QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
E basti questo breve saggio d’un giornalaccio, con quel poco panegirico che vi ho recitato dei cosiffatti, per farvi persuasi, miei cari giovani, che se vi sta a cuore il bell’ingegno e la bellissima anima che Dio dato, non dovete bere, e spero non berrete mai a fonti sì avvelenate e fangose. — Sta bene; leggeremo libri, non giornali — parmi sentirvi a dire. Buona risoluzione! Ma anche qui, cari giovani, se mi andate colla testa nel sacco, potreste capitar male. Sentite. Io era fanciullo fra i tredici ed i quattordici anni. Già entrato in quella che allora chiamavasi prima Rettorica,e ghiottissimo di leggere, sentii corrermi l’acquolina in bocca a dir cose mirabili, che diceva un mio
compagno, delle poesie di Leopardi. Prima però di procacciarmele volli pigliar mie precauzioni. Un libro nuovo in casa, a dir vero, non mi sarei attentato di portarcelo; ché stavami ancor fitta nella mente una scena, vista da bambino, del babbo, che, trovato un giorno per casa non so che romanzo, n’andò sulle furie, stracciò il libro e ne gittò le pagine al fuoco, dicendo: — I libri che entrano in casa mia gli ho da veder io, gli ho da vedere. Guai a chi ne porta il secondo! — E quel quai fece gelare il sangue nelle vene, non che a’ miei fratelli maggiori, persino a me che non ne capivo nulla; e così fin da quell’età incominciai a quardar certi libri con sospetto. Ora poi, trattandosi di questo che mi veniva tanto lodato, prima di comperarlo o farmelo imprestare, pensai ben fatto
andarne a trovare il mio buon maestro, e: — dica, signor maestro, le poesie del Leopardi son elle proibite? — Proibite (mi rispose) le poesie veramente no, ma…. ma posso leggerle? Certo sì, potresti: ma… ma… ci ho questo benedetto ma, che per amor tuo mi inquieta un tantino. — E guardavami fisso negli occhi. — Oh via! la me lo dica dunque questo ma: la non dubiti; son disposto ad acconciarmi al suo consiglio. — Com’è così, senti, Cecchino mio; a dirtela, quelle poesie son cose belle, nol nego: ma
ora… ti guasterebbero l’umore. Vedi, gli è come se su un bel ciel sereno si stendesse una nuvola scura scura … Stattene colla tua pace, colla tua giocondità giovanile; più tardi leggerai quelle e dell’altre ancora. Ora hai Tasso, hai Monti, hai Dante; Dante, il gran babbo di tutti i poeti, questo sì che ti farà il buon pro! E poi non dimenticare i prosatori, specie del trecento, il Cavalca, il Passavanti, fra Bartolomeo… questi, questi gli scrittori su’ quali devi formarti!… Tenni il consiglio del buon maestro; e più tardi, quando lessi le poesie di quello sventurato poeta, capii quel ma, e ne mandai al mio maestro mille benedizioni. – Queste cose di me vi racconto, o cari giovani, perché vorrei ispirarvi una gran diffidenza anche dei libri, specie se romanzi, specie se forestieri; e che non vi lasciate tirare alla curiosità, adescare all’eleganza dell’edizione, alle gaie vignette, al buon prezzo… Ahi povera Eva, povera Eva! Perché vagheggiar tanto quel pomo bianco e rosato, ed aspirarne con avidità le soavi esalazioni, e lasciarsi adescare alle melate parole del serpente?… Pareva così ragionevole al parlare! Pareva così dolce a vedere quel frutto! Eppure e’ c’era dentro veleno di morte. – Così siam fatti un poco anche noi, figli pur troppo di madre temeraria e leggera. Si fissa curioso, avido lo sguardo su tutto che è proibito; tant’è, l’ha detto il poeta: nitimur in vetitum; e dietro il guardo vola il cuore; dietro il cuore la mano….Deh! non fermarti a guardare il vino (avverte lo Spirito Santo) quando rosseggia spumando nel bicchiere…Or simili a questo vin traditore, simili al pomo avvelenato di Eva, sono appunto, giovani cari, certe stampe e certi libri messi lì in bella mostra sotto i tersi cristalli delle ricche vetrine a far pompa di sé, a trarre com’esca gli uccelli, l’incauta gioventù. Voi non fidatevi, non fidatevi di ciò che non conoscete; e prima di stender la mano a un libro sospetto, fate capo a un buon consigliere. Il miglior consigliere sarebbe il babbo, se avesse la prudenza e la vigilanza del mio. Ma quanti ci abbadano ai libri? Eppure, se è tempo d’aprire gli occhi, gli è questo nostro per l’appunto. – A quei tempi d’insopportabile schiavitù, come tutti sanno, di cattivi libri o non ce