QUARESIMALE (XIII)
DI FULVIO FONTANA
Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI Gesù.
Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)
IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA DECIMATERZA
Nella Feria quarta della Domenica seconda.
Si mostra la cecità di coloro che non tengono conto dell’anima così preziosa, perché eterna, perché irrecuperabile, e perciò nulla fanno per salvarla, tutto operano per dannarla.
Sicut Filius hominis non venit ministrari, sed ministrare; et dare
animam suam Redemptionem pro multis S. Matt. cap. 20.
Questa volta sì, che ha ragione d’esclamare Isaia: obstupescite Cœli, obstupescite: e voi Cherubini d’amore copritevi pure, in segno d’estremo cordoglio, con le vostre ali, la faccia beata. Angeli Santi Custodi, se altre volte vi mostrate mesti per qualche errore commesso da’ vostri fedeli, ora deploratene l’eccesso. E voi Santi Avvocati ritirate il vostro patrocinio: ritirate la vostra protezione, o Maria. – Non è più tempo di compatir quei Cristiani che vilipendono quel gran tesoro, l’anima loro, per cui il Figlio di Dio venit dare animam suam. Mio Dio, armatevi pure la destra di fulmini e scaricate i più severi contro di quelli che, non solo non tengono conto dell’anima loro sì preziosa, perché eterna, e irrecuperabile; ma nulla operano per salvarla tutto perano per dannarla. Fra, i tanti errori degli eretici Manichei, certo non deve porsi in ultimo luogo quel credere, quello stimare che essi facevano d’aver due anime; quasi, che perdutane una, ne potessero riacquistare la perdita con l’assicuramento della seconda. Piacesse al Cielo, che tra i miei UU. non vi fosse taluno che avesse una sì storta e sì eretica opinione in testa; già che talmente conculcano, talmente strapazzano quella unica e sola anima che hanno; che par quasi vengano a dire, se non con le parole, certo co’ fatti, d’aver due anime; onde, perduta quella unica che veramente hanno, ne possano ristorare la perdita con l’acquisto della seconda. Ah miei UU. non fareste così, se consideraste il bel tesoro che dentro di voi avete dell’anima vostra. È vero, ella è cittadina terrena, ma d’origine celeste. Sapete quanto vale? Val tanto, quanto vale, quanto costa il Sangue e la Vita d’un Dio fatto Uomo; magna res est Anima, quæ Christi Sanguine redemptæst. Qua, qua, miei UU. che voglio farvi vedere quanto gran male fate a non procurare con ogni studio e fatica la salute dell’anima vostra così preziosa. Ditemi, che non dovreste voi fare per salute d’un’anima, quando anche questa fosse non vostra, ma d’altri? Figuratevi d’esser, quanti qui siete, salvi, tutti predestinati, conforme io bramo; sappiate però, che si turba questa nostra comune allegrezza con la riflessione che l’anima di quel povero disgraziato, che voi vedete colà, sta in pericolo di perdersi, quando voi non l’aiutate. Poverino miratelo come si trova; voi tutti sicuri di salute, egli solo in pericolo; e come non vorrete assicurar la salute sua ad ogni gran costo? Tanto più, che si tratta dell’anima non d’un amico, non d’un parente, ma di vostro padre. Vostro padre è quello che sta in pericolo di perdersi eternamente. Or se così veramente fosse, e che non dovreste voi fare per mettere in sicuro la di lui anima? Certo, che voi, quando tanto bisognasse, dovreste vendere le suppellettili più preziose di vostra casa, le gioie più pregiate de’ vostri scrigni. Certo, che voi vi dovreste, quando tanto si richiedesse, intraprendere i viaggi più lunghi a’ Santuari i più remoti, affliggervi con penitenze, estenuarvi con digiuni. Quando per salvar quest’anima fosse necessario ritirarsi dal mondo e seppellirsi in un eremo, abitator de’ boschi, e compagno di