LO SCUDO DELLA FEDE (243)

LO SCUDO DELLA FEDE (243)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (12)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

CAPO III

IL SACRIFICIO DIVINO

Il Canone.

Siamo giunti al terribile momento dell’Azione la più tremenda per cui eseguire con dignità è ordinato il Canone, il qual nome significa la grande regola. In esso sta, come in grandi caratteri, scolpita la legge eterna immutabile della sostanza, dei modi dell’esecuzione del gran Sacrificio da offrirsi per tutto l’universo. S. Gregorio e s. Cipriano chiamano il Canone « la preghiera per eccellenza, » il Pontefice Vigilio « il testo della preghiera canonica, » tanti altri Padri (Ben. XIV.) « l’Azione; » perché in esso si compie l’Azione delle azioni, l’azione più grande, più perfetta, anzi più divina, che per gli uomini sì possa fare nella Chiesa, per virtù di Gesù Cristo; regolare cioè la legittima consacrazione del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, e il sacrificio che si fa di essi a Dio in ricognizione della sua Divinità. –  Fermarci a far questione per trovare l’autore di alcune sue parti particolari, o a cercare chi l’abbia ordinato e così ridotto, né giova, né piace, né abbiam tempo da sprecare in ciò, che non è di grande importanza. Solo osserveremo, che di molte e delle più solenni e più comuni, e pubbliche orazioni, e dei riti più universalmente ricevuti, per lo più s’ignora l’autore. E doveva essere così; perché  l’autore non ebbe poi la parte maggiore nella loro istituzione. Sovente esso interpretava, e traduceva in atto un’idea, che era nel popolo cristiano, e che dove più, dove meno, si manifestava in qualche modo: sicché egli collo stabilire il rito e dar la forma all’orazione, non altro faceva che coglierne la più vera espressione, e la più rispondente all’idea, purgandola da ogni inutile ingombro. Piuttosto a consolazione dei fedeli tradurremo ciò che insegna lo Spirito Santo, per mezzo del Concilio generale di Trento, intorno al Canone stesso. (Sess. XXII, cap. 4). Dice adunque il sacro Concilio: « E conveniente che le cose sante siano santamente amministrate; ed essendo questo (della s. Messa) il santissimo di tutti i sacrifici, la cattolica Chiesa, perché degnamente e con la dovuta riverenza venisse offerto ed adempiuto, già da molti secoli istituì il sacro Canone, d’ogni errore così depurato, che niente in esso si contenga, che non sappia specialmente di certa santità, e pietà, e le menti sollevi in Dio, perocché esso consta, e delle stesse parole del Signore e delle tradizioni degli Apostoli, e delle pie istituzioni dei Pontefici. » E questo basta, perché, derivato a noi da queste fonti così pure e santissime, noi lo veneriamo come cosa tutta celeste, anzi come dono fattoci da Dio, nella sua carità, per alimentarci la divozione. Noi lo teniamo in conto di un misterioso componimento, in cui sono espressi i segreti adorabili dell’amor santo di Dio. Perché ci pare di scorgere nei riti i tratti più espressivi, e nelle parole i più santi affetti, che ci rivelano le ragioni più intime, che legano a Dio la sua sposa, la Chiesa. La Sapienza divina, dice lo Spirito Santo, si ha fatto un talamo nuziale in sulla terra (S. Thom. in Off. SS. Sacram.). Questo talamo è l’altare, vero santuario degli amori divini; ed il canone è l’epitalamio dello sposalizio di Dio coll’umanità. In esso troviam compendiati e spiegati i più reconditi misteri della Natura Divina; in esso appare nella sua grandezza la tremenda giustizia eterna, e si scorge come essa s’accorda in pace colla misericordia, e come questa trionfa. Del qual trionfo della misericordia sulla giustizia di Dio si manifesta quella bontà sua essenziale, che alimenta la beatitudine del paradiso. Così il canone contenendo in sé tanti misteri divini, adombrati nella santità dei riti, è quasi come quella gran nube che involgeva l’uomo eletto a parlar con Dio sul monte Sinai, la quale nella grandezza sua e maestà, e nei baleni di vivissima luce, di che sfolgorava, dava segno della presenza di Dio, che dentro ad essa compariva, e si manifestava a quegli argomenti. – Noi ci avvicineremo tremanti, e coll’anima umiliata, e lasceremo che parli in esso lo Spirito di Dio, e la sua sposa, la Chiesa, e solo ridiremo quel poco che abbiamo imparato da coloro, che furon degni per la loro santità di farsi più dappresso a contemplare. Quali oggetti! quali idee per un credente in questo istante! La terra non fu mai meglio in armonia col cielo. In cielo la Trinità augustissima sul trono d’inaccessibile luce, e intorno intorno le schiere dei Principi angelici, e di tutte le Virtù dei cieli; mentre l’Agnello Divino, sull’altare d’oro si presenta innanzi, e rompe il misterioso sigillo al Libro che contiene i secreti della Divinità, i quali fino agli Angeli eran nascosti; e tutta la Corte celeste si prostra cantando il trisagio dell’eternità. In terra tutti i fedeli genuflessi intorno alla croce vessillo di loro speranza sull’altare: alla loro testa il Sacerdote, che innalza le braccia innanzi al Crocifisso, quasi ponendo la sua testa sotto il Capo di Gesù coronato di spine, le mani su quelle sante Mani insanguinate, il petto sul Petto divino squarciato. Tutto assorto in Gesù Cristo, cogli occhi in cielo, quasi vi cerchi il volto del suo divin Padre, stende le palme, come per slanciarsi a Lui: e contemplando nella SS. Trinità Dio nell’alto della sua intima Vita Divina adora il Padre col Figlio in seno a lui generato ab eterno, e lo Spirito Santo, che dal Padre e dal Figliuolo procede; e insieme col Figlio, che si fa Agnello Divino sull’altare celeste, cade anch’esso sull’altare terrestre per trovare in cielo la redenzione. – Per esprimere quest’atto di adorazione, s’inchina, s’inabissa nel suo nulla, e cadendo colle mani giunte si mette come vittima legata; bacia l’altare, e coll’anima bacia in cielo le soglie dell’eterno trono. – Poi sorge, e comincia a trattare i più cari interessi, per cui Egli quella missione divina ha intrapreso. – Noi qui ci ricorderemo del prefazio, di quel cantico, che lasciò per dir così nell’anime del Sacerdote e dei fedeli quale una certa vibrazione e una eco di armonia celeste, che continua nei movimenti degli affetti, come dopo la scossa continua a vibrare ancora la corda od il metallo sonante. Ben qui a lui ancora nell’estasi dell’armonia di paradiso, fluiranno come espressioni spontanee quei gemiti inenarrabili, che lo Spirito Santo mette in bocca alla sua Sposa divinizzata: e sono queste le orazioni del canone. Buon Dio! Ci voleva proprio lo Spirito del Signore nella Chiesa, per dir quello, che si conviene, in un istante così tenero e così tremendo, così terribile, e così consolante. Prega il Sacerdote in secreto: e questo silenzio esprime il nascondersi che fece Gesù, quando non era ancora venuta l’ora sua. Veramente in questo terribile momento l’anima ha bisogno di non esser da rumore di parole disturbata dal suo raccoglimento con Dio (Innoc. III, lib. 2, Myster. Miss. cap. 54, et lib. 3, c. 1.). Veramente inspira anche grande venerazione il veder il popolo col Sacerdote all’altare pregar segretamente, quando lo Spirito del Signore opera segretamente sotto il velo dei simboli il gran mistero (Bened. XIV. lib. 2, c. 23, 16). Le anime adunque si hanno qui da trovare sole con Dio: e davanti a Dio che si sacrifica vogliono lagrime e non parole. Giova, ripeterlo: noi esitammo qui, se tornasse meglio tentare la spiegazione, o metterci di conserva col lettore a meditare ciascuna parola nel silenzio del labbro, e nella profonda umiltà del cuore. Ma abbiamo sperato di non riuscire inutili, se cercheremo d’inspirarci ai pensieri dei Santi, nell’esporre così sante orazioni. Ecco la prima, che procureremo di spiegare.

Art. I.

PRIMA PARTE DEL CANONE.

Orazione I: Te Igitur.

« Voi adunque, o clementissimo Padre, per Gesù Cristo Figliuol vostro e Signor nostro, supplichevoli preghiamo, e vi chiediamo che vi degniate di aver per accettevoli, e benedir questi, (qui fa tre segni di croce sull’offerta colla destra stesa nel pronunciare le seguenti parole) questi + doni, questi presenti, questi sacrifici santi, illibati, che noi vi offriamo in prima per la Chiesa vostra, santa, cattolica; cui vi preghiamo che vi degniate di purificare, custodire, adunare, e reggere per tutto il mondo universo, insieme col vostro servo, il Papa nostro (e qui nomina il sommo Pontefice) ed il nostro Vescovo (nomina il Vescovo), e con tutti gli ortodossi cattolici adoratori dell’apostolica fede. »

Esposizione di quest’orazione.

Pertanto il canone comincia colle parole: « Te igitur, Clementissime Pater, Voi adunque, o Padre,la cui clemenza è infinita, ecc. ecc. »Alcuni autori con bizzarria piuttosto, che conacume e solidità di ragione vorrebbero, che laChiesa avesse incominciata questa importantissimapreghiera col T; perché la lettera T ha forma dicroce.Ma noi avvertiamo ora per sempre, che le pratiche della Chiesa sono semplici, ma piene di maestà,e non bisognose di fantastiche interpretazioni,che pendano all’inezia, come è questa, di che noinon ci cureremo. La quale nacque forse dal vedere il pio uso di mettere, di fianco alla prima preghiera del canone, stampata l’immagine del Crocifisso: pratica suggerita dalla pietà dei fedeli, che spiega essere intenzione della Chiesa, che noi accompagniamo questa tremenda azione colla mente tutta piena delle idee della passione e della morte del Salvatore benedetto. « Voi adunque o clementissimo Padre, noi preghiamo supplichevoli ecc. ecc. » Questa congiunzione adunque fa intendere, che questa preghiera, come abbiam detto, è una continuazione del prefazio. In esso, reso omaggio di profonda umiltà al Signore dei cieli gli abbiam detto: « Egli è giusto e ragionevole e salutare di rendere grazie a Voi, Signore santo, Padre onnipotente, eterno Iddio ; » continuiamo ora qui la preghiera: Voi adunque, o clementissimo Padre, noi preghiamo supplichevoli ecc. Ammiriamo tratto di confidenza devota, in cui il Sacerdote parla a Dio come a tenerissimo Padre. E per giustificarsi di tal atto, che dovrebbe sembrar ardimento, gli mette dinanzi, per ossequiosa scusa, che il figlio suo Gesù ci acquistò il merito, e ci ottenne il diritto di chiamar Padre Iddio, soggiungendo subito: « Per Gesù Cristo, Figlio vostro, e Signor nostro preghiamo, e vi chiediamo di avere bene accetti, e di benedire questi doni, questi presenti, ed officiose offerte, questi sacrifici santi. » – Li segna di croce perché siano bene accolti dal Padre, vedendoli sotto la croce del suo Figliuolo. I tre segni poi esprimono che questo gran mistero si verrà compiendo dalla santissima Trinità ( Marsebius, Sum. Christ. 3 p.). È pure devota e commovente la spiegazione di questi tre segni di croce, che dà il Serafico Bonaventura (Esp. Miss. c. 4, 1. 7). Il primo segno, dice egli, significa 1’atto della carità del Padre verso di noi, che il proprio Figlio non risparmiò, come c’insegna l’Apostolo: ma ce lo diede per la salute di tutti. Onde possiam dire: «questo è dono vostro, perché da Voi ci fu dato. » Il secondo esprime quell’atto, in cui Gesù si abbandonò nella morte l’anima sua, e coi scellerati venne riputato: e qui possiam dire: « queste offerte sono nostre; perché il Redentore, che ci fu donato, è nostro. » Il terzo par voglia esprimere il tradimento di Giuda, con cui diede Gesù col bacio in mano ai nemici; e qui noi ancora possiamo dire nell’offrire « ma questo ora è santo sacrificio illibato , in cui non ha più parte umana malvagità. » – Giova qui osservare, che queste tre diverse espressioni di doni, presenti, santi sacrifizi illibati, non sono già una semplice ripetizione della stessa cosa; ma contengono tre idee diverse. Chiamasi l’offerta in prima doni, e sono doni la sostanza del pane e del vino presentata a Dio per essere trasmutata nel Corpo e nel Sangue di Gesù. No! l’oblazione non poteva essere fatta di una sostanza più conveniente. Dovendo noi rendere a Dio tutto che abbiam ricevuto, scegliamo una porzione di quella cosa, che maggiormente concorra al nostro sostentamento: e nell’offrirgliela preghiamo Dio di aggradire ciò ch’Egli ha posto nelle nostre mani (Paralip. XXIX, 14.). Così confessandogli con umiltà, che i doni che gli offriamo, come ogni cosa, sono già suoi, è un atto di giustizia che noi esercitiamo, essendo l’umiltà vera giustizia: poiché l’umiltà è virtù, che di tutto il bene rende l’onore a Dio. Ora, come tutto ciò che è bene, viene da Dio; (così conviene intenderla), la prima giustizia è rendere a Dio del tutto almen l’onore, come dice il Salmo: « Non a noi, non a noi, o Signore, ma al nome vostro date gloria » (Psal. CXIII.). Ci si perdoni di questo che ripetiamo qui: perché crediamo dover ripetere con Ss. Agostino che il primo, il secondo, il terzo fondamento della santificazione delle anime è sempre questa primiera giustizia, l’umiltà. Chiamansi poi questi doni col nome di presenti, cioè di offerte officiose, presentate da noi come un regalo nostro: così dicendogli doni, si confessa che sono cosa, che viene direttamente da Dio; dicendogli offerte officiose, o presenti, si dice in certo qual modo, che in essi si offerisce anche qualche cosa del nostro (Ugo, De sanct. Vict.). E qui nel modo più delicato diamo gloria alla bontà di Dio che benignamente alla nostra povertà ha provveduto, rendendo proprii di noi, o personali questi doni suoi. Invero il pane ed il vino sono doni suoi materiali, ma e’ sono anche nostri: perché la terra, che li produce per comando di Dio, ce li somministra rispondenti alle nostre fatiche. Sicché sono doni di Dio, e frutto del nostro lavoro. Ma elevando poi il nostro pensiero, sentiamo nella fede di poter dire, che sono doni e presenti nostri anche il Corpo e il Sangue SS., in che il pane ed il vino verranno trasmutati. E questo è il più gran trovato della divina bontà, che la mostra veramente infinita, e vince di lunga mano le più grandi speranze dei Profeti. Dio pagò egli stesso la divina giustizia per noi: e, si veda raffinamento di carità! ci volle anche risparmiare la vergogna di fare per noi il pagamento gratuito, senza nulla metterci del nostro, ma il prezzo del riscatto ci pose in mano, lo fece nostro, e di vera nostra ragione: e poi disse: « pagate. » Ci risparmia così quella naturale timidità di comparire debitori, e colle mani vuote ((3) Cesar. Oraz. del S. Natal.). Esso ci ha provvista la vittima; ma l’ha fatta nostra. L’infinito debito noi pagheremo, sì noi veramente pagheremo, e con valsente di nostra proprietà !… Qual sarà adunque questo presente di nostra ragione?….. Qual sarà?… Forse Gesù Cristo in Persona?! Sì proprio il Corpo e il Sangue di Gesù, che essendo Dio fatto uomo, si è fatto porzione di nostra natura; fratello nostro, a noi donato dal Padre: Ah! noi siamo d’avviso che neppure gli Angioli vanno al fondo di tanto mistero, vero Subisso d’amore divino! Chiamansi infine santi sacrifici illibati: santi, perché sono riservati a Dio solo, ed a Lui solo vengono offerti in ricognizione del suo supremo dominio: sacrifizi, perché rendono al gran Monarca dell’universo l’onor dovutogli da tutto il creato. In essi il supremo suo dominio è riconosciuto. In essi lasciando noi nelle mani di Lui l’offerta dei frutti della terra e dei nostri sudori, Dio trasmuta il dono terreno in un santo Sacrificio mondissimo, che sarà il vero olocausto per l’intera consumazione della vittima a gloria di Dio; e sacrificio eucaristico, offerto in ringraziamento; come pure vera ostia pacifica e sacrificio propiziatorio, che riconcilierà gli uomini a Dio, ed otterrà la remissione dei peccati; sacrificio accettevole impetratorio, che impetrerà tutte le grazie a favore degli uomini. Il che tutto già abbiam toccato, ed avremo occasione di esporre ancora con maggiore chiarezza. Da ultimo sacrifizi illibati, integerrimi, siccome li ha fatti Dio, senza che né uomo, né spirito immondo vi possa metter sopra la mano ad usurparli, o profanarli. Illibati, dice anche Innocenzo III (1), cioè immacolati; perché senza macchia e di cuore e di corpo devono essere offerti, sicché niente vi sia frammesso, che degno non sia dello sguardo santo di Dio. Essendo questo, pertanto, il santo Sacrificio illibato, affrettiamoci, che questa è l’occasione più bella, di presentar con esso le nostre suppliche, e chiedere ciò che più ci sta a cuore. Quindi continua l’orazione. « I quali sacrifici, vi offeriamo per la Chiesa vostra santa, cattolica. » Anche Gesù Cristo faceva per essa la sua preghiera, e raccomandava di porre gl’interessi di essa in cima di tutti i nostri voti. « Cercate, dice Egli, prima il regno di Dio e la sua giustizia », ed il regno e la sua giustizia sta nel trionfo della Chiesa Cattolica. Quindi il Sacerdote la raccomanda subito in prima.

QUARESIMALE (XVI)

QUARESIMALE (XVI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMASESTA
Nella Domenica terza di Quaresima

Confessione, vuol dire conversione. Convertirsi a Dio con la lingua, dicendo tutti i peccati mortali. Convertirsi a Dio col cuore, avendo vero dolore. Convertirsi a Dio con le opere, avendo un fermo proposito di non peccare e di lasciare l’occasione prossima.


Erat Jesus ejiciens dæmonium, et illud erat mutum. San Luca cap. 11.

