DOMENICA III DI QUARESIMA (2023)
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Stazione a S. Lorenzo fuori le mura.
Semidoppio, Dom. privil. di I cl. • Paramenti violacei.
L’assemblea liturgica si tiene in questo giorno a S. Lorenzo fuori le mura che è una delle cinque basiliche patriarcali di Roma. In questa chiesa si trovano i corpi di due diaconi Lorenzo e Stefano. L’Orazione del primo (10 agosto) ci fa domandare di estinguere in noi l’ardore dei vizi come questo Santo superò le fiamme dei suoi tormenti; e quella del secondo (26 dicembre) ci esorta ad amare i nostri nemici come questo Santo che pregò per i suoi persecutori. Queste due virtù: la castità e la carità, furono praticate soprattutto dal patriarca Giuseppe, di cui la Chiesa ci fa la narrazione nel Breviario proprio in questa settimana. Giuseppe resistette alle cattive sollecitazioni della moglie di Putifarre e amò i fratelli fino a rendere loro bene per male. (Nel sacramentario Gallicano – Bobbio – , Giuseppe è chiamato il predicatore della misericordia; e la Chiesa, nella solennità di S. Giuseppe, proclama in modo speciale la sua verginità.) Quando Giuseppe raccontò ai fratelli i suoi sogni, presagio della sua futura gloria, essi concepirono contro di lui tanto odio, che presentatasi l’occasione, si sbarazzarono di lui gettandolo in una cisterna senza acqua. Di poi lo vendettero ad alcuni Ismaeliti che lo condussero in Egitto e lo rivendettero ad un nobile egiziano di nome Putifarre. Fu appunto lì che Giuseppe resistette energicamente alle sollecitudini della moglie di Putifarre e divenne per questo il modello della purezza (la Chiesa nel corso di questa settimana, – Epistola e Vangelo di sabato – legge ì brani della donna adultera e di Susanna. I Padri della Chiesa spesso hanno messo in rapporto quest’ultima con Giuseppe). – « Oggi, dice S. Ambrogio, vien offerta alla nostra considerazione la storia del pio Giuseppe. Se egli ebbe numerose virtù, la sua insigne castità risplende in modo del tutto speciale. È giusto quindi che questo santo Patriarca ci venga proposto come lo specchio della castità » (Mattutino). Giuseppe accusato ingiustamente dalla moglie di Putifarre, fu messo in prigione: egli si rivolse a Dio, lo pregò di liberarlo dalle sue catene. L’Introito usa espressioni analoghe a quelle della preghiera di Giuseppe: « 1 miei occhi sono rivolti senza tregua verso il Signore, poiché Egli mi libererà dagli inganni ». « Come gli occhi dei servi sono fissi verso i padroni, continua il Tratto, cosi io volgo il mio sguardo verso il Signore, mio Dio, fino a quando non avrà compassione di me ». Allora « Dio onnipotente riguarda i voti degli umili, e stendi la tua destra per proteggerli » (Orazione). Faraone difatti fece uscire Giuseppe dalla prigione, lo fece sedere alla sua destra e gli affidò il governo di tutto il suo regno. Giuseppe prevenne la carestia che durò sette anni; il Faraone allora lo chiamò « Salvatore del popolo ». (Il Vangelo dà una sola volta questo titolo a Gesù, quando parla alla Samaritana presso il pozzo di Giacobbe, Questo Vangelo è quello del Venerdì della stessa settimana, consacrato alla storia di Giuseppe). – In questa occasione i fratelli di Giuseppe vennero in Egitto ed egli disse loro: « Io sono Giuseppe che voi avete venduto. Non temete. Dio ha tutto disposto perché io vi salvi da morte ». La felicità di Giacobbe fu immensa allorché poté rivedere il figlio; egli abitò con i suoi figli nella terra di Gessen, che Giuseppe aveva loro data. « La gelosia dei fratelli di Giuseppe, dice S. Ambrogio, è il principio di tutta la storia di Giuseppe ed è ricordata nello stesso tempo per farci apprendere che un uomo perfetto non deve lasciarsi andare alla vendetta di un’offesa o a rendere male per male » (Mattutino). È impossibile non riconoscere in tutto questo una figura di Cristo e della sua Chiesa. – Gesù, figlio della Vergine Maria (Vang.), è il modello per eccellenza della purità verginale. Il Vangelo lo mostra in lotta in modo speciale contro lo spirito impuro. Il demonio che egli scaccia col dito di Dio, cioè per virtù dello Spirito Santo, dal muto ossesso, era « un demonio impuro », dicono S. Matteo e San Luca. La Chiesa scaccia dalle anime dei battezzati il medesimo spirito immondo. Si sa che la Quaresima era un tempo di preparazione al Battesimo e in questo Sacramento il Sacerdote