QUARESIMALE (III)

QUARESIMALE (III)

DI FULVIO FONTANA
Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA TERZA


Matt 5:13-19

Ego autem dico vobis: diligite inimicos vestros .

San Matteo al c. V.

Nella Feria festa delle Ceneri.

Chi perdona l’offese ricevute dall’Inimico, nulla perde di reputazione; molto acquista d’onore, perché segue l’Esempio di Cristo, perché obbedisce al comando di Dio.

Disse pur bene Temistocle, allorché rispose à colui che gli si offriva d’insegnarli il modo e l’arte di ritenere a memoria quanto mai avesse bramato ricordarsi; poiché gli soggiunse, che cola assai più grata gli avrebbe fatto, se gli avesse insegnato il modo di torsi dalla memoria quanto talora è, non solo utile ma necessario dimenticarsi: Gratius sibi facturum, si se oblivisci, que vellet, quam si meminisse docuisset. Piacesse pure al Cielo, che vi fosse una simile arte; certo, che, se vi fosse, moltissime serpi di discordie nascenti e potrebbero appena nate, strozzate: certo, che con facilità si potrebbero togliere dal cuore quelle piccole spine, che scovate, altro non producono che ferite, e talora mortali; si potrebbe togliere dall’animo quel picciolo veleno di disgusto, che tenuto qualche tempo, infetta le vene con tossico mortale di crudi risentimenti. Ma nostra disgrazia: una si’ bell’arte, di dimenticarsi quanto talora è necessario scordarsi, non v’è. Che faremo dunque per togliere dal cuore degli Uomini la brama delle vendette? Ricorreremo alla grazia, e con l’ajuto di questa, mostrerò esser gloria perdonare: tanto più, che si segue l’esempio di Cristo, il comando di Dio che vuole il perdono delle ingiurie, e son da capo. Orsù dunque, ditemi qual è il motivo, che vi suscitò lo sdegno, e vi dà impulso alla vendetta? grande, voi mi replicate, sono stato oltraggiato nella riputazione, danneggiato nella roba, perseguitato nella vita, ha operato con me da furbo, da scellerato: conviene che mi vendichi, altrimenti, vi rimetto del mio onore, della mia riputazione. Piano, piano, date luogo alla passione per conoscere apertamente quanto v’ingannate, con dire, che se non vi vendicate, vi rimettete d’onore, e di riputazione. Consideriamo attentamente questa verità. Ditemi, chi compone, chi forma il mondo? senza dubbio i consigli, i Magistrati, i Governatori, i Principi, gli Ecclesiastici, o Secolari. Or questi asseriscono che sia vergogna il perdonare? Appunto anzi questi con intimar castighi, e con fulminar censure parlano con lingue di spavento, non esser vergogna, ma gloria il perdonare. E se pur volete dilatar questo mondo, non vi porrete à formarlo, salvo, che di dotti, di savj, e di pii: ed è pur vero, che quanti sono i dotti, ed i savj, altro non fanno, che impiegarsi nello stabilimento della quiete, della concordia, della pace, ed i pii ben spesso a tale effetto porgon preghiere a Dio, acciò si estirpi ogni odio dal cuore de’ vendicativi, dunque non è vergogna perdonare. Voi mi replicate, che tanto v’è un mondo, benché picciolo, il quale afferisce esser vergogna il perdonare. Questo vostro mondo; v’intendo, è una combriccola di quattro cervelli sventati, che vivono a stampa, e senza coscienza, e con una tintura di politica diabolica, e presso di voi avrà più forza un tal piccolo mondo, e non l’avrà quel mondo vero composto di Magistrati, di governatori, di dotti, di savj, di pii? Anzi mirate quanto è stolto questo vostro mondo, su di cui v’appoggiate. Egli se or che siete sano, vi dice, che se perdonate vi rimettete del vostro onere; di li a poche ore, se per disgrazia sarete moribondo, vi dichiarerà per infame, se non perdonate. Mi meraviglio di voi. S’acquista gloria a perdonare l’ingiurie, a rimetter l’offese. Eh, che non si perde, torno a dirvi, di riputazione a perdonare all’inimico. Sapete quando vi rimettete del vostro onore, della vostra riputazione? allor che fate fare, o stendere quei testamenti, che cominciano col nome di Dio, e finiscono con quello del diavolo: allorché praticate quelle usure, opprimete la vedova, assassinate i pupilli, litigate contro ragione. Allorsì, che vi rimetti del tuo onore, o donna, quando porti le ambasciate, i biglietti, i regali, ma non già quando perdoni al prossimo; allora sì, quando presti la casa, dai la comodità , fai la guardia, o allora sì, che vi rimetti del tuo onore: del tuo onore vi rimetti a condur la Figlia in quelle veglie, a lasciar venire in Casa gli amanti: o qui sì, che vi si rimette del tuo onore, e già si sparla, come di riputazione perduta. Se bene in materia di tanta importanza trattandosi di riputazione, non voglio che crediate a me ma a voi stessi; il seguente caso, che son per narrarvi, vi ha da far decidere, se veramente si perda di riputazione, o pur si acquisti d’onore nel perdonare. Uditelo, e preparatevi al pianto, perché certo non si può sentire senza tributo di lacrimare. Narrano le storie della minima mia Compagnia di Gesù come una gran dama rimasta in stato vedovile, e con ampie facoltà, avea per frutto delle sue nobilissime nozze un figlio in età di diciasette anni, unico erede di tutte le sostanze, pupilla degli occhi suoi. Or mentre questi stavasene un dì ordendo in mezzo alla strada un certo giuoco, si abbatté a passare un forestiero, il quale accidentalmente glielo scompose. Si sdegnò il nobil garzone, e con alcune parole resistente ferì si altamente l’animo del forestiere, che tirato mano alla spada, gli stese una stoccata sì fiera, che colpitolo nel mezzo del petto lo passò banda a banda, e lo stese sepolto, e morto nel proprio Sangue. Affacciatasi in questo mentre alla finestra la madre vide e che vide? Vide estinto dentro un lago di sangue l’unico erede delle sue sostanze, il caro suo Figliuolo. Immaginatevi qual dovesse essere il dolore; ma che? come donna di gran pietà, alzati gli occhi al Cielo, se non frenò le lacrime, certo compose il cuore rimettendosi al divino volere. Frattanto l’uccisore cercando scampo entrò nella prima casa che trovò aperta e appunto era quella dell’estinto; salì le scale, giunse alla sala, s’inoltrò nelle camere ove veduto dalla madre col ferro in mano, imbrattato nel sangue del figlio, sentissi richiedere di ricovero; al che ella prontamente condiscese e frettolosa ordinogli un lauto pranzo; e prima di porlo a tavola, volle ella pure dar da lavare a quelle mani intrise nel Sangue del suo unico figlio; ella pure il servì a mensa, la quale terminata gli disse: or sappiate, o figlio, dico figlio, perché avendomi voi tolto con questo ferro l’unico figlio che avevo, voi prendo, e voglio per figlio. Sentite, in niun luogo voi siete meno sicuro che in questo, nel qual presto sarà la Corte. Io pertanto vi consiglio a partire; eccovi in aiuto questa borsa piena d’oro, e vi servirà per il vostro viaggio; andate alla stalla, e qui vi troverete un buon cavallo, quello pure prendete, col quale potiate presto uscir di Stato. Più voleva dire, ma fu costretto à dar sfogo alle lacrime. Che dite, o stolti vendicativi? vi pose del suo onore in perdonare questa signora? Eh, che voi stessi asserite, che non vi rimise d’onore, ma l’acquistò per atto sì bello. Se non vi avesse acquistato d’onore, che accadeva, che s’impiegassero le penne in lasciarci memoria di sì bel fatto? e fu quello, che dié nome di strada pia, a quella strada, ove è il nobil palazzo. Ah sciocco, e avrai più ardire di dire che vi rimetti del tuo onore a perdonare l’ingiurie? del tuo sì, e del più prezioso vi rimetti a non perdonare, perché vi metti l’anima. – Ecco, o vendicativo, sbattuto il tuo gran motivo di vendetta; e perciò, quando tu non ti arrendi al perdono, io non so più, che dirmi; salvo che richiederti à specchiarti in questo Cristo , e à riflettere qual esempio Egli ti abbia dato di perdono: starò à vedere, che tu ardisca né pur di pensare di rimettervi del tuo onore à seguir l’esempio di Cristo, magna gloria est sequi Dóminum. È certo, che l’esempio d’un grande ha forza maggiore per muovere alla sua imitazione: bastò, che Abimelecco, Re bisognoso di molte legna per certe funzioni di Guerra ne togliesse con mano reale un pezzo, perché tutti, non solamente soldati, ma uffiziali più riguardevoli, se li ponessero sulle spalle. Rifletti un poco a belli esempi, che ti ha dato questo Cristo, supremo Monarca Principe degli Angeli e degli uomini; che esempio diede? quante grazie compartì Egli ai Pontefici, a’ Farisei, che lo perseguitarono? pareva che gli strapazzi fossero per quei ribaldi semenze di beneficj. Qual dolcezza mai mostrò a Giuda, dandogli fino con le sue mani il suo Sangue nella Eucaristia? Acciò se ben l’aveva venduto, ad ogni modo fosse suo. Che clemenza non praticò con quel Malco, che più sacrilego di tutti gli altri ardì d’essere il primo a mettergli le mani addosso? gli rese con un miracolo l’orecchio recisoli da San Pietro; quasi che poco gli paresse di beneficare in altra guisa quell’empio, se non metteva mano all’Onnipotenza. In somma la sua Santissima Passione fu un gran compendio per sé d’oltraggi, e per i suoi nemici di grazie; sicché fu Cristo simile al sole, che quantunque ingombrato da nuvole, ad ogni modo fà benefizj; simile ad una pianta fruttifera, che dà i suoi pomi anche a quelli stessi che la percuotono. Ah, che se questi furono rari esempi d’amore verso chi ci maltratta, furono però come piccoli indizj di quel massimo, che ci diede sulla Croce, e fu veramente degno di un Dio. Udite: Pater, dice Egli rivolto all’Eterno Padre, Pater ignosce illis, Padre, Eterno Padre, il vostro Unigenito vuole una grazia da Voi prima di morire: domanda o Figlio: che perdoniate … e a chi? a chi m’ha tradito, condannato, crocifisso, Pater ignosce: a chi? a chi con duri chiodi m’ha confitto le mani; Pater, … dì Figlio a chi? A chi m’ha traforato i piedi, me li ha fermati su questo legno; Pater ignosce, si Figlio, perdonerò: perdonate a chi da capo
a piedi m’ha flagellato, a chi m’ha coronato di pungentissime spine. Pater ignosce: à chi? A chi m’aprì con dura lancia questo costato. A chi? A chi m’ha posto in Croce; a chi? a chi mi toglie la vita, a chi mi dà la morte: Quis appetitus, griderò io con Ambrogio, non discat ignoscere, quando pro persecutoribus Christus orabat? E chi sarà, che sdegni di perdonare se Cristo chiede il perdono per i suoi nemici con tante bocche, quante sono le ferite? Qual vendicativo sarà sì protervo, che vedendo il Re de Regi, che perdona, voglia ostinato a vendicarsi, non voglia perdonare? Se vi è, esca di Chiesa: non deve star qui superbo contro di chi l’offese; se Cristo spasima sulla Croce per chi l’oltraggiò. Gran cosa? Cristo perdona, mentre vogliono, a tutti; e tu non vuoi perdonare né pure ad uno; perdona un Figlio di Dio; e non vuoi perdonare tu, che sei Figlio della putredine, creatura vilissima. Cristo ha perdonato a te tante volte; e tu non vuoi perdonare neppure una volta. Cristo perdona ancorché non sia pregato; e tu nieghi di perdonare, pregato non solo dagli uomini, ma dai Santi, dalla Vergine, da Dio: si può vedere ostinazione più sacrilega di questa? Or va, va’ maledetto e già che non ti muove l’esempio di Cristo, bisogna dire, che non sei, o non meriti d’esser Cristiano. Ecco, vedi, ecco Cristo, che ti volta le spalle da questo luogo, come appunto te le rivolta anche dal Cielo. Mio Dio, parlo contro di chi non vuol perdonare; mio Dio perdonatemi, fatelo strangolar da’ diavoli, e non riceva perdono da Voi chi non seguendo il vostro esempio, sfacciatamente lo nega; prima che parta da questo tempio abbandonatelo affatto, e con i vostri chiodi piantategli in mezzo al cuore l’eterna sua dannazione. Deh lasciate che con libertà io parli. Sacri Pastori, ordinate con comando irrevocabile che si tolgano via dalle Chiese gli adorati Tribunali della Confessione e voi Ministri riveriti del Tempio prontamente eseguite. Non è dovere che Dio perdoni le offese a chi non perdona; e quel Sangue di Gesù, che si sparge a salute di chi perdona, sia a dannazione di chi vuol vivere vendicativo. Se bene a che stancarmi? Dio comanda, tanto basta, conviene a forza obbedire. Iddio comanda: che rispondi? La mia riputazione: non importa, perdona. La mia robba: non importa: voglio, perdona. La lite ingiusta: non importa: voglio, perdona. È  ancor caldo il cadavere del figlio, del marito, del fratello, del cognato: non importa: voglio, perdona. Che dici? Che rispondi? Bene t’intendo; tu mostri di non saper chi sia quel Dio che ti comanda: odi e inorridisci. Olà teste altere, teste superbe, teste balzane inchinatevi, abbassatevi, umiliatevi. È  Dio che parla, e parla a voi con comando: or non parla per bocca mia a Turchi, ad eretici, a scismatici, a gentili, a diavoli, che o lo negano, o lo strapazzano, o non lo conoscono, o l’odiano; ma parla a voi, che avete la fronte bagnata d’acque battesimali. Sapete chi è quello che vi comanda il perdonare all’inimico? Egli è quello che scarica le tempeste sopra de’ tuoi campi; quello che manda le mortalità negli armenti; quello che in un sol giorno ha fatto morire trenta mila persone nella Città di Genova e di Napoli in un sol dì, percuotendole con fiera pestilenza. Egli è quello che ti ha scosso da’ fondamenti con fiero Terremoto la tua abitazione. Egli è quello che è Padrone assoluto della tua roba, de’ tuoi, di te! Egli è quello che postquam occiderit corpus, habet potestatem mittere in gehennam, che dopo d’averti posto il corpo morto in terra, ha podestà di piantarti l’anima nell’inferno per tutta l’eternità. –  Questo è quel Dio, di cui dice il Santo Giobbe, che con un fiato solo può incenerirvi, vidi eos qui operantur iniquitatem fiante Deo, periisse; non dice folgorante, non dice fulminante: ma fiante, perché se Dio vuole, tutti ad un’ora ci può con un soffio distruggere: Spiritu labiorum suorum, dice Isaia, interficiet impium. Or questo Dio sì grande, e sì potente ti comanda, che tu non odii l’inimico, che vale a dire, non gli trami la morte, non gli scriva contro, non fomenti la giustizia, non gli tolga la roba, o reputazione; ma di più, quando tu dicessi di non fare niuna di queste cose, e di non odiare il tuo prossimo, Egli anco vuole, che tu dia segni aperti di non portargli odio, e perciò lo saluti, gli parli, non gli volti le spalle, non abbandoni i compagni quando egli sopraggiunge; hai da trattare (questa è la legge di Dio) il cittadino da cittadino, il fratello da fratello, la sorella da sorella, il parente da parente. Vi saranno (così non fosse) tra’ miei Uu. parenti, che non parlano con altri parenti; fratelli, che non trattano con i fratelli; e talora figli, che passeranno i mesi senza parlare con i loro padre, e madre. Questo modo d’operare vi tiene in peccato mortale: perché Iddio comanda, non solo, che non odiate, ma di più, che dimostriate di non odiare. Oltre di che, questo negare questi segni communi, apertamente palesano l’odio che avete in cuore. A me potete dire non odio ma non già a Dio, che è Scrutator cordium. Né  mi stare a dire: tocca a lui parlare il primo, io son l’offeso; e io ti dico che tocca a te che sei l’offeso, perché tu sei quello che per ordinario hai il rancore, e l’odio e perciò a te spetta per ritornare in grazia di Dio. Presto, su obbedisci: dà la pace, parla al tuo prossimo, dagli segni che non l’odii; e sarà per vero, che per alcuni io getterò al vento queste mie parole; Dio immortale; che offeso si vendichi il Turco, lo Scita, il Barbaro, non dico nulla; i costumi degli Idolatri non son discordi dagl’Idoli: ma che si vendichi chi adora Cristo Crocifisso che perdonò a’ crocifissori, Pater ignosce illis, o questo sì che non l’intendo: Christianus nullius est hostis aut si est, jam non est Christianus.
Il Cristiano, grida Tertulliano, non è nemico d’alcuno, o se è, non è Cristiano. Son onorato: son cavaliere, son dama: tacete e umiliatevi teste superbe, e se Dio vi comanda, che vi gettiate la testa ai piedi, non che perdonate all’inimico, abbiate a gloria di marcirli avanti decapitati. Son onorato, son cavaliere, son dama: siete cenere e polvere, e balzerete nell’inferno, se non perdonate; e ve lo testifichi il seguente fatto, tanto decantato ne’ pergami. S’odiarono lungamente due nemici senza salutarsi, senza parlarsi. Ammalossene uno e in breve tempo fu spedito da’ medici; gli furono attorno i parenti, amici confessori perché deponesse l’odio, parlasse all’inimico; tanto si disse che il moribondo s’indusse a dar la pace e a voler parlare; fu condotto l’avversario, il quale anche pieno di livore senza punto intenerirsi allorché si sentì domandar dal moribondo la pace, lo schernì col dirgli che la domandava perché era in quel punto, e gliela negò. Allora il moribondo, richiamati li spiriti di vendetta, si scagliò con quel poco di fiato che aveva contro l’inimico; l’ingiuriò, lo maltrattò di parole, ne stabilì la vendetta; e così pieno di rabbia spirò. E che credete forse, che non facesse la vendetta? la fece, poiché indi a poco tempo, allorché l’inimico si trovava pella piazza in un circolo di compagni comparveli avanti a vista di tutti un’ombra terribile, con una mazza di ferro in mano, e … olà, gli disse: son venuto a fare le mie vendette; e già che siamo stati nemici nel mondo, voglio che tali siamo per tutta l’eternità, e datagli con fiero colpo la mazza di ferro in petto, lo stese morto a  terra, e seco condusse l’anima all’inferno. Questo è il fine di chi tien rancori in cuore, e non vuol perdonare: Pensate a’ casi vostri.

LIMOSINA.
Cosimo Serenissimo Gran Duca di Toscana, e primo di questo nome discorrendo un giorno delli interessi di sua Corte col Mastro di Casa; sentì dirsi da questo, che troppo era liberale nel far limosine; al che il savio Prencipe: orsù, disse, bilanciate di grazia qual sia più; se quello che ho io ricevuto da Dio, o pure quello io gli dò ne’ Poverelli; e se sarà più quello che do ai Poveri, ritirerò la mano. Ecco le belle parole registrate nella vita in ratione dati, et accepti, numquam eo devenire potui, ut Deum debitorem, me autem creditorem inveniam. Ditemi, dico io a voi, di quel che Dio v’ha dato, ne date voi la metà? che dissi la metà? un terzo, un quinto, una centesima parte a’ poveri di Cristo?

SECONDA PARTE.

Questa Predica non è per noi, per grazia di Dio, nella nostra Patria non vi sono fazioni; non vi sono inimicizie; ma quanti rancori nel cuore; ma quante brame di nuocere; ma perché non si parla a quel vostro prossimo? perché non si saluta? Perché né pur parlate ai vostri parenti, talora ai fratelli, sorelle, suocere, nuore, padri, e figli, madri, e figlie. O Padre, non li voglio male. Non basta, non li torcerò un capello. Non basta per essere in grazia di Dio. Sentite ad iracundiam me provocavit Efraim in amaritudinibus suis. Non dice, perché ha ammazzata, rovinata quella Famiglia, ma perché ha de’ livori nel cuore non parla, non saluta. Or dovete sapere che la legge di Dio non solo comanda che non si ammazzi, non si odia nel cuore; ma che si dia evidenza di non odiare. Siete obbligati à dar segno di non aver odio nel vostro cuore; e però quei segni che si chiamano di benevolenza comune; e questo è un obbligo di precetto. Siete per tanto obbligati a dar quei segni di parlare, di salutare, di visitare nelle proprie case alle occorrenze, come comunemente si pratica con tutte le persone di simil forte, cioè à dire da’ parenti con i parenti, da’ vicini con i vicini, da’ paesani co’ paesani. O Padre! quantunque m’abbia ingiuriato non gli voglio male; ma non voglio trattar con lui. Primieramente nego che non gli vogliate male; perché ne sparlate; perché sempre interpretate male le sue azioni; vi dispiacciono i suoi avanzamenti, godete del suo male; vorreste che tutto il mondo fosse contro di lui del vostro umore. Mirate vedete quel fumo? Padre sì. Che v’è sotto: il fuoco, non è vero? Padre no, eh appunto. Fumo; dunque fuoco; non parlare, non salutare: fumo; dunque fuoco di livore. Orsù via, son con voi, si annida nel vostro cuore la carità necessaria; ma i segni di benevolenza comune, ove sono bisogna pur praticarli. Non siete in una Milano, in una Roma, ove comunemente non si parlano, e non si salutano i concittadini. Qui non è così; perché siete solito alle occorrenze di ragionar con tutti. Son contento, dirà taluno, di parlare a chi m’ha offeso; ma non voglio essere il primo. Sapete chi ha da essere il primo? quello che ama più l’anima sua. Sapete chi ha da essere il primo? quello che è stato offeso. O Padre questo è contro ogni dovere. V’ingannate. Chi ha bisogno di guarire? quello che ha offeso, o quello, che è stato offeso? l’offeso che ha il rancore nel cuore; dunque questo parli: O Padre non sono obbligato (ve la passo) e… Iddio non ha obbligo di darvi il Paradiso. Guai a voi, se Dio avesse i vostri sentimenti; certo il Paradiso non l’avreste; perché si protesta di voler usar con voi quella misura di misericordia che voi usate col vostro prossimo. Con questa occasione contentatevi, che io vi dica che non so capire il vostro operare. Voi avete bisogno per i vostri peccati della abbondanza della misericordia Divina, la domandate; Dio ve la promette, purché voi abbiate misericordia del vostro prossimo. E voi, che dite? Signore, voglio sì la vostra misericordia; ma niente ne voglio usare al mio prossimo: v’ingannate, dimittite, dimittemini. Io non gli voglio male; ma non lo voglio vedere; non lo voglio in Patria. Iddio non vi vuol male; ma non vi vuol vedere? non vi vuole in Paradiso. O stolti il Paradiso è vostro, e non volete perdonare. Quelli, che avranno de’ nemici, hanno, se vogliono, il Paradiso in pugno, e doppo d’aver perdonato possono dire con lieta fronte al Signore: Signore io voglio il Paradiso; me l’avete promesso, se perdono; ho perdonato, lo voglio: e vi vorrete privare d’un tanto bene, della grazia del Principe per quel livoretto, per quella ostinazione di non parlare, di non salutare? O se sapeste! m’ha offeso, m’ha danneggiato nella robba, nella persona, e per questo vi si dice, che facciate la pace, che parliate perché v’ha offeso; se v’avesse regalato, non accadrebbe altro. M’ha offeso di tal modo, che se non erano i miei Avvocati, la Vergine, il Signore, restavo sul tiro. Si eh? Presto dunque la pace, per corrispondere alla grazia ricevuta di non essere restato morto col corpo sopra la terra, con l’anima sepolta nell’inferno. Orsù finiamola; o lasciare i rancori, gli odii , o parlare al suo prossimo, di voltar le spalle al Paradiso, ai Santi, alla Vergine, a Dio; una delle due: aut cum Christo, aut cum diabolo nos esse oportes; eligamus quod volumus, o con Cristo perdonando, o col diavolo vendicandoci. Sento che ogn’uno mi risponde: pur che si stia con Dio, si lascino i rancori, gli odii, le vendette, si parli al prossimo; si saluti; gli si presti ogni offizio di cristiana benevolenza. Ecco dunque, che per stabilirvi il Paradiso, prendo la penna in mano, e immersa nelle Piaghe Santissime, stendo col sangue d’un Dio fatto Uomo la formola del perdono a’ nemici. Attenti, chi vuol salute: si turi gli orecchi chi non si cura della Eternità beata. Io, mio Redentore per quell’uffizio, che indegnamente sostengo su questo luogo a nome di questo popolo, mi dichiaro, come ogni vendicativo depone a’ vostri piedi adorati tutte le ingiurie che abbia mai ricevute; qui sacrificano i loro sdegni; qui scannano i loro odii per vittime al vostro amore; e benché assai loro scotti privarsi di quel diletto, che seco porta la vendetta, con tutto ciò, perché voi così comandate, vogliono obbedirvi; offeriscono per tanto la pace all’inimico, e perdonano a tutti. Voi altresì, mio Dio, perdonategli le loro colpe, con quella pietà con cui essi perdonano a’ loro nemici; e quando da’ demonj in punto di morte saranno accusati al Divino Tribunale; Voi siate il loro difensore e Protettore già che per Voi perdonano le offese ricevute. Evvi qui alcuno tra quelli che hanno ricevute ingiurie, il quale recusi soscriversi? Se v’è, parli: Si dichiari: perché quando vi sia uno di tal sorte, il quale non voglia soscriversi: io allora divenuto contro di lui tutto fuoco, con questo medesimo Sangue scriverò per lui sentenza d’eterna dannazione. Muoja, grido, muoja l’indegno, perisca chi nega a Cristo domanda sì giusta, e questo Sangue, che doveva salvarlo, questo lo condanni al fuoco eterno. Non trovi pietà, non impetri da Voi misericordia, mio Dio, chi non vuol perdonare. Prevalgano i suoi avversarii; cada egli vittoria de’ suoi nemici: resti vedova la consorte, orfani i figli, senza trovare né tetto che li accolga, né veste che li ricopra: si dissipi la sua roba, si estermini la sua casa: disperdat de terra memoria ejus pro eo, quod non est recordatus facere misericordiam. Sia giudicato al Tribunale Divino senza misericordia chi non fece misericordia. Vendetta! gridino le creature tutte: vendetta gli Angeli, vendetta i Santi, vendetta i demoni tutti, tutti gridino vendetta! cum judicatur exeat condemnatus: fate, che nel partire dal vostro Tribunale piombi nell’inferno, dilexit maledictionem, et veniet ei, noluit benedictionem, elongabitur ab eo. Ma a che tanto riscaldarmi? Eh, che qui non vi è persona sì sacrilega che voglia negare a Cristo il perdono, che domanda per chi l’ha offeso. No, no, anzi che son sicuro che ognuno sottoponendo le proprie passioni a’ Divini Comandi è risoluto di perdonare all’inimico, di parlargli, di salutarlo; né si porterà al riposo della notte con questo aggravio nell’anima, con pericolo di balzare dal letto nelle fiamme infernali. lo quanto a me voglio credere che tutti siate per riconciliarvi col vostro prossimo; e per darvene maggiore impulso, contentatevi, che io dia un motivo assai gagliardo alla vostra cortesia che certo alla generosità del vostro cuore, e alla nobiltà del vostro animo sarà di non poco momento. Voi vedete cari miei UU. che io qui per la salute delle anime vostre non perdono a fatica, a stento; e voglio credere, che darei con l’ajuto di Dio, quando tanto bisognasse per salvarvi, il sangue delle mie vene. Se così è, come è verissimo, come potrò credere che voi non siate per farmi la grazia, che sono per domandarvi? Sì, si la spero. Su dunque corrispondere alle mie povere fatiche: e o che contento sarà il mio, se ottengo questa grazia! E qual è ? Eccola, che voi per amor mio rimettiate tutte le ingiurie al vostro pressimo: gli perdoniate, gli parliate, lo salutiate. Su, fatemela, non mi negate questa consolazione. Ma che dissi. O che rossore, o che vergogna mi ricopre il volto! io pretendere per ricompensa delle mie povere fatiche una grazia si grande? perdonatemi, fui troppo ardito. Non avete da fare la pace per amor mio; non avete da parlare, non avete da salutare il vostro nemico per amor mio; o questo no, ma per amor di questo Cristo, forse non lo merita? forse i benefizi che Egli v’ha fatto non meritano una tal corrispondenza? E non è questo Cristo che vi mantiene la sanità, che vi dona le sostanze, che v’arricchisce di figliolanza sì degna, che con la sua misericordia v’ha liberato dall’inferno meritato con tanti peccati, ed or che state immersi in quelle disonestà pur vi sopporta? A che dunque si tarda? Si corrisponda ad un Dio sì buono, e sì benefico. Pace, amato popolo, pace. Cristo è quello che ve la chiede. Egli è il Principe della pace … Sovvengavi che altro non volle in tutto il tempo di sua vita, che pace: pace nella morte, pace dopo la sua morte; pace amato popolo, pace. Quando venne al mondo questa Ei portò, cantata dagli Angeli: Gloria in excelsis Deo, et pax in terra: Pax hominibus. Pace sempre insegnò a’ suoi discepoli: primum dicite pax huic domus; pace ci lasciò nel morire: Pater ignosce illis; pace nel risorgere: Pax vobis; pace finalmente mandò dal Cielo allorché mandò lo Spirito Santo, il quale altro non è, che Spirito d’unione e di concordia… Questa pace santa scenda dunque ora dal Cielo, questa riempia i cuori di quanti m’ascoltano. Ah, sì, che mi pare di vederla: eccola, eccola. Aprite i vostri cuori per riceverla; e non vi sia alcuno che strettamente non l’abbracci. Certo si ha da vedere a chi si ha da dar vinta, o a Dio, o al diavolo. E vi sarà chi voglia darla vinta al diavolo? Dio ce ne liberi.. Viva Gesù, Viva Gesù. Frema pure, schiamazzi, si disperi l’inferno tutto a suo dispetto, ha da regnare la pace; questa ha da togliere i rancori tra congiurati, le differenze tra congiunti; questa ha da unire popolo a popolo, casa a casa, famiglia a famiglia; non v’hanno da essere più dissensioni, e per amore di chi? Per amor di questo Cristo. Viva Gesù, Viva Gesù, sol non occidat super iracundiam vestram; non vi sia chi si porti al riposo della notte senza esser riconciliato col suo prossimo, acciò regni la pace fra noi in terra: sicura caparra della futura in Cielo.