Nei tribunali del mondo la confessione del delitto tira seco la morte; nel sacro
tribunale della Penitenza, la confessione del peccato porta seco salute d’anima, e vita di grazia. Eppure un effetto sì prodigioso più d’uno non l’esperimentano. Sapete perché? Non si fa come si deve, non si fa sincera, schietta, reale, severa; e per questo molti che si confessano, non ricevano né perdono di colpa, né vita di Grazia. – La Confessione non è qual molti se la figurano, non è un negozio di sole parole nate sulle labbra, ma altresì di sensi usciti dal cuore; non risiede solamente nella punta della lingua, ma principalmente nel profondo della volontà. Confessarsi vuol dire convertir a Dio: Convertere ad Dominum relinque peccata, et minue offendicula. In queste brevi parole detteci dallo Spirito Santo sta racchiusa la norma d’una vera, perfetta, e santa Confessione, perché contiene in sé: convertirsi a Dio con la lingua, convertirsi col cuore, convertirsi con l’opere. Convertirsi a Dio con la lingua, dicendo tutti i peccati. Convertir a Dio col cuore, avendo un vero dolore. Convertir a Dio con le opere, avendo ferma risoluzione, non solo di non peccare, ma altresì di fuggire ogni occasione prossima di peccato. Cominciamo dal primo. – È da piangersi a lacrime di sangue la miseria infelicissima di tanti e tanti, che dopo avere anche diligentemente esaminata la loro coscienza, tanto si perdano e si dannano tacendo qualche peccato non perché non se ne ricordano, giacché in tal caso non sarebbe peccato, salva la negligenza nell’esame, ma perché hanno timore a manifestarlo, si vergognano di palesarlo. Mi meraviglio di voi. E da quando in qua deve stimarsi vergogna palesare il suo peccato? Vergogna fu il farlo. No, no, vi dico non deve stimarsi vergogna palesar quel peccato, né dalla parte vostra, né dalla parte della Confessione, né dalla parte del confessore. Non è dalla parte vostra perché mai è stato, né mai sarà vergogna alcuna mostrare al cerusico una ferita mortale acciò la guarisca; mai è stato, né mai sarà vergogna palesare al medico una febbre acuta perché ci risani; mai sarà vergogna vomitare alla presenza del medico, che vi dà l’antidoto a quel veleno che racchiudete nelle viscere. Or non è vergogna scoprir la piaga al cerusico, palesar la febbre al medico, ed alla presenza sua render quel veleno che ci toglieva la vita temporale. Come ha da stimarsi vergogna scoprire quelle piaghe incancherite al cerusico spirituale di quei peccatacci, palesare al medico spirituale quelle febbri ardenti di tante laidezze, rendere alla presenza sua quel veleno che dava morte all’anima vostra? mentre così operando si ricuperava la salute dell’anima? Eh mi meraviglio di voi! Non deve stimarsi vergogna dalla vostra parte, ma neppure dalla parte della Confessione. Voi, quando siete in peccato, siete mostri orribili; non siete punto dissimili al diavolo nella deformità mostruosa. Or, qual è il modo di ritornare allo stato primiero? Ecco, dice Sant’Agostino, la Confessione: Fœdus eras confitere, ut fis pulcher; e se non vi basta l’autorità d’Agostino, sentitelo dalla bocca stessa del Profeta Reale, che apertamente si protesta: Confessionem, et decorem induisti; Iddio ha posto vicino alla Confessione la bellezza, per il peccatore allor che s’umilia d’avanti a lui e davanti a’ suoi ministri ricopre le sue colpe di tal maniera che par che sopra loro ponga un prezioso ricamo, in virtù del quale, rimane nascosta ogni laidezza passata. Confessionem, et decorem induisti. Confessio, pulchritudo in conspectu ejus; al cospetto di Dio tanto è dire confessarsi bene con dire tutti i peccati, quanto è vestir d’una bellezza celeste. Sarà dunque vergogna manifestar chiaramente le sue colpe, se manifestandole vi rendete belli agli occhi di Dio. – Un certo scolaro di Socrate in Atene, entrato in una casa di cattivo nome, vedendo passar di là il suo maestro, corse per vergogna a nascondersi, ma Socrate fatto sulla porta, tutto piacevole e grave, vien fuori, e dice: o figlio, poiché l’uscir da questa casa non  è  vergogna, vergogna fu l’entrarvi. Lo stesso dico io a quelli che tacciono i peccati per vergogna: non è vergogna uscir dal peccato per mezzo della Confessione, vergogna fu peccare. Mi meraviglio di voi, dirò con Sant’Agostino che pazzia è la vostra non vergognarsi di peccare, e vergognarsi di far penitenza? Questo è un vergognarsi della fascia, e non arrossirsi della ferita. O crudelis insania de vulnere non erubescit, et de ligatura vulneris erubescit. Neppure deve stimarsi vergogna dalla parte del confessore. O che pazzia! Vergognarsi di palesare un brutto peccato per temenza che il confessore si scandalizzi? E da quando in qua avete trovato medico, il quale si turbi per avere alle mani una persona gravemente inferma mentre sa, che può risanarla s’ella l’obbedirà? E da quando in qua avete trovato un cerusico che si rammarichi per aver alla sua cura una piaga pestifera; mentre sa, che può guarirla, purché l’infermo voglia? Ah, che il medico, ah, che il cerusico godono in simili cure, perché devono ridondare in loro utile, in loro gloria. – Era solito di dire un confessore gran Servo di Dio, che mai più tanto si rallegrava, quanto che, quando aveva a’ suoi piedi a guisa d’un San Michele Arcangelo, un dragone d’inferno, e voleva dire, che allor godeva, quando aveva un gran peccatore a’ suoi piedi. Come dunque volete che sia vergogna dalla parte del confessore? Non dovete vergognarvi per la parte del confessore, perché egli, quanto siete maggior peccatore, tanto più gode. Confessavasi un dì da San Luigi Beltrando un dissolutissimo giovane, il quale ad ogni peccato che diceva, dava un’occhiata al santo confessore, ed osservò, che stava con volto tutto ridente. Finita la Confessione: Padre, disse, ho un altro peccato da accusarmi, ed è un giudizio fatto adesso, che anche voi siate un tristo come me, perché ridendo nell’assolvermi, mi sono immaginato che vi consoliate nel vostro cuore con dire: manco male che al mondo vi sono degl’altri ribaldi al pari di me. Allora il Santo rispose: fratello, son peccatore anch’io, benché non sappia d’aver mai fatti peccati simili a’ vostri, ma gioisco nell’udire la vostra confessione, considerandovi non più peccatore, ma penitente glorioso, che fuggendo dalle mani del diavolo, si butta in quelle di Dio. Cari Uditori, non temete mai che il confessore si scandalizzi, anzi assicuratevi che, quanto più gravi saranno i peccati, tanto più godrà, giacché egli allor gode, quando acquista anime a Dio. Non dovete dunque stimar vergogna manifestare il peccato né per vostra parte, né della confessione, né del confessore. Su, dunque, ditelo e non lo covate più in cuore a tanto danno dell’anima vostra. Eh Padre, dite bene, ma è troppo grande il rossor che provo a sol pensarvi di doverlo dire; ma se poi volete, che ci sta questa vergogna, sarò con voi e dirò ancor io, che è vergogna; ma vergogna, o non vergogna, bisogna confessarlo. È vergogna sù, sì, è vergogna, ma qual è più vergogna, dirlo ad un uomo, come voi soggetto a miserie, oppure farlo sapere a tanti uomini da bene? Certo che è minor vergogna dirlo ad un uomo impastato di carne come voi così, vi dice Sant’Agostino: O homo vir confiteri erubescis peccata tua? Peccator sum sicut es tu; altrimenti, se non li dite ad un uomo solo, nel confessore, l’hanno poi da sapere i vostri peccati tutti gl’uomini del mondo nel giorno estremo. Su via, è vergogna dirlo ad un uomo impastato di miserie come voi? Su via, son con voi, e giacché il diavolo vi ha restituita per confessarvi quella vergogna che vi tolse perché peccaste; su, voglio che fa vergogna; ma quale è più vergogna? Che ora lo sappia un uomo solo, oppure, che poi quel vostro brutto peccato sia manifestato per bocca de’ diavoli a suono di tromba per tutto il mondo? Se voi non lo confessate adesso per la vergogna ad un uomo in segreto, con sì alto segreto, che maggiore non può essere, s’avrà poi da manifestare con tanto maggior vituperio al marito, alla moglie, al padre, ai figli, alla madre; quel vostro peccataccio ha da essere manifestato a quanti furono uomini nel mondo, quanti regnano Beati in Cielo, ed a quanti penano tra’ diavoli, e dannati nell’inferno. E tu peccatore, e tu peccatrice non vorrai ora soggiacere a questa piccola vergogna per esser poi svergognato presso il mondo tutto per tutta l’eternità? Sappiate, Uditori, che il confessore ha tal segreto di quanto gli dite, che v’andasse la salute del genere umano, non può palesar le vostre colpe. Sogliono i principi farsi servire volentieri da mutoli affinché le loro azioni non si risappiano. Dieci di questi ne aveva Solimano re dei Turchi, eppure, se questi non parlavano con la lingua, potevano certamente parlare con i cenni; ma il nostro Iddio ci fa servire nelle Confessioni da Sacerdoti talmente mutoli, che nemmeno con un gesto, benché minimo, possono scoprire i nostri peccati. E voi ad ogni modo con tanta certezza che nulla si saprà, con tanta sicurezza del vostro eterno vituperio, se ora non dite il peccato, ad ogni modo, per un piccolo rossore presente vorrete tacerlo? Orsù, se così è, io non posso far altro, salvo, che intimarvi con Agostino la dannazione. Elige quod vis, si non confessus lates, inconfessus damnaberis, o confessarsi, o dannarsi; o confessione, o dannazione. Una tal verità provò a suo gran costo quella infelice giovine riferita da autor moderno. Fu questa allevata con gran cura da’ suoi maggiori, i quali affine di levarla affatto dai pericoli che corre la gioventù, la collocarono per educazione in un monastero, consegnandola ad una zia vergine di gran pietà; e pure, in questo giardino sì chiuso trovò l’antico serpente la sua entrata: imperocché un giovinastro, sotto pretesto di volerla chiedere a’ parenti per sua consorte, le inviò una lettera piena di sensi affettuosi, per cui si mostrava tutto appassionato per lei, e tutto preso dalle sue belle maniere. Or queste lodi, e questa grande affezione, sebbene potevano parere non più che poche scintille, bastarono per un gran fuoco, poiché la giovane incauta si accese tutta di desiderio di corrispondenza; e perché chiusa in quel luogo aveva comodità di parlare, fomentava l’ardore concepito con lo scrivere, manteneva per via di lettere una continua corrispondenza, non d’altro al principio, che d’una semplice benevolenza col fine di maritarsi, se non che quella febbre che da principio pareva effimera, crebbe a segno di divenire affatto putrida; dietro all’amore cominciarono i cattivi pensieri e le suggestioni impure, e sotto pretesto di matrimonio l’inimico s’inoltrò tanto nel suo cuore, che la meschina diede il consenso. È vero che questo consentimento non passò a niuna opera cattiva, ristagnando nel cuore; ma che importa, fu peccato mortale; quello però, che compì l’infelicità della giovane, fu che ella per vergogna non manifestò mai al confessore né la tresca col giovane, né l’assenso al peccato, né  pure i continui sacrilegi che faceva nell’accostarsi a’ divini Sacramenti. Perseverò lungamente in questo stato, e così sacrilega fu colta da fiera malattia, per cui se ne morì senza essersi confessata di quel peccato. Volle Iddio servirsi della disgrazia di costei per ammaestramento di tante che si danno in preda agli amori, e di quelle che non vogliono dire i lor peccati, e perciò permise, che la morta giovine comparisse alla zia cinta di fiamme, in atto di metter compassione fino alle pietre. Ed ecco, disse, quella che voi avete allevato con tanto studio, eccola dannata per aver taciuto un peccato mortale di solo pensiero; così detto, disparve, e lasciò più morta che viva la sconsolata zia. O quanto pagherebbe questa giovane infelice non aver mai fatto l’amore! Quanto bramerebbe d’aver detto quel peccato che ora la tiene nell’inferno. Intendetela cari Uditori, o confessarsi, o dannarsi. Annibale doppo aver passato il mare fece dar fuoco alle navi, e poi, rivolto a’ soldati, disse loro ad alta voce: soldati miei, qui non v’è più speranza di ritornare indietro; convien vincere, o morire: Aut vincendum, aut moriendum milites est. Lo stesso dico ancor’io, o convien vincere quella maledetta vergogna, che vi leva la lingua, o convien morire eternamente; o confessione, o dannazione; non occorre altro. – O Padre, già che questa vergogna m’ha preso si altamente, non vi farebbe altro modo per ritornare in grazia di Dio? Digiuni, pellegrinaggi, stenti, limosine? No, Quot ignorat, medicina non curat. V’entri una spina in un piede; finché la spina non è cavata, non è possibile saldar la piaga, ponetevi pure unguenti, e balsami; cavate la spina, e guarirete. – Racconta Sant’Antonino Arcivescovo di Firenze, come un santo confessore, mentre se ne stava al confessionario, vide venire una sua penitente al solito tutta modesta, tutta devozione; ma vide che intorno a lei v’era un brutto demonio che con grande allegrezza gli saltava d’intorno. Restò stupito il Santo, e chiamato a sé, con comando di Dio, quel demonio, gli disse: e perché  con tanta allegrezza intorno ad una donna sì pia, che digiuna, che fa limosine, che frequenta i Sacramenti? Per questo, disse il diavolo, sto allegramente. Quomodo non rideam, si hæc jejunans et plorans descendit ad inferos? E non volete che rida, mentre costei con tutte le sue penitenze e devozioni viene all’inferno? Ve  lo dirò, rispose il diavolo: questa donna commise già un peccato di pensiero, v’acconsentì.  È vero che stagnò nel cuore, ma vi diede perfetto l’assenso e non se ne è mai confessata; onde faccia quante penitenze vuole, che mai mai, si salverà. Intendetela, finché la spina non è cavata, non v’è rimedio. Portatevi dunque a piedi d’un buon confessore e dite ciò che avete celato. – Se bene a che tanto stancarmi, mentre la maggior parte non fa le confessioni male per lasciare i peccati e li dicono tutti? Pensate, se quella donna si vergogna di dire i peccati, mentre ne discorre con le compagne? Pensate se ne vergogna quel giovane che se ne vanta. Peggio, pensate, se si vergognerà di dire i peccati che ha fatto quell’uomo che si gloria di quelli, che non ha fatti, con perdita della riputazione di quella povera donna. Appunto la maggior parte fa un diligente esame, e dice tutti i peccati, anzi per non se ne scordare li scrivono e pure, come dice Santa Teresa, la maggior parte si danna per non far bene la Confessione. Da che deriva? Deriva, perché confessarsi, non vuol dire pagare una gabella; gl’ho fatti, gl’ho detti, dunque sono assolto, … È necessità dirgli, ma non basta; bisogna aver dolore, e se non avete questo dolore, la confessione non vale. – Quando si dice che avete d’aver dolore, non s’intende del dolore sensibile, il quale, quantunque fosse buono, non è però necessario per una buona Confessione; è il dolore della volontà, cioè quel dolore, con cui si detesta il peccato, come il maggior di tutti i mali, e si abbomina sopra ogn’altra cosa, che meriti odio; Qui diligitis Dominum, odite malum, dice il Profeta Reale. Or io sento taluno, che mi dice: come ho da fare per aver questo dolore, che mi faccia odiare il peccato da me commesso. Io mi pento, dice quella donna, del mio peccato, perché mi trovo tradita dall’amante e svergognata. Io mi pento, dice colui, perché quel fallo da me commesso m’ha portato tante disgrazie. Questo è dolore naturale, il quale non giova nel Sacramento della Confessione, e queste lacrime sono per appunto come le lacrime d’una pianta potata, la quale non per altro geme, se non perché ha perduta la pompa de’ suoi rami. Il dolor naturale, non basta, vi vuole il soprannaturale! E qual è questo dolore soprannaturale? Eccolo, dolersi d’aver offeso Dio o per timore d’inferno o per perdita di Paradiso, o per bruttezza di peccato; meglio però sarebbe, se voi vi doleste de’ vostri peccati con dolore perfetto, che vuol dire, non con altro motivo, che per avere offeso Dio sommo Bene, che merita d’essere infinitamente amato. E se volete conoscere la differenza di questi due dolori, d’Attrizione, e di Contrizione, immaginatevi una Figlia così maledetta la quale, in collera dato un pugno a sua madre si fosse fatta male nel percuoterla. Questa si potrebbe dolere e per il male fatto a se, e per il disgusto dato alla madre. Così voi, se vi pentite e vi dolete per timore d’inferno, bruttezza di peccato, perdita di Paradiso, vi pentite per il male che fate a voi, e questa è Attrizione. Se voi vi pentite solo per il disgusto dato a Dio Sommo Bene, questa è Contrizione e dolor perfetto , ed uno di questi due dolori sono necessarii per Confessarsi bene, altrimenti la Confessione non val nulla. – Intendetela bene questa verità. Confessate pur tutti i vostri peccati, non ne lasciate niuno. Comunicatevi, prendete l’Olio Santo, tutti i Sacramenti, se non avrete uno di questi due dolori, siete dannati: Nisi pœnitentiam egeritis omnes simul peribitis. Ma sento chi mi dice: come potrò fare ad avere questo dolore soprannaturale? Prima raccomandarsi a Dio, da cui ha da venire questo dolore. Mettetevi dunque in ginocchioni avanti d’entrare al confessionario e dite: Signore, giacché volete che mi penta di cuore, datemi voi questo dolore, che è dono vostro. In secondo luogo, considerate tutta la vostra vita iniqua, e non vi fermate in quei soli peccati, de’ quali volete allora confessarvi, e vedrete, che a quella moltitudine concepirete dolore. Considerate chi siete voi, chi è Dio, e queste considerazioni v’ecciteranno a pentimento. Basta dire tutti i peccati? Basta il dolore per ben confessarsi? No, convien salire un gradino più sù, vi vuole un proposito risoluto di mutar vita. Qui sta il punto, Uditori miei, non basta odiare il peccato passato, vi vuole anche una vera risoluzione di non peccar mai più per l’avvenire, altrimenti la Confessione non è buona. Sovvengavi di quello, che San Remigio disse a Clodoveo Re di Francia prima di battezzarlo: signore, se volete godere i frutti del Battesimo, bisogna che di cuore adoriate ciò che abbruciaste, cioè le Croci; e che abbruciate ciò, che adoraste, cioè gl’idoli . Tanto io dico a voi: se volete far buona Confessione, bisogna fuggire quel peccato che amaste; bisogna seguir quel Dio a cui voltaste le spalle. E se io avrò questo proposito di mai più peccare, sarò poi ben confessato? tornerò in grazia di Dio? No, no, non siete ancora in cima alla scala. Non basta per molti, se voglian fare la pace con Dio, che propongano di non voler più peccare, ma bisogna che propongano di voler levare l’occasione prossima di peccare; e la ragione è chiara, perché chi vuole una cosa che moralmente è connessa con la colpa, è convinto di voler ancora la medesima colpa. Bisogna dunque proporre di voler levare l’occasione prossima, che è quel pericolo di peccare, nel quale, quando uno si pone frequentemente, cade. Non basta dunque che quel giovane, il quale, quando discorre con quella donzella frequentemente offende Dio con pensieri, con discorsi, dica al confessore: Padre, prometto di non consentire un’altra volta; ma bisogna dire: Padre, prometto di lasciar questa conversazione, che m’è occasione di tante colpe. Quella donna, che nel servire, o nell’andare in quella casa a lavorare frequentemente cade in peccato, deve dire: non andrò più a lavorare in quella casa; ed il padrone della casa deve dire non chiamerò più quella donna a fare i fatti di casa, ne chiamerò un’altra, che non mi serva d’inciampo. Così chi giocando frequentemente bestemmia Dio, o inganna il compagno, deve promettere di non maneggiar più le carte. Chi passa il tempo con un compagno scandaloso per l’anima sua, deve promettere di cambiar compagni, o di non trattarvi a solo a solo. Chi frequentemente s’ubriaca, deve promettere di non andare alla bettola, o almeno di non trattarvi, andarvi in compagnia d’altri, ma da sé solo, per evitar quel prossimo pericolo d’ubriachezza. Se non fate questi propositi, la Confessione non vale. Ditemi, se voi foste cascato quattro, o cinque volte giù per una scala, e vi foste rotto quando una gamba, quando una spalla, quando la testa, che proposito fareste, di non salire, o di non ricadere? Il vostro proposito farebbe di non salire mai più. Perché dunque si ha da stimar sì poco l’anima? Che sapendo d’averla uccisa tante volte in quei luoghi con quei compagni, vogliate di nuovo tornarvi? Dio immortale, se un cavallo sia caduto in qualche malpasso, dategli quanto volete, non vuol passarvi. E voi caduti tante volte, vi ritornate e poi credete di far buona Confessione, senza proposito di levar l’occasione prossima? Un padrone tiene una serva in casa con la quale di tanto in tanto cade, la può mandar via e non la manda, non può essere assolto, e dir il contrario è una delle Proposizioni condannate dalla Santità d’Innocenzo Undecimo. O’ fà per la mia casa. Se la trovate a rubare alla cassa, subito la caccereste, vi ruba l’anima e si tiene? Chi dicesse che costui si confessa bene, è scomunicato. Una serva si trattiene in una casa e spesso pecca, può lasciar quel pericolo ed andare altrove, chi dicesse, che questa donna in tale stato si confessa bene, sarebbe scomunicato. E se si trovassero de’ confessori che assolvessero chi sta nell’occasione prossima si dannerebbero col penitente. Udite a questo proposito un avvenimento referito da gravi autori. Un certo cavaliere dato in preda alle disonestà aveva per sua disgrazia trovato un confessore che, senza riprenderlo, e senza costringerlo a lasciare l’occasione prossima, l’assolveva ogni volta con grande amorevolezza; e benché la moglie di questo cavaliere, signora di gran pietà, riprendesse frequentemente il marito e gli dicesse spesso: chi v’assolve? Mentre i predicatori replicano tante volte nel pulpito che chi non lascia l’occasione prossima non può assolversi da niuno. Il cavaliere rispondeva ridendo: voi, signora, volete fare del teologo, se il confessore non mi potesse assolvere, non mi assolverebbe, badate all’anima vostra, ed io baderò alla mia. Seguitò dunque a viver nella pratica ed a confessarsi. Venne la morte, la quale fu somigliante alla vita. Poco doppo la morte essendo la signora rimasta vedova, standosene ritirata a fare orazione, vide in mezzo ad un gran fuoco un uomo spaventoso, che portava su le spalle un altro uomo tormentato dalle medesime fiamme. S’intimorì grandemente la signora, e tanto più crebbe l’affanno, quanto che udì dirsi da quello che stava sulle spalle dell’altro: io son l’anima del tuo marito, non accade pregar per me, son dannato; questo che mi porta sulle spalle è il mio confessore; io perché malamente mi son confessato, ed egli perché malamente m’ha assolto, siamo condannati, e ciò detto disparve. Capitela dunque: se voi senza proposito di lasciare non solo il peccato, ma l’occasione prossima del peccato andrete a confessarvi, e troverete chi v’assolva, non andrete a casa del diavolo con i vostri piedi, ma con quelli di chi vi assolve. Il confessore dice io t’assolvo, ed Iddio, che vede che non avete vero dolore e vero proposito, dice, ed io ti condanno. Fate dunque buon proposito di lasciar l’occasione prossima del peccato, e così vi confesserete bene; ma levatela, se no, la confessione è invalida, anzi sacrilega. – Un certo giovane allacciato malamente dall’amore d’una femmina se n’andò per sua buona sorte a confessarsi da un Sacerdote, il quale gli mise sì bene avanti gl’occhi la gravezza del suo peccato, e la necessità di fuggire l’occasione, che il giovane compunto gli promise non solamente di non tornar più in quella casa, ma di partirsi anche da quella città ed andarsene tanto lontano che la donna non sapesse più nuova di lui, perché diceva: ella è tanto scellerata, che se io mi rimanessi in queto luogo, mi tirerebbe di nuovo a mal fare. Il Confessore vedendolo sì ben risoluto, l’assolse, ed il giovine ritornato a casa dette ordine alle cose sue e se ne partì. In tanto la mala donna, aspetta la prima sera, aspetta la feconda, la terza, e l’amante non tornava. Ah traditore, disse, m’ha abbandonato; Che fece? Così donna com’era cominciò a girare d’intorno intorno a paesi vicini, e tanto fece, che lo vide in una piazza, e tutta allegra gli s’accostò di nascosto, come per gioco, e presolo per il mantello glielo tirò. Voltossi allora il giovane e, benché riconoscesse subito quella malvagia, non gli corrispose. Onde la donna soggiunse: non mi conosci? Son quella; se tu sei quella, rispose il giovane, non son quello io, e guardandola con occhio bieco le voltò le spalle. Or confessatevi così, miei Uditori, e non dubitate, che le vostre confessioni non siano buone, saranno ottime, perché piene di vero dolore, e di fermo proposito. – Deh miseri voi aprite gl’occhi, e non v’accorgete dell’inganno che vi tesse il demonio, affinché non facciate una buona confessione? Ite sacrificate Domino, oves tantum vestræ remaneant. Così disse Faraone al Popolo d’Israele, dopo esser costretto, a forza di castighi e di prodigi, lasciarli partire; giacché volete andare nel deserto a sacrificare al vostro Dio, mi contento, purché rimangano qui nell’Egitto tutte le vostre bestie; ma che rispose Mosè a questa richiesta così ingannevole? Non remanebit ex eis ungula. Questo fa a proposito per voi o peccatori; non solo non avete a lasciare, dice Mosè, nell’Egitto le vostre mandrie, ma nemmeno un’ugna d’esse, non remanebit ex eis ungula. Ecco l’astuzie del Faraone d’inferno, il demonio: quando s’accorge , che avete detto tutti i peccati, e che ne avete concepito buon dolore, si rivolta agl’inganni con procurare che non abbiate un vero proposito e dice, confessatevi, purché non lasciate, né quella amicizia, né quel passatempo, né quella casa, ove frequentemente avete perduta l’anima, fate proposito d’andarvi, ma di non peccarvi mai più: Oves tantum vestræ remaneant! No dilettissimi, non acconsentite a questo partito, è troppo ingiusto; rispondete francamente con Mosè: Non remanebit ex eis ungula; non solo non tornerò in quella casa, non solo non manterrò più quella amicizia sì dannosa, ma brucerò tutti i doni che ne ricevei, m’asterrò di mirarla, non manderò più imbasciate, ne toglierò dalla mente ogni memoria, come se mai non l’avessi conosciuta, non remanebit ex eis ungula. Fate così miei Uditori, e le vostre confessioni, come ottimamente fatte, vi torranno dall’inferno, e vi porteranno in Paradiso.

LIMOSINA
Siccome la Confessione dà la salute all’anima, così la limosina la dà al corpo. Eleemosina est ars, dice San Giovanni Grisostomo, omnium quæstuosissima;
è un’arte, che con i beni di fortuna, porta anche la sanità. Ben s’accorge di questa verità il poverello di cui si racconta nelle vite dei santi Padri che quanto guadagnava tutto dava per limosina e così si manteneva sano; ma volendo poi adunare per i bisogni delle malattie, e resecando la limosina ai poveri, subito s’ammalò con una piaga, in cui logorò tutti i danari, ma senza utile, e già si pensava di venire al taglio della gamba. Quando una Notte lagnandosi, si vide comparire fra la luce un Angelo che gli disse, che il modo di mantenersi sano era la limosina; poi lo guarì, dicendogli, che seguitasse. Che cosa bella è esser sani, questo è il maggior tesoro; sta nelle vostre mani: fate limosina!

SECONDA PARTE

Eccovi mostrato il modo di fare un’ottima, e santa Confessione; convertirsi a Dio con la lingua, dicendo tutti i peccati; convertirsi a Dio col cuore, concependo un vero dolore e pentimento d’aver offeso Dio; convertirsi a Dio con le opere, facendo un fermo proposito di lasciare non solo il peccato, ma l’occasione prossima del peccato. Ma o che miseria del Cristianesimo, mentre una gran parte de’ fedeli si serve male del Sacramento della Penitenza cavando veleno dall’antidoto. Così fate voi, quando andate alla Confessione senza le dovute preparazioni, v’andate per usanza, v’andate per rispetto umano, v’andate senza volontà risoluta di lasciare il peccato. Se un buon confessore non v’ha voluto assolvere, ne andate a cercare uno che sia ignorante, o almeno non curante né della sua, né della vostra anima, e così v’assolva, benché l’occasione sia prossima, e si possa rimediare. Talora vi sono di quelli che vanno cercando confessori che non sentano. Se così fate, voi uscite peggiori dalla Confessione di quello v’andaste. Poveri voi. Un inganno grande per i penitenti è che, quantunque vadano indisposti a questo Sacramento, ad ogni modo non hanno altra mira che ad avere l’assoluzione, quando con finzioni l’hanno strappata dalle mani del confessore, senza riflettere che se veramente non hanno la disposizione necessaria, ricevono dal Sacerdote quella materiale assoluzione, e da Dio l’eterna condannazione. – Poveri penitenti, mentre non vi servite bene d’un tanto rimedio alla vostra salute. Più poveri però, quando andate da medici che, invece di risanarvi, vi rovinano. Ma se sono infelici i penitenti, infelicissimi sono i confessori, che male amministrano il Sacramento della Penitenza. Ricordatevi o Sacri Ministri della penitenza, che siete padri del penitente, che non merita nome di padre, quello che, vedendo il figlio o piagato, o sull’orlo del precipizio, non gli porge rimedio, non l’avvisa con maniere da padre. Fate però conoscere la gravezza del peccato, riprendete ma con dolcezza; di grazia, nel sentire le colpe, quantunque enormissime, fatela da padre amoroso, che mira le piaghe del figlio per curarle; e però non date segno né con gesti, né con parole, d’impazienza, perché il penitente non scoprirà il suo male, e così non avrà rimedio. Finita la Confessione, con dolcezza di padre direte quanto v’occorre. Uno degli avvertimenti che danno i sapienti medici nella cura degli infermi si è, che quando l’ammalato fa crisi non si muova punto, non si sbatta, né si alteri; ma che scopertolo, non ad altro si badi, che a tenerlo caldo. Questo avvertimento danno i Dottori ai confessori, che quando il penitente butta fuori le sue colpe, non s’interrompa, non si alteri. Né solo siete padre, ma medico. Or che direte d’un medico che arrivato dall’ammalato sentisse il suo male, e poi non interrogasse, non ordinasse? Voi lo stimereste indegno della vostra cura. Come medici, se volete risanar l’infermo, convien che interroghiate quanto tempo è che quell’odio si cova, che quell’amicizia si frequenta, e poi diate i rimedi di penitenze salutari. Siete padri, siete medici, e siete cerusici. Che direste di quel cerusico, il quale medicasse la piaga, e poi non la fasciasse? Così siete voi, se veduta la piaga del peccato, in cambio di medicarla con attenzione e con applicamento di consigli, di riprensioni, vi mettete un impiastro: se così farete, ecco che il penitente affolto in tal forma s’alza dal confessionario, gli cade l’impiastro dalla ferita e torna subito a versar sangue, come se mai fosse stato medicato; appena finita la confessione si ripiglia l’amicizia. Poveri confessori, io vi vedo in un gran pericolo, se non amministrate bene il Sangue di Cristo. Quando vi viene a’ piedi uno di questi avaroni, ricco, potente, e sentite ch’egli è pieno di roba altrui, buscata per via di donazioni sforzate, di testamenti falsi, di mercedi ritenute, ditegli liberamente: pretium Sanguinis est, non licet mittere in corbonam. Non ammettete le scuse che non può, che vedrà, etc. Se vi capita a’ piedi un lascivo attaccato a una carogna che tiene in casa, oppur la va a trovare, ditegli francamente con Giovanni: Non licet tibi babere uxorem fratris tui, proximi tui; lasciate la rea femmina, altrimenti non v’è assoluzione. Quel figlio di famiglia, quel giovinastro ha il comodo di peccare in casa, parlategli chiaro: Eice ancilla de domo tua, esca la donna di casa; non crediate subito al non si può, non tocca a me. Se viene per confessarsi quel cuore che cova odii e nemicizie, ed è molto tempo, che non parla col prossimo, non vi lasciate ingannare con vari pretesti di politica del mondo, ma ditegli: Vade prius reconciliari, fate pace, riconciliatevi, parlatevi, e poi vi confesserò.

QUARESIMALE (XVIII)

LA GRAN BESTIA E LA CODA (17)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (17)

LA GRAN BESTIA SVELATA AI GIOVANI

dal Padre F. MARTINENGO (Prete delle Missioni

SESTA EDIZIONE – TORINO I88O

Tip. E Libr. SALESIANA

XII.

LA STATUA DI NABUCODONOSOR,

GLI UOMINI TUTTI D’UN PEZZO E I FATTI COMPIUTI.

Ricordate, o giovani, quella statua colossale veduta in sogno dal re Nabucodonosor? Capo d’oro, petto e braccia d’argento, ventre e cosce di bronzo, gambe di ferro, e pie’, parte di ferro e parte di creta. Il re guardava e guardava; quand’ecco staccarsi dal monte e rotolare sino ai piè della statua un sassolino; e al primo urto ridurla in frantumi. — Oh come mai un picciol sasso struggere un sì immane colosso? — Non v’accorgete? era di più metalli mal legati fra loro. Oh fosse stato tutto d’un pezzo, il sassolino non l’atterrava di certo. – Gli è per dirvi, che gli uomini a me non piacciono, non paiono uomini veri, se non son tutti d’un pezzo, e d’un colore; cioè fermi, costanti, consentanei sempre a sé medesimi. Questi cosiffatti uomini non c’è sasso, grande o piccolo, che li faccia vacillare. Ma gli altri, che, acconciandosi a tutti i capricci della GRAN BESTIA, mutano idee, parole, fatti, come le brache e la giubba, ad ogni mutar di stagione, son come la statua sopradetta, che ogni sassolino fa crollare; son la veste d’Arlecchino, cucita a cento toppe disuguali: e la porta appunto Arlecchino, vedete! Perché è personaggio tutto da ridere. O vorreste esser uomini da ridere, essere arlecchini anche voi?… No, cari giovani; credete a me, non vi torna conto: la merce è in ribasso. Ce n’ha già tanti degli arlecchini! E son coloro, per lo più, che non solo s’inchinano ai ciarlatani che parlano e ai ciarlatani che scrivono, di che testé vi ho parlato; ma anche alle vicende dei fatti. Uomini, vo’ dire, i quali loro regola di pensare e d’operare pigliano dagli avvenimenti del giorno. Or come non v’ha cosa più incerta e mutabile degli umani avvenimenti, sarà egli a stupire ch’ei riescano arlecchini in grado superlativo? – Frutto di tal sistema è la famosa teorica, che chiamano de’ fatti compiuti, la cui scoperta doveva. Toccare a questo secolo idolatra della forza. Volete che ve ne spieghi? … Ecco: un furbo ma prepotente, un Nabucodonosor qualunque tenta una solenne bricconeria. La gli riesce? Cosa fatta capo ha: bisogna gridargli l’evviva, e tristo a chi osi zittirgli contro. – Ma a questa stregua (voi dite) dovrassi gridar viva all’assassino, anzi alla tigre che sbrana il viandante? … — Ma! Che ne so io? Dimandatene ai ciarlatani. – Io dico che questo è il peggiore degli scandali, plaudire ai tristi fatti, e che di questo scandalo, il mondo, dall’alto al basso ne è pieno. Or voi, se a cosiffatto scandalo non volete soccombere, adusatevi per tempo ad aver sempre per regola del vostro pensare ed operare, non il fatto mutabile e contingente, ma la ragione e la fede che mai non muta. Solo a tal condizione riuscirete uomini tutti d’un pezzo, da reggere, non ai sassolini soltanto, ma ad ogni grandine di sassi vi scaglino addosso gli amici della BESTIA, i ciarlatani del mondo. – Del resto il mondo, vedete, fu sempre sossopra lo stesso; umile adoratore della forza e de’ fatti compiuti. Guardate Gesù Cristo. Quando lo videro preso, condannato, inchiodato e morto su una croce, i più crollarono il capo e dissero: — Ormai siam chiari: ei non era che un uomo. — E l’inganno fu sì generale, che per poco non vi cascarono gli stessi discepoli. Quei d’Emmaus: Nos sperabamus! — Sclamavano mesti e sfiduciati; quasi volesser dire: – Fummo corbellati per bene! — Ecco i giudizi regolati sul fatto. Ma intanto che avvenne? Passavano pochi anni, e quel Cristo, a cui davan torto perché s’era lasciato crocifiggere, abbatteva l’idolatria, conquistava il mondo. – Simile accadde nei primi secoli del Cristianesimo. I Cristiani erano oppressi, perseguitati, uccisi a milioni dai Nabucodonosorri del romano impero. — Dunque han torto, dunque e’ sono una man di scellerati, dunque: morte ai Cristiani! I Cristiani alle fiere! -— urlava il popolazzo, Ecco logica del mondo! – E forsechè da que’ tempi in qua il mondo ha cambiato vezzo o natura?… Quando a’ principii del secolo ci saltò sul collo quel gran demonio di Napoleone, chi seppe tenersi dall’incensate e dagli applausi? I preti (ce l’ha detto Balbo) e co’ preti pochi altri che ricusarono curvar le ginocchia innanzi a Baal. Del resto neppur certi ingegni, neppur gli scrittori nostri, neppur. quel gran poeta che fu Vincenzo Monti stette saldo alle mosse. E me ne spiace, povero Monti! che, oltre l’alto ingegno, aveva un’anima bella, un cuor d’oro. Ma era debole, e sì lasciò spaventare dalla BESTIA, si lasciò imporre dai fatti; e così, dopo aver levato a cielo nel Pellegrino apostolico, e nella bellissima cantica in morte di Baswille, Roma cristiana e la Religione, e il Papa; si lasciò tirare a scrivere in servizio di Napoleone, certi versacci; che poi ebbe a provarne rimorso e rossore. – O vedete, giovanetti miei! Se persino i Monti cascano, che vorrà essere delle basse colline !… – Che se poi dal primo Napoleone volessi far salto al terzo, e dal terzo a questi giorni nostri … Quasi quasi mi vien voglia d’aprirvi anche una volta la mia Lanterna magica; ma la è un tantino pericolosa; lasciamola lì. E poi; e poi se la riapro dove si va a finire con questa benedetta CODA ?…. – Sicché, per far più presto e non abusare più avanti della vostra pazienza, vi dirò: cari giovani, datevi un’occhiata dattorno: che fatti si presentano al vostro sguardo? … Non vedete? In Russia i Cattolici polacchi pigliati a schioppettate, perché credono che il Papa è Papa: in Prussia Vescovi e preti spogliati, imprigionati, esigliati, perchè credono che il Papa è infallibile; in Isvizzera suppergiù le stesse delizie, e per soprassello i parroci deposti, cacciati dalle loro parrocchie: da ultimo persino al di là dei mari, nel lontano Brasile, castigarsi un Vescovo perché osò dire scomunicati i framassoni. — Ecco i fatti, ecco la forza. E i burattini, gli arlecchini, i ciarlatani, i devoti dei fatti compiuti… o cheti, o batter le mani. – Ma lode a Dio, che accanto a tanta viltà ecco levarsi maestoso l’eroismo degli uomini forti, degli uomini tutti d’un pezzo, che negano adorare lo BESTIA. Ecco i Cattolici polacchi di Dziéelow; di Dolhi, di Pratolina far siepe de’ lor petti alle lor chiese’ minacciate, e gridare agli incalzanti soldati: — tirate pure; non apostateremo giammai! — e cader morti a diecine. Ecco l’arcivescovo di Posen Ledokowski spogliato, multato, condannato, avviarsi sereno e tranquillo alla prigione d’Ostrowa fra il plauso de’ suoi Cattolici e de’ suoi Vescovi; che pubblicamente si dichiarano parati con lui in carcerem et in mortem ire. Ecco il Nunzio pontificio Lachat, e il vescovo di Ginevra Mermillod, ecco i parrochi, della libera Svizzera multati e proscritti, scuoter la polvere de’ loro calzari e pigliare animosi le vie dell’esilio: ed ecco i lor fedeli parrocchiani, il dì della festa, varcare a migliaia il confine per vedere ed ascoltare i pastori loro strappati dalla forza. Ecco il giovane Vescovo di Pernambuco, Oliveira, accoglier pentiti a’suoi piedi ben dugento franco-muratori, e lieto di tanta vittoria darsi in mano a’ suoi nemici. Ed ecco, ecco da ultimo, nel bel centro di questa cara nostra Italia, un santo e fortissimo Pontefice che a castigo dell’Infallibilità che Dio gli ha data, i potenti della terra hanno abbandonato; levarsi gigante sul mondo accasciato appié della forza, e coll’immutabile parola; coll’ammirabile esempio, ispirare a migliaia di Vescovi, di preti, dì fedeli il suo stesso eroismo. — Questi, o carissimi giovani, questi i fatti che rigenerano il mondo, questi gli esempi che dovete imitare.

CONCLUSIONE

Qui fo punto, o cari giovani, non senza pena di lasciarvi di lasciarvi, ma non senza una dolce speranza che torneremo a parlarci un’altra volta. Vi ho mostrato in due libretti, quanto brutta e feroce e schifosa la GRAN BESTIA dell’umano rispetto, e vi ho incuorato a combatterla animosamente; vi ho scaltriti intorno alle difficoltà e ai pericoli di questa battaglia, vi ho additate e quasi messe in mano l’armi più acconce a riuscir vincitori; finalmente vi ho mostrato quanto vili e miserabili e schifosi coloro che alla BESTIA s’inchinano e le bruciano incensi, come al contrario quanto forti e generosi quegli altri, che riescono combattendo senza posa, ad abbattere il mostro e metterselo sotto i piedi. — Ora a voi tocca, o giovani cari, la scelta. Volete abbandonare l’onorata schiera dei valorosi e dei forti, per imbrancarvi cogli abbietti e coi vili?… No, no; eternamente no! Troppo generosa anima avete. Voi ve la terrete coi firti. Vi toccherà faticare; soffrire, combattere; ma n’avrete, certo e soprabbondante ristoro, la più bella, la più splendida delle vittorie. Udite ancora un esempio… – Quel Nabucodonosor; di cui sopra ho parlato, aveva a volte di strani e terribili capricci. Già pativa della malattia del Dio-Stato; una malattia cui van soggetti i re; specie a’ dì nostri; e com’essi de’ Cattolici che si inchinano al Papa, così egli adombrava di quegli Ebrei che osavano adorare il Dio d’Israele. — Che Dio d’Israele (disse un giorno). Qui non ci ha altro Iddio fuori di me. E detto fatto, ordinò una statua, non già quella che aveva sognato, composta di tanti metalli, ma tutta di fino oro, alta la bagatella di sessanta cubiti, che rappresentava la sua divina persona. E fattàla collocare in mezzo a una grande pianura, e convocati alla festa della dedicazione i satrapi, i principi, i prefetti, i magistrati e gli altri dignitari dell’impero, fra un’onda immensa di popolo; comandò che al suon della reale fanfara tutti dovessero prostrarsi a terra e adorarla, sotto pena di esser gettati in una ardente fornace. Demonio d’un re! Gli ordini furono appuntino eseguiti. Nella gran pianura di Dura fa eretta la statua, convennero principi e popolo, suonò la fanfara, e giù tutti colla fronte per terrra. Solo tre giovanetti ebrei (quanto mi piace pensar erano giovani!) stettero’ ritti in piedi dando in giro con occhio di compassione, e di sprezzo all’immensa pianura, tutta gremita di schiene curve, come di vili, giumenti. E ci fu chi li adocchiò in quell’atto; e acceso di un santo zelo per la gloria del dio-re, corse ad informarnelo. – Sappi, o re, che i giovinetti ebrei Anania, Azaria e Misaele non hanno adorata la tua statua. — Il re li fa chiamare: — È vero che vi ricusate d’inginocchiarvi alla mia statua? — Vero (rispondono a fronte alta e sicura); perocché noi non adoriamo che un sol Dio, il Dio d’Israele. E quanto a quella tua statua… gli è inutile che ci comandi, non l’adoreremo in eterno. — Il re monta sulle furie; ordina s’accenda la fornace sette volte più del consueto, fa prendere e legare i giovani, e così belli e vestiti com’erano, gettarveli dentro. Voi sapete il miracolo. Quel fuoco non ebbe sui giovanetti altra efficacia che di bruciar le funi che li tenevano avvinti, e così liberi e sciolti se la passeggiavano tra le fiamme stridenti come in prato di fresca verzura, lodando e benedicendo il Signore finché cavati di là entro, si trovò che il fuoco non avea bruciato loro nemmeno un capello. Di che que’gran principi e satrapi e magistrati, che poc’anzi s’erano inchinati alla statua, e lo stesso re superbissimo, dovettero inchinarsi a loro che avean ricusato inchinarsi. – E così accadrà pure di voi, miei cari giovani se terrete alta verso il cielo la fronte, negando piegarla davanti al simulacro della BESTIA. Lasciate  pure che tutti s’incurvino, lasciate che ridano di voi e della vostra ostinazione a tenervi su ritti, mentre tutti strisciano a terra; nessun male potran farvi; anzi, o tosto o tardi, saranno lor malgrado costretti a rendervi giustizia: mentre voi, operando francamente il bene, n’avrete le benedizioni di tutti gli uomini di buona volontà, e tocco il termine di vostra mortale carriera, potrete presentarvi a Dio e dirgli con santa fiducia: — Signore, non ho servito che a voi:

— Amen, amen, amen !

