzo 1916. La formula ha per titolo « Ammenda onorevole e consacrazione della Francia al sacro Cuore di Gesù ». Essa esprime così bene il pensiero di tutti e rende così esattamente l’aspetto attuale della divozione nella nostra patria, che noi non sapremmo far vedere ciò che è ora la devozione dei francesi al Cuor di Gesù meglio che dandone dei larghi estratti che ne riproducano tutto il movimento. « O Gesù…, eccoci prostrati ai vostri piedi, per offrire al vostro sacro Cuore, a nome nostro e in nome della Francia nostra patria, i nostri omaggi e le nostre suppliche. Noi vi adoriamo… Noi vi riconosciamo come nostro sovrano Signore e Padrone. Noi confessiamo che il vostro dominio si estende, non solo sugli individui, ma sulle nazioni… Noi proclamiamo che Voi avete dei diritti particolari sulla Francia, a causa dei beneficî di cui Voi l’avete colmata e della missione che le avete affidato nel mondo, Vi chiediamo perdono delle colpe private e pubbliche con le quali abbiamo oltraggiato la vostra sovranità e il vostro amore. Perdono, o Signore Gesù, per l’empietà, che vorrebbe cancellare il nome di Dio e il vostro Nome benedetto dalla faccia della terra ». Il popolo rispose: « Perdono, o Signore Gesù! ».

Il celebrante continua: « Perdono per l’accecamento e l’ingratitudine di coloro che, sconoscendo la missione divina confidata alla vostra Chiesa per la felicità della società, non meno che per la salute delle anime, ha voluto separare da Essa la nostra patria e si sforzano di intralciare la sua libertà e la sua azione fra noi ». Il popolo: « Perdono, o Signore Gesù! ».

Il celebrante: « Perdono per la violazione dei vostri comandamenti, per le bestemmie di parole e di penna, per la profanazione della Domenica, per il disprezzo delle sante

leggi del matrimonio, per l’omissione del gran dovere dell’educazione cristiana, per la depravazione dei costumi, per l’amore sfrenato del lusso e del piacere ». Il popolo:

« Perdono, o Signore Gesù! ».

Il celebrante: « Per tutti questi disordini, noi vi facciamo ammenda onorevole, e vi domandiamo perdono ». Il popolo: « Perdono, o Signore Gesù! ».

Dopo l’ammenda onorevole, la consacrazione.

Il celebrante: « Al fine di riparare queste colpe, per quanto sta in noi, vi consacriamo oggi le nostre persone, le nostre famiglie, la nostra patria: che esse siano, d’ora in avanti, completamente vostre ». Il popolo: « Siano vostre, o Signore Gesù! ».

Il celebrante riprende ciascun punto di questa enumerazione, precisando come noi intendiamo in pratica questa consacrazione, questo dono delle nostre persone, delle nostre famiglie, della nostra patria a Gesù. Per le persone e le famiglie il popolo risponde: « Siano vostre, o Signore Gesù! ». Per la Francia quando il prete ha detto: « Noi vogliamo che la Francia sia vostra », il popolo risponde: « Che la Francia sia vostra, o Signore Gesù ». Segue la preghiera: « Noi ci rivolgiamo a Voi, o Cuore sacratissimo di Gesù, nelle nostre angosce; aprite per noi i tesori della vostra infinita carità. Il sangue sgorgato dalla vostra ferita, ha riscattato il mondo; che una goccia di questo Sangue divino, per la sua potenza espiatrice riscatti, ancora una volta, questa Francia che voi avete tanto amato e che non vuol rinnegare la sua vocazione cristiana. Dimenticate le nostre iniquità, per non ricordarvi altro che delle sante opere dei nostri Padri e lasciate scorrere su noi l’onda della vostra misericordia. Che la Chiesa costruita dalla Francia in vostro onore, sia per noi come una cittadella inespugnabile, che protegga Parigi e il nostro Paese tutto intiero. Benedite i nostri coraggiosi eserciti, accordateci la vittoria e la pace e fate che presto il tempio nazionale che vi abbiamo innalzato possa esservi solennemente consacrato come testimonianza del nostro pentimento e della nostra fiducia, come garanzia della nostra riconoscenza e della nostra fedeltà futura. Cuore adorabile del nostro Dio, la nazione francese v’implora: beneditela, salvatela! » Il popolo risponde: « Cuore adorabile, ecc. ». Il celebrante: « O Cuore immacolato di Maria, pregate per noi il sacro Cuore di Gesù! », il popolo riprende ancora: « O Cuore immacolato, ecc. ». È inutile dire che la parte data alla folla nell’ammenda onorevole, nella consacrazione, nella preghiera, finisce per dare all’atto la sua vera fisionomia, il suo carattere sociale. Malgrado l’astensione della Francia ufficiale e, in parte, a causa di questa stessa astensione, abbiamo avuto in questi anni terribili, una preghiera, un’ammenda onorevole e una consacrazione veramente nazionali della Francia al sacro Cuore. – Quanto all’immagine del sacro Cuore sulla bandiera di Francia, si è cercato, combattendo gli intrighi meschini, di supplirvi con la devozione privata, innalzando da per tutto e in tutti i modi, dei piccoli stendardi del sacro Cuore. Quanti soldati al fronte l’hanno portato fieramente sul petto; quante donne e uomini attraverso le vie delle nostre città e i sentieri delle nostre campagne presentano agli occhi di tutti la pia insegna! La Francia ufficiale, ahimè, continua ad ignorare Gesù o a disconoscerlo; ma mai la Francia fedele e credente ha fatto tanto per consolare il suo divin Cuore, rendendogli, per quanto sta in lei, tutti gli omaggi che Egli le ha domandato per mezzo della sua serva preferita, Margherita Maria.

2. L’intronizzazione e la consacrazione delle famiglie. Abbiamo visto, più addietro come fu arrestato ilmovimento (che d’altra parte non aveva nulla di specificamente francese) della incoronazione del sacro Cuore.Sempre viva ed attiva la devozione, si è portata in un’altradirezione. Questa volta non è più questione, almenodirettamente, di cerimonie solenni, in cui la folla affluisceda tutta una città o da tutta una regione per acclamareGesù e la sua sovranità di amore. Si tratta di unafesta intima, di una riunione di famiglia. Ma la festaha un senso profondo, la riunione si fa in vista di uno degli atti più importanti nella vita della famiglia. Questo atto consiste nell’intronizzare il sacro Cuore nella dimora familiare, nell’installarlo nel focolare, perché Egli presieda d’ora in poi, non solo come invitato, ma come padrone e re a tutta la vita domestica. Gesù aveva promesso ch’Egli avrebbe benedetto le case in cui l’immagine del suo sacro Cuore fosse esposta ed onorata. L’intronizzazione implica che ormai questa immagine (quadro o statua) avrà il suo posto, un posto d’onore nella dimora familiare e che vi riceverà gli omaggi; ma la cerimonia ha un senso più profondo e deve avere un’influenza su tutta la vita della famiglia; poiché l’intronizzazione, come l’indica la parola, consiste nell’introdurre il sacro Cuore nella casa per esserne d’ora innanzi il signore e il re. La cerimonia è semplicissima e molto bella. Si procura, se non si ha di già, una bella immagine del sacro Cuore (bella relativamente). Si fissa il giorno; naturalmente sarà un giorno di festa (festa liturgica, festa del padre o della madre, data importante per la famiglia). Ci si prepara convenientemente e, per quanto è possibile, ci si comunica la mattina del giorno scelto, Se il prete può venire facilmente, lo si invita per maggiore solennità. All’ora fissata, si mette solennemente l’immagine sul trono, in mezzo ai fiori (La camera indicata è naturalmente la sala da ricevere, quando l’intronizzazione è intesa come una professione pubblica di appartenenza al sacro Cuore; se vi si vede invece un atto intimo della vita familiare, può essere una camera interna o una specie di oratorio di famiglia.) ed ai ceri. Allora, davanti alla famiglia riunita (e conviene che in questa occasione i servitori si sentano più che mai della famiglia) qualcuno, il prete, o il capo o la padrona di casa legge la consacrazione di tutta la famiglia (padre, madre, figli, servitori) al Cuore sacratissimo di Gesù. Esistono alcune formule già fatte; ma il capo della famiglia può comporne una a suo piacere, o modificare, per adattarla meglio, quella che ha sotto mano. Anzi, se la vorrà leggere tal quale, è bene ch’egli l’abbia copiata di sua mano o fatta copiare, sia dalla madre, sia da uno dei figli. Conviene che la consacrazione sia ben scritta, su bella carta e che sia firmata da tutti quelli che, nella casa, sono in grado di firmare. Sarebbe anzi desiderabile che l’atto fosse messo in cornice, come si usa per l’immagine della prima Comunione, e restasse esposto presso l’immagine intronizzata, come testimonianza e ricordo della consacrazione solenne. D’altra parte è evidente che i particolari della cerimonia possono variare all’infinito. L’essenziale è che vi sia intronizzazione solenne e solenne consacrazione. Nella mente dei promotori, la festa deve avere un domani. Questo domani sarà tutta la vita di famiglia dominata dal grande atto ora descritto. Questo stesso atto si rinnoverà tutti gli anni (O anche, come l’’indica il « documento familiare », tutti i giorni alla preghiera della sera. Invece di rinnovare tutti i giorni la consacrazione spesso ci si accontenta d’intercalare nella preghiera qualche parola  che la ricordi) nel giorno anniversario, o meglio ancora, tutti i mesi, per esempio i primi venerdì. Quando un nuovo bambino viene ad accrescere la famiglia, appena battezzato sarà presentato e consacrato al sacro Cuore; il suo nome sarà aggiunto a quello degli altri consacrati in attesa ch’egli possa ratificare lui stesso la consacrazione e firmare a sua volta l’atto. Tutti i giorni, se le circostanze e la disposizione dei luoghi vi si prestano, ci si riunirà per la preghiera presso l’immagine venerata; vi si potrebbe intercalare un ricordo della intronizzazione che fu fatta del sacro Cuore dal capo della casa e della consacrazione che fu fatta della famiglia al sacro Cuore. La vita familiare dovrà rispondere alle parole, sarà una vita solidamente, profondamente cristiana, tale da fare onore al divino Maestro; la vita intima di ciascuno dovrà realizzare l’ideale comune. Questo ideale è troppo bello, senza dubbio, se non per esser realizzabile, almeno per esser realizzato da per tutto. Dove non si può ottenere tanto, ci si accontenta di meno. Così in molte diocesi si è propagata la cerimonia della consacrazione generale delle famiglie. Essa si fa nella Chiesa parrocchiale per quelle famiglie della parrocchia, i di cui membri vogliono prendervi parte. Per supplire alla intronizzazione solenne, si distribuisce un’immagine ricordo che deve essere posta bene in vista e in un posto d’onore in ciascuna famiglia consacrata, con raccomandazione di renderle qualche omaggio e particolarmente di riunirsi davanti ad essa per la preghiera della sera in comune. Questo movimento di divozione familiare al sacro Cuore, per mezzo dell’intronizzazione e della consacrazione, ha preso in questi ultimi anni una grande estensione. Non è, credo, di origine francese, anzi forse è più in vigore nell’America latina che in Francia. Vi si possono rilevare diverse correnti distinte, partire da diversi punti, e che, finora, non si sono completamente fuse. Sembrano potersi raggruppare in due, quella che propaga il Messaggero del Cuor di Gesù, organo dell’Apostolato della preghiera, e quella determinata dal P. Matheo. Nella prima l’idea di consacrazione domina. Già da molto tempo il Messaggero spingeva alla consacrazione delle famiglie al sacro Cuore. Nel 1889 specialmente vi fu in questo senso un movimento quasi mondiale. Lo slancio pareva essersi indebolito. Da alcuni anni, forse in parte per influenza indiretta del P. Matheo, si è riacceso e il Messaggero gli presta l’aiuto possente della sua pubblicità (più di 40 organi mensili in una trentina di lingue). L’idea primitiva di consacrazione si mantiene al posto principale, ma l’intronizzazione vi ha la sua parte, sia come condizione preliminare della consacrazione, sia come conseguenza naturale di questa, sia come parte integrale di una unica cerimonia totale. Per assicurare l’effetto durevole di questo atto solenne, il P. Calot, direttore generale dell’Apostolato della preghiera, ha elaborato per « le famiglie del sacro Cuore » un piccolo regolamento di vita cristiana, semplice e pratico. Esso comprende: professione di docilità assoluta agli insegnamenti della Chiesa, e alla direzione del Papa; consacrazione al sacro Cuore, rinnovata tutti gli anni, immagine del sacro Cuore al posto d’onore nella casa, osservanza fedele dei comandamenti d’Iddio e della Chiesa, specialmente della legge cristiana del matrimonio, preghiera della sera in comune, comunione frequente, unione e pace fra gli sposi, educazione cristiana dei figli e cura cristiana del loro avvenire (vocazione, matrimonio cristiano); decenza cristiana nelle mode e negli ammobigliamenti, scelta dei libri e delle riviste, sorveglianza nella conversazione, doveri di religione e di carità verso i servitori. – L’opera dell’« intronizzazione del Cuor di Gesù, per mezzo della consacrazione delle famiglie » ha avuto, ed ha ancora, per promotore principale il R. P. Matheo Crawley- Boevey dei sacri Cuori (Picpus). Il cardinal Billot, nella lettera che scriveva al P. Matheo per raccomandarla « con entusiasmo », dopo aver preso conoscenza dell’opera, ce la spiega come avente per unico scopo « di installare nel focolare domestico la pura, semplice e franca divozione al sacro Cuore, quale ci è stata trasmessa nelle rivelazioni di santa Margherita Maria, quale la Chiesa l’ha sanzionata con la sua suprema autorità ». Egli vi vede « un modo semplice e pratico di realizzare i desideri espressi da nostro Signore » alla santa, di un culto speciale reso al suo Cuore nelle famiglie. Non è l’intronizzazione « l’allargamento del gesto, così graziosamente abbozzato » dalle novizie di Paray quando esse festeggiavano la loro santa maestra, indirizzando tutti i loro omaggi ad una modesta immagine del sacro Cuore? Il Cardinale dunque raccomanda l’introduzione della divozione al sacro Cuore nei focolari domestici. come « il mezzo più appropriato alla santificazione della famiglia, e, per essa, della società tutta intiera ». Ravvicinando a questo proposito la dottrina dei Padri intorno alla Chiesa, Sposa di Cristo. uscente dal fianco trafitto di Gesù e dal suo Cuore ferito d’amore, e la dottrina di S. Paolo sul matrimonio cristiano simboleggiato dal mistico matrimonio di Cristo con la sua Chiesa, egli conclude: « Per il sacramento che è alla sua base, la famiglia cristiana ci appare come avente le sue radici nelle profondità stesse del Cuore da cui la Chiesa ha preso la vita. E, se è così, dove dunque la divozione al sacro Cuore sarà meglio al suo posto? Dove troverà un ambiente e, se osassi dirlo, un terreno di cultura più appropriato? Soprattutto dove si troverà un mezzo più connaturale (mi si perdoni il barbarismo) di soprannaturalizzare la famiglia e d’innalzarla all’altezza dell’ideale voluto da Gesù Cristo? » Egli vi vede infine un omaggio di riparazione per i diritti di sovranità di nostro Signore misconosciuti da tutti. – Per quanto questa raccomandazione del Card. Billot possa essere preziosa ed autorevole, il P. Matheo ha ricevuto di meglio. Fin dal 1913 Pio X, in seguito alla domanda dei Vescovi del Cile, accordava un’indulgenza alle famiglie cilene che si consacrassero al Cuor di Gesù, intronizzando nelle loro case l’immagine del sacro Cuore. Benedetto XV, con una lettera del 27 aprile 1915, ha esteso questo favore alle famiglie del mondo intero. In questa occasione il Santo Padre ha caldamente raccomandato questa pratica e ne ha mostrato i vantaggi e l’opportunità. La lettera è tale che conviene darne qui la sostanza, non solo per l’autorità da cui essa emana, ma anche per le spiegazioni che contiene ed i lumi che porta. Essa indica prima di tutto con perfetta chiarezza l’idea dell’opera ed i suoi costitutivi essenziali: consacrazione della famiglia con questo particolare, che « l’immagine, installata come su di un trono, in un luogo molto in vista nella casa, presenti a tutti gli sguardi nostro Signore come il re di questa famiglia ». Leone XIII, continua il Papa, aveva consacrato al divin Cuore il genere umano intero. Ma questa consacrazione generale non rende superflua la consacrazione di ciascuna famiglia in particolare; al contrario essa vi si armonizza a meraviglia e contribuisce a realizzare la santa intenzione del Pontefice; poiché ciò che è di ciascuno in particolare, ci tocca più da vicino di ciò che è comune a tutti. E poi vi è qualcosa che convenga meglio ai tempi in cui siamo? Quanti sforzi per disfare l’opera moralizzatrice della Chiesa e riportarci al paganesimo! Quanti attacchi specialmente contro la famiglia! I nostri nemici vedono bene che, corrompendo la famiglia, corrompono la società intera. Di là la legge del divorzio; di là il disprezzo dell’autorità paterna, l’obbligo di affidare i figli alla scuola pubblica, che è quasi sempre ostile alla Religione; di là quelle campagne vergognose per arrivare ad inaridire la vita fin dalle sue sorgenti, violando con pratiche impure la santità del matrimonio. Non si potrebbe dunque far cosa migliore che lavorare per rianimare il senso cristiano nella vita domestica, installando la carità di Cristo come una regina nel focolare domestico ed attirando sulla famiglia le benedizioni promesse da nostro Signore alle case in cui l’immagine del suo cuore fosse esposta ed onorata. « Ma, aggiunge Benedetto XV, questo onore non basta, Bisogna prima di tutto conoscere Gesù, la sua dottrina e la sua vita, la sua passione, la sua gloria. Non basta accontentarsi di seguirlo con un sentimento superficiale di religiosità, che parli al cuore sensibile e faccia versare qualche lagrimuccia, lasciando i vizî intatti; bisogna attaccarsi a Lui con una fede viva e forte, che diriga e governi lo spirito, il cuore, la condotta. Gesù è così dimenticato, così poco amato, perché è sconosciuto o troppo poco conosciuto. Bisogna dunque, prima di tutto, lavorare a far meglio conoscere Gesù Cristo, la sua verità, la sua legge; l’amore verrà in seguito ». Tale è la bella lettera del Papa. Si noterà questa singolare insistenza su la conoscenza di nostro Signore e del suo Vangelo. Vi è in ciò una lezione delle quali deve penetrarsi chiunque si industri a sviluppare, in sé e negli altri, la divozione al sacro Cuore. Ecco dunque spiegate magnificamente dal cardinale Billot e da Sua Santità Benedetto XV le grandi idee che dominano questa bella opera dell’intronizzazione con la consacrazione delle famiglie al sacro Cuore. È bene aggiungere ancora qui che vi sono, fra gli zelatori dell’intronizzazione, alcune leggere differenze di vedute, che portano delle differenze in questo o quel dettaglio pratico. Gli uni la considerano avanti tutto come l’entrata del sacro Cuore nel santuario della famiglia. In conseguenza essi installano la statua in una stanza più intima o in una specie di oratorio, dove la famiglia va a renderle omaggio, nella preghiera della sera, e dove ognuno può venirla a pregare in segreto. Gli altri vi vedono più una professione pubblica di divozione al sacro Cuore, ed espongono l’immagine bene in vista, nel salotto, dove colpisce subito gli sguardi ai visitatori. Tutte e due le idee son buone e facilmente conciliabili.

