QUARESIMALE (XXIV)
DI FULVIO FONTANA
Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ
Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)
IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA VENTESIMAQUARTA
Nella Feria terza della Domenica quarta
II tesoro scoperto a’ peccatori nella preziosità dell’anima.
In die Festo mediante ascendit Jesus in Templum. San Giov.: cap. 7
Considerò Giovanni Crisostomo, con le pupille attonite per lo stupore, quel maestoso tempio di Gerosolima in cui nihil erat quod auro non tegeretur, ed in esso nulla più ravviso’, salvo che l’ombra d’un’anima, Unicum Templum diruit Dominus Jerosolymis, et innumerrabilia erexit illo longe venerabiliora, vos inquit, Templum estis Dei viventis. Or se così splendida è l’ombra, che deve essere la vera luce, l’anima! Ah, che ella è sì preziosa, che non v’è cosa creata, che la superi, e basti dire che è abitazione di Dio, e che qui veramente ascendit Jesus, come in suo Tempio. Diamo dunque un’occhiata al gran tesoro, che è l’anima, ed alla poca stima che taluno ne fa; acciò risolva una volta, renderla abitazione di Dio. E son da capo … – Non v’è giocatore, che senta meno d’afflizione nel perdere il suo, di chi si pone a giuocare sulla parola. Quel non vedere ciò che si perde, riesce un impoverire tanto più dolce, quanto meno osservato. Ecco la maniera con la quale giuocano tutto il giorno i peccatori. L’anima col diavolo giuocano come per polliza, senza numerare, o pensare ciò che essi perdono. M’indurrei, sto per dire, a perdonarli questa gran pazzia, se almeno e’ ricordassero, che giuocano da davvero, e non da burla. La maniera, a mio credere, più efficace per emendare un tal uomo è porli avanti gli occhi quella ricchezza medesima, che egli troppo facilmente perdendo, disprezza. Così Agrippina bramò correggere il suo figlio Nerone, che in un sol giorno arrivò a sborsare ad uno ottocento mila scudi. Fece ella adunare insieme in monte quella gran somma d’oro; e poi: questo, disse, o Figlio è quel poco, che voi ieri buttaste. Voglio anche io valermi di questa regola; e vedendo tanti che per nulla giuocano, e perdono l’anima loro, voglio porli avanti gli occhi il gran tesoro che buttano, la gran perdita che fanno. Non v’ha dubbio, che la preziosità dell’anima non può conoscersi qual ella sia qua giù fra noi; e che solo ben si conoscerà quando farà nel suo proprio lume in Paradiso. L’anima finché è chiusa nel nostro corpo non mostra il suo bello a guisa della conchiglia, che serrata non palesa la bellezza della perla che racchiude. Non è però che io non voglia darvene al meglio, che so qualche notizia. Sentite come parlano dell’anima anche coloro che non avevano bagnata la fronte d’acque battesimali. Aristotile ci dice che l’Anima è un ristretto virtuale di tutte le creature: est quodammodo omnia. Parli Seneca, che quantunque privo del vero lume della Fede, asserì ad ognuno, che quanto ha di buono è l’anima, cogita in te præter animam nihil esse mirabile; ed il padre della romana eloquenza giudicò sconvenevole ogni paragone alla sua grandezza, attribuendoli solo il Divino, con dire: Humanus animus excerptus ex mente Divina cum nullo alio, ni si forte cum ipso Deo, si hoc est fas dictu, comparari potest, il che quantunque fosse un iperbolico trascorso di lingua, non deviò però dalle Cattoliche verità. Sebbene, a che cercarne la preziosità da Aristotele, da Seneca, da Cicerone? E non è forse la Fede che ci dice esser l’anima una sostanza spirituale spirata in faccia all’uomo dalla bocca di Dio? Spiravit in faciem ejus spiraculum vita. Dunque l’anima nostra è d’origine celeste, benché cittadina terrena; e come tale, se ebbe principio, non avrà mai fine. Ella è degna d’esser stimata per la sua preziosità intrinseca; essendo una vera immagine di Dio; e perciò l’opera più bella che sia uscita dalle mani della Onnipotenza Divina. Manus tua, Domine, fecerunt ed o quanto stimabile per la sua preziosità estrinseca! Avendomi Dio fatta stima sì alta, che ha voluto mandare il suo Figlio in terra a’ ludibri, a’ flagelli, alla corona di spine, alla croce, alla morte per