QUARESIMALE (IV)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (13)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (13)

LA GRAN BESTIA SVELATA AI GIOVANI

dal Padre F. MARTINENGO (Prete delle Missioni

SESTA EDIZIONE – TORINO I88O

Tip. E Libr. SALESIANA

VII.

IL GRAN CIARLATANO.

Giovani miei, già incomincio a sospettare che la Coda voglia riuscirmi più lunga della BESTIA. A dir vero, gli è un argomento quel che ho a mano, che dà luogo ad esempi ed applicazioni senza numero. D’altra parte vi confesserò una mia debolezza: quando parlo o scrivo a’ giovani….. non so… mi pare anch’io ringiovanire, mi s’allarga il cuore, mi s’affollano le idee, e le parole, v’assicuro, non si fanno tirare. Ma bisogna che mi moderi, che rifletta, che non mi lasci trascinare. Mi proverò tutto quel che posso. –  Vi parlai nel precedente libretto del mondo che a taluni fa tanta paura, e dietro la scorta d’un predicatore alla buona, vi ricordate a che l’abbiamo ridotto. Ora aggiungerò: ciò che il rende imponente e pauroso agli animi volgari, sapete che è? La serietà, la franchezza, la prosopopea magistrale con che divulga ed espone i suoi dettami e le sue massime. Vedete quel ciarlatano sulla piazza; quanta gente gli s’accalca d’attorno! – E vedete come tutti stanno fissi, attenti, colla bocca aperta, e vevono  e bevono… che cosa ? un fiume di ciance e d’imposture.. — Ma possibile; tanto allocchi … Che volete? e’ le sballa con tanta franchezza! … – Così è il mondo, e vi bisogna star bene all’erta; miei cari giovani: quelle  ch’egli spaccia con maggior solennità sono per lo più le più solenni castronerie. Qui più che mal fa mestieri discendere alla pratica. – Vi ricordate. ancora di. Quel giovanottino infelice, che vi feci vedere  nella mia lanterna magica battersi con quel villan barbuto e lasciarci misero! la vita?… Ebbene, chi gli ebbe imposto in sì giovane e bella età un sì duro sacrificio? Il gran ciarlatano; il mondo. E che dicevagli il mondo? Che il battersi così era da generoso e da forte; ricusarsi., da vigliacco. Dio buono! che. stravolgimento!…. Ma prima di credere e lasciarvi imporre di sì bestiali dottrine… l’avete voi la ragione? Ebbene adoperateci un po’ su la ragione, e vedrete. Forse che il sangue umano è tal liquido, che lavi le macchie dell’onore?…. O non è anzi vero che il contaminarsene le mani è la maggior dell’infamie?… Va là, omicida; mi metti orrore! che per una parola, per l’insulto d’un momento, che solo fossi un po’ filosofo, ti saria stato “Come l’insulto di villana ‘auretta.;, d’abbronzato guerriero in sulla guancia”, non hai dubitato piantar una lama nel cuore del fratello. Orrore; orrore! Viassù! pasciti nella vista dell’infelice tua vittima; or che l’hai atterrata a’ tuoi piedi. Vedi come caldo sbocca da larga ferita il sangue! Bevi, saziatene, omicida!… guata quel volto pallido, quelle chiome arrovesciate, quello sguardo errante, quel lento boccheggiare; quel rantolo…. Ma sta; sentesi uno strido., un urlo prolungato… Dio; Dio! è una madre, una sposa; son bamboli innocenti che gridano vendetta… Tu fuggi? Ah lo senti ora, disgraziato! lo senti che se’ diventato un Caino!…. Or va e credi al mondo.  Pure il mondo per sì poco non si sbigottisce, e dopo tanti fiumi di sangue che ha fatto spargere colle stolte sue massime, freddo e tranquillo pur ripete: chi non si batte infame. – Vo’ smentirlo con un bell’esempio, che lessi, non ha molto, nella strenna d’ogni mese, che si pubblica a Firenze da un bravo e valente amico de’giovani La sera del dì 15 settembre 1846 in un casino di campagna presso Santiago di Cuba, cenavano allegramente col capitano inglese Starldey parecchi americani e spagnoli, che dovevano partire al domani con lui per la Giamaica; e come il capitano recava a quel viaggio parecchi negri da lui fatti liberi, cosa che quegli americani, fautori della schiavitù, vedevano di mal occhio, vennero con lui a tal questione; che presto degenerò in animatissimo alterco; a mezzo quale certo il De Pastro avendo lanciata una villana ingiuria contro lai Regina d’Inghilterra che vieta la tratta de’ negri, il capitano Starkley non poté più contenersi, e levatosi in furia e dato di piglio ad un bicchiere, l’avventò contro il De Pastro, dicendogli: Sciagurato! così parli della mia regina?…. Tutti si levarono in tumulto; il De Pastro faceva sangue dal viso: ma più che quella ferita gli cuoceva l’ingiuria; di che pensando satisfare all’onor suo, sfidò a duello il capitano. – Quella sfida parve a tutti (amici e devoti quali erano della BESTIA) la cosa più naturale del mondo, e non che opporsi, mostrando apertamente d’approvarla, chi si esibiva padrino, chi proponeva l’ora, il giorno, il luogo, fin l’armi. Anzi (a proposito dell’armi) vi fu lo zelante, che tratte fuori due pistole belle nuove e lucenti, le mise sulla tavola sotto gli occhi del signor Starkley. Il quale, mostrato il suo dispiacere d’avere in quell’impeto subitaneo ferito il De Pastro, e chiestogli scusa del suo trasporto: Quantoal duello, soggiunse, non posso accettare, perchè… perchè lo stimo, un delitto. — Perchè sei un vile! — gli ripicchiò furibondo l’avversario. A quest’insulto il capitano sentì come una vampa di fuoco salirgli alla testa, gli si oscurò un tratto la vista, e tremava come una foglia. Pur si contenne, e per quella sera non ne fu altro. Al domani egli era pronto sul suo vascello; il Nettuno, ad accogliere i passeggeri. Gli sfilavano davanti i commensali della sera innanzi e il guardavano con cert’aria di compassione. Il capitano dissimulava. Ma allorchè passando il De Pastro gli lanciò contro la seconda volta la parola vile, il capitano afferrollo pel braccio e con voce alta e concitata, che tutti e passeggieri e marinai poterono intendere: — Signor De Pastro (gl’intimò), vi prego a ricordarvi che qui son capitano; o rispettate la mia autorità, o vi metto agli arresti. – Di lì a poco dava il comando di salpare. Sul legno tutto era in ordine, regolarità, disciplina perfetta: il capitano era esperto del suo mestiere, e uso da lungo tempo a farsi obbedire. E già dopo pochi giorni di prospera navigazione, s‘avvicinavano all’ isola di Giamaica; quando di nottetempo, mentre i passeggeri tranquillamente dormivano, s’ode un grido: al fuoco! Al fuoco! — Tutti si levano in sussulto, salgono sulla tolda, veggono con spavento con ispavento levarsi da poppa globi di fumo misti a scintille; quindi un urlo prolungato, e pianto di femmine, e strillar di bambini, e correre qua e là, e chiedere l’un altro e cercarsi e urtarsi e chiamarsi. a vicenda … Ma ecco in buon punto farsi avanti il capitano Starkley, e con voce stantorea:— Fermi tutti; sentite. Il mozzo ubriaco appiccò il fuoco all’alcool; la stiva è in fiamme, né v’ha speranza d’estinguerlo; bisogna salvarci prima che il fuoco: giunca alle polveri. Qui un nuovo urlo di terrore. I marinai si slanciano alla scialuppa per fuggire. — Fermi, ho detto (ripiglia con voce tuonante il capitano); chi primo osa infrangere i miei ordini, una palla di piombo. — E mostrò la bocca della pistola: l’argomento fu efficace; i marinai tornarono al dovere. — Ora s’allestisca la scialuppa grande, ripigliò il capitano. E come fu pronta, piantatosi al luogo della calata con a foanco quattro de’ più robusti marinai: – vengano prime le donne, i vecchi ed i fanciulli. — I chiamati s’affollarono e mentre scendevano uno dopo l’altro n vietato nella scialuppa, s’ode in fondo al vascello un sordo scoppio e levarsi come lampo le fiamme. Tutti i passeggeri per un moto istintivo si precipitano verso la scala, il De Pastro tra i primi, che malamente urtando una fanciulla per poco non la trabalza nel mare. Il capitano lo respinse di forza con ambe le mani, e: — indietro, signor De Pastro! indietro tutti!…. Marinai, il primo che muove gettatelo in mare. – Così tornato l’ordine, aiuta a discendere le donne, e come la scialuppa fu piena: — tagliate la corda e andate al nome di Dio, voi siete salvi. Presto, l’altra scialuppa. — La scialuppa fu tosto pronta. — Vengano gli altri passeggieri. Signor De Pastro; venite pure, ora è la vostra volta. Il De Pastro gli passò davanti umiliato e confuso; i compagni che la sera avanti avean preso le sue parti, ora sfilavano davanti all’intrepido Starkley, quale stringendogli la mano, quale rallegrandosi con lui: — bravo, signor capitano! così va fatto. Voi siete un uomo! Ed egli: — non è tempo di complimenti. Lesti, scendete. E come vide piena e in salvo la seconda scialuppa: — Ora a noi (disse volto a’ marinai); è pronto lo schifo? — Pronto. — Scendete. Lo schifo era piccolo, i marinai vi capivano a stento. Potete ricevere ancora una persona? chiede loro il capitano. I marinai credendo dicesse di sé, benché lo schifo minacciasse far acqua: — Si, venga, signor capitano. — A queste parole Starkley si china, piglia di peso, come fosse un sacco, il mozzo briaco e addormentato che aveva appiccato il fuoco e porgendolo a’ marinai: — Giacché c’è posto, pigliate ancora questo disgraziato. — Consegnatolo; tira un respirone e: — Lodato Dio! tutti salvi. — E lei, signor capitano?…. gli chiedono i marinai impazienti di sferrare. — Basta; il mio peso vi farebbe pericolar tutti. Lesti, partite; e se incontrate qualche barca, avvertitela che qui ci ha ancor una vita da salvare. Lo schifo partì: il capitano rimase a guardar le fiamme che si levavano stridenti e vorticose all’altezza dell’albero, e sempre avanzandosi s’appressavano alla polveriera. S’aspettava da un istante all’altro il terribile scoppio, e raccomandavasi a Dio. Ma Dio vegliava sulla vita. del prode. Una barca che da lontano aveva scorto l’incendio giungeva in tempo a salvare l’intrepido capitano, che marinai passeggieri ed isolani accolsero con grida frenetiche alla spiaggia, come fosse un Dio salvatore. In quel momento certo non venne in mente a nessuno (neanche al De Pastro, ci scommetto) che il capitano Starkley fosse un vile. E voi, cari giovani, che ne pensate?

VII

DOPO IL DUELLO IL SUICIDIO.

Ora dirò d’un altro duello accaduto anni Domini in una città d’Italia nostra, che per dengi rispetti non si nomina.  Trovavansi a ciaramellare parecchi giovinotti in un caffè. Un bizzoso, di nome Federico, punto da non so che celia di Martino, lo sfida a duello, e Martino: — Accetto, risponde. Si fissa il dimani, ora, luogo, padrini… E l’armi? — L’armi, tocca a me la scelta (risponde Martino): le porterò dimani sul luogo. — Così intesi, si separano. Al dimani alle dieci del mattino in un pratello remoto chiuso di folti alberi all’intorno, irrigato da un canaletto d’acque limpide e freschissime, Martino se la passeggiava su e giù col padrino, aspettando il rivale; e novellavano tra loro di non so che, così lieti e spensierati, che nessuno avrebbe detto: son li per un duello. Di lì a poco arrivano parecchi compagni, anch’essi allegri e ridenti. Martino gli accoglie con festa li fa entrare in un folto di roveri li presso, e: — cheti (lor dice); appena vedrete rosseggiare «il primo sangue… siamo intesi. — Gli amici rispondono che sì, e s’appiattano. Martino si rifà daccapo a misurare passeggiando il campo, e non avea dato ancora due volte, che sì vide comparire, con al fianco il suo bravo, padrino, Federico; vestito a nero, con guanti bianchi, viso pallido, capelli rabuffati, occhi stravolti…. Poveraccio! ei non aveva chiuso occhio tutta la notte; agitato dal pensiero del duello, occupato a scriver lettere, ordinar suoi affarucci, stendere una specie di testamento e (cosa più ghiotta) certa letterina profumata…. che diceva così: — Un villano insulto da vendicare mi strascina a duello. Se soccombo, ricorda il tuo Federico, e che per non rendersi indegno di te, ha sacrificato all’onore la vita. — Giunto dunque sul luogo, e abboccatosi col rivale: — suvvia, l’armi! dimanda con feroce cipiglio. E Martino: — eccole!… e trae dalle tasche due salami lunghi un braccio. E come l’altro mostravasene scorrucciato; quasi di scherno: — Se queste non accetti (entra a mezzo il padrin di Martino) non potrai rifiutare quest’altre…. E presenta due bottiglie di Madera: — Oppure queste! Sottentra l’altro padrino, ch’era anche lui della cricca; e ne mette fuori due altre di Sciampagna. Federico, al vedersi così assalito, tradito dal suo stesso padrino, rimane allocco. I compagni nascosti, visto il segno del sangue, cioè il vino, saltano dalla macchia, traggono fuori anch’essi alla lor volta, chi pane, chi frutta, chi cacio, chi un bell’arrosto; e tutti dattorno all’eroe trasognato, si mettono a fare un diavoleto, che, volere o no, gli fu forza accettare quella nuova maniera di sfida; e così tutto finì con un’allegra merenda, sdraiati sull’erba, al rezzo delle piante, al canto degli uccelletti, al mormorar del ruscello… Che cosa volete di più poetico? non sarebbe proprio da farci un sonetto?… Provatevi; io ripiglio il mio discorso e dico che di certe massime storte la miglior cosa è farne commedia; e quanto più il mondo mostra spacciarle sul serio, più farsi animo a ridergliene sul muso. E quel che ho detto del duello s’ha ad intendere (chi ne dubita?) di quell’altra barbarie del suicidio, divenuta anch’essa, in questo che chiamano civilissimo secolo, purtroppo comune. E non dico già che l’umano rispetto ne sia la sola cagione: e c’entra senza dubbio e il bollimento delle passioni e la frenesia del godere, e il contagio dell’esempio, e l’estinguersi della fede… Che volete faccia, al sopravvenirgli di grave sventura, un miserabile, ché tenendosi bestia senz’anima immortale, aveva posto ogni sua beatitudine ne’ godimenti della vita? Davvero, dacché è infelice, o sel crede, non ha più ragione d’esistere costui: quindi padrone d’andarsene, la commedia è finita per lui. Ma il mondo in questo spaventoso moltiplicarsi di suicidi ci ha anch’egli la sua parte; che, oltre al predicar che fa: beati i ricchi! beati i godenti! e favorire le nuove dottrine che ci pareggiano al ciacco, applaude per lo più o il men che sia, scusa assai facilmente i vigliacchi che fan getto della vita. E apposta li chiamo vigliacchi, che non hanno coraggio a sostenere il peso della sventura; e li metto con que’ soldati che disertano il campo quando più ferve la battaglia, e incalza il pericolo. Questi soldati cosiffatti come li chiamate? vigliacchi e infami, non è vero? E infame e vigliacco è dunque il suicida. Domandatene a Virgilio, che addisse ad eterni cruciati coloro … Qui sibi lethum …. peperere mani, lucemque perosi, Proiecere animas. Domandatene. Dante che creava un cerchio del suo Inferno apposta per quelle anime feroci che da se stesse sî divelgono dal corpo, e le puniva incarcerandole in arbusti spinosi. Così la pensano i savi, così, d’ogni saviezza maestra, la Chiesa, che al suicida volontario, come a chi muore in duello, nega i pubblici suffragi e l’ecclesiastica sepoltura. Sebbene; quanto a Dante, se in leggendolo siete giunti almeno al principio del Purgatorio, vi avrà scandalizzato non poco, come accadde a me da ragazzo, quell’abbattervi nel suicida Catone, posto, lì dal poeta, quasi a guardia e custode del sacro monte. Ma non confondiamoci, giovani miei; l’idea che ha Dante dei suicidi si par chiara abbastanza dall’averli messi a dirittura tra’ dannati. Quanto a Catone, ci sta qui, non come persona reale, ma com’essere allegorico; convien quindi spiegarlo in conformità all’allegoria del poema; quell’allegoria, dico, cui Dante stesso accenna nella sua famosa lettera a Can Grande della Scala, quella che seguirono fedelmente gli antichi commentatori; ed è schiettamente religiosa e morale. Or secondo questa (ponete mente) Dante che, smarritosi nella selva selvaggia e aspra e forte n’esce con Virgilio a visitar l’inferno, ci significa l’uomo vizioso e peccatore, che atterrito alle funeste conseguenze del vizio, fa sforzo di levarsene per avviarsi al sentiero della virtù. Questo sforzo, il più bello e per avventura il più penoso che uom possa fare, ci è figurato in Dante medesimo, che tocco il basso fondo dell’inferno, s’appiglia alle vellute coste dell’immane Lucifero, e scende con Virgilio, … di vello in vello tra il folto pelo e le gelate croste; finché giunto all’anche del mostro, che rispondono al centro della terra quivi (vedete fatica di chi spogliasi il vizio e mutasi in altro uomo) … con pena e con angoscia, Volge la testa dove avea le zanche; e pur seguitando a salir pelo pelo, riesce all’emisfero di là, dove sorge il monte del Purgatorio, simbolo del cammino della virtù. Qui appunto a guardia del sacro monte, trova Catone, quel Catone, che, udita la vittoria di Cesare; né volendo soggiacergli, per amor di libertà si sciolse volontario dai legami del corpo. Di che potete facilmente scorgere, come questo suicidio catoniano ci sta qui, non propriamente per suicidio, ma come simbolo espressivo di quel nobile sforzo che ho detto, per cui l’uomo, dianzi vizioso, si libera dalla schiavitù del corpo e delle passioni, per volgersi a virtù e rivendicar. lo. spirito immortale alla vera libertà dei figli di Dio. – Menatemi buona questa digressione letteraria, a cui so io perché mi son lasciato andare, e mi rimetto tosto in careggiata.

QUARESIMALE (II)

QUARESIMALE (II)
DI FULVIO FONTANA
Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

(Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)


PREDICA SECONDA


Nella Feria quinta delle Ceneri.


Si mostra quanto meriti di rimprovero, e di castigo un Cristiano che non corrisponde ad un sì santo nome con le opere.

Filii autem Regni ejicientur in tenebras exteriores.
S. Matt. cap. VIII.

