DOMENICA II DI QUARESIMA (2023)

DOMENICA II DI QUARESIMA (2023)

Stazione a S. Maria in Domnica

Semidoppio. – Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

La Stazione a Roma si tiene nella chiesa di S. Maria in Domnica, chiamata così perché i Cristiani si riunivano, in altri tempi, la Domenica nella casa del Signore (Dominicum). Si dice che S. Lorenzo, distribuisse lì i beni della Chiesa ai poveri. Era una delle parrocchie romane del v secolo. Come nelle Domeniche di Settuagesima, di Sessagesima e di Quinquagesima, i testi dell’Ufficiatura divina formano la trama delle Messe della 2a, 3a, e 4a Domenica di Quaresima. – Il Breviario parla in questo giorno del patriarca Giacobbe che è un modello della più assoluta fiducia in Dio in mezzo a tutte le avversità. Assai spesso la Scrittura chiama il Signore, il Dio di Giacobbe o d’Israele per mostrarlo come protettore. « Dio d’Israele, dice l’Introito, liberaci da ogni male ». La Chiesa quest’oggi si indirizza al Dio di Giacobbe, cioè al Dio che protegge quelli che lo servono. Il versetto dell’Introito dice che « colui che confida in Dio non avrà mai a pentirsene ». L’Orazione ci fa domandare a Dio di guardarci interiormente ed esteriormente per essere preservati da ogni avversità ». Il Graduale e il Tratto supplicano il Signore di liberarci dalle nostre angosce e tribolazioni » e « che ci visiti per salvarci ». Non si potrebbe meglio riassumere la vita del patriarca Giacobbe che Dio aiutò sempre in mezzo alle sue angosce e nel quale, dice S. Ambrogio, « noi dobbiamo riconoscere un coraggio singolare e una grande pazienza nel lavoro e nelle difficoltà » (4° Lez. Della 3° Domenica di Quaresima).  – Giacobbe fu scelto da Dio per essere l’erede delle sue promesse, come prima aveva eletto Isacco, Abramo, Seth e Noè. Giacobbe significa infatti « soppiantatore »: egli dimostrò il significato di questo nome allorché prese da Esaù il diritto di primogenitura per un piatto di lenticchie e quando ottenne per sorpresa, la benedizione del figlio primogenito che il padre voleva dare a Esaù. Difatti Isacco benedì il figlio più giovane dopo aver palpato le mani che Rebecca aveva coperte di pelle di capretto e gli disse: « Le nazioni si prosternino dinanzi a te e tu sii il signore dei tuoi fratelli ». Allorquando Giacobbe dovette fuggire per evitare la vendetta di Esaù, egli vide in sogno una scala che si innalzava fino al cielo e per essa gli Angeli salivano e discendevano. Sulla sommità vi era l’Eterno che gli disse: « Tutte le nazioni saranno benedette in Colui che nascerà da te. Io sarò il tuo protettore ovunque tu andrai, non ti abbandonerò senza aver compiuto quanto ti ho detto. Dopo 20 anni, Giacobbe ritornò e un Angelo lottò per l’intera notte contro di lui senza riuscire a vincerlo. Al mattino l’Angelo gli disse: « Tu non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele (il che significa forte con Dio), perché Dio è con te e nessuno ti vincerà » (Il sacramentario Gallicano -Bobbio- chiama Giacobbe « Maestro di potenza suprema »).Giacobbe acquistò infatti la confidenza di suo fratello e si riconciliò con lui.Nella storia di questo Patriarca tutto è figura di Cristo e della Chiesa. – La benedizione, infatti, che Isacco impartì a suo figlio Giacobbe — scrive S. Agostino — ha un significato simbolico perché le pelli di capretto significano i peccati, e Giacobbe, rivestito di queste pelli, è l’immagine di Colui che, non avendo peccati, porta quelli degli altri » (Mattutino). Quando il Vescovo mette i guanti nella Messa pontificale, dice infatti, che « Gesù si è offerto per noi nella somiglianza della carne del peccato ». « Ha umiliato fino allo stato di schiavo, spiega S. Leone, la sua immutabile divinità per redimere il genere umano e per questo il Salvatore aveva promesso in termini formali e precisi che alcuni dei suoi discepoli « non sarebbero giunti alla morte senza che avessero visto il Figlio dell’uomo venire nel suo regno » cioè nella gloria regale appartenente spiritualmente alla natura umana presa per opera del Verbo: gloria che il Signore volle rendere visibile ai suoi tre discepoli, perché sebbene riconoscessero in lui la Maestà di Dio, essi ignoravano ancora quali prerogative avesse il corpo rivestito della divinità (3° Notturno). Sulla montagna santa, ove Gesù si trasfigurò, si fece sentire una voce che disse: « Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo ». Dio Padre benedì il suo Figlio rivestito della nostra carne di peccato, come Isacco aveva benedetto Giacobbe, rivestito delle pelli di capretto. E questa benedizione data a Gesù, è data anche ai Gentili a preferenza dei Giudei infedeli, come essa fu data a Giacobbe a preferenza del primogenito. Così il Vescovo mettendosi i guanti pontificali, indirizza a Dio questa preghiera« Circonda le mie mani, o Signore, della purità del nuovo uomo disceso dal cielo, affinché, come Giacobbe che s’era coperte le mani con le pelli di capretto ottenne la benedizione del padre suo, dopo avergli offerto dei cibi e una bevanda piacevolissima, cosi, anch’io, nell’offrirti con le mie mani la Vittima della salute, ottenga la benedizione della tua grazia per nostro Signore ».Noi siamo benedetti dal Padre in Gesù Cristo; Egli è il nostro primogenito e il nostro capo; noi dobbiamo ascoltarlo perché ci ha scelti per essere il suo popolo. « Noi vi preghiamo nel Signore Gesù, dice S. Paolo, di camminare in maniera da progredire sempre più. Voi conoscete quali precetti io vi ho dati da parte del Signore Gesù Cristo, perché Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione in Gesù Cristo Signor nostro » (Epist.). — In S. Giovanni (I, 51) Gesù applica a se stesso l’apparizione della scala di Giacobbe per mostrare che in mezzo alle persecuzioni alle quali è fatto segno, Egli era continuamente sotto la protezione di Dio e degli Angeli suoi. « Come Esaù, dice S. Ippolito, medita la morte di suo fratello, il popolo giudeo congiura contro Gesù e contro la Chiesa. Giacobbe dovette fuggirsene lontano; lo stesso Cristo, respinto dall’incredulità dei suoi, dovette partire per la Galilea dove la Chiesa, formata di Gentili, gli è data per sposa ». Alla fine dei tempi, questi due popoli si riconcilieranno come Esaù e Giacobbe.La Messa di questa Domenica ci fa comprendere il mistero pasquale che stiamo per celebrare. Giacobbe vide il Dio della gloria, gli Apostoli videro Gesù trasfigurato, presto la Chiesa mostrerà a noi il Salvatore risuscitato.

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XXIV:6; XXIV:3; XXIV:22

Reminíscere miseratiónum tuarum, Dómine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominéntur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.

[Ricordati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai trionfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]

Ps XXIV:1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam.

[A te, o Signore, ho levato l’anima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Reminíscere miseratiónum tuarum, Domine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominentur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.

[Ricordati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai triònfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Orémus.

Deus, qui cónspicis omni nos virtúte destítui: intérius exteriúsque custódi; ut ab ómnibus adversitátibus muniámur In córpore, et a pravis cogitatiónibus mundémur in mente.

[O Dio, che ci vedi privi di ogni forza, custodíscici all’interno e all’esterno, affinché siamo líberi da ogni avversità nel corpo e abbiamo mondata la mente da ogni cattivo pensiero.]

LECTIO

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Thessalonicénses.

1 Thess IV: 1-7.

“Fratres: Rogámus vos et obsecrámus in Dómino Jesu: ut, quemádmodum accepístis a nobis, quómodo opórteat vos ambuláre et placére Deo, sic et ambulétis, ut abundétis magis. Scitis enim, quæ præcépta déderim vobis Per Dominum Jesum. Hæc est enim volúntas Dei, sanctificátio vestra: ut abstineátis vos a fornicatióne, ut sciat unusquísque vestrum vas suum possidére in sanctificatióne et honóre; non in passióne desidérii, sicut et gentes, quæ ignórant Deum: et ne quis supergrediátur neque circumvéniat in negótio fratrem suum: quóniam vindex est Dóminus de his ómnibus, sicut prædíximus vobis et testificáti sumus. Non enim vocávit nos Deus in immundítiam, sed in sanctificatiónem: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

[“Fratelli: Vi preghiamo e supplichiamo nel Signore, che, avendo da noi appreso la norma, secondo la quale dovete condurvi per piacere a Dio, continuiate a seguire questa norma, progredendo sempre più. Poiché la volontà di Dio è questa: la vostra santificazione: che vi asteniate dalla fornicazione, che ciascuno di voi sappia possedere il proprio corpo nella santità e nell’onestà, e non seguendo l’impeto delle passioni, come fanno i pagani che non conoscono Dio; che nessuno su questo punto soverchi o raggiri il proprio fratello: che Dio fa vendetta di tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e dichiarato. Dio, infatti, non ci ha chiamati all’immondezza, ma alla santità: in Cristo Gesù Signor nostro”]

L’ONORE CRISTIANO.

C’è nell’epistola d’oggi una parola che colpisce: l’appello all’onore. Se ne fa tanto commercio, tanto uso ed abuso di questa parola nella letteratura e nella vita mondana. Il mondo considera un po’ l’onore come una sua scoperta, o, almeno, come un suo monopolio. L’onore è nel mondo, o si crede sia, il surrogato laico del dovere. Noi Cristiani, secondo questo modo assai diffuso di vedere, avremmo il dovere, la coscienza; il mondo avrebbe, lui, l’onore. Più trascendentale il primo, più concreto il secondo. E onore vuol dire un nobile senso della propria dignità, un cominciar noi ad avere per noi quel rispetto che pretendiamo dagli altri. – Ebbene San Paolo parla di onore come di un dovere ai primi Cristiani, ai Cristiani d’ogni generazione, come parla di santità. Dio ci vuol santi e noi dobbiamo diventarlo sempre di più come numero e come intensità. « Hæc et voluntas Dei sanctificatio vestra ». Di questa santità l’Apostolo specifica due elementi: purezza e carità, una carità assorbente e riassorbente in sé la giustizia. Purezza! e la purezza è il rispetto al proprio corpo, è la dignità della nostra condotta umana anche nel momento in apparenza più brutale della nostra vita. – C’è chi si lascia degradare nel suo corpo, dalle ignobili passioni, dai miseri istinti di esso; ma c’è chi solleva e nobilita tutto questo: c’è chi possiede e domina nobilmente l’« io » inferiore e animale: trascinarlo in alto, umanizzarlo, divinizzarlo anche. È  una novità. I pagani non le pensano neppure queste belle, grandi cose, tanto sono lontani dal farle. Hanno evertito Dio, poveri pagani! È stata la prima forma di avvilimento e il principio funesto di tutte le altre. Mancò il punto a cui rifarsi, quasi sospendersi, e si rotolò in basso. San Paolo esprime lo schifo, il ribrezzo dei costumi pagani, corrotti e crudeli. Sono le due forme di bestialità su cui egli insiste e dalle quali scongiura i Cristiani di guardarsi, suggerendo le formule dell’onore: custodire onorato anche il proprio organismo, custodendolo santo. « Mori potius quam fœdari: » morire prima di disonorarsi, la cavalleresca formula ci torna alla memoria come una formula di sapore e di origine cristiana. L’onore non è più una convenzione, un quid di cui sono in qualche modo arbitri gli altri e che contro gli altri dobbiamo eventualmente difendere, è invece un quid di cui siamo arbitri noi stessi e che dobbiamo difendere contro gli istinti vergognosi degeneranti: difenderlo in nome e per l’onore stesso di Dio. Il mondo non farà che riprendere questa idea dell’onore per falsificarla strappandola al suo ambiente sacro, laicizzandola. Noi siamo i custodi vigili. Sdegnosi, colle opere più che con le parole, proclamiamo il programma: « mori potius quam fœdari ». Non tutto è perduto, nulla è perduto quando è salvo l’onore.

 Graduale

Ps XXIV: 17-18

Tribulatiónes cordis mei dilatátæ sunt: de necessitátibus meis éripe me, Dómine,

[Le tribolazioni del mio cuore sono aumentate: líberami, o Signore, dalle mie angustie.]

Vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea.

[Guarda alla mia umiliazione e alla mia pena, e perdònami tutti i peccati.]

Tractus Ps CV:1-4

Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus.

[Lodate il Signore perché è buono: perché eterna è la sua misericordia.]

Quis loquétur poténtias Dómini: audítas fáciet omnes laudes ejus?

[Chi potrà narrare la potenza del Signore: o far sentire tutte le sue lodi?]

Beáti, qui custódiunt judícium et fáciunt justítiam in omni témpore.

[Beati quelli che ossérvano la rettitudine e práticano sempre la giustizia.]

Meménto nostri, Dómine, in beneplácito pópuli tui: vísita nos in salutári tuo.

[Ricórdati di noi, o Signore, nella tua benevolenza verso il tuo popolo, vieni a visitarci con la tua salvezza.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.

Matt XVII: 1-9

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus Petrum, et Jacóbum, et Joánnem fratrem eius, et duxit illos in montem excélsum seórsum: et transfigurátus est ante eos. Et resplénduit fácies ejus sicut sol: vestiménta autem ejus facta sunt alba sicut nix. Et ecce, apparuérunt illis Móyses et Elías cum eo loquéntes. Respóndens autem Petrus, dixit ad Jesum: Dómine, bonum est nos hic esse: si vis, faciámus hic tria tabernácula, tibi unum, Móysi unum et Elíæ unum. Adhuc eo loquénte, ecce, nubes lúcida obumbrávit eos. Et ecce vox de nube, dicens: Hic est Fílius meus diléctus, in quo mihi bene complácui: ipsum audíte. Et audiéntes discípuli, cecidérunt in fáciem suam, et timuérunt valde. Et accéssit Jesus, et tétigit eos, dixítque eis: Súrgite, et nolíte timére. Levántes autem óculos suos, néminem vidérunt nisi solum Jesum. Et descendéntibus illis de monte, præcépit eis Jesus, dicens: Némini dixéritis visiónem, donec Fílius hóminis a mórtuis resúrgat.”