ricomperarla dalla schiavitù di satanasso: Magna res est anima, quæ Christi Sanguine redempta est. Erigete, dirò io pertanto con Agostino, a chiunque m’ode, erigete anima tanti vales; gloriati pure, o anima di te stessa; perché tu sei di prezzo senza prezzo. O anima quanto sei stimabile! E pure sì poco conosciuta dagli uomini, mentre la pospongono ad ogni più succido piacere, e l’oltraggiano con i peccati; sicché bisogna dire, nescit homo pretium ejus. E perché non ho io qui un paio di bilance, ma non già quelle del mondo, le quali fanno apparire di più peso la terra che il Cielo: Mendaces Filii bominum in stateris: Le vorrei simili a quelle di Teodorico il Savio, il quale intendendo che con pesi falsificati si riscotevano i pubblici pagamenti della plebe ed i tributi esorbitanti de’ principi, comandò subito che le bilance si riformassero ad libram cubiculi regii, alla misura delle regie bilance; che vale a dire bilance perfettissime, bilance di tutta sincerità; poiché con queste spererei di farvi conoscere in parte l’inestimabile prezzo d’un anima. Poniamo dunque su queste, da una parte l’anima, dall’altra quanto v’è di prezioso nel mondo di gioie. Qua presto tutti i carbonchi de’ Garamanti, tutti i coralli della Sicilia, tutti gli smeraldi della Scitia, tutti i diamanti dell’Arabia, tutte le perle della Pescheria: né qui mi fermo. Aggiungete a questo gran tesoro di gemme quanto di danaro conservano ne loro erari tutti i principi d’Italia; passo avanti, quanto ne possiede ogni monarca del mondo. Or pesiamo. Ah che troppo vi corre: assai più, e di gran lunga pesa l’anima sola del più vile uomo che viva sopra la terra. Che dite? Credete voi veramente che l’anima vostra sia più preziosa di tutti i tesori e di tutte le gemme preziose del mondo? Padre sì, Padre no, perché tu o donna hai dato il tesoro dell’onor tuo, mancando di fede al consorte per un poco d’argento. Ma perché tu o fanciulla deste la più preziosa gioia che ne avessi, la pudicizia, la verginità, per un lucro vilissimo, per un brillo, per un dono di fiera? No, che non stimi l’anima, o mercante, più preziosa di tutti i tesori, perché tu per avere quel piccolo guadagno non curi l’anima oltraggiandola con bugie, con falsità, con giuri, spergiuri e bestemmie, no, che non la stimi più preziosa o nobile d’ogni gemma; perché tu per avere maggior facoltà non curi l’anima; sottoponendola alle ingiustizie, alle frodi, agl’inganni. Ma diamo di nuovo un altro peso per eguagliare almeno, se non altro, il peso e prezzo dell’anima. Ecco, che la pongo dall’una parte della bilancia, e dall’altra vi si ponga il valore di quante sono le gloriosissime città d’Italia. Dissi poco; di quante ne domina la Spagna, ne comanda la Francia, ne regge l’Impero Cristiano. Più; se vi si ponga l’Europa tutta con la grandezza de’ suoi monarchi; l’Asia con la sontuosità de’ suoi coronati; l’America con la nobiltà de’ suoi principi; l’Africa con la magnificenza de’ suoi Imperi. Alza ora uditori miei, che tengo su la bilancia, il valore d’un mondo. Ah, che di gran lunga supera il valore d’un’anima; né sono paragone proporzionato i regni della terra con la preziosità d’un’anima. Dico bene o dico male? Dico il vero oppure il falso? Voi mi rifpondete, che dico il falso, se non con le parole, certo co’ fatti; perché voi per possedere non una parte del mondo, non un regno, non una provincia, non una città, ma talora un piccolo feudo, un’entrata maggiore, un misero guadagnuccio non vi curate di perder l’anima con frodi indegne, con instrumenti falsi. No, perché per aver un dominio maggiore non guardate a precipitare intere famiglie. Diasi dunque l’ultimo peso, e si faccia l’ultimo confronto, ponendo sull’altra parte a dirimpetto dell’anima un tesoro maggiore di tutto il mondo. Eccolo, vi si pongano degli uomini sì regi, come imperatori e pontefici, non solo stati e che saranno, ma ancora possibili a tutte quelle vite di monarchi sì grandi, e non è forse un’anima assai più preziosa? Mercè che ella è immortale, e tutte le vite degli uomini hanno da finire. Ah, che sento chi mi dice: presso di me è più preziosa la vita di