LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (13)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (13)

LA GRAN BESTIA SVELATA AI GIOVANI

dal Padre F. MARTINENGO (Prete delle Missioni

SESTA EDIZIONE – TORINO I88O

Tip. E Libr. SALESIANA

VII.

IL GRAN CIARLATANO.

Giovani miei, già incomincio a sospettare che la Coda voglia riuscirmi più lunga della BESTIA. A dir vero, gli è un argomento quel che ho a mano, che dà luogo ad esempi ed applicazioni senza numero. D’altra parte vi confesserò una mia debolezza: quando parlo o scrivo a’ giovani….. non so… mi pare anch’io ringiovanire, mi s’allarga il cuore, mi s’affollano le idee, e le parole, v’assicuro, non si fanno tirare. Ma bisogna che mi moderi, che rifletta, che non mi lasci trascinare. Mi proverò tutto quel che posso. –  Vi parlai nel precedente libretto del mondo che a taluni fa tanta paura, e dietro la scorta d’un predicatore alla buona, vi ricordate a che l’abbiamo ridotto. Ora aggiungerò: ciò che il rende imponente e pauroso agli animi volgari, sapete che è? La serietà, la franchezza, la prosopopea magistrale con che divulga ed espone i suoi dettami e le sue massime. Vedete quel ciarlatano sulla piazza; quanta gente gli s’accalca d’attorno! – E vedete come tutti stanno fissi, attenti, colla bocca aperta, e vevono  e bevono… che cosa ? un fiume di ciance e d’imposture.. — Ma possibile; tanto allocchi … Che volete? e’ le sballa con tanta franchezza! … – Così è il mondo, e vi bisogna star bene all’erta; miei cari giovani: quelle  ch’egli spaccia con maggior solennità sono per lo più le più solenni castronerie. Qui più che mal fa mestieri discendere alla pratica. – Vi ricordate. ancora di. Quel giovanottino infelice, che vi feci vedere  nella mia lanterna magica battersi con quel villan barbuto e lasciarci misero! la vita?… Ebbene, chi gli ebbe imposto in sì giovane e bella età un sì duro sacrificio? Il gran ciarlatano; il mondo. E che dicevagli il mondo? Che il battersi così era da generoso e da forte; ricusarsi., da vigliacco. Dio buono! che. stravolgimento!…. Ma prima di credere e lasciarvi imporre di sì bestiali dottrine… l’avete voi la ragione? Ebbene adoperateci un po’ su la ragione, e vedrete. Forse che il sangue umano è tal liquido, che lavi le macchie dell’onore?…. O non è anzi vero che il contaminarsene le mani è la maggior dell’infamie?… Va là, omicida; mi metti orrore! che per una parola, per l’insulto d’un momento, che solo fossi un po’ filosofo, ti saria stato “Come l’insulto di villana ‘auretta.;, d’abbronzato guerriero in sulla guancia”, non hai dubitato piantar una lama nel cuore del fratello. Orrore; orrore! Viassù! pasciti nella vista dell’infelice tua vittima; or che l’hai atterrata a’ tuoi piedi. Vedi come caldo sbocca da larga ferita il sangue! Bevi, saziatene, omicida!… guata quel volto pallido, quelle chiome arrovesciate, quello sguardo errante, quel lento boccheggiare; quel rantolo…. Ma sta; sentesi uno strido., un urlo prolungato… Dio; Dio! è una madre, una sposa; son bamboli innocenti che gridano vendetta… Tu fuggi? Ah lo senti ora, disgraziato! lo senti che se’ diventato un Caino!…. Or va e credi al mondo.  Pure il mondo per sì poco non si sbigottisce, e dopo tanti fiumi di sangue che ha fatto spargere colle stolte sue massime, freddo e tranquillo pur ripete: chi non si batte infame. – Vo’ smentirlo con un bell’esempio, che lessi, non ha molto, nella strenna d’ogni mese, che si pubblica a Firenze da un bravo e valente amico de’giovani La sera del dì 15 settembre 1846 in un casino di campagna presso Santiago di Cuba, cenavano allegramente col capitano inglese Starldey parecchi americani e spagnoli, che dovevano partire al domani con lui per la Giamaica; e come il capitano recava a quel viaggio parecchi negri da lui fatti liberi, cosa che quegli americani, fautori della schiavitù, vedevano di mal occhio, vennero con lui a tal questione; che presto degenerò in animatissimo alterco; a mezzo quale certo il De Pastro avendo lanciata una villana ingiuria contro lai Regina d’Inghilterra che vieta la tratta de’ negri, il capitano Starkley non poté più contenersi, e levatosi in furia e dato di piglio ad un bicchiere, l’avventò contro il De Pastro, dicendogli: Sciagurato! così parli della mia regina?