FINE.

BREVE NOVENA A SAN GIUSEPPE

BREVE NOVENA A SAN GIUSEPPE

(G. Riva: Manuale di Filotea, Milano, 1888)

(Inizia il 10 marzo, festa il 19 marzo)

I. Gloriosissimo S. Giuseppe, che per quell’alto pregio che aveste di essere sposo della gran Madre di Dio, e d’avere sopra del Figlio di Lei e Salvator nostro autorità, onore e provvidenza di padre, intercedeteci, vi preghiamo, di niente più apprezzare al mondo che la grazia di Gesù e la protezione  di Maria, onde ci rendiam degni della vostra e loro compagnia nel cielo. Gloria.

II. Gloriosissimo S. Giuseppe, per quel carattere esimio che fu in voi riconosciuto dallo stesso oracolo divino di Uomo Giusto, e per quella estensione  di potere che vi fece proclamare da Pio IX Patrono di tutta la Chiesa, ottenete ancora a noi di vivere sempre da veri giusti con Dio, col prossimo e con  noi stessi; con Dio, non cercando che la sua gloria, col prossimo amando tutti come fratelli, e con noi medesimi travagliando incessantemente per la nostra e la comune santificazione. Gloria.

III. Gloriosissimo S. Giuseppe, per quell’inesplicabil contento che provaste al termine dei vostri giorni nell’esalare l’estremo spirito fra i casti amplessi di Gesù e di Maria, impetrate ancora a noi simil grazia affinché, confortati alla morte dai SS. Sacramenti, le ultime nostre voci non facciano che ripetere, Gesù, Giuseppe e Maria, vi raccomando l’anima mia. Gloria.

QUARESIMALE (XV)

QUARESIMALE (XV)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMAQUINTA
Nella Feria sesta della Domenica seconda.

Si mostra che chi mal vive mal muore.


Malos male perdet . San Matteo al 21.


E dove mai cadrà fulmine sì spietato dell’ira divina, malos male perdet? Se vivranno male si perderanno eternamente? Io non credo già mio Signore, che minaccia sì terribile sia inviata a questa città tanto cattolica. S’intimi a Ninive ogni sterminio, come scellerata; ma non già a N.N. perché dedita alla pietà porge incenso a Santi, ed adorazioni al vero Dio; ma piaccia pure al Cielo che l’iniquità ancor tra voi non abbia innalzato trono sacrilego, e perciò meriti l’espressa denunzia di Cristo, malos male perdet. Se voi al pari de’ vangelici vignaioli avete talmente strapazzato il vostro Padre di famiglia Iddio, che a guisa di nemici più fieri, non contenti d’oltraggiarlo nel suoi servi, e vostri prossimi, percuotendoli con mormorazioni, lapidandoli con ingiurie, ed uccidendoli con strapazzi, avete per ultimo ardito di mettere le mani addosso all’erede suo Figlio, ammazzandolo, apprehensum occiderunt, che altro potrete aspettarvi, che l’esecuzione della sentenza, malos male perdet; giacché, e sarà l’assunto del mio discorso, così sentono i Santi, così parla Dio, tanto richiede ogni ragione, ogni giustizia, tanto comprova l’esperienza. Un gran punto s’agita questa mattina UU. miei cari; si tratta di sapere qual speranza possa avere di morir bene chi vive male. Voi peccatori non siete buoni giudici per decidere questo punto perché siete in causa propria. Che si ha dunque da fare? Ecco, per accertar la verità negli interessi temporali, si ricorre a’ periti e saviamente si pratica. Per indagar dunque la verità in negozio di tanto momento ricorriamo ai periti; e quali sono i periti in simile materia? E chi non lo sa? I Santi Padri e Dottori della Chiesa; diteci dunque o Santi il vostro parere; qual speranza date voi di morir bene a chi mal vive? Ecco che risponde il Dottor massimo di Santa Chiesa, hoc timeo, hoc verum puto, quod ei bonus non est finis, cui semper mala vita fuit. Io per me, dice il Santo, non sono sì fuori di me, che possa dar speranza di morir bene a chi visse male; anzi hoc verum puto, stimo di certo che morirà male. Odo il Santo Vescovo d’Ippona Agostino, che risolutamente afferisce, vix potest bene mori, qui male vixerit, è un gran miracolo, che ad una vita cattiva succeda una morte buona. E Bernardo Santo, Abbate di Chiaravalle, così dall’eremo suo si protesta: Mors peccatorum pessima, quorum nativitas mala, vita pejor, fu mala la vita de’ peccatori, pessima sarà la morte. Quanto dicono questi, crediatemi miei UU. che tanto afferiscono quanti furono Santi Padri. Leggeteli ad uno ad uno e tutti a chiare note vi risponderanno, che la speranza di morir bene in chi mal vive, è sì tenue, che può dire ridursi al nulla. È pur familiare tra voi quel proverbio così celebre: dicami la vita che fai, e ti dirò la morte che farai. E pure così non fosse, vi sarà taluno tra miei UU.. che pretenderà dare una mentita a tutti i Santi Padri, mostrando di tenere tutto il contrario; e, se ciò non farà con le parole, lo praticherà con i fatti, menando una vita scellerata! Deh sciocchi non vi lasciate lusingare dal peccato, date retta ai Santi Padri che afferiscono esser cosa quasi infallibile, che chi mal vive, mal muore. Chi è più in pericolo di sbagliare in un tanto negozio, essi o voi? Voi che non sapete nulla delle cose dell’anima, che già vi siete messa sotto de’ piedi per sfogar quella vendetta, per ritener quella roba non vostra, per continuare in quella disonestà, o pur essi che l’hanno posta in sicuro e regnano in Cielo? Eglino sono gli intendenti, ed a loro bisogna credere. Io vedo che nelle cose di mondo non credete a voi se non siete pratici, ma bensì ai periti. Vi fu una dama di gran conto, la quale per più anni portò al dito un anello in cui credeva che fosse legato un ricco diamante, ma s’ingannò, e fu miracolo, che in materia di vanità s’ingannasse una femmina, ed in sentirsi dire da un’orefice perito in simili gioie: questo non è diamante, ma brillo; tanto bastò, perché ella deponesse come vile ciò che prima pregiava come prezioso. Così si pratica nelle cose di mondo, si crede a’ periti; ma non già negli interessi dell’anima; poiché, quantunque tutti i periti asseriscano esser questa la legge universale, che chi mal vive, mal muoia, e che la speranza di morir bene e viver male, non è diamante, ma brillo, ad ogni modo si segue nella pessima vita. Sarebbe stata una sciocca, una stolta quella dama, se contro l’asserzione di quell’orefice perito avesse voluto tener per diamante quello che era brillo. E non sarete voi iniqui, peccatori, se invece di credere ai Santi, che sono i periti, vorrete credere a voi nulla intendenti dell’anima. Quando non vi bastasse l’autorità de’ Santi per arrendervi a credere esser tenuissima la speranza di salute in chi mał vive, ed esser quali indubitata una mala morte, vi convincano le parole di Dio. Attenti, è Dio che parla. Si secundum carnem vixeritis, moriemini … se vivrete secondo i dettami del senso, morirete di mala morte e vuol dire: avrete una pessima morte, se non lascerete quegli amori peccaminosi, quelle laide amicizie, quelle pessime corrispondenze; avrete pessima morte, se non fuggirete le occasioni di peccare, che è quanto dire veglie, balli, feste, giuochi, ove per esperienza sapete che per lo più l’anima vostra resta uccisa dal peccato mortale. Così parla Iddio; ed in un altro luogo soggiunge: Impii in puncto ad inferna descendunt, gli empi fanno una pessima morte, che è quanto dire, quelli che covano odi in cuore, che scrivono lettere cieche, che formano memoriali indegni che fanno quanto possono per atterrare l’inimico; che è quanto dire, morirete male voi tutti che ritenete mercedi, che falsificate pesi, che v’ingrassate con la roba altrui. Così parla Iddio; ed in un altro luogo si fa sentire: Iniqui Regnum Dei non possidebunt, morirete male o voi, che siete irriverenti nelle Chiese, o voi sfacciati ne’ templi; intendetela, quæ seminaverit bene, hæc et metet, se vivrete bene, morirete bene; se male, male. E chi non spaccerebbe per stolto quel villano che avendo seminato orzo, pretendesse di raccogliere grano; che, avendo piantato querce, aspettasse che producessero limoni. Se seminerete iniquità, alla morte raccoglierete iniquità. È pazzia, questo è un pretendere di dare un pugno in Cielo, questo è un pretendere tirare con un carbone nero una linea bianca. Padre di famiglia; che tu pretenda di vivere con nemicizie, con pratiche, con tanti mali esempi a’ figli, e poi morir bene? me la rido! Ecclesiastico: che tu pretenda di strapazzare o lasciare l’Offizio, di dir la Messa con tanto poco decoro, di farti vedere nelle botteghe, nelle feste etc., e poi morir bene è pazzia; parroco, che tu pretenda di non far niente del tuo offizio, e poi morir bene? È pazzia, padrone che tu pretenda di non aver cura de’ servitori, delle donzelle e sai, e vedi e dissimuli, e poi morir bene? È pazzia. Piano, volete toccar con mano, che morirete male? Qua, ditemi, dove morirete? E chi lo sa! E non lo sapete? Padre no; pure, dove credete? In questa mia patria; ma perché non a Venezia, a Bologna? Non ci andate voi? Padre sì, ma per lo più sto in Patria, onde è quasi indubitato, che morrò in Patria … Male, voi morirete in Patria, perché per lo più state in Patria. Voi morirete in peccato, morirete male, perché per lo più state in peccato, a mala pena state in grazia di Dio quel giorno della Comunione: chi mal vive, mal muore. Prendete pure tutta la Sacra Scrittura, leggetela e rileggetela, e da per tutto troverete minacce che chi mal vive, male altresì muore. Che dite, che rispondete? E non tremate a proteste sì orribili della Divinità? Sto a vedere, che voi dopo aver data una mentita ai Santi, abbiate altresì ardire di darla a Dio. Chi mal vive, mal muore, questa è legge assai universale, e vi vuol di molto per dispensarla. Or pensa, peccatore qual merito abbia tu presso la Divinità, perché a favor tuo dispensi a questa legge; anzi rifletti, che la tua vita quasi necessita Dio a confermarla sopra di te a tua rovina. Temono i Santi di morir male, e non temono i perversi. Tanto appunto successe nel vascello del disubbidiente Profeta Giona. Si sollevò, come sapete, quella gran tempesta di mare, e da tutti si temeva lo scompaginamento del legno e la perdita delle robe e delle vite. Tutti per tanto quanti erano marinai, quanti passeggeri altamente temevano, e tutti si affaticavano ammainando le vele, vuotando la sentina, alleggerendo il Vascello, chi dava ordini, chi consiglio, chi aiuto, tutti piangevano, tutti gridavano, tutti sospiravano, e Giona? E Giona, che era il delinquente, quello per cui si era sollevata la tempesta, profondamente dormiva senza punto risentirsi al grande strepito, Jonas dormiebat sopore gravi, né mai si svegliò, finché il pilota non lo scosse e gli disse: surge, invoca Dominum Deum tuum. O quanto spesso succede: chi è innocente teme, chi è colpevole nulla paventa. I Santi temono di morir male, e son Santi; e voi colpevoli vi credete dover morir bene? Eh pazzi che siete … Quid tu sopore gravi deprimeris. Surge, surge, invoca Dominum, sorgi dalle tue disonestà, altrimenti morirai male; Surge da quelle bestemmie, altrimenti andrai in un luogo ove bestemmierai per tutta l’eternità; surge … torno a dire, temono i Santi e tu non vuoi temere? Se io leggo gli scritti di San Bernardo, io vedo che egli spesso si protesta con i suoi monaci d’aver gran paura di perdersi; e pure, se si scorre la sua vita, si trova che quella purità che trasse dal ventre materno, quella conservò illibata fino all’ultimo fiato; che per avere incautamente mirato una femmina, ne fece tal penitenza, che si ridusse in fin di vita; troverete che egli abbandonando le ricche facoltà, si rinchiuse in un chiostro a menar vi vita austerissima; che fu sì mortificato negli occhi, che sempre li tenne bassi, sì mortificato nel gusto, che sol si cibava di foglie cotte, ed il suo pane era o di orzo o di miglio; e pure egli torna a protestarsi d’avere gran paura d’una mala morte. Né solo Bernardo con una vita da santo temeva, ma temeva altresì quel gran lume delle Spagna Giovanni d’Avila, che dopo aver consumata tutta la vita in servizio di Dio arrivò a temere di morir male; e perciò richiedeva un anno di vita per piangere le sue colpe; temeva altresì quella serafina d’amore Maria Maddalena de Pazzi, che in tutta la sua vita conobbe solo Cristo per amarlo, e se stessa per strapazzarsi, e pure prima di morire richiede al suo confessore, se morirà bene o male. Dio immortale, teme di morir male un Bernardo, che con quella purità che nacque, con quella morì, e spera di morir bene quello che superò l’età con la malizia, e che fino dalla puerizia principiò ad imbrattarsi nelle lascivie, e pur finora segue? Teme morir male chi sempre procurò salvar anime, e spera di morir bene chi sempre le condusse al precipizio? Fin ne’ postriboli? Teme di morir male chi amò sempre Gesù, e strapazzò se stessa, e spera di morir bene chi sempre vilipese Dio, conculcando i suoi Divini precetti, mettendosi sotto de’ piedi quelli della Chiesa, e spera di morir bene chi sempre visse tra le crapule, tra feste, tra conviti, tra veglie, tra gli amori indegni? Eh toglietevi di capo questa pazzia, ed intendetela una volta esser questa la legge assai universale che: chi mal vive mal muore. –  Se per farvi risolvere a credere questa verità non vi basta né l’autorità de’ Santi, né le parole di Dio, né pure il timore di quelli che, quantunque fossero vissuti bene, temevano di morir male, vi convinca la ragione, ed è, che non merita d’avere una buona morte chi non se ne cura, e nulla opera per averla chi la disprezza posponendola a tutte le cose del mondo, e chi fa quanto può per non averla buona. Non parlo in aria, no! Cominciamo e cominciamo. Non è dovere, che Dio dia una buona morte a chi non se ne cura; e perciò nulla opera per averla. Cosa fate voi per avere una buona morte? Nulla! Dunque non ve ne curate. Attenti, ve lo dimostro. Pensieri, parole ed opere devono trafficarci una buona morte . I pensieri vostri sono di Paradiso o d’inferno? D’inferno, d’inferno, così non fosse. Li vostri pensieri sono tutti intenti alla vendetta, alle crapule, alle disonestà, e piaccia a Dio che neppure per un’Ave Maria si pensi al Cielo. Le vostre parole son di Paradiso, o pur d’inferno? Imprecazioni, bestemmie, spergiuri, toglimenti di fama, ragionamenti sporchi, sono il pascolo delle vostre lingue, e Dio sa, se un quarto d’ora s’impieghi in dir la corona. Le opere sono di Paradiso o di dannazione? Traffici illeciti, laide disonestà, furti e rapine occupano tutto il giorno, sicché a mala pena si ode la Messa ne’ di festivi. Questo è il vivere di non pochi Cristiani, pensare, parlare ed operar da demoni, e poi pretendere una buona morte. O che pazzia, voi non operate nulla per averla, onde mostrate non curarvene punto e poi la sperate? Eh via, ogni ragion vuole che non si dia una buona morte a chi non se ne cura. – Qua fronte, grida Sant’Agostino , postulas quod promisit Deus, et non facis, quod jussit Deus? E come speri d’avere una buona morte se altro non fai che procurarla pessima con i peccati? Non è dovere, no, che si dia buona morte a chi non se ne cura, nulla operando per averla; e molto meno è giusto, che si dia a chi la disprezza, posponendola, a tutte le cose del Mondo. Non è vero eh? Rispondimi iniquo, che vuoi tu, una buona morte, o la vendetta? La vendetta. Vuoi una buona morte o quella vanità scandalosa? La vanità. Una buona morte, oppur seguitare tra gli amori, tra le laide amicizie? Seguitar tra’ piaceri. Dunque, se tu la disprezzi, posponendola a tutte le cose del mondo, non è dovere che tu l’abbia. E se non è dovere che si dia una morte buona a chi la disprezza, posponendola a tutte le sue passioni, molto meno è dovere che si dia a chi fa quanto può per non averla. Voi sì con i vostri peccati fate quanto potete per non avere una buona morte, e stimolate Dio a permettervene una pessima. Voi sapete che quei contratti usurari, quantunque comincino col nome di Dio, si finiscono però con la dannazione de’ contraenti, e pur li volete fare. Voi sapete che salendo quelle scale dell’amica scendete quelle dell’inferno, e tanto volete tornarvi. Voi sapete che tanto è trattar con quel compagno, quanto imbrattarsi di lascivie, e pur non lo lasciate. Se andate a quei ridotti, a quelle bettole, a quei giuochi, voi sapete che mai ne uscite senza aver macchiata l’anima, e pur ritornate. Questo è fare quanto si può per avere una mala morte, e poi la sperate buona? O stolti; non l’avrete, no, troppo vi raccomandate per averla pessima. O questo no, Padre, che dite? O questo sì, vi rispondo io. Sentite bene. Voi peccatori iniqui per avere una pessima morte ne porgete tutto di quasi memoriali a Dio; Come è possibile? Eccolo. Sappiate, che ogni qual volta voi commettete un peccato mortale, voi porgere quasi un memoriale al diavolo, acciò che egli lo presenti a Dio ed in esso stanno scritte queste parole espressevi dalle vostre pessime operazioni. Signore, nelle di cui mani sta il salvarmi o dannarmi, vi supplico che mi neghiate il Cielo, e mi diate inferno, che è quanto dire una pessima morte. Quanti, o quanti ne avete finora inviati al tribunale di Dio di questi memoriali per mano de’ diavoli e poi siete sì sciocchi, che vi stringete in pugno una buona morte. Chi mal vive mal muore, questa è la legge assai universale. Se volete una buona morte, bisogna morire al peccato e vivere a Dio. Bona mors est, dice San Bernardo, si peccato moriaris, et justitiæ vivas. Quando finora non siate restati convinti a capire questa verità, vi strozzi almeno la ragione d’una certa equità, che porta seco non dover fare una buona morte a chi visse male. Non v’è chi dubiti che Dio vuole, che differentemente sia trattato il reo dall’innocente, l’iniquo dal giusto. Alzate dunque le pupille vostre al Cielo, e rimirate colassù nel Paradiso Luigi Gonzaga della Minima mia Compagnia, e rimiratelo con quelli occhi che ve lo vide la Serafina di Firenze Maria Maddalena de Pazzi, allorché tutta estatica esclamò o che gloria è mai quella di Luigi figlio d’Ignazio. Or sappiate, che questa gran gloria gli fu guadagnata con una santissima vita, che vale a dire, per mezzo d’una purità angelica, la quale non gli permetteva di rimirare in volto neppure la propria madre, per mezzo d’un staccamento totale da tutte le creature del mondo; e questa vita gli partorì una morte giocondissima tra le braccia di Gesù e di Maria. Or ditemi: qual ragion mai vuole che quel giovinotto simile à Luigi nell’ età, ma dissimilissimo ne’ costumi, perché tutto disonesto e tanto attaccato alle creature, dovesse poi sortire una simil morte? Appunto, chi mal vive mal muore, così ogni ragione d’equità richiede che abbia morte buona chi visse bene, mala chi visse male. Ecco lassù la Vergine e Martire Santa Lucia, ella gode la Gloria del Paradiso, ella tripudia tra quello stuolo di vergini; ella vive e vivrà sempre beata; ma perché? Perché mentre visse, visse innocente, visse illibata, visse tra patimenti e morì tra’ martiri, e questa vita innocente, condotta tra tante pene, gli meritò una giocondissima morte. Or qual ragion vuole che quella donzella d’età poco o nulla dissimile a Lucia, ma dissimile ne’ costumi, perché dedita ai balli, alle veglie, agli amori, debba poi avere una buona morte? Appunto, appunto, ragion vuole, che muoia bene chi visse bene, e male chi male. Vedete Santa Monica, ella è in Cielo, ma come visse, quante lacrime sparse perché il suo figliuolo si convertisse a Dio. Parmi di vedere tra quegli splendori di beatitudine quella gran regina di Francia per nome Bianca, la quale altra preghiera non mandava a Dio, salvo che gli facesse morire il suo figlio, quando dovesse offenderlo, ed un tal vivere partorì a questa, quella felice morte che fece. Or come pare a voi, che sarebbe giustizia che una simile morte sortissero quelle madri le quali non solo non allevano bene i figli, ma li lasciano tra gli amori, e molte volte chiudono gli occhi ai peccati? No, no, non è dovere che abbiano queste scellerate madri quella morte gioconda, che si concede alle Sante. Del pari dunque ha da essere trattato da Dio chi, simile a Francesco d’Assisi, rinunziò quanto aveva e tutto diede per limosina, con chi succhia il sangue de’ poveri, e tutto dì li spoglia? Una egual morte gioconda ha da sortire chi simile a Giovanni Gualberto perdonò all’inimico, e chi si porta da Caino fratricida? E sarà dovere che un Sacerdote, che visse scorretto, immodesto nel parlare, sfacciato nel guardare, che interveniva a balli, che mentiva gli abiti sacri, che fomentava amori, faccia una morte simile a quella di chi con mani pure e con cuore angelico sempre offriva l’Ostia adorata? No, che non sarà, no; levatevi di testa questa presunzione di morir bene se vivrete male, perché balzerete nell’inferno. Sì, sì, morirete male o giovani che, divenuti avvoltoi, andate in preda anche delle colombe di Dio. Voi, che singolarmente ne’ dì festivi andate in Chiesa con tanta baldanza, che pare che per i Santi sia, non il giorno della festa, ma della berlina. Voi o padri e madri di famiglia, che usurpate la roba altrui per lasciar ricchi i vostri figli. Sappiate tutti voi, che per voi, se non muterete vita, non vi è buona morte. Dunque o peccatore mio amatissimo, e vorrai perderti? Non  sia mai vero; vivi bene per morire bene, ma se vivrai male, male altresì morirai. –  Se bene pensate, se i peccatori ciechi per la passione, hanno mente da conoscere esser questa ragion d’equità, che chi mal vive mal muoia. Se così è, già che i peccatori sono grossolani, né restano convinti, salvo o da quel che vedono con gli occhi corporali, o dalla esperienza di casi seguiti. Questa dunque sia l’ultima batteria che vi convinca, mettendovi avanti gli occhi un funestissimo caso di chi, se visse male, male altresì morì. Vergine Santissima assistere al funesto racconto, e voi UU. non vi distraete. Viveva in una Terra della Marca non ha molti anni, un giovine con una rea compagna. Quando, una sera, allorché cenavano, cadde giù nella stanza un piccolo sassolino; credette il giovine ingelosito, che fosse segno di qualche corrispondenza con altro; poi finita la cena cadde un altro sassolino, sicché il giovine allora più che mai ingelosito, dié su le furie, e principiò non solo a sgridare, ma a percuotere la scellerata compagna, volendo che ella confessasse quali altre corrispondenze tenesse. Asseriva la donna non aver altra amicizia che la sua, lo giurava, l’attestava con mandarsi orride imprecazioni, e tutto ciò si udiva da una vicina, che a muro a muro le stava a lato. Quando (o caso orrendo) cadde loro addosso tutta la casa e li uccise vivi e li seppellì morti. Corsero i vicini al fracasso, si pose il popolo a levar via i materiali per ritrovar quei due corpi che, in quanto alle anime, certo non poteva ritrovarle, perché eran perdute, e fu cosa veramente di stupore, veder che sotto i sassi eran rimasti interi, non che i piatti anche i vetri, acciò si sapesse che diede la morte a quegli empi, non la disgrazia, ma Dio. Chi mal vive mal muore. La volete intendere sì o no? Rispondetemi, volete morire da buoni Cristiani? Padre sì. Padre no, perché avete un sì nella bocca, e cento no nelle mani. No, che non vuoi morir bene o giovane, perché hai un parlar sì laido che se la tua lingua non fosse di carne, lo diverrebbe. No o mormoratore, che laceri la fama altrui, che non porti rispetto né ad età, né a sesso, né a condizione. No, o potente, che t’ingrassi col sudore de’poverelli, e fai sacrificio alla tua ambizione ed al lusso con le loro lacrime. No, o avaro, che per la roba male acquistata lasci in testamento a i figli la dannazione. No o pittor sacrilego, che con i tuoi sozzi pennelli fai lance a Cristo e stiletti alle anime. No, no, che non vi volete salvare o peccatori qualunque vi fiate se non mutate vivere, perché chi mal vive mal muore. Deh per amor di Dio, vi dirò con Salviano: miserere animæ tuæ, cujus vides miseratione me frangi … abbiate compassione della vostra povera anima, di cui vedete quanta ne ho io, che non perdono a fatica per salvarvela, e credo che darei anche il sangue, quando tanto bisognasse. O quanto desidero che vi salviate; ma son costretto a dire col mio Saverio: ego id quod valde cupio, tam parum spero, quanto più lo desidero tanto meno lo spero. Deh per l’amor che portare a Maria non vi fidate, mutate vita se volete fare una buona morte. Miseri voi, che quando sarete laggiù dannati, ahi, ahi, direte, che non abbiamo voluto credere né ai Santi, né a Dio, né cedere alla ragione, né ad ogni dover di giustizia, né pure alla stessa esperienza, che chi mal vive mal muore. Ed ora conviene, che non solo lo crediamo, ma lo proviamo.

LIMOSINA
Qui in Nomine Christi, dice il Damasceno, pauperibis subvenit, centuplum recipiet, chi dà ai poveri per amor di Dio, riceverà il centuplo. Non poteva tollerare l’Imperatrice Sofia, che Tiberio suo consorte fosse tanto liberale verso de’ poveri, e lo rimproverava, dicendogli che per sovvenire i mendici avrebbe impoverito il regno. Non così la discorreva Iddio, che un giorno nel levarsi da un pavimento una croce, gli fece trovare tant’oro che formava un tesoro, ed indi a poco fece pervenire nelle sue mani un tesoro molto maggiore nascosto già da Narseste in una cisterna, in cui erano tanti milioni d’oro, che per trasportarli al palazzo vi fu necessaria la fatica di più uomini e di più giorni.

SECONDA PARTE.

Miei UU. il mio discorso non ha mostrato altro se non che chi male vive, mal muore; ora faccio un passo più avanti e dico … e chi mal muore sarà finito per sempre, non potrà sperar mai di mutare stato, no, mai, mai. Si ceciderit lignum ad Austrum aut ad Aquilonem, in quocunque loco ceciderit, ibi erit. O che protesta da far raccapricciare ancora un animo di macigno. Da quella parte, dice l’Ecclesiastico, dalla quale cadrà l’albero quando verrà tagliato, da quella dovrà rimanersene immobile. Se cadrà all’austro, rimarrà all’austro. Se cadrà all’aquilone, rimarrà all’aquilone: Si ceciderit lignum ad Austrum, aut ad Aquilonem, in quocunque loco ceciderit, ibI erit. Per austro s’intende la parte de’ predestinati; per aquilone s’intende la parte de’ presciti; da quella dunque dalla quale cadrà l’uomo, quando a guisa di albero sarà reciso dalla mano implacabile della morte, da quella dovrà restar per tutti i secoli, o eterno pianto, o eterno riso, o eterna povertà, o eterna ricchezza o eterna miseria, o eterna felicità. Chi però saprà dire a ciascuno di noi qual sorte finalmente ci toccherà? eh non è difficile indovinarla. Quando si sega un albero, da qual parte viene a cadere? Da quella dalla quale pende: se pende a destra, cade a destra, se pende a sinistra, cade a sinistra. Orsú, non accade più cercar altro: peccatore, peccatrice, da qual parte pendi tu ora? pendi sempre a sinistra? Sempre compiacere il diavolo. Tu sempre pendi a sinistra, e poi pretendi, morendo, cadere a destra? Pretendi morir come un Santo fra le braccia d’un Crocifisso? Oh quanto t’inganni. Se vuoi cadere a destra, pendi a destra, che vuol dire, muta vita! Ahimè, che cotesta tua vita non è da chi brama fare una buona morte, e perché? Chi mal vive, mal muore, tale è la legge, e legge assai universale. Può avvenire qualche volta il contrario, non lo nego, ma questo è per accidente, e però che prova? Chi dai casi accidentali vuol prendere a regolarsi in opere di momento, è uno scimunito. Ma la misericordia di Dio non è grandissima? Certo, certissimo. Ti basti di sapere che ella ha tollerato ancor te fino al giorno d’oggi, guarda se è grandissima! Ma che? Questa misericordia, benché grandissima, non lascia andare all’inferno tanti Gentili, tanti Turchi, tanti Tartari, tanti Ebrei? Che meraviglia però, se lasci anche andarvi un Cristiano par tuo, abusandosi sempre de’ suoi favori. Anzi mira quanto io discorra diversamente da te. Tu dici che Dio ti donerà dopo una cattiva vita una morte buona, perché è misericordioso, ed io ti dico, che per questo medesimo che Egli è misericordioso, non vorrà donartela. Se Dio è misericordioso, a chi deve, come tale, aver più riguardo? Alla salute particolare d’un solo, come sei tu, o alla salute universale di molti? Alla universale di molti, non ve ne ha dubbio; ma quanti prenderebbero cotesto cattivo esempio, se essi vedessero che tu, dopo una vita menata contro ogni regola di ragione, sortissi fortunatamente una morte, qual fanno i giusti. Quanto però rimarrebbero nel loro cuore scandalizzati i pusilli, quanto tituberebbero i buoni quanto trionferebbero gli empi, e quante anime conseguentemente verrebbero a perdere il Cielo per una che l’acquistasse; adunque spetta alla misericordia divina, siccome ancora, alla divina Giustizia, disporre in modo le cose, e permettere, che per lo più, chi visse male muoia male, altrimenti qual dubbio, che tutto il mondo verrebbesi a popolare d’iniquità, che si diserterebbero i chiostri , che si desolerebbero i cleri e che appresso il volgo ignorante rimarrebbero in derisione tutti quei Macari, quegli Arsenj, quegli Ilarioni, quei che vollero comprare a così gran costo ciò che da’ Cristiani, anche perfidi, anche protervi si soleva ottenere a sì vil prezzo. È grande dunque la misericordia di Dio, è grande, grandissima, ma per chi la vuole usare, non per chi la vuole abusare, altro è ricorrere alla misericordia di Dio dopo il peccato, altro è peccare perché rimane il ricorso alla misericordia; il primo è volere che la misericordia perdoni il peccato, il secondo è volere che lo protegga, e questo non sarà mai. Adunque, che si ha da fare? Mutar vita.