n’era o non se ne vedeva punto. I librai arrossivano a venderli, i tipografi non osavano stamparli, perché…. perché…. lo sapete il perché? È c’era il castigamatti,vo’ dire, il governo che lo scandaloso traffico non permetteva, e a’ librai che cogliesse in flagrante, non solo sequestrava la merce, ma azzeccava, se d’uopo, una buona multa per giunta. In que’ tempi là ragionavasi alla buona così: — Inuna ben regolata società la vendita de’ veleni va proibita. Or veleni cen’ha di due sorta, altri che al corpo, altri che all’anima dan morte; dunque se ha a vietarsi lo spaccio dei primi (che nessuno ne dubita) e molto più de’ secondi. — Ora poi che è venuto il progresso, la sì discorre diversamente: — Chi avvelena i corpi, la forca; chi l’anime, s’accomodi pure. — Con che guadagno del buon senso e della logica, un orbo il vede. Sicché vedete, cari giovani, se vi conviene star desti! Oh sapeste male che può farvi, e all’anima e al corpo, un pessimo libro! Si, cari giovani, anche al corpo, alla sanità, alla vita; e ne ho veduti io degli esempi da far fremere i sassi. Ricordate quellodi: Bertino; aveva cominciato da un libro!..; E se uno non basta, togliete questi altri: sono due giovani stati miei scolari, de’ quali potrei farvi nome, cognome, e parentela; ma bisogna me n’astenga. per compassione di loro famiglie. L’uno …. suo padre andava pazzo per la pesca e per la caccia, e curavasi dei figliuoli come voi del terzo piè che non avete; la madre, una vanarella tutta vezzi e moine e smancerie; i figli (specie quel di cui parlo, ch’era il primo e perciò il più guastato) piena libertà e denaro a’ lor comandi. Costui dunque, che aveva la passione del leggere, comperò e lesse d’ogni sorta libri, romanzacci il più, s’intende: pure con tanto leggere che faceva mantenne sempre in classe il suo posto, ch’era quello del ciuco. Io lo vedevo che non aveva nessun amore allo studio, alla scuola, a’ compagni, e veniva su lungo, pallido; allampanato, con du’ occhi tondi, stupidi, cerchiati di paonazzo; e sospettato quel che era, l’ebbi a me, l’interrogai; l’ammonii, lo carezzai, lo supplicai persino… Chiuse il cuore e non volle ascoltarmi; infelice!….. Più tardi, datosi al militare, fatto fiasco all’esame di ufficiale, veduto promosso un fratello minore, che aveva letto meno di lui, sapete che fece?….. Un colpo di pistola nelle tempia e buona notte! L’altro, pur rovinato cogli stessi veleni, a quattordici anni portava l’occhialino e fumava il sigaro, a quindici bestemmiava come un turco, passava le nottate al gioco, e vi perdeva fin la giubba, a diciotto, non ostante la sua asinaggine, riusciva a forza di protezioni, ad arraffare un impieguzzo dal governo, a ventitrè languiva tisico spacciato in un letto, bistrattava quanti gli venivano d’attorno, e non voleva saperne di morire. – Pregato dall’infelice sua madre a visitarlo e rammollirlo alquanto, vi andai, ma col cuore serrato, che non mi diceva nulla di bene. La buona mamma, m’accolse a mani giunte come fossi stato un Angelo, e: l’abbia la bontà di aspettare un tantino; vado a disporlo, ad avvertirlo ché è lei. — Aspettai più d’un quarto d’ora; quand’ecco la madre, tra sgomentata e piangente, e farmi le scuse. Non c’era stato verso che l’infelice giovane s’inducesse a ricever la mia visita. Due mesi dopo, o in quel torno, moriva. Un buon frate, chiamato nel serra serra dell’ultime agonie; l’acconciò dell’anima..- Dio sa come! Ah giovani; giovani! Perché non voler credere? Non voler ascoltare chi v’ama? Perché tanta paura, tanto rispetto d’un mondo, che tenta strapparvi al prete? Ah il prete! L’hanno ben schernito, in nome della santa libertà, questo povero prete! Ma badate, o giovani: il mondo, che, gettatoci addosso tanto del suo fango vi grida: alla larga dal prete! vedete: com’ egli, è sozzo! — questo mondo, dico, mira nulla. meno che a strapparvi dal cuore i due tesori più preziosi: fede e buon costume, che è quanto dire, chiudervi il cielo sul capo, e aprirvi sotto i piedi l’abisso. E il prete?…. Il prete freme, piange e prega, e darebbe tutto il suo sangue per la pace e per la serenità delle belle e care anime vostre.
Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)
IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA OTTAVA Nella Feria quinta della Domenica prima.