quella dama a cui servo, di quel cavaliere a cui corrispondo, che non é l’anima. Avete ragione, dite il vero; perché per questi fare getto dell’anima?Tacete, v’intendo, presso di voi val più la vita dell’innamorato, del padrone, della serva, che tutta l’anima vostra. Ah miseri! che nulla stimate il gran tesoro, che dentro di voi racchiudete. Che farò io dunque per indurvi à prezzarlo? Io non posso far altro, che porvi avanti gli occhi la stima, che hanno fatta dell’anima vostra, quei che se ne intendono, e che ne hanno più cognizione di voi. Diteci dunque o voi che vivete a Dio, o nel mezzo del mondo, o ne’ chiostri religiosi: e perché passate la vita in digiuni, in asprezze, in vigilie, in orazioni? Perché, Figli riveriti del Serafico Padre S. Francesco, vi vedo vestiti di ruvido sacco, cinti di rozza corda, sempre con piede nudo anche ne maggiori rigori del verno, perché vi nutrite sempre di cibo vile e mendicato? Ditemi perché? Ecco la risposta: perché vogliamo mettere in sicuro il bel tesoro che abbiamo, l’anima nostra. Perché, o Vergini consacrate a Dio nel chiostro, vi siete ritirate dal mondo; avete abbandonato parenti, amici, e quanti avevate del vostro sangue? Perché avete lasciate le ampie facoltà, date le spalle alle pompe; ed abbracciata col disprezzo la povertà? Dite: perché vogliamo assicurare l’anima nostra. Cari UU. questi, che sono veri intendenti del prezzo dell’anima così operano; e voi, e voi alle crapole, a’ lussi, agli spassi, a’ giuochi, a’ balli, a veglie, agli amori per annichilare il bel tesoro che avete dell’anima vostra. Io non vi dico che a guisa d’Alessio abbandoniate le spose; rinunciate alle comodità; vi poniate in stato mendico. Mi basta, che non contaminiate l’altrui letto; che abbandoniate quell’amicizia; che non amoreggiate con vampe indegne; lo non vi dico, che a similitudine di Francesco di Assisi dispensate a’ poveri quanto avete: ma che non succhiate il lor sangue mendico. Eh via, principiate a far la stima dovuta dell’anima vostra, già che vedete, che gli uomini da bene, che ne conoscono il prezzo, tanto la stimano. E l’anima quando non vogliate credere a questi intendenti; date fede a quelli che ne sono più periti, e che vedono l’anima nel suo lume. Tali sono i Santi, che regnano in Cielo. Io, vi dirà quel gran Patriarca Domenico, or che vedo nel suo proprio lume la bellezza d’un’anima, conosco, che pochi furono i patimenti che tollerai per fondare la mia Religione, acciò tutta impiegasse a salute dell’anime. Pochi furono, vi dirà Francesco Saverio, i miei stenti, i miei sudori per salvar anime. Li dieci anni che spesi per la salute di tante erano ben impiegati per un’anima sola: tanto ella è stimabile. E pure una gioia tanto stimata dagli uomini da bene nel mondo, da’ Santi in Cielo sì poco si prezza da tanti peccatori; anzi si strapazza con odi, con bestemmie, con spergiuri, con amori, con laidezze. Come è possibile, che un’anima così preziosa da voi sì poco si prezzi? Orsù, giacché le mie voci col testimonio de’ buoni e de’ Santi al vedere, non bastano per farvi conoscere la preziosità dell’anima, lo saranno forse quelle dell’inferno, ed essendo queste a voi più amiche, avranno forse maggior forza da persuadervi. Tanto più, che dimorando colaggiù gente peritissima, potranno darvene certe le informazioni. Interrogate, miei UU., uno di quegli spiriti ribelli che precipitosi caddero dal Cielo nel più cupo profondo degli abissi, che cosa sia anima; e sentirete rispondervi: io, che pur sono più d’ogn’altra creatura superbo ed altero; io, che gareggiar volevo col mio Creatore, e farmi simile all’Altissimo; io, io per l’acquisto d’un’anima pur volentieri m’abbasso, m’umilio, e mi soggetto all’uomo, con servirlo, con ubbidirlo. lo, che fui annoverato tra le angeliche squadre, benché tumido, e gonfio per alterigia, ad ogni modo desideroso di acquistar un’anima servii per lo spazio di sei anni ne’ più vili ministeri che immaginar si possano, un vilissimo Fantaccino, fino a farmi sgabello de’ suoi piedi con le spalle del corpo, che avevo assunto; ogni qual volta voleva montare a cavallo, e speravo