DOMENICA DI SETTUAGESIMA (2023)

DOMENICA DI SETTUAGESIMA (2023)

 [Stazione a S. Lorenzo fuori le mura].

Semidoppio. – Dom. Privil. di 2a cl. – Paramenti violacei.

Per comprendere pienamente il senso dei testi della Messa di questo giorno, bisogna, studiarli in corrispondenza delle lezioni del Breviario, perché, nel pensiero della Chiesa, la Messa e l’Ufficio sono una cosa sola. Le lezioni e i responsori dell’Ufficio della notte durante tutta questa settimana sono tratti dal libro della Genesi e narrano la creazione del mondo e quella dell’uomo; la caduta dei nostri primi genitori e la promessa di un Redentore; di più l’uccisione di Abele e le generazioni di Adamo fino a Noè. — « In principio, – dice il Libro Santo, – Dio creò il cielo e la terra e formò l’uomo su la terra e lo pose in un giardino di delizie perché Lo coltivasse » (3° e 4° resp.). Tutto ciò è una figura. – Il regno dei Cieli – spiega S. Gerolamo – è detto simile ad un padre di famiglia che prende degli operai per coltivare la sua vigna. Ora, chi più opportunamente può essere rappresentato nel padre di famiglia se non il nostro Creatore, il quale regge con la sua provvidenza ciò che ha creato e che governa i suoi eletti in questo mondo, così come il padrone ha i servi in sua casa? E la vigna che Egli possiede è la Chiesa Universale, dal giusto Abele fino all’ultimo eletto che nascerà alla fine del mondo. E tutti quelli che, con fede retta si sono applicati e hanno esortato a fare il bene, sono gli operai di questa vigna. Quelli della prima ora, come quelli della terza, della sesta e della nona, designano l’antico popolo ebreo, il quale, dopo l’inizio del mondo, sforzandosi nella persona dei suoi santi, di servire Dio con fede sincera, non hanno cessato, per così dire, di lavorare nella coltivazione della vigna. Ma all’undecima ora sono chiamati i Gentili e a loro sono Indirizzate queste parole: « Perché state qui tutto il giorno senza far nulla? » (3° Notturno). Dunque, tutti gli uomini sono chiamati a lavorare nella vigna del Signore, cioè a santificarsi e a santificare il prossimo glorificando con questo mezzo Dio, poiché la santificazione consiste a non cercare il nostro bene supremo che in Lui. Ma Adamo venne meno ai suo compito. « Poiché tu hai mangiato il frutto che io ti avevo proibito di mangiare, – gli disse il Signore – la terrà sarà maledetta e ne trarrai il nutrimento con gran fatica. Essa non produrrà che spine e rovi. Tu mangerai il tuo pane, prodotto dal sudore della tua fronte fino a che non sarai tornato alla terra donde fosti tratto ». «Esiliato dall’Eden dopo la sua colpa, – spiega S. Agostino, – il primo uomo trascinò alla pena di morte e alla riprovazione tutti i suoi discendenti, guasti nella sua persona come nella loro sorgente. Tutta la massa del genere umano condannato cadde In disgrazia, o piuttosto si vide trascinata e precipitata di male in male (2° Notturno). « I dolori della morte m’hanno circondato, dice l’Introito; e la Stazione ha luogo nella Basilica di S. Lorenzo fuori le mura, contigua al Cimitero di Roma. « È assai giusto, aggiunge l’Orazione, che noi siamo afflitti per i nostri peccati ». Così la vita cristiana è rappresentata da S. Paolo nell’Epistola come una arena dove bisogna lottare per riportare la corona. La mercede della vita eterna, dice anche il Vangelo, viene concessa solo a quelli che lavorano nella vigna di Dio e, dopo il peccato, questo lavoro è penoso e duro. « O Dio, domanda la Chiesa, accorda ai tuoi popoli che sono designati da te sotto il nome di vigne e di messi, che dopo aver sradicato i rovi e le spine, -sono atti a produrre frutti in abbondanza, con l’aiuto del nostro Signore » (or. del Sabato Santo – Or. Dopo l’8° profezia). « Nella sua sapienza, – dice S. Agostino, – Dio preferì ricavar il bene dal male anziché permettere che non accadesse nessun male » (6° lezione). Dio ebbe difatti pietà degli uomini e promise loro un secondo Adamo che ristabilisse l’ordine turbato dal primo. Grazie a questo novello Adamo essi potranno riconquistare il cielo sul quale Adamo aveva perduto ogni diritto essendo stato cacciato dall’Eden, che era l’ombra d’una vita (migliore) » (4° lezione). « Tu sei, Signore, il nostro soccorso nel tempo del bisogno e dell’afflizione » (Graduale); « presso di te è la misericordia » (Tratto); « fa’ che risplenda la tua faccia sopra il tuo servo e salvami nella tua misericordia » (Com.). Infatti, « Dio che creò l’uomo in una maniera meravigliosa, lo redense in modo più meraviglioso ancora (Oraz. dopo la 1° prof. del Sab. Santo), poiché l’atto della creazione del mondo al principio non sorpassa in eccellenza l’immolazione del Cristo, nostra Pasqua, nella pienezza dei Tempi ». Questa Messa, studiata in relazione alla caduta di Adamo, ci mette nella disposizione voluta per cominciare il tempo di Settuagesima e per farci comprendere la grandezza del mistero pasquale al quale questo Tempo ha per scopo di preparare le anime nostre. – Per corrispondere all’appello del Maestro che viene a cercarci fin nell’abisso dove ci ha sprofondati il peccato del nostro primo padre (Tratto), andiamo a lavorare nella vigna del Signore, scendiamo nell’arena e incominciamo con coraggio la lotta la quale si intensificherà sempre più nel tempo della Quaresima.