Del Santissimo Sacramento,
in cui si riconoscono le finezze dell’ Amore Divino, e si mostra l’ingratitudine di chi non corrisponde. Non est bonum sumere panem filiorum, et mittere canibus. San Matteo cap. XV.
Si dichiara Iddio questa mattina per San Matteo di non voler dare il Pane di Vita a’ cani, che vale a dire a’ peccatori mentre Egli lo ha destinato ai suoi soli figlioli; ed a ragione, poiché d’un opera sì fina del suo amore, qual è l’Eucaristia, non è dovere che ne partecipino gli indegni; sì, perché in questo cibo di vita, ha Iddio compendiate le meraviglie delle sue opere ammirabili: memoriam fecit mirabilium suorum, come ci assicura il reale Profeta, soggiungendo subito: escam dedis timentibus se; sì, perché questi Cibo eucaristico è quasi dissi, la superbia del divino Amore. – Apelle in quelle pitture, nelle quali vedeva consumata l’arte del suo pennello, temuto poco men che dissi dalla natura, era solito dipingere la sua immagine, volendo accoppiar con essa l’autore. Iddio altresì nella adorata Eucaristia nella quale vide, dirò così, consumata l’arte del suo amore non in pittura, ma realmente ci volle racchiudere se stesso, acciò, che uno fosse il Dono, ed il Donatore. Contentatevi dunque, che io ammirando la finezza di Chi dona un sì gran dono, detesti l’ingratitudine non solo di chi non si dispone a ben riceverlo, ma molto più di chi indegnamente lo riceve. L’amore è un atto della volontà e perciò invisibile, onde è che la sua maggior o minor grandezza non può conoscersi salvo che dall’opere. Probatio dilectionis exibitio est operis. Tra le opere con cui l’amore si manifesta, sono i Donativi, i quali quanto sono maggiori, tanto più palesano la grandezza dell’amore. È pur trito nel mondo il proverbio, che chi ama dona e più ama chi più dona. Se così è, e qual mai sarà l’amore che Iddio ci porta mentre nel Sacramento ci donò il maggior tesoro che possa donar Lui, che possa donare a noi audeo dicere, son parole d’Agostino: quod Deus cum sit omni potenti plus dare non potuit, cum sit sapientissimus plus dare nescivit, cum sit ditissimus plus dare non habuit. Egli ci dà il Santissimo Corpo, il Preziosissimo Sangue, l’Anima, la Divinità dell’Unigenito suo Figliuolo; questo sì che è altro che donare gemme, tesori, regni, imperi, giacché donando se stesso nel suo Divin Figliuolo, ha donato tutto: Quomodo cum illo non omnia nobis donavit. Rallegratevi dunque miei UU. mentre vilissime creature, ricevete dal vostro Iddio dono tale, di cui maggior non averia potuto dare ad un altro, Dio se possibile fosse con tutta la sua Onnipotenza; alzate pure voci di giubilo con San Bernardo, e dite: o charitas super excellens, omnia quæ potuit fecit, omnia que babuit dedit, dedit semetipsum. O carità sopraffina fece quello che poté, diede quello che aveva, diede tutto sé stesso; o amore, amore per noi. Angeli Santi, piantate qui pure due colonne, cavate da due preziosi zaffiri del Paradiso, ed à caratteri indelebili, incideteci il famoso motto, non plus ultra, dissi male, fermatevi; tanto potreste fare se più oltre non fosse passato l’Amor Divino. È passato più oltre, perché poteva dare tutto se stesso, ma darsi solo, (giacché Egli è in realtà Cibus grandium) a’ principi, a’ regi, agl’imperatori, ai Pontefici; ma no; l’Amor Divino non comportava che un dono sì prezioso si restringesse alle sole persone qualificate, ha voluto con straordinaria liberalità comunicarlo a tutti, sicché per San Luca ci fa intendere, Exi cito in vicos, et plateas , debiles, pauperes, et cæcos, et claudos introduc huc; voglio che il mio Corpo si dia a tutti ed a ciascheduno, sia chi si voglia. – Povero di facoltà, o vile di nascita, o infelice di condizione, o misero di talenti, sia chi si sia, tutti godano di questo Cibo prezioso. Ego veni in mundum ut vitam babeant, abundantius habeant. Un grande amore è questo, volersi comunicare a tutti; grazie a Voi, adorato Signore. E voi Serafini del Cielo infocati del suo amore, ajutateci a ringraziarlo, ed esponeteli, che siamo pronti portarci nelle Provincie più remote per godere d’un tanto Bene, d’un sì gran tesoro; appunto, l’Amor