CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: MARZO 2023

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA, DEL MESE DI MARZO 2023

MARZO è il mese che la Chiesa dedica a SAN GIUSEPPE, dichiarato da Pio IX l’8 Dic. 1870 Patrono della Chiesa!

S. Teresa e S. Giuseppe.

Ecco quanto dice: « Invoco S. Giuseppe come patrono e protettore e non cesso di raccomandarmi a lui: il suo soccorso si manifesta in modo visibilissimo. Questo tenero protettore dell’anima mia, questo amabilissimo padre, si degnò di trarmi dallo stato in cui languiva il mio corpo e di liberarmi da pericoli assai più gravi che minacciavano il mio onore e la mia salvezza eterna. In più, mi ha esaudita sempre, più di quanto sperassi e di quanto chiedessi. Non ricordo di avergli chiesto qualcosa e che non me l’abbia accordato. Quale ampio quadro io potrei esporre, se mi fosse accordato di conoscere tutte le grazie di cui Iddio m’ha colmata e i pericoli, sia dell’anima che del corpo, da cui m’ha liberata per intercessione di questo amabilissimo Santo! L’Altissimo dona ai santi quelle grazie che servono per aiutarci in certe circostanze; il glorioso S. Giuseppe – e lo dico per esperienza – estende il suo potere su tutto. Con questo, il Signore vuole mostrarci che, come un giorno fu sottomesso all’autorità di Giuseppe, suo padre putativo, così ancora in cielo, si degna di accettare la sua volontà, esaudendo i suoi desideri. Come me, l’hanno costatato per esperienza, quelle persone alle quali ho consigliato di raccomandarsi a questo incomparabile protettore; il numero delle anime che lo onorano cresce di giorno in giorno, e i felici successi della sua mediazione confermano la verità delle mie parole ». Per soddisfare questi desideri e per venire incontro alla devozione del popolo cristiano, il 10 settembre 1847, Pio IX estese alla Chiesa universale la festa del Patrocinio di S. Giuseppe che fino allora era celebrata soltanto dai Carmelitani e da qualche chiesa. In seguito, S. Pio X aumentò il valore di questa festa, onorandola di una Ottava e Pio XII, volendo dare un particolare patrono a tutti gli operai del mondo, ha istituito una nuova festività da celebrarsi il Primo Maggio; per questo motivo, venne soppressa quella del secondo mercoledì dopo Pasqua, e la festa del 19 marzo ricorda S. Giuseppe quale Sposo della Vergine e Patrono della Chiesa universale. (Dom Gueranger: L’Anno liturgico. Vol. I, Ed. Paoline – Alba,1956)

Queste sono le feste del mese di Marzo 2023

1 Marzo Feria Quarta Quattuor Temporum Quadragesimæ – Simplex

2 Marzo Feria Quinta infra Hebd I in Quadr. – Simplex

3 Marzo Feria Sexta Quattuor Temporum Quadragesimæ – Simplex

4 Marzo Sabbato Quattuor Temporum Quadragesimæ– Simplex

             S. Casimiri Confessoris- Semiduplex *L1*

5 Marzo Dominica II in Quadr. – Semiduplex I. classis

6 Marzo Ss. Perpetuæ et Felicitatis Martyrum   Duplex

7 Marzo S. Thomæ de Aquino Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

8 Marzo S. Joannis de Deo Confessoris – Duplex

9 Marzo S. Franciscæ Romanæ Viduæ – Duplex

10 Marzo Ss. Quadraginta Martyrum – Semiduplex

12 Marzo Dominica III in Quadr. – Semiduplex I. classis

            S. Gregorii Papæ Confessoris et Ecclesiæ Doctoris -Duplex

17 Marzo S. Patricii Episcopi et Confessoris – Duplex

18 Marzo S. Cyrilli Episcopi Hierosolymitani Confessoris et Ecclesiæ Doctoris – Duplex

19 Marzo Dominica IV in Quadr. – Semiduplex I. classis

20 Marzo S. Joseph Sponsi B.M.V. Confessoris – Duplex I. classis *L1* (transfer)

21 Marzo S. Benedicti Abbatis – Duplex majus *L1*

24 Marzo S. Gabrielis Archangeli    Duplex majus *L1*

25 Marzo In Annuntiatione Beatæ Mariæ Virginis – Duplex I. classis *L1*

27 Marzo S. Joannis Damasceni Confessoris – Duplex m.t.v. *L1*

29 Marzo S. Joannis a Capistrano Confessoris – Semiduplex m.t.v.

31 Marzo Septem Dolorum Beatæ Mariæ Virginis – Duplex majus

*****

Sette Dolori ed Allegrezze di S. Giuseppe.

I. Sposo purissimo di Maria, glorioso s. Giuseppe siccome fu grande il travaglio e l’angustia del vostro cuore nella perplessità di abbandonare la vostra illibatissima Sposa; così fu inesplicabile l’allegrezza, quando dall’Angelo vi fu rivelato il Mistero sovrano dell’Incarnazione. — Per questo vostro dolore, e per questa vostra allegrezza preghiamo di consolar ora e negli estremi dolori l’anima nostra coll’allegrezza di una buona vita e di una santa morte somigliante alla vostra in mezzo di Gesù e di Maria. Pater, Ave e Gloria.

II. Felicissimo Patriarca, glorioso S. Giuseppe, che trascelto foste all’ufficio di Padre putativo del Verbo umanato, il dolore che sentiste nel veder nascere con tanta povertà il Bambino Gesù, vi si cambiò subito in giubilo celeste nell’udire l’armonia angelica, e nel vedere le glorie di quella splendentissima notte, — Per questo vostro dolore, per questa vostra allegrezza vi supplico di impetrarci, che dopo il cammino di questa vita ce ne passiamo ad udir le lodi angeliche, ed a godere gli splendori della celeste gloria. Pater, Ave, Gloria.

III. Esecutore obbedientissimo delle divine leggi, glorioso S. Giuseppe, il Sangue preziosissimo che sparse nella Circoncisione il Bambino Redentore vi trafisse il cuore, ma il Nome di Gesù ve lo ravvivò riempiendolo di contento. — Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza otteneteci, che tolto da noi ogni vizio in vita col Nome santissimo di Gesù nel cuore e nella bocca giubilando spiriamo. Pater, Ave, Gloria.

IV. O fedelissimo Santo, che a parte foste dei Misteri della nostra Redenzione, glorioso S. Giuseppe, se la profezia di Simeone di ciò che Gesù e Maria erano per patire, vi cagionò spasimo di morte, vi ricolmò ancora di un beato godimento per la salute e gloriosa risurrezione, che insieme predisse dover seguire di innumerabili anime. — Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza, impetrateci che noi siamo nel numero di quelli, che pei meriti di Gesù, e ad intercessione della Vergine Madre hanno gloriosamente a sorgere. Pater, Ave e Gloria.

V. O vigilantissimo Custode, famigliare intrinseco dell’Incarnato Piglio di Dio, glorioso S. Giuseppe, quanto penaste in sostentare e servire il Figlio dell’Altissimo, particolarmente nella fuga, che doveste fare in Egitto: ma quanto ancora gioieste avendo sempre con voi lo stesso Dio, e vedendo cadere a terra gli idoli Egiziani. — Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza impetrateci, che tenendo da noi lontano il tiranno infernale, specialmente con la fuga delle occasioni pericolose, cada dal nostro cuore ogni idolo di affetto terreno: e tutti impiegati nella servitù di Gesù e di Maria, per loro solamente da noi si viva e felicemente si muoja. Pater, Ave e Gloria.

VI. O Angelo della terra glorioso S. Giuseppe, che ai vostri cenni ammiraste soggetto il Re del Cielo, se la consolazione vostra, nel ricondurre dall’Egitto intorbidossi col timore di Archelao; assicurato nondimeno dall’Angelo, lieto con Gesù e Maria dimoraste in Nazaret. — Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza impetrateci, che da timori nocivi sgombrato il cuore, godiamo pace di coscienza, e sicuri viviamo con Gesù e Maria e fra loro ancora moriamo. Pater, Ave, Gloria.

VII. O esemplare di ogni santità glorioso San Giuseppe, smarrito che aveste senza vostra colpa il fanciullo Gesù, per maggior dolore tre giorni lo cercaste, finché con sommo giubilo godeste della vostra Vita ritrovata nel tempio fra i Dottori. — Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza vi supplichiamo col cuore sulle labbra ad interporvi, onde non ci avvenga mai di perdere con colpa grave Gesù; ma se per somma disgrada lo perdessimo, tanto con indefesso dolore lo ricerchiamo, finché favorevole lo ritroviamo, particolarmente nella nostra morte, per passare a goderlo in Cielo, ed ivi con voi in eterno cantare le sue divine misericordie. Pater, Ave e Gloria

Antiph. Ipse Jesus erat incipiens quasi annorum triginta, ut putabatur Filius Joseph.