…. Tutti si levarono in tumulto; il De Pastro faceva sangue dal viso: ma più che quella ferita gli cuoceva l’ingiuria; di che pensando satisfare all’onor suo, sfidò a duello il capitano. – Quella sfida parve a tutti (amici e devoti quali erano della BESTIA) la cosa più naturale del mondo, e non che opporsi, mostrando apertamente d’approvarla, chi si esibiva padrino, chi proponeva l’ora, il giorno, il luogo, fin l’armi. Anzi (a proposito dell’armi) vi fu lo zelante, che tratte fuori due pistole belle nuove e lucenti, le mise sulla tavola sotto gli occhi del signor Starkley. Il quale, mostrato il suo dispiacere d’avere in quell’impeto subitaneo ferito il De Pastro, e chiestogli scusa del suo trasporto: Quantoal duello, soggiunse, non posso accettare, perchè… perchè lo stimo, un delitto. — Perchè sei un vile! — gli ripicchiò furibondo l’avversario. A quest’insulto il capitano sentì come una vampa di fuoco salirgli alla testa, gli si oscurò un tratto la vista, e tremava come una foglia. Pur si contenne, e per quella sera non ne fu altro. Al domani egli era pronto sul suo vascello; il Nettuno, ad accogliere i passeggeri. Gli sfilavano davanti i commensali della sera innanzi e il guardavano con cert’aria di compassione. Il capitano dissimulava. Ma allorchè passando il De Pastro gli lanciò contro la seconda volta la parola vile, il capitano afferrollo pel braccio e con voce alta e concitata, che tutti e passeggieri e marinai poterono intendere: — Signor De Pastro (gl’intimò), vi prego a ricordarvi che qui son capitano; o rispettate la mia autorità, o vi metto agli arresti. – Di lì a poco dava il comando di salpare. Sul legno tutto era in ordine, regolarità, disciplina perfetta: il capitano era esperto del suo mestiere, e uso da lungo tempo a farsi obbedire. E già dopo pochi giorni di prospera navigazione, s‘avvicinavano all’ isola di Giamaica; quando di nottetempo, mentre i passeggeri tranquillamente dormivano, s’ode un grido: al fuoco! Al fuoco! — Tutti si levano in sussulto, salgono sulla tolda, veggono con spavento con ispavento levarsi da poppa globi di fumo misti a scintille; quindi un urlo prolungato, e pianto di femmine, e strillar di bambini, e correre qua e là, e chiedere l’un altro e cercarsi e urtarsi e chiamarsi. a vicenda … Ma ecco in buon punto farsi avanti il capitano Starkley, e con voce stantorea:— Fermi tutti; sentite. Il mozzo ubriaco appiccò il fuoco all’alcool; la stiva è in fiamme, né v’ha speranza d’estinguerlo; bisogna salvarci prima che il fuoco: giunca alle polveri. Qui un nuovo urlo di terrore. I marinai si slanciano alla scialuppa per fuggire. — Fermi, ho detto (ripiglia con voce tuonante il capitano); chi primo osa infrangere i miei ordini, una palla di piombo. — E mostrò la bocca della pistola: l’argomento fu efficace; i marinai tornarono al dovere. — Ora s’allestisca la scialuppa grande, ripigliò il capitano. E come fu pronta, piantatosi al luogo della calata con a foanco quattro de’ più robusti marinai: – vengano prime le donne, i vecchi ed i fanciulli. — I chiamati s’affollarono e mentre scendevano uno dopo l’altro n vietato nella scialuppa, s’ode in fondo al vascello un sordo scoppio e levarsi come lampo le fiamme. Tutti i passeggeri per un moto istintivo si precipitano verso la scala, il De Pastro tra i primi, che malamente urtando una fanciulla per poco non la trabalza nel mare. Il capitano lo respinse di forza con ambe le mani, e: — indietro, signor De Pastro! indietro tutti!…. Marinai, il primo che muove gettatelo in mare. – Così tornato l’ordine, aiuta a discendere le donne, e come la scialuppa fu piena: — tagliate la corda e andate al nome di Dio, voi siete salvi. Presto, l’altra scialuppa. — La scialuppa fu tosto pronta. — Vengano gli altri passeggieri. Signor De Pastro; venite pure, ora è la vostra volta. Il De Pastro gli passò davanti umiliato e confuso; i compagni che la sera avanti avean preso le sue parti, ora sfilavano davanti all’intrepido Starkley, quale stringendogli la mano, quale rallegrandosi con lui: — bravo, signor capitano! così va fatto. Voi siete un uomo! Ed egli: — non è tempo di complimenti. Lesti, scendete. E come vide piena e in salvo la seconda scialuppa: — Ora a noi (disse volto a’ marinai); è pronto lo schifo? — Pronto. — Scendete. Lo schifo era piccolo, i marinai vi capivano a stento. Potete ricevere ancora una persona? chiede loro il capitano. I marinai credendo dicesse di sé, benché lo schifo minacciasse far acqua: — Si, venga, signor capitano. — A queste parole Starkley si china, piglia di peso, come fosse un sacco, il mozzo briaco e addormentato che aveva appiccato il fuoco e porgendolo a’ marinai: — Giacché c’è posto, pigliate ancora questo disgraziato. — Consegnatolo; tira un respirone e: — Lodato Dio! tutti salvi. — E lei, signor capitano?…. gli chiedono i marinai impazienti di sferrare. — Basta; il mio peso vi farebbe pericolar tutti. Lesti, partite; e se incontrate qualche barca, avvertitela che qui ci ha ancor una vita da salvare. Lo schifo partì: il capitano rimase a guardar le fiamme che si levavano stridenti e vorticose all’altezza dell’albero, e sempre avanzandosi s’appressavano alla polveriera. S’aspettava da un istante all’altro il terribile scoppio, e raccomandavasi a Dio. Ma Dio vegliava sulla vita. del prode. Una barca che da lontano aveva scorto l’incendio giungeva in tempo a salvare l’intrepido capitano, che marinai passeggieri ed isolani accolsero con grida frenetiche alla spiaggia, come fosse un Dio salvatore. In quel momento certo non venne in mente a nessuno (neanche al De Pastro, ci scommetto) che il capitano Starkley fosse un vile. E voi, cari giovani, che ne pensate?