ben impiegate le mie umiliazioni, la mia servitù; perché so quanto sia preziosa un’anima; ed altrove costretto il demonio a forza d’esorcismi ebbe a dire per bocca d’un energumeno, che per un’anima tutti i diavoli, se fosse possibile, che a guisa d’uomini potessero patire nel corpo, volentieri si lascerebbero precipitare dal Cielo in terra per una scala ripiena tutta di rasoi, di coltelli e di ferri pungentissimi. Non ci partiamo ancora dall’inferno per bene intendere la preziosità d’un’anima, chiede un dì il demonio licenza a Dio d’esercitare la pazienza di Giob con tutto il suo diabolico talento condiscende Iddio, con questo però che non tocchi anima: Verumtamen animam illius serva. Sfoga dunque il demonio le maggiori rabbie d’inferno, ma in vano; perché Giob quanto più combattuto, tanto più si rende forte, onde è, che tornato lo spirito infernale da Dio, sente dirsi: or che ti pare della pazienza del mio servo Giob? Ah che egli prontamente: e chi non sa, che l’uomo per salvar l’anima porrà ricchezze, figli, sanità, e vita? Cuncta, quæ babet homo dabit pro anima sua. Ah peccatori, grida qui contro di voi Origene, udite. Lo stesso demonio dice ed asserisce esser l’anima sì preziosa, che deve preferirsi a figli, a moglie, a’ mariti, reputazione, a roba, a tutti i beni del mondo: satan ipse omnia pro anima daturum hominem dicit; e voi con strapazzo più che diabolico la posponete a quel ballo, ove con piè leggero gravemente calpestate la modestia; a quella amica che con la morte dell’anima v’appresta il corpo; a quell’interesse, che vi renderà povera la vita, e mendico lo spirito; a quella nemicizia, che partorirà a voi un colpo che fermi il corpo in mezzo ad una strada e butti l’anima nell’inferno. Lasciate, deh lasciate, che io, o miseri peccatori, esclami con Salviano, e me la prenda contro di voi, che sì poco fate conto dell’anima; lasciate pure che io gridi fino alle stelle, che ne ho ben ragione, quis furor viles a vobis animas vestras haberi, quas et diabolus putat esse pretiosas? Che furore è mai questo, o Cristiani, che pazzia è mai la vostra, stimar si poco quell’anima creata da Dio, redenta da Dio mentre tanto la stimano i diavoli e la prezza l’inferno. Ma passiamo agli altri periti, che sono gli Angeli. Spiriti Angelici Santi, voi che state custodi al nostro fianco, diteci, che cosa è un’anima? Udite la risposta: io, dice uno di loro, benché Principe del Soglio Celeste, benché di natura superiore all’umana, benché sempre beato; con tutto ciò non sdegno di servire all’uomo per vile ed abietto che sia: l’ammonisco con esortazioni e lumi interiori; lo consiglio, l’aiuto, mai l’abbandono, io, io son quello, che mi umiliai in forma di chirurgo per sanare le piaghe di Cristina; che mi feci cameriere scopando la stanza d’Aurelio; m’abbassai fino al vil mestiere di bifolco, e di marinaro, guardando gli armenti d’Isidoro, e guidando la barca di Basilide. Or io replico adesso … ditemi, per qual motivo una sì nobile creatura, un purissimo spirito, un Principe del Soglio Celeste soggettarsi a tante bassezze? Ah, che non per altro al certo, se non perché l’anima è preziosa sopra quanto può trovarsi di prezioso. Tutto è vero; ma ad ogni modo non vogliono i peccatori stimar l’anima, benché gli Angeli la stimano, la vogliono morta tra quelle lascivie, tra quelle mormorazioni, tra quelli odi, tra quei maledetti interessi. E che posso dunque fare io? Io non posso far altro se non che gli confermi il valore lo stesso Dio. Egli dunque, che è eterna Verità, che è infinita Sapienza, che conosce il giusto peso di tutto il creato vi dia la notizia accertata della preziosità d’un’anima. Cristiani date orecchio alle parole, attenzione al discorso: è un Dio che parla, audiat terra verba onis mei. Per l’Anima, dice Iddio nostro Redentore, scesi dal seno dell’Eterno Padre; per l’anima nacqui in una stalla, tra due animali; per l’anima vissi in miserie, tollerai patimenti, soffersi ingiurie, mi sottoposi a fieri strapazzi per l’anima in somma diedi il corpo ai flagelli, il capo alle spine, le mani ed i piedi a’ chiodi, per esser confitto in una croce