V. Ora prò nobis Sancte Joseph.

R. Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

OREMUS.

Deus, qui ineffabili providentia Beatum Joseph sanctisimæ Genitricis tuæ sponsum eligere dignatus es: presta quæsumus, ut quem Protectorem veneramur in terris, intercessorem habere mereamur in cœlis. Qui vivis et regnas in sæcula sæculorum. Amen.

INDULGENZE PER LE 7 ALLEGREZZE ED I 7 DOLORI E PER LE DOMENICHE DI S. GIUSEPPE.

A sempre più infervorare i fedeli nella divozione a S. Giuseppe, a chiunque pratica il suesposto esercizio dei suoi sette Dolori ed Allegrezze, Pio VII il 9 dic. 1819 accordò l’Ind. Di 100 giorni una volta al giorno, e di 300 in ogni Mercoledì nonché in tutti i nove giorni precedenti così la sua festa, 19 Marzo, come quella del suo Patrocinio nella III Dom., dopo Pasqua, oltre la Plen. in dette due feste, ricevendo i SS. Sacramenti. Più ancora Indulg. Plen. a coloro che l’avranno praticato per un mese intero in un giorno a scelta, confessandosi e comunicandosi. — Inoltre Gregorio XVI, 22 Gen. 1836, concesse a chi lo praticherà per 7 continue domeniche fra l’anno, da scegliersi ad arbitrio, Indulg. Di 300 giorni in ciascuna delle prime 6 domeniche e la Plen. nella settima Confess. e Comunic. — Pio IX in seguito, l Febbr. 1817, confermò le sudd. Indulg. E vi aggiunse indulg. Plen. in ciascuna delle 7 domeniche purché, premesso il sudd. Esercizio, e ricevuti i SS. Sacramenti si visiti una chiesa, pregandovi secondo la mente di S. Santità. La quale ultima concessione lo stesso Pont. 22 Marzo 1847, la estese a favore anche di coloro, che non sapendo leggere reciteranno solamente i 7 Pater, Ave e Gloria, adempiendo però le surriferite condizioni. [Manuale di Filotea del sac. G. Riva, XXX ed. Milano, 1888]

Ench. Indulg. N. 469:

Ai fedeli che davanti ad un’immagine di San Giuseppe, reciteranno devotamente un Pater, Ave, e Gloria con l’invocazione: Sancte Joseph, ora pro nobis, si concede:

Indulgentia trecentorum dierum:

Indulgentia Plenaria s. c. a coloro che avranno piamente perseverato nella recita, ogni giorno per un intero mese (S. Pænit. Ap., 12 oct. 1936).

Ench. Indulg. N. 466:

Ai fedeli che nel mese di MARZO, o per giusto impedimento in altro mese dell’anno, praticheranno devotamente in pubblico, un pio esercizio in onore di San Giuseppe, Sposo della B. V. M., si concede:

Indulgentia di sette anni per ogni giorno del mese;

Indelgentia Plenaria, se praticato per almeno 10 volte nel mese, se confessati e comunicati pregheranno per le intenzioni del Sommo Pontefice.

Se poi nel mese di marzo, sarà praticata privatamente una preghiera o altra opera di pietà in ossequio a San Giuseppe Sposo della B. M. V., si concede:

Indulgentia di 5 anni ogni volta in ogni giorno del mese;

Indulgentia Plenaria, s. c. se si pratica per un mese (S. C. Indulg. 27 Apr. 1865; S. Pæn. Ap., 21 Nov. 1933)

Ench. Indulg. N. 467

Ai fedeli che praticheranno pubblicamente il pio esercizio della novena in suo onore, prima della festa di San Giuseppe, Sposo di B. M. V. si concede:

Indulgentia sette anni per ogni giorno della novena;

Indulgentia Plenaria, se confessati sacramentalmente, comunicati e pregando per le intenzioni del Sommo Pontefice, sarà praticato per almeno cinque durante la novena. Se praticato privatamente, si concede:

Indulgentia di cinque anni per ogni giorno della novena;

Indulgentia Plenaria, suet. cond. al termine della novena, a chi sia legittimamente impedito al pubblico esercizio.  (S. C. Ind. 26 nov. 1876; S. Pænit. Ap., 4 Mart. 1935).

Fac nos innocuam, Ioseph, decurrere vitam,

Sitque tuo semper tuta patrocinio.

(ex Missali Rom.).

Indulgentia trecentorum (300) dierum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, invocation quotidie per integrum mensem pie recitata (S. C. Indulg.,

18 mart. 1882; S. Pæn. Ap., 13 maii 1933).

HYMNI

463

Te, Ioseph, celebrent agmina Caelitum

Te cuncti rèsonent Christiadum chori,

Qui, clarus meritis, iunctus es inclytae

Casto fœdere Virgini.

Almo cum tumidam germine coniugem

Admirans, dubio tangeris anxius,

Afflatu superi Flaminis, Angelus

Conceptum puerum docet.

Tu natum Dominum stringis, ad exteras

Aegypti profugum tu sequeris plagas;

Amissum Solymis quæris et invenis,

Miscens gaudia fletibus.

Post mortem reliquos sors pia consecrat,

Palmamque emeritos gloria suscipit:

Tu vivens, Superis par, frueris Deo,

Mira sorte beatior.

Nobis, summa Trias, parce precantibus,

Da Ioseph meritis sidera scandere:

Ut tandem liceat nos tibi perpetim

Gratum promere canticum. Amen.

(ex Brev. Rom.).

Indulgentia trium (3) annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, quotidiana

hymni recitatione in integrum mensem producta (S. Pæn. Ap., 9 febr. 1922 et 13 iul. 1932).

– 464 –

Salve, Ioseph, Gustos pie

Sponse Virginis Mariae

Educator optime.

Tua prece salus data

Sit et culpa condonata

Peccatricis animae.

Per te cuncti liberemur

Omni poena quam meremur

Nostris prò criminibus.

Per te nobis impertita

Omnis gratia expetita

Sit, et salus animae.

Te precante vita functi

Simus Angelis coniuncti

In cadesti patria.

Sint et omnes tribulati

Te precante liberati

Cunctis ab angustiis.

Omnes populi laetentur,

Aegrotantes et sanentur,

Te rogante Dominum.

Ioseph, Fili David Regis,

Recordare Christi gregis

In die iudicii.

Salvatorem deprecare,

Ut nos velit liberare

Nostrae mortis tempore.

Tu nos vivos hic tuere

Inde mortuos gaudere

Fac cadesti gloria. Amen.

Indulgentia trium (3) annorum (S. Pæn. Ap., 28 apr.1934).

– 473 –  

Virginum custos et Pater, sancte Ioseph, cuius

fideli custodiæ ipsa Innocentia, Christus Iesus,

et Virgo virginum Maria commissa fuit, te per

hoc utrumque carissimum pignus Iesum et Mariani

obsecro et obtestor, ut me ab omni immunditia

præservatum, mente incontaminata, puro

corde et casto corpore Iesu et Mariæ semper

facias castissime famulari. Amen.

(Indulgentia trium (3) annorum.

Indulgentia septem (7) annorum singulis mensis marti:

diebus necnon qualibet anni feria quarta.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, oratione quotidie per integrum mensem pia mente iterata (S. C. Indulg., 4 febr. 1877; S. Paen. Ap., 18 maii 1936 et 10 mart. 1941)

-475-

Memento nostri, beate Ioseph, et tuæ orationis

suffragio apud tuum putativum Filium intercede;

sed et beatissimam Virginem Sponsam

tuam nobis propitiam redde, quae Mater est

Eius, qui cum Patre et Spiritu Sancto vivit et

regnat per infinita saecula saeculorum. Amen.

(S. Bernardinus Senensis).

Indulgentia trium annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem oratio devote recitata fuerit

(S. C. Indulg., 14 dee. 1889; S. Paen. Ap., 13 iun.1936).

– 476 –

Ad te, beate Ioseph, in tribulatione nostra

confugimus, atque, implorato Sponsæ tuæ

sanctissimæ auxilio, patrocinium quoque tuum fidenter

exposcimus. Per eam, quæsumus, quae

te cum immaculata Virgine Dei Genitrice coniunxit,

caritatem, perque paternum, quo Puerum

Iesum amplexus es, amorem, supplices deprecamur,

ut ad hereditatem, quam Iesus Christus

acquisivit Sanguine suo, benignius respicias,

ac necessitatibus nostris tua virtute et ope

succurras. Tuere, o Custos providentissime divinae

Familiae, Iesu Christi sobolem electam;

prohibe a nobis, amantissime Pater, omnem errorum

ac corruptelarum luem; propitius nobis,

sospitator noster fortissime, in hoc cum potestate

tenebrarum certamine e caelo adesto; et

sicut olim Puerum Iesum e summo eripuisti vitae

discrimine, ita nunc Ecclesiam sanctam Dei

ab hostilibus insidiis atque ab omni adversitate

defende: nosque singulos perpetuo tege patrocinio,

ut ad tui exemplar et ope tua suffulti, sancte

vivere, pie emori, sempìternamque in cœlis

beatitudinem assequi possimus. Amen.