3. La consacrazione dei soldati. — Durante la guerra mondiale alcuni cappellani zelanti hanno avuto l’idea della consacrazione militare al sacro Cuore. L’idea ha trovato accoglienza tanto fra i soldati quanto fra i superiori, specialmente al fronte, dove la presenza del nemico, la vita di sacrificio e il pericolo continuo di morte, la visione più netta dell’ideale patriottico, tutto infine contribuisce ad innalzare gli animi al disopra delle preoccupazioni malsane o volgari, nel mondo superiore della grazia e della religione. Hanno avuto luogo cerimonie mirabili alle quali « unità » più o meno considerevoli, cedendo alla possente attrazione del cuor di Gesù han preso parte con uno slancio ed un accordo che, senza violentare per niente la libertà degli individui, la libera, per così dire, dagli impacci del rispetto umano o delle passioni per trasportarla in alto. L’atto solenne è preparato da una specie di ritiro, con numerose Confessioni e Comunioni, ed implica, nel pensiero di tutti, l’impegno a condurre, d’ora in poi, una vita cristiana ed a collocare di nuovo il Cristo al focolare della famiglia. La moglie ed i figli sono messi al corrente del grande atto e della promessa con un documento firmato che resterà anche a far fede per l’avvenire. Il fine ed il senso della cerimonia debbono essere spiegati con cura. Prima di tutto essa ha per scopo il bene spirituale di ogni individuo, riavvicinandolo a Dio e procurandogli i vantaggi incomparabili della divozione al sacro Cuore. Di più ha uno scopo sociale: prepara, per il ritorno al focolare domestico, l’entrata del sacro Cuore nella famiglia; reintegra, per quanto è possibile, la preghiera e la Religione nell’esercito; ci permette di intravvedere, in un avvenire ancora indeciso, il tempo in cui la nazione ritornata ufficialmente cristiana, si consacrerà al cuor di Gesù e farà sventolare, sulla bandiera nazionale, l’immagine del sacro Cuore.

QUARESIMALE (IX)

QUARESIMALE (IX)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA NONA


Nella Feria sesta della Domenica prima.

Si mostra non esser veri devoti di Maria Vergine; nè da Maria meritar protezione, quei che vogliono vivere nemici del Figliuolo Giesù.

Erat autem Jerosolymis Probatica piscina. S. Gio: cap. V.