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XVII:5; 6; 7
Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.  

[Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.]


Ps XVII: 2-3
Díligam te, Dómine, fortitúdo mea: Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus.
[Ti amerò, o Signore, mia forza: Signore, mio firmamento, mio rifugio e mio liberatore.]

Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.

[Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Preces pópuli tui, quǽsumus, Dómine, cleménter exáudi: ut, qui juste pro peccátis nostris afflígimur, pro tui nóminis glória misericórditer liberémur.

[O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo: affinché, da quei peccati di cui giustamente siamo afflitti, per la gloria del tuo nome siamo misericordiosamente liberati.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

1 Cor IX: 24-27; X: 1-5

Fratres: Nescítis, quod ii, qui in stádio currunt, omnes quidem currunt, sed unus áccipit bravíum? Sic cúrrite, ut comprehendátis. Omnis autem, qui in agóne conténdit, ab ómnibus se ábstinet: et illi quidem, ut corruptíbilem corónam accípiant; nos autem incorrúptam. Ego ígitur sic curro, non quasi in incértum: sic pugno, non quasi áërem vérberans: sed castígo corpus meum, et in servitútem rédigo: ne forte, cum áliis prædicáverim, ipse réprobus effíciar. Nolo enim vos ignoráre, fratres, quóniam patres nostri omnes sub nube fuérunt, et omnes mare transiérunt, et omnes in Móyse baptizáti sunt in nube et in mari: et omnes eándem escam spiritálem manducavérunt, et omnes eúndem potum spiritálem bibérunt bibébant autem de spiritáli, consequénte eos, petra: petra autem erat Christus: sed non in plúribus eórum beneplácitum est Deo.

[“Fratelli: Non sapete che quelli che corrono nello stadio corrono bensì tutti, ma uno solo riceve il premio? Correte anche voi così da riportarlo. Ognuno che lotti nell’arena si sottopone ad astinenza in tutto: e quelli per ottenere una corona corruttibile; noi, invece, una incorruttibile. Io corro, appunto, così, non già come a caso; così lotto, non come uno che batte l’aria; ma maltratto il mio corpo e la riduco in servitù: perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia riprovato. Non voglio, infatti che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, e tutti passarono a traverso il mare, e tutti furono battezzati in Mosè nella nube e nel mare; e tutti mangiarono dello stessa cibo spirituale; e tutti bevettero la stessa bevanda spirituale; (bevevano infatti della pietra spirituale che li seguiva; e quella pietra era Cristo): pure della maggior parte di loro Dio non fu contento”].

Quando si tratta di vivere secondo la legge del Vangelo, tutto spaventa, tutto ripugna, tutto scoraggia. Dio ci promette invano una gloria pura e durevole; invano ci offre una corona preziosa che non appassisce mai, una felicità piena, sovrabbondante, perfetta; e tutto ciò per qualche giorno, per qualche ora, per qualche momento di mortificazione. Vi sono scuse per tutte le età; non si ha mai salute abbastanza, siamo giovani troppo, troppo occupati, troppo delicati; ovvero siamo in età troppo avanzata; l’astinenza, il digiuno, sono al di sopra delle nostre forze. Ma pensiamoci bene, la corona che ci è preparata nel cielo non sarà ella al di sopra dei nostri meriti, e non l’avremo forse per sempre? Eleviamo dunque lo spirito nostro e il cuore verso Dio, chiedendogli quella rettitudine d’intenzione, quel distaccamento da ogni creatura, quella sobrietà di cui parla l’Apostolo, per la quale si usa dei beni di questo mondo come non facendone uso. O felice digiuno, ove l’anima tiene tutti i sensi privi del superfluo! O santa astinenza, ove l’anima saziata della volontà di Dio, non si nutrisce più della propria! Essa ha, come il suo divino Maestro, un altro pane col quale si nutrisce: pane che è al di sopra d’ogn’altra sostanza; che estingue tutti gli altri desideri; vera manna che scende dal cielo, e ci fa pregustare le eterne delizie. Prepariamoci a riceverla coll’astenerci, secondo il nostro potere, dal pane ordinario e comune, che è il nutrimento del nostro corpo.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Graduale

Ps IX: 10-11; IX: 19-20

Adjútor in opportunitátibus, in tribulatióne: sperent in te, qui novérunt te: quóniam non derelínquis quæréntes te, Dómine.

[Tu sei l’aiuto opportuno nel tempo della tribolazione: abbiano fiducia in Te tutti quelli che Ti conoscono, perché non abbandoni quelli che Ti cercano, o Signore]

Quóniam non in finem oblívio erit páuperis: patiéntia páuperum non períbit in ætérnum: exsúrge, Dómine, non præváleat homo.

[Poiché non sarà dimenticato per sempre il povero: la pazienza dei miseri non sarà vana in eterno: lévati, o Signore, non prevalga l’uomo.]

Tractus

Ps CXXIX:1-4

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam.

[Dal profondo ti invoco, o Signore: Signore, esaudisci la mia voce.]

Fiant aures tuæ intendéntes in oratiónem servi tui.

[Siano intente le tue orecchie alla preghiera del tuo servo.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit?