fiere, voi lo dovreste fare e dire: addio patria, addio roba, addio veglie, balli, feste, piaceri addio; addio sanità e vita, purché si salvi quell’anima. Certo, che il prezzo d’ogni anima è tanto grande, che tutto questo dovreste farlo. Or, se tanto voi dovreste fare per salvar l’anima altrui, quanto più dovete farlo per salvar l’anima vostra, la qual deve importarvi più che non importa la salute del mondo tutto! Quid prodest homini si universum mundum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur? O pazzia intollerabile degli uomini stolti del mondo, i quali dovrebbero esser pronti ad abbracciare ogni patimento, abbandonare ogni piacere, pur che salvassero un’anima, e per l’anima loro non vogliono muover neppure un passo? Figlio, per salvar l’anima tua bisogna ritirarsi da quel compagno; e si fa del sordo. Giovane, per salvarvi bisogna lasciare gli amori; non più in quella casa! Non si ode; quell’odio, quella roba; non si risponde? O che pazzia, torno a dirе mentre si dovrebbe far tutto per salvare altri, non si fa nulla per salvar se’. Cari miei UU. voi solete dire, che delle cose sue bisogna tenerne gran conto; avete ragione dite bene. Ma rispondetemi, avete voi veramente niuna cosa che sia tanto vostra, quanto vostra e l’anima? Appunto, appunto … anima sua dice il Profeta, non per certo. Non son vostre le ricchezze; non son vostri i piaceri; non son vostre le bellezze, le vanità: perché queste cose al più v’accompagnano al sepolcro. Non così l’anima: l’anima è veramente vostra: l’anima sola è propriamente vostra, e perché dunque non ne tenete conto? Quando voi non voleste tener conto dell’anima, perché vostra, almeno tenetene conto, perché ella è immortale ed eterna. Se la vita dell’anima vostra si stendesse a soli pochi secoli, anzi ad un secolo solo, quanto la dovreste stimare per esser vita d’un’anima? Quanto, dunque, la dovrete stimare mentre è vita non di secoli, ma d’eternità? Sentite: tra pochi anni questo corpo si ridurrà in polvere e cenere, e sarà chiuso entro un sepolcro, ma l’anima, dopo che saranno passati tanti milioni d’anni, quante sono tutte le arene del mare, quante sono tutte le gocce dell’acqua, che accoglie in seno, non sarà diminuito pure un momento dalla sua vita sempiterna e voi non la volete stimare, non volete tenerne conto, ma volete seguitare in quella amicizia, in quell’odio, in quell’interesse? Deh, se non volete prezzar l’anima, perché vostra, perché eterna, prezzatela almeno perché ella è irrecuperabile… che vale a dire: se si perde una volta, è perduta per sempre, non vi è più modo di riacquistarla. E non è questo un gran motivo per tener conto dell’anima tua? Interrogato, come sapete, quello spartano a qual fine i giudici della sua città indugiassero tanto a dar la morte a’ malfattori, rispose accortamente: perché non ci è luogo da poterla emendare con richiamare in vita chi a sorte non fosse stato ben condannato: non est correctio errori. Ah dilettissimi, se si perde quest’anima, qual rimedio v’è mai per recuperarla? Chi può mai dar vanto d’aver ripescato un’anima da quelle fiamme? E molto meno, chi si può dar vanto d’essere per sua propria forza ritornato da quel profondo mai più a galla? Niuno, niuno. Se Geremia, gettato in quella fangosa cisterna, trovò un Abimelecco caritativo, che porgendogli molli funi poté attaccarvisi, e risalire all’alto, tu però peccatore, se cadi in quell’abisso non troverai in eterno chi ti ritragga da quella fossa non di fango, ma di zolfo inestinguibile. Fu sepellito Daniele nel lago de’ leoni: trovò però un re potente, che mosso a pietà ne lo fece uscire: Ma tu peccatore, se sarai posto in quel lago non di leoni, ma di diavoli, non ti