soffia per tre volte sul battezzato dicendo: « esci da lui, spirito impuro, e fa luogo allo Spirito Santo ». « Ciò che si fece allora in modo visibile, dice S. Beda nel commento del Vangelo, si compie invisibilmente ogni giorno nella conversione di quelli che divengono credenti, affinché dapprima scacciato il demonio esse scorgano poi il lume della fede, indi la loro bocca, prima muta, si apra per lodare Dio » (Mattutino). « Né gli adulteri, né gli impudichi, dice parimente S. Paolo nell’Epistola di questo giorno, avran parte nel regno di Cristo e di Dio. Non si nomini neppure fra voi la fornicazione ed ogni impurità. Specialmente in questo tempo di lotta contro satana, noi dobbiamo imitare Gesù Cristo di cui Giuseppe era la figura. Questo Patriarca ci dà ancora l’esempio della virtù della carità, come Gesù e la sua Chiesa. Gesù, odiato dai suoi, venduto da uno degli Apostoli, morendo sulla croce, pregò per i suoi nemici. Pregò Dio, ed Egli lo glorificò facendolo sedere alla sua destra nel suo regno. Nella festività di Pasqua, Gesù, per mezzo dei Sacerdoti, distribuirà il frumento eucaristico, come Giuseppe distribuì il frumento. Per ricevere la Santa Comunione, la Chiesa esige questa carità, della quale S. Stefano, le cui reliquie si conservano nella chiesa stazionale, ci diede l’esempio perdonando ai suoi nemici. Gesù esercitò questa carità in grado eroico « allorché offrì se stesso per noi » sulla croce (Ep.), di cui l’Eucaristia è il ricordo. — La figura di Giuseppe e la stazione di questo giorno illustrano in una maniera perfetta, il mistero pasquale al quale la liturgia ci prepara in questo tempo.
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.
V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
Introitus
Ps XXIV: 15-16.
Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam unicus et pauper sum ego.
[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]
Ps XXIV: 1-2
Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam,
[A Te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]
Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam únicus et pauper sum ego.
[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]
Kyrie
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
Gloria
Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.
Oratio
Orémus.
Quæsumus, omnípotens Deus, vota humílium réspice: atque, ad defensiónem nostram, déxteram tuæ majestátis exténde.
[Guarda, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, ai voti degli úmili, e stendi la potente tua destra in nostra difesa.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes. V: 1-9
“Fratres: Estote imitatores Dei, sicut fílii caríssimi: et ambuláte in dilectióne, sicut et Christus dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis oblatiónem, et hostiam Deo in odorem suavitátis. Fornicatio autem et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, sicut decet sanctos: aut turpitudo aut stultiloquium aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet: sed magis gratiárum actio. Hoc enim scitóte intelligentes, quod omnis fornicator aut immundus aut avarus, quod est idolorum servitus, non habet hereditátem in regno Christi et Dei. Nemo vos sedúcat inanibus verbis: propter hæc enim venit ira Dei in filios diffidéntiæ. Nolíte ergo effici participes eórum. Erátis enim aliquando tenebrae: nunc autem lux in Dómino. Ut fílii lucis ambuláte: fructus enim lucis est in omni bonitate et justítia et veritáte.”
[Fratelli: siate dunque imitatori di Dio come figlioli diletti, e vivete nell’amore, come Cristo che ci ha amati e ha dato per noi se stesso a Dio in olocausto come ostia di soave odore. La fornicazione, la impurità di qualsiasi sorta, l’avarizia non si senta neppur nominare fra voi, come a santi si conviene. Non oscenità, non discorsi sciocchi, non buffonerie, tutte cose indecenti; ma piuttosto il rendimento di grazie. Perché, sappiatelo bene, nessuno che sia fornicatore, o impudico, o avaro (che è un idolatra) ha l’eredità del regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi seduca con vani discorsi, perché a causa di questi vien l’ira di Dio sugli increduli. Dunque non vi associate con loro. Una volta eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signore. Vivete come figli della luce. Or frutto della luce è tutto ciò che è buono, giusto e vero.
PAROLE ALTE E SOAVI.