Indulgentia trium (3) annorum.

Indulgentia septem (7) annorum per mensem octobrem, post recitationem sacratissimi Rosarii, necnon qualibet anni feria quarta.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidiana

orationis recitatio in integrum mensem producta fueri:

(Leo XIII Epist. Encycl. 15 aug. 1889; S. C. Indulg., 21 sept. 1889; S. Paen. Ap., 17 maii 1927, 13 dee. 1935 et 10 mart. 1941).

477

O Ioseph, virgo Pater Iesu, purissime Sponse

Virginis Mariae, quotidie deprecare prò nobis

ipsum Iesum Filium Dei, ut, armis suae gratiae

muniti, legitime certantes in vita, ab eodem coronemur

in morte.

Indulgentia quingentorum (500) dierum (Pius X, Rescr. Manu

Propr., 11 oct. 1906, exhib. 26 nov. 1906; S. Paen. Ap.

23 maii 1931).

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (14)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (14)

LA GRAN BESTIA SVELATA AI GIOVANI

dal Padre F. MARTINENGO (Prete delle Missioni

SESTA EDIZIONE – TORINO I88O

Tip. E Libr. SALESIANA

IX.

LE TROMBE DEL CIARLATANO E PRIMA I GIORNALI.

Voi dunque dovete guardarvi dalle dottrine che spaccia il gran ciarlatano il mondo: e. ciò non solo nei punti, che ho toccato del suicidio e del duello, ma in tutto che dice ed insegna, perché il mondo, per vostra regola, oltr’essere, un gran ciarlatano, è anche un gran pazzo: non basta; ma di ciarlatani e di pazzi ai suoi servigi ne mantiene una baraonda senza fine, che d’ogni parte vi assiepano, vi circonvengono, vi stordiscono, v’intronano … Carro vuoto (dice bene quel proverbio) fu maggior fracasso. E col fracasso appunto, col vociare alto e sonoro, col piglio di gran baccalari, e’ s’ingegnano supplire alla buona ragione che lor manca. Chi ha la ragione dalla sua non ha mestieri di gridar tanto alto: pur pure in mezzo a questo gran buscherio che ci fanno d’attorno, non disdirà anche a noi alzar un tantino la voce, come si fa in una conversazione, quando un qualche trombone ci assorda; che se vogliamo farci intendere, ci è forza anche noi, date le spalle a monna creanza, alzar un tantino il corista. E di tromboni e di trombe il gran ciarlatano ne ha a dovizia, dalle qual v’è d’uopo guardarvi, se no, ne avreste sì intronate le orecchie, che vi ne verrebbe il capogiro. – Prima tromba, cari giovani, sono i giornali; parlo de’ cattivi, s’intende cioè, per nostra disgrazia, dei più e vi domando; lo sapete voi che di venti e più anni questi sono un flagello, una piaga del nostro bel paese, peggiore di tutte insieme le dieci piaghe d’Egitto? Oh potessi dirvi l’un cento del male che fanno a furia di ciarlatanesche strombazzate. –  Platone che dalla sua repubblica volea cacciati i poeti, fu tacciato di soverchio rigore; ma se i poeti d’allora erano come i nostri giornalisti d’adesso, credo che ogni onesto gli batterebbe le mani. A ogni modo togliete pur via i giornali, e statevi tranquilli, che la repubblica letteraria non avrà a patirne detrimento. Ora frattanto, mentre che ci sono, e’ bisogna guardarcene come dal contagio, e voi, miei giovani, se ascoltate il mio consiglio, non li leggerete, non li guarderete nemmeno. Ei vi pervertirebbero in poco d’ora le idee, il giudizio, il buon senso, le idee, il giudizio, il buon gusto … Sì, anche il buon gusto. E che avreste a impararci, in grazia, da quello scrivere contorto, smanioso, barbaresco che fanno i più dei giornalisti, che hanno sempre Italia sulla punta della penna, e non sanno rabberciare a garbo un periodo, esprimere italianamente un concetto, e questo dolcissimo idioma che Dio ci ha dato, che pare un’emanazione del nostro bel cielo, lo sformano, lo snaturano, l’imbrattano a tutto pasto, infarcendolo di solecismi e di barbarismi da spiritarne cani? O povera nostra, lingua; a che mani ci sei venuta! – Per carità, giovani cari, se punto vi cale de’ vostri studi, del buon giudizio, del buon gusto, e sapere scrivere due righe d’italiano, leggete, non osa sì, che fate bene; ma! intendiamoci; buoni libri, si: giornalacci, poi, no, no mai! – E questo che ho detto, notate, è che non ancora il men male. Se dalla lingua passiamo al pensiero, dallo stile ai concetti, dalla scorza al midollo, Dio mio! che idee stravolte! che granchi! che bestialità!… E non è mica sempre facile, ad un giovane specialmente, di accorgersene; perchè in difetto d’altre cose, questi, cosiffatti. Scribacchini hanno sì bene appresa l’arte di falsar le idee, le parole, i nomi stessi delle cose, che uno più non ci si raccappezza. Togliete ad esempio Libertà; chi ne capisce più nulla?… Tolleranza; la levano a cielo, ma poi guai a chi non pensa e dice e fa come loro. Indipendenza; ed essi per primi si danno devotissimi servi alla GRAN BESTIA, e non restano dal lisciarle, la coda.; Amor di patria; eh via! L’udimmo tanto menare e rimenare da certe bocche questo nome così sacro, che ormai un uomo one non osa più proferirlo. – Che se poi, non paghi alla politica, e’ t’entrano, come suol dirsi, in sacrestia, apriti cielo!. spacciano di quelle che non hanno vabbo nè mamma. — Ma e chi son dunque costoro, che ci appestano l’aria? Italiani? Che volete vi risponda?.., In Italia, almeno la maggior parte, sì, pur troppo! ci son nati: ma italiani non oserei dirli davvero; anzi né italiani né Cristiani, che si putono di barbaro e di volteriano a mille miglia. Giovani, il più, di primo pelo, teste intronate che suonano a fesso come le campane rotte, saggiati appena i primi studi, odorato alla larga un po’ d’enciclopedia alla moderna, letto un buon dato di robaccia forestiera, imparati certi paroloni e frasi sonanti da tener a bada il popolino, ecco che s’impancano a maestri d’Italia, anzi di tutto quanto il genere umano: essi gli organi della pubblica opinione, essi gli educatori delle plebi; questo, se nol sapete, il loro apostolato, questa la loro missione. Boom!.. E chi glie ne diede, in grazia? Il gatto ?…. E così, con sì bei titoli e santissimi fini, s’accomodano coraggiosamente nascosti dietro il nome d’un paltoniere qualunque a frecciare non visti il terzo ed il quarto, lanciar la pietra e nasconder la mano, gettare del loro fango su tutto e su tutti…. Giù lo maschera, vigliacchi! Uscite dalla macchia e combattete a viso aperto, se ne avete il cuore!…. Oh quante vergogne di meno, se ci calasse dal cielo un buon governo che avesse coscienza e coraggio di intimar loro: — Volete parlare al pubblico? E voi mostrategli il viso. Ciarlatani,. pazienza; ma ciarlatani camuffati da eroi, non ne vogliamo, non ne vogliamo. — Recatomi un giorno da un amico e non trovatolo in casa, mentre stava aspettandolo, mi misi, così per far ora, a leggere su un giornaluzzo che trovai li, quello che chiamano elegantemente, l’articolo di fondo. Lo scrittore parla solla gravità d’un Catone in Utica, in persona prima plurale, come i grandi personaggi fanno, e trinciava a dritto ed a rovescio, non sol di politica, ma e di filosofia, di teologia; di storia, e di non so quante altre cose: strafalcioni che Dio vel dica! Tornato l’amico: – chi è (l’inchiesi) che scrive di queste babbuassaggini? — Il tal di tale, mi risponde. Non potei tener le risa. Era il più gran lasagnone di questa terra, un giovinastro sciupato che io, anni avanti, aveva avuto scolaro, e so quanto pesava! Ché senza fargli torto, è sempre stato il più asino tra gli asini. Oh vedete, giovani miei, come anche gli asini in questa nostra felicissima età, possono impennar l’ali e volarsene alle stelle! Tant’è; Sic itur ad astra. E mi sovvenne la nota favoletta d’Esopo. —L’asino, coperto d’una pelle di leone, andava attorno spaventando eli animali: e veduta la volpe, volle provarsi a farle una grossa paura anche a lei. Ma la volpe che è volpe: — ti conosco al raglio — e se ne rise, Or di cosiffatti asini, vo? sappiate, miei cari giovani, che ce n’ha un buon dato. Ma io mi starò contento a dirvi di uno che conosco assai bene, camuffato, non da leone, ma da cittadino; il quale, udito ch’era uscito il libretto della Gran Bestia, tratto senza dubbio da simpatia di razza, volle vederlo; ma trovatovi cose che forse non pensava, cioè, che della BESTIA ne dico corna ad ogni pagina, volle pigliarne una sua vendetta. — O quale? Sentite. Mi stampò contro un articoluzzo di poche righe, intitolandolo: Risum teneatis, che vuol dire: si tenga dal ridere chi può. E fece bene a darne avviso al lettore, perché davvero son tutti da ridere gli argomenti che mi sfodera contro. Ne volete sentire?… Sì, ve li copierò tali e quali: è bene che pigliate un’idea della sodezza con che ragionano certi giornali. Attenti.