[In quel tempo Gesù prese con sé Pietro, e Giacomo, e Giovanni, suo fratello, e li menò separatamente sopra un alto monte; e fu dinanzi ad essi trasfigurato. E il suo volto era luminoso come il sole, e le sue vesti bianche come la neve. E ad un tratto apparvero ad essi Mosè ed Elia, i quali discorrevano con lui. E Pietro prendendo la parola, disse a Gesù: Signore, buona cosa è per noi lo star qui: se a te piace, facciam qui tre padiglioni, uno per te, uno per Mosè, e uno per Elia. Prima che egli finisse di dire, ecco che una nuvola risplendente, li adombrò. Ed ecco dalla nuvola una voce che disse: Questi è il mio Figliuolo diletto, nel quale io mi sono compiaciuto: lui ascoltate. Udito ciò, i discepoli caddero bocconi per terra, ed ebbero gran timore. Ma Gesù si accostò ad essi, e toccolli, e disse loro: Alzatevi, e non temete. E alzando gli occhi, non videro nessuno, fuori del solo Gesù. E nel calare dal monte, Gesù ordinò loro, dicendo: Non dite a chicchessia quel che avete veduto, prima che il Figliuol dell’uomo sia risuscitato da morte.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

DOVE E COME GESÙ SI TRASFIGURÒ

Davanti a S. Pietro, a S. Giacomo e a S. Giovanni, Gesù si trasfigurò. Subitamente il suo volto apparve in uno sfolgorio di raggi come il disco del sole, i suoi vestimenti si fecero come neve bianchissima, così che nessun pittore o tintore del mondo potrà renderlo con la sua arte. In quel lume di gloria, a’ suoi lati, vennero Mosè ed Elia e discorrevano con Lui della sua morte di croce ormai imminente. I tre Apostoli udivano le parole dei tre grandi digiunatori di quaranta giorni: le parole del Figlio di Dio che per quaranta giorni e quaranta notti non toccò cibo né bevanda nel deserto; le parole del Legislatore d’Israele che salì sul Sinai fumante e tremante per la presenza dell’Onnipotente ed entrò nella misteriosa nube per quaranta giorni e quaranta notti, le parole del terribile Profeta che, fuggiasco e perseguitato, con un pane ricevuto dall’Angelo, camminò verso la montagna di Horeb quaranta giorni e quaranta notti. Da quello splendore non terreno, da quelle parole non umane, si diffondeva tale una dolcezza nel cuore, che Pietro esclamò: « Signore, che gioia star sempre qui! ». Allora s’udì un comando squillare come una tromba: « Il Figlio d’ogni mia compiacenza è Questo: ascoltatelo! ». Era la voce dell’Eterno, e i discepoli, tremando e adorando, si gettarono bocconi sulla terra, senza più guardare. Ma una mano lieve e una confortevole parola li scosse: « Alzatevi, non temete! ». Pietro, Giacomo e Giovanni aprirono gli occhi sbigottiti, si trovarono davanti Gesù, ma, ora, nel suo dolce aspetto di Figlio dell’uomo. Ecco, o Cristiani, il meraviglioso fatto della trasfigurazione. Ma dove, ma come avvenne? Dove avvenne? sulla cima silenziosa d’un monte. In montem excelsum. Come avvenne? mentre Gesù pregava dum oraret (Lc., IX, 29). Sono due circostanze che dobbiamo raccogliere, perché possono darci insegnamenti utilissimi per l’anima nostra. – IN MONTEM EXCELSUM. a) Nella storia della civiltà umana è evidente una forte aspirazione verso l’alto, e le cime dei monti ne segnano quasi le tappe più importanti. Quando, dopo 150 giorni, le acque del diluvio cominciarono a diminuire, l’arca si posò sul vertice dei monti dell’Armenia. Di là i superstiti all’ira divina discesero a rinnovare il mondo. Quando Iddio volle fare esperimento di Abramo (il più terribile esperimento imposto a cuore d’uomo) lo mandò sul monte: « Prendi, Abramo, l’unico figlio tuo diletto, e sali il monte ch’Io ti mostrerò, ed in vetta me l’offrirai in olocausto ». Quando il Signore volle rivelare il suo Nome agli uomini, apparve in una fiamma di fuoco, di mezzo a un roveto sul monte Horeb. Mosè pasceva le pecore del suo suocero, in quei pressi, lo vide e l’udì. Dalla cima del Sinai, Dio dettò la sua legge eterna: tutta la montagna ardeva come una fornace, ed un suono lungo di tromba annunciava la presenza del Signore. Ed è ancora sul monte che Gesù è salito, per proclamare la nuova legge a commento dell’antica. Sul monte avvenne la moltiplicazione dei pani, sul monte degli olivi avvenne l’agonia, sul monte Calvario la crocefissione. Sul monte l’ascensione al cielo, sul monte Vaticano il cuore della Chiesa. E i gradini dell’altare non simboleggiano forse le balze d’un mistico monte sulla cui vetta posa Gesù nel Saramento? b) L’aspirazione verso le altezze, propria dell’umanità intera, esiste ancora nel cuore di ogni singolo uomo. M. Olier, — narrano i suoi biografi, — spesso sentiva una voce interna mormorargli con soavità imperiosa: « In alto! in alto!». In alto, fin dove? fino a Dio, desiderio dei colli eterni. In alto, fino a trasportare la tua vita umana nella vita divina. E non sentite anche voi, Cristiani, la bramosia di lasciare la valle paludosa dei peccati e delle ingiustizie, per ascendere con Gesù sul monte eccelso? In montem excelsum! « Ma chi mai potrà — esclama Davide — scalare il monte del Signore? » e risponde: « Chi ha mondo il cuore e la mano ». Innocens manibus et mundo corde. Questa innocenza di mani, questa mondezza di cuore, non è altro che la Grazia, la quale abita in ciascun Cristiano che sia senza peccato mortale. Essa è come una fontana che precipita dal cielo in noi, e poi risale fino al cielo portando seco l’anima nostra. Fons aquæ salientis in vitam æternam. Essa è un innesto meraviglioso che trasforma da pianta selvatica e infruttuosa in pianta divina, capace di dar frutti di Paradiso. Essa è come la scala di Giacobbe: chi la possiede in cuore vi può far ascendere fino al trono di Dio tutti i propri pensieri e le proprie azioni. Immaginate due uomini che compiono la medesima azione: ad esempio un segno di croce, un’elemosina; ma l’uno è in grazia, e l’altro no. Davanti agli occhi del mondo nessuna differenza, ma non così davanti agli occhi di Dio. L’azione buona del primo è salita fino alla vita eterna, gli varrà un aumento di felicità in cielo; l’azione del secondo non ha avuto forza per il Paradiso e si è fermata quaggiù. Se tanti Cristiani sapessero la loro ricchezza e la loro grandezza, non rimarrebbero per mesi ed anni, senza rimorso, in disgrazia di Dio! Se tanti Cristiani sapessero la loro ricchezza e la loro grandezza, non così facilmente per un capriccio, per una passione, getterebbero via la Grazia del Signore! In alto il cuore, in alto le mani! trasfiguriamo per mezzo della Grazia i nostri affetti e le nostre azioni. – DUM ORARET. È l’evangelista S. Luca che ricorda come la trasfigurazione di Gesù avvenne proprio mentre pregava. La preghiera, dunque, ha virtù di trasfigurare. Quando Mosè discese dal monte, dopo aver parlato con Dio, dalla sua fronte raggiavano due fasci di luce. E quando la plebe giudea si slanciò furibonda contro il diacono Stefano, egli pregando, apparve ai loro occhi come un Angelo. E quando ancora, a Siracusa, volevano far oltraggio alla vergine Lucia, furono incapaci di smuoverla d’un passo neppure con l’aiuto di validi buoi; poiché ella pregava, il suo corpo era divenuto immobile. E non fu nella preghiera che sulla nuda roccia della Verna S. Francesco ricevette nelle palme delle mani e nelle piante dei piedi e nel costato le piaghe del Signore? E non fu nella preghiera che S. Filippo Neri, nella Pentecoste del 1544, nell’ombra delle catacombe romane, sentì il suo cuore dilatarsi d’amore così che due coste, non valendo più a contenerlo, s’incurvarono? Ora possiamo anche comprendere perché noi non ci trasfiguriamo mai: la nostra mente è sempre tenebrosa di pensieri cattivi e disonesti; il nostro cuore è sempre infangato da rancori, da invidie, da desideri ignobili; la nostra bocca è sempre contaminata da bestemmie, da imprecazioni, da discorsi inverecondi, da mormorazioni, da bugie; le nostre azioni non si staccano mai da terra come i rospi, mai un’elemosina, mai un aiuto disinteressato al prossimo, mai un buon esempio. Ma perché? Perché in noi manca la preghiera a trasfigurarci. Viveva in Damasco un discepolo del Signore, di nome Anania. « Anania! » gli disse il Signore comparendogli in visione, — « levati, e va: nella contrada soprannominata « La diritta » è arrivato un uomo di Tarso di nome Saulo, accecato. Cerca di lui: ecco egli già prega, bisogna donargli la vista ». Anania rispose: « Molti, o Signore, mi hanno parlato di codesto tuo uomo: è un rabbioso persecutore dei tuoi fedeli, e qui in Damasco ha potestà di cacciare in prigione tutti noi ». Ma il Signore replicò: « Non importa, levati e va: ecco già egli prega e da persecutore bisogna trasfigurarlo in Apostolo ». Ed Anania andò, entrò in una casa ove Saulo cieco e persecutore pregava: « Fratello Saulo, mi manda il Signore Gesù a dare la vista a’ tuoi occhi e lo Spirito Santo alla tua anima ». E in quell’istante da’ suoi occhi caddero come delle scaglie e vide; ricevette anche il Battesimo e divenne Apostolo (Atti, IX, 10-19). Oh se una buona volta il Signore vedesse anche noi pregare! pregare spesso, pregare bene! credete forse che gli mancherebbe un Anania da inviarci perché trasfiguri i nostri occhi ciechi davanti alle meraviglie del cielo, e trasfiguri la nostra anima schiava da troppo tempo del demonio? La virtù dell’Altissimo non è diminuita, è la nostra preghiera che è venuta meno. – La voce dell’Onnipotente, che testimoniava per il suo Figliuolo Incarnato, doveva essere tremenda se gli Apostoli, che non avevano avuto timore davanti ad Elia e Mosè, caddero bocconi sulla terra al solo udirla. « Questo è il Figlio d’ogni mia compiacenza: ascoltatelo! ». Ascoltatelo! questa parola passa di secolo in secolo, di generazione in generazione, e questa domenica risuona al nostro orecchio. Ascoltatelo! Che cosa ci dice, ora, il Figlio diletto di Dio? Non altro che queste due cose: « Lascia la valle del peccato salendo in alto nella mia Grazia; trasfigurati con la preghiera ». Ascoltiamolo, dunque! — IL PARADISO. Nella presente vita, anche noi dobbiamo fare quello che ha fatto Gesù con i suoi. Quando i dolori e le disgrazie ci soffocano, quando le tentazioni ci prostrano, e siamo storditi ed esasperati, prendiamo l’anima nostra, conduciamola in alto, facciamole guardare il Paradiso. Le pene si muteranno in gioia. « È tanto il bene che m’aspetto, che ogni pena mi è diletto! » esclamava il Poverello d’Assisi. S. Paolo ci assicura che anche Cristo s’è fatto forte a portar la croce col pensiero del Paradiso. Proposito sibi gaudio sustinuit crucem (Hebr., XII, 2). Così gli Angeli confortarono a morire il martire Timoteo, quando piagato e immerso nella calcina viva, spasimava nell’incendio senza fiamma: « Leva su il capo, — gli dicevano, — e poni mente al Cielo ». Così la gloriosa madre dei Maccabei, dopo il martirio di sei figlioli, confortava l’ultimo suo nato a lasciarsi dilaniare dal tiranno: « Figlio mio ti prego, guarda il cielo » Peto, nate, ut aspicias ad cœlum. (II Macc., VII, 28). Guardiamo anche noi al cielo quest’oggi, che è fatto per noi. Quando riabbasseremo gli occhi, ci sembrerà brutta la terra e sopportabili le penitenze di quaggiù. – 1. CHE COS’È IL PARADISO. S. Agostino aveva deciso di scrivere a S. Gerolamo per domandargli un parere sulla beatitudine del Paradiso. Ma prima che arrivasse la lettera, S. Gerolamo morì. Gli apparve in sogno a dirgli: « Agostino: puoi tu comprendere come si possa chiudere in un pugno tutta la superficie della terra? ». — « No. » — « Puoi tu capire almeno come si possa radunare in un vasetto tutta l’acqua dei mari e dei fiumi? » — « No. » — « E allora non puoi nemmeno capire come mai tanta beatitudine possa entrare nel cuor dell’uomo ». A Bernardetta Soubiroux, dopo aver visto il biancore della veste dell’Immacolata, tutto parve nero. Perfino il sole. Un mercante di stoffe le mostrava alcuni campioni di bianco, cominciando dai meno freschi e lucidi: « Più bianco, » diceva, più bianco ancora! molto più bianco! » Non ne trovò uno che, da lontano almeno, assomigliasse al bianco del vestito di Maria. S. Paolo stesso, dopo aver contemplato Iddio, non seppe balbettare che scarse parole: « Occhio non vide mai! orecchio non udì mai! lingua non disse mai! ». Certo non noi, poveri peccatori, sapremo comprendere di più di questi Santi. Tuttavia, sforziamoci di levare la nostra mente a quel bagliore. Immaginiamo una città, quale la vide S. Giovanni, splendida, d’oro le mura, di gemme le vie; e se tre vi sono, son pietre preziose. Una città senza peccato: niente di inquinato vi può entrare. Come è bello dove non c’è il peccato! nessun disordine mai, mai un furto, mai una bugia, non una calunnia, non una mormorazione; ivi tutti si amano come e più che fratelli. Tutti sono d’un sol cuore, una sola anima, uniti a Dio e uniti tra loro. Per entrare in così bella compagnia, dite, non mette conto di staccarci ora da un compagno cattivo, ritirarsi un poco in solitudine, rinunciare a qualche conversazione pericolosa? Non solo il Paradiso è senza peccato, ma anche è senza le conseguenze del peccato: non malattie; non dolori, non lavori, non la morte, non i rimorsi. « Non ci sarà più la notte, né occorrerà più la lucerna a far luce e neppure il sole: Dio con la sua gioia illuminerà i beati che lo vedranno a faccia a faccia » (Apoc., XXII, 5). Dio asciugherà per sempre gli occhi degli eletti da ogni lacrima: non ci sarà più la morte, più le grida, più il lutto, più il dolore: tutto sarà distrutto e tutto fatto a nuovo ». (Apoc.,, XXI, 4). Il Paradiso è dunque una città senza peccato, e senza le conseguenze del peccato. Ma non basta: là si possiede Dio e Dio ci possiede. Sapete voi che vuol dire possedere Iddio? vuol dire possedere tutti i beni. Mosè aveva detto al Signore: « Mostrami la tua gloria! » E il Signore gli rispose: « Ti mostrerò ogni bene » (Es. XXXIII, 18-19). Avremo tutto, e ricchezze immarcescibili, e onori veraci, e piaceri eterni, e vita senza fine. Non desidereremo più nulla: che se qualcosa d’altro potessimo desiderare  subito ci verrebbe concesso. S. Francesco, il Poverello d’Assisi, crucciato da uno spasimoso dolore di occhi, non poteva dormire; e nella notte, a gran voce, chiedeva un po’ di pazienza. E Dio gli mandò un Angelo con una cetra. Ma come toccò la prima corda col plettro, fu tanta la dolcezza che invase il cuore del Poverello, che supplicò di non suonare più, ché altrimenti sarebbe morto di gioia. S. Pietro vide appena un raggio della luce del Paradiso, nella trasfigurazione e subito dimenticò di mangiare, di bere e ogni cosa pur di rimanere là sempre e contemplare. Questa musica e questa luce noi potremo gustarle eternamente. – 2. COME S’ACQUISTA. La fama di Tommaso d’Aquino varcava le Alpi e in tutta Europa si parlava di lui e de’ suoi libri. Alla sua scuola accorrevano le migliori intelligenze del tempo; mai nessuno aveva parlato come lui, mai nessuno aveva scrutato la scienza di Dio con tale acume di penetrazione. La sorella del Santo, avendo capito la prodigiosa intelligenza del fratello, gli scrisse domandandogli per amore come si possa conquistare il Paradiso. E Tommaso le rispose queste semplici parole: « Con la buona volontà » Davvero. Con la buona volontà nel pregare: Domandatelo e vi sarà dato; cercatelo e l’avrete; picchiate alla sua porta e vi apriranno. Con la buona volontà nel disprezzare le vanità terrene. « Oh come mi sembra brutta la terra, quando penso al cielo! » esclamava frequentemente S. Ignazio. Quando S. Cecilia fu tratta al martirio, il tiranno e il carnefice così la lusingavano :« Cecilia, guarda la tua giovinezza, com’è in fiore! Guarda la beltà de’ tuoi occhi e delle tue chiome! Pensa come andresti felice sposa a un nobile patrizio… Pensa, e risparmiati ». Ma la fanciulla rispose: « Io perdo il fango e trovo l’oro; io cedo un tugurio breve e miserabile e ricevo una reggia immensa come il cielo; io vendo la mia chioma caduca e vana e mi sarà data una capigliatura di raggi di luna e una corona di stelle ». Tugurio miserabile è la terra, fango il nostro corpo, vanità la bellezza e il danaro; una cosa è preziosa grande e bella, una sola: il Paradiso. Con la buona volontà nel superare i pericoli e le fatiche. Alarico, re barbaro, calava in Italia con le sue orde. Quando un monte gli sbarrava la via, e i suoi soldati stanchi si buttavano a terra disperatamente: « Avanti — gridava, — entreremo in Roma ». Quando una fiumana travolgente gli tagliava la corsa rovinosa, e le compagnie indietreggiavano illividite: « Avanti! — gridava, — entreremo in Roma » Quando ancora qualche scompigliata legione romana cercava di trattenerlo, e il suo esercito sfinito ricusava battaglia: « Avanti! — gridava, — entreremo in Roma ». Pensate, Cristiani, che non alla conquista d’una città viziosa e decaduta andiamo noi, ma alla conquista d’una città eterna e divina. Quale difficoltà, quale pericolo, quale tentazione, ci può arrestare? Avanti! entreremo in Paradiso. – Una turba livida di furore, col cuore secco e coi denti stretti, spingeva fuori la cerchia delle mura di Gerusalemme un giovane. Quando furono al luogo dell’esecuzione, tutti afferrarono le pietre e furiosamente le gettavano contro di lui. Egli s’era inginocchiato e guardava in alto: vedeva i cieli aperti, e Dio in gloria e Gesù Cristo sua destra, e tutti gli Angeli e i Santi in giro. I sassi grandinavano intorno e su lui: forse non li sentiva. « Signore, — disse — prendi il mio spirito, e perdona », poi chiuse gli occhi e spirò. Quando le disgrazie, le malattie, le tentazioni, i pericoli dell’anima e del corpo cadranno intorno a noi, come i sassi della lapidazione di Stefano, leviamo gli occhi al Paradiso; vediamo ivi la gloria di Dio e di Gesù Cristo, la gloria di Maria e dei Santi, vediamo il nostro posto ch’è già preparato. « Tanto è il bene che m’aspetto, ch’ogni pena m’è diletto ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 47; CXVIII: 48