aspettar già che il Re del Cielo, per compassione de’ tuoi tormenti, ti faccia aprir la porta; Egli è adirato con te in sempiterno: Populus cui iratus est Dominus in æternum e le Chiavi di quella porta fatale sono queste due, un sempre, un mai: un sempre penare, un non mai trovar requie. Le fiamme stesse furon cortesi a quei tre giovani in Babilonia dentro la loro fornace; ma se tu peccatore piomberai in quella fornace infernale, non sperar già un somigliante favore, il tuo fuoco non si smorzerà mai, il tuo dolore non avrà mai tregua, ut urant, et sentiant in sempiternum: in una parola, chi scende giù non torna più su … qui descenderit non ascendit. In inferno nulla est redemptio. Quanto dunque, miei uditori, converrebbe pensar bene à collocare in buono stato l’anima sua; quanto affaticarsi, quanto sudare, mentre l’errore non ha rimedio alcuno? – E o disgrazia da deplorarsi a lacrime di sangue! Avere un’anima eterna, irrecuperabile, e pur non la prezzare! Si tratta un affare di tanta importanza quanto è salvarsi, e si trascura? Dite, e si trascura? Ditemi, cosa avete patito finora per l’anima per salvarla? La pazienza, voi ben sapete essere un vero contrassegno d’amore; così Giacobbe, perché amava Rachele, stentò quattordici anni per averla; e pur gli parvero pochi a sì ampia mercede: videbantur illi pauci per amoris magnitudine. Or tu peccatore, che tempi hai tollerati per porre in sicuro l’anima? Mostratemi un poco le lividire delle discipline; gli smagrimenti per i digiuni; i calli delle ginocchia per le continue orazioni; hai tu fatto nulla di questo per riacquistare l’anima che perdesti per il peccato? Padre, non ho fatto nulla di ciò, perché son debole, non ho complessione che possa tanto. Mi meraviglio di voi, non è vero; mentre potete applicar la testa per i conti, per gli interessi, per gli affari domestici; come dunque non potete per l’anima? Deh contentatevi, che io riflettendo con Teodoreto, a Pietro che dorme nell’orto, allorché doveva orare a pro dell’anima, e che veglia per totam noctem a pro del corpo, compianga il peccatore che dorme agl’interessi della salute eterna, e sta desto ad utile di questa vita mortale, per totam noctem vigilat corpori, qui animæ perboram vigilare non potest. Si veglia le notti intere per giocare, per ballare, per star sotto quella finestra, per vincere quella lite, si suda giorno e notte girando per tribunali per totam noctem; si stenta con invenzioni, con macchine, con imbasciate, con biglietti, con presenti, agli ardori del sole, a ghiacci del verno, per giungere a quella preda tante volte insidiata e non ancor conseguita, per totam noctem laborantes. Voi avrete veduto che taluna di quelle donne che m’ascoltano, per ornare quel palmo di viso che ella ha, si leverà dal letto prima del sole, né partirà dallo specchio prima del mezzo dì, tormenterà la sua vita per farla venire più all’usanza, con penosissime strette di busti. Così pure quel misero mercadante intraprenderà lunghissimi viaggi per mare e per terra, con stenti, con sudori, con pericolo di morte, per totam noctem, tutto si fa senza utile, anzi con danno, e poi questi medesimi a pro dell’anima non hanno testa che regga, braccio che possano ed afferiscono di non patire, perché non possono. O stolti, o ciechi, che tutto potete patir per il corpo, nulla per l’anima. Ma, quasi dissi, starei contento, se non avessero patito niente per l’anima per porla in sicuro; quando almeno avessero a tale effetto operato qualche cosa. Se mi rivolto ai claustri de’ religiosi, li trovo, ora salmeggianti in coro, or penitenti nelle celle, or astinenti ne’ refettori, or con la mente in Dio per le meditazioni, operano per l’anima. Ne vedo