Mala nuova! R. A. Si protesta Iddio, che il popolo a lui fedele sarà punito con castigo il più severo, che abbia preparato a’ suoi ribelli la Divina Giustizia, che vale à dire con un’inferno di pene: Filii autem Regni ejicientur in tenebras exteriores. Tutto bene mio Dio, né v’è chi possa opporsi a’ vostri Santissimi Decreti; bramiamo sol sapere la cagione di tanto sdegno; e non vi par giusto, replica Iddio, che Io debba adirarmi, mentre ritrovo più fede nel cuor d’un Gentile, che d’un fedele? …non inveni tantam fidem in Israel: Il mancamento dunque di fede volete punire con pene eterne? Fortunati noi; sento ogn’un, che dice, tali castighi non faranno fulminati ai nostri danni, perché a noi non manca la vera fede, godiamo del nobil titolo di Cristiano. Piano, non così dico io, perché non basta godere un sì bel titolo, ma a questo vi vuole la corrispondenza delle opere, e allora sarete esenti da’ suoi giusti sdegni. Contentatevi dunque, che io questa mattina vi mostri, che quanto fate bene a gloriarvi d’un si bel nome di Cristiano, altrettanto meritate di rimprovero, se non corrispondete ad un sì santo nome con le opere. Rallegratevi pure , miei UU. giacché con fronte aspersa d’acque battesimali, vantate il bel nome di Cristiani; Ah sì, sì, non vi è lingua, né d’uomo, né d’Angelo, che possa abbastanza spiegare la grandezza di chi porta impresso indelebilmente nell’anima il nobile carattere di Cristiano. Cristiano, sapete quello che vuol dire? vuol dire esser Principe del Sangue, non di Principi, non di Regi, non d’Imperatori della terra, ma del Sangue Divino. O che titolo sublime, o che nome glorioso è mai quello di Cristiano, nome veramente, ardirò di dire, sopra ogni nome. Fu pur stolto Sapore re di Persia; mentre, con vanto, non meno arrogante che bugiardo, era salito intitolarsi discendente delle Stelle, fratello del Sole e della Luna. Così appunto s’intitolò, quando scrisse all’Imperatore d’Oriente, Sapor particeps Syderum, frater Solis, Lunae. O che vanto spropositato; ma quando anche fosse stato vero, che gloria farebbe mai esser fratello del sole e della luna, mentre una formica, perché vivente, è più nobile senza paragone di tutte le Sfere, e di quanti pianeti ornano i cieli; Ah, che il vero pregio è l’esser Cristiano, egli è fratello del vero Sole di Giustizia, che è Cristo, Ille meus frater, soror est. Ma quanto fu stolto, miei UU. Sapore Re di Persia, altrettanto fu savio San Lodovico Re di Francia , il quale tanto si gloriava del bel nome di Cristiano, che era solito di soscriversi Lodovico di Poisy, perché in quella nobile Città era stato battezzato. Deh miei UU. date adito alla luce del Cielo, perché vi scopra la nobiltà di questo gran nome di Cristiano. Ah, che se voi daste ad una tal luce la via aperta, non andreste più in cerca di titoli mendicati in questo mondo, e chi li possiede nulla li stimerebbe, ma solamente si prezzerebbe questo titolo di Cristo, e questo solamente farebbe la nostra nobiltà, la nostra gloria, l’antichità della nostra famiglia. Volete meglio conoscere la grandezza di chi è Cristiano: datemi mente. Voi ben sapete, che quel che rende sommamente riverito lo stato d’un Primogenito Reale, sono quelle due prerogative, la nobiltà della nascita, e l’eredità che attende; e questi appunto sono quei pregi che rendono venerabile fino agli Angeli un Cristiano. Qual è mai, Dio immortale, la nascita d’un Cristiano! Taci pure o Poeta adulatore, non mi stare a dire a Cesare, nate sanguine Divum, nato dal sangue degli dei, poiché il tuo parlare non è altro che una svergognata menzogna. Non può esser nato dal sangue degli dei chi è nato dal sangue di peccatore. Il Cristiano sì, che può dire con verità d’aver sortito da Dio medesimo i natali, mentre è rinato nel Santo Battesimo, qui non ex sanguinibus, sed ex Deo nati sunt … Né solo questo nome di Cristiano porta a voi un sì bel pregio d’una nascita sì sublime, quanto l’essere figli di Dio, Filios Dei fieri; ma di più vi dà il diritto il jus alla eredità del Paradiso. Si filii, bæredes, hæredes quidem Dei. O Dio, che pregio è mai questo del Cristiano, essere in stato d’ereditare il Paradiso … Ma, a che serve essere insignito d’un sì bel nome, se poi non si corrisponde con le opere? Questo è appunto come avere una patente d’onore senza soscrizione e senza sigillo. Christianum esse, grida ad alta voce San Pier Damiano, magnum est, non videri, è grande, è sublime, dice il Santo, la gloria del nome di Cristiano; ma non è né sublime, né grande quando non vi sia altro che il nome. Non si merita, no, nome di Fedele, chi non vive una vita degna della sua fede; e se voi, miei UU. ne porterete il nome senza le opere, vi tirerete addosso i rimproveri di tutta la Corte Celeste; giacché, come asserisce Salviano: atrocius sub tanti nominis professione peccator. Ecco dunque, che contro di voi o Cristiani di nome e non di fatti, esclamano i Santi Patriarchi, e vi dicono: Noi, quantunque nati prima di Cristo, fummo Cristiani, come asserisce Sant’Agostino, non di nome, ma di fatti, re non nomine, e come tali eravamo tutti viscere di pietà verso del nostro prossimo, come tali, non ritenevamo rancori nel nostro cuore, come tali eravamo staccati da ogni affetto terreno; ma voi, che siete venuti al mondo in tempi tanto più felici de’ nostri, nati in seno alla Chiesa, nutriti col latte della vera credenza, nulladimeno avete sì bruttamente tralignato detta vostra nascita, siete vissuti tra gli odj, vi siete immersi negli interessi, seppelliti nelle difonestà; sì, sì, noi fummo Cristiani, re non nomine, ma voi lo siete di solo nome. Ah, che se potessero alzare la testa dalla loro tomba i fedeli della primitiva Chiesa; o questi sì, che vedendovi insigniti di quel nome da loro tanto stimato, vi rimprovererebbero atrocemente, dicendovi: voi Cristiani? Noi altresì fummo Cristiani, ma quanto dissimili da voi. Noi all’udir solo nominare il nome di Cristo, ci struggevamo di devozione, e voi col nome di Cristo prendete à sfogar le vostre rabbie, ad autenticar le vostre frodi, à ricoprir le vostre ribalderie: noi eravamo sì lontani dalle impurità, che più gran tormento si stimava l’essere strascinato ai lupanari, che l’esser dato alle fiere; e voi con i vostri impuri costumi contaminate tutta la vostra vita .. Che direbbero quei Padri di famiglia della primitiva Chiesa: Noi si direbbe fummo veri Cristiani, perché fu somma la cura, che tenemmo de’ nostri figliuoli e figliuole, ma voi? Che direbbero i mercadanti della primitiva Chiesa; le nostre compere, le nostre vendite, i nostri traffici eran tutti sinceri, non si vendeva da noi con giuri, con spergiuri; ma voi? Che direbbero i nobili della primitiva Chiesa? La nostra nobiltà ci serviva per proteggere la virtù, per opprimere il vizio, per sollevare il povero; ma voi? Che direbbero le donne della primitiva Chiesa: Non v’era in noi vanità, tutto modestia era il nostro vestire, modeste per le strade, modestissime nelle Chiese; e voi? Che direbbero finalmente gli Ecclesiastici della primitiva Chiesa? Direbbero: Il principal nostro pensiero, se presedevamo alle anime, era condurle à Dio; del patrimonio Ecclesiastico se ne facevan tre parti, alla Chiesa, ai Poveri, a Dio; per noi la peggio, sempre ritirati da bagordi, sempre oranti nelle Chiese, penitenti nelle camere; e voi? Che rispondete a questo rimprovero? bisogna dichiararsi convinti, e asserire, che siete Cristiani di nome, e non di fatti; e quando ardiste negarlo, presto, presto sareste convinti dal fatto, interverrebbe a voi ciò, che in altro proposito intervenne al Vescovo Bellovacense; uditene l’Istoria. Mentre gli Inglesi combattevano già in Francia, questo Prelato dimenticatosi delle sue proprie armi, che erano le Orazioni, si armò da Capitano: e combattendo con gli altri, rimase prigione del Re d’Inghilterra: Giunta questa nuova in Roma, Celestino Terzo, Sommo Pontefice, scrisse lettera efficacissima al Re vincitore; acciocché si contentasse di liberare il Prelato dalla carcere. Or sapete, miei UU. qual fu la risposta che il Re diede al Pontefice? Eccola; gli mandò, per spedito a posta, l’Usbergo, la Corazza, l’Asta, il Cimiero, e tutti gli altri arredi de’ quali era fornito il Vescovo prigioniero, con l’aggiunta di queste poche parole: Vide utrum tunica Filii tui fit, an non … quasi volesse dire: Santo Pontefice, voi mi chiedete la liberazione dalla carcere di un Vescovo vostro Figlio, ma v’ingannate: Quello che è mio prigione, non è vostro Pastor sacro, è un Capitano d’esercito, Vide, utrum tunica Filii tui fit, an non? Ah miei UU. che tanto appunto si può dir di voi; se voi vorrete opporvi al processo, che contro di voi hanno formato i Santi, con dire, che siete Cristiani anche di fatti, ecco, che senza replica vi convinceranno con la numerazione di tanti vostri peccati, in pensieri, in parole, in azioni indegne, ecco, che vi convinceranno con quella robba, che malamente possedete, con quelle lettere cieche, con quei memoriali iniqui che stendeste, con quelle macchine che ordiste per rovinare il vostro prossimo, e rivoltati con sommo sdegno verso di voi, vi diranno: Tu dici d’esser Cristiano? Mira, se queste sono le armi proprie d’un Cristiano; è questa la sopravveste d’un Fedele? è questa quella stola di cui fu vestita l’anima tua nel Battesimo, Vide, utrum…  No, che non è, e però, o spogliati di quel bel nome di Cristiano, o cambia i tuoi scellerati costumi, aufer Cydarim, tolle coronam, vi dirò anche io col Poeta; altrimenti questa corona sì bella non ti ornerà di vantaggio di quella che orni un re da scena colà nel teatro: Sarai chiamato Cristiano, ma per verità non sarai. Né qui finiscono le vostre disgrazie, o Cristiani di nome e non di fatti, perché a rimproverarvi s’uniscono i lamenti di Chiesa Santa, e le querele di Dio: Poveri voi, e che sarà di voi? Ecco le parole di Rut. al cap. primo, Ne vocetis me Noemi, sed vocate me Mara; lo, dice Santa Chiesa, quantunque sempre bella, e sempre santa, per la santità del Capo, che è Cristo, e per la santità di molte membra, che fono i Santi, i quali di continuo mi vivono in seno; ed è pur vero, che per la vita scorretta di tanti Cristiani, che col Battesimo in capo vivono indegnamente, non posso più chiamarmi bella, ma addolorata, ne vocetis me Noemi, sed vocate me Mara. Tempo già fu che le mie chiese eran rispettate, e sol vi si entrava per orare; ma ora non vi si sentono che cicaleggi, che novelle. Tempo già fu, che i miei Sacramenti eran rispettati; ma ora tal’uno si porta a questi con coscienza rea. Tempo già fu, che le mie Feste erano rispettate; ma ora le vedo profanate con giochi, con balli, con bagordi. Tempo già fu che nelle Feste non si poneva mano al lavoro, ora, e si lavora, e si vedon talora spalancate le botteghe ad ogni contratto. Tempo già fu, che i miei digiuni erano osservati; è giunta l’ora, che del tutto sono strapazzati; non si voglion vigilie, non si vuol Quaresima; e con mendicati pretesti strappan di mano de’ medici le licenze surretizie; Nolite, nolite vocare me Noemi, sed Mara. Questi sono i lamenti della santa Chiesa contro chi è Cristiano solo di nome, e non di fatti. Più terribili sono però le querele di Dio, uditele dalla bocca del suo Profeta: si inimicus meus maledixisset me, sustinuissem utique; se un Turco, allevato nel porcile della vile setta di Maometto, che altro paradiso non ha in cuore che il paradiso delle bestie, se questi, dico mi strapazzerà, avrà qualche ombra di scuse, da quelle tenebre d’ignoranza, nelle quali nacque. Se un Irochese mi vilipenderà sarà in qualche modo degno di qualche scusa perché nacque tra le selve, e fu allevato dalla madre, più da fiera, che da uomo; ma tu o Cristiano, tu vero homo unanimis, qui simul mecum dulces capiebas cibos dux meus, et notus meus; ma che tu m’offenda, o Cristiano, non lo posso tollerare; tu, che succhiasti col latte la vera Fede; tu, che avesti questa gran sorte; che tu poi ti sia scordato della tua nascita, ti sia dimenticato della tua dignità, e perciò ti sia dato ai piaceri, agli interessi, alle vendette indegne; e per soddisfare a queste, abbia voltate le spalle al Cielo, al Paradiso, alla mia grazia, a me. O questo sì, che non l’intendo. Io non posso capire, che qui nutriebantur in croceis, amplexati sunt stercora. E quel che è peggio, ed è purtroppo vero, tu in questo fango di peccati non vi sei caduto à caso, per tua malasorte; ma perché vi sei voluto cadere, non una, ma mille volte; e tra questo fango ti ci sei immerso per delizia, te lo sei stretto al seno per felicità, amplexatus es stercora; onde è, che da niuno meriti compassione, e perciò niuno ti ajuterà, quis miserebitur tui Jerusalem, quis contristabit pro te, quis ibit ad rogandum pro te … niuno, niuno, dice Geremia. O va’ pure misero Cristiano di nome, vedi, se ti torna conto vivere senza opere di Cristiano, mentre contro di te vien formato un processo sì terribile da’ Patriarchi, da’ Fedeli, dalla Chiesa, da Dio. Che rispondi? Taci, che a tua confusione sarai ripreso dalli stessi Gentili, che privi d’ogni lume di fede, che poveri d’ogni grazia di Sacramenti non però commisero delitti pari ai tuoi. Io, dirà uno Spurina; quantunque illustre di sangue, e vago di volto, perché mi accorsi d’esser ad altri d’inciampo, non guardai à deformarmi con più ferite il volto, ove restarono alte le cicatrici, volendo più tosto riuscir men vago, che men casto. E voi Cristiani, che rispondete? dice Sant’Ambrogio, che ne riferisce il fatto, converrà diciate, che con abiti pomposi, contanti affettati abbigliamenti altro non faceste, che dare alle anime incentivi più veementi d’iniquità. S’alzerà dalla tomba Anassagora, il quale quantunque nulla possedesse, salvo, che un piccolo podere paterno, se ne spogliò, per esser privo di questo ingombro, e però più spedito all’acquisto delle scienze umane. E voi Cristiani, che direte? Voi, che tutto l’affetto ponete nella robba. Voi, che ogni vostro studio mettete in acquistar di qua, scordati affatto d’acquistare per di là. Sorgeva dalle sue ceneri Torquato, il quale non avendo altro amore in terra, salvo quello verso del suo figlio, e figlio Console, lo volle morto, non per altro, se non per aver violata la militar disciplina, quantunque con esito prospero, felice, e vittorioso. Padri di famiglia, madri di famiglia, capi di casa, ma vuoti di cervello, quali rimproveri non sentirete voi da Torquato, merceché, con amor disordinatissimo amando i vostri discendenti, gli lasciate con la briglia sul collo, sicché si ricreino per ogni prato, per ogni via, per ogni casa, ne’ bagordi, nelle veglie, ne’ balli, ne’ teatri. Ecco Focione sì rinomato tra Greci, il quale vi fa sapere, come egli, quantunque avesse illustrato il suo nome con opere egregie, fosse condennato à morte per invidia de’ suoi maligni; Ad ogni modo, prima di bere il veleno, che doveva ucciderlo, ricercato da’ suoi amici presenti allo spettacolo qual fosse quel ricordo che egli per bocca loro volesse lasciare al figlio lontano, rispose tutto cuore, e intrepido: questo è il ricordo, che io gli lascio, e diteglielo, che si scordi delle ingiurie fatte a me suo padre, e a chi mi preparò su di questa tazza il veleno renda bene per male. Guardami in fronte, o Cristiano temerario, e a confronto di Focione inorridisci. Tu, che vorresti con i tuoi medesimi denti sbranare il cuor de’ tuoi nemici; né contento d’esser solo ad odiarlo, vuoi, che teco s’unisca il parentado, e gli amici, e che la tua nemicizia passi per eredità ne ‘ tuoi discendenti. O che rossore sentirsi rimproverar da barbari: Tu nato in grembo alla Religione, tu fra tanti oracoli di scritture, fra tante dottrine de’ Padri, fra tanti esempi de Santi, vivesti come barbaro? E noi ciechi à tanti lumi vivemmo con massime di Cristiano; a ragione esclama Cristo per San Matteo, Viri Ninivite surgent in Judicio cum generatione ista, condemnabunt eam. Lamentatevi pure, o mio Dio, che ne avete ragione; mentre quelli che doverebbero gloriarsi del bel nome di Cristiano, sono arrivati a segno, che se ne vergognano; Si vergognano si d’esser stimati Cristiani, che perciò s’arrossiscono di esser veduti lungamente genuflessi avanti gli Altari, ond’è che vi stanno con l’irriverenza d’un sol ginocchio piegato; peggio, con le spalle voltate al Santissimo; si vergognano d’esser veduti con l’officio, con la corona in mano, e perciò passano le ore nella Chiesa ciarlandovi. Si vergognano di frequentare i Santissimi Sacramenti, e perciò passano i mesi, per non dir gli anni, che non si prostrano a’ piedi d’un Confessore, e non si accostano à cibarsi del Pane degl’Angeli. Dio immortale, il turco non si vergogna a vivere da turco, l’eretico da eretico, il gentile da gentile, l’ebreo da ebreo, solo il Cristiano si vergogna di comparire da Cristiano. Non così fecero i Santi, che per comparir veri Cristiani diedero la vita. Lasciossi pure arrostir nella graticola un Lorenzo; tollerò pure un’Agata le mammelle recise; sopportò pure l’atrocità del ferro una Lucia, per apparir per quei Cristiani, che erano. Per tale pure volle comparire a costo di sangue svenato quella grande Eroina Santa Solangia, di cui ne narra l’Istoria il Padre Eschenio. Era questa una povera pastorella, priva bensì de beni di fortuna, ma tanto più ricca de’ doni della grazia, nata d’umili vignajoli nelle vicinanze di Berri d’Aquitania, ma di tal venustà, che difficilmente se ne poteva trovare una pari; più bella però era nell’anima, perché innocentissima, e ritirata da ogni ombra di vanità, devota oltremodo, ma specialmente verso la Madonna, a cui aveva consacrata la sua verginità. Guidava questa verginella un picciol branco di pecorelle, e allorché queste si pasturavano, ella, genuflessa sull’erba, s’immergeva nelle orazioni, e ben spesso s’udiva replicare Gesù Sposo mio, à voi consacro questo core. Una tanta luce di venustà e di virtù non poté star nascosta, e arrivò a notizia di Bernardo Conte di Berri, il quale fingendo di portarsi alla caccia, giunse al prato, ove la donzella, non molto lungi dalla sua gregge, genuflessa orava, e appena la vidde, che ne restò preso: scese prontamente da cavallo, salutolla cortesemente, e gli soggiunse, che ella non meritava sì vil mestiere; vi voglio contessa di Berri, vi voglio per mia sposa: dite, parlate. L’innocente donzella s’impallidì, si raccapricciò; indi con parole pesate, rispose: il mio Sposo è Gesù, maggior d’ogni re terreno. S’inasprì il Conte al rifiuto delle sue nozze, e la donzella si pose in fuga; seguilla il Conte, la prese, la gettò sul collo del cavallo; indi montato, dato di sprone, già la conduceva. Raccomandavasi in tanto a Dio la donzella; quando ecco, che nel passar d’un fiume, allorché il Conte pensieroso attendeva al guado, ella bramando più la verginità che la vita, si gettò nelle acque, e via guazzando si rimise in fuga; quand’ecco il perverso cavaliere infierito, disse: giacché non mi vuoi per consorte, m’avrai per carnefice: la raggiunte, e datogli un colpo sul collo, gli troncò la testa. Rimase in piedi quella verginella cosi decapitata, e prese in mano la tronca testa, e così la portò con egual prodigio di San Dionigi à depositarla nella Chiesa di San Martino, ove sepolta, fu glorificata da Dio con stupendi miracoli. Or questa sì, che volle comparir per Cristiana. Se bene, a che stancarmi per persuaderli a voler comparir per Cristiani; mentre nella mia udienza vi saranno di quelli che non solo non vogliono comparire per Cristiani, ma vogliono comparire a tanta forza per eretici, per Maomettani, per Ebrei, per Gentili; e di loro si può dire, fideliter credunt, gentiliter vivunt, perché vivono come se non vi fosse ne Inferno, né  Paradiso, né Giudizio, né  Anima, né  Dio; fideliter credunt, aggiungerò io, et Hebraice vivunt, perché sempre tra le usure, sempre con traffici illeciti, Fideliter credunt, et hebraice vivunt; si strapazzano le Chiese con enormi discorsi, si prendono sacrilegamente i Sacramenti, si vilipendono i Ministri dell’Altare, Fideliter credunt, et Maumetane vivunt, vivono da Turchi, con licenza brutale, senza guardare né  a sesso, né a condizione, né ad età. Passo avanti, e qui non mi fermo; e dico che Fideliter credunt, et diabolice vivunt, credono come Cristiani ed operano da diavoli. Piacesse al Cielo, che qui non vi fosse persona di tal sorte: quante volte avete distolto dal bene quel giovine; dissi poco, quante volte l’avete condotto al male; quante volte con perversi artifizi avete rovinata quell’anima. O Dio, Dio, che sarà di voi con un processo sì formidabile contro di voi. Le vostre scuse già le sento, non suffragano. Voi subito adducete ignoranza e fragilità; l’ignoranza non suffraga, perché à voi non son mancati predicatori evangelici, non libri, non padri spirituali; lo stesso Dio di continuo v’ha picchiato al cuore; se poi adducete fragilità, non nego che nella nostra creta, questa non vi sia, ma, perché non vi siete servito di ciò che poteva stabilirla, perché non siete stati lontani dalle occasioni, perché non avete frequentato i Sacramenti, perché non avete letto qualche buon libro? Siete voluti cadere a forza di volontà perversa; le vostre difese non valgono; onde non potete aspettarvi che sentenza di perdizione. Ricordatevi di quel che San Girolamo racconta di se stesso, che portato al Divino Giudizio, gli fu domandato chi era; rispose: Christianus sum, e sentì replicarsi, non è vero, Ciceronianus es; e per questo ne riportò percosse. Cristiani miei, allorché comparirete al Tribunal di Dio, e direte son Cristiano, no, sentirete rispondervi, perché non perdonaste le ingiurie; no, perché viveste tra tanti vizi; no, e così ne riceverete dannazione eterna.

LIMOSINA.
Chi è Cristiano, sa per fede, date et dabitur vobis, fate limosina, e non dubitate; e noi ci crediamo; appunto; si fanno limosine rarissime volte, quantunque la limosina sia di precetto in chi può farla, e non di consiglio. La vostra fede è morta, e non è viva.

SECONDA PARTE.

Quanti qui vedo, tutti siete bagnati d’acque battesimali, e perciò tutti Cristiani; e pure son costretto dire con quel nobile Cartaginese, allevato da giovine in Roma, allorché adulto vi tornò Ambasciatore per la sua patria; merceché trovando la virtù Romana decaduta dal suo antico decoro, esclamò, Romam video, sed mores Romanorum non video, vedo di nuovo Roma ma non vedo più i costumi de’ Romani; Christi fidem video, esclamo ancor io; sed mores Christianorum non video, trovo la fede di Cristo, ma non trovo la fede degli antichi Cristiani. Questi disprezzavano quanto era nel mondo di ricco, di specioso, di nobile, di dilettevole; e voi Cristiani d’oggidì, che fate tutto l’opposto, si vuole ogni contento, spassi, balli, ricchezze, e volete unire ancora alla Fede di Cristo le opere da demonio, che vale a dire sozzi piaceri, traffici illeciti; Christifidem video, sed mores Christianorum non video. – La fede, miei UU. ci fa Cristiani, ma le opere ci fanno buoni Cristiani. In Paradiso non ci vanno quelli che solamente sono Cristiani; ma bensì quelli che sono buoni Cristiani; è parola di Cristo, non omnis, qui dicit Domine Domine intrabit in Regnum Celorum, non entrerà in Paradiso, chi solamente invocherà il nome di Dio, sed qui fecerit voluntatem Patris mei; ma bensì chi farà la volontà di mio Padre, che vale a dire chi opera. O quanti sono quelli, che dicono molto, e nulla fanno; s’odono sempre le loro voci, ma non si vedono le loro opere; sciolgono la lingua, ma non le mani. A voi dunque, che avete la Fede di Cristo sol nella lingua, sol nella apparenza, e non nelle opere, predico la vostra perdizione, se non vi mutate; e ve la predico, come Tiburtio Senatore Romano profetizzò la dannazione di Torquato, quando rivolto a’ seguaci di Cristo disse loro: Voglia Dio, o Fedeli, che io non sia indovino: Torquato non morirà Cristiano; la sua fede è troppo discorde dalla sua vita; Egli è inimico delle astinenze, de’ digiuni, invece del Vangelo legge libri profani e dannosi, tutto è dedito al gioco, alle disonestà: Insomma, o fedeli; non vorrei essere indovino: Torquato non morirà Cristiano, perché la sua vita troppo discorda dalla sua fede; e infatti così fu, perché Torquato senza aspettare la violenza de’ tormenti, spontaneamente rinnegò Cristo; sicché, cacciato dalla comunione de’ Fedeli, morì apostata nelle braccia de’ demonj. – Voglia Dio, miei UU. che io non sia indovino di quanti qui siete, molti non moriranno nelle braccia di Cristo, ma si danneranno perché la loro vita è troppo discorde dalla fede che professano. Non morirà nelle braccia di Dio quella donna, che ad altro non attende che ad abbellire il corpo con ornamenti, ed ad imbrattar l’anima con vizj, che comporta, e lascia star la figlia con gli amanti, ma perirà tra i  demonj, se non si ravvede per tempo, e questo tempo non è nelle mani sue, ma in quelle di Dio, seco adirato; quanto dunque può temere di non averlo, se indugia; Perirà tra le braccia di Satanasso quell’uomo, che sta attaccato a quella mala pratica; perirà quel disonesto, quell’interessato, quel vendicativo, quello irreverente nelle Chiese, quel sacrilego, se non corrono ai piedi del Confessore con un vero pentimento, con un vero dolore. Perirà insomma ognuno, che avverrà i costumi simili a Torquato, perché simili nel vivere, simili altresì gli faranno in morte. Disingannatevi miei UU. Confessar Cristo con le parole, e poi negarlo con i fatti, è un mettersi nel numero infelicissimo di quelli che confitentur senosse Deum, factis autem negant; ed intendetela con San Gregorio, chi in Dio veramente crede, quello, che opera secondo quello che crede, ille solùm veraciter credit, qui exercet operando, quod credit.

QUARESIMALE (III)

VIVA CRISTO RE (18)

CRISTO-RE (18)

TOTH TIHAMER:

Gregor. Ed. in Padova, 1954

Imprim. Jannes Jeremich, Ep. Beris

CAPITOLO XXII

CRISTO, RE DELLA DONNA

All’inizio del quinto secolo dopo la nascita di Nostro Signore Gesù Cristo, Roma stava attraversando giorni luttuosi: dopo essere stata devastata dalle migrazioni di vari popoli, le truppe di Alarico avevano infine depredato la città, un tempo potente, lasciandola nella miseria dei mendicanti. I nobili pagani rimproverarono aspramente i Cristiani. “Voi siete la causa di tutto questo”, dicevano. “Noi? -, disse Sant’Agostino nel suo libro De civitate Dei, “noi, per aver abbattuto gli idoli? Al contrario: è perché ci sono ancora troppi idoli, perché voi credete ancora in essi. Per questo ci è capitata la disgrazia”. – Anche il mondo moderno scricchiola: è perché siamo Cristiani? Al contrario: perché non lo siamo, perché non seguiamo abbastanza Cristo. L’umanità, la società, la famiglia moderna hanno ancora troppi idoli. L’idolatria continua intorno a noi, abbiamo criteri pagani, abbiamo un concetto di vita completamente pagano, idolatriamo i piaceri, alla maniera dei gentili; per questo il mondo sta crollando. Abbiamo già visto nei capitoli precedenti dove andrà a finire l’umanità se si separerà da Cristo. Ora arriviamo ad un argomento nuovo e molto importante. Tratteremo la grande questione della donna, con questo titolo: Cristo, re della donna. – La “questione della donna” è senza dubbio uno dei problemi più banali del nostro tempo: il medico, il politico, il sociologo, il teatro, la letteratura parlano della donna; anche il Sacerdote deve parlare della donna. Esaminiamo il concetto di Gesù Cristo e della sua Chiesa nei confronti della donna. Vorrei chiarire due punti: I. A che punto è arrivata la donna con Cristo e II. Cosa ne sarebbe della donna senza Cristo.

I

Che cosa deve la donna a Cristo? Basta guardare la sua sorte prima che il Verbo si facesse carne: che vita umiliante aveva persino nella colta società greca! È noto che la maggior parte degli abitanti della Grecia era costituita da schiavi. Poiché agli schiavi era generalmente vietato sposarsi, ciò significava che la maggior parte delle giovani greche non poteva sposarsi. Pertanto, ciò che le aspettava era uno spaventoso degrado morale. E se una schiava si sposava, il suo matrimonio poteva essere sciolto a piacimento del padrone. La condizione delle donne delle classi superiori non era migliore. Il giovane greco era arricchito da tutta la cultura spirituale del suo tempo, mentre le ragazze sapevano solo ballare e cantare. Data questa grande differenza spirituale, non era possibile per l’uomo e la donna avere un rapporto ed un’unione perfetta, quella completa armonia senza la quale non è possibile una vita coniugale felice. Non è possibile una convivenza coniugale felice. Soprattutto se consideriamo che non è stato il giovane a scegliere la moglie, ma il padre. – E la situazione della donna nel matrimonio? Aveva un alloggio separato in casa e non poteva lasciare la dipendenza dalle donne, se non per le pratiche religiose; c’erano guardie speciali perché la donna non potesse mai uscire di casa. Quando il marito voleva divorziare, era libero dalla moglie. La moglie non poteva stipulare contratti d’affari, non poteva comprare, non poteva servire come testimone. Quando rimaneva vedova, il figlio maggiore era il suo tutore. Trovava almeno la sua gioia nei figli? Nemmeno in loro. Il padre aveva il diritto di decidere, il quinto giorno dopo la nascita del bambino, se voleva accettarlo o se preferiva mandarlo via a morire di fame. E quando il bambino era malato o il neonato era una femmina, non era difficile per il padre prendere una decisione in merito. Oggi è più difficile per la casalinga scegliere quale gattino tenere tra quelli appena nati. È spaventoso, ma è così che era. La donna greca non aveva dignità, non aveva libertà, non era amata e veniva privata di ogni tipo di diritto. Che il popolo greco, all’apice della sua cultura, sia rimasto indietro in termini di umanità e di elevazione morale, non lo attribuiamo al popolo stesso, ma alla meschinità umana, che vacilla nelle tenebre se non è illuminata dalla luce di Cristo. – E se questa era la sorte delle donne presso i popoli più civilizzati dell’antichità, cosa possiamo aspettarci dai popoli barbari? Possiamo meravigliarci che gli uomini si comprassero le mogli a vicenda e che il padre vendesse la figlia al pretendente? Che fosse in voga la poligamia? Che tutto il peso del lavoro fosse scaricato sulle donne? Buia, molto buia era la notte della donna prima di Cristo! E questa notte buia viene improvvisamente illuminata dalla debole luce della stella di Betlemme. Cristo sta arrivando; gioite, tutti voi oppressi, tutti voi peccatori, i poveri, i bambini, le donne…; gioite! Che cosa deve la donna a Cristo? In primo luogo, che l’uomo si sia degnato di parlarle come ad una persona di pari livello. Questa proposta non deve sorprendere nessuno. Agli scribi e ai dottori giudei era vietato parlare con una donna, anche se era loro sorella. Nostro Signore Gesù Cristo ha infranto questa regola umiliante. Cosa ci dice la Sacra Scrittura nel descrivere la scena in cui Gesù Cristo parla con la Samaritana? Quando i discepoli tornano dalla città e trovano il Signore che parla con la Samaritana al pozzo di Giacobbe, la Sacra Scrittura dice: “I suoi discepoli si stupirono che egli parlasse con quella donna” (Gv IV, 27). Ma il Signore non ne fu turbato e questo fu un passo decisivo a favore della valorizzazione e dell’emancipazione della donna. Ci sono, inoltre, le bellissime parabole del Signore, in cui ricorda così spesso in tono affettuoso i dolori, le sofferenze e le fatiche della donna. Socrate, il grande saggio, quando iniziava a parlare di filosofia, faceva uscire le donne dalla stanza, perché non disturbassero la saggezza degli uomini; invece Cristo, la luce del mondo, salutava con gentilezza le donne del suo pubblico. Cristo, la luce del mondo, ha salutato con benevolenza le donne del suo pubblico, le madri, dando così l’impressione che anche loro hanno un’anima immortale di valore pari a quella degli uomini. Cristo è davvero il Re delle donne. E devo ricordare altre azioni del Signore, e devo sottolineare ancora di più il cuore amorevole di Cristo? Guardiamolo, allora, quando risuscita il figlio della povera vedova di Naim; quale compassione deve aver provato per quella madre piangente! Guardiamolo quando, sotto il fuoco degli sguardi scandalizzati dei farisei, parla amorevolmente alla Maddalena pentita, così vergognosa delle sue colpe; quale compassione deve aver provato per lei! Ascoltiamo come confonde l’orgoglio dei farisei mentre trascinano la donna peccatrice in piedi per essere lapidata; con quale amore perdonante le parla! E guardiamolo quando, portando la croce e coperto di sangue, nel momento in cui avrebbe avuto più bisogno di conforto, dimentica se stesso e consola le donne che piangono. Oh, dobbiamo ancora insistere su ciò che le donne devono a Cristo, che le scelse, quelle che erano andate a visitarlo al sepolcro, per essere le prime a sapere che era risorto e per portare tale lieta novella agli Apostoli? – E come Cristo ha rispettato le donne, così ha fatto la Chiesa, il Cristo mistico che continua a vivere in mezzo a noi. È impossibile enumerare la ricchezza delle benedizioni che scaturiscono dall’atteggiamento della Chiesa nei confronti delle donne. Già nei primi secoli del Cristianesimo la Chiesa si servì delle donne, che Dio aveva dotato di qualità meravigliose, per esercitare ovunque la carità cristiana in tutte le sue manifestazioni; inoltre, nel Medioevo permise loro di entrare nelle accademie. Pertanto, l’educazione spirituale, l’istruzione e l’elevazione delle donne non è un’opera dei tempi nuovi, ma del Medioevo cattolico, al quale viene dato l’ironico appellativo di “oscuro”. Abbiamo dati che lo dimostrano. Ne abbiamo la prova da quanto Rousseau scriveva a D’Alembert e gli diceva che le donne non possono avere né talento né senso dell’arte; quando Kant proclamava ai quattro venti che a una donna basta sapere che al mondo ci sono altri universi e altre bellezze oltre a lei; già allora, e anche molto prima, nel XII secolo, la Chiesa aveva promosso le donne a cattedre nelle Università di Salerno, Bologna e Padova. – È stato Gesù Cristo a mostrare per primo la bellezza dell’anima femminile, ed è grazie a Cristo che la donna è diventata ciò che è oggi: una compagna dell’uomo, una consorte di pari grado con lui. Solo il Cristianesimo ha riconosciuto come nessun altro la bellezza dell’anima femminile – la Vergine Maria ne è il massimo esempio – e le straordinarie qualità di cui Dio le ha dotate: grande cuore, tenerezza, bellezza, capacità di dedizione e di sacrificio, delicatezza d’animo, fine sensibilità per la cura delle persone, soprattutto dei più piccoli e dei più deboli, ecc.