Meditábor in mandátis tuis, quæ diléxi valde: et levábo manus meas ad mandáta tua, quæ diléxi.

[Mediterò i tuoi precetti che ho amato tanto: e metterò mano ai tuoi comandamenti, che ho amato.]

Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quæsumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti.

[Guarda, o Signore, con occhio placato, al presente sacrificio, affinché giovi alla nostra devozione e salute.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]


Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus:

Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps V: 2-4 – Intéllege clamórem meum: inténde voci oratiónis meæ, Rex meus et Deus meus: quóniam ad te orábo, Dómine.

[Ascolta il mio grido: porgi l’orecchio alla voce della mia orazione, o mio Re e mio Dio: poiché a Te rivolgo la mia preghiera, o Signore.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut quos tuis réficis sacraméntis, tibi etiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas.

[Súpplici Ti preghiamo, o Dio onnipotente: affinché, a quelli che Tu ristori coi tuoi sacramenti, conceda anche di servirti con una condotta a Te gradita.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (237)

LO SCUDO DELLA FEDE (242)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (11) SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908 »

Art. VII.

LE ORAZIONI SEGRETE ED IL SACERDOTE INTERPRETE DEI BISOGNI DI TUTTI

Poi nell’atto di serrare le braccia, pare che accolga i voti di tutti in cuore portandoli, si volga a trattar segretamente con Dio degli interessi di tutti. Il popolo gli risponde colla orazione:

Suscipiat.

« Riceva il Signore dalle vostre mani il Sacrificio a lode e gloria del Nome suo, anche a vantaggio di noi e di tutta la santa Chiesa. » Il Sacerdote, che recitò sotto voce col popolo la stessa preghiera, gli risponde: « amen, ben sia così. »

Il Sacerdote appiè della croce elevato tra il popolo e Dio alza le mani al crocifisso, e vuol avvisare che da noi soli non ci possiamo salvare e che per salire al Paradiso bisogna che qui in terra ci attacchiamo a Gesù Cristo. Egli Dio col Padre, Uomo con noi si abbandona al nostro amore nel Sacramento; e noi per farci da Dio ascoltare e tirarci salvi nella sua bontà dobbiamo mettere, massime quando preghiamo, col cuore le nostre teste sotto la sua Testa coronata di spine, le nostre mani sopra le sue Mani piene di Sangue, il nostro Cuore sul Cuore suo per noi ancora aperto. – Quindi il sacerdote è qui interprete di tutto il cuore della Chiesa, e il palpito del cuore di questa Sposa di Dio è la preghiera. Or tocca al Sacerdote dire tutto per Lei, e farle battere il cuore di questo palpito vicino al cuor di Dio. Stanno bene adunque sull’altare, a capo di tutti i fedeli preganti, i Sacerdoti consacrati a Dio, della cui vita la principale occupazione è la preghiera. Essi, dice s. Gregorio Magno (Pastor. par. 1.), sono come i profeti santi, che soliti a parlare con Dio, basta che comincino ad esclamare: « Signore, Signore, » perché il Signore debba loro rispondere: « ecco che sono presente ad ascoltarvi. » Qual consolazione per il popolo fedele aver alla testa uomini fidenti di ottener colle orazioni le grazie che chiedono a Dio. Per questo, prima che si assuma al sacerdozio un fedele, si fa esercitare nell’orazione; poi la Chiesa gli fa promettere solennemente di far continua preghiera presso che in tutte le ore della sua vita, obbligandolo all’ufficio divino, canonica orazione, che significa, il pregare essere l’uffizio, l’impegno il servizio continuo della vita sacerdotale. Fattosi promettere che pregherà, recitando l’ufficio tutti i giorni; crede poterlo mandare alla sua missione, affidato alla guardia della preghiera; sicura che dall’uomo che conversa con Dio almen un’ora ogni dì, tutto è a sperare di bene. Ecco perché s. Bernardo (S. Bernard. lib. 4, De Cons.) al pontefice Eugenio faceva questa raccomandazione: fa che tu assuma al santissimo ministero uomini dell’orazione zelanti, che nel ministero pongano fidanza ben più che nelle loro industrie. Incaricati degl’interessi del popolo innanzi a Dio, devono essere come quegli Angeli, che salivano e scendevano incessantemente per la scala di Giacobbe. Devono discendere per raccogliere i voti e i bisogni del popolo: salire (S. Jo. Chrys., Hom. 79, ad popul. Antioch.) colla preghiera, affine di recarli sino ai piedi del trono di Dio, ed aprire il seno delle sue misericordie sopra le miserie di tutti i fratelli. I loro voti sono i voti di un gran ministro mandato davanti a Dio dalla Chiesa a piangere sulle miserie umane, ad implorar grazie, e trattare della vita eterna de’ suoi figliuoli (Massillon, Conf. I.). In virtù del loro sacerdozio essendo immedesimati con Gesù Cristo; come il Verbo conversa con suo Padre, così essi con Dio, per mezzo di Gesù suo Figliuolo: sicché S. Gregorio Magno concludeva (Lib. 3, cap. 5 in s. Reg.), che l’anima del Sacerdote, più che un’anima pregante, si deve dire una continua preghiera. Imperocché, se l’anima è una potenza in atto, dell’animo del Sacerdote l’atto vitale deve essere uno slancio continuo verso del cielo, e l’orazione è il palpito del cuore sacerdotale. Perciò, quando egli si trova alla testa del popolo sopra l’altare a pregare Dio, allora, sì allora propriamente è nella sua atmosfera, e nel pregare sente di vivere veramente. Alto silenzio nel luogo santo: il popolo genuflesso sul pavimento, gemente in segreto per umiltà, i cuori aperti innanzi a Dio, gli sguardi di tutti all’altare sull’offerta santificata, il dono dei fedeli combattenti posato sulle reliquie dei trionfanti gloriosi a piè della croce, e sotto la croce il Sacerdote colle palme benedette e piene di sacri crismi al ciel alzate! (Fra le varie ragioni, per cui sì recitano le orazioni in secreto, noi accenneremo queste, recate dai diversi espositori. 1° Si vuole esprimere la secreta operazione dello Spirito Santo nell’augusto mistero (Martene, tom. 1, De antig. Eccl. nit.). 2° Si vuol eccitare ed alimentare nel popolo col segreto la maggior venerazione, e tenerlo più raccolto nella meditazione (Conc. Trid. sess. 22, cap. 5). 3° Col silenzio del Sacerdote si vuol esprimere il nascondimento del Salvatore quando non era ancora l’ora sua di patire (Inn. III, lib. 2, Mist. Miss. cap. 54). 4° Si muta poi la voce, massime nel Canone, per imitare quella di Gesù Cristo, il quale ora pregava ad alta voce, come: Padre, perdonate, ecc. Nelle vostre mani raccomando, ecc. Dio mio, Dio mio, ecc; ora favellava alla Madre, al discepolo, al ladro; ora taceva e pregava fra sé.). Ecco, egli è l’uomo di propiziazione, l’angelo del tempio della nuova legge, più che uomo e più che Angelo, è creatura divinizzata nella partecipazione dell’immortal sacerdozio, di cui lo investe dal cielo Gesù, e lo fa dito di Dio potente ad operare il prodigio, che i Cherubini adorano velati sull’altare. Con quel capo che ricorda la corona di spine, egli è il giglio del campo che tra le spine spiega al cielo la candidezza dei pensieri purificati: con quell’anima stanca delle fatiche dell’apostolato, amareggiata dai peccati, pascolata ben sovente d’ingratitudine, mandata dalla Chiesa per confidare a Dio i suoi dolori, è come un mazzetto di mirra, deposto dal petto della mistica sposa in seno a Dio: martire di privazioni, vittima d’amor divino, infiorata dalle più belle virtù, rappresenta al vivo tutta la Chiesa, che dalle sue angustie in terra si getta a trovare pace in braccio alla bontà del suo Iddio. Col cuore infiammato di carità egli si frammette ai Cherubini, che bruciano d’amore tra quei sette candelabri, che ardono eternamente innanzi al sommo Bene: viva immagine di Gesù, Sacerdote e Vittima con esso, si mette col cuore nel sacro suo Costato, e di là manda un grido, che sarà nel più alto de’ cieli ascoltato per la riverenza che gli merita l’essere immedesimato col divin Redentore. – Deh! in quel prego solenne che mai deve e potrà egli dire? Se egli da quell’altezza abbassa lo sguardo alla terra, vede una corona di figliuoli, e in essa vagheggia le sue speranze di averli seco in Cielo. Se guarda in Cielo, scorge sopra quel trono di luce inaccessibile Iddio, che dissipa colla sua mano stessa i baleni, di che sfolgora la sua Maestà, e in quell’oceano di gloria si lascia travedere nell’aspetto di Padre, e sorride amoroso alla famigliola sua diletta. Se guarda in terra, vede a sé d’intorno tutte quelle anime affamate di bene; quei cuori con tante piaghe aperte: e s’affretta di raccoglierle, e lagrime di un popolo sofferente nel calice di benedizione, che viene ad offrire. Se guarda al Cielo, vede il Padre delle misericordie, che a ciascun dei patimenti di un istante di rassegnazione prepara una gioia che non avrà fine. Se torna alla terra, ascolta tanti figliuoli pellegrini, che gridano: « dateci pane e forza per poter reggere nel viaggio insino a Voi. » Mentre in cielo ascolta Gesù che dice al Padre: « Sono essi i figli del mio Sangue!» e Maria che esclama: « anche del mio quei poverini sono figliuoli! » e i santi che esclamano: « e’ sono fratelli; » e vede gli Angeli che scuotono sul capo le palme e le corone nel dire: « coraggio, queste sono per voi! » Allora pieno di confidenza allarga le braccia e s’abbandona dell’animo coi beati comprensori del Paradiso, presenta i bisogni della Chiesa e le sue speranze, piange le sue angustie, e le sue perdite, sospira colle lacrime di tutti gli afflitti, anela coi gemiti dei moribondi, vuole, sì, vuole la vita eterna di tutti. Poi con le più accese preghiere chiede pei suoi figliuoli, e questa e quest’altra grazia.., poi quest’altra ancora… « O gran Monarca del bene, pare che esclami finalmente, no, non vi chiedo più grazie particolari! E che sappiamo noi, che buono sia per noi, bisognosi di tutto, come siamo, e poveri ciechi, che non vediamo ciò che per noi sia meglio? Per effetto della vostra bontà, che ai supplicanti, le desiderate cosa concede (Orat. Domin. IX post. Pent.), deh! fate che vi chiediamo tutto e solo quello che voi vedete essere bene per noi: Voi ispirate le dimande, e la nostra preghiera raddrizzate, correggete, purificate. Padre Santo! noi per tutto il bene nostro ci getteremo in braccio a Voi, e i nostri bisogni vi dica il vostro Amore divino: noi vi mettiamo dinanzi il cuore squarciato di Gesù a dirvi tutto tutto per noi!… Per Lui dateci tutte le grazie; ma la grazia più grande, che vi domandiamo, è di essere per Lui beati a darvi gloria in Paradiso. » – Qui cessa il silenzio, alza la voce e annunzia questo grido, questo sospiro all’eternità a nome di tutti esclamando: « Per omnia sæcula sæculorum » (Questo alzar la voce del Sacerdote e terminare le acclamazioni dell’Osanna, esprime le acclamazioni delle turbe a Gesù entrante in Gerusalemme. (S. Bonav. n. 3 în Expos. Miss. cap. 8, De offert.).