[Se baderai alle iniquità, o Signore: o Signore chi potrà sostenersi?]

Quia apud te propitiátio est, et propter legem tuam sustínui te, Dómine.

[Ma in Te è clemenza, e per la tua legge ho confidato in Te, o Signore.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

[Matt XX: 1-16]

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Simile est regnum coelórum hómini patrifamílias, qui éxiit primo mane condúcere operários in víneam suam. Conventióne autem facta cum operáriis ex denário diúrno, misit eos in víneam suam. Et egréssus circa horam tértiam, vidit álios stantes in foro otiósos, et dixit illis: Ite et vos in víneam meam, et quod justum fúerit, dabo vobis. Illi autem abiérunt. Iterum autem éxiit circa sextam et nonam horam: et fecit simíliter. Circa undécimam vero éxiit, et invénit álios stantes, et dicit illis: Quid hic statis tota die otiósi? Dicunt ei: Quia nemo nos condúxit. Dicit illis: Ite et vos in víneam meam. Cum sero autem factum esset, dicit dóminus víneæ procuratóri suo: Voca operários, et redde illis mercédem, incípiens a novíssimis usque ad primos. Cum veníssent ergo qui circa undécimam horam vénerant, accepérunt síngulos denários. Veniéntes autem et primi, arbitráti sunt, quod plus essent acceptúri: accepérunt autem et ipsi síngulos denários. Et accipiéntes murmurábant advérsus patremfamílias, dicéntes: Hi novíssimi una hora fecérunt et pares illos nobis fecísti, qui portávimus pondus diéi et æstus. At ille respóndens uni eórum, dixit: Amíce, non facio tibi injúriam: nonne ex denário convenísti mecum? Tolle quod tuum est, et vade: volo autem et huic novíssimo dare sicut et tibi. Aut non licet mihi, quod volo, fácere? an óculus tuus nequam est, quia ego bonus sum? Sic erunt novíssimi primi, et primi novíssimi. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”

[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia, il quale andò di gran mattino a fissare degli operai per la sua vigna. Avendo convenuto con gli operai un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. E uscito fuori circa all’ora terza, ne vide altri che se ne stavano in piazza oziosi, e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quel che sarà giusto. E anche quelli andarono. Uscì di nuovo circa all’ora sesta e all’ora nona e fece lo stesso. Circa all’ora undicesima uscì ancora, e ne trovò altri, e disse loro: Perché state qui tutto il giorno in ozio? Quelli risposero: Perché nessuno ci ha presi. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. Venuta la sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e paga ad essi la mercede, cominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti dunque quelli che erano andati circa all’undicesima ora, ricevettero un denaro per ciascuno. Venuti poi i primi, pensarono di ricevere di più: ma ebbero anch’essi un denaro per uno. E ricevutolo, mormoravano contro il padre di famiglia, dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora e li hai eguagliati a noi che abbiamo portato il peso della giornata e del caldo. Ma egli rispose ad uno di loro, e disse: Amico, non ti faccio ingiustizia, non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi quel che ti spetta e vattene: voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso dunque fare come voglio? o è cattivo il tuo occhio perché io son buono? Così saranno, ultimi i primi, e primi gli ultimi. Molti infatti saranno i chiamati, ma pochi gli eletti.]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