II

Ma a questo punto del nostro ragionamento ci viene in mente un’altra importante domanda: questo altissimo concetto di donna vive nella coscienza dell’uomo moderno, e soprattutto nella coscienza della donna stessa? Ed è con dolore che notiamo che l’alto concetto cristiano, spesso per colpa delle donne stesse, sta perdendo sempre più il suo contenuto e suona sempre più come una frase vuota di giorno in giorno. Un filosofo disse una volta che una frase altisonante è come una nocciola svuotata; cioè è un guscio senza nocciolo, un nido senza uccello, un guscio di lumaca, una casa senza abitante. Con dolore dobbiamo constatare che anche l’ideale di “donna” rischia di non essere altro che una di queste frasi vuote. Nel mondo cristiano la donna significava qualcosa di sublime; oggi ha perso molto del suo antico significato e del suo pieno contenuto. Sono in voga tre concezioni della donna: una è fondamentalmente umiliante; l’altra, superficiale; la terza è la concezione seria, cristiana. La prima – la più umiliante – è la concezione che ancora rimane dell’antico mondo pagano. Voglio solo citare un esempio molto tipico. Lo Scià di Persia si recava spesso a Karlsbad, per godere delle magnifiche terme, ed era ovvio che, all’arrivo, le sue numerosissime mogli venissero portate in auto chiuse dalla stazione all’albergo, vi rimanessero chiuse per tutto il tempo e, al momento della partenza, venissero nuovamente portate in auto chiuse alla stazione. Una vita per le donne peggiore di quella dei segugi. A cosa arriverà la donna senza Cristo! Perché una concezione così vergognosa della donna non è purtroppo un’esclusiva dello Scià di Persia o degli sceicchi musulmani. Molti uomini, che si definiscono moderni, vedono nella donna nient’altro che un oggetto di piacere, una deliziosa bambola da intrattenimento; qualcosa da usare e da buttare, come è evidente dal gran numero di madri nubili nella società, vilmente ingannate da uomini che dicevano di amarle; o è evidente dal gran numero di divorzi che hanno luogo, in cui l’uomo spesso ripudia la moglie perché ha perso l’attrattiva che aveva da giovane. – Qual è il criterio del Cristianesimo in questa materia? Esaminiamolo con attenzione; vediamo cosa contiene l’Antico Testamento riguardo all’uomo e alla donna. Dopo la caduta dei nostri primi genitori, abbiamo sentito le parole del Signore: “Poiché hai obbedito alla voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo proibito di mangiare, sia maledetto il suolo per causa tua: con grande fatica ne trarrai cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te…. Mangerai il pane con il sudore della tua fronte, finché non ritornerai al suolo… perché polvere sei e in polvere ritornerai” (Genesi III, 17-19). Questa è la missione dell’uomo, secondo il comando di Dio. Noi uomini dobbiamo scavare la terra, lavorare duramente. Scaviamo il ferro e il carbone dal fondo delle miniere; gestiamo la vita industriale e di fabbrica; seminiamo e raccogliamo il raccolto; estraiamo la pietra e costruiamo le case; costruiamo ponti sui fiumi potenti, perforiamo le rocce per formare gallerie, scaviamo la terra per fare il canale…. Vedete qui: secondo la volontà di Dio, l’uomo è l’operaio del mondo. E la donna? Ascoltiamo le parole del Signore: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli farò un aiuto adatto” (Gen, III-18). E Dio creò la prima donna, ricavandola dalla costola dell’uomo. E l’Eterno continua, dopo la caduta: “Farò in modo che le tue fatiche siano tante quante sono le tue gravidanze: partorirai figli con dolore. Sarai attratta da tuo marito ed egli dominerà su di te” (Gen. III, 16). Questa, ovviamente, non era la volontà di Dio; questi sono i frutti del peccato, cioè dell’egoismo. Che cosa dobbiamo pensare della donna? Dobbiamo chiederlo a Colui che l’ha creata. “Le darò un aiuto adeguato”. La donna, dunque, è l’aiuto e la compagna dell’uomo. Come può aiutare l’uomo? Soprattutto utilizzando le qualità che Dio le ha dato per svolgere determinati compiti, attraverso la sua funzione di madre e di educatrice dei figli. È responsabile soprattutto della cura della casa, della cura dei bambini, della cura dei malati. Il lavoro duro è compito dell’uomo; per la donna è soprattutto la cura dei figli e i lavori domestici. Può dunque esserci uguaglianza tra uomini e donne? Sì; davanti a Dio, la donna e l’uomo sono completamente uguali in dignità: entrambi hanno un’unica anima e un unico fine eterno, ricevono gli stessi Sacramenti, anche se in parte hanno qualità diverse. – L’uguaglianza non consiste nel fatto che la donna cerchi di imitare in tutto ciò che fa l’uomo. No, no, questa non è l’uguaglianza voluta da Dio! Come faccio a saperlo? Lo so perché Dio è il Dio dell’ordine; e non ci sarà ordine finché non ne comanderà uno solo. Non ci possono essere due teste in casa. Pertanto, la donna – non per merito suo, ma per volontà di Dio – è l’aiutante dell’uomo e, in quanto tale, è al secondo posto nell’ordine sociale. L’Antico Testamento ci insegna questo. –  E cosa ci dice il Nuovo Testamento? Innanzitutto, insegna che la donna ha la stessa dignità umana dell’uomo. “Perché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. E non c’è più distinzione tra Giudeo e Greco, tra libero e schiavo, tra maschio e femmina. Perché “… tutti voi siete uno in Gesù Cristo” (Gal. III, 27-28). Ma lo stesso SAN PAOLO sottolinea in un altro passo il primato dell’uomo: “Cristo è il capo di ogni uomo, come l’uomo è il capo della donna” (Cor XI, 3). “Non permetto alla donna di essere maestra nella Chiesa, né di prendere autorità sul marito, ma di tacere, poiché prima fu formato Adamo e poi Eva” (I Timoteo, II, 12-13). E per essere più convinti di questo, basta contemplare la vita della Santa Famiglia di Nazareth. Umanamente parlando, chi doveva essere il primo? Cristo, poi la Vergine Maria e infine San Giuseppe. Eppure, vediamo che il primo era San Giuseppe; la Vergine Maria, il secondo; Gesù Cristo, il terzo. Un esempio sublime di vita familiare ben ordinata! Si può parlare più chiaramente? L’uomo è il capo; e non è forse il capo a guidare? La donna… è l’aiutante. Così è scritto. E se un movimento di protesta vuole trasformarsi in un’autorità per governare quello che dovrebbe essere un aiuto, anche se questo si chiama emancipazione della donna, non è conforme al piano di Dio Creatore. Una donna può lavorare fuori casa, se vuole o se ne ha bisogno a causa del basso reddito della famiglia, ma non è il suo compito principale, che è in casa.

* * *

Non molto tempo fa, un giornale francese si è interrogato sul seguente fenomeno: perché nelle carceri ci sono più uomini che donne? E come soluzione il pubblico ha dato la seguente risposta: “Ci sono più uomini che donne nelle carceri, perché ci sono più donne che uomini nelle Chiese”. E se continuiamo a chiedere: perché ci sono più donne che uomini nelle Chiese? Perché Dio le ha dotate di una maggiore sensibilità per lo spirituale. Ecco perché le donne si danneggiano se rinunciano alla loro religiosità: senza Cristo, le donne diventano schiave degli uomini, completamente soggette ai loro capricci! È una terribile disgrazia perdere la fede; ma per nessuno tanto quanto per una donna. Se l’irreligiosità si vendica su qualcuno, è innanzitutto sulla donna. Perché a Cristo deve la sua dignità, la sua vera emancipazione, la sua libertà. – Povere donne, voi che ingoiate le ideologie alla moda, pensate un po’: che ne sarà di voi se queste teorie trionfano! Che ne sarà di voi se trionfa la completa uguaglianza dei diritti, se trionfa il matrimonio contratto per un certo periodo di tempo, se trionfa lo scioglimento del matrimonio! Esaminate un po’ cosa succederà. La donna che non ha fede, che non ha Religione, che non ha Cristo come suo Re, sarà soggetta alla tirannia della moda, dei suoi capricci, della sua frivolezza, della sua vanità, della sua malizia? D’altra parte, quanto è grande la donna quando è immersa nella grazia di Gesù Cristo! Pensiamo a Santa Giovanna d’Arco, a Santa Teresa di Lisieux, a Santa Teresa di Gesù?

QUARESIMALE (I)

QUARESIMALE (1)

Nel Giorno delle Ceneri.

(QUARESIMALE DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ; Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)


PREDICA PRIMA

Si mostra quanto sia stolto l’Uomo, che pecca, mentre sa indubitatamente, che si muore; che si può morire in ogni momento di nostra vita; e che quanti sono i peccati che si commettono, tante sono le citazioni che affrettano la morte a buttarci nel Sepolcro.

Memento homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris

Si muore, e pur si pecca: Si può morire in ogni momento di nostra vita, e pur si offende Iddio. Quanti sono i peccati, che si commettono, tante sono le citazioni, che affrettano la Morte a buttarci nel Sepolcro; e pure si oltraggia la Divinità. Tale è la Pazzia di non pochi Cristiani, che con estremo mio cordoglio m’accingo a deplorare questa mattina. Ma ahi, che sento voci terribili al mio cuore, le quali mi asseriscono, che se i peccatori non si riscuoteranno da’ vizj, quantunque da me ripresi nel corso Quaresimale: tutto dovrà attribuirsi alla debolezza del mio spirito, alla tepidità del mio zelo. Voi dunque, Abitatori Celesti; impetrate (vi supplico) fervore al mio spirito, fiamme al mio zelo. Voi Spiriti tutelari di questa Città: Voi Santi, che ne siete vigilantissimi Protettori; voi Angeli, che sedere Custodi al lato de’ miei. R. A: Voi beati, che giacete sepolti in questo nobil Tempio, correte, vi prego, al Trono di Dio, e unitamente con la Vergine Santissima, vera Madre del Verbo, impetratemi, che io proferisca la Divina parola con la riverenza dovuta: sicche non resti adulterata con facezie, né contaminata con formule vane, ma pura la tramandi nel cuore de’ miei UU., acciò non perda la sua efficacia, benché proferita da me peccatore, mentre io assolutamente mi protesto, che non avrò altra mira nel corso Quaresimale, salvo, che liberare i peccatori dalle mani di satanasso, e porli nel seno di Dio. Intimo, dunque, guerra al demonio; v’apro le porte del Cielo: mi pongo a quelle dell’Inferno, per tenerne indietro quel peccatore, che ostinato nei suoi vizi, volesse a forza di peccati entrarvi. Si muore; né vi è, a mio credere, alcuno tra i miei A A. che temerario ardisca sfacciatamente negare, che si muore .. Sola la Morte tra i quattro Novissimi, è restata intatta dal dente maligno della eresia. V’è chi ha negato con orribile bestemmia il Divino Giudizio l’Inferno ai rei, il Paradiso ai Giusti; ma non giammai la Morte; essendo sicuri, che il mondo tutto con Aristotele, negando ciò, che l’esperienza insegna, gli avrebbe spacciati per matti, suadentes contra experientiam contemptibiles sunt. Bisogna dunque morire; e sino dalla nascita principiò la morte ad intimarci una breve vita, homo natus de muliere brevi vivens tempora, e ogni elemento di continuo ci avvisa il nostro finire; la terra, con tante parole, quanti sono della sua polvere gli atomi ricorda ad ognuno, Pulvis es, in pulverem reverteris. L’acqua col continuo mormorio delle onde sue fugaci, ci avvisa, che omnes morimur, quasi aqua dilabimur. L’aria col soffio de venti, ci fa intendere, che Ventus est vita hominis; e il fuoco con lingue di fiamme dice ad ognuno, Cinis es, et in cinerem reverteris, sei composto di cenere, e in cenere devi ridurti. Così è, così è, date d’occhio à quanti vi precederono. Dove sono le Monarchie degli Assiri, de’ Medi, de’ Persi, de’ Greci, de Romani? le cercò David ad una ad una con occhio Profetico, ma non ne trovò vestigio, quæsivi, et non est inventus locus ejus, cenere, cenere. Dove sono i Socrati, Platoni, gli Aristoteli, che con la loro Dottrina si resero illustri per tutto il mondo? Cenere, cenere. Dove quei Savj della Grecia, benché sapientissimi? Cenere, cenere. Dove quelle bellezze mondane in tante Elene, in tante Cleopatre, in tante Penelopi, che nel loro primo Oriente furono adorate, come il Sole, tra’ Persiani? Cenere, cenere, cenere. Mira, deh mira, esclama S. Bernardo dalle solitudini dell’eremo, scrivendo ad Eugenio Papa, mira tutti i tuoi predecessori dal primo padre Adamo! Dove sono quei grandi che già fiorirono in dignità, in potenza, in ricchezze in sapienza? Interroga di loro e che troverai? Appena una sterile memoria. Dove sono quel fiore d’uomini di ogni umana grandezza riguardevoli? Dove sono quei capi del popolo e magistrati? Dove quegli oratori d’insuperabile fecondia? Dove quei consiglieri di insuperabile sapere? Dove quei tanti regi, quei tanti imperatori, quei tanti Pontefici? Ah, che tutti sono un mucchio di cenere, che non può distinguersi dalle ceneri, dalle ossa di mendici. Della loro grandezza che cosa è rimasto se non l’ombra; delle glorie, se non il fumo, della fama se non il nome: finalmente Memoria rerum in quam paucis ossibus continetur. Ipsi te prædecessoris tui, tuæ certissimæ, ac citissimæ mortis àdmonent. Quel Mondo insomma, e di Principi, e di sudditi, e di nobili, e di plebei, che vi precede, tutto è ridotto in polvere, e cenere. E voi peccatori non vi atterrite a catastrofe sì luttuosa; non v’atterrite alla riflessione, che anche con voi ha da girare per queste strade. Bara funesta, hanno da trar fuori della cassa, per la vostra morte, da’ vostri congiunti gli abiti di lutto, e si hanno da trascinare veli di gramaglia. Come è ordunque possibile, che una tal memoria non ponga freno al vivere licenzioso? Ah Dio, R. A; intendiamola una volta. Quello stesso Dio, che a caratteri, quanto meno veduti, tanto più intesi, prescrisse su le arene de’ lidi ad ogni onda, qual precetto: huc usque venies, et nox procedes amplius, hic confringes tumentes fludus tuos, quello stesso Dio, dico, dice a voi, dice a me, additandoci il sepolcro, huc usque venies, presto arriverai alla tomba, non procedes amplius, e non vivrai più, hic confringes tumentes fluctus tuos, qui finiranno le vostre ricchezze, qui si stracceranno tutte le polize di cambio: qui si lacereranno tutte le Patenti d’onore: qui svaniranno in fumo tutti i titoli, tutti i vostri giardini, tutte le vostre delizie, tutti i vostri palazzi faranno quattro palmi di terra, hic confringes, huc usque venies, et non procedes amplius. Convien morire, non accadde altro. Se voi o Padre non siete qui per altro, che per avvisarci della nostra morte, voi perdete il tempo, quis est homo qui vivet, et non videbit mortem? già sappiamo, che dobbiam morire; dunque sapete d’aver a morire e peccate? O questa sì, che non l’intendo; sapete di avere a morire, e non licenziate colei di casa? o questa sì, che non la capisco; sapete d’avere a morire, e covate gli odj nel cuore. Sapete d’aver à morire e insidiate alla robba, all’opere, ed alla vita del prossimo? e non sapete indurvi a restituir l’usurpato? Io son fuori di me. Se voi m’aveste detto, che non sapevi d’aver a morire, onde facilmente cadevi ne’ peccati, respirerei; ma saper d’avere a morire, e peccare, o questa sì, che non l’intendo. Molto meno però intendo, che sapendo voi d’avere a morire, e che potete morire di momento in momento, tanto offendete Dio; scuotetevi, o disgraziati peccatori al tuono di queste parole: Voi potete morire in ogni momento di vostra vita, e con questa verità ben capita, vi basterà l’animo di stare un momento in peccato? Che voi potiate morire in ogni momento di vostra vita, la Fede ce l’insegna, la ragione ce lo dimostra, l’esperienza ce ne assicura. Rivoltate, leggete le sacre carte, e forse non troverete Articolo di Santa Fede nei quattro Evangelisti replicato più spesso di questo: vigilate, c’intima San Matteo, quia nescitis diem, neque horam; state in veglia, perché non sapete né il dì, né l’ora. Vigilate, grida San Marco, nescitis enim quando Dominus veniet an sera, an media nocte, an mane; vegliate, perché non sapete quando il Signore verrà per voi se la sera, se la mezza notte, se sul far del giorno, se al matutino della gioventù, se al meriggio della virilità, se alla sera della vecchiaja. Replica San Luca: estote parati, quia qua hora non putatis Filius hominis veniet, state apparecchiati, per che quando meno ve l’aspettate sarete citati dal Giudice; finalmente San Giovanni ci rinnova l’avviso: Veniam ad te tanquam fur, et nescis qua hora veniam. Verrò d’improvviso, come il ladro, né saprai l’ora in cui verrò, e pure una verità sì chiara, un articolo di Fede si ripetuto sì poco si teme; e si vive in peccato, quantunque Iddio ci intuoni, che di momento in momento si può morire: ma lasciate da parte la fede, voglio convincervi con la ragione, e farvi vedere, che di momento in momento potete uscir di vita. Ditemi, qual vetro è più fragile della vostra vita, soggetta à tanti accidenti: Non basta una goccia, che vi precipiti sul cuore, una vena che vi si apra nel petto, un catarro, che vi soffoghi la respirazione? e questi casi non possono venire di momento in momento? Anzi, che dissi? ogni creatura, benché piccola è sufficiente à torvi la vita di momento in momento: Non si ricercano fulmini dal Cielo, né precipizį della terra. Una sola spina di pesce bastò à levar la vita a Tarquinio Romano. Un sol capello bevuto nel latte, e attraversato alla gola strangolò Fabio Senatore. Un granello di uva passa soffocò Anacleonte poeta. Da una puntura leggerissima d’ago si vide ridotta à morte Lucia Larina. Per un moschino ingojato nell’acqua perde la vita Adriano Quarto Pontefice. Aprite dunque gli occhi miei U. U., ed intendete, che ogni creatura è sufficiente a togliervi di momento in momento la vita. Ma su via voglio che quella morte, che può venirvi ad ogni momento dalle creature, possiate, se non sfuggirla, almeno allontanarla da voi. Non così però potrete fare di quella che nasce dentro di voi. Come il ferro genera la sua ruggine, come il legno il suo tarlo, come il panno la sua tignola, così l’uomo si genera pur da se stesso la sua morte. Sappiamo pure, che di continuo dentro le nostre viscere, duellano a nostri danni tra di loro gli umori; che la stessa intemperie di nostra complessione ci fabbrica continuamente ordigni mortali; che lo stesso cibo, che prendiamo per alimento di vita ci va ben spesso con le sue contrarie qualità disponendo ad una morte improvvisa. Come è dunque possibile, peccare, mentre la ragione ci insegna, che di momento in momento possiamo morire? Ah stolti che siete! giacché né alla fede, né alla ragione v’arrendete; restate almeno convinti dalla esperienza quotidiana, che avete tutt’ora davanti, fino all’evidenza degli occhi. Quanti de’ vostri amici più sani di voi, o di complessione più robusta, sono restati estinti, quando il vigore prometteva loro più lunga la vita? Quanti de’ vostri compagni nel fiore della età fono svaniti all’improvviso, mentre avevano in capo alti disegni di future imprese? Quante volte è venuta alla vostra casa la croce della morte? avete pur chiusi gli occhi al fratello; accompagnato alla sepoltura l’amico; vestito a duolo per il parente; e ciò quando meno lo pensavi. Tant’è si può morire in ogni momento di nostra vita. Con testimonio d’orrore vi confermi questa verità la gran Città di Lione di Francia, abbondante di vivere, ricca di traffichi, copiosa di merci, e sontuosa per gli edifizj. Ella, ella, ò miei UU. al lume del suo grande incendio vi farà capire, che di momento in momento si può morire. Questa, tutto altro pensando gli abitatori, andati al riposo per levarsi la mattina al negozio, in pochissime ore fu del tutto distrutta, finché il sole nascendo la mattina cercò, ma non vide più quella gran Metropoli, che la sera antecedente aveva lasciata colà, ove la Senna col tributo delle acque accresce il Rodano, e ben poteva cercarla, ma indarno, poiché il fuoco l’aveva mandata in fumo, ed il vento ne spargeva le ceneri: e ciò in si breve spazio, che nox interfuit inter Urbem maximam, et nullam. Intendetela; si muore e quel, che più rilieva si può morire di momento in momento. – Non vi fidate di robustezza; non vi fidate di gioventù, poiché questo momento vi può toglier di vita, quando vi stimate di doverla avere, e più lunga, e più prospera, e più felice. Onde io dirò a voi, per farvi aprir gli occhi, ciò che Seneca disse dei legni ridotti in porto, ove non possono aver maggior sicurezza; e pure anche ivi rimangono assorbiti. Eccovi le parole di Seneca: Momento mare vertitur, vertitur et eodem die, ubi luserunt navigia, forbentur. Legni, infelici i quali dopo lunga navigazione ritornati con sì lungo tempo dalle Indie per arricchire l’Europa, d’incensi, d’ebani, d’avori, d’oro, e di gemme, appena scaricati, quando nel porto si credevano sicuri, e a suono di trombe con rimbombo d’eco giulivo raccontavano i passati pericoli di scogli sfuggiti, di tempeste superate, all’improvviso si vedono fieramente sbattuti dall’onde ed inghiottiti da vortici. Negate, che di momento in momento non si possa morire; e quel che a me preme: notate quelle parole eodem die; in quello stesso dì, che più stavano allegri. E se questo momento ti prende eodem die, in quell’istessa sera, che stai in quella veglia; in quell’istesso giorno che ti trattieni con colei, in quello stesso circolo, ove mormori; in quell’istessa bettola, in quell’istesso gioco, ove bestemmj; in quell’istesso tempo, che trami vendette, eodem die! Svegliatevi dal vostro sonno o peccatori. Volete conoscere la vostra miseria? eccovela espressa in Elia. Chi vi avesse detto, che Elia, allorché era perseguitato a morte dalla Regina Jezabelle , da quella Regina così potente, e che si era protestata di volerlo nelle sue mani, si fosse posto a dormire all’aperto della campagna, projecit se ebdormivit, voi non li avreste potuto credere, e l’avreste rimproverato, dicendoli: che fai Elia? e non ti ricordi, che Jezabelle ti vuol morto? Non è tempo di dormire, svegliati, sta attento; tu sai il pericolo che corri di perder la vita. Io però punto non mi meraviglio, che Elia perseguitato a morte dormisse quietamente; perché alla fine era Santo, se perdeva la vita del corpo, non perdeva l’eternità dell’anima. Stupisco bensì alla riflessione che possano dormire coloro i quali pieni dello sdegno del Signore, plene indignatione Domini, vivono tra le crapule, tra gli odj; e quantunque sappiano che la morte li può corre di momento in momento, a guisa di Sansoni, dormono tra le disonestà. – O voi sconsigliati, che scuotete questo timore dal vostro cuore, come se fosse timor vano, e non ben fondato. Se v’è uomo al mondo, il quale debba temere di morire di momento in momento, lo deve temer colui che sta in peccato mortale. – Volete sapere perché? Ecco, che ve lo dico: San Paolo si protesta nella quinta ai Romani, che la morte è vera figlia del peccato, propter peccatum Mors, la Morte è venuta al mondo per il peccato, e il peccato è quello che sempre le ha fatto fretta, e che ne ha accelerata la venuta Peccate allegramente; non pagate mercedi; non sodisfate legati pii; trafficate pure con usure, con frodi, con inganni; Ma sappiate che questi vostri peccati sono tante voci che chiamano la Morte ad affrettarsi, per togliervi la vita; tendete pure insidie all’onore di quella maritata, al decoro di quella vedova, alla onestà di quella fanciulla; ma siate certi che invitate la Morte a buttarvi dentro del sepolcro: Fremete pure contro del vostro nemico, macchinate alla di lui vita, alla roba, alla riputazione; scrivete contro di lui lettere cieche, memoriali indegni; ma poi dite, e direte il vero: queste mie operazioni indegne sono tante intimazioni alla Morte, che venga presto a togliervi di vita. E non sentite l’Apostolo, che nuovamente ve lo conferma? Stimulus autem Mortis peccatum est. Voi vi date a credere, che la morte debba venire à trovarvi su di quel cavallo tutto magro, e smunto, su di cui fu veduta da Giovanni l’Evangelista! Non sarà così; perché  quando ella ha lo stimolo delle vostre iniquità se ne serve di sprone acutissimo, per farlo volare, nonché correre, e uccidervi. Stimulus autem Mortis peccatum est. Crapule; se erano irriverenti nelle Chiesa dite, e direte il vero: son morti di morte immatura, perché non vivevano giusta la legge di Dio, anni impiorum breviabuntur, gli anni delli empj si abbrevieranno, si scorderanno. Giovane, se seguiti in quella pratica, Anni tui breviabuntur; e perché? Perché stimulus mortis peccatum, perché lo sperone, che affretta la Morte, è il peccato, sono le frodi, sono le oppressioni, sono le confessioni sacrileghe: queste, queste iniquità affrettano la Morte. Intendetela. Iddio con i peccatori fa per appunto, come si fa con i legni di bosco. Si porta l’artefice al bosco, e se deve provvedersi di legno o per lavorare uno scrigno, o per formarne una statua; và con cento riguardi prima di dare il taglio; considera, se il legno sia stagionato; se la luna sia sul crescere, o sul calare. Non si usano però queste diligenze quando si vada alla selva sol per legna da ardere; allora si va d’ogni tempo, e si troncano alla rinfusa legna stagionate, e non stagionate. I peccatori, i disonesti, i rapaci, che legna sono? legna per il fuoco dell’Inferno; dunque, dice con San Luca, excidentur, et in ignem mittentur, non si guardi a nulla, si taglino alla rinfusa, quantunque giovane, quantunque gagliardi, robusti, non si porti loro rispetto alcuno, non est respectus morti eorum; No, no: Son giovane: Non importa, sei legna per fuoco, excidentur: Son nobile, non importa, excidentur. Nella mia testa stà posta tutta l’eredità… non importa: non est respectus Morti eorum, non gli si porti rispetto, son peccatori, e questo basta per esser legni da buttarsi nel fuoco, e ardervi in eterno. Sì, sì stimulus mortis peccatum. Stimulus per la parte vostra, perché col vostro peccare chiamate tutte le creature a vendicare l’ingiuria che fate al Creatore, già che fecondo l’Angelico insitum est unicuique creature vindicare injuriam Crtatoris. Stimulus per la parte di Dio, che irritato sta per scagliare il Fulmine: Stimulus finalmente per la parte del demonio, il quale non si cura che moriate quando siete in grazia di Dio, ma s’adopra, perché moriate quando siete in peccato: allora vi stimola ai disordini, allora vi suscita contro li nemici. Sì, sì, stimulus mortis peccato s’affretta la Morte; credete almeno alle ragioni naturali, che avete sotto degli occhi, e toccate con le mani, negate, se potete, che ben spesso i peccatori si procaccino la Morte con la voracità nella crapula, con la sfrenatezza nelle disonestà, con la libertà delle mormorazioni, con le quali si acquistano de’ nemici: girate pure per ogni vizio, e confesserete, ogni vizio apportare inquietudini al capo, e le inquietudini accelerare la Morte. Il peccato è quello che ben spesso scorta la vita, e nel più bel fiore degli anni ci butta nel sepolcro col corpo, per sbalzar l’anima nell’Inferno. Io vedo le lacrime sugl’occhi ad una delle più riguardevoli Città della Toscana, mentre ancor piange la Morte d’un suo nobilissimo cittadino, messo a terra dagli archibugi d’una truppa di Sbirraglia. Viveva, non ha molto, un giovanetto di tutto spirito, e di un’indole invidiabile; fu allevato questi sotto l’educazione de’ PP. della mia minima Compagnia, e gli furono impressi sentimenti tali di pietà, che egli instantemente ne richiese l’abito. Ciò sentitosi da’ parenti, che conosciutolo d’abilità non ordinaria, lo volevano al mondo, per il mondo; dissero, non negarlo alla Religione, ma volerne esperimentare la vocazione, e l’esperimento fu, dare al nobil giovanetto divertimenti, e libertà tale, che ben presto il demonio, per mezzo di cattivi compagni, scacciò Dio dal di lui cuore, e v’alzò il suo trono; più non si discorreva di Dio; erano sbanditi i libri di Spirito, eran subentrati quelli d’amore, e di questo egli si allacciò talmente con una rea donzella, che la volle complice nello sfogo delle sue passioni. Parenti, ecco il frutto della vostra prova. Che dite? Che dico? Immaginatevi pure, che il cordoglio de’ parenti era grandissimo, spesse le ammonizioni, spesse le minacce, ma tutto invano: Sì, che vi fu un parente, il quale gli disse: Or sappiate, esser risoluti i vostri maggiori di volervi in una prigione, se non abbandonate la rea compagna. Se la rise il giovane, e voltò dispettosamente le spalle al savio parente; indi tra se stesso andò pensando di sottrarsi dalla carcere che gli sovrastava; comunicò l’accidente all’amica. Si risolsero alla fuga con abiti mentiti, vestiti pur da uomo la femmina; e la mattina per tempo si partirono dalla Città. Non erano lungi da essa che poche miglia: quando, videro scendere da una collina una truppa di sbirri, teme il giovane, esser quelli che dovevano catturarlo: si cambiò di sembiante: pose la mano alla pistola per difendersi. Vedutosi ciò dagli sbirri, sospettarono di male, e fattosi loro incontro per indagar chi fossero, la risposta fu spararglisi dal giovane una pistola alla vita, con cui stese a terra uno di quegli sbirri. Gli altri, per assicurarsi, con colpi replicati di pistola, ammazzarono il misero giovane; e già stavano per uccidere l’altro; e intanto non lo fecero, perché udirono dirsi: son donna, son femmina: Ella fu, che disse, esser quegli il tal cavaliere. Or ditemi: chi scortò gli anni, chi abbreviò la vita a questo cavaliere? il peccato: Il peccato l’hà da scortare a voi; quei compagni, quella nemicizia, quell’amore; presto dunque, se bramate vita più lunga, ritiratevi da’ peccati, ritiratevene, perché si muore, e perché si può morire di momento in momento; vivete come volete esser trovato alla Morte, ea ratione vivendum, v’insegna un gentile, qua semper moriendum.