Art. IX.

IL PREFAZIO.

Sul finire delle preghiere secrete il Sacerdote alza la voce qui, come per fare appello ai fedeli che ha d’intorno, quasi loro dicesse: « Non è vero, o figliuoli, che tutti i nostri desideri alla per fine vanno a finir qui, che noi vogliamo essere beati col sommo Bene per sempre in Paradiso? Io credo d’interpretar per bene i voti di tutte le bisognose anime nostre col domandarvi, o gran Padre di tutti i beni, per Gesù nostro qui con noi, e con Voi in gloria, il Paradiso per tutti i secoli, per omnia sæcula sæculorum. » E il popolo. « Amen. Sì, sì è questo appunto, proprio questo, che al tutto noi desideriamo il Paradiso. »

Il sacerdote. « Dominus vobiscum. » Il Signore v’accompagni tutti al Paradiso!

Il popolo. « Et cum spiritu tuo. » O buon padre, sia pure con voi il Signore, ed accompagni l’anima vostra.

Il sacerdote. « Sursum corda. » Per pietà, non vi perdete adunque dietro all’ombra

dei beni, che vanno in dileguo colla fugace instabilità del tempo. Al cielo, al cielo i vostri cuori! – Il Sacerdote, diceva s. Cipriano (De orat. Dom.) fino dai primi secoli della Chiesa, a fine di dare principio alla grande preghiera; dispone i suoi figliuoli con questa prefazione: « elevate i cuori; » lungi i pensieri della carne e del secolo; elevate i cuori vostri, questi cuori, cui niente è atto a riempiere sulla terra da Dio in fuori. Così si avvertono i fedeli che si appressa il formidabile Sacrificio, e tutti i pensieri debbono distaccarsi dalla terra, per unirsi a Dio in cielo, in braccio alla sua bontà (S. Cir. Mystac. 5.).

Il popolo. « Habemus ad Dominum. » I cuori nostri abbiamo già con Dio.

Il Sacerdote. « Gratias agamus Domino Deo nostro. »Ah! sien grazie all’eterno Signore Dio nostro:perché, dice s. Cipriano, noi indegni così volle atanta sua grazia chiamare (Cip. loc. cit.).

Il popolo. « Dignum et justum est. » È troppo degno, è troppo giusto, che gli rendiamo grazie per sempre.

Il Sacerdote. Veramente è troppo degno, e troppo giusto il render sempre grazie al Signore. No, non conviene che solo il Sacerdote, ma il popol suo tutto render deve grazie al Signore (S. Jo. Chrys. Hom. 18, in 2 Cor.).

Perché la gratitudine è la migliore disposizione per prepararci alle maggiori misericordie, che Dio è pronto a donarci: poiché, siccome noi non abbiamo niente che buono sia del nostro; così le nostre orazioni dovrebbero sempre incominciare col rendere a Dio le più umili grazie per tutti i suoi benefizi: essendo che il rendere a Dio tutto il merito di ogni bene è la prima giustizia. Poiché la giustizia sta nella rettitudine della volontà, la quale suol rendere agli altri quello che a loro si deve. Ora, ogni bene viene da Dio, il primo dovere di giustizia è di rendere gloria e grazia a Dio di tutto il bene che ognora ci dona. Perciò così sublimato il Sacerdote, sostenuto dalle preghiere del popolo, di cui è interprete e rappresentante, mandato dalla Sposa di Dio diletta, nell’intuonare il cantico di grazie, si slancia dell’animo in Paradiso esclamando : « Sì, veramente è troppo degno e troppo giusto; giusto non solo, ma salutare che noi sempre ed in ogni luogo rendiamo grazie a voi, o Signore santo, Padre onnipotente: e tali grazie, che, incominciate nel tempo, vogliamo continuarvi nel cielo, o Dio dell’eternità, per mezzo di Gesù Cristo. – È perché il Sacerdote in quell’istante porta il cuor pieno della memoria massime del particolare mistero che si va celebrando; col suo cantico acclama festeggiando quella solennità, che dà pascolo alla devozione dei fedeli. Quindi varia il prefazio col variare delle solennità.

(Nella festa della Natività di Gesù Cristo esclama: « Sì, veramente è degno e giusto di ringraziarvi, perché per il mistero di questo Verbo incarnato, agli occhi della mente nostra splendette una nuova luce della vostra chiarezza, sicché mentre per esso conosciamo visibilmente Iddio, per questo pure siamo rapititi all’amore delle invisibili Cose. »

Nel dì dell’Epifania dice: «Vi dobbiamo ringraziare, perché quando apparve questo Unigenito vostro, allora ebbe noi ristorati della luce della sua immortalità »

Nella Quaresima dice: « O Sigore, che pei meriti di esso Gesù, col corporale digiuno comprimete i vizi, elevate la mente, donate la virtù ed i premi. »

Nelle feste della Croce e della Passione: « O Signore, esclama, che la salute dell’umano genere avete messa sul legno della croce, affinché donde usciva fuori la morte, di là risorgesse la vita, e colui che nel legno vinceva, nel legno pure restasse vinto per Cristo Signor nostro. »

Nella Pasqua poi esclama: « È degno e giusto e salutare in ogni tempo invero rendervi grazie, ma specialmente in questo con maggior gloria esaltarvi, quando appunto fu immolato il Cristo per nostra Pasqua: Egli si è il vero Agnello, che toglie i peccati dal mondo, che la morte col morir suo distrusse, e la vita col risorgere suo ebbe ai suoi riparato. »

Nell’Ascensione poi dice di ringraziarlo: « Per Cristo Signor nostro, il quale dopo la sua risurrezione a tutti i suoi discepoli manifestossi nelle apparizioni ed al loro cospetto elevossi in cielo, per fare della sua divinità noi stessi partecipi. »

Nella Pentecoste rende grazie a Dio « Per Gesù Cristo Signor nostro, che ascendendo sopra tutti i cieli e sedendo alla destra di Lui, lo Spirito Santo promesso diffuse in quel giorno nei figli dell’adozione. »

Nella festa della SS. Trinità e in tutte le domeniche, nelle quali si rende ossequio particolare a quest’augustissimo mistero, ringraziando l’Eterno Padre, adora e confessa le tre Persone in tal modo: « Voi, o Padre, che coll’unigenito Figlio vostro e collo Spirito Santo siete un Dio solo e solo Signore, non nella unità di una persona sola, ma nella Trinità di una sola sostanza; poiché ciò, che rivelando Voi della vostra gloria, abbiam creduto, l’istesso pure del vostro Figlio e dello Spirito Santo noi teniam senza differenza di discrezione. »

Finalmente, rammentando le feste della SS. Vergine, dice teneramente all’Eterno Padre: « E cosa degna, giusta, equa e salutare il ringraziarvi in questa festa (e nomina qui la festa particolare) della beata Maria sempre vergine, tutti insieme qui lodarvi, benedirvi ed esaltarvi. Essa è colei che per opera dello Spirito Santo concepì l’Unigenito vostro, e restandole la gloria della virginità, diffuse nel mondo il lume eterno, Gesù Cristo Signor nostro. »

Nelle feste degli Apostoli ed Evangelisti dice: « E cosa degna, ecc. il supplicare Voi, o Signore, affinché Pastor che siete, non abbandoniate il gregge vostro, ma pei vostri Apostoli con continua protezione lo custodiate. Affinché dai medesimi rettori sia governato, i quali come vicari dell’opera vostra alla medesima avete collocato a presiedere come pastori. »).

Ma il canto di esultanza sempre conchiude col rendere grazie nel più tenero modo per Cristo Signore nostro. Deh! Quanto è grande la confidenza, che lo rianima ad invocare il Divin Salvatore, come strettosi ed identificato col Redentore in tal sublime elevazione, egli si frammischia alle schiere degli spiriti celesti, che assistono indivisibilmente al trono di Dio, e loro congratulandosi annuncia esultante, che lo stesso Verbo, Splendor della gloria, che in loro effonde tanta beatitudine, fattosi uomo, sta ora per stendere la sua mano divina anche a noi sulla terra, per sollevarci al Paradiso. Onde già essendo colla speranza aggregati alla chiesa del cielo anche noi; associati all’immortale radunanza degli eletti di Dio; sortiti all’eterna cittadinanza della celeste Gerusalemme, dove l’eternità sarà per noi con essi il termine della beatitudine: deh! intanto ci lascino pur di qui gli Angeli con loro lodarlo, le Dominazioni adorarlo; e le Potestà stare con esse tremanti innanzi all’Eterno ad ossequiarlo; i cieli, le Virtù dei cieli, i Cherubini ed i Serafini arder con loro dell’incendio dell’Amore Sostanziale; ed in santa esultazione provare fin d’ora il cantico dell’immortalità, incominciando a compiere l’officio dell’eterna beatitudine. Anche noi, domestici di Dio, candidati del Paradiso, facciamo eco al coro dei beati comprensori coll’immortale trisagio:

« È Santo, è Santo, è Santo delle vittorie il Re! Dio, che di tutto ha vanto, Che fu, sarà, qual è. In terra, in ciel solenne Osanna suonerà: Benedetto nel Signore chi pel Verbo al ciel verrà. »

Così in quest’inno di esultanza cantasi la gloria di Dio in tre modi di lode, a cui si frammischia due volte il grido dell’umiltà, che chiede salute coll’Osanna, che vuol dire « salvateci » (Card. Bona, Trat. Ascet. de Missa.). Cioè in prima si esalta la santità, la potenza ed il dominio di Dio acclamandolo tre volte santo Dio in se stesso, nell’augustissima Trinità, Signore degli eserciti, Dominatore del tutto. Poi si dà lode a Dio, celebrando la sua gloria creature coll’escmare, « che della sua gloria sono pieni il cielo e la terra. » E poi infine all’Onnipotente, al Padre di tutti i beni si grida « Osanna; salvateci; » e si acclama « benedetto » al Redentore, che viene a salvare. – Il Sacerdote intanto va già coll’anima in cielo a prostrarsi dinanzi a Dio. Squilla il metallo scosso dal chierico tremante appiè dell’altare, e dà avviso, il Cielo si abbassa alla terra. Le campane echeggiano per l’aria, e proclamano nella regione delle nubi il trionfo del Dio della bontà, che ammette gli uomini a conversare con Lui. Prostesi sul suolo in questo terribile momento adoriamo tremanti il tremendo mistero! …. Il Cielo è aperto sopra la terra. Qui le cose divine alle umane si confondono; e noi frammischiati con gli Angioli, sull’altare come sulla porta del Paradiso, teniamoci stretti col Sacerdote; affrettiamoci di coprire le nostre miserie colla croce di Gesù Cristo (fa il segno di croce), ivi sotto la croce offriamo il tremendo Sacrificio. Qui il Sacerdote, lasciandosi andare col cuore a Dio, è tutto tra il benedirlo e supplicarlo. (Quì abbassa la voce). Oh! par che la sua voce si perda per la via del cielo; e l’anime con esso volino ad incontrare il Salvatore benedetto, e a gridargli innanzi: « Osanna, Osanna, o Signore del cielo, salvateci tutti!… » Silenzio!… Silenzio!…. il Sacerdote e il popolo si smarriscono in Dio!… Anticamente in questo istante si serravano le porte della chiesa: nel rito armeno si cala giù un gran velo, che copre il Sacerdote e l’altare: nel rito latino una nube d’incenso involge il nuovo Mosè, che è sul mistico monte a parlar con Dio, e rende più misterioso e più augusto questo luogo tremendo. L’organo ha cessato i suoi trilli, ma sospira sommessamente; e direste che si fa interprete dei trepidi pensieri, che s’alzano tremanti, ma pur s’ avvicinano a Dio, come tirati a forza dall’amor di Gesù Cristo; direste, che l’organo nostro sta in forse, se debba far sentire la pia armonia agli Angeli assuefatti ai concenti del Paradiso; direste che organo confuso anch’esso, non rende un suono da festeggiare Iddio, che si abbassa, e non sa far altro che gemere in umiltà, e sospirare soavemente! O direm meglio col gran maestro Rossini, con quella sua anima piena di melodie che lo elevano all’armonia del Paradiso; l’organo colla flebile voce umana soavemente penetra nei cuori, li indovina, si fa interprete de’ più delicati affetti, e solleva i palpiti del cuor umano ai rapimenti de’ Cherubini e de’ Serafini, che s’imparadisano col Divin Figliuolo in seno a Dio.