Se si paragonano queste esortazioni di San Paolo a quelle dei moralisti suoi contemporanei, pagani o giudei, e d’ogni tempo, purché non Cristiani, uno stupore ci invade e ci domina. Quanta altezza fin dalle prime battute dell’odierna epistola: « imitatores Dei estote, » siate imitatori di Dio. Non si può andar più in là, più in su. Specie se si rifletta che il Dio proposto a modello non è la divinità antropomorfica, malamente, fiaccamente antropomorfica del paganesimo, bensì la divinità austeramente, moralmente trascendente del Cristianesimo; non una divinità umanizzata a cui è difficile mostrarsi anche per l’uomo sub-umano, ma la divinità sublime e pura a cui l’uomo non s’accosta se non superando se stesso. Talché la formula pagana « sequere Deum » che altri potrebbe citare come equivalente a questa di San Paolo, per sminuire la nostra meraviglia, sarebbe fuor di proposito. Ma la meraviglia cresce quando noi sentiamo Paolo dir queste cose tanto difficili ed alte in tono d’infinita semplicità e dolcezza. « Imitate Dio, continua l’Apostolo, come figli carissimi voi che siete in Lui ». Vi è già una gran dolcezza nell’idea stessa della Paternità Divina; è, figlioli di Dio; figli, noi piccoli, di Lui che è così grande! Ma San Paolo accentua ancora la dolcezza di quella grande parola e ricorda ai Cristiani per eccitarli ad essere fedeli, eroici emulatori del Padre Celeste, che essi ne sono i figli carissimi, diletti; anzi prediletti. Figli che Dio veramente da Padre ha amati ed ama, ha amati nel giorno della creazione, riamati anche più teneramente e fortemente nel giorno della redenzione. Figli carissimi! Noi rasentiamo il mistero, siamo tuffati nel mistero dell’amore divino. – Che Dio possa avere caro l’uomo! « quid est homo (vien fatto di esclamare) quod memor es eius » che cosa è l’uomo, perché occupi un posticino qualsiasi nei Tuoi pensieri! — e più nel Tuo cuore. Eppure è così. Di Dio noi siamo i figli carissimi. Perciò amorevole deve essere il nostro sforzo per accostarci a Dio, per riprodurlo nella nostra vita. « Ambulate in dilectione », camminate nell’amore, nell’atmosfera dell’amore. L’appello del Monarca è pieno di maestà, l’appello del padrone è pieno di forza, l’appello di Dio è appello di Padre al figlio, appello pieno di dolcezza, pieno d’amore. Ma nell’amore c’è il segreto dell’entusiasmo, e pei sentieri dell’amore, additati da Paolo a noi Cristiani, come i sentieri veramente nostri, le anime volano portate dal vento dell’amore. Nessun segreto migliore di questo per vincere l’altezza che si erge formidabile dinanzi a noi quando guardiamo come a nostra meta niente meno che a Dio.
(G. SEMERIA: Le Epistole delle Domeniche, Milano – 1939, con imprim.)
Graduale
Ps IX: 20; IX: 4
Exsúrge, Dómine, non præváleat homo: judicéntur gentes in conspéctu tuo.
[Sorgi, o Signore, non trionfi l’uomo: siano giudicate le genti al tuo cospetto.
In converténdo inimícum meum retrórsum, infirmabúntur, et períbunt a facie tua.
[Voltano le spalle i miei nemici: stramazzano e periscono di fronte a Te.]
Tractus
Ps. CXXII:1-3
Ad te levávi óculos meos, qui hábitas in cœlis.
[Sollevai i miei occhi a Te, che hai sede in cielo.]
Ecce, sicut óculi servórum in mánibus dominórum suórum.
[Ecco, come gli occhi dei servi sono rivolti verso le mani dei padroni.]
Et sicut óculi ancíllæ in mánibus dóminæ suæ: ita óculi nostri ad Dóminum, Deum nostrum, donec misereátur nostri,
[E gli occhi dell’ancella verso le mani della padrona: così i nostri occhi sono rivolti a Te, Signore Dio nostro, fino a che Tu abbia pietà di noi].
Miserére nobis, Dómine, miserére nobis.