LIMOSINA

Thesaurizate vobis thesauros in cœlo!

Tanto è, impone l’odierno Vangelo. Non crediate U.U. che per obbedire a queste voci di Dio che vuole che noi traffichiamo col cielo, e colà posiamo i nostri tesori, sia necessario trovare una nave, la quale carica di danari, possa solcare l’aria e felicemente possa approdare alle spiagge del Paradiso; oppure un corriere che veloce porti in cielo quelle lettere di cambio che chiudono l’oro dentro un inchiostro. Appunto, non vi vuol tanta fatica. Se volete tesoreggiare in Cielo, basta praticare quanto San Lorenzo disse à Valeriano: facultates quas requiris, in cœlestes thesauros manus pauperum deportaverunt. Eccovi il modo sicuro: fate limosina a’ poveri, e sarete certi d’avere collocati tesori in Cielo. Del resto, chi m’ha condotto qui, per nevi, per venti, per ghiacci, per acqua? Una sola cosa: La salute delle anime vostre; perché mi dichiaro che non quæro vestra, sed vos, non quæ mea sunt, sed quæ Jesu Christi, perché mi affaticherò ogni mattina per salvarvi; Io dunque per salvar le anime vostre non ho guardato à stenti, non risparmierò fatica; e voi per salvar voi stessi non vorrete scomodarvi per mezz’ora? Avvertite che non basta dire: verrò una, due, tre volte, ma sempre o qui o altrove; perché non sapete qual sia quella Predica, nella quale il Signore vuol toccarvi il cuore, e può esser, che da quella dipenda la vostra salute. Se poi volete cavar frutto dalla Divina Parola non dovete venire per curiosità per sentire nobiltà di stile, abbondanza di erudizione, ma per migliorare la vostra vita; né pur dovete venire per applicare al terzo, e quarto, quello che forse sarà necessario per voi; Vir sapiens, dice lo Spirito Santo, quodcum que audierit, laudabit, et ad se adjiciet. L’Uomo savio, e prudente, applica à se quanto ode di profittevole, e fa appunto come l’Albero di cinnamomo piantato in terra palustre, il quale, per nutrirsi, tira à sé quanto di acqua gli sta vicino. Volete dunque cavar frutto dalle Prediche? Venite ad udirle, per approffittarvene.

PARTE SECONDA

Quasi, dissi, scuserei costoro che quantunque sappiano che possono morire di momento in momento, si mettono a rischio di perder l’anima, quando ad un
risico di tal sorte vi si mettessero per qualche grand’emolumento. Voi mettete à rischio di perdere l’Anima, l’Eternità, il Paradiso; voi vi ponete super puteum abyssi, sull’orlo di un pozzo pieno di fuoco, ove, se cadete, dovrete starvi per tutta una eternità; l’utile, il guadagno, l’emolumento qual è? Un piacere di senso, uno sfogo di odio, un interesse di robba, che deve lasciarsi; e questo deve presso di voi preponderare di tal modo, che mettiate l’Anima a procinto di perderla? Nolite, nolite, grida Geremia, decipere animas vestras; non ingannate l’anime vostre con metterle a pericolo sì funesto di perderle eternamente. Che si ha dunque da fare? Ciò, che fecero i Niniviti. Questi appena sentirono intimarsi dal Profeta Giona adhuc quadraginta dies, et Ninives subvertetur. Quaranta giorni vi restano per la rovina de’ Niniviti; che subito tutti dal primo fino all’ultimo, plenam terroribus pœnitentiam egerunt, si misero a far penitenza de’ loro peccati; e senza aspettare gli Editti Regi, subito si vestirono di cilizio, si cinsero di corda si aspersero di ceneri, e domandarono perdono e pietà. Peccatori, poco tempo vi rimane; la morte si avvicina, l’avete accelerata con le vostre sceleraggini. Dunque una sollecita e santa Confessione: Che rispondete? che vi farà tempo e vorrete mettere in sì gran pericolo l’anima vostra? I Niniviti sapevano d’aver quaranta giorni di tempo; e pur non dissero: v’è tempo: seguitiamo ne’ nostri amori, negli odii, negl’interessi, ma fecero penitenza. Molto meno puoi dir tu, peccatore: v’è tempo, vi farà tempo; perché a te non fur promessi da alcun Profeta quaranta giorni; Tu non puoi comprometterti né pur d’un’ora: nescitis quando tempus fit. Dunque, che si ha da fare? Io non dico, che vi vestiate di cilicio, che vi cingiate di corde, che vi aspergiate di cenere; ma almeno scindite corda vestra, portatevi à piedi d’un Confessore buono, ma sollecitate: e ivi dopo aver manifestate le vostre colpe tutte, ma tutte, scindite corda vestra con un vero dolore, con un fermo proposito.

QUARESIMALE (II)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (12)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (12)

LA GRAN BESTIA SVELATA AI GIOVANI

dal Padre F. MARTINENGO (Prete delle Missioni

SESTA EDIZIONE – TORINO I88O Tip. E Libr. SALESIANA

V.

S’INCOMINCIA DA SER TUTTESALLE E SI VA A FINIRE COL FILOSOFO HEGEL.

Conobbi un tale (il buon Padre Cesari l’avrebbe chiamato ser Tuttesalle) nella cui grammatica credo che il verbo sbagliare non si trovasse mai nella prima persona, o per lo meno doveva aver voto di non recitarlo; perché la parola ho sbagliato non ci fu mai caso che gli uscisse dalla chiostra dei denti. E notate: costui aveva in corpo (o sel credeva) tutta quanta l’enciclopedia, e dissertava di tutto, d’arti, di lettere, di scienze, di filosofia, di teologia, d’astronomia, di matematica, di fisica, di storia, d’archeologia, di botanica, e chi più ne ha più ne metta, come dice un bell’umor di poeta; sicché lascio pensar a voi se ne sballava di grosse! Bello era poi sentirlo, quando alcuno osasse, coltolo in fallo, metterlo, come suol dirsi, colle spalle al muro; come s’agitava allora e si contorceva, e si divincolava, e affannava, e alzava un gran vocione, e affollava parole a torrenti… Povero Tuttesalle! Lascio stare che tutti l’avevano in tasca, e il fuggivano come il diavol la croce: ma quanta fatica di meno a dir semplicemente: ho fallato!… Io gliel dissi più volte; non arrivò mai a capirla. Caduto infermo (come s’intendeva anche di patologia e di medicina) fu a contrasto col medico, non volle accordarsi né sulla malattia, né sulla cura, e morì protestando fino all’ultimo, che il suo male non era punto pericoloso. Difatti s’è visto! Quanto a me; trovai sempre più facile confessar un errore, che volerlo difendere. M’accadde più volte, quando facevo il maestro di scuola, che insegnando, specie la storia, mi venisse sbagliato un nome, una data od anche un fatto. Accortomene, incominciavo la prima lezione col dire a’ miei scolari così: — Figliuoli, ieri o ier l’altro me ne è accaduta una bella. Grazie alla mia prodigiosa memoria ho preso un granchio solenne! —- A quest’esordio tutti sbarravano gli occhi, tendevano l’orecchie; ed io: — v’ho detto che Colombo sferrò dal porto di Palos nel 1482; niente vero, correggete, è il 92. — Oppure: —: v’ho raccontato di Federico II, che morì soffocato con un guanciale da suo figlio Manfredi. Badate, è una voce corsa ‘a que’ tempi là, cui pare credesse Dante che pose in bocca a Manfredi quel verso: Orribil furon li peccati miei; Però storicamente non è certo… Anzi nol credete, ve ne prego; fa troppo male a pensare che un giovanetto che come il dipinge l’Alighieri: biond’era e bello e di gentile aspetto, chiudesse in petto un’anima cotanto nera. – E così altre volte d’altri fatti: né mi sono mai accorto che questo disdirmi mi nuocesse o mi disonorasse comechessia presso i miei giovani scolari. Che anzi; se avessi a dire, amavano quella mia schiettezza, e me ne pigliavano sempre; più: stima e confidenza ed affetto. Oh il bel cuore che hanno i giovani; e come ben disposto all’amore della santa verità. Peccato che più tardi i pregiudizi del mondo ne guastino tanti! Giunti a questo punto, mi pare or- mai tempo di stabilire qualche buon principio. Proviamoci dunque, 1° principio: l’uomo è fatto per la verità pel e bene. — Che ve ne pare? Vi va?— Oh qui, per grazia di Dio, ci troviamo tutti d’accordo. – Andiamo innanzi: 2° principio: l’uomo: é fallibile e peccabile; cioè può deviare e dal vero è dal bene, cioè ancora, può cadere nel male e nell’errore. — Arche ciò è evidente a meno che dell’uomo non volessimo farne un Dio. Posti così questi due chiari ed evidentissimi principii, che conseguenza ne trarremo? Che l’uomo (state attenti) decaduto, per una disgrazia assai comune; dal vero e dal bene; sel nega tornarci, nega il suo fine, nega d’esser fatto per la verità, d’essere fatto pel bene. E ciò negando, dite, s’avvilisce o s’onora? Ma voi la risposta. Io che amo le figure ed i paragoni vi conterò che una volta due amici viaggiavano sul caval di san Francesco da Viareggio a Lucca. L’uno disse: questa è la strada, e l’altro seguitò. Camminato un buon tratto, quegli disse al compagno: — sai! abbiam fallato la strada. — E l’altro: — Anzi la é proprio questa che ho detto e non altra. — Nacque disputa, e la conclusione fu, che l’uno dié volta, e, sebbene in ritardo, riuscì a Lucca. L’altro andò a perdersi in una bassura delle Maremme. Simile accade più meno a chiunque s’ostina, per un falso punto d’onore e d’umano rispetto, a rimanersi nell’errore. – E qui parmi il luogo d’ammonirvi, miei cari, giovani, d’un grossolano pregiudizio assai divulgato a’ dì nostri, divulgato penso dalla GRAN BESTIA o per lo, meno dagli amici di lei. Parlando di religioni, v’accadrà di sentir, più d’uno a buttar là con gran sicumera questa sentenza: — uomo d’onore non cambia la sua religione. — o lodare, per esempio, un eretico, perché è morto nella religione dei suoi padri! Pare impossibile che proposizioni così sbardellate possano uscir di bocca a chi ha fior di buon senso. Giacché il sostenere che uno, foss’anche turco od ebreo, non deve cambiare religione mai; o è sciocchezza senza nome, e alle sciocchezze non accade rispondere; o torna a dire, che tutte le religioni son buone; se tutte son buone, dunque tutte vere: e se vere (come tutte più o meno si contradicono tra loro) dunque il sì e il no saranno la medesima cosa. O vi pare? Voi ridete, cari giovani; ma riderete ancor più di cuore, se vi dirò, che ci fu a giorni nostri un certo Hegel, uno di quei tedesconi filosofi, cui s’usa far tanto di berretta, che dopo aver impallidito sui libri tutta quanta la vita, stringi stringi, è venuto appunto a questa conclusione: che il sì e il no, il bianco e il nero, la luce e le tenebre, in una parola l’essere e il nulla sono precisamente la stessa, stessissima cosa; questa la conclusione ultima di tutta quanta la sua filosofia!… E dire che ci hanno italiani, i quali smaniano di mandarci a scuola da cosiffatti dottori!… M’interrompo per non dirne una grossa.

VI.

COMBATTER SEMPRE.

ESEMPI ITALIANI E FRANCESI, SACRI E PROFANI ALLA RINFUSA.

Fra tante chiacchere in sostanza (raccapezziamoci un po) mi pare avervi dati due ricordi, suggeriti da mezzi principali a francarvi dalla Bestia. 1°, troncarle la coda fin dai primi e più lievi principii; 2°, se mai v’accada per disgrazia di cadere un tratto a’ suoi piedi, tosto rialzarvi. Ora vengo ad un terzo avvertimento; ed è questo: che contro la mala BESTIA, non solo in gioventù; ana dovrete tenervi in arme tutta quanta la vita; perché ella è bestia sì versatile; sa prendere tante forme; uscire in tal sorprese, presentarsi improvvisa in aspetti sì strani e diversi; che a volte ‘anche l’uomo uomo, vo’ dir, l’uomo vero; in un momento di sonnolenza, di distrazione o di fiacchezza, può cader vinto. Udite caso d’un Santo. – M’immagino abbiate qualche idea di quel gran Padre de’ poveri e benefattore della Francia, anzi del mondo che fu s. Vincenzo de’ Paoli; uomo così nemico della GRAN BESTIA, che diceva, esser, meglio cader nel fuoco con mani e piedi incatenati, che operare per umano rispetto; e alla corte, ove il traeva sovente la sua carica di Consiglier della Corona per gli affari ecclesiastici; soleva comparire così poveramente vestito, che un giorno il Cardinale ministro Mazarino ebbe a pigliarlo pel cinto, e traendolo davanti alla Regina reggente, dirle: — vedete, maestà, con che lusso presentasi a corte il Signor Vincenzo: — A che egli tranquillamente sorridendo rispose, miglior abito non convenirsi al figlio, quale egli era; d’un povero contadino. Or bene; di questo gran Santo si narra, che un giorno, venuto a trovarlo dal suo lontano paesello in Parigi certo suo nipote, semplice, rozzo e grossamente vestito, come usano i contadini, saputolo s. Vincenzo, gliene prese certa vergogna, e già stava per ordinare al portinaio di farlo entrare per un porta segreta, che altri nol vedesse. Ma accortosi tutto a un tratto esser quello un pensiero ispiratogli dalla mala BESTIA, e amaramente pentito d’essersene lasciato sopraffare un istante: — aspettate (disse al portinaio) vengo io stesso. — E sceso alla porta, abbracciò con festa il nipote, e facendolo vedere a’ suoi preti e ad altre ragguardevoli persone venute in quel punto a trovarlo:— vedete, vedete! (diceva a tutti) questo è un mio caro nipote, è il più civile di tutta la mia famiglia… Da questo fatto potete vedere; giovani. miei, come la BESTIA torni audace all’assalto, anche contro i petti più forti, anche dopo le più vergognose sconfitte. Perciò non vi terrete mai troppo franchi e sicuri. E poiché questo fatto me ne tira in mente degli; altri, lasciate ve ne conti ancora qualcheduno. V’imparerete, che, come si deve innanzi tutto rispettare e servir Dio senza paura dell’uomo, così s’ha a vincere ogni vergogna ed umano rispetto nel riconoscere ed obbedire i parenti. – Abbiamo dalla storia, che quando il B. Benedetto XI fu eletto Papa, che avvenne nei principii del secolo XIV, sua madre, in abito semplice e dimesso, qual portava sua condizione, se ne venne a Roma, per desiderio di vederlo: Un figlio Papa! mi burlate! non so quante madri dopo lei avranno potuto godere di simile fortuna. Ma i famigliari del Papa, veduta: la buona donna in quell’arnese, che pareva poco dicevole alla pontificale maestà, pensarono doverla alquanto rimpannucciare, e messele d’attorno non so che gale, la presentarono: — Santità, ecco vostra madre … Mia madre! (rispose; sginardandola da capo a piedi il Pontefice) vi sbagliate. Oh la conosco ben’io quella povera donna di mia madre: non ha mica tanti fronzoli d’attorno. — E non ci fu verso la volesse riconoscere, finché non gli venne presentata nel suo abito ordinario. Allora l’accolse con grande allegrezza, sì intertenne a lungo con lei, le die’ tutti i segni d’affetto e di confidenza figliale, e la rimandò colma di benedizioni e di doni. E perché altri non dica che so solo racconti di sacristia, togliete qua, vo’ parlarvi d’un soldato, di cui forse avrete già letto o sentito a parlare. Chiamavasi Francesco Bussone, figlio d’un povero contadino, e stavasene in un bosco, vicino alla città di Carmagnola, troncando certe piante, quando s’abbattè a passare per di là una pattuglia che andava in volta a far reclute di soldati pel Visconti di Milano. Allora non avevamo ancora le delizie della leva forzata. Chi sentivasi il prurito di rompere o farsi rompere le ossa, padrone; ma non obbligavasi alcuno. E sia detto questo tra parentesi: torno al racconto. Invitato da coloro a scriversi soldato, il buon Cecco stette alquanto fra due; indi gittata in aria la scure tra i rami dell’albero che stava tagliando, disse: — se la ricasca, rimango; se no, vengo soldato. — La scure rimase impigliata tra i rami; il Bussone andò soldato e seppe menar sì bene le mani, che in pochi anni, rapidamente percorsi i gradi della milizia, divenne quel gran Capitano, che va famoso per le storie col nome di Conte di Carmagnola. Un taglialegna eh! che ve ne pare? Or bene, di lui si racconta, che, udita avendo il vecchio padre la sua fama, partissi di Piemonte, e n’andò sino a Venezia, tratto dal desiderio di vedere un tanto figliuolo; e caso volle, guardate! che vi giungesse proprio in quel dì che per decreto del senato festeggiavasi la vittoria di Maclodio riportata dal Conte sulle genti del Duca di Milano. La città era tutta in festa, tutta musica e bandiere, e un’onda immensa di popolo schiamazzante allagava le piazze e le vie. Il povero vecchio fra quel parapiglia non sapeva neppur lui dove s’avesse la testa; pur sentendo qua e là gridare il nome del conte, capi così in aria, quella gran festa dover farsi pel suo figliuolo. Preso lingua dalle persone e inteso d’una grande Sfilata che dal palazzo della Repubblica doveva recarsi a s. Marco, scelse un buon posto e lì stette lung’ora aspettando. Ed ecco finalmente la processione farsi largo tra la calca; ecco sfilar. soldati d’ ogni arma con bandiere, stemmi, trofei d’ogni ragione, poi le corporazioni dell’ arti con lor proprie insegne, poi gli ufficiali della repubblica con loro divise, poi, in gran roboni che spazzavano la strada, que’ fieri senatori, poi più fiero ancora, il Doge con alla dritta (poiché era il santo di quella festa) tutto serrato nella sua splendida ar- matura, il Conte di Carmagnola, alla cui vista i battimani e gli applausi n’andavano alle stelle. E il suo vecchio padre era lì confuso tra la folla, che udiva, vedeva e parevagli sognare. Quando sentì dire: — è là, ecco il gran Capitano, — sospinse gli occhi guardarlo, e due grossi lagrimoni gli scesero lenti tra le rughe delle guance. S’era appena tersi gli occhi col dosso della mano, che vede il Conte arrestarglisi in faccia, guardarlo fisso, far due passi verso di lui, stendergli le braccia — Babbo caro, voi qui.l….. Tu il mio Cecco….. mormorò il vecchio e gli cadde nelle braccia senza parola. Così in mezzo a quella gran festa e a quegli applausi fatto tanto grande il Carmagnola, non dimenticò d’esser Cecco Bussone, non inorgoglì di sè, non arrossì di suo padre, e dopo averlo teneramente abbracciato , e presentatolo al Doge e ai senatori, così in poveri abiti da contadino com’era, il volle al suo fianco in tutta quella tanto a lui gloriosa giornata. Evviva il buon piemontese Val più questo tratto di Cecco Bussone, che tutte le vittorie del Conte di Carmagnola. – E così, o cari giovani, non vi mancano buoni esempi da imitare, Se mai v’accada, come a S. Vincenzo, come al b. Benedetto e come al Carmagnola, d’aver povera ed umile famiglia e voi col vostro studio, coll’onestà, con valore innalzarvi a miglior condizione. – Or sentite ancor questa; è il rovescio della medaglia. — Bernardino, piccolo, possidente e coltivatore di terra di un povero paesello nei dintorni di Genova, non aveva saputo guardarsi dalla vanità solita dei padri di bassa fortuna, di tirar su il suo figliuolo negli studi, per farne poi, chi sa che? forse un mediconzolo da villaggio, o un avvocatuzzo di liti disperate, o un maestrino, o un segretario comunale almeno. Sedotto a’ bei sogni, il povero Bernardino con infinito spendio e amare privazioni, teneva il figlio a pensione in città, sperando studiasse di buzzo buono e s’avviasse a diventar un uomo. Ma dopo qualche anno, avvedutosi ch’e’ sciupava ranno e sapone, e il figlio, sempre testa vuota ad un modo, gli pigliava per soprassello cert’aria di me n’impipo, e incominciava vestir attillato e lisciar la zazzera: e metter Su l’occhialino, e usare a caffè, ed altre cotali smancerie da scervellato, cominciò il buon uomo a dimenar la testa e soffiare e brontolar tre denti: O me! e’ non pare più il mio Peppo. — E mulinava e mulinava…. finché un giorno scontratolo a zonzo con certi giovinastroni per non so che via della città, e addatosi che, voltando la faccia facea le viste di non riconoscerlo; gli corse difilato alla vita, e senza tanti rispetti della sguaiata compagnia, afferratolo per un braccio: – Ah si neh! ti vergogni di tuo padre? Vien con me; basta ormai di questa vita; — e datagli una strappata, sel trasse al paesello, gli bruciò sugli occhi i libri che gli aveva comperati, gli pose in mano una brava zappa e riuscì ancora a farne un buon contadino par suo. E tal sia di que’ sguaiati figliuoli che al vile rispetto della BESTIA sacrificano il rispetto e l’amore sacrosanto che devono ai loro genitori.

VIVA CRISTO RE (17)

CRISTO-RE (17)

TOTH TIHAMER:

Gregor. Ed. in Padova, 1954

Imprim. Jannes Jeremich, Ep. Beris

CAPITOLO XXI

CRISTO, RE DELLA VITA UMANA

Cristo è il Re della vita umana!

Qual è il valore della vita per un Cattolico? Non è nessuno dei due estremi: né il godimento eccessivo della vita attraverso il lusso sfrenato, i piaceri o il culto del corpo; né l’altro estremo, il frivolo disprezzo dell’esistenza, che può arrivare fino al suicidio. La Chiesa cattolica ha sempre avuto una visione seria e rispettosa della vita e della salute. Non affermiamo ciò che tanti sostengono a torto: che “la salute è il bene più grande del mondo” – valutiamo molto di più l’anima – ma confessiamo apertamente che “la salute è il più grande dei beni terreni”; che è lecito, anzi necessario, fare sacrifici per essa; e che nessuno ha il diritto di accorciare di un giorno o di un’ora il tempo che la Provvidenza gli ha assegnato. – Pertanto, il Cattolico dà tutto il diritto che gli spetta alla salute, alla cura del corpo, perché sa bene che con un corpo malato non si può fare molto. Non è forse in questa vita che ci santifichiamo e ci rendiamo degni della vita eterna? Dobbiamo meritarla con il lavoro onesto, con l’adempimento fedele del dovere, con l’apostolato… E per questo abbiamo bisogno di un corpo forte e sano. La Religione cattolica parla continuamente della vita eterna e ci incoraggia costantemente a meritarla, ma non dimentica questa vita terrena. Non solo l’anima dell’uomo è santa, ma anche il corpo lo è, poiché è il dono di Dio Creatore. Per lo stesso motivo, la Chiesa ha sempre trattato il corpo umano con santa sollecitudine e lo ha sempre rispettato. Nel Battesimo, con cui la Chiesa ci accoglie, l’acqua santa tocca il nostro corpo, benedicendoci; nella Cresima, il crisma usato dal Vescovo unge il corpo; e nella sepoltura, l’acqua santa tocca di nuovo il nostro corpo. Per noi la vita terrena non è una punizione, come nella nebulosa dottrina della reincarnazione asiatica. No. Per noi la vita terrena è il mezzo che Dio ci dà per raggiungere la vita eterna. – Ciononostante, la Chiesa ci chiede di essere duri con noi stessi, di avere disciplina, abnegazione…. Non lo chiede per il gusto dell’abnegazione in sé, ma per garantire l’armonia tra corpo e anima. Questa armonia è stata disturbata dal peccato originale. Da allora il corpo è incline al peccato e non possiamo riconquistare la supremazia dell’anima sul corpo se non attraverso una severa disciplina. La Chiesa ha sempre apprezzato questa vita terrena e le ha dato l’importanza che merita. Essa dà valore alla vita corporea e a tutto ciò che è necessario per essere sani. Esistevano sette exoteriche (gli gnostici, i manichei) che vedevano nel corpo umano l’opera del principe del male e consideravano la vita terrena una tortura. La Chiesa li bollò come eretici. Ma allo stesso modo ha dichiarato eretici altri fanatici che, interpretando male la parola del Signore, chiedevano a tutti l’estrema povertà e la distribuzione dei propri beni. La Chiesa ha sempre insegnato che non solo l’eccessiva ricchezza è nemica della vita religiosa, ma anche la povertà, la miseria estrema. L’eccessiva agiatezza ci rende delicati e tiepidi; la grande miseria ci rende spietati; l’agiatezza ci rende orgogliosi; la miseria ci fa disperare; l’agiatezza rende l’anima incapace di vivere le esigenze della fede; la miseria ci rende insensibili. Per poter rispondere alla fede religiosa, è necessario che all’uomo non manchino le condizioni più elementari della vita, quelle minime. La Chiesa lo ha sempre saputo e lo ha sempre insegnato. Per questo la Chiesa ha sempre difeso la vita e l’invulnerabilità del corpo umano. Chi non si prende cura della propria salute commette un peccato. Amputarsi un dito, come facevano alcuni per sottrarsi al servizio militare obbligatorio, è un peccato. E se qualcuno si suicida, commette uno dei peccati più gravi.