QUARESIMALE (X)

QUARESIMALE (X)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMA
Nella Domenica seconda di Quaresima

Del Paradiso: Tutto si può, e si deve tollerare in questo mondo, per la conquista d’un tanto bene nell’altro.
Et transfiguratus est ante eos. S. Matt. cap. 17.

QUARESIMALE (X)

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QUARESIMALE (X)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMA
Nella Domenica seconda di Quaresima

Del Paradiso: Tutto si può, e si deve tollerare in questo mondo, per la conquista d’un tanto bene nell’altro.
Et transfiguratus est ante eos. S. Matt. cap. 17.

Non si può, no, grida l’Apostolo, giunto al terzo Cielo, avere vera notizia di ciò, che sia Paradiso, perché “Nec oculus vidit, nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit, queæ Deus præparavit diligentibus se”. Ma non per questo voglio trascurare gli inviti di San Giovanni nell’Apocalisse, che con chiave d’oro c’apre il Paradiso: Ostendit nobis Sanctam Civitatem Jerusalem. Inoltriamoci dunque a rimirare questa Patria eterna de’ Beati, giacché a tanto ci consiglia San Girolamo, scrivendo ad Eustachio: Paradisum mente perambula, ch’è quanto dicesse scorri pure il Paradiso non con occhio corporeo, che tanto non vale, ma col lume della Fede. La fede dunque dia a noi questa mane e qualche notizia del Paradiso, e contentatevi, che io pratichi con voi, quel che fece colui, riferito da Jerocle Greco, il quale per far venire in cognizione di qual bellezza fosse il suo Palazzo, ne mostrò una sola pietra: Così io con il santo lume della Fede non più vi mostri che una pietra di Paradiso, che vale a dire un grado solo di Gloria, e questo v’assicuri, che supera quanto di bene possa immaginarsi, non che trovarsi in tutto l’Universo; dal che arguirete se sia bene tollerare ogni travaglio in questo mondo, per la conquista d’un tanto bene nell’altro. Ecco dunque, che ancor io vi porto in mostra una piccolissima pietra di quella celeste Gerusalemme, acciocché dalla di lei preziosità abbiate un sbozzo del Paradiso. L’Angelico San Tommaso me la pone in mano con assicurarci che un sol grado di Gloria, vale più che tutto il Creato e creabile: Bonum gratiæ etiam minima unius animæ particularis, majus est, quam omnia bona naturæ totius Úniversi. – Posta questa verità, figuratevi pure un gran signore che a niuno ceda nella sublimità de’ natali e tutti superi nelle aderenze d’illustri parentele. Dategli per abitazione nella città regina del mondo un palazzo sì sontuoso che superi di gran lunga quel regio de’ monarchi della Cina, ove, al riferire de’ storici, contavansi sessanta nove camere tutte alla stesa, una più bella dell’altra, e fra queste quattro, vedeansi tra le principali, essendo la prima coperta a lamine di rame artificiosamente storiato di finissimo argento, la seconda d’oro, la terza e la quarta ove il principe dimorava, rimiravasi tutta tempestata di perle e gemme preziose. Possieda questo signore per ornamento della sua reggia, mense intarsiate di diamanti, scrigni tempestati di rubini, ed abbia gioie in tal numero che possa, niente inferiore ad Ottone Augusto, dispensare a chi gl’aggrada un milione e due cento mila scudi, che egli donò alla capella di Giove Capitolino, e superiore al tanto rinomato Nipote di Lillio possa adornarsi con un milione e mezzo, che con tante appunto vi comparve in un ballo; abbia altresì per sua mera delizia entro il nobile suo giardino, quell’albero, che da Luitprando fu veduto, ed ammirato nel gran Salone di Costantinopoli: Era questo tutto di bronzo, e carico d’augelli d’oro, che dolcemente a forza d’arte cantavano; oppure quell’altro veduto con ammirazione da Marco Polo nella Reggia del Gran Khan, mercè che era d’oro massiccio, e gli pendevano per frutti, grosse perle: ne pare manchi ad un signore di tanta maestà il seguito di nobile e numerosa servitù; gli si concedano pure oltre al numero ben grande di cavalieri e principi che lo assistano nelle anticamere, quei seicento paggi, de’ quali Antioco si servì nel regio convito di Dafne. Erano questi tutti vestiti di broccato a gala, e tutti coronati di gemme e con gran vasi d’oro andavano per tutto spargendo preziosi unguenti. Or ditemi, uditori, il possesso di tanta ricchezza e di tesori sì immensi posseduti da un signore sì grande, possono forse paragonarsi ad un grado di Gloria, che si goda in Cielo? Appunto perché quante furono, sono, e saranno gioie, tesori nel mondo non bastano, sborsati a’ primi Medici delle Università più accreditati, per fare, che non vi travagli in vita un affanno di petto, un dolor di testa, un crucio di denti, dove che un sol grado di Gloria vi dà il possesso di tesori infinitamente maggiori, e di più, vi libera da quanti possano immaginarsi mali nel mondo. Padre! Deh sentite, che volete signora? O s’io potessi avere la minima parte di quelle gioie, mi parerebbe di godere non un grado di Gloria, ma un intero Paradiso; bene, io vi rispondo, e per questo, che ponete di qua il Paradiso negli ornamenti, nelle vanità, non l’avrete di là.
Passo avanti, e giacché il mondo come insaziabile non solo vuole le ricchezze, ma per essere ancor più beato, ama di dominare, voglio vedere se non potendosi un grado di Gloria eguagliare con tanti tesori, possa almeno paragonar con l’assoluto dominio di gran parte del mondo. Diasi adunque à questo signore non solo questa vostra Provincia ricca di terre sì illustri, e di città sì nobili, ma un regno, un impervio, anzi l’Europa tutta, che vale a dire: abbia il possesso di quanto con assoluto comando dominino un Pontefice Romano, due Imperatori, d’Occidente uno in Vienna di Germania, d’Oriente l’altro in Constantinopoli di Romania; di quanto possiedono sette regi, due granduchi, sei repubbliche, dodici Principi Ecclesiastici, e tanti duchi d’altezza, con i due serenissimi marchesi di Brandemburgo e Baden. Or bene, tutto questo gran Dominio può paragonarsi ad un grado di Gloria? Appunto, appunto, aggiungete pure ai Regni, e Imperi d’Europa, quanti ne vantano con l’Asia, l’Africa, e l’America, e poi afferite con tutta verità, che vale più un solo grado di Gloria, che non è tutto il possesso d’un mondo intero, perché un grado di Gloria vi dà infinitamente più, e vi costituisce monarchi di tal grandezza, che formando di tutte le umane grandezze una sola grandezza, è un nulla, a paragone di quella, in cui vi costituisce un grado di Gloria. O grado di Gloria, che gran bene porti a chi ti possiede e pure colui dentro di sé dice: potessi io avere non un mondo, ma un piccolo comando,
che volentieri rinuncerei a questo grado di Gloria, perché così potrei soddisfare alle mie vendette, e compiacere a’ miei sensi. Ah stolti, ah pazzi, che così sprezzate i gradi di Gloria? Se bene mi consolerei quando i peccatori per un piacere peccaminoso facessero gettito d’un bene che nulla più valesse di quel che valga questa terra; ah che maggiore è la perdita, mercè che un grado di Gloria non solo vale più di tutta la terra, ma di tutto il Cielo, di tutta la material città de’ Beati. Il Paradiso, come saprete, è quella Città posta in una bellissima pianura, la quale occupa dodici mila stadii, che vale a dire, mille e cinquecento miglia per lunghezza, ed altrettanto per larghezza. In questa Città solamente si ammira ogni bellezza, ogni preziosità, essa solamente può chiamarli Civitas perfecti decoris. L’oro, che tra noi fregia le stanze più nobili, ivi lastrica le strade più popolari; e le gemme che qua giù si portano sul capo, son colassù calpestate dal piede. Su avarizia portati con gl’occhi in Cielo, già che non puoi entrarvi con i piedi, sporgi il capo dentro ad uno di quei finestrini, per i quali Daniele di Babilonia vagheggiava un giorno Gerusalemme; mira un poco se le ricchezze che colassù si possiedono, sono da posporsi alla terra; pensa un po’ se meritano che tu le getti per quell’affetto disordinato che hai alla roba; per quell’interesse che ti stringe le mani, finché non soddisfi né mercedi, né pii legati. Uditori miei, tenete pur fissi gl’occhi nelle ricchezze celesti, e poi siate sicuri, che 7sprezzerete la terra. Accadrà per appunto à voi, come à colui che avendo prima studiata la Geografia, e formato sommo concetto della terra perché  l’aveva sentita dividere in tante provincie, regni, ed imperii, andato poi a prender lezione da un astrologo si sentì supporre la terra stessa per un punto che sta nel centro de’ Cieli; di che meravigliato, non si soddisfece, finché sentì per risposta l’uno, e l’altro non discostarsi dal vero poiché chi contempla la terra da se sola ha ragione di stimarla per grande, ma chi la paragona con i cieli, non può non disprezzarla per piccola, e pure e terra e cielo sono un nulla à paragone d’un grado di Gloria. O Dio e può trovarsi chi per un bene da nulla sprezzi quella Gloria che gli porta un sì gran bene? Passiamo avanti, e dopo aver consegnato a quel monarca e terra e cielo, tutto inferiore ad un grado di Gloria, giacché Nullius rei sine socio jucunda est possessio, gli si dia per compagno un esercito d’Angeli vestiti di luce, di vergini bianche come gigli di Martiri imporporati di palme, di confessori candidi al par delle nevi. Più gli sia dato, e finisca di coronare la sua gioconda conversazione la più bella, la più eccellente, la più santa di tutte le creature che siano mai uscite dalle mani di Dio, dico Maria, che sola sola potrebbe farvi gioire d’allegrezza, avendo Ella forza d’incatenare ogni cuore. Eppur, tutto ciò, chi’l crederebbe, è inferiore ad un grado di Gloria, giacché, come dice Agostino, un grado di Gloria: Est majus bonum quam Cælum, Terra et quidquid in illis includitur. Perché  tutte queste cose vi dà il grado di Gloria e di più vi concede eternamente goderle. Un grado di Gloria sì guadagnato con una limosina, con una corona, con un’opera pia fatta per Gesù, è un bene incomparabilmente maggiore, eppure si sprezzano questi beni di Paradiso, e vogliono i fuggitivi della terra, finché parmi sentire chi, bestemmiando, dica che Grazia di Gloria in Cielo? Il nostro Paradiso lo vogliamo in terra tra i comodi, tra le delizie, tra’ piaceri. Dio immortale! E  se è vero, come è verissimo, che il possesso de’ beni, il dominio del mondo, il godimento della Patria de’ Beati, con la conversazione de’ Santi e della Vergine stessa, tutto inferiore ad un grado di Gloria che si goda in Cielo, che farò io per darli paragone che vaglia? Orsù mi sia lecito di dire che per eguagliare, se non per superare questo grado di Gloria, cavi Iddio con la sua Onnipotenza dal nulla, e dia l’essere a nuovi mondi di gran lunga superiori. Voi ben sapete che Iddio scherzò allorché sbalzò dal nulla questa gran macchina del mondo, con porvi un globo di fuoco che con i suoi raggi di luce sgombrasse quelle tenebre, che erant fuper faciem terra; scherzò allorché diede commissione al sole di provvedere di luce; la luna, che con i suoi raggi d’argento scemasse qualche poco l’oscurità della notte; scherzò quando sparse per il cielo lucidissime stelle; furono scherzi la formazione d’una terra sì vasta, d’un mare si smisurato, perché allor si diportò come Ludens in Orbe terrarum. S’alleni, per così dire, l’Onnipotenza, e se allora adoperò un dito della sua destra, impieghi ora la mano ed il braccio, e faccia comparire non uno, ma mille mondi, faccia che in essi la terra non più produca né triboli di disgusti, né spine d’amarezze, ma solo germogli, rose di contentezze, faccia un mare, che sempre in calma, mai minacci tempeste, dal quale siano esiliati i naufragi e ad ogni scoglio possa dirsi: qui abbiamo il porto, stenda i cieli che con la loro serenità continua, mantengano il brio delle allegrezze, non si veda mai folgoreggiare per aria un lampo, niun tuono spaventi, niun fulmine precipiti, e quivi vi sia dato vivere sani e robusti per mille anni, al fine de quali, senza provare agitazione di morte, sia trasportato il vostro spirito con somma quiete sopra del cielo, e giunto ad una di quelle dodici porte di diamante, spalanchisi ad un tratto, e rimbombando sonore le trombe, giulivi vi escano incontro con angeliche squadre di Martiri, torme di sacri confessori, drappelli di caste vergini e vi ricevano, narrandovi con lingue di Paradiso le grandezze di quella abitazione veramente regia. Eppure, tutto ciò non può formare quella piccola pietra che v’ho portata qui in mostra d’un sol grado di Gloria. E come è possibile, sento chi mi dice che un grado di Gloria contenga in se un bene sì smisurato, che superi quanto finora s’è detto? Così è, eccovi la risposta: prendete un diamante e ponetelo a confronto con tutti i marmi più belli della terra, e voi vedrete in quel diamante una tale prerogativa che non troverete in tutti i marmi immaginabili, cioè a dire uno scintillar sì luminoso che vi sembrerà una piccola stella della terra, e questa luce sì nobile mai mai troverete in tutti i marmi del mondo. Or così va, miei uditori, chi godrà un grado di Gloria avrà, per mezzo di quello, o Dio, che non avrà? O grado di Gloria quanto sei stimabile! Eppure tanti ti sprezzano. O Pater Abram, Pater Abram; Ahimè, queste sono voci d’Inferno; E perché turbare i discorsi di Paradiso? Son voci d’Epulone, che pretendi da Abramo? Non altro che una stilla di Paradiso: Mitte Lazarum ut intingat extremum digiti in aquam, refrigeret linguam meam. Tu deliri, o Epulone, mentre per estinguere le ardenti fiamme, che ti abbruciano, nulla più domandi d’una stilla? Io so che il Mongibello quando con le ardenti sue fiamme entra nell’Onde, le divora, ed il Mar Tirreno agl’assalti del Vesuvio mette in fuga e tu sciocco, con una stilla d’acqua pretendi estinguere l’inferno? Taci, stolto che sei! Tacete voi, risponde a noi Sant’Agostino. Tacete, sì si, una sola goccia, un sol grado di quelle stillate dolcezze del Paradiso, delle quali parlò in spirito Gioele, allorché disse: In illa die stillabunt montes dulcedinem, una sola, dice, di quelle gocce, basta non solo a smorzare, ma a disfare tutto l’inferno, e mutarlo in Paradiso; ecco le parole del Santo Dottore: Tota dulcescerer damnatorum amaritudo. – Cada una sola stilla di quei torrenti di Paradiso nell’inferno ed eccolo un Paradiso, non più abitato da’ demoni, ma dagl’Angeli; non più tenebre, ma luce; non più catene, ma libertà; non più dolori, non più spasimi, ma sanità perfetta, godimenti inenarrabili. Tota dulcesceret damnatorum amaritudo. O quam magna, esclami pure ogn’uno col Profeta, multitudo dulcedinis tuæ Domine! Ma sento chi mi dice: noi più di proposito brameremmo questo gran bene, se n’avessimo più distinta notizia, se sapessimo più distintamente ciò che sia questo grado di Gloria! Che sarà mai dunque questo grado di Gloria, mentre non porterà seco solo vedere le pompe trionfali di quelle Gerarchie Celesti che faranno corteggio al Re Sovrano, né pure rimirare i Santi vestiti di Corpo glorioso, sì penetrante che potrà passare per mezzo d’ogni monte, come ora il sole passa per un cristallo sì agile, che potrà in un subito calare dal Paradiso in terra, così impassibile, come impassibile è l’anima; così luminoso, che se un Beato mettesse fuori del Cielo una mano, basterebbe per illuminare tutto l’universo cento volte più che fa il sole: Fulgebunt justi sicut sol in Regno Patris eorum, mentre non sarà rimirare Maria sempre Vergine, il di cui sembiante ci terrà incatenati i cuori; Maria, Maria nostra Avvocata, nostra Signora, nostra Protettrice, le di cui bellezze sono il miracolo de’ miracoli, finché come scrive Sant’Ignazio Martire in una delle sue lettere, mentre Maria era ancora in terra, concorrevano a truppe i popoli per vederla. Che sarà dunque questo grado di gloria, che sarà? Sarà vedere un abisso di splendori in un teatro di maestà, in un centro di gloria Iddio, videbitis eum sicuti est. E che vuol dire, uditori miei, vedere Iddio? Chi mi avvalora il pensiero, chi mi purga la lingua, sicché io possa in parte spiegarvi quel che vedrete vedendo Dio? Vedrete quello che è la Beatitudine universale di tutte le creature; vedendo Lui non pensate già di vedere niuno di questi oggetti creati; Egli increato, questi materiali; Egli purissimo spirito, questi difettosi; Egli perfettissimo, e pure tutto ciò, che vedrete fuori di Lui, immaginatevi che voi tosto vedrete; vedendo Lui, vedrete Dio. Oh chi potesse ridire che sarà del vostro cuore a quel primo sguardo? Oh che deliqui d’amore voi sentirete! Che vampe di carità, che rapimenti, e che estasi! Che dolcezze! Allora sì, che adorerete tanta Maestà, e quasi reputandovi indegni di sì gran bene, vorrete sospirare, vorrete piangere per un certo solito sfogo di tenerezza, ma non vi farà permesso, no: Non audietur ultra vox fletus, et vox clamoris, crediatelo ad Isaia. Che direte allor, che vi vedrete Beati, che vale a dire al possesso di tutti i beni per goderli non solo perfettamente, ma eternamente? Allora tutta giubilo nel suo cuore, dirà quella verginella: beata quell’ora, beato quel punto in cui voltai le spalle a quell’amante, ricusai i suoi regali, ributtai le sue imbasciate; beata me, che ho conservato intatto il giglio della mia verginità. Allora, sopraffatta dal giubilo, esclamerà quella maritata: o quanto feci bene a sopportare le tirannie del mio consorte, mi strappazzò con parole, mi percosse più volte, non fui moglie, fui serva, fui schiava, ma la mia pazienza? Ecco dove m’ha portata: al possesso di tutti i beni per goderli perfettamente, eternamente. Son finite le grida, son finiti i dolori, ecco il giubilo, ecco il contento! Allora, pieni d’allegrezza esclameranno quegl’uomini, quelle donne: felici noi per quel punto in cui demmo la pace all’inimico; felici noi perché non imbrattammo le nostre mani con roba altrui; felici noi perché portammo rispetto alle Chiese; felice l’ora in cui abbandonai quel compagno sì dissoluto; felice quel punto in cui abbandonato il mondo, mi ritirai nel chiostro. Ah, che se per me venisse mai un’ora così beata, che mi vedessi ammesso nel possesso di tanta gloria, ancor io, in qual sentimenti, in quali atti, in quali parole proromperei? Se mi sarà permesso accostarmi a quel Soglio Divino: Et veniam ad Solium ejus. Io voglio dire al mio Dio; che vorrei dire, se sopraffatto dall’amore, mi converrebbe attonito tacere. Taccio, ma mentre io fò silenzio; tu peccatore, tu peccatrice alza gl’occhi, e poi dirottamente piangendo esclama con dolorosa voce: Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me! Son belli quei Palazzi alla Reale, ma non sono per me; li demeritai allor che profanai le mie sale con veglie e balli; le mie Stanze con giuochi; le mie camere più segrete con replicate disonestà. Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me. Son belli quei diamanti, quelle perle, quelle gioie che t’adornano, ma non per me; le demeritai allor che feci gettito della più bella gioia che si prezzi in Cielo: la santa virginità; Paradiso sei bello, ma non sei per me. È nobile la conversazione di quei tanti Angeli, di quei tanti Cherubini, e quei tanti Serafini, che ardono di santo Amore verso del loro Iddio, ma non è per me, che sempre avvampai di amor profano in odio al mondo, in odio a Dio. Paradiso sei bello, ma non sei per me: Non è per me la compagnia di quei Santi confessori perché chiamato al par di loro alle solitudini del Chiostro, vi stetti con gl’affetti nel secolo, innalzato alla dignità di Sacerdote mi portai al Sacro Altare con rozza mente, con laido cuore, maneggiai Cristo al par del fango. Paradiso sei ben bello, ma non sei per me; non è per me la compagnia di quei Santi penitenti nel mondo, mentre io vi son vissuto tra crapule e lussi; non è per me poter fissare gl’occhi in quei drappelli di caste vergini, molto meno nell’amabile volto di Maria, mentre io con occhio anche sacrilego tramai insidie alla castità più custodita. Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me perché, troppo interessato, non mi curai delle tue ricchezze per aver la roba altrui; non sei per me, perché troppo avido d’onori, ricusai le tue eterne dignità. Paradiso non sei per me, perché troppo vana stimai più la mia caduca bellezza che la tua; non sei per me: troppo fui irriverente nelle Chiese, troppo dedito alle vendette, troppo disubbidiente a’ miei maggiori, disprezzatore de’ Sacerdoti, e sempre diedi mal esempio alla mia famiglia; da me impararono i figli le bestemmie, le mormorazioni, le disonestà; da me impararono le figlie ad amoreggiare dalle finestre, nelle porte, per le strade; io li precedevo nella, io l’istigavo agl’ornamenti, io li posi sull’orlo de’ precipizi, io gli feci perdere con l’onore anche l’anima, e però Paradiso sei bello, ma non sei per me. Misero peccatore, misera peccatrice, e non ti crepa il cuore alla rimembranza di dover dire, se non muti vita … Paradiso sei bello, ma non sei per me: muta vita, lascia l’iniquità rinuncia al demonio, osserva i Comadamenti per poter alla tua morte proferire queste parole di giubilo Paradiso, Paradiso sei bello, e sei per me; sei bello, e sei per me.