[Abbi pietà di noi, o Signore, abbi pietà di noi.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam. [Luc XI: 14-28]
“In illo témpore: Erat Jesus ejíciens dæmónium, et illud erat mutum. Et cum ejecísset dæmónium, locútus est mutus, et admirátæ sunt turbæ. Quidam autem ex eis dixérunt: In Beélzebub, príncipe dæmoniórum, éjicit dæmónia. Et alii tentántes, signum de coelo quærébant ab eo. Ipse autem ut vidit cogitatiónes eórum, dixit eis: Omne regnum in seípsum divísum desolábitur, et domus supra domum cadet. Si autem et sátanas in seípsum divísus est, quómodo stabit regnum ejus? quia dícitis, in Beélzebub me ejícere dæmónia. Si autem ego in Beélzebub ejício dæmónia: fílii vestri in quo ejíciunt? Ideo ipsi júdices vestri erunt. Porro si in dígito Dei ejício dæmónia: profécto pervénit in vos regnum Dei. Cum fortis armátus custódit átrium suum, in pace sunt ea, quæ póssidet. Si autem fórtior eo supervéniens vícerit eum, univérsa arma ejus áuferet, in quibus confidébat, et spólia ejus distríbuet. Qui non est mecum, contra me est: et qui non cólligit mecum, dispérgit. Cum immúndus spíritus exíerit de hómine, ámbulat per loca inaquósa, quærens réquiem: et non invéniens, dicit: Revértar in domum meam, unde exivi. Et cum vénerit, invénit eam scopis mundátam, et ornátam. Tunc vadit, et assúmit septem alios spíritus secum nequióres se, et ingréssi hábitant ibi. Et fiunt novíssima hóminis illíus pejóra prióribus. Factum est autem, cum hæc díceret: extóllens vocem quædam múlier de turba, dixit illi: Beátus venter, qui te portávit, et úbera, quæ suxísti. At ille dixit: Quinímmo beáti, qui áudiunt verbum Dei, et custódiunt illud.”
“In quel tempo Gesù stava cacciando un demonio, il quale era mutolo. E cacciato che ebbe il demonio, il mutolo parlò, e le turbe ne restarono meravigliate. Ma certuni di loro dissero: Egli caccia i demoni per virtù di Beelzebub, principe dei demoni. E altri per tentarlo gli chiedevano un segno dal cielo. Ma Egli, avendo scorti i loro pensieri, disse loro: Qualunque regno, in contrari partiti diviso, va in perdizione, e una casa divisa in fazioni va in rovina. Che se anche satana è in discordia seco stesso, come sussisterà il suo regno? Conciossiachè voi dite, che in virtù di Beelzebub Io caccio i demoni. Che se Io caccio i demoni per virtù di Beelzebub, per virtù di chi li cacciano i vostri figliuoli? Per questo saranno essi vostri giudici. Che se io col dito di Dio caccio i demoni, certamente è venuto a voi il regno di Dio. Quando il campione armato custodisce la sua casa, è in sicuro tutto quel che egli possiede. Ma se un altro più forte di lui gli va sopra e lo vince, si porta via tutte le sue armi, nelle quali egli poneva sua fidanza, e ne spartisce le spoglie. Chi non è meco, è contro di me; e chi meco non raccoglie, dissipa. Quando lo spirito immondo è uscito da un uomo, cammina per luoghi deserti cercando requie; e non trovandola, dice: Ritornerò alla casa mia, donde sono uscito. E andatovi, la trova spazzata e adorna. Allora va, e seco prende sette altri spiriti peggiori di lui, ed entrano ad abitarvi. E la fine di un tal uomo è peggiore del principio”
Omelia
(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)
LA GRAZIA DI DIO E LA RETTA INTENZIONE
Vi erano molti di così dura cervice che altro non sapevano fare fuorché essere maligni, e accusavano Gesù di compiere miracoli con l’aiuto del demonio. Il Signore però, che conosceva i loro pensieri, davanti a simile calunnia non volle stare in silenzio e cominciò a ragionare così: « Quando un regno è diviso in se stesso e in preda a due opposti partiti, necessariamente cade in rovina. « Ora se voi dite che io caccio i demoni in nome di beelzebub, allora satana combatte se stesso, allora il suo regno è finito per sempre. Ma perché questo non può capitare, se io caccio i demoni e combatto il regno del diavolo, è segno che è giunto il Regno di Dio. « Tra Dio e il demonio non ci può essere qualche cosa di mezzo; se dunque posseggo la forza di Dio, chi non è con me è contro di me; chi non raccoglie con me, disperde » – « Ma, senza dubbio, il più forte sono Io, perché il demonio non può resistermi quando Io lo scaccio dall’uomo. Guai