gran parte di loro vestiti di ruvido sacco, scalzi nel piede, cinti di ruvida corda, tutto è operar per l’anima. Se poi volo col pensiero a’ recinti di sacre vergini, le vedo segregate dal mondo, viver soggette all’altrui volere, per piacere solamente a Dio, e salvar l’anima. Ma se io mi rivolto a voi peccatori per interrogarvi, che cosa operate per l’anima vostra? Voi mi rispondete: che fate limosine; ed io vi replico ma non pagate debiti, non soddisfate mercedi:… che recitare corone e visitare chiese; ma le vostre corone sono con più distrazioni che le Ave Maria; e le vostre visite a’ templi sono più per mirare le creature che per venerare le sacre immagini; se voi vi confessate e comunicate, ditemi: con qual preparazione? Piaccia à Dio che non vi andiate con affetti al peccato. Onde è, che io posso dire, che non avete operato nulla per l’anima vostra. O che miseria o che confusione per un’anima sola, eterna, irrecuperabile, non solo non aver patito, ma neppure operato nulla per porla in salvo. Ad ogni modo, ed è pur vero; non dispererei della salute di costoro tanto trascurati quando quantunque non avessero mai né patito, né operato per l’anima, almeno qualche volta vi pensassero. O Dio! Ed è pur vero. O neppur vi pensano: vada l’anima nelle mani di chi si sia, nelle mani d’un compagno, con cui si discorrerà di tutto; nelle mani d’un sgherro, con cui si viva nelle nimicizie; nelle mani d’un confessore, che sia di quei medici che sol toccano il polso, senza provveder di rimedi; di quei cerulici che sol mirano la piaga ma non vi pongono impiastri, non la fasciano: ben si vede, se così sarete, che non vi pensate. Non così fece la povera madre del pellegrinetto Tobia. Lo aveva, come voi sapete, consegnato ad un Angelo, benché da lei non conosciuto per tale, ma bensì per uomo di segnalata bontà; ma perché ad ogni modo temeva di qualche incontro, dice il sacro Testo, che flebat irremediabilibus lacrymis: non trovava pace, si querelava, usciva quasi frenetica fuor di casa, girava tutte le strade, visitava tutte le porte per veder se veniva, e talora, sperando di scoprirlo di lontano saliva su qualche colle più rilevato: e non vedendolo, piena di lacrime se ne tornava a casa col cuore tutto in amarezza. Questa è la gelosia, che dovreste avere dell’anima vostra; ma voi non ci pensate, anzi siete di quelli che dant Dilectam in manu inimicorum suorum, fate quanto potete per dannarla. Sì, per dannarla, ed a guisa di disperati andate adocchiando lo scoglio più alto per precipitarvi con morte più sicura. Rispondetemi, e poi negatemelo. Se v’è tra voi una giovane, la quale abbia nome d’esser la più ardita delle altre, più petulante e sfacciata, questa è quella con la quale voi bramate consumare il tempo in vari discorsi, in motteggiare, in prenderla per la mano. Se v’è un compagno che sappia più degli altri far la parte del diavolo con burlarsi delle devozioni, con vantarsi de’ peccati commessi, con sedurre or questa, or quella, questo compagno, questo seduttore, questo demonio incarnato, questo è il vostro amico più caro, a questo scoprite tutti i disegni, con questo comunicate i vostri pensieri. Se v’è un confessore, che trinci assoluzioni, senza mai né rispondere, né interrogare, e talora ne sentite, questo si cerca: se v’è un ridotto di giuoco, ove si mormori e si bestemmi; questo è quello, che si frequenta. E non è questo un procurare a tutto potere la rovina dell’anima sua? Povera anima! quanto sei odiata da tanti Cristiani, i quali studiano giorno e notte la maniera di rovinarti senza rimedio, ed entrano nel numero di coloro che moliuntur fræudes contra Animas suas: cercano le vie di condurre l’anima propria in perdizione; e