Perché il suicidio è un peccato così grave?

Perché il suicida tocca un tesoro che non è suo: la vita; e commette un peccato che non potrà mai essere riparato; con la morte viene tagliata ogni possibilità di riparazione. Certo, la Chiesa è ben consapevole di quegli argomenti sentimentali con cui lo spirito deviato della nostra epoca riveste i suicidi di un certo fascino e li riveste di eroismo; è anche consapevole della terribile situazione economica in cui alcuni possono trovarsi; eppure rimane ferma nel suo atteggiamento: considera sempre e in ogni circostanza il suicidio come uno dei peccati più gravi. Voglio essere chiaro: noi non condanniamo nessuno, lasciamo il giudizio al Signore. Solo Dio può giudicare il grado di normalità o anormalità di quel povero disgraziato, di quel nostro fratello, con l’anima spezzata e in frantumi, nel momento in cui ha alzato la mano suicida contro se stesso. Eppure la Chiesa non può cambiare la sua posizione dottrinale; non può cambiare la sua opinione che solo Colui che ha dato la vita, il Creatore, può togliercela, e che né la malattia, né la morte di persone care, né la perdita di fortuna, né la delusione, né le illusioni frustrate, né la disgrazia, né la bancarotta, né qualsiasi altra prova ci danno il diritto di toglierci la vita. “Ma la mia vita è mia, è una mia proprietà personale! Che ti importa se voglio togliermela?” No, fratello! Tu possiedi un quadro d’arte. È l’opera di un pittore famoso. L’hai comprato. L’hai pagato. Il quadro è tuo. Eppure, non potete distruggerlo a vostro piacimento? No. Sarebbe sbagliato da parte vostra farlo. E quando si tratta della vita, essa è incomparabilmente più preziosa del miglior quadro, e anche perché la vostra vita è vostra rispetto alla mia, è vostra e non mia; ma non è vostra rispetto a Dio; non potete dire: è mia e non di Dio; è vostra nella misura in cui Dio ve la dà in usufrutto, ma è vostra nella misura in cui Dio ve la dà in usufrutto, nella misura in cui Dio ve la dà in usufrutto. È vostro nella misura in cui Dio ve lo concede in usufrutto, e ve lo concede perché porti frutto in opere buone finché non ve lo chieda. Siete usufruttuari e non proprietari assoluti. “Ma la vita è così dura, quando non c’è la minima gioia, quando si deve lottare tutto il tempo…..” Nemmeno allora. Questa vita terrena è davvero molto imperfetta; è solo uno stato di transizione. E se la sofferenza vi commuove, se la tristezza vi fa venire le lacrime agli occhi, è comprensibile. Ma romperla, annientarla?…; no, mai! “Ma nella mia vita è crollato tutto! Una cattiva amministrazione, un imbroglio, alcune decisioni sbagliate che ho preso… mi pesano e mi opprimono. Sono affondato… Che io possa almeno riparare ai miei torti!”. Espiare? Sì; ogni peccato richiede una riparazione. Ma ditemi: fare ammenda significa chiudersi la porta alle spalle, rendere impossibile qualsiasi tipo di riparazione? Riparare ciò che si è fatto di male significa avere il coraggio di correggere i propri errori, di iniziare una nuova vita. D’ora in poi potrete riparare con il vostro lavoro al peccato che avete commesso. Ma non è riparazione, bensì vigliaccheria, porre fine ad una vita sbagliata con un colpo di rivoltella; non è espiazione, ma fuga vigliacca, perché si rifiuta di pagare ciò che si deve, per risparmiarsi la fatica. Si tratta di un modo di pensare del tutto insensato e ingiusto. – Se ci guardiamo intorno, vediamo con stupore che questo modo di pensare del tutto insensato e, di conseguenza, il suicidio, si sta diffondendo al giorno d’oggi. Da quando ci sono state tante delusioni in amore, da quando ci sono stati tanti “fallimenti” negli esami, da quando la borsa va male? No, questo tipo di male non è nuovo per l’umanità, ma si sta diffondendo da quando il pensiero cristiano e la vita religiosa si sono indeboliti tra gli uomini. Per molti la vita terrena ha perso il suo valore. Come siamo arrivati a una conseguenza così fatale? Sembra strano, eppure è vero: il pilastro, la forza, il sostegno di questa vita terrena è proprio la vita eterna. Gli sfortunati adducono varie ragioni per spiegare le loro azioni: sfortuna, crisi economica, malattia, delusione…. Ma chi può dubitare che la maggior parte dei casi potrebbe essere evitata se si facesse capire loro che dovranno rendere conto a Dio, che non tutto è perduto, che la speranza non può mai venire meno quando si ripone la propria fiducia nel Signore, che è sempre pronto ad ascoltarci? Questa è una grande verità, una grande lezione tratta dall’esperienza: la vita umana, la vita sociale, ha bisogno del sostegno della Religione. Le fondamenta della società sono minate quando l’influenza della Religione viene meno. Non può esistere una società senza Religione, uno Stato senza Religione, sarebbe una follia, un omicidio. Non trovo un’altra parola: chi separa il corpo dall’anima è un assassino. E la Religione è l’anima della società. La vita dignitosa dell’uomo e la Religione formano un tutt’uno, come il corpo e l’anima. Il corpo è lo Stato; il suo fine, la prosperità naturale del popolo. L’anima è la Religione; il suo fine, la felicità eterna dell’uomo. Oggi vediamo in molti luoghi quanto scioccamente molti partiti e ideologie cerchino di far sì che lo Stato non si occupi di Religione, che la Religione non sia l’anima dello Stato…. Esaminiamo per un momento dove andrà a finire l’uomo senza Cristo. – Su questo punto si potrebbero scrivere pagine e pagine, raccontando i casi più improbabili. Ne trascrivo alcuni presi a caso; basteranno questi pochi per sentire come l’uomo si svilisce, come si abbassa il suo livello spirituale, come scompaiono i tratti umani dal suo volto, se durante il suo pellegrinaggio terreno si allontana da Gesù Cristo. A volte basta una piccola notizia di giornale per avviare le mie riflessioni. Ad esempio, l’Amministrazione postale degli Stati Uniti ha comunicato di aver adottato una nuova misura in via sperimentale, che si è rivelata molto efficace. Aggiunge che, una volta terminata la sperimentazione, sarà adottata definitivamente e la raccomanda vivamente agli interessati. Qual è l’innovazione? Che le poste si impegnano a trasportare a un prezzo molto vantaggioso, come “pegno senza valore”, le ceneri rimaste dai cadaveri bruciati. Con una piccola spesa, chiunque può inviare per posta le ceneri di un proprio caro… “gettone senza valore”… È un motivo di indignazione? A qualcuno potrebbe non sembrare, ma se ci pensiamo un po’… Non sentiamo tutti che qui manca qualcosa, che manca qualcosa nel giudizio degli uomini? – Non molto tempo fa è morto a Varsavia un famoso ladro, al cui funerale ha partecipato una folla immensa. In passato, la presenza a un funerale era un omaggio al defunto; da qui il nome “onoranze funebri”. Oggi muore un capo bandito o si suicida un uomo disperato, e gli uomini, isterici e non, eccitati dalle notizie sensazionalistiche dei giornali, sono capaci di aspettare per lunghe ore per assistere al momento della sepoltura. Scienziati di grande valore, artisti, genitori che fanno il loro dovere fino in fondo con silenzioso eroismo, sono accompagnati da pochi sull’ultima strada; ma quando si tratta di un assassino o di un suicida, i giornali lo pubblicano con numerose fotografie, e al funerale partecipa una folla immensa. Non sentiamo tutti che manca qualcosa nel giudizio degli uomini? – E che dire dei fautori del “suicidio assistito” e dell’eutanasia che, attraverso conferenze e articoli sui media, inducono le persone a porre fine alla propria vita? Che fatto terribile – e di cui nessuno sembra aver paura – che si debbano mettere recinzioni e sbarre intorno ai ponti per impedire alla gente di buttarsi giù! Non sentiamo tutti di aver perso Cristo? Non sentiamo tutti la bancarotta definitiva dell’incredulità? Dov’è il male? Nel fatto che abbiamo dimenticato che Cristo è anche il Re di questa vita terrena; non pensiamo di vivere secondo la dottrina di Cristo. Non c’è rimedio a questo se non in Cristo. Questo è l’unico modo efficace per prevenire il suicidio. Dobbiamo fare tutto il possibile per difendere la vita umana. Dobbiamo avere compassione per i suicidi. D’accordo. Ma… gli articoli che descrivono dettagliatamente come tale persona si è suicidata dovrebbero essere vietati dai media. Tutte le misure preventive sono giuste e lodevoli…. – Ma quando saranno efficaci tutte queste misure? Quando andremo a bere di nuovo alla fonte delle acque vive; quando torneremo a vivere per fede e ci renderemo conto che questa vita è il tempo della prova che Dio ci ha dato per diventare come Lui nell’amore, facendo la Sua volontà. Non ci è lecito abbandonare il posto di sentinella che Egli ci ha destinato, non ci è lecito fuggire vigliaccamente, ma dobbiamo perseverare in mezzo al fango e alla tempesta, al sole e al gelo, nella buona e nella cattiva sorte, facendo sempre il nostro dovere. “Chi ha orecchio ascolti….: A chi vince darò da mangiare dell’albero della vita, che è in mezzo al paradiso del mio Dio” (Apocalisse II:7).

* * *

Cristo è il Re di tutta la nostra vita e solo una fede viva ancorata a Cristo è in grado di aiutarci quando la nostra vita è difficile. Abbiamo bisogno di corrimano quando saliamo su sentieri ripidi e delimitati da abissi vertiginosi. Questa strada ripida è la vita; il corrimano è la fede. Abbiamo bisogno della forza per continuare a vivere, la forza della fede. Oggi assistiamo ad una grande battaglia: quella disperata del divino e del diabolico, del bello e del brutto, del concetto cristiano e di quello pagano della vita. Con Cristo la vita ha un senso, anche se è piena di lotte; senza Cristo la vita non vale la pena di essere vissuta. Scegliamo dunque: Cristo o Anticristo? Dio o satana? Il regno di Dio sulla terra o l’inferno oscuro di una vita senza senso? Signore, il mio corpo, la mia anima, tutto è tuo! Dammi forza, salute, un corpo robusto, un’anima pulita, affinché tutte le mie fatiche siano una continua lode in tuo onore. Che io sia l’arpa e Tu il canto che ne scaturisce! Che io sia il fuoco e che il Tuo amore arda in me! Che io sia la quercia e che Tu mi tenga in piedi!

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI-APOSATATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – “APOSTOLICÆ ECCLESIÆ”

Il Santo Padre Leone XIII, ancora una volta scrive la presente Lettera Enciclica in difesa dei popoli soggetti alla deportazione ed alla schiavitù: piaga vergognosa che ha deturpato la vita di popoli che si definivano civili pur negando a tanti infelici il diritto alla libertà che Dio aveva loro concesso. Uno dei rimedi suggerito è quello della propagazione, presso questi miseri popoli, della Religione di Cristo che con tanto zelo e continuità ha sempre detestato questa inumana condizione che rende gli uomini, immagine di Dio, degli animali da soma. Ecco come il Pontefice si esprime ad un certo punto: « … infatti, dove sono in vigore i costumi e le leggi cristiane; dove la Religione insegna agli uomini a rispettare la giustizia ed a onorare la dignità umana; dove ampiamente si diffuse quello spirito di carità fraterna, che Cristo c’insegnò, quivi non può esistere né schiavitù, né ferocia, né barbarie; ma fioriscono la soavità dei costumi e la libertà cristiana accompagnata dalla civiltà. » Ecco perché la scellerata conduzione dei popoli attuali mira da parte di uomini della politica e delle istituzioni, asserviti a poteri tenebrosi ed occulti fomentanti odio implacabile verso tutta l’umanità, a cancellare il Cristianesimo dal cuore di tutti gli uomini, onde renderli con facilità nuovi schiavi ed asservirli ad uno sfruttamento in ogni ambito, mediante l’uso moderno congiunto di tecnologie e mezzi che producono timori, paure e finanche terrori creati artificiosamente con i media asserviti ed imbonitori diabolici. A questo, come ben sappiamo, mirano ad esempio la diffusione sempre più ampia di sostanze come il grafene e la chitina che bloccando la funzionalità della ghiandola pineale, rendeno l’uomo psicologicamente inerte ed incapace di sottrarsi al controllo mentale. Meccanismi diabolici, sì, ma realizzabili solo se si spegne la forza e la luce che Nostro Signore Gesù Cristo è venuto a portare nel mondo per creare la società del figli di Dio, di cui Egli è Re, quella società che il demone infernale odia con odio inestinguibile e che tenta con ogni mezzo di trascinare con sé nel fuoco eterno. Ma noi Cattolici romani del pusillus grex, non temiamo né le armi e gli inganni del “cornuto”, né quelle dei suoi accoliti, oggi sguinzagliati in ogni dove, soprattutto nella finta chiesa dell’uomo da lui creata e gestita, che ha usurpato addirittura la Cattedra del Beato S. Pietro, Vicario in terra di Cristo, come pure nelle altrettanto false cappelline eretiche e scismatiche degli pseudo-tradizionalisti: non li temiamo perché dalla nostra abbiamo un “esercito potente schierato in battaglia”, il cui capo è le Vergine Maria, alla quale Dio fin dal principio, ha affidato il potere di schiacciare il dragone infernale ed i suoi adoratori.

Leone XIII
Catholicæ Ecclesiæ

La Chiesa cattolica, che abbraccia tutti gli uomini con carità di madre, quasi nulla ebbe più a cuore, fin dalle sue origini, come tu sai, Venerabile Fratello, che di vedere abolita e totalmente eliminata la schiavitù, che sotto un giogo crudele teneva moltissimi fra i mortali. Infatti, diligente custode della dottrina del suo Fondatore, che personalmente e con la parola degli Apostoli aveva insegnato agli uomini la fratellanza che li stringe tutti insieme, come coloro che hanno una medesima origine, sono redenti con lo stesso prezzo, e sono chiamati alla medesima eterna beatitudine, la Chiesa prese nelle proprie mani la causa negletta degli schiavi, e fu la garante imperterrita della libertà, sebbene, come richiedevano le circostanze e i tempi, si impegnasse nel suo scopo gradualmente e con moderazione. Cioè, procedeva con prudenza e discrezione, domandando costantemente ciò che desiderava nel nome della Religione, della giustizia e della umanità; con ciò fu grandemente benemerita della prosperità e della civiltà delle nazioni. – Nel corso dei secoli non rallentò mai la sollecitudine della Chiesa nel ridonare la libertà agli schiavi; anzi, quanto più fruttuosa era di giorno in giorno la sua azione, tanto più aumentava nel suo zelo. Lo attestano documenti inconfutabili della storia, la quale per tale motivo designò all’ammirazione dei posteri parecchi Nostri antecessori, fra i quali primeggiano San Gregorio Magno, Adriano I, Alessandro III, Innocenzo III, Gregorio IX, Pio II, Leone X, Paolo III, Urbano VIII, Benedetto XIV, Pio VII, Gregorio XVI, i quali posero in opera ogni cura perché l’istituzione della schiavitù, dove esisteva, venisse estirpata, e là dove era stata sterminata non rivivessero più i suoi germi. – Una così gloriosa eredità, lasciataci dai Nostri predecessori, non poteva essere ripudiata da Noi, per cui non abbiamo tralasciato alcuna occasione che Ci si offrisse di biasimare apertamente e di condannare questo flagello della schiavitù; espressamente ne abbiamo trattato nella Epistola scritta il 5 maggio 1888 ai Vescovi del Brasile, con la quale Ci siamo congratulati per quanto essi avevano con lodevole esempio operato pubblicamente in quel Paese per la libertà degli schiavi, e insieme abbiamo dimostrato quanto la schiavitù si opponga alla Religione ed alla dignità dell’uomo. – Invero, quando scrivevamo tali cose, Ci sentivamo fortemente commossi per la condizione di coloro che sono soggetti all’altrui dominio; e molto più raccapriccio provammo al racconto delle tribolazioni da cui sono oppressi tutti gli abitanti di alcune regioni del centro dell’Africa. È cosa dolorosa ed orrenda constatare, come abbiamo saputo da sicure informazioni, che quasi quattrocentomila Africani, senza distinzione di età e di sesso, ogni anno sono violentemente rapiti dai loro miseri villaggi, dai quali, legati con catene e percossi con bastoni durante il lungo viaggio, sono portati ai mercati dove, come bestie, sono messi in mostra e venduti. – Di fronte alle testimonianze di coloro che videro queste cose e alle recenti conferme di esploratori dell’Africa equatoriale, Ci siamo accesi dal vivo desiderio di venire, secondo le Nostre forze, in aiuto di quegli infelici e di recare sollievo alla loro sventura. Perciò, senza indugio, abbiamo incaricato il diletto Nostro figlio Cardinale Carlo Marziale Lavigerie, di cui Ci sono noti l’energia e lo zelo Apostolico, di andare per le principali città dell’Europa a far conoscere l’ignominia di questo turpissimo mercato e ad indurre i Principi ed i cittadini a portare soccorso a quelle infelicissime popolazioni. – Noi dobbiamo rendere grazie a Cristo Signore, Redentore amantissimo di tutte le genti, il quale nella sua benignità non permise che le Nostre sollecitudini andassero perdute, ma volle che riuscissero quasi come seme affidato a suolo fecondo, che promette una copiosa raccolta. Infatti, i Reggitori dei popoli e i Cattolici di tutto il mondo, e tutti coloro che rispettano i diritti delle genti e della natura, gareggiarono nell’indagare quali mezzi soprattutto siano necessari per sradicare del tutto quel commercio inumano. Un solenne Congresso tenuto testé a Bruxelles, al quale convennero i Legati dei Principi d’Europa, e una recente assemblea di privati, che col medesimo intento e con generosi propositi si radunarono a Parigi, dimostrano chiaramente che la causa dei Negri sarà difesa con quella energia e quella costanza che richiede la mole delle sciagure da cui quei miseri sono oppressi. È per questo che non vogliamo trascurare la nuova occasione che si presenta di rendere le meritate lodi ed i ringraziamenti ai Principi d’Europa ed agli altri personaggi di buona volontà: al sommo Dio domandiamo fervidamente che voglia dare felice riuscita ai loro disegni ed all’impianto di una così grande impresa. – Ma, oltre alla cura di difendere la libertà, un’altra cura più grave, più da vicino riguarda il Nostro ministero Apostolico, quella cioè che impone di adoperarci perché nelle regioni dell’Africa si propaghi la dottrina del Vangelo, che con la luce della verità divina illumini quelle popolazioni giacenti nelle tenebre e oppresse da cieca superstizione, affinché diventino con noi partecipi dell’eredità del regno di Dio. Questo impegno poi lo curiamo con tanto maggior zelo, in quanto quei popoli, ricevuta la luce evangelica, scuoteranno da sé il giogo della schiavitù umana. Infatti, dove sono in vigore i costumi e le leggi cristiane; dove la Religione insegna agli uomini a rispettare la giustizia e a onorare la dignità umana; dove ampiamente si diffuse quello spirito di carità fraterna, che Cristo c’insegnò, quivi non può esistere né schiavitù, né ferocia, né barbarie; ma fioriscono la soavità dei costumi e la libertà cristiana accompagnata dalla civiltà. – Già parecchi uomini Apostolici, quasi avanguardia di Cristo, sono andati in quelle regioni dove, per la salute dei fratelli, diedero non solo il sudore, ma anche la vita. Tuttavia, la messe è molta, ma gli operai sono pochi; per cui è necessario che moltissimi altri, animati dallo stesso spirito di Dio, senza timore alcuno né di pericoli, né di disagi, né di fatiche, vadano in quelle regioni dove si esercita quel vergognoso commercio, per recare ai loro abitanti la dottrina di Cristo congiunta alla vera libertà. – Però un’impresa di tanta gravità domanda mezzi pari alla sua ampiezza. Infatti, non si può provvedere senza grandi disponibilità all’Istituto dei missionari, ai lunghi viaggi, alla costruzione delle residenze, alla erezione e alla dotazione delle chiese e ad altre simili cose necessarie: dovremo sostenere tali spese per alcuni anni, finché, in quei luoghi dove si saranno fissati, i predicatori del Vangelo possano provvedere autonomamente. Dio volesse che Noi avessimo i mezzi con cui poter sostenere questo peso! Ma ostando ai Nostri voti le gravi angustie nelle quali Ci troviamo, con paterna voce Ci appelliamo a te, Venerabile Fratello, a tutti gli altri Vescovi e a tutti i Cattolici, e raccomandiamo alla vostra e alla loro carità una così santa e salutare opera. Infatti, desideriamo che tutti partecipino, anche con una piccola offerta, affinché il peso, diviso fra molti, diventi più leggero e tollerabile da tutti, e perché in tutti si diffonda la grazia di Cristo, trattandosi della propagazione del suo regno, e a tutti arrechi la pace, il perdono dei peccati e qualunque dono più prezioso. – Decidiamo pertanto che ogni anno, nel giorno e dove si celebrano i misteri dell’Epifania, venga raccolto denaro come offerte a favore dell’Opera ora ricordata. Scegliamo questo giorno solenne a preferenza degli altri, perché, come bene intendi, Venerabile Fratello, in quel giorno il Figlio di Dio per la prima volta si palesò alle genti, mentre si fece conoscere ai Magi, i quali perciò da San Leone Magno, Nostro antecessore, sono appunto chiamati le primizie della nostra vocazione e della fede. Speriamo pertanto che Cristo Signore, commosso dalla carità e dalle preci dei figli, i quali ricevettero la luce della verità con la rivelazione della sua divinità, illumini pure quella infelicissima parte del genere umano e la tolga dal fango della superstizione e dalla dolorosa condizione, in cui da tanto tempo giace avvilita e trascurata. – Vogliamo poi che il denaro raccolto in detto giorno nelle chiese e nelle cappelle soggette alla tua giurisdizione, sia trasmesso a Roma alla Sacra Congregazione di Propaganda. Sarà poi compito di essa ripartire questo denaro tra le Missioni che esistono o verranno istituite nelle regioni Africane, soprattutto per estirpare la schiavitù; il riparto sarà fatto in modo che le somme di denaro provenienti dalle nazioni che hanno proprie Missioni cattoliche per redimere gli schiavi, come ricordammo, vengano assegnate a mantenere e a promuovere le stesse. La rimanente elemosina sia poi ripartita con prudente criterio fra le più bisognose dalla stessa Sacra Congregazione, la quale conosce i bisogni delle Missioni. – Non dubitiamo che Dio, ricco in misericordia, accolga benignamente i voti che formuliamo per gli infelici Africani, e che tu, Venerabile Fratello, ti adopererai spontaneamente con la volontà e con il tuo lavoro perché siano abbondantemente soddisfatti questi propositi. Confidiamo inoltre che con questo temporaneo e speciale soccorso, che i fedeli daranno per abolire la piaga del traffico disumano e per sostentare i banditori del Vangelo nei luoghi dove essa esiste, non diminuirà la liberalità con la quale si sogliono promuovere le Missioni cattoliche con l’elemosina raccolta dall’Istituto che, fondato a Lione, fu detto della Propagazione della Fede. Quest’opera salutare, che già raccomandammo ai fedeli, presentandosene l’opportunità elogiamo nuovamente, desiderando che largamente estenda i suoi benefici e fiorisca in lieta prosperità. – Intanto, Venerabile Fratello, a te, al clero e ai fedeli affidati alla tua pastorale vigilanza, affettuosissimamente impartiamo la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 20 novembre 1890, anno decimoterzo del Nostro Pontificato.

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2023)

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione: a S. Pietro.

Semidoppio Dom. privil; di IParamentolacei.

Come le tre prime profezie del Sabato Santo con le loro preghiere sono consacrate ad Adamo, a Noè, ad Abramo, così il Breviario e il Messale, durante le tre settimane del Tempo della Settuagesima, trattano di questi Patriarchi che la Chiesa chiama rispettivamente il « padre del genere umano », il « padre della posterità » e il « padre dei credenti ». Adamo, Noè e Abramo sono le figure del Cristo nel mistero pasquale; lo abbiamo già dimostrato per i due primi, nelle due Domeniche della Settuagesima e della Sessagesima, ora lo mostreremo di Abramo. Nella liturgia ambrosiana la Domenica di Passione era chiamata « Domenica di Abramo » e si leggevano, nell’ufficiatura, i “responsori di Abramo”. Anche nella liturgia romana il Vangelo della Domenica di Passione è consacrato a questo Patriarca. « Abramo vostro Padre, – disse Gesù, – trasalì di gioia nel desiderio di vedere il mio giorno: Io vide e ne ha goduto. In verità, in verità vi dico io sono già prima che Abramo fosse ». – Dio aveva promesso ad Abramo che il Messia sarebbe nato da lui e questo Patriarca fu pervaso da una grande gioia, contemplando in anticipo, con la sua fede, l’avvento del Salvatore e allorché ne vide la realizzazione, contemplò con novella gioia l’avvenuto mistero dal limbo ove attendeva con i giusti dell’antico Testamento, che Gesù venisse a liberarli dopo la sua Passione. Quando al Tempo di Quaresima si aggiunsero le tre settimane del Tempo di Settuagesima, la Domenica consacrata ad Abramo divenne quella di Quinquagesima. Infatti, le lezioni e i responsori dell’Ufficio di questo giorno descrivono l’intera storia di questo Patriarca. Volendo formarsi un popolo suo, nel mezzo delle nazioni idolatre (Grad. e Tratto). Dio scelse Abramo come capo di questo popolo e lo chiamò Abramo, nome che significa padre di una moltitudine di nazioni. « E lo prese da Ur nella Caldea e lo protesse durante tutte le sue peregrinazioni » (Intr., Or.). « Per la fede, – dice S. Paolo – colui che è chiamato Abramo, ubbidì per andare al paese che doveva ricevere in retaggio e partì senza saper dove andasse. Egli con la fede conseguì la terra di Canaan nella quale visse più di 25 anni come straniero. È in virtù della sua fede che divenne, già vecchio, padre di Isacco e non esitò a sacrificarlo, in seguito ad ordine di Dio, sebbene fosse suo figlio unico, nel quale riponeva ogni speranza di vedere effettuate le promesse divine d’una posterità numerosa. (Agli Ebrei, XI. 8,17) – Isacco infatti rappresenta Cristo allorché fu scelto « per essere la gloriosa vittima del Padre » (VI Orazione del Sabato Santo.); allorché portò il fastello sul quale stava per essere immolato, come Gesù portò la Croce sulla quale meritò la gloria colla sua Passione; allorché fu rimpiazzato da un montone trattenuto per le corna dalle spine di un cespuglio, come Gesù, l’Agnello di Dio ebbe, dicono i Padri, la testa contornata dalle spine della sua corona; e specialmente allorché liberato miracolosamente dalla morte, fu reso alla vita per annunziare che Gesù dopo essere stato messo a morte, sarebbe risuscitato. Così con la sua fede, Abramo, che credeva senza esitare ciò che stava per avvenire, contemplò da lungi il trionfo di Gesù sulla Croce e ne gioì. Fu allora che Dio gli confermò le sue promesse: “Poiché tu non mi hai rifiutato il tuo unico figlio, io ti benedirò, ti darò una posterità numerosa come le stelle del cielo e l’arena del mare” (VI orat. Del Sabato santo). Queste promesse Gesù le realizzò con la sua Passione. « Il Cristo, dice S. Paolo, ci ha redenti pendendo dalla croce perché la benedizione, data ad Abramo fosse comunicata ai Gentili dal Cristo, e così noi ricevessimo mediante la fede la promessa dello Spirito », cioè lo Spirito di adozione che ci era stato promesso. « Fa’, o Dio, prega la Chiesa nel Sabato Santo, che tutti i popoli della terra divengano figli di Abramo, e, mediante l’adozione, moltiplica i figli della promessa » (3a settimana dopo l’Epifania, feria 2a – martedì) . Si comprende ora perché la Stazione oggi si fa a S. Pietro, essendo il Principe degli Apostoli che fu scelto da Gesù Cristo per essere il capo della sua Chiesa e, in una maniera assai più eccellente che Abramo stesso, « il padre di tutti i credenti ». – La fede in Gesù, morto e risuscitato, che meritò ad Abramo di essere il padre di tutte le nazioni e che permette a tutti noi di divenire suoi figli, è l’oggetto del Vangelo. Gesù Cristo vi annunzia la sua Passione ed il suo trionfo e rende la vista ad un cieco dicendogli: La tua fede ti ha salvato. Questo cieco, commenta S. Gregorio, recuperò la vista sotto gli occhi degli Apostoli, onde quelli che non potevano comprendere l’annunzio di un mistero celeste fossero confermati nella fede dai miracoli divini. Infatti bisognava che vedendolo di poi morire nel modo come lo aveva predetto, non dubitassero che doveva anche risuscitare ». (4° e 5° Orazione). L’Epistola, a sua volta mette in pieno valore la fede di Abramo e ci insegna come deve essere la nostra. « La fede senza le opere, scrive S. Giacomo, è morta. La fede si mostra con le opere. Vuoi sapere che la fede senza le opere è morta? Abramo, nostro padre, non fu giustificato dalle opere, quando offri suo figlio Isacco su l’altare? Vedi come la fede cooperò alle sue opere e come per mezzo delle opere fu resa perfetta la fede. Così si compi la Scrittura che dice: Abramo credette a Dio e gli fu imputato a giustizia e fu chiamato amico di Dio. Voi vedete che l’uomo è giustificato dalle opere e non dalla fede solamente » (3° Notturno). L’uomo è salvato non per essere figlio di Abramo secondo la carne, ma per esserlo secondo una fede simile a quella di Abramo. « In Cristo Gesù, scrive S. Paolo, non ha valore l’essere circonciso (Giudei), o incirconciso (Gentili), ma vale la fede operante per mezzo dell’amore ». « Progredite nell’amore, dice ancora l’Apostolo, come Cristo ci ha amati e ha offerto se stesso per noi in oblazione a Dio e in ostia di odore soave » (Ad Gal. 5, 6). – In questa domenica e nei due giorni seguenti, ha luogo in moltissime chiese, una solenne adorazione del SS.mo Sacramento, in espiazione di tutte le colpe che si commettono in questi tre giorni. Questa preghiera di espiazione, conosciuta sotto il nome di « quarant’ore », fu istituita da S. Antonio Maria Zaccaria (5 luglio) nella Congregazione dei Barnabiti, e si generalizzò, venendo riferita particolarmente a questa circostanza, sotto il pontificato di Clemente XIII, il quale nel 1765, l’arricchì di numerose indulgenze.