VII

DOPO IL DUELLO IL SUICIDIO.

Ora dirò d’un altro duello accaduto anni Domini in una città d’Italia nostra, che per dengi rispetti non si nomina.  Trovavansi a ciaramellare parecchi giovinotti in un caffè. Un bizzoso, di nome Federico, punto da non so che celia di Martino, lo sfida a duello, e Martino: — Accetto, risponde. Si fissa il dimani, ora, luogo, padrini… E l’armi? — L’armi, tocca a me la scelta (risponde Martino): le porterò dimani sul luogo. — Così intesi, si separano. Al dimani alle dieci del mattino in un pratello remoto chiuso di folti alberi all’intorno, irrigato da un canaletto d’acque limpide e freschissime, Martino se la passeggiava su e giù col padrino, aspettando il rivale; e novellavano tra loro di non so che, così lieti e spensierati, che nessuno avrebbe detto: son li per un duello. Di lì a poco arrivano parecchi compagni, anch’essi allegri e ridenti. Martino gli accoglie con festa li fa entrare in un folto di roveri li presso, e: — cheti (lor dice); appena vedrete rosseggiare «il primo sangue… siamo intesi. — Gli amici rispondono che sì, e s’appiattano. Martino si rifà daccapo a misurare passeggiando il campo, e non avea dato ancora due volte, che sì vide comparire, con al fianco il suo bravo, padrino, Federico; vestito a nero, con guanti bianchi, viso pallido, capelli rabuffati, occhi stravolti…. Poveraccio! ei non aveva chiuso occhio tutta la notte; agitato dal pensiero del duello, occupato a scriver lettere, ordinar suoi affarucci, stendere una specie di testamento e (cosa più ghiotta) certa letterina profumata…. che diceva così: — Un villano insulto da vendicare mi strascina a duello. Se soccombo, ricorda il tuo Federico, e che per non rendersi indegno di te, ha sacrificato all’onore la vita. — Giunto dunque sul luogo, e abboccatosi col rivale: — suvvia, l’armi! dimanda con feroce cipiglio. E Martino: — eccole!… e trae dalle tasche due salami lunghi un braccio. E come l’altro mostravasene scorrucciato; quasi di scherno: — Se queste non accetti (entra a mezzo il padrin di Martino) non potrai rifiutare quest’altre…. E presenta due bottiglie di Madera: — Oppure queste! Sottentra l’altro padrino, ch’era anche lui della cricca; e ne mette fuori due altre di Sciampagna. Federico, al vedersi così assalito, tradito dal suo stesso padrino, rimane allocco. I compagni nascosti, visto il segno del sangue, cioè il vino, saltano dalla macchia, traggono fuori anch’essi alla lor volta, chi pane, chi frutta, chi cacio, chi un bell’arrosto; e tutti dattorno all’eroe trasognato, si mettono a fare un diavoleto, che, volere o no, gli fu forza accettare quella nuova maniera di sfida; e così tutto finì con un’allegra merenda, sdraiati sull’erba, al rezzo delle piante, al canto degli uccelletti, al mormorar del ruscello… Che cosa volete di più poetico? non sarebbe proprio da farci un sonetto?… Provatevi; io ripiglio il mio discorso e dico che di certe massime storte la miglior cosa è farne commedia; e quanto più il mondo mostra spacciarle sul serio, più farsi animo a ridergliene sul muso. E quel che ho detto del duello s’ha ad intendere (chi ne dubita?) di quell’altra barbarie del suicidio, divenuta anch’essa, in questo che chiamano civilissimo secolo, purtroppo comune. E non dico già che l’umano rispetto ne sia la sola cagione: e c’entra senza dubbio e il bollimento delle passioni e la frenesia del godere, e il contagio dell’esempio, e l’estinguersi della fede… Che volete faccia, al sopravvenirgli di grave sventura, un miserabile, ché tenendosi bestia senz’anima immortale, aveva posto ogni sua beatitudine ne’ godimenti della