si servono sino delle frodi, e de’ stratagemmi per giungere con le insidie, dove non credono poter arrivare con faccia scoperta, moliuntur fraudes contra animas suas. Non così fece un certo giovane, figlio di nobile capitano, il quale pensando un dì seco stesso al pericolo manifesto di dannarsi, in cui si trova chi corre la via larga del mondo, risolve di racchiudersi tra le strettezze di vita religiosa. Portossi, dunque, risoluto di compire il suo desiderio, in una di quelle antiche solitudini de’ Santi Padri dell’eremo, e ritrovato uno de Monasteri più accreditati, si gettò ai piedi dell’Abbate, e con grande umiltà gli chiese l’abito monacale; ma l’Abbate, vedendolo sì delicato, non lo credette abile a reggere tanto peso; e, per escluderlo soavemente: andate, gli disse, figliuolo, perché questo luogo non è per voi. Voi siete avvezzo ad esser servito, e qui bisogna servire; voi siete avvezzo a comandare, a bravare, e qui bisogna soffrire e tacere; voi siete avvezzo a prendervi tutti gli spassi, e qui non si ragiona che di piangere, mortificarsi, ed orare. A tutto quello non rispose altro il giovane, se non con dire: Padre mi voglio salvare, volo salvari; Dite bene, ripigliò l’Abbate; ma come farete a dormire su la nuda terra, voi, che finora avete dormito sì mollemente? Ed il giovane: Padre mi voglio salvare, volo salvari. Mi piace il desiderio di vostra salute, seguitò a dire l’Abbate, ma bisogna misurare le sue forze; come farete a vegliare le notti intere salmeggiando; a digiunare tutti i giorni, ad osservare un continuo silenzio, parlando solo con Dio? Ed il giovane illuminato: volo salvari, e così, quanto oppose l’Abbate, tanto ributtò il giovane con questo scudo impenetrabile dell’amore della salute: volo salvari; che però, conosciuta
come vera la vocazione, fu ammesso al Paradiso di quel monastero, ove visse, e morì da Angelo. Ecco quali vorrei fossero i vostri sentimenti, miei UU., questi vorrei stampati nel vostro cuore, questi frequenti nella lingua, volo salvari, mi voglio salvare. Ma ahi ahi, che sento? Sento voci terribili che mi risuonano alle orecchie di non pochi de miei UU. che mi dicono, non già volo salvari, ma volo damnari, mi voglio dannare; voglio andare all’inferno; voglio balzare nelle braccia de’ diavoli. Certo è che molti di voi niuna cosa più apertamente protestano, quanto volersi eternamente dannare, e se non lo protestano espressamente con le parole, certo lo manifestano con i fatti. Ecco, che io mi volto a quel giovane e gli dico: non amoreggiate tanto sfacciatamente: non state a solo a solo con quella femmina, non gli parlate su la porta, molto meno di notte, perché questi abusi sono rete del diavolo per far preda d’anime. Che mi risponde? Che è giovane, che la gioventù vuol fare il suo corso, che è quanto dire in buon linguaggio, se io mi rovino, e perdo l’anima, non importa, volo damnari. Se mi rivolto a correggere quella fanciulla, e dico: sorella finiamola; voi sapete, che in quelle veglie, tra le tenebre della notte si è perduta la pudicizia. Si lasci quella corrispondenza, non più questi amori, ed è pur vero che anche ella, benché di sesso più timido e più devoto, ad ogni modo non dà retta ai miei detti: e dopo avere sperimentato che quell’amante è un ladro della sua salute, della sua onestà, pur se ne fida; finché tradita, abbandonata, ne cerca un altro che rinnovi con lui i medesimi tradimenti. E non è questo un protestarsi altamente io non mi curo d’anima, voglio perdermi, voglio dannarmi? Volo damnari. Se io dico a colei non più biglietti, non più imbasciate, non fate la guardia al vostro padrone, non tenete di mano alle disonestà di quella giovinastra… che mi si