VIVA CRISTO RE (21)

CRISTO-RE (21)

TOTH TIHAMER:

Gregor. Ed. in Padova, 1954

Imprim. Jannes Jeremich, Ep. Beris

CAPITOLO XXVI

AVE, REX!

In quest’ultimo capitolo vorrei presentare l’immagine di “Cristo Re” come in un quadro generale. Vorrei dipingere l’immagine divina e offrirla come promemoria ai miei lettori, che potrebbero dover combattere dure battaglie nella loro vita. Perché noi Cristiani non possiamo essere deboli. Se gran parte della società dimentica completamente Cristo, dobbiamo rimanere fedeli, dobbiamo mantenere la parola data al nostro Re. Guardiamo a Lui, dunque, ancora una volta, perché da questo dipende la nostra vita. Signore, cosa pensavano di Te gli uomini durante la tua vita terrena? Signore, cosa hanno pensato di Te gli uomini durante i due millenni di storia cristiana? Signore, cosa penso io di Te? Queste sono le tre domande su cui dobbiamo meditare.

I

Se studiamo i Vangeli, vedremo, non senza stupore, che le opinioni degli uomini su Cristo erano già divise durante la vita mortale del Salvatore. Egli ha sempre avuto amici e nemici; molti ammiravano le sue parole e le sue azioni; alcuni lo seguivano con entusiasmo; altri si spingevano a dire che: Egli opera “agli ordini di satana”, che “seduce il popolo”. Quale può essere la causa di queste opinioni antagoniste? Nella persona di Gesù Cristo c’erano contrasti, in lui si univano tratti straordinari; forse per questo le opinioni sulla sua figura erano così diverse. Conosciamo già il segreto del mistero; sappiamo già che Gesù Cristo era Dio e anche uomo; lo confermano i contrasti altrimenti incomprensibili che si intrecciano nella sua vita. Ma i suoi contemporanei non lo sapevano come noi, anche se dovevano scoprirlo, perché non mancavano i mezzi per farlo. Vedevano ad ogni passo che la vita di Gesù Cristo era piena di contrasti ammirevoli. Ne citerò solo alcuni…. – Quando nasce, è così povero che nemmeno la mangiatoia in cui giace è sua. Ma, d’altra parte, una stella luminosa brilla sopra di Lui e porta i Magi ad adorarlo. È nascosto in una stalla, nessuno sa di Lui. D’altra parte, un coro di Angeli scende dal cielo e canta il Gloria al Bambino sconosciuto. Egli riesce a malapena a muovere le sue manine, tanto meno a fare del male con esse, eppure lo cercano per metterlo a morte. Ma gli Angeli lo proteggono nella sua fuga. Chi sarà mai questo Cristo, forse un semplice uomo? C’è di più: Non è andato a scuola, eppure a dodici anni insegna agli anziani del villaggio, che si stupiscono della sua saggezza. È sempre stato un figlio obbediente, eppure rimane nel tempio senza permesso; e quando i suoi genitori lo trovano, dice loro che doveva stare nella casa di suo Padre. Chi può capirlo, chi può essere questo bambino? Vive nascosto per trent’anni, pochi lo conoscono e quando inizia ad insegnare, gli bastano tre anni per provocare un tale movimento spirituale che né prima né dopo di Lui la storia ha registrato un altro simile. San Giovanni Battista predica il perdono e battezza nel deserto. Cristo va da lui e si fa battezzare, come gli altri peccatori. Ma nello stesso momento si aprono i cieli e si ode la parola del Padre celeste: “Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto” (Mt III,17). Chi capisce queste cose? È povero, non ha nulla, non ha dove posare il capo. Eppure dice a ciascuno dei suoi apostoli: Lasciate tutto per me; abbandonate la vostra casa, vostro padre, i vostri fratelli, tutto ciò che possedete… per me. E gli uomini eseguono il suo comando senza esitare, solo per amore suo. I malati sono guariti quando sentono il tocco della Sua mano. La persona su cui posa il suo sguardo si riveste di luce. Comanda al mare agitato e questo, come un cane sottomesso, obbedisce immediatamente e si calma. Fa sentire la sua voce davanti a una tomba, e il sangue coagulato comincia a circolare e il cuore morto a battere. Trema sul Monte degli Ulivi, ma poi, con una sola parola, fa crollare a terra un intero gruppo di soldati. Muore abbandonato, deriso, e nello stesso momento il centurione pagano esclama: “Veramente questo era il Figlio di Dio” (Mt XXVII, 54). Lo mettono in un sepolcro, lo chiudono; ma il sepolcro non può contenerlo…. Lo riporta in vita. Avete mai visto un uomo simile? Ma ditemi: era una vita umana? No. Come il cielo si eleva al di sopra della terra, così la vita di Cristo supera i limiti di una semplice vita umana.

II

E se le opinioni degli uomini su Cristo erano già divergenti a quel tempo, lo stesso vale nel corso dei due millenni cristiani. Da quando la croce di Cristo è stata innalzata sulle cime del Golgota, essa si è posta come un gigantesco punto interrogativo davanti agli occhi degli uomini. Quel Cristo dalle mani trafitte ha scosso l’asse della terra dai suoi cardini, e da allora non c’è nome che risuoni nel mondo intero quanto il santo Nome di Gesù Cristo. Soffermiamoci su questo Nome mirabile: Gesù Cristo. Un Nome composto da due parole di una lingua che non si parla più. Eppure non c’è parola più conosciuta e più amata. Un fenomeno prodigioso: di Cristo non si può fare a meno; pro o contro di Lui, tutti gli uomini devono prendere posizione per Lui. Ha sempre avuto amici. Cristo è una calamita prodigiosa che attrae prodigiosamente. Egli è il centro della storia, tutto ruota intorno a Lui. I re egizi costruirono grandi piramidi I re egizi costruirono grandi piramidi; gli antichi monarchi eressero enormi edifici, e i loro nomi oggi sono solo ricordi, e le loro opere giacciono in rovina; ma Gesù Cristo rimane un segno di contraddizione. Quanti grandi uomini ci sono stati! Uomini potenti che hanno governato grandi imperi; e chi li ricorda? Quanti saggi ci sono stati! Ma poi ne sono venuti altri che li hanno superati. Di Lui solo, il Figlio dell’umile falegname, tutto il mondo parla ancora oggi, ed è l’unico che non è stato superato. – È il centro dell’universo. Non solo fa parte della storia, ma senza di Lui la storia stessa non ha senso. Con Lui gli anni cominciano ad essere contati, perché ha cambiato il mondo. Tutto passa, tutto finisce in delusioni, disillusioni, tutto invecchia…; ma la parola di Cristo non passa di moda, la figura di Cristo continua ad affascinare le anime. Nessuno odia un personaggio che non esiste più. Ma Cristo continua a suscitare nemici. Duemila anni dopo la sua morte è ancora presente; è ancora odiato e ancora amato. Non è solo uomo. Per quanto grande, buono, nobile o cattivo possa essere un uomo, poche settimane, mesi o anni dopo la sua morte, chi lo ama o lo odia ancora? Chi odia oggi l’imperatore Nerone, che ha fatto scorrere tanto sangue? Chi odia il Khan Batu, che ha invaso l’Ungheria e l’ha devastata? Chi odia ancora il sultano Solimano? Eppure sono tutti vissuti più tardi di Cristo. Non importa. Sono morti, e questa è la fine dell’odio. Oppure: chi ama ancora gli uomini più eccelsi? Aristotele, Platone, gli eroi nazionali: chi li ama ancora? Sono morti. Rendiamo omaggio alla loro memoria, ma li amiamo? Cristo è amato e odiato anche oggi. Non sentiamo forse bestemmie terribili contro Cristo? Non vediamo a volte gli occhi di un demonio riempirsi di sangue quando sente parlare di Cristo o del Cristianesimo? Non è evidente come la nostra Religione, la Religione di Cristo, sia perseguitata? Non è forse un odio satanico contro Cristo, un odio che si fa beffe della sua dottrina e vuole sterminare il suo amore nelle anime, che ribolle in migliaia e migliaia di libri, di conferenze, di giornali? Non è forse un odio contro Cristo la manifesta frivolezza moderna e pagana? Non conosciamo i misteri dell’odio che riempiono le logge massoniche? Colui che viene odiato con tale intensità anche dopo duemila anni, non è solo l’uomo. Quanti cosiddetti messia sono apparsi per cercare di allontanare Cristo dalle anime! Ma senza successo, non ci sono riusciti. Quante volte si è detto: il Cristianesimo ha cessato di esistere, la dottrina di Cristo non è più seguita… E in poco tempo la Chiesa si rinnova e torna a splendere con nuovi frutti. Cristo ha sempre avuto nemici… che non potevano prevalere contro di Lui. Cristo è sempre stato l’ideale adorabile degli uomini di ogni epoca. Grazie a Lui abbiamo conosciuto il valore di un’anima, perché ha dato se stesso per salvarla. Grazie a Cristo sappiamo di essere chiamati alla vita eterna. Se potessimo raggruppare nella nostra immaginazione tutti i discepoli di Cristo che sono esistiti in questi duemila anni di Cristianesimo e metterli in processione, che immensa processione formerebbero! Quanti bambini, giovani, fanciulle, santi, peccatori pentiti…! Gesù Cristo continua a sfidare le persone. Nessuno può rimanere indifferente a Lui. Da quando Nostro Signore Gesù Cristo è apparso sulla terra, l’umanità si è divisa in due campi. Ci sono uomini che, all’udire il Santo Nome di Gesù, chinano il capo e si inginocchiano; ci sono altri che lo rifiutano. Questo lo vedo facilmente. Ci sono uomini che, passando accanto a me, ministro di Cristo, mi salutano con rispetto: “Lode a Gesù Cristo”. Salutano me? No, non mi conoscono, salutano Cristo. E ci sono altri che, passando accanto a me, sputano con disgusto per terra. È me che odiano? No, nemmeno loro mi conoscono, odiano Cristo. Ci sono quelli che dicono che Cristo è il più grande ideale che si possa concepire; ci sono quelli che dicono: “Che me ne importa di questo Gesù, che cosa ho a che fare con Lui? Ci sono milioni di uomini che si preoccupano di Lui con un amore mai eguagliato; ci sono anche milioni di uomini che lo odiano. È un fatto strano e sorprendente, degno di essere meditato. – Anche Cristo è amato. Quanti sono coloro che ogni giorno gli dicono dal profondo del cuore: “Gesù mio, ti amo”. E quanti sono i giovani che danno la vita per Lui, lasciando tutto? Colui che, duemila anni dopo la sua morte, è ancora amato con tale fervore, non può essere solo un uomo.

III

E così arriviamo alla terza domanda, la più decisiva, la più importante: che cos’è Cristo per me? Perché la cosa più importante per me non è sapere cosa gli altri uomini hanno pensato di Cristo, ma la risposta a questa domanda: cosa penso io di Cristo? Chi è Cristo per me? Rispondo con tre parole: 1° è il mio Signore; 2° è il mio Re; 3° è il mio Dio. – Il mio Signore! Dobbiamo acconsentire e cercare di lasciare che Cristo prenda possesso della nostra anima. Gesù cercò i suoi discepoli un giorno sul lago di Gennesaret, tra gli esattori delle tasse e sulle barche da pesca. Oggi li cerca in altri luoghi: nell’officina, nella scuola, nell’ufficio, nella fabbrica, nella cucina, nelle aule. Non c’è capanna, per quanto umile, non c’è palazzo in cui Gesù non cerchi discepoli, giovani e fanciulle, uomini e donne, vecchi e bambini. TUTTI SIAMO VOLUTI… per essere suoi discepoli. Quale dovrebbe essere la mia risposta? Mio Signore! Mio Maestro! Eccomi, sono tuo! Fai di me quello che vuoi. Quando sono appesantito dalla pesante croce della vita, so pronunciare con fervore queste parole: Dolce Gesù, è per il tuo amore! Quando la tentazione mi invita a peccare, so pronunciare con decisione incrollabile queste parole: “Mio Gesù, no, non voglio peccare; resisto per amor tuo! Quando faccio fatica a fare il mio dovere, sono in grado di dire: “Gesù mio, lo faccio per Te”? So come dirlo, lo dico? Allora Lui è il mio Signore. – Cristo è anche il mio Re. Egli ha già un regno quaggiù, il regno delle anime. Ovunque ci sia un uomo che aspiri alla santità, che lotta contro il peccato; ovunque ci sia un uomo che dimentica se stesso ed esercita la carità…, lì Cristo ha il suo regno, lì è il Re. – Cristo è anche il mio Dio. È il mio Dio, che adoro. Cerco di immaginare la sacratissima umanità di Cristo. Bacio con fervore le sue ferite, che sanguinano per me. Guardo con gratitudine la sua fronte cinta da una corona di spine… Voglio riparare in qualche modo a ciò che gli ho fatto. Questo deve essere Cristo per me. Il battito del mio cuore deve stare al passo con il suo; i suoi desideri devono essere i miei desideri; devo amarlo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. Arrendersi in modo assoluto. Adorazione. Egli è il mio Dio. Cristo è il mio Dio e il mio tutto, lo credo fermamente! Che Cristo non mi rimproveri per ciò che è scritto nella cattedrale di Lubecca:

“Voi mi chiamate Maestro – eppure non mi chiedete.

“Mi chiamate luce – eppure non mi vedete.

“Mi chiamate verità – e non mi credete.

“Mi chiamate via – e non andate per questa via.

“Mi chiamate vita e non mi desiderate.

“Dite che sono saggio e non mi seguite.

“Dite che sono bello e non mi amate.

“Dite che sono ricco – e non mi chiedete.

“Dite che sono eterno e non mi cercate.

“Dite che sono misericordioso – e non vi fidate di me.

“Dite che sono nobile – e non mi servite.

“Dite che sono onnipotente e non mi onorate.

“Dite che sono giusto – e non mi temete”.

Che cos’è dunque Cristo per me? Una persona viva; una vita che continua, in cui vivo, che è in me; una vita che mi accompagna; una vita da cui non posso liberarmi. Non posso, né voglio. Egli tende le sue braccia, è con me giorno e notte; quando lavoro, mi aiuta; quando piango, piange con me. Cristo, Tu sei il mio Signore, Cristo, Tu sei il mio Re, Cristo, Tu sei il mio Dio! – Tu, mio dolce Gesù, mi hai sostenuto nelle battaglie della mia giovinezza, hai perdonato i miei peccati, mi hai nutrito con il tuo sacrosanto Corpo? Grazie, mio Dio.

“Ave, Rex!” Ave, Re divino, Nostro Signore Gesù Cristo!

[Lettera Enciclica “Quas primas” di S. S. Pio XI]

Nella prima Enciclica che, asceso al Pontificato, dirigemmo a tutti i Vescovi dell’Orbe cattolico — mentre indagavamo le cause precipue di quelle calamità da cui vedevamo oppresso e angustiato il genere umano — ricordiamo d’aver chiaramente espresso non solo che tanta colluvie di mali imperversava nel mondo perché la maggior parte degli uomini avevano allontanato Gesù Cristo e la sua santa legge dalla pratica della loro vita, dalla famiglia e dalla società, ma altresì che mai poteva esservi speranza di pace duratura fra i popoli, finché gli individui e le nazioni avessero negato e da loro rigettato l’impero di Cristo Salvatore. – Pertanto, come ammonimmo che era necessario ricercare la pace di Cristo nel Regno di Cristo, così annunziammo che avremmo fatto a questo fine quanto Ci era possibile; nel Regno di Cristo — diciamo — poiché Ci sembrava che non si possa più efficacemente tendere al ripristino e al rafforzamento della pace, che mediante la restaurazione del Regno di Nostro Signore. – Frattanto il sorgere e il pronto ravvivarsi di un benevolo movimento dei popoli verso Cristo e la sua Chiesa, che sola può recar salute, Ci forniva non dubbia speranza di tempi migliori; movimento tal quale s’intravedeva che molti i quali avevano disprezzato il Regno di Cristo e si erano quasi resi esuli dalla Casa del Padre, si preparavano e quasi s’affrettavano a riprendere le vie dell’obbedienza.

L’Anno Santo e il Regno di Cristo

E tutto quello che accadde e si fece, nel corso di questo Anno Santo, degno certo di perpetua memoria, forse non accrebbe l’onore e la gloria al divino Fondatore della Chiesa, nostro supremo Re e Signore? – Infatti, la Mostra Missionaria Vaticana quanto non colpì la mente e il cuore degli uomini, sia facendo conoscere il diuturno lavoro della Chiesa per la maggiore dilatazione del Regno del suo Sposo nei continenti e nelle più lontane isole dell’Oceano; sia il grande numero di regioni conquistate al cattolicesimo col sudore e col sangue dai fortissimi e invitti Missionari; sia infine col far conoscere quante vaste regioni vi siano ancora da sottomettere al soave e salutare impero del nostro Re. E quelle moltitudini che, durante questo Anno giubilare, vennero da ogni parte della terra nella città santa, sotto la guida dei loro Vescovi e sacerdoti, che altro avevano in cuore, purificate le loro anime, se non proclamarsi presso il sepolcro degli Apostoli, davanti a Noi, sudditi fedeli di Cristo per il presente e per il futuro? – E questo Regno di Cristo sembrò quasi pervaso di nuova luce allorquando Noi, provata l’eroica virtù di sei Confessori e Vergini, li elevammo agli onori degli altari. E qual gioia e qual conforto provammo nell’animo quando, nello splendore della Basilica Vaticana, promulgato il decreto solenne, una moltitudine sterminata di popolo, innalzando il cantico di ringraziamento esclamò: Tu Rex gloriæ, Christe!  – Poiché, mentre gli uomini e le Nazioni, lontani da Dio, per l’odio vicendevole e per le discordie intestine si avviano alla rovina ed alla morte, la Chiesa di Dio, continuando a porgere al genere umano il cibo della vita spirituale, crea e forma generazioni di santi e di sante a Gesù Cristo, il quale non cessa di chiamare alla beatitudine del Regno celeste coloro che ebbe sudditi fedeli e obbedienti nel regno terreno. – Inoltre, ricorrendo, durante l’Anno Giubilare, il sedicesimo secolo dalla celebrazione del Concilio di Nicea, volemmo che l’avvenimento centenario fosse commemorato, e Noi stessi lo commemorammo nella Basilica Vaticana tanto più volentieri in quanto quel Sacro Sinodo definì e propose come dogma la consustanzialità dell’Unigenito col Padre, e nello stesso tempo, inserendo nel simbolo la formula «il regno del quale non avrà mai fine», proclamò la dignità regale di Cristo. – Avendo, dunque, quest’Anno Santo concorso non in uno ma in più modi ad illustrare il Regno di Cristo, Ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro ufficio apostolico, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi sia individualmente, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re. – Questa cosa Ci reca tanta gioia che Ci spinge, Venerabili Fratelli, a farvene parola; voi poi, procurerete di adattare ciò che Noi diremo intorno al culto di Gesù Cristo Re, all’intelligenza del popolo e di spiegarne il senso in modo che da questa annua solennità ne derivino sempre copiosi frutti.

Gesù Cristo è Re

Gesù Cristo Re delle menti, delle volontà e dei cuori

Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re per il sommo grado di eccellenza, che ha in modo sovreminente fra tutte le cose create. In tal modo, infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è Verità ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da Lui la verità; similmente nelle volontà degli uomini, sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perché con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana (Supereminentem scientiæ caritatem) e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità: nessuno infatti degli uomini fu mai tanto amato e mai lo sarà in avvenire quanto Gesù Cristo. Ma per entrare in argomento, tutti debbono riconoscere che è necessario rivendicare a Cristo Uomo nel vero senso della parola il nome e i poteri di Re; infatti soltanto in quanto è Uomo si può dire che abbia ricevuto dal Padre la potestà, l’onore e il regno, perché come Verbo di Dio, essendo della stessa sostanza del Padre, non può non avere in comune con il Padre ciò che è proprio della divinità, e per conseguenza Egli su tutte le cose create ha il sommo e assolutissimo impero.

La Regalità di Cristo nei libri dell’Antico Testamento.

E non leggiamo infatti spesso nelle Sacre Scritture che Cristo è Re ? Egli invero è chiamato il Principe che deve sorgere da Giacobbe,, eche dal Padre è costituito Re sopra il Monte santo di Sion, che riceverà le genti in eredità e avrà in possesso i confini della terra. Il salmo nuziale, col quale sotto l’immagine di un re ricchissimo e potentissimo viene preconizzato il futuro Re d’Israele, ha queste parole: «II tuo trono, o Dio, sta per sempre, in eterno: scettro di rettitudine è il tuo scettro reale». – E per tralasciare molte altre testimonianze consimili, in un altro luogo per lumeggiare più chiaramente i caratteri del Cristo, si preannunzia che il suo Regno sarà senza confini ed arricchito coi doni della giustizia e della pace: «Fiorirà ai suoi giorni la Giustizia e somma pace… Dominerà da un mare all’altro, e dal fiume fino alla estremità della terra». A questa testimonianza si aggiungono in modo più ampio gli oracoli dei Profeti e anzitutto quello notissimo di Isaia: «Ci è nato un bimbo, ci fu dato un figlio: e il principato è stato posto sulle sue spalle e sarà chiamato col nome di Ammirabile, Consigliere, Dio forte, Padre del secolo venturo, Principe della pace. Il suo impero crescerà, e la pace non avrà più fine. Sederà sul trono di Davide e sopra il suo regno, per stabilirlo e consolidarlo nel giudizio e nella giustizia, da ora ed in perpetuo». E gli altri Profeti non discordano da Isaia: così Geremia, quando predice che nascerà dalla stirpe di Davide il “Rampollo giusto” che qual figlio di Davide «regnerà e sarà sapiente e farà valere il diritto e la giustizia sulla terra»; così Daniele che preannunzia la costituzione di un regno da parte del Re del cielo, regno che «non sarà mai in eterno distrutto… ed esso durerà in eterno» e continua: «Io stavo ancora assorto nella visione notturna, quand’ecco venire in mezzo alle nuvole del cielo uno con le sembianze del figlio dell’uomo che si avanzò fino al Vegliardo dai giorni antichi, e davanti a lui fu presentato. E questi gli conferì la potestà, l’onore e il regno; tutti i popoli, le tribù e le lingue serviranno a lui; la sua potestà sarà una potestà eterna che non gli sarà mai tolta, e il suo regno, un regno che non sarà mai distrutto». E gli scrittori dei santi Vangeli non accettano e riconoscono come avvenuto quanto è predetto da Zaccaria intorno al Re mansueto il quale «cavalcando sopra un’asina col suo piccolo asinello» era per entrare in Gerusalemme, qual giusto e salvatore fra le acclamazioni delle turbe?

Gesù Cristo si è proclamato Re

Del resto questa dottrina intorno a Cristo Re, che abbiamo sommariamente attinto dai libri del Vecchio Testamento, non solo non viene meno nelle pagine del Nuovo, ma anzi vi è confermata in modo splendido e magnifico. E qui, appena accennando all’annunzio dell’arcangelo da cui la Vergine viene avvisata che doveva partorire un figlio, al quale Iddio avrebbe dato la sede di David, suo padre, e che avrebbe regnato nella Casa di Giacobbe in eterno e che il suo Regno non avrebbe avuto fine  vediamo che Cristo stesso dà testimonianza del suo impero: infatti, sia nel suo ultimo discorso alle turbe, quando parla dei premi e delle pene, riservate in perpetuo ai giusti e ai dannati; sia quando risponde al Preside romano che pubblicamente gli chiedeva se fosse Re, sia quando risorto affida agli Apostoli l’ufficio di ammaestrare e battezzare tutte le genti, colta l’opportuna occasione, si attribuì il nome di Re, e pubblicamente confermò di essere Re  e annunziò solennemente a Lui era stato dato ogni potere in cielo e in terra. E con queste parole che altro si vuol significare se non la grandezza della potestà e l’estensione immensa del suo Regno? – Non può dunque sorprenderci se Colui che è detto da Giovanni «Principe dei Re della terra», porti, come apparve all’Apostolo nella visione apocalittica «scritto sulla sua veste e sopra il suo fianco: Re dei re e Signore dei dominanti». Da quando l’eterno Padre costituì Cristo erede universale, è necessario che Egli regni finché riduca, alla fine dei secoli, ai piedi del trono di Dio tutti i suoi nemici. – Da questa dottrina dei sacri libri venne per conseguenza che la Chiesa, regno di Cristo sulla terra, destinato naturalmente ad estendersi a tutti gli uomini e a tutte le nazioni, salutò e proclamò nel ciclo annuo della Liturgia il suo autore e fondatore quale Signore sovrano e Re dei re, moltiplicando le forme della sua affettuosa venerazione. Essa usa questi titoli di onore esprimenti nella bella varietà delle parole lo stesso concetto; come già li usò nell’antica salmodia e negli antichi Sacramentari, così oggi li usa nella pubblica ufficiatura e nell’immolazione dell’Ostia immacolata. In questa laude perenne a Cristo Re, facilmente si scorge la bella armonia fra il nostro e il rito orientale in guisa da render manifesto, anche in questo caso, che «le norme della preghiera fissano i principi della fede». Ben a proposito Cirillo Alessandrino, a mostrare il fondamento di questa dignità e di questo potere, avverte che «egli ottiene, per dirla brevemente, la potestà su tutte le creature, non carpita con la violenza né da altri ricevuta, ma la possiede per propria natura ed essenza»; cioè il principato di Cristo si fonda su quella unione mirabile che è chiamata unione ipostatica. Dal che segue che Cristo non solo deve essere adorato come Dio dagli Angeli e dagli uomini, ma anche che a Lui, come Uomo, debbono essi esser soggetti ed obbedire: cioè che per il solo fatto dell’unione ipostatica Cristo ebbe potestà su tutte le creature. – Eppure che cosa più soave e bella che il pensare che Cristo regna su di noi non solamente per diritto di natura, ma anche per diritto di conquista, in forza della Redenzione? Volesse Iddio che gli uomini immemori ricordassero quanto noi siamo costati al nostro Salvatore: «Non a prezzo di cose corruttibili, di oro o d’argento siete stati riscattati… ma dal Sangue prezioso di Cristo, come di agnello immacolato e incontaminato». Non siamo dunque più nostri perché Cristo ci ha ricomprati col più alto prezzo: i nostri stessi corpi sono membra di Cristo.

Natura e valore del Regno di Cristo

Volendo ora esprimere la natura e il valore di questo principato, accenniamo brevemente che esso consta di una triplice potestà, la quale se venisse a mancare, non si avrebbe più il concetto d’un vero e proprio principato. – Le testimonianze attinte dalle Sacre Lettere circa l’impero universale del nostro Redentore, provano più che a sufficienza quanto abbiamo detto; ed è dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui debbono riporre la loro fiducia, ed allo stesso tempo come legislatore a cui debbono obbedire. – I santi Evangeli non soltanto narrano come Gesù abbia promulgato delle leggi, ma lo presentano altresì nell’atto stesso di legiferare; e il divino Maestro afferma, in circostanze e con diverse espressioni, che chiunque osserverà i suoi comandamenti darà prova di amarlo e rimarrà nella sua carità . Lo stesso Gesù davanti ai Giudei, che lo accusavano di aver violato il sabato con l’aver ridonato la sanità al paralitico, afferma che a Lui fu dal Padre attribuita la potestà giudiziaria: «Il Padre non giudica alcuno, ma ha rimesso al Figlio ogni giudizio». Nel che è compreso pure il diritto di premiare e punire gli uomini anche durante la loro vita, perché ciò non può disgiungersi da una propria forma di giudizio. Inoltre la potestà esecutiva si deve parimenti attribuire a Gesù Cristo, poiché è necessario che tutti obbediscano al suo comando, e nessuno può sfuggire ad esso e alle sanzioni da lui stabilite.

Regno principalmente spirituale

Che poi questo Regno sia principalmente spirituale e attinente alle cose spirituali, ce lo dimostrano i passi della sacra Bibbia sopra riferiti, e ce lo conferma Gesù Cristo stesso col suo modo di agire. – In varie occasioni, infatti, quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, egli cercò di togliere e abbattere questa vana attesa e speranza; e così pure quando stava per essere proclamato Re dalla moltitudine che, presa di ammirazione, lo attorniava, Egli rifiutò questo titolo e questo onore, ritirandosi e nascondendosi nella solitudine; finalmente davanti al Preside romano annunciò che il suo Regno “non è di questo mondo”. – Questo Regno nei Vangeli viene presentato in tal modo che gli uomini debbano prepararsi ad entrarvi per mezzo della penitenza, e non possano entrarvi se non per la fede e per il Battesimo, il quale benché sia un rito esterno, significa però e produce la rigenerazione interiore. Questo Regno è opposto unicamente al regno di Satana e alla “potestà delle tenebre”, e richiede dai suoi sudditi non solo l’animo distaccato dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e sete di giustizia, ma anche che essi rinneghino se stessi e prendano la loro croce. Avendo Cristo come Redentore costituita con il suo sangue la Chiesa, e come Sacerdote offrendo se stesso in perpetuo quale ostia di propiziazione per i peccati degli uomini, chi non vede che la regale dignità di Lui riveste il carattere spirituale dell’uno e dell’altro ufficio?

Regno universale e sociale

D’altra parte sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio. Tuttavia, finché fu sulla terra si astenne completamente dall’esercitare tale potere, e come una volta disprezzò il possesso e la cura delle cose umane, così permise e permette che i possessori debitamente se ne servano. A questo proposito ben si adattano queste parole: «Non toglie il trono terreno Colui che dona il regno eterno dei cieli». Pertanto il dominio del nostro Redentore abbraccia tutti gli uomini, come affermano queste parole del Nostro Predecessore di immortale memoria  Leone XIII, che Noi qui facciamo Nostre: «L’impero di Cristo non si estende soltanto sui popoli cattolici, o a coloro che, rigenerati nel fonte battesimale, appartengono, a rigore di diritto, alla Chiesa, sebbene le errate opinioni Ce li allontanino o il dissenso li divida dalla carità; ma abbraccia anche quanti sono privi di fede cristiana, di modo che tutto il genere umano è sotto la potestà di Gesù Cristo». – Né v’è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli. È lui solo la fonte della salute privata e pubblica: «Né in alcun altro è salute, né sotto il cielo altro nome è stato dato agli uomini, mediante il quale abbiamo da essere salvati», è lui solo l’autore della prosperità e della vera felicità sia per i singoli sia per gli Stati: «poiché il benessere della società non ha origine diversa da quello dell’uomo, la società non essendo altro che una concorde moltitudine di uomini». – Non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo insieme coi loro popoli, se vogliono, con l’incolumità del loro potere, l’incremento e il progresso della patria. Difatti sono quanto mai adatte e opportune al momento attuale quelle parole che all’inizio del Nostro pontificato Noi scrivemmo circa il venir meno del principio di autorità e del rispetto alla pubblica potestà: «Allontanato, infatti — così lamentavamo — Gesù Cristo dalle leggi e dalla società, l’autorità appare senz’altro come derivata non da Dio ma dagli uomini, in maniera che anche il fondamento della medesima vacilla: tolta la causa prima, non v’è ragione per cui uno debba comandare e l’altro obbedire. Dal che è derivato un generale turbamento della società, la quale non poggia più sui suoi cardini naturali».