Divino non lo comporta, e per ciò non vuole, che à tale effetto si assegni una basilica delle più famose del mondo ma ci fa verificare ciò che già ci fece intendere per Malachia, che, in omni loco sacrificatur, is offertur nomini meo oblatio munda; voglio che in ogni luogo si dispensi il mio Corpo; non m’importa, che sia povera villa, barbaro paese, fetido spedale, Chiesa senza ornamenti, altare senza suppellettili, Tabernacolo senza oro, pisside senza gemme, In omni loco; in somma si dispensi questo Cibo di vita, perché, Ego veni in mundum ut vitam habeant, et abundantius babeant. Ma qua ci sono eccessi di un amore indicibile, mentre un sì gran tesoro, non solo si dispensa a tutti, ma in ogni luogo; deh Santi; le di cui ossa venerate, giacciono sepolte in questo Tempio, e l’anima regna in Cielo, correte al Soglio Divino, ed ivi prostrati, ringraziate per noi l’Altissimo, e assicuratelo, che per cibarci di questo Pane di vita, che si dispensa a tutti, ed in ogni luogo; Noi per cibarcene una sol volta, spenderemo facoltà, sangue, vita. Che dite UU.? e non sentite la risposta, che vi danno i Santi! L’Amor Divino non comporta, che si stabilisca prezzo, con cui si compri questa vivanda di Paradiso; e però, Venite, emite absque argento, absque ulla commutatione vinum, lac. Basta a me, dice Dio, che chi vuol cibarsi di questo Pane di vita s’accosti all’altare privo di colpa, e mondo di cuore, né da lui richiede i digiuni d’Elia, le piaghe di Giobbe, e la prigione di Geremia. Ego veni in mundum. Angeli, che c’assistete custodi, deh portatevi sollecitamente al Trono di Dio, e ditegli, che sopraffatti da grazie non sappiamo più che bramare; ma sento che essi mi rispondono: se voi non sapete che bramare, sa Iddio darvi nuovi pegni del suo amore, poiché non bastandogli aver dato il suo Figliuolo a tutti in ogni luogo, e senza prezzo, lo vuol dare ancora ogni volta che si vuol ricevere, mentre sarebbe stato un eccesso di finissimo amore dar se stesso a ciascheduno di noi, una sol volta in vita, o amore, amore! Mille e mille sono le mani che lo preparano, senza numero le Chiese nelle quali si consacra, innumerabili i ministri, che lo dispensano. Uomini, donne, figli, fanciulle, su aiutatevi l’un con l’altro a ringraziare il Signore Iddio, che tanto vi favorisce, invocate quanti sono vostri protettori in Cielo, che ad un Dio tanto amante di voi portino i vostri ringraziamenti. O amore, amore! darsi a tutti in ogni luogo senza prezzo, ogni volta che si vuole, un Cibo sì prezioso, che solo basta a giustificare un’anima. – Son finiti gli eccessi del Divino Amore? Appunto, v’ingannate, poiché è passato anche più oltre; si, più oltre, mentre potendo darcisi sotto le specie di qualche cibo rarissimo e preziosissimo, finché non si rendesse facile l’averlo, ha voluto darcisi sotto le angustie di poco Pane, e tutto questo l’ha fatto con tanto amore, che ha potuto dire: Delitiæ meæ esse cum filiis hominum. Se Iddio dall’altezza del suo trono si fosse abbassato a far dire una parola in benefizio dell’uomo, sarebbe stato un gran favore, segno d’uno stupendo amore molto più se ci avesse impiegata la lingua, più assai, se per soccorrerlo avesse stesa l’Onnipotente sua mano, e pure è passato più oltre, mentre non una parola, non un soccorso, ma tutto se stesso ha dato a pro degli uomini. Ah miei affetti, e perché tutti non ardete per un tanto amore, e perché tutti non vi abbruciate alla rimembranza d’un tanto tesoro, e perché non ve ne prevalente, accostandovi spesso a questa mensa divina per ritrarne quei tanti beni, che sempre reca chi bene si comunica. Eppure, un dono sì grande, come poco si prezza. Ditemi: se un’Ostia sola consacrata si ritrovasse tra tutta l’ampiezza di questo mondo, ecco, che tutti i nobili, e plebei, dame e cavalieri, principi e Regi la porterebbero per vie scabrose in devoto Pellegrinaggio a vederla, ed appena giunti, con gli occhi pieni di lagrime, col cuore acceso di devozione, accennando all’Ostia Divina, direbbero, là sta il Figlio di Dio? Oh invenzione d’amore, che ha saputo andare in Cielo col Padre, e nello stesso