risponde? Così guadagno; così mi fo amare. M’avete da dire volo damnari; mi voglio dannare. Quella roba non è vostra restituitela. Quell’odio ti tiene in disgrazia di Dio; fate la pace, trattate, parlate col vostro prossimo. Non più bestemmie, non più mormorazioni; quali sono le risposte? vi sarà tempo; non torna alla reputazione: m’avete da dire: io non mi curo d’andare a casa del diavolo. Or, se volete dannarvi, io non ho che dire, tutto il male sará vostro. E che? Forse non si trovano di quelli che fanno quanto possono per dannarsi? Certo che sì! E tra questa udienza non vi mancherà chi l’imiti nel volersi aviva forza dannare. Uno di questi fu quel cavaliere padovano, quanto chiaro di sangue, altrettanto sordido di costumi. Si lasciò questi prendere dall’amore d’una donzella di cui fortemente invaghito, non poteva stare, quasi dissi, momento senza vederla. La cosa non poté stare tanto segreta che non venisse a notizia d’alcuni buoni amici, che con motivi umani e divini l’ammonirono a desistere da quella pratica; ma furono canzoni cantate a sordi. Persisté nel vizio, finché Iddio con amorevole rigore lo distese in letto con febbre. Crebbe il male, e gli amici più che mai alla vita, perché si confessasse; ed egli prendeva tempo a risolversi. Fu dichiarato spedito da medici. Quando gli amici ed un religioso in particolare portatosi al letto con santa libertà gli disse: signore la vostra salute è disperata; convien morire: aggiustate l’anima, al corpo non giova più pensarvi; poche ore vi restano di vita, diceva il religioso, ma il moribondo taceva. Replicava il Sacerdote: ma signore, voi tacete, e la morte v’uccide: presto, date segno di penitenza, altrimenti l’anima vostra si perderà. Mirate Gesù: eccolo che vi aspetta. A quanto diceva si mostrava come sopito da letargo il moribondo, ed invece di mirare il Crocifisso, si voltò dall’altra parte della camera, ove stava appesa dalla parete una vaghissima immagine, e in quella fissò gli occhi stranamente aperti; in quella li tenne lungamente immobili; anzi cominciò verso della medesima ad articolar parole da’ circostanti non intese. A questa vista, il Sacerdote rivolto ad un servitore di casa, l’interrogò se sapesse per qual cagione mostrasse tanto d’affetto verso quella effigie. Non lo so, rispose; mi accorgo bene che egli mostra ogni suo sollievo nel rimirarla … sarà forse qualche immagine da cui egli spera salute. Allora il confessore, credutosi che il ritratto fosse di Santa Maria Maddalena, lo staccò, glielo presentò; e tanto bastò; perché, di stupido ed insensato, divenisse vivace. Si fé forza per alzarsi dal letto, stese le braccia per accarezzarla; la prese: la baciò, finché per la violenza del moto e veemenza del male ricaduto con la testa sul guanciale, esalò repentinamente lo spirito. Attoniti i circostanti per questa morte, indagarono, più distintamente, che pittura fosse quella, e sentito che era della rea femmina, partirono come disperati per il fatto che ave a portato quell’infelice all’inferno. Or negate, se potete, che non vi siano di quelli che fanno quanto possono per dannare l’anima, non bastò a costui per dannar l’anima sua, andarvi, starvi, trattenervisi, la volle sempre sugli occhi, per esser sempre ne’ peccati sino all’estremo respiro. Quanti saranno qui di quelli che fanno quanto possono per dannarsi, vogliono andare a veglie, a balli, cercano tutte le strade per commetter peccati е dannarsi? Sebbene, che dico? Ah, che questo mio parlare è troppo spietato. No mio Dio, no, che non si ha da dannare niuno di quanti mi ascoltano, e però tu Deus meus illumina tenebras meas, Voi, mio Dio, rischiarate le nostre pupille, acciò conoscano la preziosità dell’anima