L’OZIO SPIRITUALE

L’inverno uggioso era passato, la stagione delle piogge era finita, le gemme del fico ingrossavano. Era giunto il tempo di muovere il suolo, scalzare i ceppi, deporre il concime e preparare così una vendemmia abbondante. Gesù allora raccontò questa parabola: « È simile il regno dei cieli ad un proprietario che in un mattino di primavera uscì ad assoldare lavoratori per la sua Vigna. Stabilisce con loro un denaro al giorno e li manda a lavorare. Verso le nove uscì un’altra volta e ne vide altri che stavano oziosi sulla pubblica piazza e disse loro: « Andate anche voi nella vigna ». Uscì ancora a mezzogiorno, poi alle tre; e fece lo stesso. Finalmente uscì alle cinque, quando il sole già stava per tramontare, e trovò alcuni ritti sulla piazza a cianciare. Il proprietario li rimproverò: « Ma perché fate niente tutto il santo giorno? » Quid hic state tota die otiosi? – Se la vigna simboleggia l’anima nostra, a molti si potrebbe ripetere l’amaro rimprovero della parabola: « Perché passate oziosamente tutta la vita senza far niente per l’anima vostra? ». Nel libro dei Proverbi è detto che un giorno lo Spirito Santo lanciò uno sguardo sul campo del pigro: che desolazione! Le ortiche invadevano i solchi, le spine coprivano le zolle, i sassi soffocavano ogni germe buono (Prov., XXIV, 30). Così è pure dell’uomo ozioso, che, in tutt’altre faccende affaccendato, non sa d’avere un’anima da salvare, o se ancora lo sa, gliene importa poco: intanto le ortiche delle passioni, le spine delle cattive relazioni, i sassi dei peccati infestano la sua pigra coscienza. – Un uomo aveva una bella vigna, e l’empio re di Samaria gli si avvicinò e gli disse: «Dammi la tua vigna, che voglio farne un orto da erbaggi ». Ma l’altro sdegnato gridò: « Per l’amore di Dio non sarà mai che ti ceda l’eredità dei padri miei! » I Re, XXI, 3). Tutti noi, o Cristiani, abbiamo una bella vigna, l’anima nostra; una vigna che laboriosamente coltivata ci darà il vino soavissimo della felicità eterna. Ma l’empio re dell’inferno si accosta a ciascuno e domanda: « Dammi la tua anima che voglio farne un orto da erbaggi ». Ut faciam mihi hortum olerum. Son pochi quelli che fieramente rispondono come l’uomo israelita: « Per l’amor di Dio non l’avrai! ». La maggior parte, pur di non aver la briga di coltivarla in sudore e in penitenza, se la lascia occupare dal demonio, che strappa le virtù, e vi semina gli erbaggi dei vizi. Perché costoro si risveglino a vendicare la propria anima, io parlerò dell’ozio spirituale, e della necessità di lavorare per la salute eterna. – 1. L’OZIO SPIRITUALE. Il giorno 24 agosto 410, per la porta Salaria i barbari entrarono in Roma. La città eterna che da otto secoli non aveva subìto l’obbrobrio di una sconfitta, per la prima volta cadeva. – L’imperatore Onorio era fuggito a Ravenna, ove continuava la sua vita indolente e stupida. Un capitano spaventato accorse a lui, gli annunciò l’orribile sventura: «Roma è perita! ». Egli credendo che si trattasse d’un suo gallo prediletto, cui aveva dato il nome appunto di Roma, esclamò: « Ma come è mai possibile, se poco fa gli ho dato da mangiare con le mie proprie mani? ». Mentre la patria rovinava, mentre le basiliche venivano incendiate, mentre il popolo moriva di fame e di ferite, com’è stolto quest’imperatore che si sta nella reggia a giocare con un galletto! Di questa stoltezza non sono forse colpevoli anche molti Cristiani, che mentre il demonio circonda d’assedio l’anima, mentre abbrucia ogni virtù con le passioni, mentre li trascina nell’inferno, passano i giorni e gli anni tutta la vita senza provvedere a tanta rovina? L’ozio rovesciò Roma, l’invincibile trionfatrice di Cartagine; l’ozio rovescerà anche la loro anima nella irreparabile perdizione. – « Ma io — si scusano alcuni — non faccio niente di male: non odio, non rubo, son bestemmio… ». Non basta far niente di male: il fare niente di bene è già un fare male. Se tu avessi un servo non rapace non ubriacone non litigioso, ma sobrio quieto senza vizi, che però non ti fa niente e tutto il giorno è sdraiato in un cantuccio ove non ti disturba ma non ti serve, non è vero che tu lo licenzieresti sull’attimo? Ebbene, noi siamo servi di Dio: e se ci accontenteremo soltanto di non far niente di male, senza lavorare per l’anima nostra, udremo un giorno la terribile condanna: « Servo pigro e iniquo, va via!» (Mt., XXV, 26). Servi pigri e iniqui sono quelli che sciupano il tempo in oziosi e inutili pensieri, quando poi non sono cattivi: e non si ricordano mai di elevare la propria mente al Signore, di scrutare la propria coscienza esaminandola, di meditare sulla propria vocazione, sugli obblighi per seguirla perfettamente. – Servi pigri ed iniqui quelli che sciupano il tempo in parole oziose e inutili: di ogni parola oziosa saremo giudicati, è scritto nel Vangelo (Mt., XII, 36). Eppure ci sono dei Cristiani che sciupano la giornata in visite frivole, in conversazioni eterne, riempite forse di bugie, di mormorazioni, di scurrilità. Non hanno tempo certe donne per recitare il santo Rosario, e neppure per raccogliere i loro figliuoli con pazienza e farli pregare prima di porli a dormire, ma per chiacchierare di tempo ne trovano. Non hanno tempo certi uomini d’accostarsi ai Sacramenti, di frequentare la dottrina cristiana, ma hanno tempo di rimanere tre o quattro ore in qualche ritrovo, e sentono le