Quante furono le operazioni, ed i fatti della Sinagoga tante furono le ombre della Chiesa e delle operazioni de’ fedeli. L’odierna Probatica con gli infermi che stanno sotto del portico attendendo la mozione dell’acque per mano angelica, mi fanno ravvisare quei peccatori che vivendo, come essi dicono, sotto la protezione di Maria, tengono per certa la salute eterna; senza accorgersi che siccome per ottenere salute agli infermi non bastava stare sotto il portico, ma bisogna tuffarsi nelle acque al primo muoverle dell’Angelo. Così ai peccatori per salvar le anime loro, non basta fingersi e figurarsi di star sotto la protezione di Maria, invocandola ogni dì, digiunando il sabato, ma è necessario tuffarsi nel bagno salutifero della Confessione mondandoli dalle colpe, abbandonando il peccato. Quando questo non si faccia, io v’assicuro, e saranno i due punti del mio discorso, che né voi siete devoti di Maria, né Maria sarà mai vostra Protettrice. Le monete di maggior prezzo, non v’ha dubbio, che sono le più facili ad essere falsificate; voi ben sapete che non v’è moneta di maggior pregio della Devozione di Maria, è questa una moneta d’oro di tal stima e valore che nel banco della Divina Misericordia trova sempre abbondantissimo lo spaccio. – Or questa moneta appunto, è quella che molti di voi, così non fosse, per istigazione del superbissimo principe de’ falsari, il demonio, falsificate. Non me lo credete? Su dunque alle prove. Come vien definita da’ Teologi la Devozione; Est voluntas quædam prompte tradendi se ad ea, quæ pertinent ad Dei famulatum, è quella prontezza di volontà, che taluno prova in tutto ciò che appartiene al servizio di Dio. Così San Tommaso; ma non così voi, poiché voi chiamate devoto di Maria chi recita devozioni in onor suo, chi ne va a visitare l’immagine, chi digiuna qualche giorno in ossequio di Lei, e cose simili. Sin qui non anderebbe male, ma non basta; voi mi portate la vostra definizione tronca, non me la dite tutta; bisogna che diciate che presso di voi, Devozione di Maria vuol dire Corona e peccati, Offizio e femmine, Salmi e mormorazioni, Salve Regine e vendette, Inni e laide canzoni, roba del prossimo e limosine in onor suo, e per finirla, digiunar dal cibo e non dal vizio. Se  così è, voi non potete negare falsificata la Devozione, dunque come falsa non conterà nel banco Divino. Confessatela giusta: voi con questa falsa Devozione non cercate di servire alla Vergine, e però non siete veramente devoti suoi; ma con questa falsa devozione, avete solo la mira a gabbarla per quanto è dal canto vostro, per evitare i castighi di malattie, di penurie, di disonori e di morte che meritate per i peccati. Vorreste che a voi riuscisse, come ai Gabbaoniti; comparvero quelli, come sapete, avanti Giosuè con le vesti tutte lacere, con i viveri scarsi e di mala qualità, con le scarpe totalmente logore, e tutto ciò per dar ad intendere a Giosuè d’aver fatto lunghissimo viaggio per ritrovarlo, quando per verità appena si erano mossi per ricercarlo. Or siccome questa simulazione de’ Gabbaoniti non ebbe altra mira che sottrarsi da’ castighi, così voi, con la vostra fantastica devozione non avete altro scopo che liberarvi da quegli scempi funesti che vi minaccia la Divina Giustizia. Per questo voi di quando in quando vi presentate riverenti davanti la Vergine con certe vostre spoglie di penitenza più apparente che vera, voglio dire con certe esteriorità, benché pie, d’una limosina stentatamente donata in onore di Maria, d’un Salterio recitato, e con ciò vi credete di poterle dare ad intendere d’aver fatta lunga strada per ritrovarla, mentre neppure avete dati pochi passi, anzi neppur questi, giacché non vi siete mossi di casa non avendo lasciata la consuetudine maledetta, e l’abito invecchiato di peccare. Intendetela, queste vostre finte devozioni, non vi esimeranno da castighi; poterono i Gabbaoniti gabbar Giosuè, ma non potrete voi gabbar Maria, la quale adoprerà il braccio onnipotente del Figlio per piovere sopra di voi i suoi giusti sdegni: non sarete esenti da malattie, sarete flagellati da carestie, avrete ogni castigo in questa vita, perché non siete ma vi fingete devoti di Maria. E siccome queste vostre finte Devozioni non vi elimineranno da’ mali di qua, così non vi partoriranno i beni di là. – Lo sò, che sì! Volere andare in Paradiso con una Corona della Madonna accompagnata da una dozzina di peccati mortali; Pietro d’Alcantara, e perché sempre a capo scoperto, e con piede nudo, ne’ maggiori rigori del vero, perché tanto lacerarvi, tanto strapazzarvi? Domenico Loricato, perché ridurvi con tante asprezze a guisa d’un scheletro animato? Fu vostra disgrazia nascere ne’ secoli scorsi, se a voi toccava in sorte di vivere ne’ nostri, avreste imparato, che per entrare in Cielo basta un piccolo ossequio a Maria, ancorché finto, perché mescolato da colpe gravi. Che occorreva a Francesco Saverio che voi assicuraste la vostra salute con tanti sudori, con tanti stenti, con viaggi sì lunghi, con vigilie, con asprezze, con digiuni? Bastava visitare una Immagine di Nostra Signora ed ancorché foste macchiato di peccato mortale. Non risponde così il Saverio, non concludono così i Santi, i quali sanno che Cristo ha asserito che è stretta la porta del Cielo… Arcta est via, quæ ducit ad Cælum! E voi che correte per la via larghissima del peccato, vi date a credere di poter andare in Cielo col passaporto della Devozione finta di Maria, con averle recitato un’Offizio, biescinta una corona, digiunato un sabato? V’ingannate; voi siete come gli struzzi, i quali se hanno le ali come gl’augelli, non per questo hanno forza di volare, perché nel resto del corpo sono bestie quadrupedi; così pur voi, pensate di volare in su con le ali di questa Devozione, ma piomberete all’ingiù per il peso smisurato de’ vostri peccati. Passiamo avanti; voi ben sapete, che non giunge al Cielo chi non osserva la legge. Domine, quis habitabit in Tabernaculo tuo aut quis requiescet in Monte Sancto tuo? Signore, chi sarà degno d’entrare in Cielo … e ci risponde, non già chi recita alla Vergine una Corona con più peccati che Ave Marie, non chi fa per suo amore nel mercoledì e sabato qualche digiuno, e poi ne’ sette dì che conta la settimana, l’offende otto, nò! Ma quello sarà condotto al Cielo … qui ingreditur sine macula, et operatur justitiam, chi vive immacolato e giusto. Dunque, voi che commettete peccati, quasi abbi a dire a numero di respiri, con tutte le vostre Devozioni non ci entrerete, se non desistete dal peccato. Non vi lasciate ingannare dal demonio, il quale ha (quasi dissi) gusto che continuiate in quelle Devozioni, perché così con la speranza di salvarvi per mezzo di queste, continuate nelle amicizie, negl’odii, negl’interessi. Sapete quello che fa il demonio con voi? Quello fece Naasse con i suoi nemici? Udite. Nel primo de’ Regi si legge quella strana richiesta fatta da Naasse Ammonite a’ Popoli Galaditi, allorché furono vinti, disfatti e costretti alla resa; In hoc feriam vobiscum, fœdus, ut eruam omnium vestrum oculos dextros. Se volete pace, e che io cessi dalla strage, e dal far correre sangue per queste vie, io voglio, che a tutti vi si cavi l’occhio destro, vi lascio il sinistro, e tanto vi basti; Confesso il vero, che non può sentirsi condizione più barbara. Questo appunto è l’operar del demonio con non pochi, dice San Pietro Damiano; egli è contento che abbino un occhio aperto alla Pietà in certe Devozioni esterne, verso di Maria, di digiuni, di Limosine, di Rosari, di Visite alle sue capelle, ma vuole altresì che tengano chiuso l’occhio destro a’ comandamenti di Dio; sæpe malignus hostis potiorem partem Sanctitatis adimit minorem vero reliquit, perché così l’inganna, e conduce all’inferno, non vi fidate: resterete ingannati, questo piccolo lume non basterà. – Così avesse intesa questa verità quel misero giovine che con certe sue Devozioni a Maria, pretendeva che Maria fosse, quasi dissi, scorta alle sue scelleraggini. Aveva costui una indegna amicizia e dovendo andare a perdersi con colei, era costretto a trapassare nuotando, una tal parte di mare; prima però che si mettesse al trapasso, aspettava dell’amata il contrassegno d’un lume; andò più volte e tornò, non si può dire felicemente, perché sempre con la disgrazia di Dio. Quando i parenti di quella femmina, accortisi della tresca, esposero fuori una notte un lume ed il giovine infelice si pose subito a nuoto per portarsi senza saperlo, là dove lo portavano i suoi peccati, e quelli in tanto scostavano a poco a poco dalla casa il lume esposto, mentre il robusto giovine nuotava alla dirittura di quello, parendogli ormai quel viaggio più lungo del solito ed alla forza delle sue braccia, ed alla sfrenatezza delle sue voglie. Smorzarono finalmente i domestici la lucerna ed il meschino ormai stanco dal lungo nuoto, fu privo di quella luce che gli mostrava il viaggio, e rimase sommerso e poi morto; un altro intraprese troppo più lungo al tribunale di Cristo e da quello giù nell’inferno; tanto succederà a voi peccatori, i quali affidati dal lume delle vostre piccole Devozioni pensate d’andar sicuri al porto; no, non vi andrete, la candelina si estinguerà, e resterete sommersi in un mar di fuoco. Ma Padre, si dice pure che la Vergine Santissima è Avvocata de’ peccatori! Lo so ancor io, e chi ne può dubitare? E so che da Sant’Efrem è chiamata, Portus naufragantium tutissimus; sicurissimo porto de’ peccatori. Consolatevi pure, perché Maria è Avvocata de’ peccatori, e se io volessi negargli un sì bel titolo, avrei tanto scrupolo, quanto se gli rubasse una di quelle stelle che la incoronano. Ma intendiamoci di grazia, Ella non è Avvocata di quei peccatori che vogliano perseverare ne’ loro peccati, ma solo di quelli che dolenti, la supplicano ad impetrargliene il perdono e son risoluti di non peccar più. Così Ella se ne protestò con Santa Geltrude … Ego sum Mater peccatorum se emendare volentium; Io son Madre di quei peccatori che vogliono emendarsi delle loro colpe. Il che fu veduto dalla Santa in una nobile visione, allorché le comparve la Vergine sopra d’un Trono, bella a tal segno che pareva che il Paradiso mutatosi dal suo luogo, fosse venuto tutto ad abitarle nel volto, e notò che venivano da varie parti a gettarsi a’ suoi piedi, schiere di vari e mostruosi serpenti, e Maria gli prende, va con le sue mani, e li accarezza. – Or questi serpenti significavano i peccatori che dolenti delle loro colpe vanno alla sua clemenza; ma la Santa non vide mai che la Santissima Vergine accarezzasse le vipere che immobili stavano nel loro covile. Così Ella non è Avvocata di quelli che ostinati ne’ loro vizi non vanno a Lei per trovare rimedio, ma se ne stanno in quei covili di disonestà, d’odii, d’interessi maledetti. E Maria Vergine ha da essere protettrice di costoro? Poveri voi, il demonio v’ha attaccati a queste devozioni fortemente, per tenervi più tenacemente avvinti ne’ peccati con la speranza della protezione. Vedete là quel giovinastro? A quello parrebbe che il Cielo gli cascasse addosso, se non recitasse quelle orazioni prima d’andare a dormire, se non visitasse quella Chiesa; e poi non si fa scrupolo di andare a letto con più peccati mortali. Vedete là quella donna? Prima morire, Padre, che non digiunare il sabato, e non guardare il mercoledì; ancorché fossi finita di forze, voglio digiunare; ma poi vedrete che questa donna divorerà lascivie tutta la settimana. – In una città di Toscana, io so d’un muratore il quale aveva fabbricato all’anima sua una sepoltura di fuoco. Questo mentre stava gravemente infermo, fu visitato da un Padre della mia minima Compagnia, e perché era zelantissimo, gli toccò subito quel tasto che più gli premeva, dicendogli: Io so, con mio sommo dispiacere, che voi siete infermo più d’anima che di corpo, mentre avete una pratica che vi fa perdere il corpo e l’anima. Alzossi a queste parole il muratore a sedere sul letto e, messa la mano sotto del capezzale: Padre, disse, per sola grazia di Dio e della Beatissima Vergine Protettrice, e non per i miei meriti, io sono stato in Inghilterra, in Francia, in Polonia, e seguì a dire, mettendo fuori lo Scapolare della Madonna del Carmine e, baciandolo, così conchiuse: mai mi son cavato di dosso questo abito, e spero certamente che Maria Vergine mi sarà buona Avvocata in morte. Non si può credere di quanto zelo s’accendesse quel Religioso, udendo una tal risposta; come! Replicò il Padre, un abito sì santo ed una vita sì lasciva? E pretendete che Maria v’abbia da impetrare una buona morte, mentre fate una vita sì scandalosa? Statevene, che io qui vi lascio con l’abito della Vergine, e con l’indignazione di Cristo, e con l’inferno aperto; lasciate questo santo abito, diceva il Religioso. O questo no, replicava l’infermo; lasciate dunque la mala pratica, licenziatela, mandatela fuori di casa, se volete Maria per Protettrice. – O quanti e quanti si trovano, che sono macchiati della medesima pece, e si pensano d’andar salvi con menare una vita cattiva sulla speranza di qualche ossequio alla Vergine Santissima. Ma, Padre, che rispondete alle rivelazioni tanto famose, che chi è devoto di Maria non può dannarsi. Ci voleva anche questa per inquietarmi! Prima rispondo, che simili rivelazioni, o non si possono, o non si devono intendere, che della devozione, la quale è vera, perocché quella, che è falsa, ed è collegata col peccato, ordinariamente tira seco la dannazione. Dico in secondo luogo, che tali rivelazioni non si devono prendere nel senso loro letterale, ed assoluto, perché altrimenti si prenderebbe uno sbaglio di troppo peso. Sia per cagione d’esempio. In San Matteo al cap. 16. si dice: Qui crediderit, baptizatus fuerit salvus erit. Colui, che crederà ed avrà il Battesimo sarà salvo. Lo vedrebbe chi non ha occhi, che se volessimo intendere queste parole così assolute, ne verrebbe in conseguenza che saria sufficiente a salvarsi con il Battesimo la sola Fede, il che, come vedete, è più che falso, perché è di Fede indubitatissima, che per salvarsi, è necessaria la nostra cooperazione, e però l’Apostolo San Paolo dice: Non coronabitur, ni si qui legitime certaverit, con la Fede e col Battesimo vi vogliono l’opere; dunque tali parole di simili revelazioni si devono prendere non così sole, ma unite ad altre come queste, che dicono che con la Fede e col Battesimo vi vogliono le opere, e così per appunto, mentre in esse si vien dicendo, che i devoti di Maria si salveranno, insieme, sì insieme si deve intendere, se coopereranno alla loro salute, essendo verissimo che una simile Devozione è giovevole, ad un tal fine. Rispondo in terzo luogo, che queste rivelazioni non sono di fede ancorché siano venerabilissime, pregiabilissime, perché quelle solamente sono di fede, … Quæ proponuntur ab Ecclesia, ut credantur, che si propongono dalla Chiesa, acciò si credano. Ma queste, dalla Chiesa non son proposte perché si credano, adunque senza dubbio non sono di fede, ed io, dall’altra parte ho contro di voi più di cento rivelazioni che dalla Chiesa si propongono perché si credano. Nella prima de’ Corinti al cap. 6: Iniqui Regnum Dei non possidebunt, non è il Regno di Dio, per chi offende Dio. Ne’ Romani al cap. 8. Si secundum carnem vixeritis moriemini, se vivrete secondo i vostri sfrenati capricci vi troverete eternamente sepolti nel fuoco. In Giob al 21: Ducunt in bonis dies suos et in puncto ad infernum descendunt, consumano la vita loro in cercare tutti i piaceri, ed in un momento vanno all’inferno a trovar tutti i tormenti. Or che dite? Mentre io contro alle vostre rivelazioni, che non sono di fede, ne porto moltissime che sono di fede; adunque torno a dire, non vi fidate, non peccate sotto la scorta della Devozione, perché vi perderete. Oh Padre, noi abbiamo conosciuto uominacci di tal vita, che peggiori non sappiamo immaginarceli. Morì un certo uomo così disonesto che non aveva riguardo ad imbrattarsi con ogni età, con ogni sesso, con ogni condizione, anche le vergini consacrate a Dio restavano, per quanto era dal canto suo, appannate d’abito impuro; or questo uomo con somma pace e con tutti i Sacramenti, né ad altro può attribuirsi, che a quella Devozione che aveva di visitare Nostra Signora ogni sera. Passò all’altra  vita una donna da me conosciuta, così vana, che pareva per lei esser nata ogni usanza, ogni moda, s’adornava per compiacere se stessa, per piacere ad altri, e se nello specchio faceva più ritratti di sé stessa, non lasciava anche di farne copia, e pure una donna di tal sorte, anche essa munita de’ Sacramenti passò con pace all’altro mondo, né può attribuirsi ad altro, una tal fortuna, che a quel benedetto Rosario, che sempre recitò. Chi v’ha detto, che questa gente sia salva? Forse l’arguite dalla quiete con cui sono morti, or vedete come diversamente da voi discorro, poiché dico che, essendo sì malamente vissuti si saranno dannati ed intanto non mostrarono inquietudine nel morire, in quanto, come dice Isidoro: il demonio non inquieta, chi già è certamente suo, prostratos, ac suos factos, contemnit. Ma Padre, sappiamo pur noi tanti e tanti esempj di certi uomini, e di certe donne che avevano mantello da ogni acqua, e stomaco da ogni vivanda, e pure si sono salvati per la protezione della Vergine. Ditemi, come si chiama questo libro, ove sono questi esempi? Il Libro de’ Miracoli; dunque a salvare uno di questi falsi devoti vi vuole un miracolo! Dunque, la loro salute si racconta come miracolo. E non vedete benissimo che lo sperare di salvarsi per miracolo, è lo stesso che darsi per dannato, perché miracoli si fanno sì rari, che è miracolo de’ miracoli, quando sono spessi? Fermatevi, non vedete che il fiume è grosso, non è possibile, che se vi cimentate al passo non ne restiate annegato. Eh Padre chi porta l’Abito di Nostra Signora non teme; vi passò, non è molto, uno, e giunte salvo al lido; ma questo esempio vi farebbe cuore per tragittare; appunto. Chi di voi, quantunque sappia, che uno per mezzo d’una devozione a Maria restò libero dalle archibugiate, si porrebbe a fronte per riceverle? Niuno certo sarebbe ben pazzo che volesse esporsi ad evidente pericolo di morte sulla speranza d’un miracolo, e pur questi sono gli stolti a’ danni dell’anima, che non fidano il corpo ad un miracolo, ma l’anima. – Mi ricordo aver letto, e finisco, come in San Martino, Terra vicina ai confini della Provenza, fu narrato questo caso da’ Padri Missionari Francesi. Si trovava in Firenze un malvivente, di quei che a guisa di animali immondi non si rivolgono che tra sozzure. Era quelli verso la Vergine un falso devoto, perché con i suoi ossequi a Maria voleva unire laidezze. Fra gli altri atti di Devozione fu l’andarsene à Roma, ove fattasi fare una statua d’Alabastro di Nostra Signora, ottennevi dalla Santità d’Urbano Ottavo Indulgenza in articolo di morte, la quale per lui non stette molto a giungere. Si fece portare la statua, e, doppo averla devotamente baciata per guadagnare l’Indulgenza, si munì con gl’altri Sacramenti, e poco dopo spirò. Indi a non molto , volendogli un Sacerdote dir la Messa, gli comparve, e dissegli: non vi straccate a pregar per me; le vostre Orazioni, benché fervorose, nulla mi gioveranno, son dannato. Dannato! E non siete voi quello, che eravate tanto devoto della Madonna, e non siete voi quello che ve la faceste fare in Roma per averla in vostro aiuto? Sì, ma sappiate che quando m’approssimai per dare un bacio alla statua, in cambio di Maria, baciai il demonio ivi comparso in forma di Colei, nella quale erano stati sempre collocati i miei affetti, ed ora per Lei mi trovo dannato. Che dite di questo caso, o falsi Devoti di Maria? Che volete, che diciamo Padre; diremo, che accade esser più nel numero de’ devoti di Maria; lasciamo pure di digiunare il Sabato, di recitare l’Offizio. No, no, tacete bocche indegne non dite così, questo vostro discorso è troppo mal fondato, non me lo credete? Riposiamo prima, e poi discorreremo.