e la stimino: Tuus ego sum, Domine, salvum me fac. E di chi è quest’anima? È pur vostra, Signore; Voi l’avete creata; voi avete impresso in lei la vostra immagine; Voi, per riscuoterla, avete sparso tutto il vostro Sangue, tuus sum ego, siamo vostri, e pure siamo vissuti come se fossimo padroni di noi stessi; ci siamo slontanati da Voi; ci siamo donati al demonio; abbiamo calpestato il vostro Sangue: o che temerità o che ingratitudine io lo confesso per tutti e lo detesto; meritiamo d’essere abbandonati, e che Voi non vogliate tener più conto d’un’anima che tanto abbiamo strapazzata; ma pure ricordatevi che siamo vostri. Salvum me fac. Fateci salvi, fateci efficacemente rompere quelle catene che ci tengono tenacemente avvinti al peccato; cacciate quei nemici che ce le stringono: dic animæ meæ, salus tua ego sum; basta una sola parola vostra. Cristo lo vuol fare, vi vuol salvare. Ma v’e forse chi ricusi d’esser salvato? V’è chi voglia continuare in quel fango, in quell’odio, in quell’interesse? Se n’è, si perda, che Cristo non lo riconosce più per suo, anzi gli volta fin d’ora le spalle, per annoverarlo tra i reprobi. No, mio Dio, che non vi è, tutti vogliano salvarsi e per ciò potete dire a ciascuno: Salus tua ego sum.
LIMOSINA
Vi sono alcuni ignoranti, quali di fatti tutti ricchi ad un modo: questo è un chiedere, perché un’organista non abbia fatto tutte le canne dell’organo ad un modo, eguali. Egli non le ha fatte tutte uniformi, perché così richiede l’arte, la quale vuole una tale inegualità, acciò risulti quel suono, quell’armonia, che non vi farebbe, se le canne fossero uniformi; poiché in tal caso sarebbero unisone. Allo stesso modo Iddio ha voluto che nel mondo, altri siano ricchi ed altri poveri, perché ne risulti un’armonia veramente meravigliosa, qual è quella che si mantiene quando il povero serve al ricco, ed il ricco sostenta il povero, e così l’uno con l’esercizio della pazienza, l’altro con quello della misericordia, danno ounitamente gloria a Dio: Dives, pauper obviaverunt sibi: utriusque operator est Dominus: il Signore ha fatto il povero ed il ricco, acciocché con uno scambievole commercio s’uniscano i cuori. Voi dunque mantenere quest’armonia sostenendo i mendichi con abbondante limosina.
SECONDA PARTE
Or che vo’ fatto vedere quanto poco si prezzi l’anima, voglio altresì che sappiate tutto derivare, perché troppo si prezza il corpo. Ciò supposto, stimo bene non vi lasciar tornare a casa senza darvi un contrassegno, con cui possiate conoscere, se presso di voi sia in più conto l’anima o il corpo. Quando Giona navigava, si sollevò di tal maniera il mare, che i marinari intimoriti, cedettero alla for za dell’onde ed alla furia del vento, e pensando a modi più propri di salvarsi, risolverono di gettar nel mare quanto era di peso nel legno agitato. Eccо che s’intima dal padrone del vascello: via sù, quelle balle di mercanzia si buttino in mare: quegli argenti, quelle casse, quei forzieri si sommergano, non si tardi, perché in un rischio sì grande, in cui pericola la vita, il gettito di tutte queste cose entra nella partita de’ guadagni: se vi fosse anche un mezzo mondo d’oro, tutto vada, perché più preziosa è la vita: e questa è dovere che si mantenga ad ogni potere, … et miserunt, dice il sacro testo: vasa, quæ erant in navi, in mare. Così si pratica tutto dì, cari UU., da chi corre il mare, e niuno vi discorre sopra per salvare il corpo, vada in malora la roba, ogni grande avere si pospone alla vita. Volete ora conoscere, se presso di voi è più in stima l’anima, o il corpo? Eccovene il contrassegno. Si ha da fare un contratto così così: basta chiudere gli occhi, senza tanto scrupolizzare. Se voi