ove per l’anima ignominiosamente fra due ladri come capo d’assassini spirai la vita in braccio a dolorosissima morte. Gridi pur Bernardo dal suo eremo di Chiaravalle magna res est anima, qua Christi Sanguine redempta est; gran cosa è l’anima, mentre per ricomperar la vi è voluto il Sangue di Cristo. Io non ho che dir di vantaggio, o peccatori; e se non arrivate à conoscere il prezzo dell’anima vostra e la sua preziosità, mentre vedete esser costata il sangue e la vita d’un Dio, che posso io fare? O cosa invero deplorabile! Vede apertamente il peccatore che l’anima sua, costata a Dio tanto sangue, va in rovina, ed ad ogni modo non vi pensa; vede che già sta con un piede nell’inferno, e non riflette: sa di certo, che egli è in disgrazia di Dio, e che ad ogni momento lo può coglier la morte e mandarlo in eterna dannazione ed egli, come se non fosse fatto suo, come se non gli importasse niente, ne vive totalmente spensierato; e quel che è peggio, ride, scherza, burla. Deh aprite gli occhi al ricordo di Santa Teresa, lasciato a’ suoi figli e figlie: Memento unicam esse animam, unicam esse gloriam, pensate e seriamente pensate, che avete un’anima sola, e che se la perdete, è perduta per sempre. Peccatore, peccatrice, rispondi alle interrogazioni di San Giov. Crisostomo, il quale sopra quelle parole: Quam dabit homo commutationem pro anima sua? Così dice: si non aliam habes animam, quam possis pro anima tua dare? Dimmi, o tu, che sì poco prezzi l’anima tua: quante Anime hai? Perduta che ne abbi una, te ne rimane forse un’altra, con cui tu possa riparare la perdita della prima? Certo che se hai fede, confesserai di non aver che un’anima. Un’anima sola dunque ti trovi, e ne vivi sì trascurato? E la vedi andare in rovina, in perdizione, e non ci rimedi? Io per me so che di quelle cose delle quali l’uomo non ha più che una, ne tiene cura straordinaria. Fate che quel padre di famiglia non abbia più d’un figlio, voi vedrete che se ne prende un grandissimo pensiero. Oh come l’accarezza! Quanto amore gli porta! E se per disgrazia gli si ammala, voi vedrete che il buon padre non trova quiete, gli porge a tempo prefisso i medicamenti; e se mai morisse quel figlio, o che pianti! O che sospiri! Non vi sarebbe voce o di amico o di congiunto presente, non vi sarebbe penna d’assente che lo potesse consolare. Perdonatemi Angeli Santi, che assistete al Trono di Dio; se scendo a paragoni assai più vili. Lo fo per più confondere il peccatore. Fate che quella dama abbia per suoi onesti sollievi un cagnolino, che compagno fedele la segua ovunque ella si porti; s’ammali questa bestiola; non si perdona a spesa; si fa talora vegliare chi v’assista per vedere i combattimenti del male; s’adoperano medicamenti, e sol si desiste dal chiamar medico per sicurezza o di negativa, o di riprensione. Se poi a forte morisse l’amato cagnolino, sono sì copiose le lagrime dell’addolorata padrona, che non cessano per giorni, e forse per mesi. Or, se tanta cura si ha d’un figlio … che d’un figlio? D’un animale, d’una bestia, che la lor perdita tanto ci affligge, perché una sola ne abbiamo; è possibile, che dell’anima, che non solo non ne abbiamo più d’una, ma neanche ne possiamo aver più, così poco ce ne prendiamo cura e così poco ci duole il perderla? Voglio finire a pro dell’anima con quella gran sentenza la quale ben ruminata ha partorito a tanti il Paradiso. ́ Ah Dio, che se perdete l’anima, avete perduto il tutto; e se salvate l’anima, avete posto in sicuro il tutto: Quid prodest homini, si mundum universum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur? Quid prodest? Rispondete o cavalieri; che vi gioverà aver atterrato l’inimico, accresciute le facoltà con mercedi ritenute, con estorsioni praticate; in una parola, con roba altrui? che vi gioverà l’applauso riportato in quella giostra, in quella barriera, in quell’azione cavalleresca, se avete danneggiata l’anima vostra, sicché resti eternamente dannata? Quid prodest? che gioverà? Tutto vanità, tutto nulla. Quid prodest? Parlate o dame: che vi gioveranno quelle giornate felici delle vostre nozze concluse, l’allegrezza