LIMOSINA.
Innocenzo Terzo, al riferire del Surio, che doveva dannarsi, ma per aver fatta una gran limosina, con cui s’era alzato un Monastero in onore della Vergine
Santissima aveva avuto grazia di fare un atto di Contrizione prima di morire.
Fate limosina ad onor di Maria.

SECONDA PARTE

Questa è la spina che mi trafigge il cuore, forte più di quanto finora v’ho detto, perché temo, che dal mio discorso non ne caviate una sciocchissima conseguenza, e perciò non prendiate motivo di lasciare tutte le Devozioni che fate in onore di Maria. Guai a voi se lascerete il Santissimo Rosario, se non porterete l’Abito del Carmine, la Sacra Cintura. Guai a voi, se non digiunerete in onor suo, se in suo ossequio non visiterete le sue Immagini, non mi state à parlare scioccamente, e dire a che servono queste Orazioni, se non servono per moneta da entrare in Paradiso? È vero, che non servono per moneta da entrare in Paradiso, ma servono perché il Signore v’aspetti un poco più, perché non fulmini così presto il castigo. Quanto più siete in disgrazia, tanto più dovete raccomandarvi a’ Santi, alla Vergine, a Dio. Bisogna levarsi questa pazzia di testa, che la Devozione della Madonna non vi ha da servire per scorta a’ peccati; digiuno il sabato, visito la Madonna, recito l’Offizio, dunque posso andare in quella casa, posso covare quell’odio: Oh che stolte conseguenze! La Devozione di Maria v’ha da servire per impetrarvi il perdono de’ peccati; lo non ho mai saputo che niuno si ferisca perché ci fono i balsami da medicarsi: i balsami fon fatti per le ferite; ma non si fanno le ferite per adoperare i balsami. Ditemi, ed a che ferve per vita vostra la patente d’un principe, volete forse che serva per franchigia di laidezze, di furti, d’omicidi, o questo no! Servirà bensì perché se il protetto ha qualche lite, il principe raccomandi la sua causa; servirà perché , se è perseguitato, il principe si frapponga e metta le parti in pace; servirà perché, se si trovasse in povertà, il principe gli assegni qualche stipendio da poter vivere. Tanto appunto dico io della Devozione della Madonna, non v’ha da servire di scala franca per liberamente peccare, perché andiate sfacciatamente in quella casa, perché  liberamente facciate vendetta; non serve in questo, ma v’ha da servire, perché possiate avere molti aiuti di grazia che Ella v’impetrerà; molti soccorsi, che vi porgerà nelle vostre tentazioni; molti lumi Divini, che vi rischiareranno la mente; vi sottrarrà da molti castighi, che vi verrebbero addosso, e poi quel che più importa, servirà la Devozione della Vergine, perché abbiate particolare assistenza nel punto della morte. Per tutti questi capi, dico vi servirà la Devozione di Maria, ma non già mai per quello che voi vorreste, che sarebbe di poter vivere sempre a guisa di corvi, e poi morire come colombe. Io non pretendo, torno a dirvi, con questo mio discorso di togliere a’ peccatori quella confidenza che essi ripongono in Maria per le Orazioni, e Devozioni di Cintura, di abito del Carmine, Santissimo Rosario, Offizio, Limosine fatte in onor suo, e molto meno di levare alla Vergine quel culto che pur riceve da’ peccatori. Voglio che confidiate in Maria, voglio che le prestiate gl’ossequi che avete principiato, ma voglio altresì darvi qualche segno che vi possa far sperare salute eterna per mezzo della Devozione di Maria. Attenti. – Due sorti di peccatori si trovano, ed ambedue devoti di Maria. Alcuni sono peccatori, ed è grandissimo male; ma quel che è peggio vogliono seguitarlo ad esserlo, aggiungendo alle piaghe delle colpe mortali l’ostinazione, mentre non curano guarirle; e di questi non se ne può fare se non pessimo pronostico: già stanno con un piede nell’inferno ed è quasi certa la loro dannazione. – Altri sono peccatori, è vero; ma se peccano hanno subito fiero rimorso di coscienza, ed un animo fisso di lasciare il vizio; onde è, che bramano e cercano di trovare qualche pietoso samaritano, il quale versi balsamo sopra le loro ferite che pur troppo le conoscono mortali. Questa seconda sorte di peccatori, miei UU. possono avere qualche speranza di salute, poiché sebbene non abbiano la vera devozione di Maria, perché son privi di quella pronta e risoluta volontà di lasciare il peccato per amor suo, ad ogni modo sono stradati per averla, mentre racchiudono in cuore quella volontà di voltar le spalle a’ vizi, e di liberarsi dalla servitù contratta col demonio per mezzo di replicate scelleratezze. È vero che i primi albori dell’aurora nascente non sono giorno, ma è altresì verissimo che indi a poco il diverrà. È vero che chi pecca non è devoto di Maria, benché a sua riverenza pratichi molte Devozioni; ma è altresì vero che se unitamente a queste devozioni, avrà vera brama di liberarsi da’ vizi potrà sperare di svilupparsene, e di conseguire la vera Devozione, che ottenuta li conduca ad una beata morte, principio d’una eterna vita. Dunque, o peccatori, seguitate à raccomandarvi di cuore alla Vergine, seguitate pure à portare la Cintura, a vestir l’Abito, e recitare il suo Santissimo Rosario; ma sopra tutto vi raccomando che, se volete che la Vergine vi protegga, servate illi Puerum, non gli maltrattate il Figliuolo, non glielo strapazzate. Tanto disse il Re David a quei soldati, che gli professavano devozione, allorché gli altri gli si ribellarono; Servate mihi puerum meum Absalon; Servate mihi Puerum meum Jesum, dice la Vergine a questi che si dichiarano suoi devoti. Deh, se veramente m’amate, dice Maria a’ peccatori, se mi volete vostra Protettrice ne’ bisogni di questo Mondo, in vostro aiuto nel punto di morte, contentatevi di salvarmi il mio caro Figlio Gesù, Servate, non lo strapazzate con la lingua, non l’oltraggiate con i pensieri, non lo conculcate con i fatti peccaminosi, … Servate mihi. Date ricetto nel vostro Cuore a Gesù, Gesù riverite, Gesù amate, Giesù onorate, che così con tutta verità potrete dirvi miei devoti, ed allora non mancherò d’aiutarvi in questa vita, ed assistervi in morte.

QUARESIMALE (X)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (15)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (15)

LA GRAN BESTIA SVELATA AI GIOVANI

dal Padre F. MARTINENGO (Prete delle Missioni

SESTA EDIZIONE – TORINO I88O

Tip. E Libr. SALESIANA

X.

ALTRO GENERE DI TROMBE: I LIBRI.

E basti questo breve saggio d’un giornalaccio, con quel poco panegirico che vi ho recitato dei cosiffatti, per farvi persuasi, miei cari giovani, che se vi sta a cuore il bell’ingegno e la bellissima anima che Dio dato, non dovete bere, e spero non berrete mai a fonti sì avvelenate e fangose. — Sta bene; leggeremo libri, non giornali — parmi sentirvi a dire. Buona risoluzione! Ma anche qui, cari giovani, se mi andate colla testa nel sacco, potreste capitar male. Sentite. Io era fanciullo fra i tredici ed i quattordici anni. Già entrato in quella che allora chiamavasi prima Rettorica,e ghiottissimo di leggere, sentii corrermi l’acquolina in bocca a dir cose mirabili, che diceva un mio

compagno, delle poesie di Leopardi. Prima però di procacciarmele volli pigliar mie precauzioni. Un libro nuovo in casa, a dir vero, non mi sarei attentato di portarcelo; ché stavami ancor fitta nella mente una scena, vista da bambino, del babbo, che, trovato un giorno per casa non so che romanzo, n’andò sulle furie, stracciò il libro e ne gittò le pagine al fuoco, dicendo: — I libri che entrano in casa mia gli ho da veder io, gli ho da vedere. Guai a chi ne porta il secondo! — E quel quai fece gelare il sangue nelle vene, non che a’ miei fratelli maggiori, persino a me che non ne capivo nulla; e così fin da quell’età incominciai a quardar certi libri con sospetto. Ora poi, trattandosi di questo che mi veniva tanto lodato, prima di comperarlo o farmelo imprestare, pensai ben fatto

andarne a trovare il mio buon maestro, e: — dica, signor maestro, le poesie del Leopardi son elle proibite? — Proibite (mi rispose) le poesie veramente no, ma…. ma posso leggerle? Certo sì, potresti: ma… ma… ci ho questo benedetto ma, che per amor tuo mi inquieta un tantino. — E guardavami fisso negli occhi. — Oh via! la me lo dica dunque questo ma: la non dubiti; son disposto ad acconciarmi al suo consiglio. — Com’è così, senti, Cecchino mio; a dirtela, quelle poesie son cose belle, nol nego: ma