tempo restare in terra con noi. Non vi è amico che possa amare che fino alla morte, ma esso rimanendo con noi ha trovato modo d’amarci anche doppo morte. Ah, direbbero quei fortunati pellegrini, almeno potessimo toccarlo un tantino con la corona. Ah, che se fosse possibile averne un’invisibile pezzetto, vi spenderemmo di buona voglia tutti i nostri patrimoni. Ne vi sarebbe alcuno che avesse ardire di pensare a porsi neppure una volta sola cibare di quel Pane celeste. Ah carità sviscerata di Dio, ah ingratitudine troppo alta degli uomini, mentre avendo in questa vostra Patria non un pezzetto in un Reliquiario, ma tante Ostie consacrate, e potete cibarvene senza spesa, e senza pellegrinaggio, e pure come le stimate? O Dio, converrà pure, che io dica poco, anzi per molti, nulla! Alle Chiese, alle Chiese; s’io rifletto à quelle femmine, io vedo che la loro remota preparazione a comunicarsi, è trattenersi la sera antecedente a giocare, a ridere, a mormorare, senza neppur pensare a recitare il Santissimo Rosario, o l’Offizio di nostra Signora; se poi le vedo entrare in Chiesa, le rimiro tutte attente a pavoneggiar se stesse, scollate e sbracciate, ed a far pompa di sé, quasi Idoli per essere adorate. Gli uomini poi vi si preparano con occupar la mente in ciance di novelle, in interessi; sapete come vi si preparano non pochi Sacerdoti mentre che si vestono degli abiti sacri. Par che vestino abiti da scena: ridono, burlano, senza o non dire, non considerare le misteriose parole prescritte nel porsi quegl’abiti sacri indosso. Prendono dopo il Sacro Calice in mano, e con occhio libero guardano, mirano, non solo all’andare, ma ancora nello stare all’Altare, ove da molti si mangiano le parole e si maneggia Cristo peggio che non si farebbe un vil fante della terra. Che meraviglia dunque se questi tali, che così impreparati si portano a questa Mensa divina, non ricevano i meravigliosi effetti di questo Divino Sacramento. Tutta la colpa è loro, ed il male non vien dal cibo ma dallo stomaco, né solo si portano a questa mensa impreparati, ma doppo comunicati, li vedete subito immersi negl’interessi, nelle ricreazioni, intervengono ai giuochi, ai balli, ed invece d’impiegare quella giornata in opere pie, l’impiegano in mille inezie. Chi si vuole ben comunicare, bisogna che prima d’ogni cosa avvivi la fede, e concepisca la Presenza Reale del suo Dio in quell’Ostia Sacrosanta. Ah, che se avessimo vera Fede ci prepareremmo la sera antecedente con digiuni, con penitenze, con Rosari, e la mattina ci porteremmo alla Comunione con tutta riverenza e devozione, non si farebbero tante ceremonie in Chiesa, che ormai par quasi ridotta a sala di festino, tanti sono i discorsi, le riverenze, gl’inchini, i profondi saluti, che tali, piacesse a Dio , si facessero a questo Sacramento. Se bene, a che perder tempo contro chi poco si prepara a questa Mensa divina e nulla ringrazia, benché si sia nutrito con un tanto Cibo, mentre vi sono di quei peccatori i quali, doppo esser vissuti nelle laidezze di mille peccati, in quella istessa mattina che si confessano, dirò così, Dio sa con qual proposito e con la bocca ancor fumante d’alito velenoso, corrono subito ad inghiottire il Signore. San Giovanni Crisostomo non sapeva già capire come alcuni Cristiani reputassero tempo sufficiente i quaranta giorni della Quaresima a purificarsi da peccati di tutto l’anno, e prepararsi in tal forma a ricevere nella Pasqua Cristo Sacramentato, quadraginta diebus sanitatem animæ assignas, et Deum babere propitium expectas ludis ne quæso? Or che direbbe questo sì gran Dottore, se si ritrovasse a’ dì nostri, e vedesse tanti e tanti, che non solo non permettono quaranta giorni di penitenza a ricevere Cristo, ma con un breve passo dal Confessionario, dove hanno detto roba laida e scomunicata, vanno alla Mensa, per andar, dirò io, con un altro passo più breve , dall’Altare al postribolo. Che direbbe Sant’Agostino, il quale a chi si vuole accostare alla Santa Comunione prescrive digiuni, limosine ed orazioni, se vedesse che da molti si spendono i giorni avanti la Comunione in crapule, in bagordi, in