campane che suonano, che li chiamano per la terza volta, ma non vogliono troncare le chiacchiere cogli amici. Servi pigri e iniqui sono quelli occupati soltanto in opere inutili per la vita eterna: che non fanno altro che affannarsi disordinatamente: per avere onori, piaceri, ricchezze. Costoro si troveranno come quelli che sognano di lavorare: tutta notte portano sacchi, corrono su le scale, vangano indurite pertiche di terra e poi si svegliano al mattino stanchi, sudati, con le ossa rotte, e davanti non si trovano né il frutto della loro fatica né ricompensa alcuna. Dormierunt somnum suum et nihil invenerunt omnes viri divitiarum in manibus suis (Ps., LXXV,; 6).2. NECESSITÀ DI LAVORARE Spiritualmente. « Che vi gioverà, fratelli miei — scrive S. Giacomo — vantarvi di essere dei Cristiani, di avere un’anima, se poi per la vostra anima e per la vostra fede non fate nulla? Sperate forse di salvarvi con l’ozio? » (II 14). Pensiamo che la vita fugge come un’acqua, ed è breve come una giornata. Lavoriamo dunque, intanto che c’è tempo! (Gal., VI, 10), perché poi viene la tenebra della morte e non si potrà più lavorare (Giov., IX, 4). – S. Caterina da Siena nel 1363, dopo che vestì l’abito delle Mantellate, ebbe una grande visione. Vide una regione meravigliosa che da una parte presentava un albero altissimo e fronzuto, carico di frutti squisiti, ma con in giro una siepe di spine alta e fitta che rendeva difficile l’avvicinarsi; dall’altra parte s’alzava una collinetta bionda di grano già buono per la mietitura, molto bello all’aspetto, ma le cui spighe vuote appena toccate si disfacevano in polvere fra le mani. Ed ecco giungere una frotta di persone; fermarsi davanti all’albero, ammirare i frutti con desiderio e tentare d’arrivare a coglierli; ma feriti dalle spine tutti rinunziavano subito a valicare la siepe; e volgendo lo sguardo alla collina coperta di messe, si slanciavano in quella direzione e si cibavano del cattivo grano che li faceva ammalare e li estenuava di forze. Arrivò una seconda frotta di persone, più coraggiosi dei primi: questi varcarono la siepe spinosa; ma, accostandosi all’albero, s’accorsero che il tronco era liscio e i frutti erano troppo alti per raggiungerli con lieve fatica e allora anch’essi ripresero la via verso del grano malefico che gonfiava lo stomaco senza nutrire. Sopraggiungeva finalmente qualcuno che, slanciandosi attraverso i rovi della siepe, abbracciò l’albero e ad impeti vigorosi raggiunse i frutti, e li mangiò. Ne fu talmente fortificato nello spirito, da provare in seguito disgusto per ogni altro cibo. S. Caterina comprese, e comprendiamo anche noi. I frutti di sapore ineffabile sono le virtù dell’anima nostra. Il monticello che rende il grano velenoso non dimostra altro che il mondo, campo sterile, con fatica inutile da tanti incauti coltivato. Nei primi che al solo vedere la siepe fuggirono, s’intendono coloro che hanno paura di fare la più piccola fatica per la loro anima: non una mortificazione, non una preghiera. Nei secondi, sgomentati nell’osservare da presso l’altezza dell’albero, quei molti Cristiani che da principio hanno fatto qualche cosa per la loro salute eterna, ma poi spaventati dalle difficoltà, mancarono ai proponimenti e si diedero anche essi in braccio all’ozio spirituale. Nei terzi, poi, quei fedeli che non temono fatica pur di raggiungere quei meriti che daranno a loro la paga eterna.Quando qualcuno domandava d’essere iscritto fra i cittadini romani, Catone, il rude censore, gli scrutava le mani, e se non le vedeva callose e indurite dalla fatica diuturna, lo respingeva con aspra voce: « Non sei degno d’essere cittadino romano ». Quando la nostra anima, staccata dal corpo, apparirà timida e sola alle porte del cielo, e chiederà d’essere ammessa tra i cittadini del Paradiso, Gesù scruterà le mani, e se non le troverà coi segni impressi del bene compiuto la rifiuterà con un grido eterno: « Non sei degna d’esser cittadina del Paradiso ».IL LAVORO DELLA SALUTE Eterna. Quest’oggi è Gesù Cristo, che ci chiama al lavoro con sua parabola, dalla quale ricaviamo due pensieri: 1) La necessità d’accogliere l’invito del Padre di famiglia. 2) A quale lavoro Dio ci chiama. – 1. LA NECESSITÀ D’ACCOGLIERE L’INVITO. Gesù, una volta, proruppe in terribili minacce contro i Farisei: « Guai a voi! Perché io vi manderò profeti, sapienti, dottori, e gli uni ucciderete e gli altri perseguiterete di città in città ». In quel momento, forse, gli passava davanti il quadro straziante della sua crocifissione. Gli passava davanti la figura di Stefano lapidato sotto le mura, di Giacomo decapitato, di Simeone figlio di Cleofa crocifisso e di tutti gli altri che la rabbia giudaica avrebbe tormentati. E ricordandosi anche di quanto avevano già patito Isaia, Geremia, Zaccaria ucciso fra il tempio e l’altare, lo assalì l’onda di pianto per l’ingrata sua patria ed esclamò: « Gerusalemme! Gerusalemme! che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati dal Cielo, quante volte ho tentato di chiamare i tuoi figli sotto le mie ali, some una gallina che raduna i suoi pulcini: e non mi hai dato retta, mai. Ecco, tu sarai deserta! ». Dopo alcuni anni dalla profezia del Signore, arrivarono gli eserciti romani e rovesciarono la città dalle fondamenta, con orribile strage d’abitanti. Jerusalem! Jerusalem, quae occidis prophetas et lapidas eos qui ad te missi sunt… a) Queste