LIMOSINA

Iddio per Isaia pone in vendita il Paradiso: Properate emite. Bisogna miei uditori, comprare il Cielo, non vi sgomenti la preziosità sua, poiché ciascuno di noi ha tanto di capitale che basta per una tal compra, non vi vuole più, dice San Pier Crisologo, che un pezzo di pane, un poco di limosina distribuita a’ poveri si può spender meno? Deus Regnum suum fragmento panis vendit et quis excusare poterit non ementem, quem tanta vilitas venditionis accusat? E pure si trova chi ne pure a prezzo sì vile vuole comprare il Paradiso. Ah Dio! Vende, Iddio a poco prezzo i piaceri del Cielo, non vi è chi li voglia; vende il demonio i piaceri del mondo a gran prezzo, ed ognuno compera, si spende ne’ giuochi, ne’ conviti, nelle feste, nelle pompe, nelle vanità, sarebbe poco, nelle vendette, nelle disonestà, e per il Paradiso non solo non vi è oro, né argento, ma neppur rame per sovvenir la povertà d’un mendico.

SECONDA PARTE.

Il Cielo, uditori, al dire dell’Evangelista, s’acquista per via di negozio, di traffico: Simile est Regnum Cælorum homini negotiatori: Se ciò è vero, come è verissimo, voi ben sapete, che è legge di buon negoziante trasportare in Paese straniero quelle merci, che colà non sono, e di là portare quelle che nel proprio o non nascono o non si lavorano. Bisogna dunque se vogliamo guadagnare il Cielo per via di traffico, come ci addita il Redentore, che noi colassù mandiamo quelle merci che v’hanno spaccio, e che ivi non si trovano. Desistete, o ricchi, d’accumular più quell’oro, che racchiudete in cassa, e sol lucrate in vani ornamenti, in superflue vanità. Avari, non occorre con nuove usure, con traffici illeciti accrescere le vostre ricchezze, non manca oro in Cielo, già v’ho detto, che tutte le Grade Piazze son fabbricate Ex auro purissimo. Donne, quelle pietre preziose, quei diamanti, quelle perle che con tanta vanità v’adornano, non vi comprano il Cielo, perché colassù fino le porte, le mura, le torri sono gemme: Porte nitent margaritis, omnes muri tui, et turres Jerusalem gemmis edificabuntur. Ambiziosi, non tramate più la rovina del prossimo per salire a quella dignità, a quel posto, non mancano titolati e grandi nel Cielo, mentre tutti i Beati sono un popolo di regi: Percipite Regnum vobis paratum a Patre meo. Uditori, ori, gemme, onori non hanno spaccio in Paradiso perché di queste merci il Paradiso n’abbonda. Dunque se volete guadagnarlo col traffico, portate colassù le merci che non vi sono: In Cielo non v’è pianto, non v’è dolore; in Cielo non v’è tempo, essendovi l’eternità … Non erit ibi luctus, neque dolor erit ultra: Dunque per ottenere il Cielo vi vogliono lacrime di cuor contrito, dolori di patimenti, di tribolazioni tollerate con pazienza. Queste sono le merci che hanno spaccio nel Cielo, e queste ci otterranno il Paradiso. Eccovi il modo d’ottenere il Cielo, guadagnarselo con portare di là la mercanzia che non v’è, che vale a dire patimenti; e se così farete, Isaia vi assicura, che qui vicerit possidebit hæc: tutto questo sì gran bene del Paradiso è per voi, di grazia non vi lasciate accecare da i diletti peccaminosi di qua, che presto v’invola la morte, ma solo attendete agl’eterni dell’altra vita. Volete, che io v’insegni un altro modo per guadagnare il Paradiso? Fissate spesso gl’occhi colassù, perché così vivrete bene, ed il Paradiso sarà vostro. Tito e Domiziano, ambedue figli del vecchio Imperatore Vespasiano, furono fra di loro sì differenti, e riuscirono di natura e di costumi sì varii, che Tito fratello maggiore al dir di Svetonio fu chiamato: Delitiæ Generis humani, e Domiziano: Flagitium Generis humani. Per rendersi buono e di costumi sì retti Tito, v’ebbe gran parte la prudenza del suo Aio, che per molto tempo gli assisté. Fattosi notte conduceva costui il giovinetto Tito in una loggia; indi dicevagli: Volgete gl’occhi alle stelle; vedete quella figura formata di vent’otto Stelle, si chiama Ercole , ed ha ottenuta quella stanza colassù in cielo, perché nel mondo atterrò molti mostri; ve l’otterrete ancor voi, se riporterete vittoria di quei vizi che infettano il mondo. Udite: quell’altra costellazione formata di ventisei sfavillanti lumiere, si chiama Perseo, e fu quel giovane sì generoso, che fece guerra alle Gorgoni, e con un colpo di lancia sviscerò l’Orca Marina, liberandone Andromeda, sicché non fosse divorata; or così appunto sfavillerete ancor voi se col braccio della vostra autorità difenderete l’onore delle matrone, e la pudicizia delle donzelle. Date ancora un’occhiata a quelle due figurine composte ambedue di nove stelle; sono Castore e Polluce, e voi ancora v’avrete questo splendore se qui nel mondo fomenterete la pace, e v’amerete con i sudditi: volete altro anche con volgere gl’occhi a queste menzogne; si rese Tito principe sì buono, vi delitiæ generis humani vocaretur. Deh date un’occhiata a quei Giusti del Paradiso, … Qui fulgent quasi stelle in perpetuas æternitates, e chi vi tiene, chi v’impedisce? Vedete colà quella matrona coronata di tanta gloria, ella è Francesca Romana. Chi v’impedisce o vedove un simil posto? Vedete colassù quella Cunegonda, chi v’impedisce o maritate un simil possesso? Chi o donzelle? mirate le Lucíe! Chi o contadini? mirate un’Isidoro! Suspice Cælum, dice Agostino, et accipies Cælum. – Mi giova credere, che alla mia predica siano molti e molte che abbiano da vedere fra poco la Gloria che io non ho saputo descrivere. S’io sapessi chi sono, oh con che ossequio li rimirerei; qual santa invidia m’occuperebbe il cuore, vorrei fino baciar la terra che calpestano. Ma ahi, che sento mutarmi l’allegrezza in pena; così non fosse: vi saranno anche molti e molte che non la vedranno mai … s’io sapessi quali sono! Vorrei scendere da questo pulpito e, afferratili per un braccio, dir loro: Ah infelice, vuoi dunque perdere il Paradiso, abitazione sì bella, la compagnia de’ Santi, di Maria, di Dio, per non lasciare quella maledetta amicizia, per non restituire quella roba, per non perdonare a quell’inimico? Leggo pure in Erodoto di quell’Egistrato Eleo che, tenuto legato da una catena ad un piede da’ demoni, per poter correre alla bramata libertà, recise quel piede che gliela impediva; e tu non avrai animo, non per una libertà, che finisce, ma per l’eternità, di troncare quei legami lascivi? non l’avrai? Andate dunque a casa, e questa sera sull’imbrunir di notte, dite, mirando il Cielo: Sei pur bello Paradiso, ma forse non sarai per me.