del banchetto nuziale, che vi gioverà la pompa del corteggio, l’esser voi stato l’oggetto di tutti gli occhi, quando tutta vaga nelle ricche e capricciose vesti eri ne’ corsi da tutti ammirata, e con profondi inchini riverita? Che vi gioverà tutto questo, se l’anima vostra si perderà per tutta l’eternità? Quid prodest? Che vi gioverà? Nulla! Tutto è dato vanità, vanitas. O ecclesiastici, o regolari, o secolari che siate, dite: Quid prodest? che vi gioverà l’esser stati esaltati a gradi sublimi; l’aver ricevuto le maggiori acclamazioni? Quid prodest? Se per questi motivi voi avrete resa l’anima vostra degna d’inferno; Quid prodest e a che gioverà? Nulla! Tutto è vanità, che dura finché arrivi al sepolcro, vanitas, etc.. A che giovano o letterati le vostre cattedre, i vostri plausi, le vostre glorie? A che, o mercanti, le vostre fortune negli interessi, la prosperità ne’ vostri negozi, l’abbondanza d’ogni danaro? Quid prodest che, o giovani, l’esservi sempre ricreati ne’ piaceri, a che le conversazioni, i giuochi, a che le veglie, i canti, i balli, gli amori? A che quelle commedie rappresentate agli occhi del corpo; mentre i peccati, facevano tragedia nell’anima? A che? Quid prodest? Che gioverà tutto questo, o giovani, o mercanti, o letterati, se in fine fra pochi giorni stesi sul cataletto col corpo, avrete l’anima nell’inferno? Quid prodest? o Peccatori dopo, che vi farete ben bene satollati nelle vostre laidezze prendendovi le vostre felicità bestiali dopo che avrete saziata la vostra avarizia, la vostra vendetta, le vostre crapule, che vi gioveranno tutti questi falsi beni? Se in fine perderete totalmente l’anima vostra, che vi gioverà? Nulla! morto voi, tutto morendo con voi mostrerà, che tutto fu vanità, vanitas vanitatum. Donne, che peccaste senza punto pensare all’anima, dopo che avrete appagate le vostre voglie, e vi sarete soddisfatte negli amori; dite a voi stesse: Quid prodest? Che mi giovano tutte le mie allegrezze, contenti e vanità, mentre io mi danno? Nulla! Tutto sarà stato vanità; perché l’anima sarà perduta, vanitas. Quid prodest? In somma, che vi gioverebbe aver avuto i tesori di Salomone, le fortune d’Alessandro, l’imperio d’Augusto, le delizie di Sardanapalo, la dottrina d’Aristotele? che vi gioverebbe, o donne l’aver avuti gli amanti di una Taide, ed i piaceri d’una Venere, se poi, perduta l’anima, precipitate nelle fiamme ad ardere per tutta l’eternità … a nulla; tutto finisce; e l’anima sarebbe dannata: vanitas, et cogita itaque, mi rivolto a voi, de Anima, noli de alienis curare te, ac tua negligere. Deh rivoltate, o Cristiani, il vostro pensiero all’anima: pensate di proposito a questo; e già che ella è di tal prezzo, che per redimerla vi è voluto il Sangue di Cristo; non vogliate voi venderla per nulla, ucciderla con i peccati. Non vogliate esser più trascurati nelle cose che appartengono alla vostra salute di quello siate in quelle cose che poco, o nulla importano. Noli, noli de alienis curare et te, ac tua negligere; non vi scordate di voi stessi, dell’anima vostra, della vostra salute; per non aver a piangere tal dimenticanza finché Dio sarà Dio, ed imparare a tener conto dell’anima …
LIMOSINA
Uno de’ maggiori contrassegni di prezzar l’anima è la limosina ai poveri, e se la farete partorirà a voi, ed ai vostri discendenti la salute eterna. Udite; mi ricordo aver letto come Eutichio Senatore Romano, uomo nobilissimo e ricchissimo, allorché si ritrovava al governo della provincia di Borgogna, venne colà tanta penuria di viveri, che i poveri ne morivano di fame. Eurichio, che veramente aveva viscere di pietà, mantenne con le sue entrate in quella dolorosa carestia, più di quattro mila poveri. Terminata la penuria rimandò Eurichio tutti i poveri alle proprie case, ringraziando il Signore, che l’avesse inspirato ad una tal opera, e n’ebbe per risposta, da una voce del Cielo che gli disse: Eurichio perché tu nel tempo della fame m’hai sostentato ne’ miei poveri, ti fò sapere, che alla tua discendenza non mancherà mai la mia grazia. Tanto io dico a voi, a nome di questo Cristo. Slargate dunque la mano.