Regno benefico

Se invece gli uomini privatamente e in pubblico avranno riconosciuto la sovrana potestà di Cristo, necessariamente segnalati benefici di giusta libertà, di tranquilla disciplina e di pacifica concordia pervaderanno l’intero consorzio umano. La regale dignità di nostro Signore come rende in qualche modo sacra l’autorità umana dei principi e dei capi di Stato, così nobilita i doveri dei cittadini e la loro obbedienza. – In questo senso l’Apostolo Paolo, inculcando alle spose e ai servi di rispettare Gesù Cristo nel loro rispettivo marito e padrone, ammoniva chiaramente che non dovessero obbedire ad essi come ad uomini ma in quanto tenevano le veci di Cristo, poiché sarebbe stato sconveniente che gli uomini, redenti da Cristo, servissero ad altri uomini: «Siete stati comperati a prezzo; non diventate servi degli uomini». Che se i principi e i magistrati legittimi saranno persuasi che si comanda non tanto per diritto proprio quanto per mandato del Re divino, si comprende facilmente che uso santo e sapiente essi faranno della loro autorità, e quale interesse del bene comune e della dignità dei sudditi prenderanno nel fare le leggi e nell’esigerne l’esecuzione. – In tal modo, tolta ogni causa di sedizione, fiorirà e si consoliderà l’ordine e la tranquillità: ancorché, infatti, il cittadino riscontri nei principi e nei capi di Stato uomini simili a lui o per qualche ragione indegni e vituperevoli, non si sottrarrà tuttavia al loro comando qualora egli riconosca in essi l’immagine e l’autorità di Cristo Dio e Uomo. – Per quello poi che si riferisce alla concordia e alla pace, è manifesto che quanto più vasto è il regno e più largamente abbraccia il genere umano, tanto più gli uomini diventano consapevoli di quel vincolo di fratellanza che li unisce. E questa consapevolezza come allontana e dissipa i frequenti conflitti, così ne addolcisce e ne diminuisce le amarezze. E se il regno di Cristo, come di diritto abbraccia tutti gli uomini, cosi di fatto veramente li abbracciasse, perché dovremmo disperare di quella pace che il Re pacifico portò in terra, quel Re diciamo che venne «per riconciliare tutte le cose, che non venne per farsi servire, ma per servire gli altri”» e che, pur essendo il Signore di tutti, si fece esempio di umiltà, e questa virtù principalmente inculcò insieme con la carità e disse inoltre: «II mio giogo è soave e il mio peso leggero?». – Oh, di quale felicità potremmo godere se gli individui, le famiglie e la società si lasciassero governare da Cristo! «Allora veramente, per usare le parole che il Nostro Predecessore Leone XIII venticinque anni fa rivolgeva a tutti i Vescovi dell’orbe cattolico, si potrebbero risanare tante ferite, allora ogni diritto riacquisterebbe l’antica forza, tornerebbero i beni della pace, cadrebbero dalle mani le spade, quando tutti volentieri accettassero l’impero di Cristo, gli obbedissero, ed ogni lingua proclamasse che nostro Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre».

La Festa di Cristo Re

Scopo della festa di Cristo Re

E perché più abbondanti siano i desiderati frutti e durino più stabilmente nella società umana, è necessario che venga divulgata la cognizione della regale dignità di nostro Signore quanto più è possibile. Al quale scopo Ci sembra che nessun’altra cosa possa maggiormente giovare quanto l’istituzione di una festa particolare e propria di Cristo Re. – Infatti, più che i solenni documenti del Magistero ecclesiastico, hanno efficacia nell’informare il popolo nelle cose della fede e nel sollevarlo alle gioie interne della vita le annuali festività dei sacri misteri, poiché i documenti, il più delle volte, sono presi in considerazione da pochi ed eruditi uomini, le feste invece commuovono e ammaestrano tutti i fedeli; quelli una volta sola parlano, queste invece, per così dire, ogni anno e in perpetuo; quelli soprattutto toccano salutarmente la mente, queste invece non solo la mente ma anche il cuore, tutto l’uomo insomma. Invero, essendo l’uomo composto di anima e di corpo, ha bisogno di essere eccitato dalle esteriori solennità in modo che, attraverso la varietà e la bellezza dei sacri riti, accolga nell’animo i divini insegnamenti e, convertendoli in sostanza e sangue, faccia si che essi servano al progresso della sua vita spirituale. – D’altra parte si ricava da documenti storici che tali festività, col decorso dei secoli, vennero introdotte una dopo l’altra, secondo che la necessità o l’utilità del popolo cristiano sembrava richiederlo; come quando fu necessario che il popolo venisse rafforzato di fronte al comune pericolo, o venisse difeso dagli errori velenosi degli eretici, o incoraggiato più fortemente e infiammato a celebrare con maggiore pietà qualche mistero della fede o qualche beneficio della grazia divina. Così fino dai primi secoli dell’era cristiana, venendo i fedeli acerbamente perseguitati, si cominciò con sacri riti a commemorare i Martiri, affinché — come dice Sant’Agostino — le solennità dei Martiri fossero d’esortazione al martirio. E gli onori liturgici, che in seguito furono tributati ai Confessori, alle Vergini e alle Vedove, servirono meravigliosamente ad eccitare nei fedeli l’amore alle virtù, necessarie anche in tempi di pace. – E specialmente le festività istituite in onore della Beata Vergine fecero sì che il popolo cristiano non solo venerasse con maggior pietà la Madre di Dio, sua validissima protettrice, ma si accendesse altresì di più forte amore verso la Madre celeste, che il Redentore gli aveva lasciato quasi per testamento. Tra i benefici ottenuti dal culto pubblico e liturgico verso la Madre di Dio e i Santi del Cielo non ultimo si deve annoverare questo: che la Chiesa, in ogni tempo, poté vittoriosamente respingere la peste delle eresie e degli errori. – In tale ordine di cose dobbiamo ammirare i disegni della divina Provvidenza, la quale, come suole dal male ritrarre il bene, così permise che di quando in quando la fede e la pietà delle genti diminuissero, o che le false teorie insidiassero la verità cattolica, con questo esito però, che questa risplendesse poi di nuovo splendore, e quelle, destatesi dal letargo, tendessero a cose maggiori e più sante. – Ed invero le festività che furono accolte nel corso dell’anno liturgico in tempi a noi vicini, ebbero uguale origine e produssero identici frutti. Così, quando erano venuti meno la riverenza e il culto verso l’augusto Sacramento, fu istituita la festa del Corpus Domini, e si ordinò che venisse celebrata in modo tale che le solenni processioni e le preghiere da farsi per tutto l’ottavario richiamassero le folle a venerare pubblicamente il Signore; così la festività del Sacro Cuore di Gesù fu introdotta quando gli animi degli uomini, infiacchiti e avviliti per il freddo rigorismo dei giansenisti, erano del tutto agghiacciati e distolti dall’amore di Dio e dalla speranza della eterna salvezza. – Ora, se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società.

Il “laicismo”

La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso. – I pessimi frutti, che questo allontanamento da Cristo da parte degli individui e delle nazioni produsse tanto frequentemente e tanto a lungo, Noi lamentammo nella Enciclica Ubi arcano Dei e anche oggi lamentiamo: i semi cioè della discordia sparsi dappertutto; accesi quegli odii e quelle rivalità tra i popoli, che tanto indugio ancora frappongono al ristabilimento della pace; l’intemperanza delle passioni che così spesso si nascondono sotto le apparenze del pubblico bene e dell’amor patrio; le discordie civili che ne derivarono, insieme a quel cieco e smoderato egoismo sì largamente diffuso, il quale, tendendo solo al bene privato ed al proprio comodo, tutto misura alla stregua di questo; la pace domestica profondamente turbata dalla dimenticanza e dalla trascuratezza dei doveri familiari; l’unione e la stabilità delle famiglie infrante, infine la stessa società scossa e spinta verso la rovina. – Ci sorregge tuttavia la buona speranza che l’annuale festa di Cristo Re, che verrà in seguito celebrata, spinga la società, com’è nel desiderio di tutti, a far ritorno all’amatissimo nostro Salvatore. Accelerare e affrettare questo ritorno con l’azione e con l’opera loro sarebbe dovere dei Cattolici, dei quali, invero, molti sembra non abbiano nella civile convivenza quel posto né quell’autorità, che s’addice a coloro che portano innanzi a sé la fiaccola della verità. – Tale stato di cose va forse attribuito all’apatia o alla timidezza dei buoni, i quali si astengono dalla lotta o resistono fiaccamente; da ciò i nemici della Chiesa traggono maggiore temerità e audacia. Ma quando i fedeli tutti comprendano che debbono militare con coraggio e sempre sotto le insegne di Cristo Re, con ardore apostolico si studieranno di ricondurre a Dio i ribelli e gl’ignoranti, e si sforzeranno di mantenere inviolati i diritti di Dio stesso.

La preparazione storica della festa di Cristo Re

E chi non vede che fino dagli ultimi anni dello scorso secolo si preparava meravigliosamente la via alla desiderata istituzione di questo giorno festivo? Nessuno infatti ignora come, con libri divulgati nelle varie lingue di tutto il mondo, questo culto fu sostenuto e sapientemente difeso; come pure il principato e il regno di Cristo fu ben riconosciuto colla pia pratica di dedicare e consacrare tutte le famiglie al Sacratissimo Cuore di Gesù. E non soltanto famiglie furono consacrate, ma altresì nazioni e regni; anzi, per volere di Leone XIII, tutto il genere umano, durante l’Anno Santo 1900, fu felicemente consacrato al Divin Cuore. – Né si deve passar sotto silenzio che a confermare questa regale potestà di Cristo sul consorzio umano meravigliosamente giovarono i numerosissimi Congressi eucaristici, che si sogliono celebrare ai nostri tempi; essi, col convocare i fedeli delle singole diocesi, delle regioni, delle nazioni e anche tutto l’orbe cattolico, a venerare e adorare Gesù Cristo Re nascosto sotto i veli eucaristici, tendono, mediante discorsi nelle assemblee e nelle chiese, mediante le pubbliche esposizioni del Santissimo Sacramento, mediante le meravigliose processioni ad acclamare Cristo quale Re dato dal cielo. – A buon diritto si direbbe che il popolo cristiano, mosso da ispirazione divina, tratto dal silenzio e dal nascondimento dei sacri templi, e portato per le pubbliche vie a guisa di trionfatore quel medesimo Gesù che, venuto nel mondo, gli empi non vollero riconoscere, voglia ristabilirlo nei suoi diritti regali. – E per vero ad attuare il Nostro divisamento sopra accennato, l’Anno Santo che volge alla fine Ci porge la più propizia occasione, poiché Dio benedetto, avendo sollevato la mente e il cuore dei fedeli alla considerazione dei beni celesti che superano ogni gaudio, o li ristabilì in grazia e li confermò nella retta via e li avviò con nuovi incitamenti al conseguimento della perfezione. – Perciò, sia che consideriamo le numerose suppliche a Noi rivolte, sia che consideriamo gli avvenimento di questo Anno Santo, troviamo argomento a pensare che finalmente è spuntato il giorno desiderato da tutti, nel quale possiamo annunziare che si deve onorare con una festa speciale Cristo quale Re di tutto il genere umano. – In quest’anno infatti, come dicemmo sin da principio, quel Re divino veramente ammirabile nei suoi Santi, è stato magnificato in modo glorioso con la glorificazione di una nuova schiera di suoi fedeli elevati agli onori celesti; parimenti in questo anno per mezzo dell’Esposizione Missionaria tutti ammirarono i trionfi procurati a Cristo per lo zelo degli operai evangelici nell’estendere il suo Regno; finalmente in questo medesimo anno con la centenaria ricorrenza del Concilio Niceno, commemorammo la difesa e la definizione del dogma della consustanzialità del Verbo incarnato col Padre, sulla quale si fonda l’impero sovrano del medesimo Cristo su tutti i popoli.

L’istituzione della festa di Cristo Re

Pertanto, con la Nostra apostolica autorità istituiamo la festa di nostro Signore Gesù Cristo Re, stabilendo che sia celebrata in tutte le parti della terra l’ultima domenica di ottobre, cioè la domenica precedente la festa di tutti i Santi. Similmente ordiniamo che in questo medesimo giorno, ogni anno, si rinnovi la consacrazione di tutto il genere umano al Cuore santissimo di Gesù, che il Nostro Predecessore di santa memoria Pio X aveva comandato di ripetere annualmente. – In quest’anno però, vogliamo che sia rinnovata il giorno trentuno di questo mese, nel quale Noi stessi terremo solenne pontificale in onore di Cristo Re e ordineremo che la detta consacrazione si faccia alla Nostra presenza. Ci sembra che non possiamo meglio e più opportunamente chiudere e coronare 1’Anno Santo, né rendere più ampia testimonianza della Nostra gratitudine a Cristo, Re immortale dei secoli, e di quella di tutti i cattolici per i beneficî fatti a Noi, alla Chiesa e a tutto l’Orbe cattolico durante quest’Anno Santo. – E non fa bisogno, Venerabili Fratelli, che vi esponiamo a lungo i motivi per cui abbiamo istituito la solennità di Cristo Re distinta dalle altre feste, nelle quali sembrerebbe già adombrata e implicitamente solennizzata questa medesima dignità regale. – Basta infatti avvertire che mentre l’oggetto materiale delle attuali feste di nostro Signore è Cristo medesimo, l’oggetto formale, però, in esse si distingue del tutto dal nome della potestà regale di Cristo. La ragione, poi, per cui volemmo stabilire questa festa in giorno di domenica, è perché non solo il Clero con la celebrazione della Messa e la recita del divino Officio, ma anche il popolo, libero dalle consuete occupazioni, rendesse a Cristo esimia testimonianza della sua obbedienza e della sua devozione. – Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti. – Pertanto questo sia il vostro ufficio, o Venerabili Fratelli, questo il vostro compito di far sì che si premetta alla celebrazione di questa festa annuale, in giorni stabiliti, in ogni parrocchia, un corso di predicazione, in guisa che i fedeli ammaestrati intorno alla natura, al significato e all’importanza della festa stessa, intraprendano un tale tenore di vita, che sia veramente degno di coloro che vogliono essere sudditi affezionati e fedeli del Re divino.

I vantaggi della festa di Cristo Re

Giunti al termine di questa Nostra lettera Ci piace, o Venerabili Fratelli, spiegare brevemente quali vantaggi in bene sia della Chiesa e della società civile, sia dei singoli fedeli, Ci ripromettiamo da questo pubblico culto verso Cristo Re. – Col tributare questi onori alla dignità regia di nostro Signore, si richiamerà necessariamente al pensiero di tutti che la Chiesa, essendo stata stabilita da Cristo come società perfetta, richiede per proprio diritto, a cui non può rinunziare, piena libertà e indipendenza dal potere civile, e che essa, nell’esercizio del suo divino ministero di insegnare, reggere e condurre alla felicità eterna tutti coloro che appartengono al Regno di Cristo, non può dipendere dall’altrui arbitrio. – Di più, la società civile deve concedere simile libertà a quegli ordini e sodalizi religiosi d’ambo i sessi, i quali, essendo di validissimo aiuto alla Chiesa e ai suoi pastori, cooperano grandemente all’estensione e all’incremento del regno di Cristo, sia perché con la professione dei tre voti combattono la triplice concupiscenza del mondo, sia perché con la pratica di una vita di maggior perfezione, fanno sì che quella santità, che il divino Fondatore volle fosse una delle note della vera Chiesa, risplenda di giorno in giorno vieppiù innanzi agli occhi di tutti. – La celebrazione di questa festa, che si rinnova ogni anno, sarà anche d’ammonimento per le nazioni che il dovere di venerare pubblicamente Cristo e di prestargli obbedienza riguarda non solo i privati, ma anche i magistrati e i governanti: li richiamerà al pensiero del giudizio finale, nel quale Cristo, scacciato dalla società o anche solo ignorato e disprezzato, vendicherà acerbamente le tante ingiurie ricevute, richiedendo la sua regale dignità che la società intera si uniformi ai divini comandamenti e ai principî cristiani, sia nello stabilire le leggi, sia nell’amministrare la giustizia, sia finalmente nell’informare l’animo dei giovani alla santa dottrina e alla santità dei costumi. – Inoltre non è a dire quanta forza e virtù potranno i fedeli attingere dalla meditazione di codeste cose, allo scopo di modellare il loro animo alla vera regola della vita cristiana. – Poiché se a Cristo Signore è stata data ogni potestà in cielo e in terra; se tutti gli uomini redenti con il Sangue suo prezioso sono soggetti per un nuovo titolo alla sua autorità; se, infine, questa potestà abbraccia tutta l’umana natura, chiaramente si comprende, che nessuna delle nostre facoltà si sottrae a tanto impero.

Conclusione

Cristo regni!

È necessario, dunque, che Egli regni nella mente dell’uomo, la quale con perfetta sottomissione, deve prestare fermo e costante assenso alle verità rivelate e alla dottrina di Cristo; che regni nella volontà, la quale deve obbedire alle leggi e ai precetti divini; che regni nel cuore, il quale meno apprezzando gli affetti naturali, deve amare Dio più d’ogni cosa e a Lui solo stare unito; che regni nel corpo e nelle membra, che, come strumenti, o al dire dell’Apostolo Paolo, come “armi di giustizia”  offerte a Dio devono servire all’interna santità delle anime. Se coteste cose saranno proposte alla considerazione dei fedeli, essi più facilmente saranno spinti verso la perfezione. – Faccia il Signore, Venerabili Fratelli, che quanti sono fuori del suo regno, bramino ed accolgano il soave giogo di Cristo, e tutti, quanti siamo, per sua misericordia, suoi sudditi e figli, lo portiamo non a malincuore ma con piacere, ma con amore, ma santamente, e che dalla nostra vita conformata alle leggi del Regno divino raccogliamo lieti ed abbondanti frutti, e ritenuti da Cristo quali servi buoni e fedeli diveniamo con Lui partecipi nel Regno celeste della sua eterna felicità e gloria. – Questo nostro augurio nella ricorrenza del Natale di nostro Signore Gesù Cristo sia per voi, o Venerabili Fratelli, un attestato del Nostro affetto paterno; e ricevete l’Apostolica Benedizione, che in auspicio dei divini favori impartiamo ben di cuore a voi, o Venerabili Fratelli, e a tutto il popolo vostro.

[Dato a Roma, presso S. Pietro, il giorno 11 Dicembre dell’Anno Santo 1925, quarto del Nostro Pontificato.]

QUARESIMALE (XIV)

QUARESIMALE (XIV)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMAQUARTA

Nella Feria quinta della Domenica seconda.

Si procura d’esporre agli occhi del peccatore, un’ombra dell’apparato funesto de’ tormenti infernali e si detesta la pazzia di chi pecca, quantunque creda inferno e lo creda eterno.

Mortuus est dives, et sepultus est in inferno. San Luca al cap. 16.