ora… ti guasterebbero l’umore. Vedi, gli è come se su un bel ciel sereno si stendesse una nuvola scura scura … Stattene colla tua pace, colla tua giocondità giovanile; più tardi leggerai quelle e dell’altre ancora. Ora hai Tasso, hai Monti, hai Dante; Dante, il gran babbo di tutti i poeti, questo sì che ti farà il buon pro! E poi non dimenticare i prosatori, specie del trecento, il Cavalca, il Passavanti, fra Bartolomeo… questi, questi gli scrittori su’ quali devi formarti!… Tenni il consiglio del buon maestro; e più tardi, quando lessi le poesie di quello sventurato poeta, capii quel ma, e ne mandai al mio maestro mille benedizioni. – Queste cose di me vi racconto, o cari giovani, perché  vorrei ispirarvi una gran diffidenza anche dei libri, specie se romanzi, specie se forestieri; e che non vi lasciate tirare alla curiosità, adescare all’eleganza dell’edizione, alle gaie vignette, al buon prezzo… Ahi povera Eva, povera Eva! Perché vagheggiar tanto quel pomo bianco e rosato, ed aspirarne con avidità le soavi esalazioni, e lasciarsi adescare alle melate parole del serpente?… Pareva così ragionevole al parlare! Pareva così dolce a vedere quel frutto! Eppure e’ c’era dentro veleno di morte. – Così siam fatti un poco anche noi, figli pur troppo di madre temeraria e leggera. Si fissa curioso, avido lo sguardo su tutto che è proibito; tant’è, l’ha detto il poeta: nitimur in vetitum; e dietro il guardo vola il cuore; dietro il cuore la mano….Deh! non fermarti a guardare il vino (avverte lo Spirito Santo) quando rosseggia spumando nel bicchiere…Or simili a questo vin traditore, simili al pomo avvelenato di Eva, sono appunto, giovani cari, certe stampe e certi libri messi lì in bella mostra sotto i tersi cristalli delle ricche vetrine a far pompa di sé, a trarre com’esca gli uccelli, l’incauta gioventù. Voi non fidatevi, non fidatevi di ciò che non conoscete; e prima di stender la mano a un libro sospetto, fate capo a un buon consigliere. Il miglior consigliere sarebbe il babbo, se avesse la prudenza e la vigilanza del mio. Ma quanti ci abbadano ai libri? Eppure, se è tempo d’aprire gli occhi, gli è questo nostro per l’appunto. – A quei tempi d’insopportabile schiavitù, come tutti sanno, di cattivi libri o non ce n’era o non se ne vedeva punto. I librai arrossivano a venderli, i tipografi non osavano stamparli, perché…. perché…. lo sapete il perché? È c’era il castigamatti,vo’ dire, il governo che lo scandaloso traffico non permetteva, e a’ librai che cogliesse in flagrante, non solo sequestrava la merce, ma azzeccava, se d’uopo, una buona multa per giunta. In que’ tempi là ragionavasi alla buona così: — Inuna ben regolata società la vendita de’ veleni va proibita. Or veleni cen’ha di due sorta, altri che al corpo, altri che all’anima dan morte; dunque se ha a vietarsi lo spaccio dei primi (che nessuno ne dubita) e molto più de’ secondi. — Ora poi che è venuto il progresso, la sì discorre diversamente: — Chi avvelena i corpi, la forca; chi l’anime, s’accomodi pure. — Con che guadagno del buon senso e della logica, un orbo il vede. Sicché vedete, cari giovani, se vi conviene star desti! Oh sapeste male che può farvi, e all’anima e al corpo, un pessimo libro! Si, cari giovani, anche al corpo, alla sanità, alla vita; e ne ho veduti io degli esempi da far fremere i sassi. Ricordate quellodi: Bertino; aveva cominciato da un libro!..; E se uno non basta, togliete questi altri: sono due giovani stati miei scolari, de’ quali potrei farvi nome, cognome, e parentela; ma bisogna me n’astenga. per compassione di loro famiglie. L’uno …. suo padre andava pazzo per la pesca e per la caccia, e curavasi dei figliuoli come voi del terzo piè che non avete; la madre, una vanarella tutta vezzi e moine e smancerie; i figli (specie quel di cui parlo, ch’era il primo e perciò il più guastato) piena libertà e denaro a’ lor comandi. Costui dunque, che aveva la passione del leggere, comperò e lesse d’ogni sorta libri, romanzacci il più, s’intende: pure con tanto leggere che faceva mantenne sempre in classe il suo posto, ch’era quello del ciuco. Io lo vedevo che non aveva nessun amore allo studio, alla scuola, a’ compagni, e veniva su lungo, pallido; allampanato, con du’ occhi tondi, stupidi, cerchiati di paonazzo; e sospettato quel che era, l’ebbi a me, l’interrogai; l’ammonii, lo carezzai, lo supplicai persino… Chiuse il cuore e non volle ascoltarmi; infelice!….. Più tardi, datosi al militare, fatto fiasco all’esame di ufficiale, veduto promosso un fratello minore, che aveva letto meno di lui, sapete che fece?….. Un colpo di pistola nelle tempia e buona notte! L’altro, pur rovinato cogli stessi veleni, a quattordici anni portava l’occhialino e fumava il sigaro, a quindici bestemmiava come un turco, passava le nottate al gioco, e vi perdeva fin la giubba, a diciotto, non ostante la sua asinaggine, riusciva a forza di protezioni, ad arraffare un impieguzzo dal governo, a ventitrè languiva tisico spacciato in un letto, bistrattava quanti gli venivano d’attorno, e non voleva saperne di morire. – Pregato dall’infelice sua madre a visitarlo e rammollirlo alquanto, vi andai, ma col cuore serrato, che non mi diceva nulla di bene. La buona mamma, m’accolse a mani giunte come fossi stato un Angelo, e: l’abbia la bontà di aspettare un tantino; vado a disporlo, ad avvertirlo ché è lei. — Aspettai più d’un quarto d’ora; quand’ecco la madre, tra sgomentata e piangente, e farmi le scuse. Non c’era stato verso che l’infelice giovane s’inducesse a ricever la mia visita. Due mesi dopo, o in quel torno, moriva. Un buon frate, chiamato nel serra serra dell’ultime agonie; l’acconciò dell’anima..- Dio sa come! Ah giovani; giovani! Perché non voler credere? Non voler ascoltare chi v’ama? Perché tanta paura, tanto rispetto d’un mondo, che tenta strapparvi al prete? Ah il prete! L’hanno ben schernito, in nome della santa libertà, questo povero prete! Ma badate, o giovani: il mondo, che, gettatoci addosso tanto del suo fango vi grida: alla larga dal prete! vedete: com’ egli, è sozzo! — questo mondo, dico, mira nulla. meno che a strapparvi dal cuore i due tesori più preziosi: fede e buon costume, che è quanto dire, chiudervi il cielo sul capo, e aprirvi sotto i piedi l’abisso. E il prete?…. Il prete freme, piange e prega, e darebbe tutto il suo sangue per la pace e per la serenità delle belle e care anime vostre.

QUARESIMALE (VIII)

QUARESIMALE (VIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA OTTAVA
Nella Feria quinta della Domenica prima.


Del Santissimo Sacramento
,

in cui si riconoscono le finezze
dell’ Amore Divino, e si mostra l’ingratitudine di chi non
corrisponde.
Non est bonum sumere panem filiorum, et mittere canibus.
San Matteo cap. XV.