vita? Davvero, dacché è infelice, o sel crede, non ha più ragione d’esistere costui: quindi padrone d’andarsene, la commedia è finita per lui. Ma il mondo in questo spaventoso moltiplicarsi di suicidi ci ha anch’egli la sua parte; che, oltre al predicar che fa: beati i ricchi! beati i godenti! e favorire le nuove dottrine che ci pareggiano al ciacco, applaude per lo più o il men che sia, scusa assai facilmente i vigliacchi che fan getto della vita. E apposta li chiamo vigliacchi, che non hanno coraggio a sostenere il peso della sventura; e li metto con que’ soldati che disertano il campo quando più ferve la battaglia, e incalza il pericolo. Questi soldati cosiffatti come li chiamate? vigliacchi e infami, non è vero? E infame e vigliacco è dunque il suicida. Domandatene a Virgilio, che addisse ad eterni cruciati coloro … Qui sibi lethum …. peperere mani, lucemque perosi, Proiecere animas. Domandatene. Dante che creava un cerchio del suo Inferno apposta per quelle anime feroci che da se stesse sî divelgono dal corpo, e le puniva incarcerandole in arbusti spinosi. Così la pensano i savi, così, d’ogni saviezza maestra, la Chiesa, che al suicida volontario, come a chi muore in duello, nega i pubblici suffragi e l’ecclesiastica sepoltura. Sebbene; quanto a Dante, se in leggendolo siete giunti almeno al principio del Purgatorio, vi avrà scandalizzato non poco, come accadde a me da ragazzo, quell’abbattervi nel suicida Catone, posto, lì dal poeta, quasi a guardia e custode del sacro monte. Ma non confondiamoci, giovani miei; l’idea che ha Dante dei suicidi si par chiara abbastanza dall’averli messi a dirittura tra’ dannati. Quanto a Catone, ci sta qui, non come persona reale, ma com’essere allegorico; convien quindi spiegarlo in conformità all’allegoria del poema; quell’allegoria, dico, cui Dante stesso accenna nella sua famosa lettera a Can Grande della Scala, quella che seguirono fedelmente gli antichi commentatori; ed è schiettamente religiosa e morale. Or secondo questa (ponete mente) Dante che, smarritosi nella selva selvaggia e aspra e forte n’esce con Virgilio a visitar l’inferno, ci significa l’uomo vizioso e peccatore, che atterrito alle funeste conseguenze del vizio, fa sforzo di levarsene per avviarsi al sentiero della virtù. Questo sforzo, il più bello e per avventura il più penoso che uom possa fare, ci è figurato in Dante medesimo, che tocco il basso fondo dell’inferno, s’appiglia alle vellute coste dell’immane Lucifero, e scende con Virgilio, … di vello in vello tra il folto pelo e le gelate croste; finché giunto all’anche del mostro, che rispondono al centro della terra quivi (vedete fatica di chi spogliasi il vizio e mutasi in altro uomo) … con pena e con angoscia, Volge la testa dove avea le zanche; e pur seguitando a salir pelo pelo, riesce all’emisfero di là, dove sorge il monte del Purgatorio, simbolo del cammino della virtù. Qui appunto a guardia del sacro monte, trova Catone, quel Catone, che, udita la vittoria di Cesare; né volendo soggiacergli, per amor di libertà si sciolse volontario dai legami del corpo. Di che potete facilmente scorgere, come questo suicidio catoniano ci sta qui, non propriamente per suicidio, ma come simbolo espressivo di quel nobile sforzo che ho detto, per cui l’uomo, dianzi vizioso, si libera dalla schiavitù del corpo e delle passioni, per volgersi a virtù e rivendicar. lo. spirito immortale alla vera libertà dei figli di Dio. – Menatemi buona questa digressione letteraria, a cui so io perché mi son lasciato andare, e mi rimetto tosto in careggiata.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.