L’Organa, pittor bravissimo si mostrò lo Zeusi de’ suoi tempi, con dipingere, non il volto d’un’Elena ricavato da tutte le bellezze della Grecia, il ceffo di Medusa copiato al vivo dalle bruttezze d’ogni più mostruoso animale. De’ più deformi e de’ più spaventosi ne adunò in gran numero, e di ciascuno ne fece anatomia con l’occhio, distinguendo parte a parte ogni più sconcia mostruosità, poscia con la mano trasportò su la tela quei vivi terrori, acciocché da tante sparse bruttezze, raccolte in uno, una ne riuscisse fior di bruttezza la faccia di Medusa. Che l’opera felicemente riuscisse, testimoni ne furono gli occhi degli amici, poiché al rimuoversi improvvisamente il velo, quasi che si scoprisse, non la dipinta nel quadro, ma la vera Medusa nel celebre Scudo, presi da un freddo orrore, rimasero come di pietra. Piacesse al Cielo, che a me fosse concessa una simile arte con cui potessi mettervi in vista al vivo l’orribil volto dell’inferno! Spererei, con l’aiuto divino, strane sì, ma sante mutazioni. M’ingegnerò dunque quanto più posso d’esporvi un’ombra dell’apparato funesto de’ tormenti infernali, provati ora da chiunque in compagnia dell’odierno Epulone, sepultus est in inferno. La terribilità dell’argomento non tollera superfluità d’esordio, ma richiede straordinaria attenzione; datemela a pro delle anime vostre, e do principio. Passeggiando un dì quel gran padre de’ Monaci San Macario per le vaste solitudini d’Egitto, piantò inavvedutamente il suo bastone sopra d’un teschio di morto, da cui sentendone uscire voci di lamento, si fermò interrogando s’era anima salva, o pur dannata. Son di un’anima dannata, rispose il teschio. Se così è, soggiunse il Santo, dammi qualche notizia del tuo inferno. Non altra ti posso dare, replicò il teschio che questa: l’anima sopporta l’inferno, ma non sa comprendere cosa sia inferno. Che farò dunque R. A. se dovendo parlare d’inferno, non può questo comprendersi! – Grande Iddio, che avete in vostra mano quella chiave che apre e serra la porta eternale, concedetemela, vi supplico, voglio spalancare quell’orrenda prigione di dannati: né vi crediate che io pretenda di restituire ad alcuno di loro la libertà, né recare acqua al loro fuoco, balsamo alle loro piaghe; o questo no, stiano pure ivi i miseri a pagar giustamente gli oltraggi a voi fatti: non son degni, né di soccorso, né di pietà! S’arrabbino pure, si disperino … loro danno. Quel che io pretendo altro non è se non questo far vedere a’ miei UU. quell’orribile luogo, acciocché niuno di loro a me sì cari cada colaggiù à popolarlo. Ecco, ecco, è già calata la gran chiave, o che strepito di catene! o che, strascinamento di catenacci! Già stride la gran porta si apre o che fumo, o che caligini, o che puzza, o che strilla, o che confusione! convien stare alla larga; e se nostro pensiero fu di vedere, contentarci d’udire. O là ascoltatemi voi, anime tormentate, e datemi qualche certezza del vostro inferno. Ditemi, vi contentereste voi, che il vostro inferno fosse quel toro di Bronzo, dove Falar Tiranno d’Agrigento racchiuso il paziente col fuoco acceso sotto il ventre del toro, godeva sentirlo muggire, mentre il misero nell’interno della bestia infocata si abbruciava? Vi contentereste della fierezza de’ Sciti? Questi spaccando per mezzo cavalli, seppellivano nelle loro viscere uomini vivi, sostentandoli con cibo, acciocché quivi da’ vermi che nascevano dalle carni putrefatte del cavallo morto, a poco a poco fossero vivi mangiati? Vi contentereste della bestialità del tiranno Mezenzio, che congiunti a’ corpi vivi corpi morti, così li lasciava, affinché dal fetore del cadavere ne venisse ucciso il vivo? Che rispondete? Vi contentereste di queste atrocità de’ carnefici tiranni più crudeli? Taci, sento che mi dice il Crisostomo; taci, perché questi son tormenti da burla, rispetto a quelli dell’inferno. Dunque rispetto all’inferno sarà una burla quella crudele invenzione praticata nell’Inghilterra, ove s’applica sul nudo ventre del misero condannato un esercito di rospi, vipere ed altri simili animali, sopra i quali, coperti con una gran conca di rame, si accende fuoco sì cocente, che quelle bestie inferocite tracciano il corpo del reo per fuggire dal fuoco; e tutto questo sarà una burla, se si paragoni con l’inferno? hæc ludrica sunt, et risus ad illa supplicia. Sarà una burla quel supplizio dato in Francia all’uccisore d’Enrico quarto, supplizio tanto inaudito; poiché il reo fu posto sopra d’un palco nella gran piazza, ed ivi lentamente con forbici roventi attanagliato nelle gambe, cosce, braccia e petto: indi nelle piaghe fatte dalle tenaglie si fuse olio, piombo, e zolfo bollentissimo; la mano poi infame, tenendo il coltello proditorio sopra un fuoco sulfureo, fu fatta lambiccare fino a rimanerne le ossa sole ignude; il corpo poi da quattro cavalli squarciato fu consumato nelle fiamme: e questo pure sarà una burla o Crisostomo? Si una burla se con l’inferno si paragoni: hæc ludrica sunt, risus ad illa supplicia. Burla dunque altresì sarà quel macello che nell’Olanda fu fatto di chi ferì con archibugiata Guglielmo Principe d’Oranges? Vedeasi sospeso il reo da’ nodi de’ pollici delle mani con cento libre di piombo appese a’ pollici de’ piedi, e con orrore rimiravasi da’ manigoldi spietatamente flagellato piover sangue. Indi deposto dal doloso eculeo, sottentrò ad esser martirizzato con acute cannette sotto le unghie; legato poi ad un palo dié la mano tra due lamine di ferro infocate ad arrostire con le ossa medesime, sicché il fetore ammorbava tutta la piazza, e per ultimo squarciatasi a pezzetti la carne con tenaglie acute, apertogli con un coltello il petto, cavate col cuore le viscere, fu quell’avanzo di cadavere in quattro parti spaccato. Burla sì, mi risponde il Boccadoro, se si ponga a confronto con i tormenti d’inferno: hæc ludrica sunt, risus ad illa supplicia. Ma che devo io aggiungere per fare un vero ritratto delle pene infernali? Forse gli strazi più stravaganti de’ Santi Martiri? tutto quello che vuoi, replica il Santo, perché tutto non è neppure un’ombra d’inferno: pone ferrum, ignem, et bestias, et si quid his difficilius, attamen nec umbra quidem sunt ad illa tormenta. Poi insomma, quanto vide Roma ed il mondo tutto di barbaro, sotto i Neroni, Diocleziani, e Valeriani, da’ quali la barbarie stessa fu superata; e se ti fai sognare altre più orrende invenzioni di Martiri tormentati, e sappi che neppur sarai un’ombra de’ tormenti d’inferno. E la ragione è manifesta; perché, se Iddio in questa vita ha permesso tormenti sì fieri, di Martirii spietati a gente santa e degna di premio, certo che non devono trattarli del pari nelle pene i cattivi ed i buoni; e perciò avrà nell’inferno apparecchiati assai più atroci tormenti per la canaglia degli schiavi suoi ribelli, e degni d’ogni più estremo castigo. O inferno, inferno, quanto mai sei terribile! Deh tu, o buon soldato Drittelmo, che, secondo la narrazione di Beda, avesti fortuna di dare un’occhiata all’inferno, allorché in Inghilterra, essendo tu morto, dopo un giorno risuscitasti, ed a guisa di sbalordito ti rintanasti per sempre in un romitaggio a scarnificarti con orrende penitenze; rispondendo a chi si stupiva di sì aspro trattamento: acerbiora vidi: ho veduto, ed ho sfuggito tormenti molto maggiori. Spiegaci di grazia ciò che volevi esprimere con quel continuo replicare, acerbiora vidi. Dimmi, volevi tu significare che tra quelle tenebre d’abisso, nelle quali dimorano acciecati da perpetue notti i dannati, altro non ne ritraggono che fumo, che orrore; che colaggiù si vedono i diavoli in forma sì spaventosa, che Caterina da Siena, avendone veduto un solo, e sol di passaggio; asserì che più tosto di vederlo un’altra volta si sarebbe eletta di camminare a piedi nudi sopra le braci ardenti fino al dì del Giudizio. Dimmi dunque, o Drittelmo, volevi tu significare questa pena, quando dicesti, acerbiora vidi? Sì, ma non basta: ho veduto di peggio. Vedesti forse quei miseri dannati, che colaggiù se ne stanno l’uno sull’altro ammassati, e l’uno l’altro premendo, come uve nel torchio. Sicché con la bocca applicata al cadavere marcio, che avranno sotto, saran costretti a sorbire quello stomacoso umore: essendo ben dovere che si faccia di feccia, chi beve, come acqua l’iniquità. Miei UU. gran pene sono queste, vedute da Drittelmo. Se vi basta l’animo tollerarle, quasi dissi, peccate; ma se no, desistete dalle offese di Dio, e date mente ad Agostino: vel mortem time, sinon times peccatum. Non times peccatum? time quo perducit peccatum. Acerbiora vidi; Drittelmo non si quieta; e dice aver veduto di peggio. Ma che vedeste mai di peggio? Forse quei storcimenti de’ dannati per le puzze intollerabili, o de’ corpi fetentissima scaturigine de’ vermi, o della carcere. Cloaca delle più stomacose sporcizie; pena sì grande, che San Martino all’intollerabile puzza lasciata nella sua camera da un demonio comparsogli, poco meno che tramortito, disse: o inferno, che fetore sarà il tuo con tanti e tanti milioni di dannati e di demoni; se un diavolo solo col fuo fetore ha cangiata la mia camera in un inferno? Dimmi, o Drittelmo, è questo quel supplizio più duro che vedesti nell’inferno? Sì, questo ancora io vidi; ma non basta: ho veduto di peggio. Ben t’intendo; hai veduto che i miseri dannati sono di continuo maltrattati, lacerati e sbranati da quei demoni, nei quali non è punto di compassione. Acerbiora vidi; ma se vedesti ancor di peggio, tu non vuoi intendere d’altro, che del fuoco chiamato da Curzio l’ultimo de’ supplizi, ignis suppliciorum ultimus est; e vuoi dire che hai veduti i dannati avviluppati tra fiamme sì furiose che questo fuoco nostrale al parere di Sant’Anselmo è come fuoco dipinto: sic istum naturalem ignem vincit, ut iste pictum ignem; non lo credete? Ditemi. Ricordano le Storie, che Giorgio Castriotta avendo mandato a Maometto Secondo, signore de’ Turchi, quella celebre spada, con cui tagliava di netto il collo ad un bue, all’udir poi, che niuno di quanti si erano a ciò provati avevano mai potuto conseguire gloria sì bella, saviamente rispose: punto non meravigliarsi di ciò avendo egli mandata la spada, ma non il braccio. Tanto io pure dirò a voi: se mai per forte vi paresse incredibile la forza del fuoco infernale, misurandolo alla vista del nostro. Il fuoco in mano della natura è come una spada in mano d’una donna, ma il fuoco dell’inferno è come una spada in mano di Dio: e perciò non è meraviglia, se maneggiata colaggiù dalla Onnipotenza, faccia prove tanto eccedenti il nostro intendere. Per questo Iddio non fu contento di dire, si acuero ut fulgur gladium meum, ma v’aggiunse, et arripuerit Judicium manus mea, perché si sappia che questa spada di fuoco non tanto opera per la propria virtù, quanto perché è guidata dalla mano divina. – Si trovano oggi de’ fuochi artificiali, i quali arrivano ad ardere fino nelle acque; ed i Chimici fanno accendere nell’Antimonio un fuoco sì poderoso, si penetrante, che in paragone d’esso le fiamme delle fucine più ardenti paion fiamme di paglia. Quanto farà dunque furioso il fuoco infernale, fuoco artificiato bensì, ma dalla mano Divina? E per farvi intendere, esser questo fuoco d’inferno tanto spietato, riflettete, che il nostro fuoco fu creato da Dio per beneficio nostro; per scaldarci, per ricrearci; ma il fuoco infernale è creato, non per servo, ma per carnefice; è acceso in uno zolfo formato a posta per tormentare i peccatori e però se tanto tormenta i rei quella vampa, ch’è un dono della Divina beneficenza e liberalità; quanto più dovrà tormentare quello che è uno sfogo della Divina Giustizia? Io mi do a credere che se in questo fuoco vi cadesse una montagna di macigni e marmi durissimi, vi si disfarebbe tutta come cera, a facie tua registrò Isaia, montes defluerent. Certo è che un fuoco tanto minore, quanto è quello del Vesuvio e Mongibello liquefà i sassi, e riduce in cenere i macigni più duri spargendoli su’ Campi a guisa di nembi; acciocché gli uomini abbiano avanti gli occhi on leggiero abbozzo di quel fuoco molto maggiore che la fede ci addita a distruggimento degli scellerati. Son sì terribili quelle fiamme, R. A. che solo un infelice scolaro dall’Inferno comparso al suo maestro vivente, giusta la promessa gli stilò una goccia di sudore di quel gran fuoco sopra la mano ed in un istante da parte a parte lo traforò con spasimo da morirne. Or se il sudore cagionato da quelle fiamme che bruciano i dannati è più cocente ed ha forza tanto maggiore del nostro fuoco, chi negherà che il nostro fuoco non debba chiamarsi dipinto a paragone di quello dell’inferno? Avari, per voi sono preparate quelle fornaci, per voi ardono quelle fiamme, o irriverenti alle Chiese; per voi, o mormoratori; per voi bestemmiatori, per voi, o donne se foste vane con detrimento della vostra e dell’altrui onestà, per voi o padri, se male educaste i figli, se non soddisfaceste a’ legati pii, se non pagaste le mercedi, se v’ingrassaste con la roba altrui. Per voi o peccatori è preparato quest’inferno sì tormentoso di fuoco sì terribile. E pure ecco là colui, ecco là colei che, come se non gli bastasse per portarsi all’inferno quella sfrenata lascivia in cui vivono, hanno preso per cavalli di rilasso a covare in cuore un odio diabolico ed una cieca avarizia. – Il leone (Dio immortale) atterrito dalla vista del fuoco; ferma la zampa ed abbassa l’orgoglio, e tu peccatore e tu peccatrice alla vista dell’inferno non saprai fermare il passo al corso delle tue tante scelleraggini? Segui pure ed aspettati di peggio; poiché Drittelmo continua ad esclamare: acerbiora vidi. Dunque v’è nell’inferno tormento più fiero del fuoco? Sì! Pensieri miei disperati, e che cosa posso immaginarmi di più crudele? Finiscila una volta, Drittelmo, e palesa espressamente ciò che vedeste di più spietato. Non lo posso dire, pare risponda con Geremia, perché anche esso avendo veduto in spirito l’infernal macello esclamò secretum meum mihi; cioè, come spiega San Girolamo, non possum narrare. Non è possibile l’accennare, non che esprimere ciò che attonito vidi di terribile nell’inferno. E pure io vorrei fare apprendere qualche poco l’atrocità delle infernali pene, a chi mi ascolta. Ecco, che fò tutto lo sforzo per abbozzarvele UU. prendendo le parole di Dio nel Deuteronomio al ventesimoterzo. Udite: è Dio che parla, Congregabo super eos mala, rovescerò, dice Egli, sopra de’ dannati nell’inferno quanti castighi saprò mai inventare; non voglio che manchi loro neppure un tormento. Li voglio afflitti, flagellati, scarnificati, come appunto afferma l’Angelico: Nihil erit in damnatis, quod non fit eis materia, causa tristitiæ. Non consentono i medici che il corpo umano possa in un tempo stesso venire afflitto da tutti i mali di cui per altro è capace, perché essendo molti di questi l’uno all’altro contrari di qualità, non sono compatibili ad un tempo stesso in uno stesso soggetto; ma tale opinione, dice Drittelmo non corre colaggiù, nell’inferno, dove le pene, benché diverse, non saranno tra sé contrarie, ma si daranno la mano e due veleni non comporranno un antidoto, ma un tossico più mortale. In somma si verificheranno le parole divine: congregabo super eos mala. Tutti, ma tutti i mali piomberanno ad un tempo sopra de’ dannati. Or sì, che penso e Drittelmo d’aver trovato l’ultimo de’ supplizi, mentre di tutti i supplizi ne ho composto un supplicio solo: congregabo super eos mala: appunto quasi sdegnato mi risponde soggiungendo acerbiora vidit. Si si, taci, t’intendo. Ascoltatemi, o peccatori; e, se questo ultimo tormento de’ dannati non vi mette in capo l’orrore all’iniquità, sicché lasciate gli odi, abbandoniate le amicizie indegne, restituiate l’altrui, io per me, quasi dissi, dispero della vostra salute. Drittelmo si fa intendere, e dice che l’ultimo de’ supplizi tra’ dannati, è che colaggiù in quell’abisso sempre si morirà senza mai morire; sarà la morte immortale, e non avrà il bene del fine di tutti i mali: et dixi pertit finis meus. O eternità, eternità! voi miseri dannati, cercherete la morte per ristoro a’ vostri mali e mai la troverete: quærent mortem, et non invenient. Lo scorpione cinto d’ogni intorno da carboni accesi, disperato, si morde al fine tanto da sé medesimo e si uccide; ma quei meschini, non solo circondati, ma penetrati interiormente dal fuoco, non avranno tanta forza da terminare in simile modo i loro guai; bisognerà che sempre vivano in un continuo e disperato morire; domanderanno, come quel miserabile chiedeva a Tiberio imperatore la morte, a fine di terminare le molestie della prigione; e ne avranno per rispota quella che diede a questo infelice il monarca: nondum mecum in gratiam rediisit. La morte sarebbe un sogno d’essere ritornati in grazia, perché li leverebbe da quel continuo ed acerbissimo morire. – Santo Profeta Reale, che parlavi dell’eternità de’ dannati allorché dicesti: erit tempus eorum in sæcula, che volevi mai esprimere con quella parola in sæcula? Volevi forse dire, che quei miseri peneranno fino a tanto, che un piccolo cardellino tornato a bere una sola goccia per Anno, potesse giungere a seccar tutti i mari? Più … in sæcula. Volevi forse dire, che peneranno fino a tanto che un minuto vermetto tornato a dare un sol morso per anno, potesse giungere a divorar tutti i boschi? Più … , in sæcula. Volete dire, che peneranno fino a tanto che una leggera formica tornata a muovere un sol passo per anno, potesse giungere a girar tutta la terra? più … in sæcula. Velete voi dire, che se tutto il Mondo fosse pieno di minutissima arena, ed ogni secolo ne fosse tolto un sol grano, allora lasceranno i dannati di penare, quando tutto l’universo sarà vuotato? Più … in sæcula. Ma che volete voi dire? Forse volete dire che se questo mondo fosse tutto fatto di bronzo, e ad ogni secolo gli fosse dato un colpo allor lasceranno di penare quei miseri, quando l’universo sia tutto infranto? Più, più, in sæcula. Ma, Dio immortale! Io non intendo; facciamo dunque così per capire in qualche modo questa eternità. Fingiamo che un dannato, dopo ogni milione di secoli sparga due lacrime sole. Or ditemi Santo David, resterà egli di penare, quando abbia pianto tanto che le sue lacrime fossero bastanti a formare un Diluvio maggior di quello nel quale naufragò un mondo intero? Appunto, appunto, risponde il santo Profeta: tacete, che queste son similitudini da fanciullo: in sæcula, in sæcula, che è quanto dire secoli senza numero, senza termine, senza tassa. O eternità! O eternità! Rupi, grotte, spelonche, ove siete, perché venga attonito a rintanarmi dentro di voi, finché io giunga a capire… inferno, ed inferno eterno! – Ben capì questa verità la famosa peccatrice, quantunque idolatra, Eudocia colà nella città di Eliopoli in Fenicia. Era Eudocia dotata d’una bellezza sì rara, e d’una grazia sì manierosa, che non aveva pari. Nel più bel fiore della sua età si arrende ad un impudico amante; e perché nel convito de’ piaceri un sol cibo non sazia ma stuzzica l’appetito d’un altro, passò tant’oltre, che vende’ il suo corpo a chiunque lo voleva pagar ben caro. Onde non solo persone private, ma eziandio principi, rapiti dalla di lei beltà, andavano a trovarla, sicché in breve tempo ammassò un tesoro di ricchezze, ed una suppellettile da regina; albergava in un gran palazzo vicino alla porta della città, forse per esser più pronta a ricevere i forestieri che anche di lontano venivano attratti da lei calamita d’inferno. Iddio però, che la voleva à sé, usò un tratto della sua Providenza per guadagnarla. Dispose pertanto, che Germano santissimo monaco, ritornando dal pellegrinaggio di Palestina, passasse per Eliopoli, e da un buon Cristiano fosse alloggiato in una casa vicino al palazzo della rea femmina. Dopo una breve refezione fu condotto Germano in una camera a riposare contiguo al gabinetto ove stava l’infame letto d’Eudocia. Il monaco, secondo il suo costume, sulla mezza notte cominciò con alta voce a cantare i Salmi: indi preso in mano un sacro libro, che sempre portava seco, si diede a leggere con voce parimente sonora, quello, che lo Spirito Santo gli presentò innanzi ed era appunto delle pene eterne de’ peccatori nell’inferno. Or la divina Provvidenza, che voleva la conversione d’Eudocia, dispose ch’ella non solo fosse sola in quella notte, ma tutto udisse e tutta commossa si sentisse agitare da pensieri spaventosi; per tanto giunto il giorno chiama a sé un paggio, l’invia a ricercare di chi quella notte vicino a lei avesse salmeggiato, e lo pregasse portarsi da lei. Venne subito Germano, così inspirato da Dio, e sentendosi interrogare chi fosse, e d’onde venisse, a tutto rispose: e con tale occasione si mise a darle contezza delle verità evangeliche e particolarmente de’ castighi preparati per i lascivi, superbi ed avari. Adunque per me, replicò ella, che sono un’impudica, vana e superba, sono preparate pene sì grandi? Certo che sì, replicò il monaco, ma non vi sarebbe rimedio per liberarmene? Sì, soggiunse Germano, perché rinunciati i piaceri del senso, distribuiate le ricchezze mal acquistate a’ poveri e riceviate il santo Battesimo. Accettò la contrita donna il consiglio e, risoluta di prepararsi con penitenza al Sacramento, chiamata a sé la cameriera, ordinolle, che non introducesse a sé persona alcuna, e che a tutti dicesse, esser la signora fuori di casa. Se ne stava dunque ritirata la penitente Eudocia, quando apparitole un Angelo dal Cielo, le mostrò le pene dell’inferno alle quali era destinata se non si ravvedeva, e l’animò alla penitenza. Allora Eudocia vestita di ruvida tonaca si portò da Teodoro, Vescovo di Eliopoli ed a lui consegnò le ampie sue ricchezze che servirono per sostentamento de’ poveri, e per fondar monasteri. Indi ritiratasi in un claustro di sacre donne, cominciò vita santa e con tal lustro che di lì a poco fu fatta superiora di quella religiosa adunanza. Il diavolo che non poteva sopportar tanta perdita, sollecitò un certo Filostrato, che era uno de’ più cari amanti d’Eudocia, il quale adoprata ogn’arte per giungere a parlare ad Eudocia per distoglierla, giunse a fingersi monaco. Gli riuscì, ed a solo a solo in parlatorio così le disse: Eudocia, io vi vedo pallida e macilenta e con intorno una ruvida tunica, perché quel velo di canape in capo? Perché quella corda attorno al collo? Povera Eudocia quanto siete cambiata da quella che eravate! I vostri amanti v’aspettano; se temete l’inferno, vi sarà tempo da far penitenza. Su, risolvete, tornate, lasciate, Eudocia, allorché più voleva dire, con gli occhi bassi e voce adirata chiamò Dio che lo punisse; fu castigato, perché cadde mezzo morto, fu ravvivato per le preghiere di Eudocia, e per le medesime si convertì. Or io dico: mirate quanto poté in una idolatra il pensiero dell’inferno; la mutò del tutto, né solo questo pensiero convertì lei, ma la fece convertitrice degli altri. E voi Cristiani al pensiero di quelle pene non risorgerete da’ vizi? Su, su, dite ancor voi: inferno o penitenza!

LIMOSINA

S. Giovanni Crisostomo dice, che quello infelice ricco, non è sepolto nell’inferno perché fosse ricco, ma perché non fece elemosina a Lazaro mendico … non enim quoniam dives erat puniebatur, sed quia misericordiam non exibuit. Le ricchezze non mandano a casa del diavolo, ma bensì la crudeltà verso de’ poveri. E Sant’Agostino dice che ante fores gehennæ stat misericordia, avanti le porte dell’inferno vi sta la misericordia divina, ma voi piuttosto direte che vi sta la giustizia, perché nell’inferno, dove nulla est redemptio, non vi ha da fare la misericordia. V’ingannate, replica Sant’Agostino; v’ha da fare assai ed eccone la ragione, ante fores gehennæ stat misericordia, ut nullum misericordem in illum mitti carcerem permittat … la misericordia sta sulla porta dell’inferno, per non lasciare che laggiù v’entri alcuna persona misericordiosa; siate dunque liberali verso de’ poveri.

SECONDA PARTE.

Passeggiando un dì per una Galleria, Margherita d’Austria moglie di Filippo Terzo, teneva fisso lo sguardo in certa parte, e sospirando piangeva. Interrogata da una dama della cagione del suo pianto, additolle una pittura in cui vedevasi un capo di due strade, una delle quali conduceva ad un monte rappresentante il Paradiso; l’altra ad una caverna simbolo dell’inferno, e ponendo il dito sul principio del bivio, disse in hoc bivio adhuc sum, et non vis, ut plorem? Ah, che per verità chi ha un poco di stima dell’anima e senno in capo, dovrebbe disfarsi in lacrime per il solo pericolo di potersi dannare. Se fu Spirito di Dio quello che mosse la lingua del Crisostomo allorché predicando agli Antiocheni, disse: Quot esse putatis in hac Civitate, qui salus fiant e soggiunse: non possunt in tot millibus inveniri centum, qui salventur; quin et de illis dubito; e pure Antiochia era città grandissima, dove fioriva la fede, e trionfava la pietà. Se il Santo lo disse mosso da Spirito Divino: Città mia cara, a rivederci. Se di soli cento si prometteva, anzi neppur di tanti si assicurava della salute il Boccadoro, in una Antiochia; quanti dunque de’ tuoi cittadini, anche di questi che ora mi odono, ne andranno all’inferno? Che Iddio non lo voglia: neppur d’uno! Ditemi, UU. Questa sola paura non vi fa battere il cuore? Ma che orrore sarebbe il vostro, se sapeste di certo che alcuni di questi qui presenti si dovessero dannare? Ahime! Con che compassione li mirereste! E pare, se ora, prima d’uscir di Chiesa non vi risolvete a mutar vita, io quasi dissi, dispero della vostra salute. – Porilio Ambasciatore Romano disegnò, come sapete, un cerchio attorno ad Antioco, e gli predisse il tempo della ritirata dicendogli: hic stans delibera: non uscir di qui prima d’aver deliberato ciò che vuoi fare. Altrettanto io voglio praticar con voi. Fratelli miei, peccatori: io disegno intorno a voi la voragine d’inferno col circolo dell’eternità, e vi dico hic stans delibera, quì non vi è strada di mezzo: o inferno o lasciare la mala pratica: o inferno o restituire e la fama e la roba; o inferno o pacificarsi col prossimo: o inferno, o mutazione di costumi, peccatori miei cari. Risolvete una volta da vero di abbandonare il peccato e di non ingannar più, tradire voi stessi, perché i piaceri sono brevi, il penare è eterno. Lutero, quell’iniquo, quell’indegno che con lacrime di sangue fa tuttavia piangere alla Chiesa la perdita del settentrione, scordato della coscienza, della legge di Dio, pur qualche volta andava seco stesso dicendo: Luter nunc bene quid autem postea? Lutero, le cose ora vanno bene, spassi non mancano, crapule abbondano; piaceri di senso quanti ne vuoi, nunc bene, quid autem postea?… ma morto, che sarà di te, che sarà? Così vorrei io, che alcuni seguaci di Lutero, in quanto al vizio di senso, e crapula a se stesso dicessero, nunc bene, quid autem postea? Ah, che, se io vivo così licenziosamente: se non so staccarmi da quella pratica, se seguiterò a vivere in questi vizi: le cose andranno bene finché si vive: ma dopo all’inferno, alle pene  a’ tormenti, all’eternità de mali … – Dio immortale! io esco fuori di me, mentre rifletto che quantunque si sappiano queste verità, ad ogni modo si elegge di compiacere a’ sensi in vita; né si cura l’inferno. Così in fatti non mostrò curarsene quell’infelice cavaliere, di cui per degni rispetti taccio e nome e patria. Gran caso: uditemi. Aveva questi amicizia da lungo tempo con una dama quanto nobile per il sangue, altrettanto indegna per la professione. Accortisi i parenti della vergognosa tresca, risolsero toglier la macchia al parentado col sangue dell’adultero. Fingesi pertanto, che la Signora mandi a chiamare secondo il solito in ora stabilita l’amante, egli si allestisce all’andare; e già s’incammina, quando un buono amico accostatoglisi all’orecchio gli dice: avvertite, non andate … e perché? Rispose il cavaliere. Perché, replicò l’altro, son preparate insidie alla vostra vita; e invece di diletti incontrerete la morte; appunto ripigliò il cavaliere innamorato, chi mi chiama macchinerebbe la morte a chi m’insidiasse alla vita. No, so di certo, soggiunse l’amico esservi gente che sta per farvela: e se morirete andrete all’inferno. Dio eterno inorridite AA. a ciò, che segue. Nell’udir che fece il cavaliere: morirete ed andrete all’inferno, rispose con bocca esecranda, accecato dal disordinato affetto: per donna Maria si può andare all’inferno! Così disse e così seguì. Andò al posto, e restò sul tiro. Anima miserabile, anima dannata, vien qua, e dimmi ora, se tu sia del medesimo parere; già che ora provi ciò, che sia inferno, adesso che tu peni, cruci ed ardi nell’eternità delle pene, che dici? Si può andare per donna Maria all’inferno? – Ahime! Eccolo, eccolo; oh come brutto, come fetente, come va buttando fiamme dagli occhi, dalla bocca, dalle narici, ed orecchie! oh come è d’ogn’intorno circondato, anzi imbevuto tutto di fuoco, più che il ferro nella fornace! Piange, si contorce, smania, si dispera … Su o disgraziato: ebbene per una dama tale si può andare all’Inferno? Ti trovi contento dell’elezione? Ah me sfortunato, ah bestiale che to fui! Maledetta quella femmina scellerata, e quel pazzo mio capriccio. No, no, che non si può per una carogna in breve tempo goduta, venire in questi tormenti per tutta una eternità. O se potessi tornar fuori dell’inferno! Ma che faresti? vivrei, risponde, da buon Cristiano, e farei acerbissima penitenza de’ peccati commessi. Taci, taci, non vi è più tempo: conveniva pensarvi prima. Voi sì, cari UU. siete a tempo. Che risolvete pertanto? O inferno, o penitenza, o penitenza, o inferno eterno. Intendetela, e considerate, che è pazzia da chi non crede né Paradiso, né Dio, voler per breve piacere perdere il Cielo, ed acquistare l’inferno.

QUARESIMALE (XV)

QUARESIMALE (XIII)

QUARESIMALE (XIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI Gesù.

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMATERZA
Nella Feria quarta della Domenica seconda.


Si mostra la cecità di coloro che non tengono conto dell’anima così preziosa, perché eterna, perché irrecuperabile, e perciò nulla fanno per salvarla, tutto operano per dannarla.

Sicut Filius hominis non venit ministrari, sed ministrare; et dare
animam suam Redemptionem pro multis
S. Matt. cap. 20.