all’uomo però che gli riapre ancora la porta del cuore, perché la sua condizione nuova diviene assai peggiore dell’antica ». Fin qui il santo Vangelo. Quaggiù sulla terra — lo dice il Signore — ci sono due regni che si combattono senza mai aver pace: il regno di beelzebub che tien schiave le anime e le rende mute; il regno di Dio che porta la libertà. C’è dunque da scegliere se vogliamo seguire Colui che è il nostro Salvatore oppure andar dietro ai vessilli di satana. Gesù è stato mandato dal Padre a ricondurre la umanità dalla schiavitù, in cui la teneva il demonio, alla libertà dei figli di Dio. E questa figliolanza divina, che è tutta un favore di Dio, Gesù ce l’ha procurata per mezzo della grazia. È la grazia che ci rende fratelli di Cristo e per ciò figlioli di Dio. Se dunque ci manca la grazia noi non siamo di Cristo e di Dio, ma siamo contro Cristo, contro Dio. Questa stessa figliolanza divina, che la grazia ci ha saputo portare, deve sempre manifestarsi nei fatti: le azioni che andiamo compiendo devono essere azioni di un figlio di Dio, devono essere azioni di un fratello di Cristo. Se dunque mancasse la retta intenzione che al nostro operare dia questo indirizzo, invece di raccogliere tanti frutti di bene noi disperderemmo le energie. Sono due pensieri che dobbiamo. fissare. – 1. È CONTRO GESÙ CHI HA PERDUTO LA GRAZIA. La storia d’Italia, al sec. VIII, ricorda le vicende dei re Longobardi. Barbari ancora, alternano, con facilità che sorprende, la guerra e la pace, le ostilità e l’alleanza. Astolfo, divenuto re nel 749, ruppe subito col Papa la tregua giurata dai suoi predecessori, e colle truppe focose dei suoi uomini mosse contro la città di Roma prendendola d’assalto. Il Papa Stefano II va ad incontrarlo alle porte dell’urbe, gli si avvicina, lo prega di ritirarsi. Il re, sconfitto da quella maestà, così debole e pur così potente, domanda perdono e giura una tregua che doveva durare tre anni. Il suo proposito, perché non fosse di sole parole, volle scritto con atto solenne. Non era passato un anno ed Astolfo, violando la parola giurata, assale la città, la mette al saccheggio e, quasi fosse l’assoluto padrone, la costringe ad un grave tributo. Fu allora che il Romano Pontefice, per sollevare le calamità del suo popolo, ordinò preghiere e digiuni. Anzi il Papa in persona, nudi i piedi, con una grave croce sopra le spalle, effondendosi in lagrime, percorre in processione le vie di Roma, seguito dal Clero e dal popolo asperso di cenere. Davanti a tutto il corteo di penitenza e di pianto, su una croce, veniva portata la pergamena della tregua infranta dal re. Cristiani, quante tregue infrante, quante volte anche noi abbiamo rotto l’amicizia di Dio. Losca figura quella di Astolfo, ma forse qualche volta gli siamo assomigliati. Nel giorno del nostro Battesimo noi fummo portati alla Chiesa. Di fronte a Dio eravamo… dei barbari, degli stranieri che non vantavano diritto alcuno. Ma il Signore ci ha voluto bene, ci ha accolto nella sua terra ed ha stretto con noi non solo un patto di alleanza, ma un vincolo di vera parentela. In quel giorno gli siamo divenuti figli adottivi. Il patto fu scritto non su un foglio di carta, ma nell’intimo dell’anima nostra, non in inchiostro ma col Sangue del Figlio di Dio, non con una penna qualunque ma col legno della Croce di Cristo. Eppure, noi col peccato mortale abbiamo dimenticato quel giorno così bello. Coll’esercito scomposto e barbaro delle nostre passioni abbiamo dato l’assalto alla città santa di Dio che era il nostro cuore adorno di grazia; in un momento di pazzia abbiamo infranto lo splendore dell’anima nostra, abbiamo distrutto le tracce del Sangue di Cristo, abbiamo resa inutile la morte stessa di Lui. Gesù fu obbligato a porre su la nuda sua croce la nostra amicizia infranta e mostrarla agli Angeli che avranno pianto il nostro spergiuro. Proprio sul legno benedetto della Croce, che ricorda la misericordia di Dio infinita, Gesù ha dovuto appendere, come Papa Stefano II, la prova vergognosa della nostra ingratitudine e della nostra cattiveria. Ma, se noi vogliamo, Gesù è ancora pronto a perdonare e per un atto di sincero dolore, scriverebbe ancora col suo