veglie, in teatri, in parole disoneste, in canzoni amorose. Che meraviglia, dunque, che non si cavi frutto! Quel contadino, il quale getta il seme sopra la terra non ancor ben rammollita dalle piogge, raccoglie poco, ancorché il seme sia ottimo. – Così quantunque l’Eucaristia sia semenza che partorisca ogni bene, tuttavia gettata in certi cuori, che puzzano ancor di vendette, d’odii e di lascivie e di bestemmie, non può essere che renda frutto. Ah Dio, Sacerdoti, che dispensate il Sangue di Cristo nel Sacramento della Penitenza se permettete saviamente, all’anime che sogliono star lontane dal peccato, la Comunione immediatamente doppo la Confessione, non la permettete a chi visse lungamente nimico di Dio; ma ordinate loro che prima d’accostarsi al Pane di vita attendano a coltivare la grazia ricevuta nella Confessione, perché se sarete facili a concedergliela, gli faciliterete il ritorno a’ peccati. Scrive Plutarco, che presso i Sibariti si costumava d’invitar le Donne a’ conviti nobili un anno prima, affinché avessero tempo di bene accomodarsi, ed esser ben disposte all’onore che doveano ricevere. Dio immortale! Ed i Cristiani stimeranno superfluo l’apparecchio di pochi giorni per accostarsi alla Mensa Divina? Ma se questi che s’accostano alla Comunione dopo una Confessione in cui hanno vomitato veleno pestifero di laidezze poco prima commesse, sono degni di biasimo. Che diremo di coloro che s’accostano alla Comunione, non solo subito Confessati delle loro colpe, ma vi s’accostano, così non fosse, con l’affetto ai peccati di cui si sono confessati, volendo, che pacificamente alloggino insieme nel loro cuore, l’Arca e gl’idoli, Dio ed il diavolo; sapete voi chi sono questi tali? Questi sono quelli che non tolgono via l’occasione di peccare, perché non tralasciano quei sorrisi, quelle veglie, quei regali. Sappiano questi tali, che anticamente si serbava l’Eucaristia in un vaso d’oro o d’argento figurato a guisa di colomba, per significare che non è degno di ricevere Cristo dentro di sé, chi non arriva a vivere senza fiele che è quanto dire: senza ombra di laidezza in cuore. Sacri ministri di Cristo, quando vi si accostano ai piedi certe persone, le quali vedete che conservano rancori, che fomentano affetti non solo non gli dovete concedere la Comunione, ma mandateli via da voi senza proscioglierli. Come! volersi accostare alla Comunione con sdegni in cuore, con affetti impuri, con continuare nelle occasioni mi meraviglio, fate loro conoscere il pessimo loro stato, e poi licenziateli. Or se questi che ardiscono accostarsi alla Mensa Divina con affetti impuri, e senza lasciare le occasioni tutte di peccare, stanno in continuo pericolo di dannazione. Che dirò io di quei miserabili, i quali indegnamente si cibano di questo Pane di vita, voglio dire si comunicano in peccato mortale; a questi tali ricordo che Cristo sopportò tutto in Giuda, dissimulò a’ furti, le mormorazioni, l’infedeltà, ma quando sfacciatamente ardì comunicarsi con la coscienza macchiata da colpa grave, allora lo lasciò subito nelle mani del diavolo. E post buccellam intravit in eum satanas, il quale fieramente agitandolo, lo necessitò a disperarsi, e a darsi da per se stesso con infame laccio la morte, per esser portato ad ardere nell’inferno. Comunicarsi in peccato mortale! Non si può dir di peggio. Questa è una mostruosità sì grande, che maggiore non può darsi. Voi ben sapete che non v’è mostro più mostruoso di quello che vien composto da parti più stravaganti, or quali parti più travaganti possono mai mirarsi unite insieme che stare in un medesimo cuore, Cristo e peccato? Non potestis, miei UU. non potestis Mensæ Domini participes esse et mensæ Dæmoniorum, dice l’Apostolo; non è possibile sedere alla mensa di Cristo e godere de’ conviti del diavolo. Chi si vuol pascere delle cipolle d’Egitto, non può nutrirsi con la Manna del Cielo. Come volete mai, che questo Cristo, che non può tollerare in sua compagnia sotto il velo degl’accidenti la sostanza innocente del pane, possa poi venire ad abitare nel vostro petto, allorché sa esservi annidati serpi velenosi di