Argomento. Mi chiama un tal reverendo, non sappiam bene, aggiunge (ehi, sentite plurale? Cavatevi la berretta e zitti!) non sappiamo bene se prete o frate … Balordo! Bastava leggere il frontespizio per saperlo.

Argomento. — Ignoriamo (bravo! È proprio il verbo dell’asino, e messo così al plurale, ha certa maestà!) ignoriamo se il rev. Autore abbia relazione col rev. anonimo che propaga lunari e libri ascetici editi da una società di corvi e gufi per istruire il popolo. — Non vi spaventate, cari giovani, di quei corvi e gufi: son parole e non più; parole d’effetto magico… pei gonzi. Quanto alla sostanza; lo ‘scrittore ignora. Ebbene io gli lascerò la sua ignoranza che gli sta tanto bene, e gli dirò: — Confutate il libro, se vi basta la vista, poi parleremo delle relazioni e dell’anonimo.

Argomento. — Dice che riporta un brano dell’opuscoletto (ahi! Perché sbranarmelo così il poverino!) come prezioso saggio dell’istruzione fornita dagli affigliati (eleganza di moda) della società di s. Vincenzo. — Brrrr!…. libera nos Domine! Ma come il sa egli che sono affigliato, se ignora persino chi io mi sia?

Argomento. — Reca quel tratto o brano del capo XIII, dove: mostro colla Scrittura, coi Padri e cogli interpreti alla mano; che la colpa di Adamo fu in gran parte effetto della stolta condiscendenza d’Adamo alla donna; per indi dedurre che non piccola parte ebbe in essa, e nelle miserie che ne conseguitarono, l’umano rispetto; e finite quelle mie parole, conchiude secco secco così: — O sei un gran pazzo, o un gran citrullo: punto e basta. E grazie del complimento! Che ne dite, cari giovani? Non son proprio le carezze dell’asino? E così avete un’idea delle valide ragioni, o meglio dei raglioni sonori, con cui, in prima persona plurale, con pochi paroloni di civiltà moderna, e con meno fatica, si può confutare, nel secolo decimonono, un buon libro qualunque. Che ne pensate? C’è egli da spaventarsi o da ridere? … Per me, questa volta almeno, do tutte le ragioni alla volpe.

QUARESIMALE (VI)

QUARESIMALE (VI)

DI FULVIO FONTANA
Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA SESTA

Nella Feria terza della Domenica prima.

Esser necessaria una ferma vigilanza per guardarsi dalle piccole cadute,
che per lo più fanno strada a gran precipizj.