sangue un’amicizia più bella. – 2. NON RACCOGLIE CON GESÙ CHI NON HA RETTA INTENZIONE. S. Agostino, nelle sue Confessioni, racconta questo episodio. Mentre l’imperatore Teodosio era a Treviri a vedere i giochi del Circo, due dei suoi cortigiani vollero rinunciare a quei divertimenti per godersi qualche ora di libertà dei campi. Attraverso un bosco, giunsero ad una rozza capanna solitaria. Entrarono, ma non c’era nessuno. Squallide pareti, poche masserizie, una grande croce. Sopra una tavola tarlata, stava aperto un libro, logoro dall’uso continuo. Uno di loro lo prese in mano e si mise a leggere forte: era la vita di S. Antonio Abate. Intanto la grazia lavorava in quelle anime, e colui che leggeva deponendo il libro, cominciò: « Noi allora siamo su una strada sbagliata! Dove vanno a finire le nostre azioni? Che facciamo al servizio dell’imperatore? Sopportiamo fatiche, accettiamo umiliazioni, affrontiamo contrasti per divenire suoi favoriti: e poi… ci attiriamo invidie, calunnie e nulla più. Teodosio è un uomo mortale… potrà essere immortale la sua mercede? Lasciamo un padrone che dovrà morire, per servire Iddio che non muore mai! ». E tutti e due si fecero eremiti (Confessioni, lib. VIII, c. 6). – Anche noi, o Cristiani, abbiamo spesso bisogno di staccarci dalle cose del mondo per raccoglierci un poco nel fecondo silenzio di una meditazione severa. Se in questa solitudine dell’anima noi leggessimo gli esempi dei Santi e facessimo passare almeno qualche pagina della nostra vita, vedremmo, come quei cortigiani, quanti passi sono davvero perduti, quante azioni rimangono senza frutto, quanto tempo è miseramente sciupato. Manca la retta intenzione, manca l’offerta a Dio delle opere nostre ed allora rimane il vuoto. «Chi non raccoglie con me, disperde », dice Gesù nel Vangelo di oggi. Che direste voi di un contadino che lavora tutto l’anno il suo campicello e poi, quando giunge il tempo della messe, si vede disperso dalla bufera e dal vento tutto quanto il raccolto? È quello che capita all’anima di colui che non ha la retta intenzione. – Quando andiamo alla Chiesa soltanto per farci vedere o per una intenzione tutt’altro che santa, noi disperdiamo ogni cosa: non è con Gesù che facciamo il raccolto. Quando il lavoro di ogni giorno è compiuto unicamente per fare danaro, la nostra mercede l’abbiamo già ricevuta. Il padrone che abbiamo servito non è il Dio che non muore ma è un tesoro che la ruggine può sempre corrompere ed i ladri possono rapirci. – Dovessimo fare le grandi elemosine di S. Carlo Borromeo, se ci manca la intenzione giusta, diventeremmo poveri anche davanti a Dio; facessimo pure le grandi penitenze dei padri del deserto, se non ci muove la gloria di Dio saremmo degli stolti: perdiamo i piaceri della terra e non acquistiamo quelli del cielo. – Supponete che un uomo abbia impiegato parecchi giorni e parecchie notti a comporre una lunga lettera da cui dipende un affare di capitale importanza, ma, dopo averla ben descritta, la consegnasse alla posta con l’indirizzo sbagliato. Poveretto! Ha sciupato tutto il suo tempo e ha concluso nulla! Cristiani, se le nostre azioni, da cui dipende la nostra salvezza eterna, le cominciamo senza la grazia di Dio o con una intenzione che non riguarda il Signore, noi sbagliamo indirizzo. O siamo andati contro Gesù o non abbiamo raccolto con Lui: le nostre mani rimangono vuote. — IL DEMONIO DELL’IMPURITÀ. Mentre Gesù predicava gli condussero davanti un povero indemoniato, perché lo liberasse. Lo spirito immondo che travagliava quell’infelice è il demonio dell’impurità. E lo possiamo dedurre dalle parole del santo Vangelo: a) illudque erat mutum: un demonio muto che non lo lasciava parlare. Se c’è un peccato che ci fa diventar muti nella santa Confessione e che per palesare occorre vincere una grande e diabolica riluttanza è appunto il peccato impuro: b) ambulat per loca inaquosa: quærens requiem et non inveniens. L’impuro può stordirsi nella burrasca delle passioni, può tentare qualsiasi divertimento e saltare qualsiasi barriera, ma nel suo cuore c’è un’arsura che non si placa, è un fuoco e non si spegne. Chi non ricorda la notte dell’Innominato? c) Et fiunt novissima