parole si possono rivolgere anche all’anima nostra. Le buone ispirazioni, le prediche, i rimorsi, gl’inviti di Dio a lavorare nella sua vigna sono come i profeti inviati a noi dal cielo, che noi abbiamo disprezzati, perseguitati, soffocati. — Quando in certe sere abbiam sentito nel cuore una voce gridarci: « Non hai paura di addormentarti così? e se non ti svegliassi più? » eppure scrollammo le spalle e scacciammo quel pensiero salutare, commettemmo il delitto di Gerusalemme che perseguitava i profeti. — Quando, osservando alcune persone che vivono nel timore di Dio, abbiamo capito che la nostra vita d’indifferenza e di peccato era una pazzia; eppure preferimmo ancora andare avanti nel male senza convertirci, noi lapidammo, sotto la furia delle passioni, i buoni profeti che Dio ci aveva mandati. — Quando, nelle prediche o nel sacramento della Confessione, il Sacerdote, con amore divino, ci rivolse una parola adatta per noi, eppure non l’ascoltammo, anzi tornammo a far come prima e peggio di prima, noi con le nostre mani abbiamo soffocato la voce di Dio. Quoties volui congregare pullos tuos sub ala… b) Oh quante volte davvero il Signore ha tentato di condurci nella sua vigna! Ci ha invitati per tempissimo: quando, ancora infanti e ignari della vita, fummo battezzati. Non comprendevamo ancora nulla, ma era il Padre di famiglia che già ci chiamava nella sua vigna. Ci ha invitati all’ora terza: quando ricevemmo la Prima Comunione e l’anima nostra giovanetta promise di star unita a Gesù, non per quel giorno appena, ma sempre. Ci ha invitati all’ora sesta e nona: quando nella pienezza della vita, pensammo a formare un famiglia nostra, e ricevemmo il sacramento del matrimonio. Inginocchiati sul gradino dell’altare pregavamo Dio a benedire le nostre nozze, e il Signore rispondeva: « Bravo sarai tu, e la tua moglie e i tuoi figli che come rametti d’ulivo  fioriranno attorno alla tua mensa, se lavorerai nella mia vigna e osserverai i miei comandamenti ». Noi le sentimmo queste parole: e le dimenticammo. Ci invita anche alla penultima ora; quando con gli acciacchi della vecchiaia ci fa capire che la morte è lì dietro le spalle, ed ogni respiro può essere facilmente l’ultimo. – Ed anche adesso fa sentire la sua voce a tutti: bambini, giovani, uomini, vecchi. Dopo tanti inviti quale scusa potremmo addurre per non aver fatto nulla? Non certo quella di alcuni oziosi al padre di famiglia: Nemo nos conduxit. Se ci ostineremo nel nostro ingrato rifiuto, il Signore sarà costretto a ripetere per noi la minaccia di Gerusalemme: « Noluisti. Ecce relinquetur vobis domus vestra deserta », (Mt., XXIII, 37). – Ti ho chiamato e non sei venuto: rimani pure col demonio. Il suo castigo sia il tuo castigo; la sua dimora, la tua dimora. – 2. A QUALE LAVORO DIO CI CHIAMA. Dio ci chiama al lavoro della salvezza eterna. Quando Gesù guariva le malattie del corpo e moltiplicava il pane materiale, una folla immensa lo circondava. Quasi cinquemila persone gli corsero dietro, una volta per tre giorni, sopportando caldo e sete, pur di guarire dal male di un occhio; di un  braccio, delle gambe, od anche solo per aver un tozzo di pane, con cui placare la fame.  Quando invece Gesù, a Cafarnao, pensò di dare a quelle turbe non già un pane che nutra il corpo, ma un pane per l’anima, quando pensò di dare una medicina non già per i mali della carne, ma per quelli dello spirito, la gente infastidita lo abbandonò. « Vedete; — diceva Gesù — i vostri padri nel deserto mangiarono la manna, e poi morirono egualmente. Io invece ho un pane vivo, per il quale non morrete più ». Tutti tacevano aspettando di vedere questo pane misterioso.« E questo pane sono Io: la mia carne è vero cibo, e il mio sangue è vera bevanda ». La gente non ne poté più; cominciò ad ingiuriarlo. « Sappiamo bene chi sei: un fabbro. Conoscemmo già tuo padre e tua madre ». E se ne andarono. Che importava a loro del Pane per la vita eterna? A loro bastava il pane che riempie lo stomaco per la misera vita di quaggiù. Operamini non cibum qui perit sed qui permanet in vitam æternam (Giov., VI. 27). Lavorate non per la roba di questo mondo che passa, ma per l’altro mondo che resta. Gli uomini d’adesso non sono diversi da quelli d’un tempo. « Io vedo — scrive S. Gregorio — una moltitudine che riempie le strade, le piazze, le officine, i tribunali, i mercati che vanno, che vengono; che si urtano, che imbrogliano, che faticano, che sudano da mane a sera, di giorno e di notte; e tutti per il danaro, per il corpo, per le passioni ». Si sola facimus quæ ad nostram pertinent utilitatem sine causa vivimus super terram. O uomini, se noi lavoriamo appena per il guadagno di quaggiù, sprechiamo la vita. Invece tutto si concede all’uomo carnale e terreno e nulla all’uomo cristiano; tutto per il vizio e nulla per la virtù; tutto per il corpo e nulla per l’anima. L’anima: questa vigna del Signore rimane incolta, piena di gramigna e d’ortiche e di spine e di sassi. Una Messa strapazzata alla festa; una Comunione, forse sacrilega all’anno, e nulla di più: non un segno di croce mattina e sera, non una giaculatoria nelle tentazioni, non una elemosina, un digiuno… Non bisogna meravigliarsi allora del terribile enigma con cui Gesù chiude la sua parabola bella: « Molti sono i chiamati, ma gli eletti, pochi ». – Mentre, lontano, il re di Dacia, passato il Danubio, invadeva con ferro e con