vizi, allorché sa averci posta sua fede l’amore indegno verso quella femmina, l’odio implacabile verso quel nemico? Non potestis no! È un mostro, vi ho detto, una mostruosità, volere in cuore Dio e peccato. Or i mostri, come sapete non solo sono orribili per la mostruosa deformità, ma sono anche terribili per le rovine che pronosticano. Appena si vede un mostro che par che ognuno vi legga dentro qualche grave calamità, ancor io prevedo da un tal mostro rovine, e sono accertati i miei giudizi, perché sono dell’Apostolo che dice: Qui manducat, et bibit indigne, judicium sibi manducat, et bibit! – Ecco le rovine di chi si comunica in peccato mortale: Judicium sibi manducat, et bibit idest, dice il Crisostomo damnationem, è dannato, beve la morte dal fonte che sperava vita. – Il balsamo ha questa proprietà di conservare i corpi non ancor corrotti; ma s’è applicato ad un cadavere che abbia principiato ad imputridire, il balsamo serve perché più presto s’imputridisca. Così appunto nel caso nostro, è potentissima a conferirci l’immortalità beata la santa Comunione. Con tutto ciò se indegnamente si riceve, ci dà l’ultima spinta per l’inferno. Riceve indegnamente e perciò è quasi dannato chi si comunica senza confessarsi, avendo peccato mortale; chi si confessa ma non li dice tutti per vergogna, per malizia, chi li dice tutti ma ne lascia per rossore qualche circostanza necessaria, o specie diversa. E perciò se questo infelice vuol ritornare in grazia di Dio, conviene che con un vero dolore e fermo proposito vada a fare una buona Confessione, in cui s’accusi d’aver lasciati i tali e tali peccati, e poi si confessi di quanti da quel tempo che lasciò quelli, ne fece, perché di niuno è stato mai assolto. Datemi mente. Il peccato di chi si comunica in peccato mortale è sì orribile, che Dio per lo più non lo castiga in questa vita, perché in questa vita non vi è pena bastante, ma la riserba nell’altra. Ne ha voluto però alle volte dar qualche esempio ancora in questa vita come fece in quella rea femmina riferita da San Cipriano, testimonio di veduta; interrogata questa dal Confessore se avesse commesso il tal peccato, nego’ sfacciatamente, asserendo non esser di quei costumi, che egli presupponeva e raddoppiando la sfacciataggine nell’atto stesso di volerla ricoprire, ardì con fronte temeraria accostarsi alla santa Comunione, sperando, dice il Santo, d’ingannare Iddio, come aveva ingannati noi, suoi Ministri, ma non gli riuscì, poiché ricevuta l’Ostia, si cambiò subito questa in un affilatissimo coltello, che inghiottito gli segò miseramente la gola, lasciandola quivi morta, e tutta bagnata nel suo sangue, che ben si vedeva esser vittima scannata in quella Chiesa per esempio del suo sacrilegio. Dio immortale! Che vi strapazzino quelli infedeli che tengono l’Eucaristia non essere che semplice pane, non è da meravigliarsi, questo è uno strapazzo fatto ad un principe sconosciuto, da chi lo giudicava uomo ordinario; ma che v’oltraggino i Cristiani, che vi confessano per quel Dio che siete, è un eccesso intollerabile. Eh mio Dio io so che se il caldo s’incontra nel freddo in seno alle nuvole, non sa stare ivi paziente neppur per un’ora, ma squarciato il seno alle medesime nuvole, tuona, tempesta, e si accende in fulmini terribili. Il fuoco della vera carità, mio Dio, non deve stare col freddo de’ peccati nel cuore del peccatore, però tuoni, tempeste, e fulmini quegl’empi che non vi rispettano nel Divino Sacramento, e fate loro provare i vostri sdegni giustissimi privandoli e in vita, ed in morte del vostro Santissimo Corpo.
LIMOSINA È sicura la vostra roba se la darete in custodia a Dio ne’ poverelli, ond’è che un mercante ricchissimo richiesto un dì dal suo sovrano a dirgli con tutta verità quanto fosse il suo guadagno messo da parte in quell’anno rispose: mille scudi, e vedendo alterato il re per simile risposta, quasi si credesse burlato replicò, mille, o sire, e non più, perché mille n’ho dati a Dio ne’ suoi poveri, e così mille son certo averli in sicuro, l’altre mie facoltà soggiacciono tutte a tanti pericoli, che io temo di chiamarmene padrone.