illius, peiora prioribus. Poche parole, ma tremende. Ogni ricaduta in questo peccato, è un nuovo salto nel precipizio, sempre con minor speranza di poter risorgere, perché indebolite le forze nostre spirituali, siamo zimbello di ogni capriccio di satana. Eppure il mondo, e fors’anche non pochi Cristiani. stimano questo peccato una cosa da nulla, un bisogno della natura, una galanteria, Ci apra Iddio gli occhi, ci faccia comprendere la gravità del peccato impuro, ci doni la forza contro ogni suggestione della carne. – 1. DEMONIO DELLA MUTOLEZZA I nemici della religione hanno gridato che il Sacramento della Penitenza è una carneficina d’anime. Noi sappiamo come questo non sia vero: e che una grande serenità e un’intima pace viene in noi dopo aver confessato i nostri difetti con sincerità davanti a Gesù Cristo. Forse la calunnia degli avversari è vera nel senso che per confessare certe miserie è necessario vincere la nostra superbia, è necessario farci grande violenza, è necessario scacciare il demonio che con la sua mano ci tura la bocca. …Et cum eiecisset dæmonium, locutus est mutus… Talvolta oppressi dalla vergogna, piuttosto che confessare la propria colpa e risorgere, si preferisce perdere la fede e negare la verità del sacramento della Confessione. Ecco perché il Santo Curato d’Ars faceva confessar tutti quelli che a lui si presentavano anche se dicevano di non credere più. « Ma signor Curato, io non vengo a confessarmi, vengo per ragionare… ». « Non importa, inginocchiatevi ». « Ma Padre… ». « Scacciate quel demonio che vi chiude la bocca e parlate ». Credetelo, Cristiani, i sacrilegi della Confessione, quelli magari che si trascinano in lunghe catene fino al letto di morte e oltre… cominciano da qui, dal peccato impuro. – Un giorno in mezzo alla Corte, ove eransi radunati molti illustri cittadini, apparve il profeta Geremia attorcigliato da immense catene. Tutti stupirono: ma egli gridò: « Hæc, dicit Dominus, subiicite colla vestra sub iugo regis Babylonis, et servite ei ». Chi è questo re di Babilonia? Il demonio impuro. Quel demonio che prima dipeccare vi dice: godi; poi, se ci sarà bisogno, ti confesserai! Ma poi vi chiude la bocca, e vi lega con infinite catene, così che immobili siete trascinati dal fiume torbido che sfocia all’inferno. Così dopo averci rovinato l’anima, il demonio impuro cerca anche d’impedirci il divino rimedio che solo ci può guarire. – 2. DEMONIO DELL’INQUIETUDINE. Lo sventurato Lamennais, forse senza saperlo, ha scritto una leggenda piena di verità. In un giorno di afosa caldura un uomo assetato vide al basso d’una costa una vite carica di grappoli maturi: ma tra lui e quel frutto dissetante s’adagiava una palude melmosa. Rimase un momento in forse. Ma poi si decise: « Può darsi che il fango non sia alto ». E vi entrò. Mano mano che procedeva, il suo piede affondava; coperto da una fanghiglia nera che gli cola da ogni membro, protende la mano e strappa quel frutto fatale, lo divora avidamente, trovandolo alla seconda boccata assai meno dolce e dissetante di quello che s’era ripromesso. Poi cerca un’acqua che lo lavi. Invano: l’odore della melma resta: ha penetrato la sua carne, le sue vene, le sue ossa ed esala incessantemente, formando intorno a lui un’atmosfera fetida. Egli si esaspera invano. Balza nella notte, riprova a lavarsi: invano. Non ha più pace. Gli uomini civili lo fuggono: s’è fatto un rettile, vive tra i rettili. Così è dell’uomo impuro: quærens requiem et non inveniens. Ricordate il rimorso dell’impuro Erode che ad ogni istante intravvedeva la figura del profeta ucciso, ne udiva come un tuono, la tremenda voce: e muore disperato: quærens requiem et non inveniens. Et non inveniens: da parte di Dio Creatore e Giudice della sua vita e delle sue azioni. Et non inveniens: neppure in mezzo alle impure fiamme che lo incendiano. L’uomo voluttuoso che crede di trovar riposo nell’accontentare i suoi reprobi desideri perde la sua pace e non può ritrovarla. – S. Agostino ne fece l’esperimento per diciassette anni. Ed esclama: « Mio Dio! Quanto ero infelice; un’immensa tristezza riempiva il mio cuore… portavo dentro un demonio… tutto l’inferno nell’anima… Io morivo… ». – 