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XXX: 3-4

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me.

[Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guidami e assistimi.]

Ps XXX:2

In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me. –

[In Te, o Signore, ho sperato, ch’io non resti confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e sàlvami.]

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me.

[Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guídami e assistimi.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Orémus.

Preces nostras, quaesumus, Dómine, cleménter exáudi: atque, a peccatórum vínculis absolútos, ab omni nos adversitáte custódi.

[O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le nostre preghiere: e liberati dai ceppi del peccato, preservaci da ogni avversità].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.

1 Cor XIII: 1-13

“Fratres: Si linguis hóminum loquar et Angelórum, caritátem autem non hábeam, factus sum velut æs sonans aut cýmbalum tínniens. Et si habúero prophétiam, et nóverim mystéria ómnia et omnem sciéntiam: et si habúero omnem fidem, ita ut montes tránsferam, caritátem autem non habúero, nihil sum. Et si distribúero in cibos páuperum omnes facultátes meas, et si tradídero corpus meum, ita ut árdeam, caritátem autem non habuero, nihil mihi prodest. Cáritas patiens est, benígna est: cáritas non æmulátur, non agit pérperam, non inflátur, non est ambitiósa, non quærit quæ sua sunt, non irritátur, non cógitat malum, non gaudet super iniquitáte, congáudet autem veritáti: ómnia suffert, ómnia credit, ómnia sperat, ómnia sústinet. Cáritas numquam éxcidit: sive prophétiæ evacuabúntur, sive linguæ cessábunt, sive sciéntia destruétur. Ex parte enim cognóscimus, et ex parte prophetámus. Cum autem vénerit quod perféctum est, evacuábitur quod ex parte est. Cum essem párvulus, loquébar ut párvulus, sapiébam ut párvulus, cogitábam ut párvulus. Quando autem factus sum vir, evacuávi quæ erant párvuli. Vidémus nunc per spéculum in ænígmate: tunc autem fácie ad fáciem. Nunc cognósco ex parte: tunc autem cognóscam, sicut et cógnitus sum. Nunc autem manent fides, spes, cáritas, tria hæc: major autem horum est cáritas.”

[“Fratelli: Se parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, e non ho carità, sono come un bronzo sonante o un cembalo squillante. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutto lo scibile, e se avessi tutta la fede così da trasportare i monti, e non ho la carità, non sono nulla. E se distribuissi tutte le mie sostanze in nutrimento ai poveri ed offrissi il mio corpo a esser arso, e non ho la carità, nulla mi  giova. La carità è paziente, è benigna. La carità non è invidiosa, non è avventata, non si gonfia, non è burbanzosa, non cerca il proprio interesse, non s’irrita, non pensa al male; non si compiace dell’ingiustizia, ma gode della verità: tutto crede, tutto spera, tutta sopporta. La carità non verrà mai meno. Saranno, invece, abolite le profezie, anche le lingue cesseranno, e la scienza pure avrà fine. Perché la nostra conoscenza è imperfetta, e imperfettamente profetiamo; quando, poi, sarà venuto ciò che è perfetto, finirà ciò che è imperfetto. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, giudicavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma diventato uomo, ho smesso ciò che era da bambino. Adesso noi vediamo attraverso uno specchio, in modo oscuro; ma allora, a faccia a faccia. Ora conosco in parte; allora, invece, conoscerò così, come anch’io sono conosciuto. Adesso queste tre cose rimangono: la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di esse è la carità”.

I doni che qui enumera S. Paolo sono di grande importanza. Parlar lingue sconosciute; parlar come parlano tra loro gli Angeli in cielo; predire il futuro; intendere i misteri, spiegarli e persuaderli agli altri; avere il dono d’una fede, che all’occorrenza operi prodigi strepitosi, come il trasporto delle montagne; aver l’eroismo di distribuire tutte le proprie sostanze, di gettarsi nel fuoco o di sacrificare, comunque, la propria vita per salvare quella degli altri, non è certamente da tutti. Il possedere uno solo di questi doni, il compiere una sola di queste azioni, basterebbe a formare la grandezza di un uomo. S. Paolo, che doveva conoscer bene tutti questi doni, da quello di parlar lingue straniere a quello di voler sacrificarsi per il prossimo, afferma che. son superati da un altro bene: la carità. È tanto grande la carità, che senza di essa tutti gli altri doni mancano di pregio. È vero che questi doni non sono inutili per coloro, in cui il favore di Dio li concede; ma sono inutili, senza la carità, per il bene spirituale di chi li possiede. Sono come il danaro che uno distribuisce agli altri, non serbando nulla per sé. Arricchisce gli altri, ed egli si trova in miseria. – Nelle relazioni col prossimo la carità ci fa esercitare la mansuetudine, la pazienza, la mortificazione dell’amor proprio, l’umiltà, il disinteresse. Essa ci spinge a toglier disordini, ad allontanare scandali, a sopprimere abusi, a evitar liti, a estinguere odi. Se tutti gli uomini nelle loro relazioni fossero guidati nella carità, non ci sarebbero più tribunali. La carità, insomma, indirizza, perfeziona, innalza, avvalora, santifica tutte le nostre azioni. – L’eccellenza della carità risalta ancor più dal fatto che durerà eternamente. La carità non verrà mai meno. In cielo non ci saranno più profezie, non ci sarà più il dono delle lingue, non essendovi alcuno che abbia bisogno di essere istruito. Ci sarà ancora, invece, la carità. Su questa terra abbiam bisogno della fede, della speranza e della carità, che sono come i tre organi essenziali della vita cristiana, e sono, quindi, indispensabili per la nostra santificazione. Ma la fede e la speranza cesseranno nell’altra vita. – Se quaggiù, non conoscendo Dio che per la fede, lo amiamo; quanto più deve crescere il nostro amore quando lo vedremo svelatamente? Quando contempleremo la sua bellezza che supera la bellezza delle anime più giuste e più sante; che supera la bellezza di tutti gli spiriti celesti più eccelsi; che supera tutto ciò che di bello e di buono si può immaginare, la nostra carità non avrà più limiti. Tutti gli ostacoli che quaggiù si oppongono alla carità, lassù saranno tolti. Tutto, invece, servirà ad accenderla. Se Dio non ci ha dato doni straordinari; se non abbiamo un forte ingegno, un’istruzione profonda: se non possediamo beni di fortuna: se la salute non è di ferro; se il nostro aspetto non è gradevole: non siamo inferiori, davanti a Dio, a tutti quelli che posseggono questi doni, qualora abbiamo la carità. Anzi siamo a essi immensamente superiori, se tutti questi loro doni non sono accompagnati dalla carità. Noi dobbiam curare di essere accetti agli occhi di Dio. In fondo, è un niente tutto quel che non è Dio. « Dio è Carità » (1 Giov. IV, 8). In questa fornace ardente accendiamo i nostri cuori qui in terra, se vogliamo andare un giorno a inebriarci in Dio su nel Cielo.

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

 Graduale:

Ps LXXVI: 15; LXXVI: 16

Tu es Deus qui facis mirabília solus: notam fecísti in géntibus virtútem tuam.

[Tu sei Dio, il solo che operi meraviglie: hai fatto conoscere tra le genti la tua potenza.]

Liberásti in bráchio tuo pópulum tuum, fílios Israel et Joseph

[Liberasti con la tua forza il tuo popolo, i figli di Israele e di Giuseppe.]

Tratto:

Ps XCIX: 1-2

Jubiláte Deo, omnis terra: servíte Dómino in lætítia,

V. Intráte in conspéctu ejus in exsultatióne: scitóte, quod Dóminus ipse est Deus.

V. Ipse fecit nos, et non ipsi nos: nos autem pópulus ejus, et oves páscuæ ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta: servite il Signore in letizia.

V. Entrate alla sua presenza con esultanza: sappiate che il Signore è Dio.

V. Egli stesso ci ha fatti, e non noi stessi: noi siamo il suo popolo e il suo gregge.]

Evangelium

Luc XVIII: 31-43

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus duódecim, et ait illis: Ecce, ascéndimus Jerosólymam, et consummabúntur ómnia, quæ scripta sunt per Prophétas de Fílio hominis. Tradátur enim Géntibus, et illudétur, et flagellábitur, et conspuétur: et postquam flagelláverint, occídent eum, et tértia die resúrget. Et ipsi nihil horum intellexérunt, et erat verbum istud abscónditum ab eis, et non intellegébant quæ dicebántur. Factum est autem, cum appropinquáret Jéricho, cæcus quidam sedébat secus viam, mendícans. Et cum audíret turbam prætereúntem, interrogábat, quid hoc esset. Dixérunt autem ei, quod Jesus Nazarénus transíret. Et clamávit, dicens: Jesu, fili David, miserére mei. Et qui præíbant, increpábant eum, ut tacéret. Ipse vero multo magis clamábat: Fili David, miserére mei. Stans autem Jesus, jussit illum addúci ad se. Et cum appropinquásset, interrogávit illum, dicens: Quid tibi vis fáciam? At ille dixit: Dómine, ut vídeam. Et Jesus dixit illi: Réspice, fides tua te salvum fecit. Et conféstim vidit, et sequebátur illum, magníficans Deum. Et omnis plebs ut vidit, dedit laudem Deo.” –

[In quel tempo prese seco Gesù i dodici Apostoli, e disse loro: Ecco che noi andiamo a Gerusalemme, e si adempirà tutto quello che è stato scritto da1 profeti intorno al Figliuolo dell’uomo. Imperocché sarà dato nelle mani de’ Gentili, e sarà schernito e flagellato, e gli sarà sputato in faccia, e dopo che l’avran flagellato, lo uccideranno, ed ei risorgerà il terzo giorno. Ed essi nulla compresero di tutto questo, e un tal parlare era oscuro per essi, e non intendevano quel che loro si diceva. Ed avvicinandosi Egli a Gerico, un cieco se ne stava presso della strada, accattando. E udendo la turba che passava, domandava quel che si fosse. E gli dissero che passava Gesù Nazareno. E sclamò, e disse: Gesù figliuolo di David, abbi pietà di me. E quelli che andavano innanzi lo sgridavano perché si chetasse. Ma egli sempre più esclamava: Figliuolo di David, abbi pietà di me. E Gesù soffermatosi, comandò che gliel menassero dinnanzi: E quando gli fu vicino lo interrogò, dicendo: “Che vuoi tu ch’Io ti faccia? E quegli disse: Signore, ch’io vegga. E Gesù dissegli: Vedi; la tua fede ti ha fatto salvo. E subito quegli vide, e gli andava dietro glorificando Dio. E tutto il popolo, veduto ciò, diede lode a Dio.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LA PASSIONE DI CRISTO E LA CECITÀ DEGLI UOMINI

Quando Isacco, col fastello di legna, saliva la montagna dell’immolazione, poteva volgersi al padre che lo seguiva e domandargli: « Padre, dov’è la vittima? ». Non sapeva il giovanetto d’esser lui, la vittima. Ma Gesù ascendendo la collina di Sion non ignorava di essere il vero agnello dell’imminente sacrificio. La luna nuova di Nisan era apparsa nel cielo. Sui monti s’accendevano i fuochi. Uomini appositamente incaricati percorrevano il paese annunciando che fra quattordici giorni si sarebbe celebrata la Pasqua. Le carovane cominciavano ad organizzarsi e dai paesi più lontani si mettevano in viaggio per arrivare in tempo a purificarsi prima della festa. Gesù, che allora era in Perea, li vedeva passare allegri e li udiva lontani cantare i salmi più patetici. Per tutti la Pasqua significava la vita, ma per Lui significava morte. Già l’ora scritta nei Libri era scoccata; già l’abbominazione entrava nel luogo santo. – Gesù con i suoi discepoli mosse verso Gerusalemme, camminava avanti a tutti taciturno. Gli Apostoli, dietro, lo seguivano pieni di stupore, e la turba presentendo un’angoscia ignota era piena d’un misterioso sgomento. Gesù prese i Dodici in disparte e disse loro: « Ecco che noi ascendiamo a Gerusalemme, e si compirà tutto quello ch’è nei Profeti. Sarò tradito, schernito, flagellato, coperto di sputi. Sarò ucciso ». Gli Apostoli inorridirono. Or ecco, Cristiani: Gesù ascende ancora verso la città, o meglio, verso ogni città, ogni paese. Perché in tutte le città, in tutti i paesi la settimana del carnevale è la settimana della passione di Cristo. E nuovamente Cristo, per i peccati, verrà tradito, deriso, flagellato, sputacchiato, ucciso. È tradito quegli che è la forza di Dio e che ha pronte al suo cenno dodici legioni di Angeli. È deriso quegli che è la Sapienza increata. È flagellato quegli che è la stessa innocenza e che non conobbe peccato. È sputacchiato quegli che è la gloria di Dio, in cui gli Angeli intendono lo sguardo tremando. È ucciso quegli che è l’autore della vita. Tutto questo per il peccato. Tutto questo perché siam ciechi. 1. LA PASSIONE DI CRISTO È IL PECCATO. Una vecchia biografia di S. Domenico riferisce il seguente fatto: Una donna di costumi dubbi, contrariamente alle sue abitudini, una sera trovasi sola in casa. A un tratto udì bussare alla porta, stranamente. Va ad aprire. Le appare sulla soglia un uomo bellissimo d’aspetto, ma in preda a profonda tristezza: le chiede ospitalità per una notte. La donna lo fa entrare, gentilmente lo prega di sedere, gli offre parte della sua cena. Lo sconosciuto accetta e tace. Ma ecco che, sui panni dell’ospite, sulla sedia dove è seduto, appariscono chiazze di sangue. La donna spaventata gli cambia tovagliolo. Dopo qualche istante, il sangue affiora nuovamente, e la macchia rossa è là davanti a lei, sul petto dello sconosciuto. Allora la misera capisce. – L’uomo seduto alla sua mensa non è un uomo qualunque è l’uomo del Golgotha; e il sangue che gli scorre è il prezzo dei nostri peccati. Noi pecchiamo e il sangue sgorga dal suo cuore squarciato. In questa settimana Gesù passa per le nostre vie, per i ritrovi, per le famiglie: ha sul volto una tristezza mortale; ha sul petto una piaga mortale, che fa sangue. « Ecco – diceva Gesù – il Figliuol dell’uomo sarà tradito… » Ma allora fu tradito da uno solo, nel segreto; oggi invece sono folle deliranti di peccatori che lo tradiscono; non nel segreto e nell’ombra di un orto, ma sfacciatamente nelle piazze, nei pubblici ritrovi, nei balli, nei veglioni.  « Ecco – diceva Gesù – il Figliuol dell’uomo sarà schernito. Gli copriranno gli occhi con una benda perché indovini chi lo percuota. Gli porranno, sulle spalle, uno straccio rosso che rassomigli alla porpora dei re, e tra le mani, una canna, che raffiguri lo scettro dei re ». E Gesù fu mascherato da re da burla!… Oggi sono gli uomini che si mascherano il volto e tramutano le vesti per offenderlo senza vergogna.  – « Ecco — diceva Gesù — e il Figliuol dell’Uomo sarà coperto di sputi ». Il purissimo volto del Signore, quello che nel cielo farà la gioia dei Santi per tutta l’eternità, fu macchiato di lordure!… ma allora erano pochi soldatacci; in questa settimana, moltissimi si credono lecito di gettare il loro insulto immondo, il loro peccato vergognoso contro l’adorabile maestà del Signore. – « Ecco — diceva Gesù — e il Figliuol dell’uomo sarà ucciso ». Morire per gli uomini, immolarsi per la salvezza delle anime nostre, spargere tutto il suo sangue divino per lavare i nostri delitti mentre gli uomini, coi loro peccati, col loro diabolico carnevale, dimostrano di non saperne che fare della redenzione cruenta di Gesù Cristo! Quæ utilitas in sanguine meo! Questo pensiero fu il tormento più atroce d’ogni tormento, e i Cristiani lo rinnovano in questi giorni di pazza allegria.. Bisogna proprio dire che non comprendiamo nulla di ciò che v’è nel Cuore sacro di Gesù, bisogna proprio dire che siamo ciechi. – 2. LA NOSTRA CECITÀ. Intanto la tristissima comitiva era giunta alle porte di Gerico. Gesù taceva ancora e intorno v’era ancora un arcano sgomento. In quel camminar silenzioso e grave, s’udì levarsi dal ciglio della via un grido straziante: « Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me ». Era un povero cieco, che sdraiato nel polverone della strada, s’era accorto che passava il Signore. La folla gli impose di tacere perché non disturbasse la mestizia di quel viaggio estremo. Ma l’infelice gridò più alto di prima: « Gesù, figlio di Davide, pietà di me! ». – «Che vuoi? » gli disse il Maestro che l’aveva udito. « Ch’io veda, perché son cieco ». – « Guarda! » rispose il Signore, semplicemente. E il cieco vide. « Ch’io veda, perché sono cieco! » gridiamo noi pure a Gesù che oggi passa vicino al nostro cuore. « Ch’io veda — diciamogli — l’orribile cosa che è il peccato; ch’io veda come fu per il peccato che tu hai tanto patito; ch’io veda come al mondo non v’è un male peggiore del peccato ». Gesù aprirà gli occhi dell’anima nostra, e noi vedremo il bene e il male. – Allora questi giorni di carnevale per noi non passeranno in peccati, ma in opere buone di riparazione per tanti ciechi peccatori; non passeranno nei divertimenti impuri del mondo, ma nella serena letizia del Signore. – In una parrocchia un grande crocifisso minacciava di staccarsi dal legno. Il curato chiama il fabbro per ribadire i chiodi che sostengono l’immagine del Salvatore morente. Il fabbro appoggia la scala alla parete e sale. Giunto al crocifisso subito sente risvegliarsi quella fede che da molto tempo non aveva praticata e prova una profonda amarezza. Egli aveva tante volte coi suoi peccati ribaditi quei chiodi nella carne viva del Figlio di Dio. Ma il dolore invade il suo cuore: gli occhi son pieni di lacrime: la mano che vibra il martello è inerte. « Signor parroco, non posso! no, veramente non posso… ». Oh se nell’ora delle tentazioni fosse vivo in noi il pensiero delle sofferenze di Gesù, se nelle lusinghe del carnevale, l’immagine del crocifisso ci stesse davanti e noi pensassimo che i dolori del Cristo, e le angosce della sua passione diventano inutili per il peccato!… – I veri carnefici di Gesù non furono i soldati Romani, dalle maniche rovesciate, che nel corpo di guardia della cittadella Antonia flagellarono le spalle del Signore: i veri carnefici di Gesù siamo noi. – – FIGLI DELLA TENEBRA E FIGLI DELLA LUCE. In piena assemblea, Caifa, il gran sacerdote di quell’anno, s’era alzato a dire la sua proposta terribile: « Per conto mio, è necessario che uno muoia per tutti ». Quell’uno, tutti capirono, era Gesù di Nazareth. Ma Gesù era lontano venti miglia da Gerusalemme, in una borgata nominata Efraim, ove si tratteneva co’ suoi discepoli in conversazioni intime e in preghiera. Tuttavia, Egli non ignorava le risoluzioni minacciose del Sinedrio contro di Lui, e quando la festa di Pasqua fu vicina, si pose in viaggio verso la città della sua morte. Giunsero in vista della città di Gerico. Quando Gesù stava per entrarvi, una gran folla lo accompagnava. Il suo Nome passava altamente sulla bocca di tutti. Anche un cieco si mise a gridare: « Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me ». Bartimeo era il suo nome ed invano gli si voleva imporre di zittire, ché egli sempre più forte gridava: « Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me ». E Gesù, che già era passato oltre, intenerito da quelle pietose voci, si fermò e: « Chiamatelo », soggiunse. « Coraggio, alzati! — adesso tutti gli dicevano, — egli ti chiama ». Ma l’uomo già si era gettato via il mantello e d’un salto si portò davanti al Signore che gli disse: « Che cosa desideri da me? ». « Maestro buono, e che cosa può desiderare un cieco se non di vedere? ». « Ebbene, che tu veda! ». E da quel momento Bartimeo cessò di essere cieco. Dal brano evangelico, si presenta da sé alla nostra anima il contrasto tra Caifa e Bartimeo, tra il Sinedrio e i discepoli del Signore. Caifa ha gli occhi, ma non vede la luce vera venuta in questo mondo: egli è figlio della tenebra; Bartimeo è un povero cieco, eppure egli vede la luce vera che passa davanti a sé: egli è figlio della luce. Il Sinedrio per festeggiare la Pasqua brama la morte del Redentore, i discepoli invece lo accompagnano con affetto e con mestizia. Cristiani, quello che fu una volta si rinnova ancora nei secoli; si rinnova ancora in questa settimana. Il mondo, come un novello Caifa, s’alza a proclamare la morte di Gesù; e le turbe lo seguono per mettere in croce un’altra volta il Redentore divino. « Ecco, — ripete Egli tristemente — mi flagelleranno di nuovo con le loro orge, coi loro balli inverecondi, con i loro spettacoli impudichi; mi sputeranno di nuovo sul volto con le bestemmie, con le parole oscene; mi uccideranno coi loro peccati ». – Soltanto qualche anima, in questa settimana, innalzerà a Lui che passa la preghiera di Bartimeo: « Signore, che io veda! che io veda come il carnevale mondano altro non è che un resto di paganesimo, che io veda che in fondo a questi piaceri c’è il veleno mortale, ch’io veda che lontano da te non c’è allegria né salvezza ». – Soltanto pochi, in questa settimana, accompagneranno Gesù, consolandolo con la loro compagnia e col loro affetto. Ma queste anime, ma questi pochi sono i figli della luce. – 1. FIGLI DELLA TENEBRA. Per quale strada camminasse Dante non ce l’ha detto, quando vide uno spettacolo strano e pietoso. Un pastorello, sospingendo un suo branco di pecore, s’era trovato a passare non lungi da un pozzo circondato da un muricciolo. Ed ecco una pecora imprudente correre da quella parte, e, credendo di saltare un ostacolo, precipita nel pozzo. Allora, dietro alla sventata, due altre pecore presero la rincorsa, e poi tre e poi tutte. Inutilmente il pastore, piangendo e gridando, con le braccia e col petto cercava di frenarle nel folle impeto; giacché una dopo l’altra, tutte caddero nel pozzo. Forse aveva davanti alla mente questa scena quando il Poeta nella sua Divina Commedia scrisse quel verso proverbiale: « Uomini siate e non pecore matte! ché se una pecora si gettasse da una ripa di mille passi, tutte l’altre l’andrebbero dietro; e se una pecora per alcuna cagione al passare d’una strada salta, tutte l’altre saltano, eziandio nulla veggendo da saltare ». Ma a me pare, e parrebbe così anche a Dante se ancor fosse vivo, che moltissimi Cristiani sono più matti delle pecore matte. Vedono un compagno, un amico, un parente che in questi giorni salta nell’abisso della corruzione e del peccato, ed essi irresistibilmente vanno dietro. Vedono che il mondo si disbattezza per tornare pagano e adoratore del demonio e della carne, ed essi pure dimenticano la loro dignità di Cristiani e corrono ad adorare il demonio e la carne. Inutilmente i Sacerdoti, come quel pastorello veduto da Dante, piangono e gridano dall’altare; inutilmente con le braccia e col petto sbarrano la strada e dicono: « Guardate che il Paradiso si chiude dietro alle vostre spalle! Guardate l’abisso dell’inferno che si spalanca sotto i vostri piedi! ». Essi non odono, essi non capiscono: sono veramente figli della tenebra, veramente sono ciechi. Quando i Filistei poterono piombare addosso a Sansone addormentato, prima cosa fu quella di cavargli gli occhi: statim eruerunt oculos eius. Poi tutto riuscì facile: legarlo con più giri di catene, trascinarlo in prigione, condannarlo a girare una macina enorme di mulino (Iudic., XVI, 21). La medesima tattica è quella che il mondo ancora adopera per la rovina dei Cristiani. Prima cosa è quella di accecarli. Essi non vedono più la buona famiglia in cui crebbero e da cui furono educati; né vedono lo scandalo dei figli o dei fratelli che da quel malo esempio saranno attirati sulla via della perdizione. Essi non vedono più la loro anima, fatta divina per mezzo del Battesimo, nutrita già tante volte con l’Eucaristia. Essi non vedono il demonio, il nemico nostro, che li aspetta per fare strazio e abbominio della loro vita; né vedono la bruttezza del peccato, né il fango della disonestà. Essi non vedono più il Figlio di Dio, crocifisso e grondante sangue da ogni piaga per la loro salvezza, né vedono gli Angeli che tremano d’orrore per loro. – 2. I FIGLI DELLA LUCE. Da tre cose noi potremo ora distinguere i figli della luce: dalla risolutezza con cui respingono i piaceri mondani e pericolosi all’anima; dalla franchezza con cui sanno vincere il rispetto umano; dalla gentilezza con cui sapranno consolare il Signore di tante offese, e riparare i peccati del prossimo. – a) Risolutezza a respingere le gioie mondane. Di santa Giovanna Francesca di Chantal si racconta che, fanciulletta di cinque anni, fu accarezzata da un uomo che aveva rinunziato alla fede cattolica, il quale ad ogni costo voleva offrirle alcuni dolci. Ma la piccola, certamente mossa dallo Spirito Santo che era in lei, disse parole più assennate e belle di quanto non comportasse la sua età: « Da un uomo che non ha fede, nulla vorrò giammai accettare, neppure i dolci ». Così i figli della luce devono comportarsi col mondo e coi mondani, i quali non possono capire le cose che sono dello Spirito di Dio. Vi sentirete dire: « Che c’è di cattivo in una serata di divertimento? Dopo lunghi mesi di travaglio, che male c’è concederci uno spettacolo, un ballo, una mascherata, un veglione? ». Cristiani, figli della luce, non accettate le dolcezze del mondo e dei mondani: nascondono sempre veleno e morte spirituale. – b) Franchezza a superare il rispetto umano. — So bene che a reagire contro l’usanza cattiva di molti si rischia d’essere beffato e stimato per un bigotto; so bene che nel tempo in cui molti impazziscono, i pochi che restano sani rischiano di essere creduti pazzi. Ma non abbiate paura degli scherni dei folli, non lasciate demolire la vostra virtù da una parola, da un riso, da un cenno ironico. S. Luigi, re di Francia, si levava ogni notte a pregare, ogni giorno ascoltava l’intera l’Ufficiatura della Chiesa, una volta la settimana si confessava, leggeva poi la Bibbia e la spiegava a’ suoi cortigiani, e disputava volentieri con loro sulle verità del Catechismo. Perciò qualcuno lo derideva e lo rimproverava. « Ecco — rispose — se questo tempo, e più ancora, lo gettassi ai dadi, alla caccia, al divertimento, ai festini, essi di nulla mi appunterebbero; anzi troverebbero di che lodarmi. E allora questi scherni e queste mormorazioni, io me li tengo con orgoglio ». – c) Gentilezza nel consolare il Cuore di Gesù offeso; carità nel riparare i peccati del prossimo. — In questi giorni di peccato, sembra che dal santo altare il Signore ripeta il suo lamento: « Ho aspettato qualcuno che con me si condolesse, ma invano; ho aspettato qualcuno che mi consolasse ma invano ». A noi tocca raccogliere ora il gemito divino e circondare di affetto e adorazione maggiore l’Eucaristia. Se molti se ne allontanano in questo tempo, noi raddoppieremo le visite e le Sante Messe bene ascoltate; se molti dimenticano i Sacramenti in questi giorni, noi ci accosteremo con maggior frequenza; se molti nella Chiesa tengono un contegno distratto e irriverente, noi desteremo la nostra fede e la manifesteremo con devoto contegno. – In fine ricordiamoci che gli oltraggi fatti a Dio esigono una riparazione, altrimenti potrebbero attirare sul mondo ingrato nuove maledizioni e nuovi castighi. – Una volta il popolo d’Israele si preparava a grande festa per una recente vittoria. Ma ecco diffondersi questa notizia: « Il re Davide piange, si duole per la morte del suo figliuolo Assalonne ». Subito l’allegria tacque; le arie di musica si cangiarono in sospiro di dolore, e tutti evitarono d’entrare in Gerusalemme dove il re lagrimava (II Reg., XIX, 1-2). Volesse Iddio che anche il popolo cristiano avesse la medesima disposizione di mente e di cuore! Il popolo cristiano, che vede la Chiesa occupata in questi giorni a piangere anticipatamente la morte tragica del più amabile, del più innocente figlio, del Figlio di Dio; il popolo cristiano che sente la Chiesa ripetere con angoscia quelle parole che il Redentore disse andando alla morte: « Ecco: e noi ascendiamo a Gerusalemme dove s’adempiranno tutte le profezie: mi getteranno in balìa dei Gentili, mi scherniranno, mi flagelleranno, mi sputeranno in faccia, mi uccideranno… », con che cuore potrà abbandonarsi a peccaminose follie?