Si dichiara Iddio questa mattina per San Matteo di non voler dare il Pane di Vita a’ cani, che vale a dire a’ peccatori mentre Egli lo ha destinato ai suoi soli figlioli; ed a ragione, poiché d’un opera sì fina del suo amore, qual è l’Eucaristia, non è dovere che ne partecipino gli indegni; sì, perché in questo cibo di vita, ha Iddio compendiate le meraviglie delle sue opere ammirabili: memoriam fecit mirabilium suorum, come ci assicura il reale Profeta, soggiungendo subito: escam dedis timentibus se; sì, perché questi Cibo eucaristico è quasi dissi, la superbia del divino Amore. – Apelle in quelle pitture, nelle quali vedeva consumata l’arte del suo pennello, temuto poco men che dissi dalla natura, era solito dipingere la sua immagine, volendo accoppiar con essa l’autore. Iddio altresì nella adorata Eucaristia nella quale vide, dirò così, consumata l’arte del suo amore non in pittura, ma realmente ci volle racchiudere se stesso, acciò, che uno fosse il Dono, ed il Donatore. Contentatevi dunque, che io ammirando la finezza di Chi dona un sì gran dono, detesti l’ingratitudine non solo di chi non si dispone a ben riceverlo, ma molto più di chi indegnamente lo riceve. L’amore è un atto della volontà e perciò invisibile, onde è che la sua maggior o minor grandezza non può conoscersi salvo che dall’opere. Probatio dilectionis exibitio est operis. Tra le opere con cui l’amore si manifesta, sono i Donativi, i quali quanto sono maggiori, tanto più palesano la grandezza dell’amore. È pur trito nel mondo il proverbio, che chi ama dona e più ama chi più dona. Se così è, e qual mai sarà l’amore che Iddio ci porta mentre nel Sacramento ci donò il maggior tesoro che possa donar Lui, che possa donare a noi audeo dicere, son parole d’Agostino: quod Deus cum sit omni potenti plus dare non potuit, cum sit sapientissimus plus dare nescivit, cum sit ditissimus plus dare non habuit. Egli ci dà il Santissimo Corpo, il Preziosissimo Sangue, l’Anima, la Divinità dell’Unigenito suo Figliuolo; questo sì che è altro che donare gemme, tesori, regni, imperi, giacché donando se stesso nel suo Divin Figliuolo, ha donato tutto: Quomodo cum illo non omnia nobis donavit. Rallegratevi dunque miei UU. mentre vilissime creature, ricevete dal vostro Iddio dono tale, di cui maggior non averia potuto dare ad un altro, Dio se possibile fosse con tutta la sua Onnipotenza; alzate pure voci di giubilo con San Bernardo, e dite: o charitas super  excellens, omnia quæ potuit fecit, omnia que babuit dedit, dedit semetipsum. O carità sopraffina fece quello che poté, diede quello che aveva, diede tutto sé stesso; o amore, amore per noi. Angeli Santi, piantate qui pure due colonne, cavate da due preziosi zaffiri del Paradiso, ed à caratteri indelebili, incideteci il famoso motto, non plus ultra, dissi male, fermatevi; tanto potreste fare se più oltre non fosse passato l’Amor Divino. È passato più oltre, perché poteva dare tutto se stesso, ma darsi solo, (giacché Egli è in realtà Cibus grandium) a’ principi, a’ regi, agl’imperatori, ai Pontefici; ma no; l’Amor Divino non comportava che un dono sì prezioso si restringesse alle sole persone qualificate, ha voluto con straordinaria liberalità comunicarlo a tutti, sicché per San Luca ci fa intendere, Exi cito in vicos, et plateas , debiles, pauperes, et cæcos, et claudos introduc huc; voglio che il mio Corpo si dia a tutti ed a ciascheduno, sia chi si voglia. – Povero di facoltà, o vile di nascita, o infelice di condizione, o misero di talenti, sia chi si sia, tutti godano di questo Cibo prezioso. Ego veni in mundum ut vitam babeant, abundantius habeant. Un grande amore è questo, volersi comunicare a tutti; grazie a Voi, adorato Signore. E voi Serafini del Cielo infocati del suo amore, ajutateci a ringraziarlo, ed esponeteli, che siamo pronti portarci nelle Provincie più remote per godere d’un tanto Bene, d’un sì gran tesoro; appunto, l’Amor Divino non lo comporta, e per ciò non vuole, che à tale effetto si assegni una basilica delle più famose del mondo ma ci fa verificare ciò che già ci fece intendere per Malachia, che, in omni loco sacrificatur, is offertur nomini meo oblatio munda; voglio che in ogni luogo si dispensi il mio Corpo; non m’importa, che sia povera villa, barbaro paese, fetido spedale, Chiesa senza ornamenti, altare senza suppellettili, Tabernacolo senza oro, pisside senza gemme, In omni loco; in somma si dispensi questo Cibo di vita, perché, Ego veni in mundum ut vitam habeant, et abundantius babeant. Ma qua ci sono eccessi di un amore indicibile, mentre un sì gran tesoro, non solo si dispensa a tutti, ma in ogni luogo; deh Santi; le di cui ossa venerate, giacciono sepolte in questo Tempio, e l’anima regna in Cielo, correte al Soglio Divino, ed ivi prostrati, ringraziate per noi l’Altissimo, e assicuratelo, che per cibarci di questo Pane di vita, che si dispensa a tutti, ed in ogni luogo; Noi per cibarcene una sol volta, spenderemo facoltà, sangue, vita. Che dite UU.? e non sentite la risposta, che vi danno i Santi! L’Amor Divino non comporta, che si stabilisca prezzo, con cui si compri questa vivanda di Paradiso; e però, Venite, emite absque argento, absque ulla commutatione vinum, lac. Basta a me, dice Dio, che chi vuol cibarsi di questo Pane di vita s’accosti all’altare privo di colpa, e mondo di cuore, né da lui richiede i digiuni d’Elia, le piaghe di Giobbe, e la prigione di Geremia. Ego veni in mundum. Angeli, che c’assistete custodi, deh portatevi sollecitamente al Trono di Dio, e ditegli, che sopraffatti da grazie non sappiamo più che bramare; ma sento che essi mi rispondono: se voi non sapete che bramare, sa Iddio darvi nuovi pegni del suo amore, poiché non bastandogli aver dato il suo Figliuolo a tutti in ogni luogo, e senza prezzo, lo vuol dare ancora ogni volta che si vuol ricevere, mentre sarebbe stato un eccesso di finissimo amore dar se stesso a ciascheduno di noi, una sol volta in vita, o amore, amore! Mille e mille sono le mani che lo preparano, senza numero le Chiese nelle quali si consacra, innumerabili i ministri, che lo dispensano. Uomini, donne, figli, fanciulle, su aiutatevi l’un con l’altro a ringraziare il Signore Iddio, che tanto vi favorisce, invocate quanti sono vostri protettori in Cielo, che ad un Dio tanto amante di voi portino i vostri ringraziamenti. O amore, amore! darsi a tutti in ogni luogo senza prezzo, ogni volta che si vuole, un Cibo sì prezioso, che solo basta a giustificare un’anima. – Son finiti gli eccessi del Divino Amore? Appunto, v’ingannate, poiché è passato anche più oltre; si, più oltre, mentre potendo darcisi sotto le specie di qualche cibo rarissimo e preziosissimo, finché non si rendesse facile l’averlo, ha voluto darcisi sotto le angustie di poco Pane, e tutto questo l’ha fatto con tanto amore, che ha potuto dire: Delitiæ meæ esse cum filiis hominum. Se Iddio dall’altezza del suo trono si fosse abbassato a far dire una parola in benefizio dell’uomo, sarebbe stato un gran favore, segno d’uno stupendo amore molto più se ci avesse impiegata la lingua, più assai, se per soccorrerlo avesse stesa l’Onnipotente sua mano, e pure è passato più oltre, mentre non una parola, non un soccorso, ma tutto se stesso ha dato a pro degli uomini. Ah miei affetti, e perché tutti non ardete per un tanto amore, e perché tutti non vi abbruciate alla rimembranza d’un tanto tesoro, e perché non ve ne prevalente, accostandovi spesso a questa mensa divina per ritrarne quei tanti beni, che sempre reca chi bene si comunica. Eppure, un dono sì grande, come poco si prezza. Ditemi: se un’Ostia sola consacrata si ritrovasse tra tutta l’ampiezza di questo mondo, ecco, che tutti i nobili, e plebei, dame e cavalieri, principi e Regi la porterebbero per vie scabrose in devoto Pellegrinaggio a vederla, ed appena giunti, con gli occhi pieni di lagrime, col cuore acceso di devozione, accennando all’Ostia Divina, direbbero, là sta il Figlio di Dio? Oh invenzione d’amore, che ha saputo andare in Cielo col Padre, e nello stesso tempo restare in terra con noi. Non vi è amico che possa amare che fino alla morte, ma esso rimanendo con noi ha trovato modo d’amarci anche doppo morte. Ah, direbbero quei fortunati pellegrini, almeno potessimo toccarlo un tantino con la corona. Ah, che se fosse possibile averne un’invisibile pezzetto, vi spenderemmo di buona voglia tutti i nostri patrimoni. Ne vi sarebbe alcuno che avesse ardire di pensare a porsi neppure una volta sola cibare di quel Pane celeste. Ah carità sviscerata di Dio, ah ingratitudine troppo alta degli uomini, mentre avendo in questa vostra Patria non un pezzetto in un Reliquiario, ma tante Ostie consacrate, e potete cibarvene senza spesa, e senza pellegrinaggio, e pure come le stimate? O Dio, converrà pure, che io dica poco, anzi per molti, nulla! Alle Chiese, alle Chiese; s’io rifletto à quelle femmine, io vedo che la loro remota preparazione a comunicarsi, è trattenersi la sera antecedente a giocare, a ridere, a mormorare, senza neppur pensare a recitare il Santissimo Rosario, o l’Offizio di nostra Signora; se poi le vedo entrare in Chiesa, le rimiro tutte attente a pavoneggiar se stesse, scollate e sbracciate, ed a far pompa di sé, quasi Idoli per essere adorate. Gli uomini poi vi si preparano con occupar la mente in ciance di novelle, in interessi; sapete come vi si preparano non pochi Sacerdoti mentre che si vestono degli abiti sacri. Par che vestino abiti da scena: ridono, burlano, senza o non dire, non considerare le misteriose parole prescritte nel porsi quegl’abiti sacri indosso. Prendono dopo il Sacro Calice in mano, e con occhio libero guardano, mirano, non solo all’andare, ma ancora nello stare all’Altare, ove da molti si mangiano le parole e si maneggia Cristo peggio che non si farebbe un vil fante della terra. Che meraviglia dunque se questi tali, che così impreparati si portano a questa Mensa divina, non ricevano i meravigliosi effetti di questo Divino Sacramento. Tutta la colpa è loro, ed il male non vien dal cibo ma dallo stomaco, né solo si portano a questa mensa impreparati, ma doppo comunicati, li vedete subito immersi negl’interessi, nelle ricreazioni, intervengono ai giuochi, ai balli, ed invece d’impiegare quella giornata in opere pie, l’impiegano in mille inezie. Chi si vuole ben comunicare, bisogna che prima d’ogni cosa avvivi la fede, e concepisca la Presenza Reale del suo Dio in quell’Ostia Sacrosanta. Ah, che se avessimo vera Fede ci prepareremmo la sera antecedente con digiuni, con penitenze, con Rosari, e la mattina ci porteremmo alla Comunione con tutta riverenza e devozione, non si farebbero tante ceremonie in Chiesa, che ormai par quasi ridotta a sala di festino, tanti sono i discorsi, le riverenze, gl’inchini, i profondi saluti, che tali, piacesse a Dio , si facessero a questo Sacramento. Se bene, a che perder tempo contro chi poco si prepara a questa Mensa divina e nulla ringrazia, benché si sia nutrito con un tanto Cibo, mentre vi sono di quei peccatori i quali, doppo esser vissuti nelle laidezze di mille peccati, in quella istessa mattina che si confessano, dirò così, Dio sa con qual proposito e con la bocca ancor fumante d’alito velenoso, corrono subito ad inghiottire il Signore. San Giovanni Crisostomo non sapeva già capire come alcuni Cristiani reputassero tempo sufficiente i quaranta giorni della Quaresima a purificarsi da peccati di tutto l’anno, e prepararsi in tal forma a ricevere nella Pasqua Cristo Sacramentato, quadraginta diebus sanitatem animæ assignas, et Deum babere propitium expectas ludis ne quæso? Or che direbbe questo sì gran Dottore, se si ritrovasse a’ dì nostri, e vedesse tanti e tanti, che non solo non permettono quaranta giorni di penitenza a ricevere Cristo, ma con un breve passo dal Confessionario, dove hanno detto roba laida e scomunicata, vanno alla Mensa, per andar, dirò io, con un altro passo più breve , dall’Altare al postribolo. Che direbbe Sant’Agostino, il quale a chi si vuole accostare alla Santa Comunione prescrive digiuni, limosine ed orazioni, se vedesse che da molti si spendono i giorni avanti la Comunione in crapule, in bagordi, in veglie, in teatri, in parole disoneste, in canzoni amorose. Che meraviglia, dunque, che non si cavi frutto! Quel contadino, il quale getta il seme sopra la terra non ancor ben rammollita dalle piogge, raccoglie poco, ancorché il seme sia ottimo. – Così quantunque l’Eucaristia sia semenza che partorisca ogni bene, tuttavia gettata in certi cuori, che puzzano ancor di vendette, d’odii e di lascivie e di bestemmie, non può essere che renda frutto. Ah Dio, Sacerdoti, che dispensate il Sangue di Cristo nel Sacramento della Penitenza se permettete saviamente, all’anime che sogliono star lontane dal peccato, la Comunione immediatamente doppo la Confessione, non la permettete a chi visse lungamente nimico di Dio; ma ordinate loro che prima d’accostarsi al Pane di vita attendano a coltivare la grazia ricevuta nella Confessione, perché se sarete facili a concedergliela, gli faciliterete il ritorno a’ peccati. Scrive Plutarco, che presso i Sibariti si costumava d’invitar le Donne a’ conviti nobili un anno prima, affinché avessero tempo di bene accomodarsi, ed esser ben disposte all’onore che doveano ricevere. Dio immortale! Ed i Cristiani stimeranno superfluo l’apparecchio di pochi giorni per accostarsi alla Mensa Divina? Ma se questi che s’accostano alla Comunione dopo una Confessione in cui hanno vomitato veleno pestifero di laidezze poco prima commesse, sono degni di biasimo. Che diremo di coloro che s’accostano alla Comunione, non solo subito Confessati delle loro colpe, ma vi s’accostano, così non fosse, con l’affetto ai peccati di cui si sono confessati, volendo, che pacificamente alloggino insieme nel loro cuore, l’Arca e gl’idoli, Dio ed il diavolo; sapete voi chi sono questi tali? Questi sono quelli che non tolgono via l’occasione di peccare, perché non tralasciano quei sorrisi, quelle veglie, quei regali. Sappiano questi tali, che anticamente si serbava l’Eucaristia in un vaso d’oro o d’argento figurato a guisa di colomba, per significare che non è degno di ricevere Cristo dentro di sé, chi non arriva a vivere senza fiele che è quanto dire: senza ombra di laidezza in cuore. Sacri ministri di Cristo, quando vi si accostano ai piedi certe persone, le quali vedete che conservano rancori, che fomentano affetti non solo non gli dovete concedere la Comunione, ma mandateli via da voi senza proscioglierli. Come! volersi accostare alla Comunione con sdegni in cuore, con affetti impuri, con continuare nelle occasioni mi meraviglio, fate loro conoscere il pessimo loro stato, e poi licenziateli. Or se questi che ardiscono accostarsi alla Mensa Divina con affetti impuri, e senza lasciare le occasioni tutte di peccare, stanno in continuo pericolo di dannazione. Che dirò io di quei miserabili, i quali indegnamente si cibano di questo Pane di vita, voglio dire si comunicano in peccato mortale; a questi tali ricordo che Cristo sopportò tutto in Giuda, dissimulò a’ furti, le mormorazioni, l’infedeltà, ma quando sfacciatamente ardì comunicarsi con la coscienza macchiata da colpa grave, allora lo lasciò subito nelle mani del diavolo. E post buccellam intravit in eum satanas, il quale fieramente agitandolo, lo necessitò a disperarsi, e a darsi da per se stesso con infame laccio la morte, per esser portato ad ardere nell’inferno. Comunicarsi in peccato mortale! Non si può dir di peggio. Questa è una mostruosità sì grande, che maggiore non può darsi. Voi ben sapete che non v’è mostro più mostruoso di quello che vien composto da parti più stravaganti, or quali parti più travaganti possono mai mirarsi unite insieme che stare in un medesimo cuore, Cristo e peccato? Non potestis, miei UU. non potestis Mensæ Domini participes esse et mensæ Dæmoniorum, dice l’Apostolo; non è possibile sedere alla mensa di Cristo e godere de’ conviti del diavolo. Chi si vuol pascere delle cipolle d’Egitto, non può nutrirsi con la Manna del Cielo. Come volete mai, che questo Cristo, che non può tollerare in sua compagnia sotto il velo degl’accidenti la sostanza innocente del pane, possa poi venire ad abitare nel vostro petto, allorché sa esservi annidati serpi velenosi di vizi, allorché sa averci posta sua fede l’amore indegno verso quella femmina, l’odio implacabile verso quel nemico? Non potestis no! È  un mostro, vi ho detto, una mostruosità, volere in cuore Dio e peccato. Or i mostri, come sapete non solo sono orribili per la mostruosa deformità, ma sono anche terribili per le rovine che pronosticano. Appena si vede un mostro che par che ognuno vi legga dentro qualche grave calamità, ancor io prevedo da un tal mostro rovine, e sono accertati i miei giudizi, perché sono dell’Apostolo che dice: Qui manducat, et bibit indigne, judicium sibi manducat, et bibit! – Ecco le rovine di chi si comunica in peccato mortale: Judicium sibi manducat, et bibit idest, dice il Crisostomo damnationem, è dannato, beve la morte dal fonte che sperava vita. – Il balsamo ha questa proprietà di conservare i corpi non ancor corrotti; ma s’è applicato ad un cadavere che abbia principiato ad imputridire, il balsamo serve perché più presto s’imputridisca. Così appunto nel caso nostro, è potentissima a conferirci l’immortalità beata la santa Comunione. Con tutto ciò se indegnamente si riceve, ci dà l’ultima spinta per l’inferno. Riceve indegnamente e perciò è quasi dannato chi si comunica senza confessarsi, avendo peccato mortale; chi si confessa ma non li dice tutti per vergogna, per malizia, chi li dice tutti ma ne lascia per rossore qualche circostanza necessaria, o specie diversa. E perciò se questo infelice vuol ritornare in grazia di Dio, conviene che con un vero dolore e fermo proposito vada a fare una buona Confessione, in cui s’accusi d’aver lasciati i tali e tali peccati, e poi si confessi di quanti da quel tempo che lasciò quelli, ne fece, perché di niuno è stato mai assolto. Datemi mente. Il peccato di chi si comunica in peccato mortale è sì orribile, che Dio per lo più non lo castiga in questa vita, perché in questa vita non vi è pena bastante, ma la riserba nell’altra. Ne ha voluto però alle volte dar qualche esempio ancora in questa vita come fece in quella rea femmina riferita da San Cipriano, testimonio di veduta; interrogata questa dal Confessore se avesse commesso il tal peccato, nego’ sfacciatamente, asserendo non esser di quei costumi, che egli presupponeva e raddoppiando la sfacciataggine nell’atto stesso di volerla ricoprire, ardì con fronte temeraria accostarsi alla santa Comunione, sperando, dice il Santo, d’ingannare Iddio, come aveva ingannati noi, suoi Ministri, ma non gli riuscì, poiché ricevuta l’Ostia, si cambiò subito questa in un affilatissimo coltello, che inghiottito gli segò miseramente la gola, lasciandola quivi morta, e tutta bagnata nel suo sangue, che ben si vedeva esser vittima scannata in quella Chiesa per esempio del suo sacrilegio. Dio immortale! Che vi strapazzino quelli infedeli che tengono l’Eucaristia non essere che semplice pane, non è da meravigliarsi, questo è uno strapazzo fatto ad un principe sconosciuto, da chi lo giudicava uomo ordinario; ma che v’oltraggino i Cristiani, che vi confessano per quel Dio che siete, è un eccesso intollerabile. Eh mio Dio io so che se il caldo s’incontra nel freddo in seno alle nuvole, non sa stare ivi paziente neppur per un’ora, ma squarciato il seno alle medesime nuvole, tuona, tempesta, e si accende in fulmini terribili. Il fuoco della vera carità, mio Dio, non deve stare col freddo de’ peccati nel cuore del peccatore, però tuoni, tempeste, e fulmini quegl’empi che non vi rispettano nel Divino Sacramento, e fate loro provare i vostri sdegni giustissimi privandoli e in vita, ed in morte del vostro Santissimo Corpo.