QUARESIMALE (XI)



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Non si può, no, grida l’Apostolo, giunto al terzo Cielo, avere vera notizia di ciò, che sia Paradiso, perché “Nec oculus vidit, nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit, queæ Deus præparavit diligentibus se”. Ma non per questo voglio trascurare gli inviti di San Giovanni nell’Apocalisse, che con chiave d’oro c’apre il Paradiso: Ostendit nobis Sanctam Civitatem Jerusalem. Inoltriamoci dunque a rimirare questa Patria eterna de’ Beati, giacché a tanto ci consiglia San Girolamo, scrivendo ad Eustachio: Paradisum mente perambula, ch’è quanto dicesse scorri pure il Paradiso non con occhio corporeo, che tanto non vale, ma col lume della Fede. La fede dunque dia a noi questa mane e qualche notizia del Paradiso, e contentatevi, che io pratichi con voi, quel che fece colui, riferito da Jerocle Greco, il quale per far venire in cognizione di qual bellezza fosse il suo Palazzo, ne mostrò una sola pietra: Così io con il santo lume della Fede non più vi mostri che una pietra di Paradiso, che vale a dire un grado solo di Gloria, e questo v’assicuri, che supera quanto di bene possa immaginarsi, non che trovarsi in tutto l’Universo; dal che arguirete se sia bene tollerare ogni travaglio in questo mondo, per la conquista d’un tanto bene nell’altro. Ecco dunque, che ancor io vi porto in mostra una piccolissima pietra di quella celeste Gerusalemme, acciocché dalla di lei preziosità abbiate un sbozzo del Paradiso. L’Angelico San Tommaso me la pone in mano con assicurarci che un sol grado di Gloria, vale più che tutto il Creato e creabile: Bonum gratiæ etiam minima unius animæ particularis, majus est, quam omnia bona naturæ totius Úniversi. – Posta questa verità, figuratevi pure un gran signore che a niuno ceda nella sublimità de’ natali e tutti superi nelle aderenze d’illustri parentele. Dategli per abitazione nella città regina del mondo un palazzo sì sontuoso che superi di gran lunga quel regio de’ monarchi della Cina, ove, al riferire de’ storici, contavansi sessanta nove camere tutte alla stesa, una più bella dell’altra, e fra queste quattro, vedeansi tra le principali, essendo la prima coperta a lamine di rame artificiosamente storiato di finissimo argento, la seconda d’oro, la terza e la quarta ove il principe dimorava, rimiravasi tutta tempestata di perle e gemme preziose. Possieda questo signore per ornamento della sua reggia, mense intarsiate di diamanti, scrigni tempestati di rubini, ed abbia gioie in tal numero che possa, niente inferiore ad Ottone Augusto, dispensare a chi gl’aggrada un milione e due cento mila scudi, che egli donò alla capella di Giove Capitolino, e superiore al tanto rinomato Nipote di Lillio possa adornarsi con un milione e mezzo, che con tante appunto vi comparve in un ballo; abbia altresì per sua mera delizia entro il nobile suo giardino, quell’albero, che da Luitprando fu veduto, ed ammirato nel gran Salone di Costantinopoli: Era questo tutto di bronzo, e carico d’augelli d’oro, che dolcemente a forza d’arte cantavano; oppure quell’altro veduto con ammirazione da Marco Polo nella Reggia del Gran Khan, mercè che era d’oro massiccio, e gli pendevano per frutti, grosse perle: ne pare manchi ad un signore di tanta maestà il seguito di nobile e numerosa servitù; gli si concedano pure oltre al numero ben grande di cavalieri e principi che lo assistano nelle anticamere, quei seicento paggi, de’ quali Antioco si servì nel regio convito di Dafne. Erano questi tutti vestiti di broccato a gala, e tutti coronati di gemme e con gran vasi d’oro andavano per tutto spargendo preziosi unguenti. Or ditemi, uditori, il possesso di tanta ricchezza e di tesori sì immensi posseduti da un signore sì grande, possono forse paragonarsi ad un grado di Gloria, che si goda in Cielo? Appunto perché quante furono, sono, e saranno gioie, tesori nel mondo non bastano, sborsati a’ primi Medici delle Università più accreditati, per fare, che non vi travagli in vita un affanno di petto, un dolor di testa, un crucio di denti, dove che un sol grado di Gloria vi dà il possesso di tesori infinitamente maggiori, e di più, vi libera da quanti possano immaginarsi mali nel mondo. Padre! Deh sentite, che volete signora? O s’io potessi avere la minima parte di quelle gioie, mi parerebbe di godere non un grado di Gloria, ma un intero Paradiso; bene, io vi rispondo, e per questo, che ponete di qua il Paradiso negli ornamenti, nelle vanità, non l’avrete di là.
Passo avanti, e giacché il mondo come insaziabile non solo vuole le ricchezze, ma per essere ancor più beato, ama di dominare, voglio vedere se non potendosi un grado di Gloria eguagliare con tanti tesori, possa almeno paragonar con l’assoluto dominio di gran parte del mondo. Diasi adunque à questo signore non solo questa vostra Provincia ricca di terre sì illustri, e di città sì nobili, ma un regno, un impervio, anzi l’Europa tutta, che vale a dire: abbia il possesso di quanto con assoluto comando dominino un Pontefice Romano, due Imperatori, d’Occidente uno in Vienna di Germania, d’Oriente l’altro in Constantinopoli di Romania; di quanto possiedono sette regi, due granduchi, sei repubbliche, dodici Principi Ecclesiastici, e tanti duchi d’altezza, con i due serenissimi marchesi di Brandemburgo e Baden. Or bene, tutto questo gran Dominio può paragonarsi ad un grado di Gloria? Appunto, appunto, aggiungete pure ai Regni, e Imperi d’Europa, quanti ne vantano con l’Asia, l’Africa, e l’America, e poi afferite con tutta verità, che vale più un solo grado di Gloria, che non è tutto il possesso d’un mondo intero, perché un grado di Gloria vi dà infinitamente più, e vi costituisce monarchi di tal grandezza, che formando di tutte le umane grandezze una sola grandezza, è un nulla, a paragone di quella, in cui vi costituisce un grado di Gloria. O grado di Gloria, che gran bene porti a chi ti possiede e pure colui dentro di sé dice: potessi io avere non un mondo, ma un piccolo comando,
che volentieri rinuncerei a questo grado di Gloria, perché così potrei soddisfare alle mie vendette, e compiacere a’ miei sensi. Ah stolti, ah pazzi, che così sprezzate i gradi di Gloria? Se bene mi consolerei quando i peccatori per un piacere peccaminoso facessero gettito d’un bene che nulla più valesse di quel che valga questa terra; ah che maggiore è la perdita, mercè che un grado di Gloria non solo vale più di tutta la terra, ma di tutto il Cielo, di tutta la material città de’ Beati. Il Paradiso, come saprete, è quella Città posta in una bellissima pianura, la quale occupa dodici mila stadii, che vale a dire, mille e cinquecento miglia per lunghezza, ed altrettanto per larghezza. In questa Città solamente si ammira ogni bellezza, ogni preziosità, essa solamente può chiamarli Civitas perfecti decoris. L’oro, che tra noi fregia le stanze più nobili, ivi lastrica le strade più popolari; e le gemme che qua giù si portano sul capo, son colassù calpestate dal piede. Su avarizia portati con gl’occhi in Cielo, già che non puoi entrarvi con i piedi, sporgi il capo dentro ad uno di quei finestrini, per i quali Daniele di Babilonia vagheggiava un giorno Gerusalemme; mira un poco se le ricchezze che colassù si possiedono, sono da posporsi alla terra; pensa un po’ se meritano che tu le getti per quell’affetto disordinato che hai alla roba; per quell’interesse che ti stringe le mani, finché non soddisfi né mercedi, né pii legati. Uditori miei, tenete pur fissi gl’occhi nelle ricchezze celesti, e poi siate sicuri, che sprezzerete la terra. Accadrà per appunto à voi, come à colui che avendo prima studiata la Geografia, e formato sommo concetto della terra perché  l’aveva sentita dividere in tante provincie, regni, ed imperii, andato poi a prender lezione da un astrologo si sentì supporre la terra stessa per un punto che sta nel centro de’ Cieli; di che meravigliato, non si soddisfece, finché sentì per risposta l’uno, e l’altro non discostarsi dal vero poiché chi contempla la terra da se sola ha ragione di stimarla per grande, ma chi la paragona con i cieli, non può non disprezzarla per piccola, e pure e terra e cielo sono un nulla à paragone d’un grado di Gloria. O Dio e può trovarsi chi per un bene da nulla sprezzi quella Gloria che gli porta un sì gran bene? Passiamo avanti, e dopo aver consegnato a quel monarca e terra e cielo, tutto inferiore ad un grado di Gloria, giacché Nullius rei sine socio jucunda est possessio, gli si dia per compagno un esercito d’Angeli vestiti di luce, di vergini bianche come gigli di Martiri imporporati di palme, di confessori candidi al par delle nevi. Più gli sia dato, e finisca di coronare la sua gioconda conversazione la più bella, la più eccellente, la più santa di tutte le creature che siano mai uscite dalle mani di Dio, dico Maria, che sola sola potrebbe farvi gioire d’allegrezza, avendo Ella forza d’incatenare ogni cuore. Eppur, tutto ciò, chi’l crederebbe, è inferiore ad un grado di Gloria, giacché, come dice Agostino, un grado di Gloria: Est majus bonum quam Cælum, Terra et quidquid in illis includitur. Perché  tutte queste cose vi dà il grado di Gloria e di più vi concede eternamente goderle. Un grado di Gloria sì guadagnato con una limosina, con una corona, con un’opera pia fatta per Gesù, è un bene incomparabilmente maggiore, eppure si sprezzano questi beni di Paradiso, e vogliono i fuggitivi della terra, finché parmi sentire chi, bestemmiando, dica che Grazia di Gloria in Cielo? Il nostro Paradiso lo vogliamo in terra tra i comodi, tra le delizie, tra’ piaceri. Dio immortale! E  se è vero, come è verissimo, che il possesso de’ beni, il dominio del mondo, il godimento della Patria de’ Beati, con la conversazione de’ Santi e della Vergine stessa, tutto inferiore ad un grado di Gloria che si goda in Cielo, che farò io per darli paragone che vaglia? Orsù mi sia lecito di dire che per eguagliare, se non per superare questo grado di Gloria, cavi Iddio con la sua Onnipotenza dal nulla, e dia l’essere a nuovi mondi di gran lunga superiori. Voi ben sapete che Iddio scherzò allorché sbalzò dal nulla questa gran macchina del mondo, con porvi un globo di fuoco che con i suoi raggi di luce sgombrasse quelle tenebre, che erant fuper faciem terra; scherzò allorché diede commissione al sole di provvedere di luce; la luna, che con i suoi raggi d’argento scemasse qualche poco l’oscurità della notte; scherzò quando sparse per il cielo lucidissime stelle; furono scherzi la formazione d’una terra sì vasta, d’un mare si smisurato, perché allor si diportò come Ludens in Orbe terrarum. S’alleni, per così dire, l’Onnipotenza, e se allora adoperò un dito della sua destra, impieghi ora la mano ed il braccio, e faccia comparire non uno, ma mille mondi, faccia che in essi la terra non più produca né triboli di disgusti, né spine d’amarezze, ma solo germogli, rose di contentezze, faccia un mare, che sempre in calma, mai minacci tempeste, dal quale siano esiliati i naufragi e ad ogni scoglio possa dirsi: qui abbiamo il porto, stenda i cieli che con la loro serenità continua, mantengano il brio delle allegrezze, non si veda mai folgoreggiare per aria un lampo, niun tuono spaventi, niun fulmine precipiti, e quivi vi sia dato vivere sani e robusti per mille anni, al fine de quali, senza provare agitazione di morte, sia trasportato il vostro spirito con somma quiete sopra del cielo, e giunto ad una di quelle dodici porte di diamante, spalanchisi ad un tratto, e rimbombando sonore le trombe, giulivi vi escano incontro con angeliche squadre di Martiri, torme di sacri confessori, drappelli di caste vergini e vi ricevano, narrandovi con lingue di Paradiso le grandezze di quella abitazione veramente regia. Eppure, tutto ciò non può formare quella piccola pietra che v’ho portata qui in mostra d’un sol grado di Gloria. E come è possibile, sento chi mi dice che un grado di Gloria contenga in se un bene sì smisurato, che superi quanto finora s’è detto? Così è, eccovi la risposta: prendete un diamante e ponetelo a confronto con tutti i marmi più belli della terra, e voi vedrete in quel diamante una tale prerogativa che non troverete in tutti i marmi immaginabili, cioè a dire uno scintillar sì luminoso che vi sembrerà una piccola stella della terra, e questa luce sì nobile mai mai troverete in tutti i marmi del mondo. Or così va, miei uditori, chi godrà un grado di Gloria avrà, per mezzo di quello, o Dio, che non avrà? O grado di Gloria quanto sei stimabile! Eppure tanti ti sprezzano. O Pater Abram, Pater Abram; Ahimè, queste sono voci d’Inferno; E perché turbare i discorsi di Paradiso? Son voci d’Epulone, che pretendi da Abramo? Non altro che una stilla di Paradiso: Mitte Lazarum ut intingat extremum digiti in aquam, refrigeret linguam meam. Tu deliri, o Epulone, mentre per estinguere le ardenti fiamme, che ti abbruciano, nulla più domandi d’una stilla? Io so che il Mongibello quando con le ardenti sue fiamme entra nell’Onde, le divora, ed il Mar Tirreno agl’assalti del Vesuvio mette in fuga e tu sciocco, con una stilla d’acqua pretendi estinguere l’inferno? Taci, stolto che sei! Tacete voi, risponde a noi Sant’Agostino. Tacete, sì si, una sola goccia, un sol grado di quelle stillate dolcezze del Paradiso, delle quali parlò in spirito Gioele, allorché disse: In illa die stillabunt montes dulcedinem, una sola, dice, di quelle gocce, basta non solo a smorzare, ma a disfare tutto l’inferno, e mutarlo in Paradiso; ecco le parole del Santo Dottore: Tota dulcescerer damnatorum amaritudo. – Cada una sola stilla di quei torrenti di Paradiso nell’inferno ed eccolo un Paradiso, non più abitato da’ demoni, ma dagl’Angeli; non più tenebre, ma luce; non più catene, ma libertà; non più dolori, non più spasimi, ma sanità perfetta, godimenti inenarrabili. Tota dulcesceret damnatorum amaritudo. O quam magna, esclami pure ogn’uno col Profeta, multitudo dulcedinis tuæ Domine! Ma sento chi mi dice: noi più di proposito brameremmo questo gran bene, se n’avessimo più distinta notizia, se sapessimo più distintamente ciò che sia questo grado di Gloria! Che sarà mai dunque questo grado di Gloria, mentre non porterà seco solo vedere le pompe trionfali di quelle Gerarchie Celesti che faranno corteggio al Re Sovrano, né pure rimirare i Santi vestiti di Corpo glorioso, sì penetrante che potrà passare per mezzo d’ogni monte, come ora il sole passa per un cristallo sì agile, che potrà in un subito calare dal Paradiso in Terra, così impassibile, come impassibile è l’anima; così luminoso, che se un Beato mettesse fuori del Cielo una mano, basterebbe per illuminare tutto l’universo cento volte più che fa il sole: Fulgebunt justi sicut sol in Regno Patris eorum, mentre non sarà rimirare Maria sempre Vergine, il di cui sembiante ci terrà incatenati i cuori; Maria, Maria nostra Avvocata, nostra Signora, nostra Protettrice, le di cui bellezze sono il miracolo de’ miracoli, finché come scrive Sant’Ignazio Martire in una delle sue lettere, mentre Maria era ancora in terra, concorrevano a truppe i popoli per vederla. Che sarà dunque questo grado di gloria, che sarà? Sarà vedere un abisso di splendori in un teatro di maestà, in un centro di gloria Iddio, videbitis eum sicuti est. E che vuol dire, uditori miei, vedere Iddio? Chi mi avvalora il pensiero, chi mi purga la lingua, sicché io possa in parte spiegarvi quel che vedrete vedendo Dio? Vedrete quello che è la Beatitudine universale di tutte le creature; vedendo Lui non pensate già di vedere niuno di questi oggetti creati; Egli increato, questi materiali; Egli purissimo spirito, questi difettosi; Egli perfettissimo, e pure tutto ciò, che vedrete fuori di Lui, immaginatevi che voi tosto vedrete; vedendo Lui, vedrete Dio. Oh chi potesse ridire che sarà del vostro cuore a quel primo sguardo? Oh che deliqui d’amore voi sentirete! Che vampe di carità, che rapimenti, e che estasi! Che dolcezze! Allora sì, che adorerete tanta Maestà, e quasi reputandovi indegni di sì gran bene, vorrete sospirare, vorrete piangere per un certo solito sfogo di tenerezza, ma non vi farà permesso, no: Non audietur ultra vox fletus, et vox clamoris, crediatelo ad Isaia. Che direte allor, che vi vedrete Beati, che vale a dire al possesso di tutti i beni per goderli non solo perfettamente, ma eternamente? Allora tutta giubilo nel suo cuore, dirà quella verginella: beata quell’ora, beato quel punto in cui voltai le spalle a quell’amante, ricusai i suoi regali, ributtai le sue imbasciate; beata me, che ho conservato intatto il giglio della mia verginità. Allora, sopraffatta dal giubilo, esclamerà quella maritata: o quanto feci bene a sopportare le tirannie del mio consorte, mi strappazzò con parole, mi percosse più volte, non fui moglie, fui serva, fui schiava, ma la mia pazienza? Ecco dove m’ha portata: al possesso di tutti i beni per goderli perfettamente, eternamente. Son finite le grida, son finiti i dolori, ecco il giubilo, ecco il contento! Allora, pieni d’allegrezza esclameranno quegl’uomini, quelle donne: felici noi per quel punto in cui demmo la pace all’inimico; felici noi perché non imbrattammo le nostre mani con roba altrui; felici noi perché portammo rispetto alle Chiese; felice l’ora in cui abbandonai quel compagno sì dissoluto; felice quel punto in cui abbandonato il mondo, mi ritirai nel chiostro. Ah, che se per me venisse mai un’ora così beata, che mi vedessi ammesso nel possesso di tanta gloria, ancor io, in qual sentimenti, in quali atti, in quali parole proromperei? Se mi sarà permesso accostarmi a quel Soglio Divino: Et veniam ad Solium ejus. Io voglio dire al mio Dio; che vorrei dire, se sopraffatto dall’amore, mi converrebbe attonito tacere. Taccio, ma mentre io fò silenzio; tu peccatore, tu peccatrice alza gl’occhi, e poi dirottamente piangendo esclama con dolorosa voce: Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me! Son belli quei Palazzi alla Reale, ma non sono per me; li demeritai allor che profanai le mie sale con veglie e balli; le mie Stanze con giuochi; le mie camere più segrete con replicate disonestà. Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me. Son belli quei diamanti, quelle perle, quelle gioie che t’adornano, ma non per me; le demeritai allor che feci gettito della più bella gioia che si prezzi in Cielo: la santa virginità; Paradiso sei bello, ma non sei per me. È nobile la conversazione di quei tanti Angeli, di quei tanti Cherubini, e quei tanti Serafini, che ardono di santo Amore verso del loro Iddio, ma non è per me, che sempre avvampai di amor profano in odio al mondo, in odio a Dio. Paradiso sei bello, ma non sei per me: Non è per me lacompagnia di quei Santi confessori perché chiamato al par di loro alle solitudini del Chiostro, vi stetti con gl’affetti nel secolo, innalzato alla dignità di Sacerdote mi portai al Sacro Altare con rozza mente, con laido cuore, maneggiai Cristo al par del fango. Paradiso sei ben bello, ma non sei per me; non è per me la compagnia di quei Santi penitenti nel mondo, mentre io vi son vissuto tra crapule e lussi; non è per me poter fissare gl’occhi in quei drappelli di caste vergini, molto meno nell’amabile volto di Maria, mentre io con occhio anche sacrilego tramai insidie alla castità più custodita. Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me perché, troppo interessato, non mi curai delle tue ricchezze per aver la roba altrui; non sei per me, perché troppo avido d’onori, ricusai le tue eterne dignità. Paradiso non sei per me, perché troppo vana stimai più la mia caduca bellezza che la tua; non sei per me: troppo fui irriverente nelle Chiese, troppo dedito alle vendette, troppo disubbidiente a’ miei maggiori, disprezzatore de’ Sacerdoti, e sempre diedi mal esempio alla mia famiglia; da me impararono i figli le bestemmie, le mormorazioni, le disonestà; da me impararono le figlie ad amoreggiare dalle finestre, nelle porte, per le strade; io li precedevo nella, io l’istigavo agl’ornamenti, io li posi sull’orlo de’ precipizi, io gli feci perdere con l’onore anche l’anima, e però Paradiso sei bello, ma non sei per me. Misero peccatore, misera peccatrice, e non ti crepa il cuore alla rimembranza di dover dire, se non muti vita … Paradiso sei bello, ma non sei per me: muta vita, lascia l’iniquità rinuncia al demonio, osserva i Comadamenti per poter alla tua morte proferire queste parole di giubilo Paradiso, Paradiso sei bello, e sei per me; sei bello, e sei per me.