Cathedras vendentium Columbas evertit.
S. Matt. cap. XXI

Sarà sempre degno d’encomj colui che con invenzione non mai abbastanza lodata, fabbricò con tale artifizio, nella gran sala di Dionigi in Siracusa, un meraviglioso orecchio di Saffo, da cui per lunghe ritorte, e piccolissime strade giungeva all’udito del Monarca, assiso nel suo proprio gabinetto, quanto dagl’incauti cortigiani si proferiva. Di questa corte sì, con verità poteva asserirsi ciò che d’altre figuratamente si dice, non v’esser muro che non osservi, angolo che non parli, né trave, né pietra che non accusi, mentre ogni sillaba articolata, ogni accento proferito passava al prodigioso orecchio di Saffo, e da questo saliva all’ orecchio curioso del Re; or sappiate, e non ve ne ha dubbio, che per impedire l’effetto d’opera sì degna, nulla di più vi voleva che tramezzarsi a quelle piccolissime vie un minutissimo grano di frumento. Quanto fu degna l’invenzione di costui nella fabbrica dell’orecchio di Saffo, altrettanto è dannosa l’astuzia del demonio, che con le diaboliche sue invenzioni ha trovato modo con cui render di Saffo l’orecchio dell’uomo alle voci di Dio; e quel che deve deplosarsi a lacrime di sangue è che per impedire questa corrispondenza della voce di Dio all’orecchio dell’uomo, si serve di cose minutissime, di piccoli errori, di cose che tal volta si stimerà vestire innocenza di colombe. No, no, anche queste vuol Cristo che si sbandiscano da noi, perché queste, benché piccole, a poco a poco fan la strada alle maggiori, le quali poi induriscono talmente il cuor del peccatore, che è quasi, dissi, impossibile, che più si ammollisca alle voci Divine. – Piaccia a Dio che le mie fatiche per più d’uno, non siano buttate al vento, griderò, suderò, strepiterò su questo pulpito; ma con qual frutto: vi saranno tra i miei UU. così non fosse, di quelli talmente induriti nel peccato, che per quanto io schiamazzi, ad ogni modo non si arrenderanno alla ragione, non si ammolliranno alle minacce, non si atterriranno ai castighi; finché si potrà dire esser caduta sopra di loro quella spaventosa maledizione, induratum est cor eorum, quasi incus Malleatoris, è divenuto il loro cuore a guisa d’una incudine, che quanto più è percossa, tanto più s’indura; hanno, i meschini, chiuso il cuore alla pietà, l’occhio al Cielo l’orecchio a Dio, a tal segno che, se le chiamate di Dio, o con le interne ispirazioni, o per mezzo di ministri evangelici, durassero cento anni, altrettanti persisterebbero nel rifiutarle. Bisognerà dunque rassomigliare costoro a quelli infelici i quali, quantunque udissero le voci di Dio per mezzo di Noè nel lavoro dell’Arca, ad ogni modo niuno di loro dava un minimo segno di pentimento. Vedevano, è vero, in ogni monte in ogni piano affrettarsi la grande opera, cader selve, atterrate a forza di braccia, sonar sotto il ferro querce di più secoli, ogni bosco della terra trasportarsi in uso d’acqua, intimando lacrime, e pianto quasi ogni selva dicesse, pænitentiam agite, penitenza, o popoli penitenza; ma essi eran sordi. Miravano, è vero, Noè che in età di sei secoli operava con robustezza da giovine, intenta la mano al lavoro, gli occhi al pianto, e, tacendo la lingua, ogni colpo di martello pareva dicesse, pænitentiam agite, penitenza, o popoli, penitenza; ma gli empi seguivano a peccare, peccando in faccia all’arca, prendendo per argomento d’impunità ciò, che doveva esser motivo di penitenza. Voi vi crederete, miei UU. che gli scellerati dopo d’essere stati chiamati da Dio per un secolo intero a penitenza, aprissero finalmente le orecchie per udire, per eseguire? Appunto: v’ingannate; sordi più che mai quelli indegni, non curarono il proprio bene, e vollero piùttosto esser sepolti dalle acque d’un diluvio, che pentirsi. Già m’avvedo, miei UU. che voi dentro del vostro cuore alzate tribunale di giustizia, per condannare costoro a perpetue fiamme, perché, chiamati per cento anni, non si convertirono: Ma piano, non correte alla sentenza, che forse potreste pronunziarla a vostro favore. Quanti anni sono, che Dio vi chiama? Non son cento, perché tanti non ne contate, non saranno cento, perché tanti non ne conterete; quanti dunque, sono venti, sono trenta, cinquanta, sessanta? E in tutti questi anni non vi ha Iddio chiamati con le ispirazioni interne, e con le voci de’ suoi ministri? Quante volte vi siete sentiti dire al cuore, ecce ancillam, non sta bene colei in casa; Quante volte avete udito da’ predicatori, che conviene lasciare tante vanità superflue, immodeste, che bisogna aver più cura de’ figli. Quante volte v’ha detto il confessore, quel compagno non è buono, quel gioco è la vostra rovina, in quel circolo, in quella bettola e si mormora, e si bestemmia, non vi andate: ah Dio, sono anni ed anni, che avete sempre ripugnato à queste batterie, né mai vi sete voluti arrendere; sì, dunque voi siete rei di quelle stesse fiamme, delle quali giudicavi meritevoli coloro che, chiamati da Dio, non vollero salvarsi nell’arca. Se bene dissi poco, allorché pretesi uguagliare il cuore di certi peccatori a quello di costoro; mentre senza taccia posso afferirlo più duro delle pietre. Uditemi, e vi farò toccar con mano quanto vi dico. – Stava l’empio Jeroboamo sacrificando con mano indegna sopra d’un altare di pietra, e già svenava vittime in culto di false deità, e offriva incenso a quelli idoli da se stesso temerariamente fabbricati. Giunse il fetore dell’incenso, e la voce della vittima al Cielo; finché Dio sdegnato ordina con severo comando al Profeta, che si porti al luogo del sacrificio, e ne rimproveri l’ardire. Arrivato colà l’Uomo di Dio, e trovato nell’atto nefando di sacrificare il re, ben conobbe, che il suo cuore alle voci di Dio si sarebbe mostrato più duro delle pietre; acceso per tanto di zelo, rivolto all’altare con volto adirato, e con voce di chi severamente minaccia gridò, Altare, Altare; ah Altare, ah pietre, ah sassi. Olà con chi l’avete, o buon Profeta? rispondete al Boccadoro che v’interroga, con chi ve la prendete, con le pietre, con i sassi? E da quando in qua hanno le pierre orecchio da udire, e voci da rispondere i sassi? Eh sgridate a chi vi può sentire, sgridate Jeroboamo, quid cum Lapide verba facis; Sì, sì, risponde il Profeta, parlo con pietre, perché dalle pietre impari il re ad obbedire alle voci Divine, ut Rex lapidis exemplo sanior fieret; e, o mirabil cosa, sentite, e inorridite, audivit lapis, distractus est, victimam effudit, homo ille non audivit; l’Altare subito si spezzò, si sparsero per terra le ceneri, la pietra sentì la voce di Dio ma non la sentì Jeroboamo. Piacesse a Dio, che qui non vi fosse qualche cuore così duro; ma so bene, che se Mosè tornasse a percuotere con la sua verga le pietre, ne vedremmo scaturire acque larghissime. So bene che, se l’Apostolo San Pietro stendesse nuovamente la mano, sorgerebbero fonti d’acque abbondantissime; ma, se i ministri di Dio batteranno con voci di tuono il cuore d’alcuni, non vi è pericolo che neppure ottengano una stilla di compunzione. Perdonatemi Zaccaria, voi diceste poco, quando parlando della durezza di questi tali, asseriste che: aures suas aggravaverunt, ne audirent, et cor suum posuerunt ut adamantem, ne audirent legem Dei; dovevi assolutamente dire, super adamantem, perché io vedo che vi sarà peccatore che supererà di durezza, non solo il diamante, che è la pietra più forte, ma la stessa durezza. Così è, così è; vi farà, così non fosse, tra i miei UU. chi sarà arrivato a questo segno; e perciò vestitosi della proprietà delle cose più dure, avrà ributtato dardi, verso di chi li lanciò. Scoccate saette su l’elefante, e vedrete, che invece di ferirlo, gli cadranno morte ai piedi, tanto egli è duro di pelle; ma, se le scoccherete in un feudo di bronzo concependo questo nella durezza del metallo un nuovo impeto, risalteranno contro la mano che le avvento’. Or dovete sapere, che il cuore di certi peccatori arriva a questo segno di durezza, che non solo resiste alla bontà di Dio, ma di più gli si rivolta contro, peccando tanto più fieramente quanto più Dio gli aspetta a pentirsi. V’ha Iddio prosperato con l’abbondanza de’ beni temporali, e voi, invece d’impiegare il danaro a ricomprarvi dalla servitù del demonio con limosine, con opere pie, in che l’impiegate? In giochi, in feste, in balli, sarebbe poco; l’adoperate in raddoppiar le vostre catene, giacché ve ne servite per vestirvi più sfacciatamente, e per tirare all’inferno con la vostra, l’anima di tanti incauti; l’impiegate in mantener quella mala pratica; l’impiegate in donativi, insidiando alla altrui onestà, e se Iddio, Medico pietoso muterà modi, per usarli tutti ad effetto di curarvi, e perciò permetterà che vi si susciti contro una fiera lite, che v’assalisca una febbre acuta, non per questo si ammollirà il vostro cuore; ma invece di baciare la mano Divina, la morderete fieramente, come frenetici, bestemmiando il Nome Sacrosanto del Redentore, e v’inoltrerete a tacciare la provvidenza d’un Dio; in somma per voi gli antidoti diverranno veleni, e le occasioni di ravvedervi si cambieranno in motivi di perdervi, e vi perderete, così non fosse, se non corrispondete alle chiamate divine. Come appunto si perdé quell’infelice nobile nella città di Toledo, al quale, perché era sempre stato sordo alle voci di Dio, Iddio turatesi, visibilmente staccate le mani da’ chiodi, le orecchie, gli disse con voce spaventosa alla presenza di molta nobiltà, vocavi, renuisti, ego quoque in interitu tuo ridebo; e quella voce, fu un fulmine, che appena uscita da quella immagine cacciò l’anima infelice da quel corpo scellerato, e fulminatala la seppellì nell’inferno. Cari miei UU. se voi non sfangate sollecitamente da quei vizi, se voi di proposito non date orecchio a quanto vi dico a nome di Dio, voi diverrete sempre più duri, con timore ben fondato, che neppur in punto di morte vi ammolliate, ritorniate a Dio. – Confesso il vero, che se piango la disgrazia di chi vive sì duro alle divine