3. DEMONIO DELLE DISASTROSE CADUTE. Dio aveva dato al suo popolo un tempio stupendo. Costruito con pietre perfette, era stato ricoperto di lamine d’oro, ornato con statue e con marmi di terre lontane, abbellito con gemme e rarissime perle: c’era voluta tutta la ricchezza di Salomone e tutta la sua sapienza. Ma un giorno di guerra, passò un nemico spietato ed il tempio degno di Dio fu distrutto e gli Israeliti trasportati a piangere lungo i fiumi di Babilonia. Finito l’esilio, Dio suscitò Zorobabele a riedificare il tempio. Ma nel giorno della dedicazione, mentre i giovani tripudiavano, i vecchi, ricordando la magnificenza del tempio di Salomone, scoppiarono in pianto davanti alla modestia del nuovo. Ma venne un giorno di guerra: passò il nemico e profanò con mano sacrilega e distrusse il secondo tempio: non rimase pietra su pietra. E quando si tentò di riedificarlo dopo la distruzione romana, balzarono dal suolo globi di fuoco a significare che pesava un tremendo anatema sopra quel tempio due volte risorto e due volte caduto. Et fiunt novissima peiora prioribus. Quest’anima umana, questo tempio di Dio, se è calpestato dal nemico impuro una volta, potrà risorgere, ma l’unghia del cavallo del demonio come già quello di Attila vi lascerà sempre un’impronta. Se poi l’uomo ricade più e più volte in questo peccato, fiunt novissima peiora prioribus e non risorgerà più. Fiunt novissima peiora prioribus: ogni volta che cadiamo anche risorgendo, saremo sempre più deboli. Fiunt novissima peiora prioribus: perché Dio non parlerà più: come già Cristo davanti al disonesto tetrarca. Fiunt novissima peiora prioribus: perché il peccato impuro acceca così che si calpestano tutti i doveri più sacrosanti: la famiglia, la moglie, i figli, gli interessi, la pace, la salute, l’onore, l’amore, e perfino il santo Paradiso. – Una volta, in Grecia, era scoppiata una peste orrenda che mieteva innumerevoli vittime. I capi delle città spaventati domandano consiglio a Ippocrate, e questi rispose: « Si accendano fuochi a monte, fuochi a valle, fuochi nei villaggi, fuochi nelle città. Purifichiamo l’aria! ». La nostra società è contristata dalla peste del demonio impuro. Fuoco! È necessario del fuoco che purifichi, che abbruci in noi le fibre malsane, che consumi ogni affetto non santo. Questo fuoco è la mortificazione: fuoco che deve purificare le cime e i pensieri impuri, le valli degli affetti torbidi, ed ogni parola ed ogni azione.
Offertorium
Orémus
Ps XVIII: 9, 10, 11, 12
Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulci ora super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea.
[I comandamenti del Signore sono retti, rallegrano i cuori: i suoi giudizii sono più dolci del miele: perciò il tuo servo li adempie.]
Secreta
Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet.
[Ti preghiamo, o Signore, affinché questa offerta ci mondi dai peccati, e santifichi i corpi e le anime dei tuoi servi, onde possano degnamente celebrare il sacrificio.]
Præfatio
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.
de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:
[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.
Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:
Pater noster
qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.
Agnus Dei
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.
Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
Communio
Ps LXXXIII: 4-5 – Passer invénit sibi domum, et turtur nidum, ubi repónat pullos suos: altária tua, Dómine virtútum, Rex meus, et Deus meus: beáti, qui hábitant in domo tua, in sæculum sæculi laudábunt te.
[Il passero si è trovata una casa, e la tortora un nido, ove riporre i suoi nati: i tuoi altari, o Signore degli eserciti, o mio Re e mio Dio: beati coloro che abitano nella tua casa, essi Ti loderanno nei secoli dei secoli.]
Postcommunio
Orémus.
A cunctis nos, quaesumus, Dómine, reátibus et perículis propitiátus absólve: quos tanti mystérii tríbuis esse partícipes.
[Líberaci, o Signore, Te ne preghiamo, da tutti i peccati e i perícoli: Tu che ci rendesti partécipi di un così grande mistero.]
PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)