fuoco l’impero romano, mentre, vicino, il popolo moriva di peste e di fame, Domiziano, imperatore feroce e grottesco, saltarellava per la sala dorata ad acchiappar mosche sulle pareti. Cristiani: pensiamo se, forse, non imitiamo anche noi la sciocchezza di quell’imperatore. La nostra vita è come una giornata di lavoro. L’ha detto S. Gregorio: omnis vita dies unus. Al termine di questa giornata, se non avremo pensato che agli interessi ed ai divertimenti, non avremo preso che delle mosche. Che paga ci potrà dare, allora, la giustizia di Dio. — GENTE INVIDIOSA. Ci furono di quelli arrivati un’ora prima del tramonto! il padrone li aveva visti sulla piazza sfaccendati ed aveva detto loro: « Perché oziate tutto il santo giorno? Andate nella mia vigna che ci sarà lavoro anche per voi ». I primi a presentarsi per la paga furono appunto questi: e ciascuno si intascò un danaro intero. S’accese allora nel cuor degli altri una forte brama. Dicevano: « Se per un’ora un danaro, noi che abbiamo lavorato tre, sei, nove, dodici ore riceveremo tre, sei, nove, dodici, danari ». Ma non fu così. Quando venne il loro turno tutti ebbero la medesima ricompensa: un danaro. Delusi e rabbiosi, cominciarono a invidiare la sorte dei primi. « Ingiustizia! È un’ingiustizia! — si gridava davanti alla porta del padrone. — Han lavorato un’ora e guadagnato come noi che abbiamo sgobbato tutta la giornata, come noi che abbiamo bruciato il cranio sotto il sole!… ». Calmo, ma risoluto, il padrone apparve in mezzo a quella gente invidiosa; prese il primo che gli capitò sotto mano e gli rivolse queste secche parole: « Buon uomo! Cosa c’è da borbottare? ». « C’è che costui ha fatto poco e l’hai messo a pari di me che ho fatto tanto ». « Stamattina, che cosa avevamo pattuito? ». « Che mi avresti dato un danaro ». « E te l’ho dato. Vattene dunque! ». Ci fu come un momento di silenzio. Poi la voce del padrone echeggiò solennemente contro tutti gli invidiosi: « Del mio posso fare quel che voglio. E se all’ultimo voglio dare come al primo, che importa a voi? O è maligno il vostro occhio, perché io sono buono? ». L’invidia! essa — predicava Bossuet — è la più vile, la più odiosa e la più screditata delle passioni; ma forse è la più comune e tale che poche anime ne sono del tutto immuni. I nostri antichi dicevano che nel mondo v’era un’isola soltanto in cui non crescesse erba velenosa, né vivesse bestia velenosa; ma neppur essi avevano saputo immaginare un posto, benché remoto e piccolo, ove non allignasse il veleno dell’invidia. E non si può dar torto a quel nostro proverbio che dice: Se l’invidia fosse febbre tutto il mondo intier l’avrebbe. Quand’è così, Cristiani, ben venga la parabola del Vangelo a farci meditare un po’ sopra questo peccato e a spingerci verso i rimedi di una pronta e santa correzione. – 1. IL PECCATO DELL’INVIDIA. Il primo ad avere invidia, sapete chi fu? il demonio. Dalle fiamme eterne contemplava Adamo ed Eva, beatissimi nel giardino delle delizie; e non potendo egli godere della loro gioia, volle che essi soffrissero del suo tormento. Si trasformò in serpente e fece mangiare alla donna il frutto della perdizione. « Fu per l’invidia del diavolo — dice la Sacra Scrittura — che la morte entrò nel mondo; ma da quel giorno tutti gli invidiosi non fanno che imitarlo » (Sap., II, 24). E nella famiglia di Adamo, lo imitò Caino: egli aveva invidia di suo fratello Abele. « Perché sei invidioso? — gli aveva detto il Signore — perché la tua faccia è crucciata? Non è vero che se anche tu farai bene, troverai bene? ». Ma Caino condusse Abele alla campagna e l’uccise. Nella famiglia di Isacco, lo imitò Esaù: egli odiava sempre il fratello Giacobbe perché aveva invidia della benedizione con la quale il vecchio padre l’aveva benedetto. « Verrà il giorno in cui mio padre morrà! — diceva in cuor suo; — allora io l’ammazzerò ». Nella famiglia di Giacobbe furono gli undici fratelli ad imitarlo. Essi vedendo come il vecchio padre amava Giuseppe più di tutti gli altri figli perché era il più ubbidiente ed ingenuo, cominciarono ad odiare il fratello e non gli parlaron più con amore… E appena un giorno lo videro giungere nei campi, si dissero a vicenda: « Ora il sognatore è nelle nostre mani! Venite che l’uccidiamo e lo gettiamo nella cisterna ». E nella nostra famiglia, non siamo forse noi l’invidioso che imita il demonio? Non è forse per la nostra invidia che la pace è sparita dalla casa, dal cortile, dagli amici e conoscenti? Guardate bene che razza di malattia è l’invidia: da principio vi colpisce negli occhi: poi nel cuore; e poi, se non correte ai rimedi, anche nelle mani. a) È un invidioso, malato negli occhi, colui che nel suo prossimo vuol scoprire soltanto i difetti. E quando non riesce a trovarne, li inventa, interpretando male ogni azione. Se voi gli dite: « Il tale è una persona caritatevole, ho saputo delle sue generose offerte alla Chiesa, ai poveri, ai malati » egli vi risponde. « Tutto per mettersi in vista! e poi chi sa da che parte viene quel danaro! vuol forse sgravarsi la coscienza di qualche rimorso ». E se voi gli dite ancora: « Hai conosciuto che persona onesta è il tal altro? » egli subito fremerà come se quella lode fosse un biasimo per lui e s’affretterà a dirvi: « Se dovessi svelarti tutto quello che io so, sul suo conto… » e magari non sa proprio niente. Ma non importa, egli ormai non è che un pipistrello