LIMOSINA
È sicura la vostra roba se la darete in custodia a Dio ne’ poverelli, ond’è che un mercante ricchissimo richiesto un dì dal suo sovrano a dirgli con tutta verità quanto fosse il suo guadagno messo da parte in quell’anno rispose: mille scudi, e vedendo alterato il re per simile risposta, quasi si credesse burlato replicò, mille, o sire, e non più, perché mille n’ho dati a Dio ne’ suoi poveri, e così mille son certo averli in sicuro, l’altre mie facoltà soggiacciono tutte a tanti pericoli, che io temo di chiamarmene padrone.

PARTE SECONDA

Che vuol dire, che tanti Cristiani vivono ne’ peccati, perché questi non frequentano i Sacramenti, e perché non li frequentano? Perché abbracciano i motivi suggeritigli dal demonio. Dice taluno, io non frequento la Comunione per non dar da dire, perché se quel tale mi vedrà comunicare, dirà, mirate un poco, chi vuol fare da Santo! E per questo volete lasciare la Comunione per le parole di pochi sciocchi, per questo lasciare d’andare a Dio. Qual è quel pescatore colà nelle coste dell’India, che lasci di far preda di qualche incomparabile Margharita per timore dell’acqua fredda? O Dio, se sapeste, che perla di Paradiso si contiene in quell’Ostia sacrosanta, non solo non temereste le freddure d’una lingua mal Cristiana, ma sprezzereste, per acquistarla, un mar di ludibri. Altri si scusano dicendo che non si accostano a questa Mensa Divina, per non addomesticarsi tanto con Dio, e questi che così parlano sono d’ordinario persone puntigliose, e piene d’albagia; e se a queste persone, che dicono non accostarsi spesso per riverenza, il confessore per umiltà gli vietasse comunicarsi in un dì solenne di Festa, quando tutto il popolo si comunica, voi vedreste cambiarsi tutta l’umiltà in superbia, voi le vedreste strepitare, e dichiarare assolutamente che non vogliono questo smacco di non comunicarsi in giorno in cui tutto il mondo Cristiano comunica. Eh via, tacete voi tutti, che prendete simili scuse, non dite che non v’accostate per rispetto di Dio, dite piuttosto che non v’accostate a quella Mensa Divina perché volete seguitare a vivere nella vostra scandalosa libertà. –  Altri poi non s’accostano perché dicono aver da fare assai, che i negozi di casa, della bottega, l’occupano tanto, che non gli resta tempo per questa Santa Funzione. Costoro sapete? Sono affogati dal demonio non con il fumo della superbia, ma con la polvere delle cose terrene: avete la famiglia da provvedere? Bene! Ma avete ancor l’anima! È possibile, che in un intero mese non si trovino due ore per confessarsi e comunicarsi, per assicurare la propria salute? Che negozi? Che imbarazzi? Perché siete in questo mondo, non vi siete per la terra, no, ma per il Paradiso. Che risolvete? giacché le vostre scuse non vagliano, che risposta date? Volete essere più frequenti nel comunicarvi? Ridotti che farete all’estremo di vostra vita avete da maledire la negligenza usata nel comunicarvi, ed io molto temo, che questa negligenza non sia per essere la causa della vostra rovina, e temo, che nel fine della vita abbiate da morir senza Sacramenti. Volete che io vi dica la vera cagione, perché non frequentate i Sacramenti? Perché volete continuare in quella pratica, in quell’odio, in quell’interesse. Sapete che il confessore non vorrà quella tresca, vorrà la restituzione, vorrà che perdoniate! Questa è la vera cagione perché non volete frequentare i Sacramenti. Certamente ogni nausea è cattiva, ma quella che si ha del pane, al dire d’Avicenna è peggiore d’ogn’altra, omnis naufeatio mala, panis autem pessima, temo e temo con ragione che questa gran ripugnanza che voi mostrate al Pane di vita, sia per voi un segno d’eterna morte; odo il Profeta, che me lo conferma, qui elongant se a te peribunt, chi si allontana da Dio, si dannerà; O che stupore vedere, che l’infermità fugge la salute! Ma se noi fossimo tiranni di noi medesimi potremmo far di peggio, che non volere adoperare un rimedio sì potente per salvarci, qui elongant se a te peribunt, intendetela o Cristiani, chi si slontana da Dio, perirà, si dannerà. Certa gente confinante con gl’Abissini, per assaltarli, e superarli, aspetta che per certi loro digiuni siano indeboliti, e poi improvvisamente gli son sopra con l’armi, e ne fanno macello. Così farà il demonio con voi altri che tanto indugiate a comunicarvi. Quando sarete stati lungamente digiuni da questo Pane di vita, v’assalirà, vi vincerà, morirete dannati. Cristiani miei per evitare questo pericolo di dannazione, frequentate questo Sacramento é perché possiate ritrarne veri frutti di vita eterna, accostatevici doppo una sincera Confessione e poi accostatevi con la debita modestia dell’abito, non essendo possibile che ritraggano utilità dalla Santa Comunione quelle donne che nella medesima mattina che devono comunicarsi, si adornino per non dire più immodestamente, certo più vanamente che mai, senza timore di presentarsi così pompose d’avanti a quella Maestà che per amor loro s’è  umiliata nel Sacramento fino a non comparire uomo ma cibo ignobile. Non è possibile che ritraggano frutto dalla Comunione quelle donne che, rinunciando alle leggi della verecondia cristiana non si curano di riaccendere, con farsi vedere scollate, spettorate, sbracciate, quelle fiamme impure, per smorzar le quali, versò Cristo tanto sangue. – Racconta Roberto Lisio come giunta a morte una vanissima femmina che spendeva l’ore allo specchio, acconciandosi la testa ed ornandosi il volto, gli fu portato dal Parroco il Santissimo, acciò lo ricevesse per viatico all’altra vita. Ma ecco che d’improvviso si videro scendere dal Cielo due Angeli, i quali giunti alla camera, e salutata profondamente quell’Ostia Santissima, la rapirono dalle mani del Sacerdote, e sparvero. Ebbe questi a morire per lo spavento, né mai si riebbe, finché tornato alla Chiesa, ritrovò quell’Ostia riposta dagli Angeli su l’Altare, ed argomento, che il Signore giustamente aveva sottratto il suo Corpo a colei, mentre ella troppo aveva voluto adornare il proprio. Cari miei UU. se ornerete il vostro corpo con maniere lascive, con usanze che abbiano del disonesto, se trascurerete di cibarvi di questo Pane, io vi dico, che temo molto, se nel punto di morte avrete il Divino Sacramento, ma posso temere che non passiate all’altro mondo senza Sacramenti.

QUARESIMALE (IX)

VIVA CRISTO RE (20)

CRISTO-RE (20)

TOTH TIHAMER:

Gregor. Ed. in Padova, 1954

Imprim. Jannes Jeremich, Ep. Beris

CAPITOLO XXV

CHI È IL CRISTO PER NOI?

Nell’anno 1880 si tenne a Roma una grande assemblea. Uno degli oratori tenne un discorso solenne in onore di lucifero, capo degli spiriti ribelli. E nel mezzo del discorso si udì questo grido: “Evviva satana!” “Viva satana!” E cinquemila gole ripeterono il grido: “Dio è morto, viva satana!”. Siamo inorriditi da questa incredibile rozzezza spirituale, da questa adorazione del diavolo; eppure le migliaia di peccati che si commettono oggi, cos’altro sono se non idolatria infernale? – Quante cose ha fatto l’umanità contro Dio! La Rivoluzione francese ha voluto distruggere Dio; ha fatto un manifesto in cui diceva che Dio non serviva più. Ci meravigliamo di questa follia? Eppure cosa sono gli innumerevoli orrori della nostra epoca se non la realizzazione del decreto rivoluzionario e la sua promulgazione a tutta l’umanità? E la rivoluzione contro Dio continua. Ricordiamo quei giorni tristi in cui gli studenti di Vienna cantavano: “Non sono cristiano, sono socialista!”. Quante cose ha provato l’umanità contro Dio…, e tutte invano. Per questo, il Papa, Sua Santità Pio XI, ci ha ammonito: Uomini, rivolgetevi a Cristo, al quale Dio ha dato un Nome che è al di sopra di ogni nome: “nessun altro Nome sotto il cielo è stato dato tra gli uomini per mezzo del quale dobbiamo essere salvati” (At. IV,12). Individui, rivolgetevi a Cristo! Società, rivolgetevi a Cristo! Nazioni, rivolgetevi a Cristo! Famiglia, politici, economisti, pensatori, rivolgetevi a Cristo! Stampa, spettacolo, letteratura, affari, banche, industria, finanza, rivolgetevi a Cristo! Uomini, perirete se non avete Gesù Cristo come vostro Re! – Questi sono i pensieri che spieghiamo in tutte le pagine di questo libro. Negli ultimi due capitoli voglio riassumere quanto detto e allo stesso tempo delineare i tratti caratteristici e definitivi di Cristo Re. Solo chi lo conosce può amarlo in tutta verità e rimanergli fedele in ogni momento della vita, e quanto più lo conosce, tanto più lo amerà!…. – In questo capitolo cercheremo di conoscerlo meglio! Sfoglieremo il Vangelo, affinché il Signore stesso ci risponda a queste domande: Chi sei? Cosa ci dici di Te?