Questa volta sì, che ha ragione d’esclamare Isaia: obstupescite Cœli, obstupescite: e voi Cherubini d’amore copritevi pure, in segno d’estremo cordoglio, con le vostre ali, la faccia beata. Angeli Santi Custodi, se altre volte vi mostrate mesti per qualche errore commesso da’ vostri fedeli, ora deploratene l’eccesso. E voi Santi Avvocati ritirate il vostro patrocinio: ritirate la vostra protezione, o Maria. – Non è più tempo di compatir quei Cristiani che vilipendono quel gran tesoro, l’anima loro, per cui il Figlio di Dio venit dare animam suam. Mio Dio, armatevi pure la destra di fulmini e scaricate i più severi contro di quelli che, non solo non tengono conto dell’anima loro sì preziosa, perché eterna, e irrecuperabile; ma nulla operano per salvarla tutto  perano per dannarla. Fra, i tanti errori degli eretici Manichei, certo non deve porsi in ultimo luogo quel credere, quello stimare che essi facevano d’aver due anime; quasi, che perdutane una, ne potessero riacquistare la perdita con l’assicuramento della seconda. Piacesse al Cielo, che tra i miei UU. non vi fosse taluno che avesse una sì storta e sì eretica opinione in testa; già che talmente conculcano, talmente strapazzano quella unica e sola anima che hanno; che par quasi vengano a dire, se non con le parole, certo co’ fatti, d’aver due anime; onde, perduta quella unica che veramente hanno, ne possano ristorare la perdita con l’acquisto della seconda. Ah miei UU. non fareste così, se consideraste il bel tesoro che dentro di voi avete dell’anima vostra. È vero, ella è cittadina terrena, ma d’origine celeste. Sapete quanto vale? Val tanto, quanto vale, quanto costa il Sangue e la Vita d’un Dio fatto Uomo; magna res est Anima, quæ Christi Sanguine redemptæst. Qua, qua, miei UU. che voglio farvi vedere quanto gran male fate a non procurare con ogni studio e fatica la salute dell’anima vostra così preziosa. Ditemi, che non dovreste voi fare per salute d’un’anima, quando anche questa fosse non vostra, ma d’altri? Figuratevi d’esser, quanti qui siete, salvi, tutti predestinati, conforme io bramo; sappiate però, che si turba questa nostra comune allegrezza con la riflessione che l’anima di quel povero disgraziato, che voi vedete colà, sta in pericolo di perdersi, quando voi non l’aiutate. Poverino miratelo come si trova; voi tutti sicuri di salute, egli solo in pericolo; e come non vorrete assicurar la salute sua ad ogni gran costo? Tanto più, che si tratta dell’anima non d’un amico, non d’un parente, ma di vostro padre. Vostro padre è quello che sta in pericolo di perdersi eternamente. Or se così veramente fosse, e che non dovreste voi fare per mettere in sicuro la di lui anima? Certo, che voi, quando tanto bisognasse, dovreste vendere le suppellettili più preziose di vostra casa, le gioie più pregiate de’ vostri scrigni. Certo, che voi vi dovreste, quando tanto si richiedesse, intraprendere i viaggi più lunghi a’ Santuari i più remoti, affliggervi con penitenze, estenuarvi con digiuni. Quando per salvar quest’anima fosse necessario ritirarsi dal mondo e seppellirsi in un eremo, abitator de’ boschi, e compagno di fiere, voi lo dovreste fare e dire: addio patria, addio roba, addio veglie, balli, feste, piaceri addio; addio sanità e vita, purché si salvi quell’anima. Certo, che il prezzo d’ogni anima è tanto grande, che tutto questo dovreste farlo. Or, se tanto voi dovreste fare per salvar l’anima altrui, quanto più dovete farlo per salvar l’anima vostra, la qual deve importarvi più che non importa la salute del mondo tutto! Quid prodest homini si universum mundum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur? O pazzia intollerabile degli uomini stolti del mondo, i quali dovrebbero esser pronti ad abbracciare ogni patimento, abbandonare ogni piacere, pur che salvassero un’anima, e per l’anima loro non vogliono muover neppure un passo? Figlio, per salvar l’anima tua bisogna ritirarsi da quel compagno; e si fa del sordo. Giovane, per salvarvi bisogna lasciare gli amori; non più in quella casa! Non si ode; quell’odio, quella roba; non si risponde? O che pazzia, torno a dirе mentre si dovrebbe far tutto per salvare altri, non si fa nulla per salvar se’. Cari miei UU. voi solete dire, che delle cose sue bisogna tenerne gran conto; avete ragione dite bene. Ma rispondetemi, avete voi veramente niuna cosa che sia tanto vostra, quanto vostra e l’anima? Appunto, appunto … anima sua dice il Profeta, non per certo. Non son vostre le ricchezze; non son vostri i piaceri; non son vostre le bellezze, le vanità: perché queste cose al più v’accompagnano al sepolcro. Non così l’anima: l’anima è veramente vostra: l’anima sola è propriamente vostra, e perché dunque non ne tenete conto? Quando voi non voleste tener conto dell’anima, perché vostra, almeno tenetene conto, perché ella è immortale ed eterna. Se la vita dell’anima vostra si stendesse a soli pochi secoli, anzi ad un secolo solo, quanto la dovreste stimare per esser vita d’un’anima? Quanto, dunque, la dovrete stimare mentre è vita non di secoli, ma d’eternità? Sentite: tra pochi anni questo corpo si ridurrà in polvere e cenere, e sarà chiuso entro un sepolcro, ma l’anima, dopo che saranno passati tanti milioni d’anni, quante sono tutte le arene del mare, quante sono tutte le gocce dell’acqua, che accoglie in seno, non sarà diminuito pure un momento dalla sua vita sempiterna e voi non la volete stimare, non volete tenerne conto, ma volete seguitare in quella amicizia, in quell’odio, in quell’interesse? Deh, se non volete prezzar l’anima, perché vostra, perché eterna, prezzatela almeno perché ella è irrecuperabile… che vale a dire: se si perde una volta, è  perduta per sempre, non vi è più modo di riacquistarla. E non è questo un gran motivo per tener conto dell’anima tua? Interrogato, come sapete, quello spartano a qual fine i giudici della sua città indugiassero tanto a dar la morte a’ malfattori, rispose accortamente: perché non ci è luogo da poterla emendare con richiamare in vita chi a sorte non fosse stato ben condannato: non est correctio errori. Ah dilettissimi, se si perde quest’anima, qual rimedio v’è mai per recuperarla? Chi può mai dar vanto d’aver ripescato un’anima da quelle fiamme? E molto meno, chi si può dar vanto d’essere per sua propria forza ritornato da quel profondo mai più a galla? Niuno, niuno. Se Geremia, gettato in quella fangosa cisterna, trovò un Abimelecco caritativo, che porgendogli molli funi poté attaccarvisi, e risalire all’alto, tu però peccatore, se cadi in quell’abisso non troverai in eterno chi ti ritragga da quella fossa non di fango, ma di zolfo inestinguibile. Fu sepellito Daniele nel lago de’ leoni: trovò però un re potente, che mosso a pietà ne lo fece uscire: Ma tu peccatore, se sarai posto in quel lago non di leoni, ma di diavoli, non ti aspettar già che il Re del Cielo, per compassione de’ tuoi tormenti, ti faccia aprir la porta; Egli è adirato con te in sempiterno: Populus cui iratus est Dominus in æternum e le Chiavi di quella porta fatale sono queste due, un sempre, un mai: un sempre penare, un non mai trovar requie. Le fiamme stesse furon cortesi a quei tre giovani in Babilonia dentro la loro fornace; ma se tu peccatore piomberai in quella fornace infernale, non sperar già un somigliante favore, il tuo fuoco non si smorzerà mai, il tuo dolore non avrà mai tregua, ut urant, et sentiant in sempiternum: in una parola, chi scende giù non torna più su … qui descenderit non ascendit. In inferno nulla est redemptio. Quanto dunque, miei uditori, converrebbe pensar bene à collocare in buono stato l’anima sua; quanto affaticarsi, quanto sudare, mentre l’errore non ha rimedio alcuno? – E o disgrazia da deplorarsi a lacrime di sangue! Avere un’anima eterna, irrecuperabile, e pur non la prezzare! Si tratta un affare di tanta importanza quanto è salvarsi, e si trascura? Dite, e si trascura? Ditemi, cosa avete patito finora per l’anima per salvarla? La pazienza, voi ben sapete essere un vero contrassegno d’amore; così Giacobbe, perché amava Rachele, stentò quattordici anni per averla; e pur gli parvero pochi a sì ampia mercede: videbantur illi pauci per amoris magnitudine. Or tu peccatore, che tempi hai tollerati per porre in sicuro l’anima? Mostratemi un poco le lividire delle discipline; gli smagrimenti per i digiuni; i calli delle ginocchia per le continue orazioni; hai tu fatto nulla di questo per riacquistare l’anima che perdesti per il peccato? Padre, non ho fatto nulla di ciò, perché son debole, non ho complessione che possa tanto. Mi meraviglio di voi, non è vero; mentre potete applicar la testa per i conti, per gli interessi, per gli affari domestici; come dunque non potete per l’anima? Deh contentatevi, che io riflettendo con Teodoreto, a Pietro che dorme nell’orto, allorché doveva orare a pro dell’anima, e che veglia per totam noctem a pro del corpo, compianga il peccatore che dorme agl’interessi della salute eterna, e sta desto ad utile di questa vita mortale, per totam noctem vigilat corpori, qui animæ perboram vigilare non potest. Si veglia le notti intere per giocare, per ballare, per star sotto quella finestra, per vincere quella lite, si suda giorno e notte girando per tribunali per totam noctem; si stenta con invenzioni, con macchine, con imbasciate, con biglietti, con presenti, agli ardori del sole, a ghiacci del verno, per giungere a quella preda tante volte insidiata e non ancor conseguita, per totam noctem laborantes. Voi avrete veduto che taluna di quelle donne che m’ascoltano, per ornare quel palmo di viso che ella ha, si leverà dal letto prima del sole, né partirà dallo specchio prima del mezzo dì, tormenterà la sua vita per farla venire più all’usanza, con penosissime strette di busti. Così pure quel misero mercadante intraprenderà lunghissimi viaggi per mare e per terra, con stenti, con sudori, con pericolo di morte, per totam noctem, tutto si fa senza utile, anzi con danno, e poi questi medesimi a pro dell’anima non hanno testa che regga, braccio che possano ed afferiscono di non patire, perché non possono. O stolti, o ciechi, che tutto potete patir per il corpo, nulla per l’anima. Ma, quasi dissi, starei contento, se non avessero patito niente per l’anima per porla in sicuro; quando almeno avessero a tale effetto operato qualche cosa. Se mi rivolto ai claustri de’ religiosi, li trovo, ora salmeggianti in coro, or penitenti nelle celle, or astinenti ne’ refettori, or con la mente in Dio per le meditazioni, operano per l’anima. Ne vedo gran parte di loro vestiti di ruvido sacco, scalzi nel piede, cinti di ruvida corda, tutto è operar per l’anima. Se poi volo col pensiero a’ recinti di sacre vergini, le vedo segregate dal mondo, viver soggette all’altrui volere, per piacere solamente a Dio, e salvar l’anima. Ma se io mi rivolto a voi peccatori per interrogarvi, che cosa operate per l’anima vostra? Voi mi rispondete: che fate limosine; ed io vi replico ma non pagate debiti, non soddisfate mercedi:… che recitare corone e visitare chiese; ma le vostre corone sono con più distrazioni che le Ave Maria; e le vostre visite a’ templi sono più per mirare le creature che per venerare le sacre immagini; se voi vi confessate e comunicate, ditemi: con qual preparazione? Piaccia à Dio che non vi andiate con affetti al peccato. Onde è, che io posso dire, che non avete operato nulla per l’anima vostra. O che miseria o che confusione per un’anima sola, eterna, irrecuperabile, non solo non aver patito, ma neppure operato nulla per porla in salvo. Ad ogni modo, ed è pur vero; non dispererei della salute di costoro tanto trascurati quando quantunque non avessero mai né patito, né operato per l’anima, almeno qualche volta vi pensassero. O Dio! Ed è pur vero. O neppur vi pensano: vada l’anima nelle mani di chi si sia, nelle mani d’un compagno, con cui si discorrerà di tutto; nelle mani d’un sgherro, con cui si viva nelle nimicizie; nelle mani d’un confessore, che sia di quei medici che sol toccano il polso, senza provveder di rimedi; di quei cerulici che sol mirano la piaga ma non vi pongono impiastri, non la fasciano: ben si vede, se così sarete, che non vi pensate. Non così fece la povera madre del pellegrinetto Tobia. Lo aveva, come voi sapete, consegnato ad un Angelo, benché da lei non conosciuto per tale, ma bensì per uomo di segnalata bontà; ma perché ad ogni modo temeva di qualche incontro, dice il sacro Testo, che flebat irremediabilibus lacrymis: non trovava pace, si querelava, usciva quasi frenetica fuor di casa, girava tutte le strade, visitava tutte le porte per veder se veniva, e talora, sperando di scoprirlo di lontano saliva su qualche colle più rilevato: e non vedendolo, piena di lacrime se ne tornava a casa col cuore tutto in amarezza. Questa è la gelosia, che dovreste avere dell’anima vostra; ma voi non ci pensate, anzi siete di quelli che dant Dilectam in manu inimicorum suorum, fate quanto potete per dannarla. Sì, per dannarla, ed a guisa di disperati andate adocchiando lo scoglio più alto per precipitarvi con morte più sicura. Rispondetemi, e poi negatemelo. Se v’è tra voi una giovane, la quale abbia nome d’esser la più ardita delle altre, più petulante e sfacciata, questa è quella con la quale voi bramate consumare il tempo in vari discorsi, in motteggiare, in prenderla per la mano. Se v’è un compagno che sappia più degli altri far la parte del diavolo con burlarsi delle devozioni, con vantarsi de’ peccati commessi, con sedurre or questa, or quella, questo compagno, questo seduttore, questo demonio incarnato, questo è il vostro amico più caro, a questo scoprite tutti i disegni, con questo comunicate i vostri pensieri. Se v’è un confessore, che trinci assoluzioni, senza mai né rispondere, né interrogare, e talora ne sentite, questo si cerca: se v’è un ridotto di giuoco, ove si mormori e si bestemmi; questo è quello, che si frequenta. E non è questo un procurare a tutto potere la rovina dell’anima sua? Povera anima! quanto sei odiata da tanti Cristiani, i quali studiano giorno e notte la maniera di rovinarti senza rimedio, ed entrano nel numero di coloro che moliuntur fræudes contra Animas suas: cercano le vie di condurre l’anima propria in perdizione; e si servono sino delle frodi, e de’ stratagemmi per giungere con le insidie, dove non credono poter arrivare con faccia scoperta, moliuntur fraudes contra animas suas. Non così fece un certo giovane, figlio di nobile capitano, il quale pensando un dì seco stesso al pericolo manifesto di dannarsi, in cui si trova chi corre la via larga del mondo, risolve di racchiudersi tra le strettezze di vita religiosa. Portossi, dunque, risoluto di compire il suo desiderio, in una di quelle antiche solitudini de’ Santi Padri dell’eremo, e ritrovato uno de Monasteri più accreditati, si gettò ai piedi dell’Abbate, e con grande umiltà gli chiese l’abito monacale; ma l’Abbate, vedendolo sì delicato, non lo credette abile a reggere tanto peso; e, per escluderlo soavemente: andate, gli disse, figliuolo, perché questo luogo non è per voi. Voi siete avvezzo ad esser servito, e qui bisogna servire; voi siete avvezzo a comandare, a bravare, e qui bisogna soffrire e tacere; voi siete avvezzo a prendervi tutti gli spassi, e qui non si ragiona che di piangere, mortificarsi, ed orare. A tutto quello non rispose altro il giovane, se non con dire: Padre mi voglio salvare, volo salvari; Dite bene, ripigliò l’Abbate; ma come farete a dormire su la nuda terra, voi, che finora avete dormito sì mollemente? Ed il giovane: Padre mi voglio salvare, volo salvari. Mi piace il desiderio di vostra salute, seguitò a dire l’Abbate, ma bisogna misurare le sue forze; come farete a vegliare le notti intere salmeggiando; a digiunare tutti i giorni, ad osservare un continuo silenzio, parlando solo con Dio? Ed il giovane illuminato: volo salvari, e così, quanto oppose l’Abbate, tanto ributtò il giovane con questo scudo impenetrabile dell’amore della salute: volo salvari; che però, conosciuta
come vera la vocazione, fu ammesso al Paradiso di quel monastero, ove visse, e morì da Angelo. Ecco quali vorrei fossero i vostri sentimenti, miei UU., questi vorrei stampati nel vostro cuore, questi frequenti nella lingua, volo salvari, mi voglio salvare. Ma ahi ahi, che sento? Sento voci terribili che mi risuonano alle orecchie di non pochi de miei UU. che mi dicono, non già volo salvari, ma volo damnari, mi voglio dannare; voglio andare all’inferno; voglio balzare nelle braccia de’ diavoli. Certo è che molti di voi niuna cosa più apertamente protestano, quanto volersi eternamente dannare, e se non lo protestano espressamente con le parole, certo lo manifestano con i fatti. Ecco, che io mi volto a quel giovane e gli dico: non amoreggiate tanto sfacciatamente: non state a solo a solo con quella femmina, non gli parlate su la porta, molto meno di notte, perché  questi abusi sono rete del diavolo per far preda d’anime. Che mi risponde? Che è giovane, che la gioventù vuol fare il suo corso, che è quanto dire in buon linguaggio, se io mi rovino, e perdo l’anima, non importa, volo damnari. Se mi rivolto a correggere quella fanciulla, e dico: sorella finiamola; voi sapete, che in quelle veglie, tra le tenebre della notte si è perduta la pudicizia. Si lasci quella corrispondenza, non più questi amori, ed è pur vero che anche ella, benché di sesso più timido e più devoto, ad ogni modo non dà retta ai miei detti: e dopo avere sperimentato che quell’amante è un ladro della sua salute, della sua onestà, pur se ne fida; finché tradita, abbandonata, ne cerca un altro che rinnovi con lui i medesimi tradimenti. E non è questo un protestarsi altamente io non mi curo d’anima, voglio perdermi, voglio dannarmi? Volo damnari. Se io dico a colei non più biglietti, non più imbasciate, non fate la guardia al vostro padrone, non tenete di mano alle disonestà di quella giovinastra… che mi si risponde? Così guadagno; così mi fo amare. M’avete da dire volo damnari; mi voglio dannare. Quella roba non è vostra restituitela. Quell’odio ti tiene in disgrazia di Dio; fate la pace, trattate, parlate col vostro prossimo. Non più bestemmie, non più mormorazioni; quali sono le risposte? vi sarà tempo; non torna alla reputazione: m’avete da dire: io non mi curo d’andare a casa del diavolo. Or, se volete dannarvi, io non ho che dire, tutto il male sará vostro. E che? Forse non si trovano di quelli che fanno quanto possono per dannarsi? Certo che sì! E tra questa udienza non vi mancherà chi l’imiti nel volersi aviva forza dannare. Uno di questi fu quel cavaliere padovano, quanto chiaro di sangue, altrettanto sordido di costumi. Si lasciò questi prendere dall’amore d’una donzella di cui fortemente invaghito, non poteva stare, quasi dissi, momento senza vederla. La cosa non poté stare tanto segreta che non venisse a notizia d’alcuni buoni amici, che con motivi umani e divini l’ammonirono a desistere da quella pratica; ma furono canzoni cantate a sordi. Persisté nel vizio, finché Iddio con amorevole rigore lo distese in letto con febbre. Crebbe il male, e gli amici più che mai alla vita, perché si confessasse; ed egli prendeva tempo a risolversi. Fu dichiarato spedito da medici. Quando gli amici ed un religioso in particolare portatosi al letto con santa libertà gli disse: signore la vostra salute è disperata; convien morire: aggiustate l’anima, al corpo non giova più pensarvi; poche ore vi restano di vita, diceva il religioso, ma il moribondo taceva. Replicava il Sacerdote: ma signore, voi tacete, e la morte v’uccide: presto, date segno di penitenza, altrimenti l’anima vostra si perderà. Mirate Gesù: eccolo che vi aspetta. A quanto diceva si mostrava come sopito da letargo il moribondo, ed invece di mirare il Crocifisso, si voltò dall’altra parte della camera, ove stava appesa dalla parete una vaghissima immagine, e in quella fissò gli occhi stranamente aperti; in quella li tenne lungamente immobili; anzi cominciò verso della medesima ad articolar parole da’ circostanti non intese. A questa vista, il Sacerdote rivolto ad un servitore di casa, l’interrogò se sapesse per qual cagione mostrasse tanto d’affetto verso quella effigie. Non lo so, rispose; mi accorgo bene che egli mostra ogni suo sollievo nel rimirarla … sarà forse qualche immagine da cui egli spera salute. Allora il confessore, credutosi che il ritratto fosse di Santa Maria Maddalena, lo staccò, glielo presentò; e tanto bastò; perché, di stupido ed insensato, divenisse vivace. Si fé forza per alzarsi dal letto, stese le braccia per accarezzarla; la prese: la baciò, finché per la violenza del moto e veemenza del male ricaduto con la testa sul guanciale, esalò repentinamente lo spirito. Attoniti i circostanti per questa morte, indagarono, più distintamente, che pittura fosse quella, e sentito che era della rea femmina, partirono come disperati per il fatto che ave a portato quell’infelice all’inferno. Or negate, se potete, che non vi siano di quelli che fanno quanto possono per dannare l’anima, non bastò a costui per dannar l’anima sua, andarvi, starvi, trattenervisi, la volle sempre sugli occhi, per esser sempre ne’ peccati sino all’estremo respiro. Quanti saranno qui di quelli che fanno quanto possono per dannarsi, vogliono andare a veglie, a balli, cercano tutte le strade per commetter peccati е dannarsi? Sebbene, che dico? Ah, che questo mio parlare è troppo spietato. No mio Dio, no, che non si ha da dannare niuno di quanti mi ascoltano, e però tu Deus meus illumina tenebras meas, Voi, mio Dio, rischiarate le nostre pupille, acciò conoscano la preziosità dell’anima e la stimino: Tuus ego sum, Domine, salvum me fac. E di chi è quest’anima? È pur vostra, Signore; Voi l’avete creata; voi avete impresso in lei la vostra immagine; Voi, per riscuoterla, avete sparso tutto il vostro Sangue, tuus sum ego, siamo vostri, e pure siamo vissuti come se fossimo padroni di noi stessi; ci siamo slontanati da Voi; ci siamo donati al demonio; abbiamo calpestato il vostro Sangue: o che temerità o che ingratitudine io lo confesso per tutti e lo detesto; meritiamo d’essere abbandonati, e che Voi non vogliate tener più conto d’un’anima che tanto abbiamo strapazzata; ma pure ricordatevi che siamo vostri. Salvum me fac. Fateci salvi, fateci efficacemente rompere quelle catene che ci tengono tenacemente avvinti al peccato; cacciate quei nemici che ce le stringono: dic animæ meæ, salus tua ego sum; basta una sola parola vostra. Cristo lo vuol fare, vi vuol salvare. Ma v’e forse chi ricusi d’esser salvato? V’è chi voglia continuare in quel fango, in quell’odio, in quell’interesse? Se n’è, si perda, che Cristo non lo riconosce più per suo, anzi gli volta fin d’ora le spalle, per annoverarlo tra i reprobi. No, mio Dio, che non vi è, tutti vogliano salvarsi e per ciò potete dire a ciascuno: Salus tua ego sum.

LIMOSINA
Vi sono alcuni ignoranti, quali di fatti tutti ricchi ad un modo: questo è un chiedere, perché un’organista non abbia fatto tutte le canne dell’organo ad un modo, eguali. Egli non le ha fatte tutte uniformi, perché così richiede l’arte, la quale vuole una tale inegualità, acciò risulti quel suono, quell’armonia, che non vi farebbe, se le canne fossero uniformi; poiché in tal caso sarebbero unisone. Allo stesso modo Iddio ha voluto che nel mondo, altri siano ricchi ed altri poveri, perché ne risulti un’armonia veramente meravigliosa, qual è quella che si mantiene quando il povero serve al ricco, ed il ricco sostenta il povero, e così l’uno con l’esercizio della pazienza, l’altro con quello della misericordia, danno ounitamente gloria a Dio: Dives, pauper obviaverunt sibi: utriusque operator est Dominus: il Signore ha fatto il povero ed il ricco, acciocché con uno scambievole commercio s’uniscano  i cuori. Voi dunque mantenere quest’armonia sostenendo i mendichi con abbondante limosina.

SECONDA PARTE

Or che vo’ fatto vedere quanto poco si prezzi l’anima, voglio altresì che sappiate tutto derivare, perché troppo si prezza il corpo. Ciò supposto, stimo bene non vi lasciar tornare a casa senza darvi un contrassegno, con cui possiate conoscere, se presso di voi sia in più conto l’anima o il corpo. Quando Giona navigava, si sollevò di tal maniera il mare, che i marinari intimoriti, cedettero alla for za dell’onde ed alla furia del vento, e pensando a modi più propri di salvarsi, risolverono di gettar nel mare quanto era di peso nel legno agitato. Eccо che s’intima dal padrone del vascello: via sù, quelle balle di mercanzia si buttino in mare: quegli argenti, quelle casse, quei forzieri si sommergano, non si tardi, perché in un rischio sì grande, in cui pericola la vita, il gettito di tutte queste cose entra nella partita de’ guadagni: se vi fosse anche un mezzo mondo d’oro, tutto vada, perché più preziosa è la vita: e questa è dovere che si mantenga ad ogni potere, … et miserunt, dice il sacro testo: vasa, quæ erant in navi, in mare. Così si pratica tutto dì, cari UU., da chi corre il mare, e niuno vi discorre sopra per salvare il corpo, vada in malora la roba, ogni grande avere si pospone alla vita. Volete ora conoscere, se presso di voi è più in stima l’anima, o il corpo? Eccovene il contrassegno. Si ha da fare un contratto così così: basta chiudere gli occhi, senza tanto scrupolizzare. Se voi rispondete, no, che non voglio accrescimento di roba, né di reputazione con pericolo dell’anima, sarà segno che stimate più l’anima; si ha da guarire quell’infermo: basta leggervi sopra certe parole e farvi certi segni; se voi direte: no, v’è qualche cosa di diabolico: bramo la sanità mia e del prossimo, ma non a costo dell’anima. Questo vuol dire anteporre l’anima al corpo: questo vuol dire essere uomini savi: esporre la mano per riparare il capo: ma quando poi si trovasse chi per scapricciarsi, s’immergesse negli amori, nelle vendette nelle usure: volesse sfogare la lingua nelle mormorazioni, maldicenze, e bestemmie, e per dar gusto al corpo non si curasse dell’anima, sarebbe segno che prezza il corpo, non l’anima. Tommaso Moro gran cancelliere d’Inghilterra v’insegni ad anteporre l’anima al corpo: udite, e fate di meno se potete di non spargere lacrime al tenero racconto. Racchiuso Tommaso in angusta prigione, perché non voleva consentire le incestuose nozze d’Arrigo Re d’Inghilterra, più che col tiranno, ebbe da contrastare con i parenti, e più con le tenerezze del sangue, che con le minacce del suo persecutore. Ecco che un giorno vide inaspettatamente entrar nella prigione una dama scapigliata, tutta vestita di lutto, circondata da teneri bambini. Erano i figli e la consorte del Moro. Questa, doppo aver parlato molto con le lacrime, asciugatasi al meglio che poté, così disse: consorte mio adorato e fino a quando soffrirete le vostre e nostre calamità? Già i palazzi son circondati da’ sbirri; i mobili inventariati da’ ministri; i feudi sequestrati dal fisco; e tutta la vostra famiglia va gemendo per vostra cagione fra gli strazi. Tommaso, e non v’intenerisce? Sappiate, che il re comprerebbe il vostro assenso con raddoppiamento d’onori e di ricchezze. Se voi volete, la vostra casa è la più gloriosa del Regno. Se poi non acconsentite a’ voleri regi, saremo costretti, spogliati de’ beni e della patria, strascinare questo avanzo di vita per provincie straniere. Indi rivolta l’addolorata madre ai figli: figli sventurati, disse, ottenete voi almeno ciò che io non merito. Gettatevi ai piedi del vostro buon padre, abbracciate quelle ginocchia che sono l’unico altare di vostra salute. Da una sola parola dipende la vostra felicità o la vostra rovina; piangete a’ suoi piedi, che movendolo col pianto, vi farete strada alle allegrezze; quando no, imparate quell’arte di lacrimare, che dovrete fare per tutta la vita. – Qual cuore impietrito non si sarebbe spezzato a tante lacrime, a voci sì tenere di teneri figli, d’amata consorte? Pianse, è vero, Tommaso; ma nulla più. Allora insperanzita la consorte, ripeteva quasi efficace argomento, che potevano ancor vivere insieme agli onori, alle grandezze per molto tempo. A ciò replicando il Moro: signora, gli disse, avete ragione: ma per quanto ancora potremo noi godere? per quanto? Almeno, almeno per venti anni, replicò la dolente consorte. E per venti anni, subito tutto rasserenato nel volto il marito, e per venti anni volete che io butti l’anima sì preziosa, eterna, irrecuperabile? Voi fate male i conti; la fate da mercante poco avveduto: stulta mercatrix es o Aloysia. L’anima si deve anteporre a quanto è nel mondo, alla vita stessa: pur che questa si salvi, tutto si perda. Così egli vinse le lacrime e la tenerezza, ed antepose, morendo, l’anima al corpo. Prendete esempio da sì gran cavaliere. Quando si ponga a confronto se si debba perdere o l’onore, o l’anima; o la roba, o l’anima; o la vita, o l’anima; a tutto si anteponga questa, perché questa anteposta a quanto può bramare il corpo, renderà glorioso anche il corpo; e quando no, e anima e corpo si perderanno in una eternità di pene.

QUARESIMALE (XIV)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (16)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (16)

LA GRAN BESTIA SVELATA AI GIOVANI

dal Padre F. MARTINENGO (Prete delle Missioni

SESTA EDIZIONE – TORINO I88O

Tip. E Libr. SALESIANA

XI

I MAESTRI.

E non solo scrittori di libri e di giornali ti schizzano addosso il veleno, ma anche talvolta…. ho a dirlo?…. anche talvolta i maestri. Così è, purtroppo! giovani cari; e’ ci ha maestri frammassoni; maestri atei, maestri rotti al vizio, maestri sboccati e villani, maestri i quali, più ché insegnare le lettere e le scienze che debbono, mirano a corrompere nella mente e nel cuore i miseri giovanetti fidati a lor mani. Ahi povere colombe raccomandate alla pietà dello sparviero!… E non son favole che vi conto: oh così fossero!…. Io so d’un ginnasio dove insegnava un toscano, uso per ogni nonnulla a scaraventare sugli esterrefatti scolari maledizioni e bestemmie che tracan foco: ed ebbi ad accapigliarmi con un cotale che il difendeva, perché bestemmiava in pura lingua toscana! So di un altro che a tutte l’ore fa la commedia sul Papa e sui preti. Ricordo di un terzo che in piena scuola diceva cose orribili della Vergine Santissima, spiegando ai giovani misteri ben diversi da quei della Santa Religione. E un quarto, che posta la mira a quelli tra suoi giovani discepoli che ancora usavano a Chiesa, li bersagliava a ogni tratto senza misericordia. Come poi li conciasse all’esame, lascio a voi il pensarlo. — Poveri giovani, poveri giovani! e quando uno di cosiffatti maestri, tocchi, per somma sventura, a voi… poveri giovani, saprete star saldi? saprete combattere; vincere ogni umano rispetto? E ci ha delle città che li tollerano, e delle città che no. In questo secondo caso; sapete come s’usa per lo più? Quando l’indignazione del pubblico trabocca, ed i buoni si lamentano, ed i parenti levano le grida, son rimossi di lì e mandati ad occupare forse miglior posto altrove, certo a corrompere altri giovani sventurati. E pensare chi li paga! Dio, Dio! Che perfidia, che tradimento a giovanetti innocenti! Domandavano un pane da sfamarsi, e voi avete dato loro un serpente che: li, morda e li attossichi. — Ah guai a chi Scandalizza fosse pur un solo di questi piccioli! Meglio con una macina al collo sia sommerso nel profondo del mare! Terribile sentenza! É di Gesù Cristo, non mia. Io domando perdono ai maestri buoni (che sono ancor tanti, grazie a Dio !) di queste gravi e’ sdegnose parole. Ma come non sdegnarsi quando, per lo strazio che si fa dell’anime innocenti ti sanguina il cuore? Anche Gesù benedetto lo vide questo strazio, e, mansuetissimo qual era, non si terne dallo sfolgorarne gli autori. D’altra parte la considerazione del danno ci stimolerà a volerlo riparare, raddoppiando di zelo, di sollecitudini, di fatiche intorno alle care pianticelle affidate alla nostra coltura. O, crescano, crescano sotto i nostri occhi, sempre diritte al cielo; e ci mostrino, dopo il verde delle tenere frondi, tal vaghezza di fiori, e tal abbondanza di frutti, da consolarsene ad un tempo e la Religione e la Patria. – A voi tornando, giovani cari, scolpitevi in cuore questa gran massima del Vangelo: —;, Uno è il maestro nostro Gesù Cristo. — Chi insegna contro a ciò ch’Egli ha insegnato, non è maestro, è corruttore. E non badate se per caso egli abbia scienza, ingegno, eloquenza ed altri somiglianti qualità: dacché le adopera a servizio della menzogna, a rovina dell’anime, è corruttore, non altro che corruttore; è ladro, è assassino delle anime vostre: fur est et latro. Ora venite un poco con me; voglio conosciate a prova, e come a dire, cogli occhi vostri, l’indegnità di cui ho parlato. – Vedete in quella sala, su quella cattedra, quel professorone in abito nero che disserta con tanta gravità? E vedete bell’udienza di gioventù l’assiepa intorno e l’ascolta senza batter palpebra?… Volete sapere chi è e che insegna di bello? È un uomo venutoci d’in Tedescheria, chiamato e largamente pagato del nostro denaro, perché levi i giovani italiani all’altezza de’ tempi, insegnando loro, ch’ei son bestie, e null’altro che bestie. E ci ha degli italiani che gli batton le mani!!! Qui bisogna che mi permettiate un furterello. Dite, cari giovani: conoscete voi Don MENTORE? Quel buon vecchietto tutto cuore pe’ giovani, che li regala ogni anno d’ un libricino a mo’ di strenna?… Bene, gli è appunto d’una di queste strenne che io vo’ diventar ladro, facendole il piccolo furto che ho detto. Benché né ladro io son, né furto è il mio, potrei dire colla Sofronia del Tasso, ed invero, tra D. Mentore e me corre tale intimità da poter chiamarci cor unum et anima una; cosicché io piglio del suo come a pigliar del mio ed egli piglia del mio come a pigliare del suo. Sentite dunque, si tratta d’un bell’esempio intitolato: Buon coraggio. « Taddeo ha la debolezza di passare una mezz’ora al caffè; ci va per qualche ritrovo, o leggere i giornali (ma non i giornalacci, veh!) o a pigliare un rinfresco, che so io! — Meglio non ci praticasse, direte voi. Anzi meglio ci bazzichi un pochino, rispondo io  perché, giovine franco qual è, (vuol dire che non teme la bestia) gli è toccato più volte dare certe lezioncine che…. m’intendo io!  Ci si trovava un giorno con una serqua di bellimbusti dell’università, i quali, adocchiato il Paoletto entrarono per fargli dispetto in certi discorsi da far accapponare la pelle. Figuratevi che Dio, eternità, inferno, paradiso, chiamavano ubbie da medio evo, e levavano a cielo (state attenti: ci siamo) i Magni professori. B e M. i quali avendo dimostrato (asserivano) che nell’ uomo tutto è materia, avevano tolti via una volta gli spauracchi del genere umano. Mentre così trionfalmente la discorrevano, Taddeo stringeva i denti e corrugava la fronte, studiando 1a opportunità d’una risposta; quando a caso capita a passare davanti al caffè un bel vecchietto di prete (era Don Mentore) e Taddeo a fargli tanto di cappello. Alla qual vista i bellimbusti, stringendoglisi attorno incominciarono a sbertarlo di mala grazia, dandogli tutti quei nomi onde sogliono onorare i sedicenti liberali (in ciò non liberali solo ma prodighi) quanti han conservato ancora il buon senso antico e la coscienza cristiana; e conchiudendo tutti ad una voce che un vile era Taddeo, che inchinavasi a un prete. A. quest’insulto Taddeo non seppe contenersi, e fattosi bello d’una santa ira che scintillavagli dagli occhi e gli si dipingeva sulle guance infiammate, rispose agli impudenti così: — Sapete chi è il prete che ho salutato? Quel prete è un uomo che non ha mai offeso né amareggiato persona, neppure i suoi più accaniti nemici; un uomo che la sua vita ha speso e spende tuttavia al sollievo de’ poveri e al bene della gioventù; un uomo che mi ha istruito e educato dalla fanciullezza con senno da filosofo ed affetto di padre… — E che t’ha insegnato quel prete? — l’interruppero i bellimbusti. E Taddeo coll’istessa foga: — Che mi ha insegnato quel prete?… Quel prete mi ha insegnato che c’è un Dio in cielo e che l’uomo è la sua più nobile creatura sulla terra; mi ha insegnato ch’io non sono tutto fango, tutto bestia, come voi; mi ha insegnato che dentro questo fango brilla, qual gemma, un’anima immortale. Ed ecco perché a questo prete cosiffatto io mi inchino, come voi v’ inchinate ai vostri B. e ai vostri M., con questa differenza però, che dal mio inchino io mi rizzo col santo orgoglio d’un figlio di Dio; voi, curvato una volta il dorso davanti a quegli idoli vostri, non potete più rizzarvi, siete bestie e non più. Che vi pare? Sta dalla mia parte o dalla vostra la viltà? — Bravissimo! ben detto! — s’ udirono gridar più voci da ogni parte della sala; e i bellimbusti, mutato discorso, poco dopo se la svignarono di cheto. » E buon viaggio a loro signori! noi, mandata loro dopo le spalle una buona salva di fischi, ci terrem saldi pur qui: che la verità è una; che di questa verità maestro autorevole, perché divino è Cristo, maestra da lui deputata, la Chiesa. A Cristo, alla Chiesa, a quanti insegnano con Cristo e colla Chiesa, c’inchineremo rispettosi; a chi sta contro Cristo, contro la Chiesa, contro la nostra coscienza, no mai! Sarebbe lo stesso che inchinarsi alla GRAN BESTIA, alla quale abbiam giurato guerra mortale, e ai portavoce che le fanno corteo.

LA GRAN BESTIA E LA CODA (17)

QUARESIMALE (XII)

QUARESIMALE (XI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA
DUODECIMA
Nella Feria terza della Domenica feconda.

Si deplora la cecità de’ genitori mentre non solo sono trascurati in obbedire al comando di Dio nella educazione de’ propri figli; ma taluno di loro procurane la rovina dell’anima, peggio: la vuole.


Patrem nolite vocare super terram. San Matteo al cap. 23.