chiamate; m’inorridisco altresì alla riflessione dell’origine d’un tanto male. Sappiate miei R. A. che questo fiume sì spietato di colpe, annidato nel cuore di questi scellerati, non sboccò già dall’oceano; né vi crediate che per cagionare un diluvio sì spaventoso si aprissero le cataratte del cielo; v’ingannate se vi credete che per inondare l’anima con tante iniquità d’un peccatore duro di cuore si rompessero gli argini de’ fiumi, ed i lidi del mare; appunto. Tenuissimi furono i principii che a poco a poco hanno condotta quell’anima miserabile ad esser sorda e dura di cuore alle divine chiamate; fu un occhio non custodito, un guardo piuttosto curioso che immodesto; fu una piccola parolina non tollerata, un risentimento non represso, un poco d’ambizione, un piccolo interesse, un vil guadagno: questi furono i principii della durezza sì eccessiva di tali peccatori; bisogna dunque guardarsi di non cadere in piccoli mancamenti, perché questi fan la strada a precipizj orrendi. Vediamo di grazia questa verità in un singolarissimo esempio delle Divine Scritture. Le tribù ebree avevano richiesto a Dio qualche re che, invece di giudici, assistesse al governo loro: condiscese Dio alle istanze, e gli concesse Saul, il quale, quanto era vile di nascita, tanto era ricco di virtù. Samuele fu quello che l’unse, e lo pubblicò per re; e doppo gli disse: va’ in Galgala, dove arrivato m’aspetterai per sette giorni, dentro i quali io verrò per sacrificare, Septem diebus expectabis, donec veniam ad te. Obbedisce Saul, l’aspetta, ma già correva il settimo giorno, e Samuele non si vedeva: stavasene Saul tutto sopra pensiero, né sapeva a qual partito apprendersi; voleva aspettar di vantaggio, ma l’esercito nemico lo sfidava a battaglia e le vittime eran pronte per immolarle. Si risolve dunque Saul, giacche è vicina la sera del dì prefisso, d’offerire egli stesso il sacrificio, come pure venivali permesso dalla legge in assenza del Sacerdote: ma che, appena egli ebbe involate le vittime, ed ecco giunge Samuele, e rivolto à Saul: ah sfortunato, gli dice, che hai fatto? quid fecisti, non mi hai aspettato? lo vi ho aspettato, ripigliò Saul, più che ho potuto; ma non potevo più trattenermi, merceché i Soldati nostri chiedevano la Battaglia, ed i Nemici la minacciavano; e perché stimai scelleratezza uscire in campo prima d’aver placato il Volto Divino, per questo sacrificai. Sì eh, misero te, stulte egisti; or sappi che, per non avermi tu pazientemente aspettato, Iddio non vuol perpetuare il tuo scettro sopra del suo popolo, come avrebbe fatto, se tu m’avessi aspettato. Ed è pur vero, miei UU. che Saul per questa azione non solo perde’ il Regno, ma la virtù, la grazia, l’anima, il Paradiso; non precisamente per questa azione scusata da molti per colpa grave, ma per questa azione, che lo dispose alla perdizione. Or, se la rovina di Saulle dipende da una cosa, che per sé stessa era buona, che sarà di quelle occhiate? Guardatevi dunque da’ piccoli principii. Quali furono quelli principii, che han condotto quella donna a non si vergognare di comparir per le strade come madre, mentre mai fu sposa? Un’occhiata, un saluto, una veglia. Quali principii condussero quella donna ad esser corriera di lettere, segretaria di biglietti, mezzana a prostituire l’innocenza? Un saluto, un fiore portato a quella donzella. Chi ha condotto quella maritata a mancar di fede, quella vedova al male? Quella libertà di scherzar con gli uomini che pareva innocente; chi ha condotto quel miserabile a segno che scordato de’ figli, della consorte, vive
in braccio alle lupe? uno sguardo, un saluto … Quali principii hanno avuto quelle bestemmie che si vomitano nelle bettole, ne’ giochi, nelle strade? da piccoli giuramenti: così è, così è! Le spine dell’istrice, da principio sono come peli; ma col tempo diventano dure al pari degli strali. Non occorre altro, basta una piccola goccia d’acqua che dal tetto grondi in cala, perché, trascurata, atterrerà le fabbriche che resistono a’ fulmini; basta una piccola scintilla a destar la morte addormentata sotto le polveri di munizione. Abramo trovato che ebbe Iddio, inesorabile al perdono del fuoco, nella provincia di Pentapoli, si portò nel giorno seguente in luogo discosto per rimirare l’esecuzione del divino castigo, e argomento’ il principio di quella orribile tragedia da una favilla, che dalla terra vide salire in aria, intuitus est Sodoma, et Gomorram, et universam terram regionis illius, viditque ascendentem favillam de terra . Non vi meravigliate, dice San Girolamo, che da una scintilla arguisse un sì grande incendio; ed è vero, che, scintilla parva res est; ma si fomitem comprenderit mænia, urbs, regionesque comburit. Considerate di grazia quella scintilla che risalga subito da una selce percossa dal fucile, e riflettete che il suo essere consiste in un briciolo di fuoco, che appena nato muore; e che altro non ha per misura della sua nascita, della sua vita, della sua morte e sepoltura, se non un istante. Or io vi dico, alzare un poco con gli astrologi la natività a quella piccola scintilla, e siate sicuri di trovar cose grandi: Incontri questa favilla alimento da pascersi, ed ecco che ingrandisce con la morte di quanto gli si oppone; cresciuta poi, si rende formidabile, incenerendo selve, distruggendo città, mœnia Urbs, regionesque comburit. Ecco dove è giunta quella scintilla, quel parto, di cui il mondo non ha più piccolo. Ario, Ario, e dove mai ti portò quella piccola scintilla d’ambizione? Ella ci condusse a divenire, di figlio, parricida crudele della Chiesa Romana, a por la bocca temeraria in Cielo, negando la Divinità del Verbo Incarnato; questa tua piccola ambizione tolse dalle bandiere di Cristo tanti popoli e li portò ad arrolarsi sotto quelle di lucifero. Questa insomma fece sì gran male che basterà dire con San Girolamo, che: ingemiscens Orbis terrarum, se Arianum esse miratus est; ah, che il mondo tutto dirottamente pianse, nel mirarsi infettato da peste ariana, e nel vedere ormai incenerita la Fede Cattolica da un eretico incendio; onde concluse il santo Dottore: Arrius in Alexandria una scintilla fuit, sed quia non statim oppressa ejus favilla, depopulata est totum Orbem. Non occorre altro, bisogna guardarsi dalle piccole cose; per atterrar quel gran colosso di Babilonia nulla più vi volle d’un piccolo sassolino. Sovvengavi di quella gran statua di Nabucco che figureggiava con capo d’oro, con braccia d’argento, con petto
di bronzo tutta nobile, forte e robusta; Chi l’atterrerà? Chi la rovinerà? Si stacca un piccolo sassolino dal monte, percuote i piedi, che erano di creta, ecco a terra la statua, ecco confuso il tutto. Ahi quanto spesso avviene; chi ha denigrato lo splendore di quell’oro in quel cavaliere tanto stimato? un piccolo genio che troppo s’inoltrò. Chi quella dama? E non mi state dunque a dire: che male è guardare? O dire una parola uomini, donne, quanti siete, che così parlate, io vi rispondo che, se tutto il male si ferma in quel guardare, in quel parlare io vi rispondo e replico, che non ho che dire; ma il male è, che non si ferma qui, e se comincerete in questa forma, con questa piccola libertà, intendetela, non vi fermerete qui, si passerà alla amicizia, s’inoltrerà la domestichezza, s’arriverà à perdere tutto il candore, e lustro della innocenza e pudicizia; intendiamola, non bisogna dire che cosa è, che male è guardare, parlare; ditemi, che cosa è l’ovo d’un aspide, certo, che non si muove, non morde, non avvelena; è vero, e se rimanesse sempre ovo non farebbe mal niuno; ma, se un poco di caldo lo fomenta, voi vedrete, che da quell’uovo bianco nella sua scorza, freddo di sua natura, senza denti, senza veleno, ne nascerà un serpente sì pestifero, che avvelenerà quanti toccherà. Se quell’uomo sarà troppo libero nel trattare, nel guardare, nel parlare, scorgerete ben presto come queste piccole cose produrranno aspidi mortiferi, micidiali per l’anima. – Tornate ora a dire, che cosa è un piccolo principio, mentre porta seco tante rovine? Non si creda alcuno di poter principiare, e poi porre una colonna stabile, e dire: non plus ultra. La rovina di Sansone da che ebbe principio? Egli si lasciò uscir dagli occhi un sguardo, vidi mulierem de filiabus Philistinorum; voi qui mi replicate, e che male è una occhiata? Ma udite, appena disse “vidi”, che subito soggiunse: placuit oculis meis; una piccola occhiata concepì un grande amore, e dall’amore d’una Filistea nacque l’odio de’ Filistei, e la morte di Sansone. Chiede da voi il demonio un cantoncino … am mettete, vi dice, quel pensieruccio che passa per la mente volando. Avvertite di non vi lasciare ingannare dalla picciolezza, poiché entrato che sia il pensiero, crescerà in concupiscenza, si avanzerà in desiderio, verrà all’opera, si passerà alla consuetudine, all’abito, alla ostinazione, e questa caccerà dal vostro cuore tutta l’osservanza della Legge Divina e l’indurerà di modo che sarà quasi dissi, impossibile l’ammollirlo. Nolite, nolite, grida l’Apostolo, locum dare diabolo, perché, come commenta il Crisostomo, enim introjerit, cuncta dilatat, amplificat sibi; guardate, dice l’Apostolo Paolo di non dare luogo, benché piccolo, nel vostro cuore, al demonio, perché, vi assicura il Boccadoro, che, entrato, non uscirà, e, se non esce, siete perduti in eterno.
LIMOSINA
Vi raccomando la limosina; credetemi, UU. che con Dio v’è un bel trattare onde cercate pure quanti banchi mai volete, niuno è più fruttuoso, né  più fedele della limosina, feneratur Domino, qui mieretur pauperis: mi dirà taluno, io non vedo questi guadagni; è vero, voi non li vedete, perché Dio ha vari modi da donare il suo, senza che neppure se ne accorga chi lo riceve; talora in premio della limosina fatta, vi conserverà la sanità; vi farà vincere quella lite, leverà di mente al vostro avversario di suscitarvela, spingerà altrove una nuvola gravida di tempeste, che volava a desertar le vostre possessioni; farà che vi avvediate dalle insidie de’ nemici …