SECONDA PARTE.
I popoli dell’America tenevano da principio l’oro in più vile stima del ferro; ma osservando a poco a poco che gli Europei navigavano con tante pene e pericoli per averlo, che vi lavoravano attorno con tanto studio e che lo difendevano anche con la vita, cominciarono anche essi a farne più conto, ed a servirsene come di mezzo per supplire con quello a’ propri bisogni. Per l’addietro, miei Uditori, siamo vissuti in somma ignoranza, senza conoscere l’anima, ma ora che abbiamo avuta qualche luce della di lei preziosità, bisogna farne la dovuta stima. Ei è pur vero che con tutte queste cognizioni della preziosità dell’anima, ad ogni modo si conculcherà. E qual è la ragione? Perché più si stima il corpo, ed a questo si pospone l’anima. Pianse questa disgrazia, quasi dissi comune, d’anteporsi indegnamente il corpo all’anima quel santo Vescovo Nonno, quando incontratosi a caso nella pubblica peccatrice Pelagia, poiché vedutala tutta intenta alla cultura del corpo, e del tutto scordata dell’anima, considerolla con occhio santo da capo a piedi; e tutto pieno di confusione esclamò: Mira o Nonno, mira costei, come attende di proposito a farsi bello quel palmo di viso, che ella ha; quanto vi studia d’intorno, quanto tempo vi spende; sai a che fine indirizza tanto lavoro? A fine di piacere agli uomini, a’ suoi innamorati da’ quali all’ultimo non ne ritrarrà che assenzio amarissimo di disgusti: quantas horas facit in cubiculo suo hac mulier, ne turpis videatur esse amatoribus suis, qui hodie sunt et crastine non sunt; indi tratto dal più cupo del cuore un profondo sospiro, seguì a dire: tanto dunque fa Pelagia per piacere agli amanti, tanto coltiva il suo corpo; ed io per piacere al mio Dio Sposo dell’anima mia, che fo? Sì, che fo per l’anima mia? ed in così dire, rinnovando le lagrime, e i gemiti, rivolto a’ Vescovi astanti, e compagni: Posuit faciem suam super genua sua sie omnem sinum suum replevit lacrymis et suspirans graviter dixit ad Episcopos: costei, fratelli miei, ci griderà nel dì del Giudizio, e ci metterà contro Dio, mentre noi non avremo fatta la minima parte per l’anima di quel che ella fece per il corpo, intorno a cui consumò doti e dissipò patrimoni. Quanto disse il santo Vescovo, tanto io dico a voi: che sarà di voi nel dì del Giudizio, che tutto faceste per il corpo, e quasi nulla per l’anima? Esclamate pure, o gran maestro di Carlo Magno, e dite: En quod corrumpitur tanta diligentia amatur quod permanet tanta socordia negligitur. Terrenum colitur, et colesie non curatur Dei imago vilescit, terræ species bonoratur. Eppure è vero, Dio immortale! Dove è il giudizio, o Cristiani? dove è la Fede, o Cattolici? Che cosa è anima? Che cosa è corpo? L’anima è eterna, il Corpo
fra quattro dì fracido nel sepolcro per ingrassar rospi e vermi. Tutto si fa per il corpo, nulla per l’anima; e questo è quello che con lagrime di dolore amaramente deplorava San Giovanni Crisostomo: Si corpus patitur, medicos vocamus, et herbas inquirimus; Sì, sì, per purgare il corpo non si guarda a fatica, a stento, a spesa di più se dirà talora il medico all’infermo: signore, per non morire convien pigliare una buona dose d’amarissime pillole, che si prendano. Dice il confessore: per esser più certo di vostra salute convien domare la vostra carne ribelle con qualche colpo di disciplina … O questo no! C’è la pietra nella vescica (così parla il cerusico) ci vuole il taglio; son prontissimo; io stesso affilerò i rasori; replica il