Perdonatemi, o padri di famiglia, v’è una mala nuova per voi: non deve più uscire dalla bocca de’ vostri figliuoli, e risuonare alle vostre orecchie quel dolce nome di padre: Patrem nolite, etc. Ma che? Pare che voi non me lo crediate, e non sentite che è comando di Dio: già sappiamo esser comando di Dio, ma non universale il comando; ferisce solamente quei padri che, intenti ai loro comodi niente s’applicano al bene de’ figliuoli e perciò non meritano nome di padre. Noi sudiamo dì e notte pensando ed operando per stabilire in buon stato i nostri figliuoli: fate altro che questo? E vi par poco, se non abbiamo respiro di tempo neppure, quasi dissi, per applicare all’anima nostra. Dunque, se così è, molto meno applicherete all’anima de’ figli. Ed ecco il vostro gravissimo delitto, per cui non meritate nome di padre, anzi di tigri spietate, mentre (e sarà l’assunto del mio discorso) non solo non applicate con la buona educazione alla salute eterna de’ vostri figli, ma col male esempio ne procurate la dannazione; v’è di peggio, volete la loro dannazione. È certissimo che chi diede l’essere ai figli, è anche obbligato a dargli il buon essere, acciò per colpa loro non periscano, né v’essere obbligo maggiore ne’ padri, di quello della buona educazione. Questa è verità che non ha bisogno di prova, ma è altresì verità troppo deplorabile non v’essere cosa in questo mondo a cui meno pensino per ordinario i padri e le madri, che al buono allievo de’ loro figli. Non farebbero però così se seriamente pensassero allo stretto conto che ne debbano rendere. Udite l’Apostolo San Paolo, il quale così discorre per mostrarvi il grande obbligo che avete di bene educare i vostri figli. È obbligato, dice egli, il principe, il maestro, a render conto della educazione della gioventù. Or se son tenuti questi per obbligazione introdotta dalla politica, quanto più siete obbligati voi padri per l’obbligazione inferita dalla natura: si nos itaque vigilare jubemur, quanto magis pater qui genuit. Questo parlar ha gran forza, ma udite quest’altro pure dello Spirito Santo, che dice ai padri e madri; Custodi virum, qui si lapsus fuerit erit anima tua pro anima illius. Pur ad ogni modo vi sono padri e madri di tal sorte, che non vogliono obbedire a questo stretto comando di bene educare i figli, e quanto sono renitenti in questo, tanto sono pronti in obbedire a quelli della natura corrotta, che insegua far tutto per gl’interessi temporali. Di chi sono i figli: del mondo, o di Dio che ve li diede? Perché dunque ogni vostra occupazione per bene educarli per il mondo, e non per renderli a Dio? Voi pensate più ad allevarli nelle buone creanze che nelle devozioni: appena nati l’istruite nelle cerimonie, ne’ saluti, ma non fate così per fargli imparare le orazioni; …Padre è piccinino; ma io vi rispondo: che vuole dire che è piccolino per imparare le orazioni, e non è piccolino per imparare le cerimonie? Fate che il figlio mangi alla mancina, eccolo percosso da un fiero ceffone, vada fuori di casa sporco nel volto, imbrattato nell’abito, faccia una mala creanza, ne riceve fiera la riprensione; ma se dirà parole poco oneste, risponderà arditamente, e fin d’allora mostrerà poco rispetto a Dio, si tacerà, né meno si dirà, figlio, che fai? Signora, dice quel padre alla consorte, bisogna pensare ad educare bene i nostri figli, ne abbiamo già de’ grandicelli, bisogna mettergli in qualche Università, in qualche collegio o seminario, perché imparino le lettere, le quali portino ricchezze e gloria alla famiglia. Sì, signore avete ragione, ma le rendite sono scarse non importa impegnarsi quanto bisogni per il buon allievo. Ma se mi pongo framezzo a voi signora madre e signor padre e vi dico: i vostri discorsi sono belli e buoni; voglio che l’instradiate nelle lettere, ma nella pietà tacete, perché temo non mi diate la risposta che altro padre di famiglia simile a voi, diede ad un nostro maestro di scuola. Parlando un giorno il padre di certo suo figliuolo col maestro e questi si lamentava dello scolaro, perché era troppo insolente; rispose allora il padre: quello, che a me preme è che studi; studia il figliuolo, studia, ripigliò il maestro, ma non vive bene. O Padre, se così è, non si prenda fastidio, perché la gioventù ha da fare il suo corso, sono stato giovine anche io, quello che a me importa è che studi, giacché il mio pensiero è di addottarlo per utile e lustro della mia casa. O empio padre, iniquo, degno di mille morti, mentre non ti curi del mal vivere del figlio: piacesse a Dio che un tal padre non avesse avuto ai suoi tempi, e non avesse a’ dì nostri, simili. Datemi mente, io v’interrogo; signori, il vostro figlio degenera dalla nascita, pratica con gente di mal nome, parla indecentemente! Padre sono bizzarrie di ragazzi, so per altro che è molto applicato alla scuola, e di questo mi consolo! Ecco in che consiste l’educazione che simili padri danno a’ loro figli, pensano solo ad instradarli nelle creanze, nelle lettere, ed a lasciarli ricchi di roba, ma ricchi nell’anima di virtù non ci pensano. Che non si fa per lasciar ricchi i figli, che non fate per tirare avanti la casa, e tanto avanti, dirò io, che per le ricchezze male acquistate si arrivi fino a casa del diavolo; vedo che ogni momento tenete l’astrolabio in mano, cavando il sortile dal sottile, acciò gl’accumuliate con i beni paterni i mali futuri. O padri sciocchi, che non morite contenti se non lasciate a’ vostri figli della roba – con ragione esclama quivi San Gregorio; corpus natorum suorum amant, animam ver contemnunt: amano il corpo e non si curano dell’anima, si viderint filios pauperes, segue il Santo: tristantur; si viderint illos peccantes, non tristantur; se li vedono in povertà amaramente piangono, ma non già quando sono in peccato, ut ostendant, quod corporum sunt parentes, non animarum … acciò si sappia, che se sono genitori de’ corpi, sono altresì assassini delle anime. Se andrete da quel padre e gli direte: vostro figlio ha giocato ed ha perduto, eccolo su le furie, ah figlio indegno, lo castigherò, ma se poi gli direte, vostro figlio ha perduta la modestia, non si risponde, si tace. Signora, la madre figlia è troppo libera negl’andamenti. Padre ora è il tempo suo; ma se vi dirò: Signora, vostra figlia ha spezzato per disgrazia quel superbissimo vostro cristallo, che tenevi sopra lo scrigno, gli è caduto di mano quel nobile specchio e si è spezzato, eccola su le furie, ecco la casa in rovina, la figlia in guai. Ah sciocchi padri, stolte madri, che pensate più a lasciar ricchi, che buoni i figli. Ah che se io credessi potere inserire il vero amore nel cuore de’ padri verso de’ loro figli, che è il bene educarli, vorrei con quell’antico filosofo Plutarco portarmi su la cima della più alta torre della città, ed a gran voci di lassù esclamare: quo tenditis homines, quo tenditis; dove siete inviati padri, madri, io vi vedo intenti a provvedere d’ogni più nobile suppellettili le vostre case, tutte applicate ad accumular roba per i vostri figli, non ho che dire; ma ditemi ove sono frattanto i vostri figli, le vostre figlie, se ne’ collegi, se alle scuole, se a lavori in educazione ne’ monasteri, io non parlo; ma se alle veglie, ai balli, a’ giuochi, a’ ragionamenti e conversazioni troppo libere, tornate, tornate indietro, vorrei dirvi, a rimediare, e se non tornerete, trascurando la buona educazione, invece di padri amanti, sarete crudi carnefici de’ vostri figli e pure, quasi dissi, mi darei pace, se i padri e le madri dopo tanti peccati mortali commessi nell’educazione trascurata de’ suoi figli non facessero peggio, peggio sì, perché procurano la loro dannazione; sì la procurano, voi inorridite, sentite… la procurano col cattivo esempio! Esclami pure, e con ragione Osea, Efraim educet ad interfectionem filios fuos. O ciechi, o miseri padri, dice lo Spirito Santo, voi stessi con le vostre mani conducete sotto il filo della mannaia i vostri propri figli. Si racconta trovarsi in un certo paese due fonti, in un de ‘ quali bevendo gl’armenti vestono candide le loro lane, e dissetandosi nell’altro si ricoprono di nere, e se a sorte assaporano le acque d’ambedue, di vari colori si rimirano vestite; è però certissimo, che tali appunto sono i costumi di quei figli, o candidi e puri, o neri ed immondi, quali sono i fonti d’onde ne succhiarono il latte dell’educazione nel paterno esemplare. L’esempio ha tal forza, che Plutarco poté asserire, essere regola del vivere, o buono, o reo. – Era il Santo Vecchio Éleazzaro in età di novanta anni, allorché non solo sostenne acerbissimi dolori, ma la morte stessa, e a tanto si espose per non mangiare i cibi vietati dalla legge, e per dare esempio di singolar costanza a’ suoi figliuoli, si prompto, parole del Sacro Testo nel secondo de’ Maccabei, si prompto animo ac fortiter pro gravissimis, sanctissimis legibus honesta morte perfungar adolescentibus exemplum grande relinquam; né  vi crediate UU. che punto s’ingannasse, poiché appena soffertosi da lui il martirio che al suo esempio per non trasgredire la legge, diedero la vita insieme con la madre sette suoi figliolini di tenerissima età. Quivi tutto estatico San Gregorio Nazianzeno introduce quei sette figliolini a parlare con Antioco, Re Tiranno: Re: Eleazari discipuli sumus cujus tu fortitudinem perspe et tam, inexploratam babes. Sappi, o Tiranno, che noi siamo discepoli e figli di Eleazzaro, la di cui fortezza e generosità sì che abbastanza ti è nota: tanto ti basti per sapere che intrepidi ne seguiremo le gloriose pedate: Pater prior decertavit, decertabunt postea, et filii: tollerò nostro padre la morte, tollereremo ancor noi guidati da un sì bell’esempio la perdita di questa fragile vita; præcessit sacerdos, sequantur victimæ. Egli ci ha preceduto come sacerdote, noi lo seguiremo come vittime. Miei UU., alla generosità del parlare corrispose un’eroica pazienza ne’ tormenti, poiché animati dall’esempio paterno, i figli si portarono con magnanimo cuore ad incontrare la morte. Or io dico, se l’esempio in cose tanto contrarie alla natura, quanto è morire, ha sì gran forza, qual non avrà ne’ vizi, a’ quali la natura inclina. Avvertite bene, o padri quel che voi fate, che esempi gli date, perché voi col vostro mal vivere gli procurate la dannazione; li vostri figli, mentre sono piccoli per l’imperfezione del loro discorso vivono d’imitazione, e a guisa di principianti nella pittura, non sanno fare altro che copiare, però non gli procurate la dannazione col vostro mal esempio. Se dico bugie, smentitemi: sì, o no, chi ha insegnato a maledire, a giurare, a bestemmiare il Nome di Dio, anche prima di conoscerlo a quel figlio? Il perfido padre, che ad ogni aperta di bocca vomita maldicenze, giuramenti e bestemmie. Chi ha avviato all’osterie e bettole quel giovinetto? L’iniquo padre che sì spesso vi và co’ suoi piedi e ne è riportato con le braccia altrui. L’esempio del padre, che tratta con libertà licenziosa, ha insegnato i mali costumi al figlio. Chi ha insegnato a quel figlio a strapazzar la povera madre con parole talora sì brutte che neppure si direbbero ad una donna di mala vita? L’empio Padre che, venuto a casa non solamente grida, ma minaccia, ma percuote la povera madre, riempiendola di tali improperi, che neppure si proferirebbero contro la più scellerata donna del mondo: Chi ha insegnato a quel figlio lo strapazzo verso di suo padre; lo stesso padre, che all’or che era figlio strapazzò il proprio padre. Sentitene un fatto spaventoso. Vennero un dì a parole un padre ed un figlio, dalle parole passarono ai fatti, e il figlio indegno preso per i capelli il padre, lo strascinò giù per la scala; giunto che fu al fondo essa, figlio, disse, lasciami, perché tu sai, che fin qui strascinai mio padre! – Chi ha insegnato a quella figlia le vanità? La  madre, la madre, che anche essa era donna vana. Or negate, se potete, di non procurare con un tal esempio la dannazione de’ vostri figli. Eppure non finisce qui il male che fanno simili genitori a’ loro figli, poiché non solo procurano la loro dannazione col cattivo esempio, ma la vogliono! Inorridite o Cieli! la vogliono. Fuggite figli da quei padri che vi vogliono perduti. Voi inorridite ad una tale proposizione, e pure ne toccherete con mano la verità. Il ve lo fo toccar con mano. La legge Evangelica tuona minacce orribili contro de ricchi… veæ divitibus, e voi che fate? Altro non fate, salvo che insinuare nel cuore de’ vostri figli, fino da’ primi anni, che bisogna serbar tenacemente la roba e che tutta la felicità dell’uom consiste in aver piene le casse, colmi i granari, ridondanti le grotte e talora, parlandogli da solo a solo: mira, gli dite, il tal mercante, il tal cavaliere, perché seppero accumulare molto, per questo molto son giunti ad ottenere, a stabilire ne’ parentadi, nelle ville, ne’ benefici. E tu, che farai, sarai buono a tanto? Ed in così parlargli gli fate fare un concetto tale del denaro che fin d’allora principia ad adorarlo come Dio: e non è questo volere la dannazione del figlio? L’Evangelio dice, recumbe in novissimo loco; e voi che fate, altro non persuadete a vostri figli salvo che il contrario, suggerendogli, che non bisogna mai contentarsi dello stato suo, ma che a guisa de’ fiumi bisogna sempre acquistar paese, ingrandirsi, avvantaggiarsi, non ceder la mano a chi che sia, voler esser riconosciuto tra’ primi. Cristo nel Sacrosanto Vangelo grida, che si perdonino le offese ricevute, che si parli, che si salutis il prossimo che ci oltraggiò; diligite inimicos vestros, e voi, che fate, insinuate l’opposto, dicendo loro, che non bisogna dimenticarsi mai dell’affronto, ma che ad ogni imitazione de’ molossi, bisogna mostrare i denti, rispondere, vendicarsi: Piaccia a Dio, che tra’ miei UU. non ci sia qualche padre, o capo di casa, che abbia detto: figlio la nostra casa è stata sempre riverita e temuta al par d’ogn’altra. Ella ha avuto uomini di conto in lettere, in armi, in dignità. Tu non sarai degno del casato che porti, se non saprai farti stimare e cavarti, come si suol dire, le mosche dal naso. Però oggi, piaccia a Dio che tal padre non abbia detto al figlio: ecco la chi ci offese, questo è il luogo ove ci offese, di tal sorte eran l’armi, tocca a te farne i dovuti risentimenti da par tuo. E voi o madri, con quali dettami allevate le vostre figlie, non già con quelli del Vangelo, che insegna schivare i lussi superflui, e le pompe vane, poiché tal madre dirà alla figlia: va’ figlia, va’ da tuo padre e digli che tu vuoi vestire da tua pari, che così ti vergogni comparire, che tu vuoi quei vezzi, quelle maniglia, altrimenti non ti voglio con me neppure a Messa. Ah che Evangelio dice, ne solliciti sitis corpori vestro quid induamini; e non è questo volere la dannazione delle figlie, la vogliono sì, perché arrivano a darli vestiti all’usanza, lascia cantare i predicatori, parla, conversa, è il tempo tuo. O Dio, negate se potete, che non vi sian padri e madri che vogliono la dannazione de’ figli, che sarà di voi, che sarà? Udite. – Voi ben sapete che Eli gran Sacerdote, come abbiamo ne’ Libri de’ Re al primo, venne in tanta disgrazia di Dio che fu in perpetuo privato del Sacerdozio del Tempio, delle facoltà, della vita, della prosapia, e giudicato con tanta severità, che molti lo tengono per dannato … e perché un giudizio sì severo? Non  per altro se non perché non aveva corretto i figli viziosi: eo quod non corripuerit eos. Si eh? Or se Eli fu sì severamente castigato solo per non aver ripreso i figli, che non dovrete temere voi padri, i quali non solo non li riprendete, ma l’incitate, peggio li lodate de’ peccati; peggio, persuadete; peggio, li volete; sapete che farà, erit anima tua pro anima illius. Dannati, dannati, – Quando, che voi, miei UU. vedrete mai figli vissuti sotto padre di tal sorte, che non solo non cercano di bene educarli, ma ne procurano con l’esempio la dannazione, anzi la vogliono, e vedeste, che tali figli dissimili da’ loro genitori vivessero bene, attribuitelo ad uno de’ maggiori miracoli che possa darsi: Contentatevi, che questa verità ve la confermi con le Sacre Carte. Esce fiero l’Editto di Faraone, che quanti vivano maschi di tenera età nell’ampiezza de suoi Stati, tutti si sommergano nelle acque del Nilo; povere madri, accrescano pure le vostre lacrime l’onde del fiume, acciocché più gonfio, e più rapido vi tolga più presto dagli occhi la funesta tragedia. Si eseguisce l’ordine barbaro di regio comando, quando una madre non avendo cuore che desse forza al braccio per gettare il tenero bambinello in mezzo all’acque, fatto di giunchi un piccolo cestello, qui collocato il pargoletto, lo consegnò alla superficie dell’acque, lasciando che l’onda impietosita, lo rendesse salvo a qualche riva. Non andò la brama vuota d’effetto. Era la regia Infanta figlia di Faraone a diporto tra le delizie del bagno, la quale nel vedere a fior d’acqua galleggiare quel piccolo cestello carico d’un tenero fanciullo, mossa a compassione, chiamata a se una delle damigelle, ordinò si traesse a riva. Eseguì la donna, e prefentò alla padrona il bambino; tanto bastò, per essere di fattezze amabilissimo, perché la regia fanciulla mossa a pietà il desse segretamente ad allevare, disponendo l’Onnipotenza Divina, che alla propria madre si consegnasse il tenero figlio Mosè. Considera un tal fatto S. Agostino, e quasi estatico per lo stupore esclama, miraculum, miraculum! Voi al certo però, miei UU. al pari del Santo Vescovo vi farete meraviglia, sentendo che egli dia nome di miracolo ad un atto di compassione praticato da cuor di donna verso il piccolo figlio che, portato dalle onde stava di momento in momento per sommergersi. Non fu miracolo dirò io, che una principessa sovvenisse l’altrui miserie, miracolo farebbe stato, se la regia donzella vedendo quel pargoletto già vicino a sommergersi non ne avesse procurato lo scampo; sant’Agostino non cessa, ed estatico replica: miraculum, miraculum; si, intendetela, dice il Santo, fu miracolo, che la figlia d’un re sanguinario, allevata in corte con esempi di stragi non seguisse le orme paterne: miraculum, misericordiam fecit filia parricide. Miraculum, entro ancor io nelle vostre case o padri, o madri, e dico sarà miracolo e miracolo di non ordinario stupore, veder casto quel figlio che ebbe esempi di dissolutezze dal padre; vedere onesta quella figlia e senza vanità, che sortì per madre una donna che sempre gli fu esempio di vanità negli abiti e di libertà nel guardo: miraculum, miraculum, siano senza vizio i figli , ove i capi di famiglia sono dissoluti. Che da un genitor cattivo, grida Ambrogio, è pazzia sperarne figli innocenti vissuti all’esempio de’ padri, al par de’ padri saranno perfidi: Quid de adultera matre, nisi damnum pudoris: al conoscimento di tal verità arrivò fino la corta intelligenza d’un Domizio. Questi non sentì all’orecchio sussurro di colomba profetica e pure tanto aggiustatamente colpì sul segno, quando avvisò le future ribalderie di Nerone suo figlio. Attenti. Narra Xefilino, che Domizio prima di dire che Nerone doveva essere quell’indegno che fu, calcolò fra se stesso i suoi conti così: lo so qual vivo tutto applicato a’ giuochi, tutto dedito agli amori, mi piace la crapula, detesto la virtù, abbomino il giusto, amo il vizio; mia moglie se non mi passa nel vivere viziosamente, certo m’eguaglia. Ella ha ciarle per un comune, frascherie per un mercato, gode di conversare in passatempi e balli al pari d’ogni donna vana, e poi conclude da se stesso, non è possibile che da un tal Domizio e da una tale Agrippina possa formarsi un figlio buono e ben costumato: non enim ullo modo esse potest, quod ex me, et illa vir bonus formetur. Padre, madre di famiglia l’argomento di Domizio è concludente , nè vi è risposta; pertanto se avete figli, avvertite di non operare alla presenza loro cosa che non sia da farsi, poiché quando così non facciate, voi vedrete che i vostri figli impareranno dal vostro esempio a vivere senza modestia, ed operar senza riguardo, e si verificherà, che voi col vostro male esempio gli procurerete la dannazione. – Era pur bello il costume praticato nella Spagna e ricordato da Sallustio: registravano in un fedelissimo giornale tutti i fatti che ogni privato economo raccoglieva dal vivere quotidiano di ogni capo di famiglia, e questo registro una volta l’anno ad alta voce si leggeva alla presenza de’ figli, acciocché si animassero ad essere simili nelle eroiche azioni ai loro padri. Un grande impegno per verità era questo, ed una gran sicurezza della bontà de’ padri di quei tempi: Dio però ci liberi che da’ capi di famiglia s’introducesse oggidì simile usanza, poiché in vece di morigerare i costumi de’ figli, li depraverebbe, e gli distruggerebbe le città invece d’edificarle, poiché m’arrossisco a dirlo, non si potrebbero pubblicare se non di rari le virtù, di moltissimi vizi. – Sappiate, o figlio, direbbe taluno, vostro padre è un bravissimo giocatore, che invece d’accumular roba per voi, ve la dilapida con i dadi, e ve la scarta su le veglie a grosse partite per sera. Vostro padre è un valentissimo bestemmiatore, che per mostrare quanto poco speri salvarsi, ha già imparato il linguaggio de’ dannati. Vostro padre è un ingegnosissimo usurario, e tutto dissoluto nel rimanente de’ suoi costumi. E voi figlie, volere imparare le eroiche azioni di vostra madre: ella col frequentar le feste, non delle Chiese, ma delle sale, vi farà apprendere la libertà del vivere. Ecco gli esempi che danno oggidì molti de’ padri e madri ai loro figli, e non è questo un procurargli la dannazione? Sì, la procurano padri di tal sorte, farebbero meno male a lasciare in abbandono i loro figli, meno male farebbero se appena nati anche essi li ponessero in un cestello simile a quello in cui fu posto, come già dissi il bambinello Mosè, abbandonandoli all’instabilità delle acque. Madri di tal sorte farebbero meno male se a similitudine dello struzzo, partorito che hanno le loro figlie le lasciassero in abbandono, poiché tenendo presso se i loro figli, le loro figlie, non solo non gli danno la buona educazione, ma ne procurano e ne vogliono la dannazione, ma si aspettino anche la propria. – Nelle Vite de’ Santi Padri si parra come un padre per frutto delle sue nozze ebbe due figli, ai quali pose tanto d’amore, che altro non fece in tutta la vita, salvo che accumularli della roba, istruirli nelle lettere, ammaestrarli nelle creanze, allevandoli tutti per il mondo, niente per Dio, e perciò gli lasciava la briglia sul collo, acciò potessero a lor piacere scorrere ogni prato nello sfogo delle loro passioni. Aprì gli occhi Iddio ad uno di questi figli, e fattogli conoscere il pessimo stato in cui si trovava l’anima sua, lo fe’ risolvere di dar di calcio al mondo, e ritirarsi in un chiostro a far vita penitente: così fece, quando non molto dopo vennero a morte, e il padre sì trascurato nella educazione del figlio, e il figlio sì malamente educato. Morti che furono, si pose un dì il fratello religioso a fare orazione per quelle anime, quando in un tratto si vide aperta sotto de’ piedi un’altissima voragine entro a cui vi era un vaso smisurato pieno d’acqua, la quale a forza di quel fuoco che sotto vi somministravano i diavoli, orribilmente bolliva, e poi che vide? Vide che tra quelle onde di bollori or veniva su il padre, allorché s’immergeva il fratello, or veniva a galla il fratello, allorché s’affondava il padre, ed udì che il Padre tutto rabbia col figlio, ed il figlio tutto rabbia col Padre, non facevano altro, che arrabbiatamente strapazzarsi: maledetta quell’ora, diceva il Padre, in cui ti generai, per averti voluto arricchire or mi trovo in questi tormenti; maledetta quell’ora che t’ebbi per padre, diceva il figlio, merceché avendomi tu data ogni libertà mi trovo dannato; per te peno, diceva il padre, per te crucio, diceva il figlio. Quanto concepisse di spavento a questa vista il religioso, immaginatevelo voi. Quanto ne dobbiate concepir voi padri e madri, che male educate i figli, che gli date cattivo esempio, non accade che ve lo dica, sol vi dirò, che simili castighi v’aspettano nell’inferno, se non avrete maggiore sollecitudine dell’anima de’ vostri figliuoli.

LIMOSINA.
Si ritirano alcuni dal far limosine, perché, dicono, lascerò di meno ai miei figli, o quanto s’ingannano . Il Padre di San Carlo distribuiva larghe limosine a’ poveri di Gesù, ed avvisato da un amico che con tante limosine lascerebbe meno facoltosi i figli, rispose da vero cavaliere cristiano: io avrò cura de’ figli di Dio, e Dio avrà cura de’ miei, e così fu. Non troverete mai, ma mai, che le limosine abbiano impoverito casa alcuna, anzi questo è il vero modo d’arricchirle, honora Dominum de tua substantia, et implebuntur borea tua saturitate, et vino torcularia tua redundabunt.

SECONDA PARTE

Quanti qui siete padri di famiglia? Poco men che tutti, sento rispondermi; ma pure quanti siete, replico io, che meritate il nome, e praticate l’offizio di padri e madri? Se voi foste veri padri e vere madri, dareste retta agli argomenti di Paolo, obbedireste a’ comandi di Dio, avreste più cura dell’anima che della roba de’ vostri figli, non gli procurereste la dannazione col cattivo esempio, né tampoco la vorreste con istillare ne’ loro teneri cuori diabolici sentimenti, ma voi, come v’ho mostrato, non siete veri padri, perché non li allevate bene, procurate, e volete la loro dannazione. Se volete meritare il nome di Padre, operate da tali. Vi sono però alcuni padri e madri di famiglia, che non credono d’aver mai errato nell’educazione de’ figli, perché non gl’hanno dati cattivi esempi; or sappiate, che si può errare nella buona educazione, usando parzialità e togliendo la libertà. Oh quanto sono dannose le parzialità ne’ padri e nelle madri, sono la rovina delle case e delle anime. L’aquila, dice San Basilio partorisce tre uova ne cova due, e poi de figli nati ne alleva un solo: lo stesso fanno molti padri e madri, se avranno delle figlie femmine e de’ maschi, braveranno sempre alle femmine, ed al maschio rideranno in bocca; poi per fare il patrimonio al maschio, non guarderanno ad affogar le femmine con poca dote, ed anche a ritenerle in casa come serve senza marito; questo è un gravissimo errore, perché tutti i figli devono essere egualmente trattati, e pure un tale operare si stima il buon governo delle famiglie, e si passa avanti perché si arriva a togliere la libertà ai figli datagli da Dio, mentre i padri e le madri stabiliscono per lo più quello stato di vita ne’ loro figli, che a loro più piace e torna più conto alla casa. Discorrono fra se marito e moglie, e senza un’oncia di cervello determinano il tale lo faremo prete, quella monaca, l’altra femmina in casa; il secondo tra i maschi prenderà moglie. Chi vi ha data l’autorità di stabilire la vocazione a’ vostri figli? E se quello che volete far Prete volle moglie, e se quella, che destinate per monaca volle marito, ditemi se vi riuscirà di legarli per il timore che v’avranno con voto di castità, non gli esporrete a perder l’anima, a vituperar la casa con mille disonestà? Se quelle anime de’ vostri figli per forza religiosi si perderanno, voi, voi padri ne renderete conto a Dio. – O se io potessi avere tale udito che arrivasse a sentire le voci de’ poveri figli e figlie dannate per tal causa, credo che sentiremmo esclamare maledetto quel seno che mi concepì, maledetto quel petto che mi allattò, maledetta quella madre che mi partorì, meglio per me farebbe stato se io fosse nato d’un orso ed allevato da una tigre, mentre da questi non farei stato sforzato ad eleggere stato contrario alla mia natura. Tali saranno i rimproveri de’ figli; non vi mettete per tanto a simili cimenti o padri, o madri, lasciate che i figli si eleggano lo stato da per loro, voi educateli bene. Il Sacro Concilio Tridentino fulmina la scomunica sopra di quei padri che sforzano a monacarsi le figlie. Ah che avesse pronunziata ancor contro quei padri che a forza vogliono congiunte per interessi privati una figlia ad un marito, con cui ella non ha punto di genio, ed in sostanza lo piglia per forza. Voi per certo o padri e madri non fareste queste violenze, se poteste prevedere le rabbie, gli adulteri, gli omicidi, i veleni, che seguiranno da quelle nozze, da quel matrimonio violento. Intendetela, il buon essere della vostra famiglia, il vantaggio della medesima, la buona educazione de ‘ vostri figli non consiste in togliergli la libertà che Dio gli ha data, ma bensì in allevarli col santo timor di Dio, nell’insinuarli nel cuore l’orrore al peccato mortale, la fuga delle occasioni; se così farete, vedrete progressi non ordinari, stabilimenti lucrosi nelle vostre case, altrimenti dannazione per loro, morte eterna per voi. – Parliamo ora con i figli. Se i vostri  padri meritano castighi sì fieri per la trascuraggine nella educazione, che castighi non meriteranno quei figli che tanto strapazzano i loro genitori? Ecco là quel figlio che non dà mai una buona parola alla povera madre; se gli comanda, gli volta le spalle, e talora la schernisce come rimbambita, e gli cava amare lagrime dagli occhi, e poi neppur si confessa d’averla sì altamente amareggiata. Ecco là quel figlio che già ha tolto al povero padre il maneggio, gli dice: attendete a campare, e gli pare un’ora mille che muoia. Poveri padri, povere madri, son costretti talora a sentirsi vomitare addosso imprecazioni tali per bocca de’ figli che certo da niuna lingua l’avranno mai sentite sì acerbe. Iddio però li sa castigare. Vi sovvenga di quel celebre miracolo operato dalla Vergine Santissima di Loreto in persona di quel disgraziato figlio che avendo scritta una lettera con improperi ai suoi genitori, perché gli mandassero denari, restò del subito, messa la lettera alla posta, sordo del tutto, né  mai poté guarire, finché la Vergine Santissima coll’assenso de’ genitori non lo risanò. Poveri padri, povere madri alle loro tante fatiche al loro amore ricevano talora ingratitudini barbare; un tale appunto ne riceve un povero padre nella Normandia, il quale dopo avere fatta la donazione di tutto al figlio per avvantaggiarli fortuna d’un matrimonio, non solo arrivò l’ingrato figlio ad istigazione ancora della perfida moglie, a metter fuori di casa il padre, e collocarlo in una misera stanza, ma a farlo patire del necessario al sostentamento; non andò però molto, che il Signore lo castigò. Aveva cucinato la consorte un pollo, ed allorché stava per porsi a tavola col marito, giunse il vecchio padre all’uscio, ma non poté sì presto salire, che non avessero tempo per riporre il pollo nella credenza; lo riposero, e poi rivolti al padre: padre, gli dissero, andate, non avete pane? Vi basti quello. Licenziato così bruttamente il padre, torna alla credenza il marito, e invece del pollo vi vede un rospo, che saltatogli al viso, gli si attacca come polpo allo scoglio, né fu mai possibile staccarlo, finché d’ordine del Vescovo non ebbe girato varie città per insegnamento a’ figli di rispetto a’ padri. Volete vedere quanto prema al Signore che si rispettino il padre e la madre? Arguitelo dal vedere che ben spesso il Signore fa che cadano sopra de figli quelle maledizioni che gli sono mandate dai padri e dalle madri. Strapazzava un figlio indegno la madre, e le diceva parole d’ingiuria, quando la madre tutta in collera, va’ maledetto, che ti possa vedere impiccato. Il figlio invece d’intimorirsi a questo fulmine, se la rise, e così ridendo a schernir come vecchia e fuori di sé la povera madre, che così burlata mandava dagli occhi calde lacrime. Si affrontò a sentire tutto questo vilipendio un savio Sacerdote, il quale si stimò obbligato a riprender quel giovine ed a fargli capire che quel fulmine poteva verificarsi. uscito dalla bocca della madre di vederlo impiccato. Quel giovane insolente senza rispetto al Sacerdote, gli rispose arrogantemente: quando sarò impiccato verrete voi a raccomandarmi l’anima. Volete altro? Udite caso funesto. Montò un giorno a cavallo questo figlio, si pose a spasseggiar con esso per la città, passò per i macelli, ove sono quegli uncini di ferro a’ quali si attaccano le carni; s’inalberò il cavallo, s’infuriò talmente che, sbalzatolo di sella lo lasciò attaccato per la gola ad un di quegli uncini; già così impiccato spirava l’anima, quando cercandosi da tutti un Sacerdote, perché l’assistesse, non si trovò, salvo che quello che l’aveva ripreso. – Di questi casi ve ne potrei contare a centinaia: rispettate i vostri genitori, perché se gli escano dalla bocca di queste maledizioni, guai a voi. Sebbene questi son castighi temporali, aspettatevi gl’eterni. Fate a mio modo, portate ogni rispetto a’ vostri genitori, rispetto di parole, rispetto di fatti. Io ho conosciuto un cavaliere d’età di cinquanta anni ammogliato, il quale mai usciva di casa, che non dicesse: signora madre vo’ fuori, mai tornava, che non dicesse, signora madre sono in casa; mai andava a letto, che non gli chiedesse la benedizione. Questo è il modo per meritare la benedizione da Dio in questa vita e nell’altra…

QUARESIMALE (XIII)