SECONDA PARTE

Per conferma di quanto vi ho detto, voglio parlarvi con la nobile riflessione nata nell’ingegno fecondo di Sant’Isidoro, da cui conoscerete che , sì il precipizio d’un’anima, come la salute della medesima, dipende, come in radice, da piccolissime cose. Supponete dice egli, che io voglia far buono uno di voi; non vi crediate già, che io sia subito per dirvi, portatevi da quello ammalato, e succhiatene, a similitudine d’un Saverio, la marcia dalle sue posteme, no; ma vi esorterò à visitare tal volta i pubblici spedali, e, con compatire gli infermi, benedire Dio, che vi liberò a tanto male. Io non vi dirò, che ritirati subitamente da’ parenti, ed amici, abbandoniate le case, e vi mettiate con lo Stilita sopra d’una colonna, per ivi alle intemperie dell’aria purgare i delitti della vostra vita passata, o questo no; ma bensì vi esorterò à ritirarvi per breve ora una volta fra il giorno, per pensare all’altra vita, all’anima vostra, che è il maggiore interesse che abbiate. Certo, che, se io volessi farvi Santi, non pretenderei farlo subito; e perciò non ricorrerei alla vita per strapparvi di dosso l’abito, e vestirvi d’un sacco, ad imitazione di Francesco d’Assisi; ma solo vi mostrerei i Poverelli, immagini di Cristo, e vi esorterei a dispensar qualche limosina, insomma comincierei ad animarvi alla pratica di cose piccole perché passo passo voi poi arrivaste ad eguagliare i gran Santi. Volete vedere, che da piccoli principii ne dipenda talora una gran santità; contentatevi, che io vi porti quel bello avvenimento descritto da Sant’Agostino. Si tratteneva, dice il Santo, l’Imperatore Teodosio nella città di Treveri a rimirare i famosi giochi del Circo; Quando due cortigiani si appartarono da quello spettacolo, e non sapendo ciò che fare, s’incamminarono unitamente fuori della mura per godere la vita innocente della campagna, passarono d’una in un’altra strada, d’un ragionamento in un altro, finché giunsero spensierati in una boscaglia, dove sotto ruvida casuccia abitavano alcuni penitenti romiti. Entrarono per curiosità in quel tugurio, mentre come suol farsi, ammiravano le angustie della abitazione, e la scarsezza de mobili; videro un libro assai lacero sopra d’un tavolino. Uno di loro il piglia, l’apre, e si avvede contenersi in esso le azioni del grande Antonio; legge prima per curiosità e poi per diletto, e indi sente infiammarsi alla imitazione. Quando all’improvviso avvampando nel cuore d’un amor santo, e nel volto di un vergognoso rossore, proruppe in un sospiro e disse al compagno: poveri noi, che seguitiamo una strada sì diversa, che pretendiamo noi con tanti servizi, con tanti corteggi, e umiliazioni, nulla di più potiamo sperare, che d’essere in grazia del principe, e quando ancor v’arrivassimo, che avremo noi fatto? avremo cambiata servitù con servitù, non ci mancheranno odj, invidie, persecuzioni, e calunnie. Ed è pur vero, che per divenir amico di Dio, basta il volerlo, niuno potrà mai torcelo, amicus autem Dei, si voluero, ecce nunc fio, e tornato a fissar gli occhi sul libro, quasi come fuori di sé, batté la mano sopra la tavola, e rivolto al compagno, amico disse, io ho stabilito di non partir di qui, per qui consacrarmi del tutto a Dio, se voi non mi volete seguire, almeno non mi sturbate. Come, ripigliò l’altro commosso da tale esempio, no, no, che non voglio a voi lasciare il Cielo, e per me prender la terra; o ambedue alla reggia, o ambedue in questo tugurio. Così dissero, e risoluti di non tornare all’Imperatore, dentro d’un foglio gli mandarono l’avvio della loro determinazione, e deposti subito gli abiti del secolo, e gli ornamenti di cavalieri, si copersero di sacco, si cinsero di fune, si racchiusero in una cella e ivi sconosciuti al mondo trionfarono del mondo e conquistarono il Paradiso. Or ditemi, questa santa risoluzione, quella vita condotta sì santamente, colma di tante opere buone, da che ebbe principio? Non da altro, che dall’essersi ritirati da uno spettacolo, se non si partivano da quello spettacolo, non giungevano a quel romitaggio, non leggevan quel libro, non lasciavano il mondo. La vostra salute può dipendere appunto dal non intervenire ad una comedia, ad una veglia, ad un ballo ove, se v’anderete, quantunque forse potiate farlo senza colpa, può esser che sia principio di vostra perdizione. – Così è, cosi è; perché dovete sapere, che quanto io farei per farvi Santi, e rendervi perfetti, altrettanto pratica il demonio per farvi reprobi: egli vi vuol condurre alla perdizione a poco a poco vuol che cominciate la vostra dannazione con leggeri mancamenti, perché con questi è sicuro di farsi scala agli altri. Sa bene il demonio, che molti di voi non han per anco perduto affatto il timor di Dio; e perciò portate qualche rispetto alla vostra coscienza. Onde è che astuto, non vi stimola sul bel principio alle laidezze più nefande, ai sacrilegi più orribili, agli omicidi più detestabili, perché sa, che, forse in solo udire una tal proposta vi inorridireste; ma che fa? Vi consiglia ad amoreggiare, vi induce a quella irriverenza alle Chiese, a risentirvi di quel leggero affronto, cose, che a voi non pajano niente; ma infatti sono l’avanguardia dei misfatti più enormi. Non vi condurrà già il demonio su l’altezza d’un scoglio, alla riva del mare, dicendovi gettativi giù, precipitativi in quelle acque, perché sa, che inorriditi ributterete le sue indegne proposte; ma, perché voi un giorno v’immergiate in quel mare d’iniquità, che egli disegna, farà che un compagno vi conduca ad un ballo, ad una conversazione, vi suggerisca l’usar un poco più di vanità nel vestire; tanto gli basta, per potervi poi avere ad ogni più libera dissolutezza. Queste sono le astuzie del demonio, con queste precipita le anime; state attenti miei UU. e guardatevi accuratamente da piccoli principii. Il buon pilota non aspetta il furor della tempesta per mettersi in ordine a resistere; ma gli basta di vedere i primi principii, o nel salto de’ delfini, o nel fumar de monti, perché in questi ben riconosce le agitazioni mortali del suo legno per i bollori del mare adirato. Cristiano, saresti senza cervello, se tu solo ti ritirassi dalla tempesta quando a Cielo aperto precipita in terra, e non quando te la minacciano i tuoni, e quando te ne portano certi indizi, quei lampi di sguardi, quei nuvoli d’affetti: se tu scherzi, se tu burli, se tu non smorzi il fuoco quando con poche lingue gridando ti sveglia, ma aspetti superarlo quando per i tetti volerà infuriato, tu vi resterai incenerito. Intendetela; se non vi farete scrupolo di certe amicizie, se discorrerete domesticamente, v’ingolferete ne vizj con poca o quasi niuna speranza d’uscirne. O quanti, o quanti pagano con morte eterna i primi trastulli di quell’amore che credevano innocente, quanti ardono nelle fiamme, perché non ripresero quelli sdegni nascenti, che non stimavano nulla; quanti piangono con lacrime di dannati i piccoli errori della lingua. Quante femmine ora bruciano nell’inferno per le loro vanità scandalose, che non ebbero altra origine d’un trattenersi allo specchio. Tacete, o Cristiani, non vi lusingate con dir più, e che cosa è dare uno sguardo dir una parola, andare a veglie, ecc.? Son principii, che pajono innocenti, ma portano à rovine; aprite gli occhi, e correte pronti ai primi rumori, acciocché il demonio scacciato subito, non abbia ardire di più molestarvi, e vi salviate.

QUARESIMALE (VII)

VIVA CRISTO RE! (19)

CRISTO-RE (19)

TOTH TIHAMER:

Gregor. Ed. in Padova, 1954

Imprim. Jannes Jeremich, Ep. Beris

CAPITOLO XXIII

CRISTO, RE DELLE MADRI.