PARTE SECONDA
Che vuol dire, che tanti Cristiani vivono ne’ peccati, perché questi non frequentano i Sacramenti, e perché non li frequentano? Perché abbracciano i motivi suggeritigli dal demonio. Dice taluno, io non frequento la Comunione per non dar da dire, perché se quel tale mi vedrà comunicare, dirà, mirate un poco, chi vuol fare da Santo! E per questo volete lasciare la Comunione per le parole di pochi sciocchi, per questo lasciare d’andare a Dio. Qual è quel pescatore colà nelle coste dell’India, che lasci di far preda di qualche incomparabile Margharita per timore dell’acqua fredda? O Dio, se sapeste, che perla di Paradiso si contiene in quell’Ostia sacrosanta, non solo non temereste le freddure d’una lingua mal Cristiana, ma sprezzereste, per acquistarla, un mar di ludibri. Altri si scusano dicendo che non si accostano a questa Mensa Divina, per non addomesticarsi tanto con Dio, e questi che così parlano sono d’ordinario persone puntigliose, e piene d’albagia; e se a queste persone, che dicono non accostarsi spesso per riverenza, il confessore per umiltà gli vietasse comunicarsi in un dì solenne di Festa, quando tutto il popolo si comunica, voi vedreste cambiarsi tutta l’umiltà in superbia, voi le vedreste strepitare, e dichiarare assolutamente che non vogliono questo smacco di non comunicarsi in giorno in cui tutto il mondo Cristiano comunica. Eh via, tacete voi tutti, che prendete simili scuse, non dite che non v’accostate per rispetto di Dio, dite piuttosto che non v’accostate a quella Mensa Divina perché volete seguitare a vivere nella vostra scandalosa libertà. – Altri poi non s’accostano perché dicono aver da fare assai, che i negozi di casa, della bottega, l’occupano tanto, che non gli resta tempo per questa Santa Funzione. Costoro sapete? Sono affogati dal demonio non con il fumo della superbia, ma con la polvere delle cose terrene: avete la famiglia da provvedere? Bene! Ma avete ancor l’anima! È possibile, che in un intero mese non si trovino due ore per confessarsi e comunicarsi, per assicurare la propria salute? Che negozi? Che imbarazzi? Perché siete in questo mondo, non vi siete per la terra, no, ma per il Paradiso. Che risolvete? giacché le vostre scuse non vagliano, che risposta date? Volete essere più frequenti nel comunicarvi? Ridotti che farete all’estremo di vostra vita avete da maledire la negligenza usata nel comunicarvi, ed io molto temo, che questa negligenza non sia per essere la causa della vostra rovina, e temo, che nel fine della vita abbiate da morir senza Sacramenti. Volete che io vi dica la vera cagione, perché non frequentate i Sacramenti? Perché volete continuare in quella pratica, in quell’odio, in quell’interesse. Sapete che il confessore non vorrà quella tresca, vorrà la restituzione, vorrà che perdoniate! Questa è la vera cagione perché non volete frequentare i Sacramenti. Certamente ogni nausea è cattiva, ma quella che si ha del pane, al dire d’Avicenna è peggiore d’ogn’altra, omnis naufeatio mala, panis autem pessima, temo e temo con ragione che questa gran ripugnanza che voi mostrate al Pane di vita, sia per voi un segno d’eterna morte; odo il Profeta, che me lo conferma, qui elongant se a te peribunt, chi si allontana da Dio, si dannerà; O che stupore vedere, che l’infermità fugge la salute! Ma se noi fossimo tiranni di noi medesimi potremmo far di peggio, che non volere adoperare un rimedio sì potente per salvarci, qui elongant se a te peribunt, intendetela o Cristiani, chi si slontana da Dio, perirà, si dannerà. Certa gente confinante con gl’Abissini, per assaltarli, e superarli, aspetta che per certi loro digiuni siano indeboliti, e poi improvvisamente gli son sopra con l’armi, e ne fanno macello. Così farà il demonio con voi altri che tanto indugiate a comunicarvi. Quando sarete stati lungamente digiuni da questo Pane di vita, v’assalirà, vi vincerà, morirete dannati. Cristiani miei per evitare questo pericolo di dannazione, frequentate questo Sacramento é perché possiate ritrarne veri frutti di vita eterna, accostatevici doppo una sincera Confessione e poi accostatevi con la debita modestia dell’abito, non essendo possibile che ritraggano utilità dalla Santa Comunione quelle donne che nella medesima mattina che devono comunicarsi, si adornino per non dire più immodestamente, certo più vanamente che mai, senza timore di presentarsi così pompose d’avanti a quella Maestà che per amor loro s’è umiliata nel Sacramento fino a non comparire uomo ma cibo ignobile. Non è possibile che ritraggano frutto dalla Comunione quelle donne che, rinunciando alle leggi della verecondia cristiana non si curano di riaccendere, con farsi vedere scollate, spettorate, sbracciate, quelle fiamme impure, per smorzar le quali, versò Cristo tanto sangue. – Racconta Roberto Lisio come giunta a morte una vanissima femmina che spendeva l’ore allo specchio, acconciandosi la testa ed ornandosi il volto, gli fu portato dal Parroco il Santissimo, acciò lo ricevesse per viatico all’altra vita. Ma ecco che d’improvviso si videro scendere dal Cielo due Angeli, i quali giunti alla camera, e salutata profondamente quell’Ostia Santissima, la rapirono dalle mani del Sacerdote, e sparvero. Ebbe questi a morire per lo spavento, né mai si riebbe, finché tornato alla Chiesa, ritrovò quell’Ostia riposta dagli Angeli su l’Altare, ed argomento, che il Signore giustamente aveva sottratto il suo Corpo a colei, mentre ella troppo aveva voluto adornare il proprio. Cari miei UU. se ornerete il vostro corpo con maniere lascive, con usanze che abbiano del disonesto, se trascurerete di cibarvi di questo Pane, io vi dico, che temo molto, se nel punto di morte avrete il Divino Sacramento, ma posso temere che non passiate all’altro mondo senza Sacramenti.