LIMOSINA

Iddio per Isaia pone in vendita il Paradiso: Properate emite. Bisogna miei uditori, comprare il Cielo, non vi sgomenti la preziosità sua, poiché ciascuno di noi ha tanto di capitale che basta per una tal compra, non vi vuole più, dice San Pier Crisologo, che un pezzo di pane, un poco di limosina distribuita a’ poveri si può spender meno? Deus Regnum suum fragmento panis vendit et quis excusare poterit non ementem, quem tanta vilitas venditionis accusat? E pure si trova chi ne pure a prezzo sì vile vuole comprare il Paradiso. Ah Dio! Vende, Iddio a poco prezzo i piaceri del Cielo, non vi è chi li voglia; vende il demonio i piaceri del mondo a gran prezzo, ed ognuno compera, si spende ne’ giuochi, ne’ conviti, nelle feste, nelle pompe, nelle vanità, sarebbe poco, nelle vendette, nelle disonestà, e per il Paradiso non solo non vi è oro, né argento, ma neppur rame per sovvenir la povertà d’un mendico.

SECONDA PARTE.

Il Cielo, uditori, al dire dell’Evangelista, s’acquista per via di negozio, di traffico: Simile est Regnum Cælorum homini negotiatori: Se ciò è vero, come è verissimo, voi ben sapete, che è legge di buon negoziante trasportare in Paese straniero quelle merci, che colà non sono, e di là portare quelle che nel proprio o non nascono o non si lavorano. Bisogna dunque se vogliamo guadagnare il Cielo per via di traffico, come ci addita il Redentore, che noi colassù mandiamo quelle merci che v’hanno spaccio, e che ivi non si trovano. Desistete, o ricchi, d’accumular più quell’oro, che racchiudete in cassa, e sol lucrate in vani ornamenti, in superflue vanità. Avari, non occorre con nuove usure, con traffici illeciti accrescere le vostre ricchezze, non manca oro in Cielo, già v’ho detto, che tutte le Grade Piazze son fabbricate Ex auro purissimo. Donne, quelle pietre preziose, quei diamanti, quelle perle che con tanta vanità v’adornano, non vi comprano il Cielo, perché colassù fino le porte, le mura, le torri sono gemme: Porte nitent margaritis, omnes muri tui, et turres Jerusalem gemmis edificabuntur. Ambiziosi, non tramate più la rovina del prossimo per salire a quella dignità, a quel posto, non mancano titolati e grandi nel Cielo, mentre tutti i Beati sono un popolo di regi: Percipite Regnum vobis paratum a Patre meo. Uditori, ori, gemme, onori non hanno spaccio in Paradiso perché di queste merci il Paradiso n’abbonda. Dunque se volete guadagnarlo col traffico, portate colassù le merci che non vi sono: In Cielo non v’è pianto, non v’è dolore; in Cielo non v’è tempo, essendovi l’eternità … Non erit ibi luctus, neque dolor erit ultra: Dunque per ottenere il Cielo vi vogliono lacrime di cuor contrito, dolori di patimenti, di tribolazioni tollerate con pazienza. Queste sono le merci che hanno spaccio nel Cielo, e queste ci otterranno il Paradiso. Eccovi il modo d’ottenere il Cielo, guadagnarselo con portare di là la mercanzia che non v’è, che vale a dire patimenti; e se così farete, Isaia vi assicura, che qui vicerit possidebit hæc: tutto questo sì gran bene del Paradiso è per voi, di grazia non vi lasciate accecare da i diletti peccaminosi di qua, che presto v’invola la morte, ma solo attendete agl’eterni dell’altra vita. Volete, che io v’insegni un altro modo per guadagnare il Paradiso? Fissate spesso gl’occhi colassù, perché così vivrete bene, ed il Paradiso sarà vostro. Tito e Domiziano, ambedue figli del vecchio Imperatore Vespasiano, furono fra di loro sì differenti, e riuscirono di natura e di costumi sì varii, che Tito fratello maggiore al dir di Svetonio fu chiamato: Delitiæ Generis humani, e Domiziano: Flagitium Generis humani. Per rendersi buono e di costumi sì retti Tito, v’ebbe gran parte la prudenza del suo Aio, che per molto tempo gli assisté. Fattosi notte conduceva costui il giovinetto Tito in una loggia; indi dicevagli: Volgete gl’occhi alle stelle; vedete quella figura formata di vent’otto Stelle, si chiama Ercole , ed ha ottenuta quella stanza colassù in cielo, perché nel mondo atterrò molti mostri; ve l’otterrete ancor voi, se riporterete vittoria di quei vizi che infettano il mondo. Udite: quell’altra costellazione formata di ventisei sfavillanti lumiere, si chiama Perseo, e fu quel giovane sì generoso, che fece guerra alle Gorgoni, e con un colpo di lancia sviscerò l’Orca Marina, liberandone Andromeda, sicché non fosse divorata; or così appunto sfavillerete ancor voi se col braccio della vostra autorità difenderete l’onore delle matrone, e la pudicizia delle donzelle. Date ancora un’occhiata a quelle due figurine composte ambedue di nove stelle; sono Castore e Polluce, e voi ancora v’avrete questo splendore se qui nel mondo fomenterete la pace, e v’amerete con i sudditi: volete altro anche con volgere gl’occhi a queste menzogne; si rese Tito principe sì buono, vi delitiæ generis humani vocaretur. Deh date un’occhiata a quei Giusti del Paradiso, … Qui fulgent quasi stelle in perpetuas æternitates, e chi vi tiene, chi v’impedisce? Vedete colà quella matrona coronata di tanta gloria, ella è Francesca Romana. Chi v’impedisce o vedove un simil posto? Vedete colassù quella Cunegonda, chi v’impedisce o maritate un simil possesso? Chi o donzelle? mirate le Lucíe! Chi o contadini? mirate un’Isidoro! Suspice Cælum, dice Agostino, et accipies Cælum. – Mi giova credere, che alla mia predica siano molti e molte che abbiano da vedere fra poco la Gloria che io non ho saputo descrivere. S’io sapessi chi sono, oh con che ossequio li rimirerei; qual santa invidia m’occuperebbe il cuore, vorrei fino baciar la terra che calpestano. Ma ahi, che sento mutarmi l’allegrezza in pena; così non fosse: vi saranno anche molti e molte che non la vedranno mai … s’io sapessi quali sono! Vorrei scendere da questo pulpito e, afferratili per un braccio, dir loro: Ah infelice, vuoi dunque perdere il Paradiso, abitazione sì bella, la compagnia de’ Santi, di Maria, di Dio, per non lasciare quella maledetta amicizia, per non restituire quella roba, per non perdonare a quell’inimico? Leggo pure in Erodoto di quell’Egistrato Eleo che, tenuto legato da una catena ad un piede da’ demoni, per poter correre alla bramata libertà, recise quel piede che gliela impediva; e tu non avrai animo, non per una libertà, che finisce, ma per l’eternità, di troncare quei legami lascivi? non l’avrai? Andate dunque a casa, e questa sera sull’imbrunir di notte, dite, mirando il Cielo: Sei pur bello Paradiso, ma forse non sarai per me.

QUARESIMALE (XI)