rispondete, no, che non voglio accrescimento di roba, né di reputazione con pericolo dell’anima, sarà segno che stimate più l’anima; si ha da guarire quell’infermo: basta leggervi sopra certe parole e farvi certi segni; se voi direte: no, v’è qualche cosa di diabolico: bramo la sanità mia e del prossimo, ma non a costo dell’anima. Questo vuol dire anteporre l’anima al corpo: questo vuol dire essere uomini savi: esporre la mano per riparare il capo: ma quando poi si trovasse chi per scapricciarsi, s’immergesse negli amori, nelle vendette nelle usure: volesse sfogare la lingua nelle mormorazioni, maldicenze, e bestemmie, e per dar gusto al corpo non si curasse dell’anima, sarebbe segno che prezza il corpo, non l’anima. Tommaso Moro gran cancelliere d’Inghilterra v’insegni ad anteporre l’anima al corpo: udite, e fate di meno se potete di non spargere lacrime al tenero racconto. Racchiuso Tommaso in angusta prigione, perché non voleva consentire le incestuose nozze d’Arrigo Re d’Inghilterra, più che col tiranno, ebbe da contrastare con i parenti, e più con le tenerezze del sangue, che con le minacce del suo persecutore. Ecco che un giorno vide inaspettatamente entrar nella prigione una dama scapigliata, tutta vestita di lutto, circondata da teneri bambini. Erano i figli e la consorte del Moro. Questa, doppo aver parlato molto con le lacrime, asciugatasi al meglio che poté, così disse: consorte mio adorato e fino a quando soffrirete le vostre e nostre calamità? Già i palazzi son circondati da’ sbirri; i mobili inventariati da’ ministri; i feudi sequestrati dal fisco; e tutta la vostra famiglia va gemendo per vostra cagione fra gli strazi. Tommaso, e non v’intenerisce? Sappiate, che il re comprerebbe il vostro assenso con raddoppiamento d’onori e di ricchezze. Se voi volete, la vostra casa è la più gloriosa del Regno. Se poi non acconsentite a’ voleri regi, saremo costretti, spogliati de’ beni e della patria, strascinare questo avanzo di vita per provincie straniere. Indi rivolta l’addolorata madre ai figli: figli sventurati, disse, ottenete voi almeno ciò che io non merito. Gettatevi ai piedi del vostro buon padre, abbracciate quelle ginocchia che sono l’unico altare di vostra salute. Da una sola parola dipende la vostra felicità o la vostra rovina; piangete a’ suoi piedi, che movendolo col pianto, vi farete strada alle allegrezze; quando no, imparate quell’arte di lacrimare, che dovrete fare per tutta la vita. – Qual cuore impietrito non si sarebbe spezzato a tante lacrime, a voci sì tenere di teneri figli, d’amata consorte? Pianse, è vero, Tommaso; ma nulla più. Allora insperanzita la consorte, ripeteva quasi efficace argomento, che potevano ancor vivere insieme agli onori, alle grandezze per molto tempo. A ciò replicando il Moro: signora, gli disse, avete ragione: ma per quanto ancora potremo noi godere? per quanto? Almeno, almeno per venti anni, replicò la dolente consorte. E per venti anni, subito tutto rasserenato nel volto il marito, e per venti anni volete che io butti l’anima sì preziosa, eterna, irrecuperabile? Voi fate male i conti; la fate da mercante poco avveduto: stulta mercatrix es o Aloysia. L’anima si deve anteporre a quanto è nel mondo, alla vita stessa: pur che questa si salvi, tutto si perda. Così egli vinse le lacrime e la tenerezza, ed antepose, morendo, l’anima al corpo. Prendete esempio da sì gran cavaliere. Quando si ponga a confronto se si debba perdere o l’onore, o l’anima; o la roba, o l’anima; o la vita, o l’anima; a tutto si anteponga questa, perché questa anteposta a quanto può bramare il corpo, renderà glorioso anche il corpo; e quando no, e anima e corpo si perderanno in una eternità di pene.