confessore, bisogna dare un taglio, e slontanar da sé colei … Padre non è possibile, e si dice in fatti: più tosto l’anima, che l’amica; ma Signore, replica il medico, per guarire questa cancrena vi vuol fuoco: bruciate pure; esorta il Confessore per placare Iddio bisogna fare qualche limosina; Padre non ne parlate, ho troppe spese: e pure talora la fai a quella poverella per darla al disonore, e toglierla a Dio. Per il corpo in somma si trangugia ogni più amaro boccone, si tollera ferro, e fuoco; tutto si fa per il corpo, nulla per l’anima, Animam vero vitiis laborantem negligimus, grida il Boccadoro; dove si tratta d’anima lacerata da’ vizi, neppure un poco d’impiastro per risanarla. Mutate vita; fate più conto dell’anima, se non volete perdere anima e corpo. Come appunto intervenne a quel cavaliere, il quale viveva nella corte di Corrado Re de’ Merci. Questi quanto amava il corpo, altrettanto strapazzava l’anima; il re, che era piissimo, e molto l’amava, l’ammoniva di quando in quando, e l’esortava a pensare all’anima, acciò sopravvenendogli d’improvviso la morte non fosse colto in disgrazia di Dio. Il cavaliere con sorrisi di riverenza ringraziava il re e l’assicurava, che l’avrebbe fatto a suo tempo. Avvenne intanto che sopraffatto da una malattia gli convenne darsi al letto; il re allora spinto più dalla pietà che dalla cortesia si portò a visitarlo ed instantemente pregollo che avanti si aumentasse l’infermità si confessasse. Udite diabolica risposta: sacra maestà non è questo tempo da confessarsi, mostrerei a’ miei soldati d’aver avuto paura della morte, come se fosse prodezza da capitano non temere né morte, né inferno. Non dubiti però vostra maestà, perché guarito che io sia voglio confessarmi. Invece di guarire gli crebbe il male; fu disperato della salute. Tornò il re a più fervorose esortazioni, perché si confessasse; non dava retta l’infermo; finché, quasi annoiato delle sante parole del suo re, tutto pieno di sdegno, verso di lui rivolto gli disse: sire non vi stancate perché voi non mi potete portar salute né al corpo né all’anima; non è vero replicò il re, l’anima si può salvare, se si perde il corpo. No, no, ripigliò il moribondo, per me non v’è più tempo … v’è tempo … non v’è; e se volete sapere il perché, ecco che ve lo dico. Poco prima che voi entraste in questa camera vennero qui da me due giovani d’aspetto vaghissimo ed uno di essi cavatosi dal seno un nobile libretto, me lo diede a leggere, ed in esso vidi espresso quel poco o nulla di bene da me fatto; indi ritiratosi da parte diede luogo ad un esercito di demoni, che riempirono questa camera ed uno di essi m’aprì il libro delle tante mie scelleratezze e rivolto a quei due bellissimi giovani, che erano due Angeli, disse loro: che fate qui? Costui non è vostro, ma nostro; così è, così è, replicarono gli Angeli, ve lo cediamo, prendetelo pure, e conducetelo al baratro dell’inferno. Allora gli spiriti nemici mi vennero alla vita, e due di loro, che tenevano uno spiedo per uno in mano, me li ficcarono nella vita uno per la testa, e per i piedi l’altro, ed ora mentre parlo lentamente mi vanno trafiggendo con spasimo terribile delle mie viscere, ed allorché questi ferri si uniranno insieme, io morirò dannato; ah che già mi trapassano il cuore, ah già mi pigliano, ah che già mi seppelliscono nel fuoco. Così dicendo sospirò, anima infelice, portata, come dice il Venerabile Beda, da’ demoni nella eternità delle pene; questo è quel che fa chi non pensa all’anima.