insofferente d’ogni buona luce ed incapace di vedere se non le tenebre. Povero invidioso! b) Ad altri invece l’invidia ha già pervaso il cuore. Quando vedono che un fratello è più fortunato, che un vicino ha fatto un raccolto più abbondante, che un amico ha figliuoli più timorati, che un conoscente ha ricevuto qualche onore, ecco non hanno più pace. Irrequieti, permalosi, tristi, dalla faccia smorta vanno continuamente imprecando contro la buona sorte altrui, ed augurando male. Non hanno piacere se non quando vedono gli altri crucciati, calunniati, ammalati, sfortunati, disgraziati. c) Ma il peggio è che a furia di odiare il bene e di pensare al male del prossimo, si finisce a fare quello che da prima era soltanto un desiderio cattivo. È così che Saul giunse a vibrare la sua lancia contro Davide; è così che gli undici fratelli ebbero la crudeltà di vendere Giuseppe; è così che Esaù fece fuggire da casa Giacobbe; è così che Caino uccise l’innocente Abele. Ed è proprio così che oggi ancora ci sono parenti che si odiano; ci sono vicini che si danneggiano l’un l’altro nel campo e nella roba e nel commercio; ci sono risse tra amici. – 2. I RIMEDI. Già li aveva trovati, or sono molti secoli, S. Basilio. « Che cosa dobbiamo fare — predicava egli ai Cristiani del suo tempo — per non cadere nel peccato dell’invidia, o per liberarcene al più presto se mai vi fossimo incappati? Tre cose: stimare le cose mondane per quello che valgono; riflettere alla nessuna utilità che dall’invidia ci viene; persuaderci che d’ogni bene, il padrone è Dio. » a) Stimare le cose mondane per quel che valgono. Esse non dànno la felicità: sono forse felici i ricchi? sono forse più contenti di noi le persone onorate dal mondo? Crederlo è un’illusione. Anche il pesce corre bramosamente verso l’esca, ma come l’abbocca si trova uncinato dolorosamente; così è l’uomo che s’affanna verso i beni della terra nella lusinga di trovarsi felice e poi si trova aumentati gli affanni. Inoltre le cose mondane non sono eterne: se ci fosse qualcuno ostinato a rimanere sulla cima d’una torre che il minatore deve far saltare, noi lo diremmo un pazzo; ebbene, il tempo è quel minatore che rovescerà tra poco la torre della ricchezza, dell’onore, del piacere a cui molti hanno attaccato il cuore. Pensate che nell’ora dell’agonia un milione non vi allungherebbe la vita di un minuto; e gli onori di un re non vi farebbero tirare un respiro di più di quelli che per voi sono contati. – b) Nessuna utilità può derivare dall’invidia. Come la ruggine consuma il ferro, così l’invidia altro non giova che a rodere l’invidioso. Essa è come un tarlo, è come una sega, è come una vipera nell’anima. Che cosa dunque avanzano gli invidiosi? Quel che avanzano le farfalle quando volteggiano intorno alla fiamma d’una candela quasi a spegnerla rabbiosamente con le loro alucce: girano e rigirano, batton e sbattono finché stanche e bruciacchiate cadono morte mentre la fiamma continua a brillare. Così quelli che s’illudono, con le loro smanie, di spegnere agli altri la fiamma della virtù o della fortuna, finiscono per cadere bruciati. E Dio non voglia che sia nel fuoco dell’inferno. c) D’ogni bene Dio è il padrone. E li distribuisce secondo i suoi disegni misteriosi. Chi di noi oserebbe dirgli: « Perché fai così? Perché non dài a me più degli altri? ». Egli ci potrebbe rispondere come il padrone della vigna, nella parabola: « Prenditi quel che è tuo, e vattene. Del mio, ne faccio come voglio ». Tolle quod tuum est et vade! Che abbiam mai di nostro? non la vita, non salute, non la roba, non la famiglia, non l’aria, non il cibo… Che cosa dunque abbiamo? solo i peccati. Ma con essi dove si può andare? solo all’inferno. Tolle quod tuum est et vade! – Volete sapere se siete discepoli del Signore o discepoli del demonio? È presto fatto. « I miei discepoli — disse Gesù — si conosceranno dall’amore vicendevole ». Perciò S. Paolo raccomandava ai Cristiani di godere con quelli che godono, e di soffrire con quelli che soffrono (Rom., XII, 15). « I miei discepoli — dice il demonio — si conosceranno dall’invidia vicendevole » (Sap., II, 25). Perciò essi godono quando gli altri soffrono, e soffrono quando gli altri godono.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XCI:2

Bonum est confitéri Dómino, et psállere nómini tuo, Altíssime.

[È bello lodare il Signore, e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

Secreta

Munéribus nostris, quæsumus, Dómine, precibúsque suscéptis: et coeléstibus nos munda mystériis, et cleménter exáudi.

[O Signore, Te ne preghiamo, ricevuti i nostri doni e le nostre preghiere, purificaci coi celesti misteri e benevolmente esaudiscici.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]


Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXX: 17-18

Illúmina fáciem tuam super servum tuum, et salvum me fac in tua misericórdia: Dómine, non confúndar, quóniam invocávi te.

[Rivolgi al tuo servo la luce del tuo volto, salvami con la tua misericordia: che non abbia a vergognarmi, o Signore, di averti invocato.]

Postcommunio

Fidéles tui, Deus, per tua dona firméntur: ut eadem et percipiéndo requírant, et quæréndo sine fine percípiant.

[I tuoi fedeli, o Dio, siano confermati mediante i tuoi doni: affinché, ricevendoli ne diventino bramosi, e bramandoli li conseguano senza fine.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.