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 12-13

Benedíctus es, Dómine, doce me justificatiónes tuas: in lábiis meis pronuntiávi ómnia judícia oris tui.

[Benedetto sei Tu, o Signore, insegnami i tuoi comandamenti: le mie labbra pronunciarono tutti i decreti della tua bocca.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet.

[O Signore, Te ne preghiamo, quest’ostia ci purifichi dai nostri peccati: e, santificando i corpi e le anime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXXVII: 29-30

Manducavérunt, et saturári sunt nimis, et desidérium eórum áttulit eis Dóminus: non sunt fraudáti a desidério suo.

[Mangiarono e si saziarono, e il Signore appagò i loro desiderii: non furono delusi nelle loro speranze.]

Postcommunio

Orémus. Quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui coeléstia aliménta percépimus, per hæc contra ómnia adversa muniámur. Per eundem …

[Ti preghiamo, o Dio onnipotente, affinché, ricevuti i celesti alimenti, siamo muniti da questi contro ogni avversità.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (240)

LO SCUDO DELLA FEDE (240)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (8)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

ART. IV.

L’INCENSAZIONE.

Per chi vive senza pensiero di Dio, sepolto nel sonno della più stupida indifferenza, l’aspetto stesso del firmamento non ha più voce a narrargli le glorie del suo Fattore; ma per l’uomo Cristiano l’universo è uno specchio magnifico della sua grandezza, le creature tutte sono eloquenti a parlargli di Lui, e le scienze sono come una rivelazione naturale. Ora, sublimato nelle grandi verità della fede, che egli trova in armonia colla ragione e colla scienza, e  che scioglie i problemi che facevano disperare la filosofia coll’espansione dell’anima, coi bisogni del  cuore, spazia d’orbe in orbe, e in quegli spazi, dove l’immaginazione sbigottita trema e s’arretra, si vede cader a nulla innanzi la terra, come un granellino di arena che nuota quasi perduto nel vano immenso del firmamento, e gode della magnificenza del vero Dio. Ora aguzza il pensiero, e discerne i tesori della sapienza nel fiorellino del campo, e nell’impercettibil monade, animaluccio, minuto così, che spazierebbe in giro a diporto sopra la punta di un ago, e si delizia della ricchezza del gran Creatore. Così nel piccolissimo ammira il grande, e tutto gli parla di Dio in un modo degno dell’anima, che sa contemplare. – Noi poi, che colla semplicità del fanciullo ci abbandoniamo del cuore in grembo alla Chiesa, godiamo che la buona Madre colle più semplici parole ci faccia le più sublimi rivelazioni; perché noi crediamo che Ella, sposata al Verbo Divino, in seno a Dio stesso contempli tutte le verità, come nella sua fonte, e se ne imbeva tanto, e di esse s’informi tutta così, che poi, come per istinto, modelli sopra di esse tutte le cose sue; e quelle verità traduca negli atti anche più minuti. Specchiandosi essa nel tipo del vero divino, lo riflette sulla terra, e lo rivela vestito dei riti devoti ai figli, pei quali tutto divien misterioso, e di reconditi sensi espressivo. – Per questo noi raccogliamo con ogni più fina cura, e notiamo tutto quello, che la vediam praticare, massime nella messa, in cui tutto deve essere degno di Dio. Quando nel solenne silenzio del popolo, in mezzo all’ombre misteriose del Santuario appare un giovane levita, coperto di bianca cotta, da quasi Angiolo d’avanti all’arca del testamento, e scuote per aria a catenelle sospeso un vaso, in cui ardono accesi carboni, e lo gira come un globo di fuoco innanzi all’altare del Dio tre volte Santo, noi torniam col pensiero al punto dell’eternità, in cui Dio dava principio a questo vortice di movimenti, che noi chiamiamo il tempo. Allora forse Egli nel creare l’universo librava per man degli Angeli suoi ministri, e teneva sospesi nell’immensità del firmamento la terra, il sole nostro, e tutti i soli coi loro pianeti, prima di rannodarli intorno ai centri diversi, a correre l’orbita, in cui danzano da secoli in armonia divina. Dall’immobil trono dell’Eterna Maestà ci par di vedere rotear sotto i piedi le sfere nell’armonico loro silenzio, come tanti globi sfavillanti, e consumarsi a gloria dell’immutabile Divinità, che gli alimenta e li gira. Di là poi tornando col pensiero alla terra, ci corre alla mente, come il Figliuol di Dio ci disse, di essere venuto Egli stesso a portarci un altro fuoco, quello della carità, e come a’ suoi Sacerdoti l’affidasse da mantenere vivo sempre dovunque. Allora agli occhi nostri è un mistico braciere la terra, la carità il fuoco, le opere buone sono i preziosi timiami, che si consumano nell’olocausto dell’umanità insieme col Sacrificio Divino. L’incenso adunque significa le buone opere; e nei carboni raccolti e ardenti nell’incensiere è espressa l’immagine del cuore di tutti i fedeli, che fra loro aiutandosi da buoni fratelli, si comunicano a vicenda, ed accrescono la carità. Questa consuma il sacrificio di una vita di buone opere e di orazione, che salgono al cielo, come soave profumo, che gli Angeli presentano sull’altare d’oro, innanzi al trono di Dio (S. Irin. lib. 4, cap. 24). – L’accolito porta in sull’altare l’incenso in un vaso a guisa di piccola nave; ed anche la forma di navicella ricorda come quel prezioso aroma sia giunto a noi, attraversando lontani mari. A noi mandano quell’incenso da straniere terre uomini d’altre lingue, d’altro colore; tuttavia anch’essi nostri fratelli, membri della gran famiglia, o uniti a noi già nella fede cattolica, o che aspettano di essere, mano mano che verranno acquistati alla Religione vera dell’universo, che è la Religione Cattolica. Al Sacerdote l’incenso viene presentato dal diacono; perché questi è il ministro collocato tra l’altezza del Sacerdozio e l’umiltà del popolo del Signore. Toccate così le mistiche significazioni, esporremo il rito, con cui si fa l’incensazione. – Fatta l’offerta, l’accolito sta già coll’ardente incensiere a lato del diacono. Questi presenta al Sacerdote aperta dinnanzi la navicella, e, baciandogli la mano con ossequio profondo, « Reverendo Padre, gli dice, vogliate dare la benedizione. » Il Sacerdote solleva il pensiero alla grandezza dell’azione, che compie in quell’istante, e, comprendendo dovere in sulla terra esercitare quella solenne funzione, che esercita in cielo S. Michele principe degli Angeli e delle anime che si han da salvare, invoca in soccorso alla propria miseria l’intercessione di quell’Arcangelo, perché gli presti la mano angelica alla grand’opera, dicendo nel benedire: « Per l’intercessione del beato Michele Arcangelo, che sta in paradiso a destra dell’altare dell’incenso, e di tutti i suoi eletti, si degni il Signore di benedire a quest’incenso, ed in odore di soavità volerlo accogliere. » Versa sul turibolo l’incenso in forma di croce: ed il fuoco segna di croce, perché nel mistero della croce ogni benedizione sulla terra discende. Poi col turibolo in mano il Sacerdote gira intorno segnando croci dall’una all’altra parte, sotto e sopra il pane e il vino offerti, che debbono trasmutarsi per la parola divina nel Corpo e nel Sangue di Gesù, a rappresentarlo come crocifisso nel Sacrificio. Così profuma anche il luogo santo, dove ha da trovarsi il Salvatore divino, e tutte purificando le cose d’intorno, avvisa i fedeli a disporre i cuori coll’ardore della pietà, per accogliere il Redentore, che tra poco sarà realmente presente. – In tal modo i fedeli disposti intorno all’altare, vi stanno come un corteggio di sudditi amorosi colle loro offerte preparate, coi cuori aperti, aspettando che si presenti in quel luogo santamente profumato l’amato Principe, Padre di ogni bene, per esprimergli i voti delle anime bisognose. – Il celebrante poi si prostra alla croce, e la incensa, adorando in essa l’immagine del Figlio di Dio. Si volge quindi ad incensare ad una ad una le reliquie, che trovansi sull’altare; e con questo atto di altissimo onore riconosce, ed adora Iddio ne’ suoi Santi; i corpi dei quali, siccome carne rinata nello Spirito Santo, e già suoi templi vivi, ed incorporati al Corpo divino di Gesù Cristo, hanno in sé il principio di una vita novella, che rifiorirà nella risurrezione alla beata immortalità. – Intanto la Chiesa, involte nella seta, adorne di oro e di gemme, quelle preziose reliquie le porge a venerare ai fedeli. Commovente spettacolo! vedere coi popoli i re baciar riverenti ossicini di poveri uomini, che nel forse più umile stato meritarono il culto della Religione per la loro virtù. Questo è sublime ammaestramento, che la terra non ha ricevuto, se non dalla fede cristiana. Essa fa conservare questo, affinché, secondo il detto dello Spirito Santo, germoglino nel luogo dove stanno: cioè onde, da noi baciate, ci rialzino il cuore alla speranza, e ci rianimino a valore cristiano, per imitare quelle virtù che poterono quei prodi in membra così inferme esercitare con tanto eroismo. – Diamo noi gloria a Dio per le sue grazie concesse ai fratelli, e, mostrando quei corpi restati nelle nostre mani, gridiamo a Lui con pietà: « Signore, queste sono le tonache dei ben amati figliuoli vostri, che voi avete di vostra mano lavorate. » – « Guardate questi corpi mostrano sotto gli occhi vostri le ferite e gli strazi, e i segni delle battaglie combattute per Voi. Deh! valgano i meriti di quelli ad ottenere grazie e benedizioni per noi, che a loro siamo fratelli. » – Il Sacerdote incensa anche le fronti dell’altare. Siccome anticamente si celebrava sulle tombe dei martiri (e di qui venne il rito di porre sotto la mensa dell’altare i corpi dei Santi, e di porre le reliquie nel sepolcreto in mezzo alla pietra santa, come abbiam detto di sopra), così il Sacerdote gira d’intorno all’altare, come intorno ai loro sepolcri, profumandoli in odore di soavità. Tutto che hanno di buono gli uomini, viene da Dio; nostro è solo il peccato; e noi; amando ciò che è di buono nel prossimo, amiamo Dio nell’opera sua.

LA LIBERTÀ.

La Chiesa coll’onore, che rende ai suoi Santi e col rispetto che usa a tutti i fedeli fino ad incensarli intorno all’altare, mentre pare che l’Uomo-Dio dalla croce rifletta in loro più vivo un raggio della divinità, ammaestra a rispettare negli uomini l immagine di Dio. Ella fa bene intendere, che è Dio stesso, che segnò quel lume del suo volto sulla fronte delle creature umane (Ps. IV); per cui diventano persone col diritto da Dio di essere rispettate nella dignità, in cui furono da Lui costituiti. Questo lume, dice s. Tommaso, è la partecipazione della ragione divina, per la quale partecipazione gli uomini sono creati ragionevoli anche essi; e come sono capaci, così hanno il dovere di conoscere di essere creati da Dio, ed ordinati al suo servizio. Di qui nascono per gli uomini i doveri, ed anche i diritti di servirsi dei mezzi, che Dio, padrone assoluto di ogni cosa, destina per loro, per cui possono conseguir il fine a cui gli ha ordinati. I quali diritti e doveri, essendo da Dio stesso conferiti ed imposti, hanno tutti gli uomini da Lui un compito da eseguire, ed è da Lui assegnato un campo, e circoscritta una sfera, entro cui possono e debbono esercitare la loro attività; e chi pretendesse d’invadere quel campo, d’entrare in quella sfera, ed impedire questo esercizio, verrebbe a guastare il disegno di Dio; farebbe usurpazione di ciò, che Egli del suo volle ad altri concedere, e commetterebbe ingiustizia contro gli uomini, e contro Dio. Questo ordine stabilito divinamente è lo Statuto veramente fondamentale della vera libertà. Noi scriviamo pel popolo dei fedeli in tempi, in cui del nome di libertà si fa il più tristo abuso. Vorremmo

intendessero tutti per bene, che cosa sia la libertà, e ne avessero chiaro concetto, per non lasciarsi ingannare. Perciò quando ci si parla di libertà, noi dobbiamo domandare: se essa ci protegge i diritti che abbiamo di spingere la nostra attività a mettere in pratica i mezzi, per farci migliori e conseguire il nostro fine? Allora si, è libertà. Non giova a questo? È tirannia camuffata di libertà. Poiché libertà non è altro, che la protezione concessa dalla legge a ciascuno, affinché possano tutti esercitare i propri diritti, per conseguire il proprio fine. Questa condizione è già concessa a buon diritto dall’ordine stabilito da Dio, ed è anteriore a tutte le leggi umane, le quali, quando vennero stabilite di poi, trovarono già quell’ordine che dovevano ammettere e rispettare i legislatori umani, sotto pena di perdere il diritto di essere essi stessi obbediti. Perché è quell’ordine stesso, cioè la volontà di Dio, che ha così ordinato e disposto di dover rispettare l’autorità dei legislatori legittimi: ché, se essi non riconoscono quest’ordine di Dio, manca loro la ragione di eseguire obbedienza dai dipendenti, ed ai dipendenti di doverla prestare.

LA SCHIAVITU’ E SUA ABOLIZIONE

Così la libertà nacque in cielo; ma gli uomini in terra l’hanno perseguitata. Poiché ribellatisi a Dio pel peccato originale, negata giustizia a Dio medesimo, tanto meno vollero rispettare i diritti da Lui conferiti alle creature. In questo stato di disordine l’uomo, seguendo l’ispirazione del demone dell’orgoglio, che lo ha indotto ad alzar la testa contro di Dio, ama solo se stesso, invece di tendere a Dio, facendo se stesso centro, a cui cerca indirizzare ogni cosa, rompe l’ordine stabilito da Lui: egli vuol dominare su tutto e tutto assoggettare a prestargli servitù. Con tiranno egoismo non rispettando più i diritti altrui, mette mano sopra i suoi simili, che hanno la disgrazia di essere più deboli, per farne schiavi da adoperare a volontà; e tanto più fortunato si crede quanto più può alzarsi alto sopra l’altrui rovina. Questa è la storia dei grandi conquistatori, che ridussero tre quarti degli uomini dell’universo alla condizione di cose, di cui potevano disporre i pochi fortunati padroni, che ne tenevano conto solo in ragione del maggiore prodotto, e del prezzo corrente in sul mercato. – Ecco qual era la società umana, quando di cielo venne il Redentore a fondare la Chiesa, la famiglia cioè degli uomini adunati in nome di Dio, in cui ciascuno avrebbe adempiuto il compito, che il Padre Celeste gli assegnava, rispettando altrui nell’esercizio pure del proprio diritto. – La Chiesa, raccolta questa famiglia degli uomini di buona volontà al convito divino, pianta in sulla mensa imbandita in mezzo di loro il Crocifisso, e, mentre distribuisce il Corpo di Gesù Cristo a questa famiglia di figliuoli del Padre Celeste, facendo adorare Gesù, lor dice: « contemplatelo: imparate da Lui: Egli è mite, ed umile di cuore. » E i fedeli, stretti intorno alla croce, nel contemplare il Figliuol di Dio in tanta umiliazione, debbono dire: « il Figliuol di Dio volle essere disprezzato così?… Ben qui debb’essere grande sapienza in questo amare d’essere umiliati. » Si addentrano essi nella contemplazione: interrogano i misteri divini, e conoscono, che il Figliuol di Dio si è così umiliato per dare a Dio suo Padre soddisfazione dell’orgoglio umano. Di qui venne che gli uomini vollero essere giusti così, da far giustizia fino contro se stessi e dissero col Profeta: « Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam: tutta la gloria a voi, o Signore, a noi no, ché non la meritiamo; » ed amarono sì veramente di essere umiliati con Gesù Cristo. Ben s’intende come questi umiliati a piè del crocifisso, contenti della condizione in cui li ha posti il loro Dio, non ambirono di conculcare gli altri per salir più alto, non gli altri diritti usurpare, né sacrificare a soddisfazione del Proprio egoismo la personalità di quegli uomini, nei quali riconobbero tanti fratelli, che il comune Padre Celeste adunava nel bacio della fratellanza al convito dell’amor divino. Dio della bontà! oh! qui è mistero, che il popolo dei rigenerati deve meditare colle lagrime di gratitudine. Ecco in questo convito in seno al Padre, che lo presiede, è il Figliuolo Divino, divenuto nostro fratello, che a noi comparte tutto se stesso, identificandosi con noi in mistico modo, ma vero! … Quando gli uomini tornarono alle lor case col cuore palpitante nel Cuore di Gesù, e videro che anche i poveri schiavi rosseggiavano del sangue di Gesù Cristo (S. Jo. Chrys. 6), conobbero nell’uomo in catene, come bestia matta spinta al lavoro, un membro di Gesù Cristo. Allora avevano un bel permettere tutte le leggi umane la schiavitù, avevano un bel sostenere coi loro sofismi tutti i legulei il diritto, che sull’uomo compro a contanti, o nato di schiava il padrone acquistava, da farne carne a volontà. Sì, i padroni cristiani dovettero conoscere negli schiavi un altro diritto, il diritto di Dio di essere rispettato nei suoi figliuoli; e sentire il merito di essere amato con tutto il debito di carità! Allora non restava altro alla Chiesa che d’educar alla vita umana quei tanti milioni d’uomini, che fin allora non erano tenuti in conto d’uomini. Questo fu il lavorio segreto, continuo di questa Madre benedetta dell’umanità rinata a Dio. Ci vollero secoli a compiere l’opera, ed in quei secoli si andò rendendo sempre migliore la condizione dei soggetti, a mano a mano che si andavano emancipando per amor di Dio (Vedasi il Biat, Emancipazione della Schiavitù). Noi, quando leggiamo negli annali della propagazione della fede, che partono giovani missionari per la missione dei due mondi, voliamo col cuore in mezzo alle straniere nazioni, quasi a dir loro: fate coraggio, madri dei bambini schiavi, a momenti non avrete più paura, che il vostro figlio vi sia strappato di seno, per essere condotto al mercato dal padrone inumano. Aspettate: il Sacerdote cattolico viene ad innalzare l’altare di Gesù, ed i vostri bambini dormiranno tranquilli sotto la protezione del Crocifisso, a voi in seno: e voi, o popoli di schiavi, appenderete le vostre catene in trionfo alla croce! – Ci si permetta un’osservazione, la quale rende perdonabile anche l’importunità di questa digressione nostra sul principio della libertà, mentre trattiamo del Sacrificio. Ed è che non basta la sola predicazione del Vangelo a distruggere la schiavitù; poiché noi non siamo tanto semplici da credere nell’abolizione della tratta, quasi fosse un fatto compiuto, qual se la finge l’immaginazione dei buoni. È vero: l’Inghilterra e tante altre nazioni si obbligarono a perseguitare i ladroni di carne umana, che seco conducevano i negri schiavi rapiti, da vendere pel nuovo mondo. I buoni si fingono di vedere dominatori dei mari a squarciar i fianchi delle navi dei trafficanti inumani, e salir sulle navi battute. Sì veramente: ma prendono gli schiavi, e li conducono alle piantagioni dell’India, dove le leggi della filantropia vanno in vapore (Lacordaire, Conf.). Perché, dicono, le piantagioni, le fabbriche, le condizioni di quei paesi rendono necessaria la schiavitù: l’interesse, madre patria, vuol questo sacrificio. E noi ci costringiamo nelle spalle, e diciamo: potranno aver ragione. Ma i buoni Cattolici, quando vedono nel prossimo le membra di Gesù Cristo per noi sacrificato, hanno ragione anch’essi di amar il prossimo sopra ogni interesse, di amarlo coll’eroismo della carità, fino a vender se stessi, perché Dio val più di lor medesimi. Alcuni fatti ne abbiam citati parlando dell’offertorio. Vedi intanto la Chiesa cattolica riconoscere Iddio ed i diritti, che vengono da Dio, in tutte le varie condizioni di persone, nel rendere a tutti coll’incensarli onor dovuto. Di fatto, dopo dì aver incensato il Crocifisso, le reliquie, e reso onore a Dio nei segni, che lo rappresentano e nei santi, lo onora tutte le dignità, incensando ad uno ad uno i prelati ed i membri del clero, in cui venera l’autorità spirituale comunicata loro da Dio. Incensa i principi, in cui venera la potestà, che discende dal Re dei re. – Eh! si rammentino i principi che la Religione sola lì rende onorandi e sacri. Anzi vorremmo un po’ dir chiaramente che la Religione cattolica ha trovato i re confusi coi malfattori: la loro maestà, disonorata di eccessi, era scambiata colla tirannia, e gettata nel fango. La Chiesa cattolica li rialzò, li educò, li consacrò padri dei popoli, in cui inspirò rispetto ed amore, incoronandoli a piè del trono di Dio. Poi, per rendere la loro maestà veneranda, e circondarla di un’aureola al tutto celeste, proclama che la loro autorità viene da Dio, che loro l’affida: ma esige il conto del ben che han fatto ai popoli loro assegnati da governare. Così col profondere l’incenso, più che di onorare la loro potenza, ha in mira di proteggerli entro una mistica nube! Guai, se si va dissipando questa nube d’incenso d’intorno a loro! Allora si scorge sul trono un piccol uomo colle sue miserie! allora ardiscono tanti di farsi alla vita col pugnale dell’assassino! Ahi! ahi! La nube d’incenso si va dissipando, ed in diciott’anni almen diciasette regicidii eseguiti od almeno attentati in questi dì. Guai! se il popolo non rispetta più Dio nel principe, e gli sta solamente soggetto, perché ha paura della forza! Allora sul trono non si vede altro, che un piccol uomo colle sue miserie: e, se i popoli inorgogliti tanto da far testa con lui, gli domanderanno un bel giorno: « ma chi siete voi, che volete farla con noi da padrone? Da padroni sappiamo farla anche noi, quando alla volta nostra siam divenuti più forti. » Che mai potrebbe rispondere di sodo la plebe dei sofisti, e legulei, e quei gracidatori di libertà, tirannelli in toga di deputati, che la Chiesa vogliono serva al governo, e fanno dello stato un dio? La ribellione allora divenuta un diritto; e la guerra continua si fa lo stato naturale dell’uomo: è noi vivremo col codice delle tigri, e dei leopardi. Ecco gioia di beato progresso, che ci vorrebbero condurre certi sofismi politici! Deh! Dio ci salvi da questa statolatria tiranna!… – Incensa poi tutto il corpo dei fedeli, come un solo individuo; perché nella Chiesa il popolo viene riguardato tutto insieme come una sola persona, e in ciascun fedele si venera un membro del gran corpo di Gesù Cristo. Essendo creature rinate per la grazia di Dio alla vita eterna, incensando ciascuna di loro, venera nell’anima l’immagine di Dio e la grazia santificante, comunicata pei meriti di Gesù Cristo; venera nei corpi una porzione dell’umana natura, che in Gesù Cristo fu divinizzata. Sapendo ella, come questi templi vivi dello Spirito Santo, che sono i corpi nostri, hanno dentro di sé il germe dell’immortalità, in loro trasfusa dal Sangue di Gesù, ella li conforta colla speranza di averli in di tutti raccolti in seno gloriosi nella pienezza dell’eternale beatitudine. Questa persuasione, che la carne dev’essere come sposata alla Divinità coll’unirsi con Gesù Cristo, è quella, che fa guardar con orrore ogni immondezza, e che inspira per i Cattolici tanto amore per la perpetua verginità, virtù sconosciuta nell’antichità, bellissima e cara virtù, che delle povere persone umane fa tante spose di Dio, Angioli in carne santificata. Questa fede faceva ardere di sì forte sdegno il veemente Tertulliano, che, fulminando il peccato di carne, di cui era inorridito, lo fece uscir in questa enfatica espressione: « peccavano di carne i gentili: eh! ma non erano ancor carne di Cristo, Nondum caro Christi. » Di qui il rispetto della Chiesa verso i poveri avanzi dell’umanità, e quell’incensar fino i cadaveri collocati a piè del crocifisso nel luogo santo. – Noi intanto, quando vediamo compiere il rito dell’incensazione, dobbiamo scuotere i nostri cuori, per mandare incenso di calda orazione dinanzi all’altare di Dio, e con voti ardenti offrirci a Lui pronti per le opere di mortificazione. Abbiam detto, che parte delle offerte, mandate all’altare dei fedeli, ritornavano al popolo per essere distribuite secondo i vari suoi bisogni. Crediamo pertanto sia questo il motivo di fare i nostri proponimenti delle opere di carità, per cui Dio ci desse i mezzi. Poi i proponimenti nostri offriamo al Signore, affinché li benedica, ed accetti i nostri sacrifici in odore di soavità; così torneremo alle nostre case, e guarderemo il nostro prossimo in tutte le occasioni, che si presentano a chiedere il nostro soccorso, lo guarderemo come mandato da Dio a chiedere dalle nostre mani il dono, che sull’altare abbiamo a Lui già consacrato. – Ma sacrificio salutare è il dipartirci d’ogni iniquità; e il culto, che Dio onora, è l’oblazione della purità d’un’anima pia. Allora l’offerta del giusto impingua l’altare, e il fumo ne sale al cospetto dell’Altissimo in odore di soavità: e il Sacerdote lo esprime col lavarsi le mani.