* * *

Apro il Vangelo secondo Giovanni e leggo ciò che il Signore dice in un passo: “Io sono la porta. Chi entra attraverso di me sarà salvato” (Gv X, 9). Gesù Cristo è la porta e io non posso essere salvato se non entro attraverso di Lui. “Attraverso di Lui”, cioè se guardo il mondo con i suoi occhi, se penso al mondo con il suo spirito, se ciò che Lui considera importante è importante per me, se non lego il mio cuore a ciò che per Lui era una cosa secondaria. Guardare il mondo con gli occhi di Cristo! Quale utile lezione di vita è contenuta in questa frase apparentemente semplice! Perché Nostro Signore Gesù Cristo è sceso sulla terra? Per formare un nuovo tipo di uomo: l’uomo che lotta per la vita eterna. Tutto in Gesù Cristo serve a questo piano: la sua vita, le sue parole, la sua passione, la sua morte, la fondazione della Chiesa. Cristo era onnisciente; eppure non ha promulgato una sola verità di tipo scientifico, perché non la riteneva di importanza decisiva. Cristo è onnipotente, eppure non ha voluto lasciare alla tecnica, all’industria, alcuna linea guida che ne moltiplicasse l’efficienza. Cristo era bellezza eterna, e non ha fatto un solo quadro, una sola statua, una sola poesia, una sola composizione musicale. Cristo era l’amore eterno, e non ha insegnato come curare la tubercolosi o il cancro, o come eseguire operazioni chirurgiche. Cristo amava il bambino al massimo, eppure non ha lasciato in eredità ai posteri un metodo pedagogico a beneficio dei più piccoli. Perché? Perché non considerava tutte queste cose di importanza decisiva! Cosa era importante per Lui, allora? Credere in Dio, pregare, obbedire ai genitori, dire la verità, mantenere puro il proprio cuore; in altre parole, guardare il mondo alla luce dei suoi insegnamenti. Lui è la porta e solo chi entra attraverso di Lui sarà salvato. Continuiamo a chiedere: Dimmi, Signore, chi sei? E il Signore ci risponde in un altro passo: “Io sono il buon pastore” (Gv X,11). Cristo è il mio pastore, che non mi abbandona mai, che non fugge all’arrivo del nemico, che dà la vita per le pecore. È lecito per me avvilirmi, abbattermi, disperarmi, se so che Cristo è il Pastore che si prende teneramente cura di me? Ah, se il vento soffia, lo specchio liscio del lago trema, la mia fronte si corruga, è naturale, ma non è lecito per me disperarmi! Non è lecito piangere? Oh, sì, ma non ribellarsi! Anche il fiore piega il suo calice pieno di lacrime quando l’uragano scatenato passa su di lui. Come la sua rugiada cade sulla madre terra, così è lecito per me piangere; ma non in modo disperato, non rotto e spezzato, ma con la piena certezza che le mie lacrime cadono nelle mani amorevoli del Buon Pastore! E il pensiero del Buon Pastore non solo mi consola nelle disgrazie, ma mi dà anche forza nelle tentazioni. Quale forza acquisterei in tutte le tentazioni, se ricordassi questa grande verità in questi momenti! Questo Cristo che mi ha tanto amato, che ha dato la sua vita per me, questo Buon Pastore, ora mi chiede questo o quello, o mi proibisce questo o quello! È lecito per me disperare, dubitare come un uomo di poca fede, quando Cristo mi parla attraverso le circostanze? Perché Cristo ha dato se stesso per me fino alla morte; Cristo, il Buon Pastore. – E ancora chiediamo: Dimmi, Signore, chi sei? E Lui ci risponde così: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi è unito a me e Io a lui porta molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla. Senza di me non potete fare nulla. Chi non rimane in Me sarà scacciato come un tralcio che non porta frutto, appassirà e si seccherà, sarà preso e gettato nel fuoco e bruciato” (Gv XV, 5-6). Queste sono le parole di GESÙ CRISTO. Cristo è la vite e io sono il tralcio: che grave avvertimento, ma allo stesso tempo che grande onore! Il tralcio vive solo finché la linfa vitale della vite circola in esso. Anche la mia anima vivrà solo finché la forza di Cristo circolerà in me, finché il Cuore di Cristo batterà in me, cioè finché sarò fratello di Gesù Cristo. L’edera ha bisogno della roccia; se può arrampicarsi sulla roccia, fiorisce, ma se striscia per terra, ha una vita stentata. Il sempreverde ha bisogno della quercia; se può abbracciarla, riceve i raggi del sole vivificante; senza la quercia, non ha vita. Anch’io sono edera; Cristo è la mia roccia. Anch’io sono un sempreverde; Cristo è la mia quercia. Se mi aggrappo a Lui, volerò con gioia piena al di sopra di questa vita terrena, così piena di pantano, di dolore e di amarezza. Il buon Cristiano gode così della vita. I divertimenti legittimi e puri sono destinati a lui. Il buon Cristiano non deve mai essere triste, imbronciato, amareggiato – per niente! Al contrario. Chi ha l’anima in grazia, chi è unito al Signore, deve avere una pace e una gioia traboccanti. Il tralcio che ha una comunicazione vitale con la vite, trabocca di vigore e rigoglio. La più bella fioritura della vita cristiana mostra proprio agli uomini che, per godere della vera gioia, non è necessario peccare, né vivere in modo frivolo, né sprofondare nella dissolutezza dell’immoralità. Un Cristiano può essere duro con se stesso, mortificato come San Francesco d’Assisi, eppure sentire la sua anima inondata di grande felicità, come lo era l’anima di questo Santo, che parlava agli uccelli dell’aria, che predicava ai pesci e accarezzava il lupo della foresta. Per vivere così non devo mai dimenticare che Cristo è la vite e io sono il tralcio, cioè sono fratello di Cristo. Sono fratello di Cristo, quindi… vado a testa alta! Sono fratello di Cristo; perciò i miei occhi devono essere puri. Sono un fratello di Cristo, perciò tutte le mie parole devono essere espressione di verità. Sono un fratello di Cristo, quindi tutte le mie azioni devono essere giuste e corrette. Sono un fratello di Cristo, quindi la mia vita deve essere degna del Signore. Devo irradiare la luce che brilla in me; non ho altra scelta. La mia vita, le mie opere, le mie parole devono essere luminose. Sono fratello di Cristo; perciò non devo pensare, parlare, fare, amare nulla che Cristo stesso non possa pensare, dire, fare e amare. Perché Lui è la vite e io sono il tralcio. – Dimmi, Signore, chi sei? E CRISTO ci risponde: “Io sono la luce del mondo; chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv VIII,12). Mi sembra di sentire l’obiezione: “Cosa? Cristo è la luce del mondo? Ci sono milioni di persone che non si interessano a Lui, che gli passano accanto senza nemmeno guardarlo! Milioni di persone che non sono cristiane! È vero che ancora oggi molti vivono lontani da Cristo. Ma questi o non hanno ancora sentito la Buona Novella di Cristo, o non vogliono più saperne di Lui. Questi ultimi proclamano, senza saperlo, la grandezza di Cristo; infatti, da duemila anni combattono contro di Lui e non sono riusciti a strappargli le sue pecore. Gli altri, quelli che non lo hanno ancora conosciuto, con quale gioia ascoltano quando qualcuno parla loro della vita e delle parole di Cristo! Infatti, che cos’è, in confronto alla luce di Cristo, la dottrina del Buddha, che viene dal nulla e ritorna al nulla? Che cos’è Maometto, accanto alla Luce del mondo? Maometto ha cercato di attingere l’acqua dai torrenti che sgorgano da Cristo; ne ha attinta ben poca, sta nella bacinella della sua mano. La sua luce è presa in prestito, esigua e impura. Cosa sarebbe il mondo senza la luce di Cristo? Non possiamo immaginare in quale abisso di tenebre scenderemmo. Che ne sarebbe del mondo se la terra inghiottisse intere città e paesi, se i grandi oceani scomparissero? Il mondo ci sarebbe ancora. Cosa ne sarebbe se tutte le gradi invenzioni tecnologiche che abbiamo, cessassero di esistere? Il mondo non cesserebbe ancora di esistere. Cosa sarebbe la storia del mondo senza i grandi scienziati, senza i più importanti filosofi? Potremmo fare a meno di loro. Ma cosa sarebbe l’umanità senza Cristo? Mancherebbe la sua anima e ciò che resterebbe non sarebbe altro che un cumulo di macerie in un’oscurità spaventosa. Cristo è la luce del mondo. – Dimmi, Signore, chi sei? E il Signore risponde: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà mai fame e chi crede in me non avrà mai sete” (Gv XIV: 6). In effetti, Cristo è il pane della vita, perché senza di Lui non potremmo vivere. Se non avessimo Cristo, quale speranza resterebbe all’uomo peccatore? Se non avessimo Cristo, chi si prenderebbe cura dei poveri? Se non avessimo Cristo, chi frenerebbe gli eccessi dei forti, chi solleverebbe gli spiriti dei deboli? Se non avessimo Cristo, chi difenderebbe i non nati? Se non avessimo Cristo, a chi si rivolgerebbe l’uomo nella tentazione? Se non avessimo Cristo, a chi si rivolgerebbe il povero malato? Sì, Signore; sappiamo, sentiamo, sperimentiamo ad ogni passo che Tu sei il pane della vita e che chi viene a Te non avrà più fame e chi crede in Te non avrà più sete. – Dimmi, Signore, chi sei? E il Signore risponde: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv XIV, 6). Molti hanno voluto essere le guide dell’umanità, ma nessuno più di Cristo ha osato affermare che “Io sono la via”, che dobbiamo essere come Lui, che dobbiamo imitarlo in tutto. L’umanità ha avuto molti maestri, ma nessuno ha osato affermare come Cristo: “Io sono la verità”. Molte promesse sono state fatte e vengono fatte nel nostro tempo, ma non ci viene detto: “Io sono la vita”. Se Cristo è la via, chi si allontana da Lui si smarrisce. Se Cristo è la verità, chi lo nega o si vanta di non conoscerlo cade nell’errore. E se Cristo è la vita, chi rifiuta di ricevere la sua linfa sarà come un albero secco. E questo principio non vale solo per la vita dei singoli, ma anche per la vita della società, degli Stati stessi, dell’Umanità. Se le vie e le leggi sono contrarie alle vie e alle leggi di Cristo, la rovina è certa, sia degli individui che delle collettività. È vero che Cristo non ci esenta dalle difficoltà della vita; ma ci dà la forza, il coraggio, la libertà interiore, la maturità spirituale per sopportarle. L’individuo che segue Cristo sarà onorato nella sua condotta, meriterà la fiducia degli altri, avrà un grande spirito di sacrificio, amerà il prossimo. Oggi più che mai l’umanità ha bisogno di vivere questo spirito cristiano. Perché viviamo in un mondo competitivo, dove la cosa principale è il profitto e l’efficienza. Perché l’egoismo è all’ordine del giorno, perché i conflitti di interesse si moltiplicano, perché i Paesi ricchi cercano di conquistare il mondo, perché siamo padroni di molte materie, ma non di noi stessi. Cristo è la via, la verità e la vita. Vita non solo dell’individuo, ma anche della famiglia e della società. – Dimmi, Signore, chi sei? E il Signore risponde: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv IX, 25). Queste parole del Signore ci incoraggiano e ci danno speranza. La mia vita ha un senso, non finisce con la morte. Il Signore è in grado di riportare in vita una persona morta? Sì. Lo ha fatto diverse volte durante la sua vita terrena. Ma non ci crediamo del tutto? Ha calmato la tempesta sul lago di Gennesaret… Ma a cosa mi serve sapere”, obietterà il marinaio che lotta contro l’uragano, “se poi vengo inghiottito dagli abissi?”. L’orlo della sua veste curò una volta il malato…. “Ma a cosa mi serve”, si lamenta un giovane gravemente malato, “se sono malato da anni e non sono guarito?”. Gesù ha risuscitato i morti… Ma a che mi serve”, dice la vedova, “se mio marito è morto e i miei figli sono morti? Quanti sono quelli che si lamentano così, ma senza motivo! Gesù Cristo, nella sua vita terrena, non ha voluto calmare tutte le tempeste, guarire tutti i malati, risuscitare tutti i morti!0 Perché non è venuto per questo. Se ha mandato al mare, alla malattia, alla morte, lo ha fatto per dimostrare che davvero “a Lui è data ogni autorità in cielo e in terra”, anche su tutte le disgrazie, anche sui morti! Sulla morte stessa, è il suo potere, e che Egli “è la risurrezione e la vita, e chi crede in Lui, anche se muore, vivrà”. Se lo volesse, potrebbe salvare, anche oggi, tutti i naufraghi. Se Lui volesse, potrebbe guarire tutti i nostri malati. Ma non è questo che Egli vuole. Allora cosa vuole? Ci dice: “Rimanete nel mio amore”. “Chi mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e Noi verremo a lui e prenderemo dimora in lui”. Vale a dire, instaurate nella vostra anima e nel mondo intero il regno di Dio: il regno della fiducia ancorata a Dio, il regno dell’amore di Dio, in Dio e per Dio. Lavorate perché il mio amore abbracci tutta la terra…. Morirete…, ma un giorno verrò di nuovo e spazzerò via ogni miseria e cancellerò ogni lacrima…. “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà”.

* * *

Ecco, mentre sfoglio il Vangelo, il volto santo e divino di Nostro Signore Gesù Cristo diventa ad ogni pagina più bello, più radioso, più caldo, più soggiogante, più chiaro. Chi conosce Gesù Cristo sa tutto, chi lo ignora non sa nulla.

Signore, Tu sei la porta; attraverso di Te fammi entrare una volta per tutte.

Signore, Tu sei il Buon Pastore; fammi diventare una pecora docile del Tuo gregge.

Signore, Tu sei la vite; fa’ di me un tralcio vivo nutrito dalla Tua linfa.

Signore, Tu sei la luce del mondo; fa’ che la tua luce illumini tutta la mia vita.

Signore, Tu sei il pane della vita; nutriti per me.

Signore, Tu sei la via, la verità e la vita; guidami sulla via della verità verso la vita divina.

Signore, Tu sei la risurrezione e la vita; credo che un giorno risorgerò per vivere con Te in cielo.