Nel presente capitolo esamineremo la più alta missione che Dio abbia dato alla donna: la missione della maternità. Dio ha fissato una missione peculiare per ogni essere di questo mondo. Qual è la missione primaria, la più peculiare, la più importante della donna? La missione di essere madre. E non solo in senso fisico, ma anche in senso spirituale. È questo il punto che vorrei sottolineare in modo particolare a quelle ragazze addolorate che, per ragioni indipendenti dalla loro volontà, non sono riuscite a sposarsi. Devono rendersi conto che, nonostante tutto, questo non impedisce loro di aspirare alla maternità, anche se solo in senso spirituale. Infatti, è lo stesso spirito che spinge una donna a esercitare il suo ruolo di madre curando ed educando i figli, così come quello che opera in un’infermiera, in un’insegnante, in una religiosa, in una catechista per svolgere il suo compito. – Se nelle pagine precedenti ho mostrato quanto la donna, in generale, debba a Cristo, permettetemi ora di sottolineare quanto debba a Lui come moglie e madre. – La nascita di Nostro Signore Gesù Cristo segna l’ora della redenzione per la sposa e l’ora della gloria per la madre. Ora di redenzione, perché il Signore ha restaurato l’unità, la santità e l’indissolubilità del matrimonio. Le sue parole sono per sempre memorabili: “Non avete letto che Colui che all’inizio creò il genere umano creò un solo uomo e una sola donna e disse loro: “Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne”? Ciò che dunque Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Mt XIX, 4-5.6). E in un’altra occasione il Signore dice: “Chiunque divorzia dalla propria moglie e ne sposa un’altra commette adulterio, e chiunque sposa colei che è divorziata dal marito commette adulterio” (Lc XVI:18). Donne, madri, non sentite quanto amore per voi emana da queste parole del Signore? Ma c’è di più: sapete chi ha promulgato il primo decreto in difesa delle donne? GESÙ CRISTO stesso, quando pronunciò le seguenti parole: “Avete udito che fu detto ai vostri anziani: “Non commetterete adulterio”. Ma io vi dico che chiunque guardi una donna con desiderio cattivo di lei ha già commesso adulterio nel suo cuore” (Mt V,27-28). Donne, non sentite l’immensa gratitudine che dovete a Gesù Cristo? – Cosa deve una donna a Cristo? Innanzitutto, gli deve l’indissolubilità del matrimonio. Quanto sarebbe triste la situazione delle donne ancora oggi se un marito potesse divorziare dalla moglie quando vuole! Una donna sacrifica tutto al servizio del marito e dei figli: la sua bellezza, la sua forza, la sua giovinezza; ebbene, è lecito divorziare quando la sua bellezza è svanita? E quanti lo farebbero se fosse possibile! Spesso la Chiesa deve subire rimproveri rabbiosi da parte di donne divorziate civilmente che vorrebbero risposarsi: “La Religione cattolica è crudele, antiquata, non ha cuore, non mi permette di sposarmi! – Ma donna, non ti rendi conto che la Chiesa ti sta difendendo, non vedi che sta difendendo la tua dignità specifica, la tua condizione di compagna, non di serva, dell’uomo? Madre, devi mostrare una gratitudine speciale al Signore. Devi essergli grata perché non è più lecito che il marito prenda il bambino dal tuo seno e lo abbandoni, condannandolo a morire di fame. È merito di Gesù Cristo! Gesù Cristo, che ha steso la mano per benedire i piccoli di entrambi i sessi e ha detto: “Chi accoglie un bambino nel mio nome, accoglie me” (Mt XVIII, 5). – Quali sono i benefici che le madri devono a Cristo? Ecco il primo: la Vergine Maria, la cui figura esaltata dice a tutti gli uomini con quale alta considerazione dobbiamo trattare le madri. Tutto ciò che di sublime la Chiesa ha saputo creare nell’arte e nella liturgia, nelle immagini, nelle statue, nelle pietre preziose, nella musica, nel canto, nella poesia, lo ha posto ai piedi della Vergine Madre; e questo culto della Donna Benedetta, radicato in tutto il mondo, sta proclamando a gran voce il grande rispetto dovuto alle madri, soprattutto alle madri cristiane. “Madre cristiana!” Mentre scrivo questa parola un mare di sentimenti si agita in me. “Madre cristiana!” Mentre la scrivo, penso a tutti i dolori e alle fatiche di una vita piena di sacrifici. “Madre cristiana!” L’amore più grande che possa entrare in un cuore umano. Quanto l’umanità deve ai sacrifici delle madri! Non ci sono parole per descriverlo. Guardate il famoso scienziato, che è diventato tale grazie alle cure prodigategli dalla madre! Guardate il Sacerdote, come lo ha preparato l’amore di sua madre! Guardate la madre che veglia di notte al capezzale del figlio malato; guardate la preghiera delle madri, che sale incessantemente al cielo! Quanti altri esempi potremmo fare…! Considerate tutte queste cose e forse arriverete a capire cosa significhi l’amore di una madre cristiana. – In verità, tra i doni che Dio ci ha concesso, non ce n’è uno più eccelso di questo: aver avuto una madre fervente e cristiana. Donna che hai il titolo di madre, sii veramente una madre cristiana! Una madre è stata sepolta. La figlia sedicenne si precipitò verso la bara gridando: “Madre mia, portami con te!” Che lode per una madre! Che conforto ricordare una madre così!

II

Abbiamo visto a quale altezza Cristo abbia innalzato la dignità di una madre; studiamo ora come essa si sgretoli, come tale dignità perisca se si rinuncia a Cristo. Contempliamo una bella immagine della Vergine con il Bambino Gesù in braccio. Se dovessimo fare una statistica per sapere quale soggetto è stato più trattato dai pittori, credo che non potrebbe essere altro che quello della Vergine con Cristo, diverso da quello della Vergine con il Bambino in braccio. È la maternità, il compito più importante del mondo! Ma oggi viviamo in un mondo in cui si cerca in tutti i modi di privare la donna della sua più alta dignità. Oggi è di moda evitare la maternità, persino vergognarsi della maternità. Un simile peccato non è nuovo tra gli uomini; ma non è mai stato così diffuso come oggi, diventando addirittura uno stile di vita, un modo di pensare, un’intera mentalità anti-vita o contraccettiva. Come canta l’allodola nelle mattine di primavera; come gorgheggia l’usignolo; come cinguettano gioiosi gli uccelli canori di Dio! Perché, perché tutto questo? Per amore dei “piccoli”. Ogni canto, ogni nido, tutta la poesia della vita è per loro, per i pulcini. Anche il lupo più feroce, o la leonessa più feroce, rabbrividiscono di tenerezza quando si prendono cura dei loro piccoli nella giungla. Ma nella specie umana non è lo stesso, ci sono madri che guardano con orrore e persino con odio l’arrivo di una nuova prole, per chiudere la strada prima che i poveri piccoli abbiano avuto la possibilità di nascere. La bestia selvaggia si lascia uccidere per difendere i suoi cuccioli; la donna moderna fa il contrario, fa di tutto perché il suo bambino non venga concepito e, se viene concepito, che non nasca… con una freddezza spaventosa, per puro egoismo, perché non disturbi minimamente il suo benessere? Ecco quanto si abbassa la madre quando l’umanità si separa da Cristo. Essere madre ha sempre significato molta abnegazione, molta mortificazione, molti sacrifici; ma oggi significa non di rado avere un eroismo da martire! Se, in questi tempi, la moglie vuole essere madre, deve essere pronta a subire gli attacchi più duri. Il marito, l’amica, la vicina di casa, la portinaia, la sarta, la manicure…; tutti cercheranno, prima in modo cauto e subdolo, poi in modo palese, di farle capire che ciò che desidera è una temerarietà, una vera e propria barbarie, che i tempi non lo permettono. Madri, volete un pensiero che vi consoli in questi tempi? Pensate al severo rimprovero che Nostro Signore Gesù Cristo rivolse al fico sterile. Pensate alla Beata Vergine che, apprendendo per rivelazione dal cielo i misteri della sua divina maternità, scoppiò in un canto di gioia santa e traboccante: “L’anima mia glorifica il Signore… perché Colui che è potente ha fatto in me grandi cose…” (Lc 1, 46.49). Alzate gli occhi verso questa Madre Santissima, che ci mostra tra le sue braccia il Figlio amato, invitandoci a essere vere madri! Pensate all’umanità, perché siete il suo sostegno. E pensate anche alla patria eterna, che non potrete certo conquistare con i divertimenti, gli studi o il prestigio umano…, ma con l’alta missione a cui Dio vi ha chiamate, la buona educazione dei figli, come vi avverte l’Apostolo (I Tim II, 15), e compiendo fedelmente i vostri doveri di moglie e di madre.

* * *

Vorrei concludere queste righe con il caso tragico e sublime narrato nel libro II (capitolo XXI) dei Re dell’Antico Testamento. Saul, re degli Israeliti, aveva punito molto severamente i Gabaoniti; questi si vendicarono crudelmente crocifiggendo i suoi due figli e cinque nipoti sulla cima di un monte e, per rendere più dura la punizione, non permisero che fossero sepolti. Ed ora arriva una scena agghiacciante: Resfa, la moglie di Saul, appare e fa la guardia ai sette cadaveri per tutta la notte… per evitare che vengano fatti a pezzi dagli sciacalli. A tal fine, accende un fuoco e inizia a gridare per spaventare le bestie selvagge e farle fuggire… Sorge il giorno: i rapaci affamati si posano sui morti… e la donna lancia pietre contro di loro per tutto il giorno, affinché non si avvicinino… E così trascorre giorni e settimane, sempre di guardia accanto ai cadaveri dei suoi figli e nipoti. Per sei mesi! Alla fine i gibeoniti hanno pietà della madre e le permettono di seppellirli…. Che testimonianza del cuore di una madre! Eppure, in questo caso, la madre stava solo difendendo i cadaveri dei suoi figli morti. Voi, madri cristiane, difendete le anime vive e immortali dei vostri figli! Donne, siate orgogliose della vostra maternità, proprio ora che è così screditata. Prendete Nostro Signore Gesù Cristo come vostro Re, quando tanti Lo rifiutano. Madri: la vita familiare è malata, voi potete curarla! Madri, la vita sociale è malata e voi potete curarla! Madri, l’umanità intera è malata e voi potete curarla! Che il Signore del cielo faccia conoscere alle donne la grande missione a cui le chiama. Solo così il futuro della società e della Chiesa sarà sicuro.

CAPITOLO XXIV

CRISTO, RE DELLA MORTE

Cristo è Re non solo della vita, ma anche della morte.

La Chiesa dedica un mese intero, il mese di novembre, soprattutto ai defunti, e con questo ci dice di tenere sempre ben presente la morte. Dobbiamo dare sollievo ai nostri cari defunti, ma dobbiamo anche ricordare sempre la morte, in modo da acquisire la forza d’animo e la serenità che deriva dalla consapevolezza che siamo solo di passaggio. La Chiesa sembra indifferente quando ci grida: “Uomini! Ricordatevi dei vostri cari morti; ancor più: ricordatevi anche della vostra morte”. Ma ci parla della morte non per spaventarci, ma per incoraggiarci. I cimiteri ci annunciano la verità, anche se ci addolora; e per non farci disperare, la croce sta sopra le tombe. Cristo, re della morte, ci porta la resurrezione. Ma cosa ci predica la Chiesa nel ricordarci la morte? Ci predica una grande verità, una verità spaventosa: la vita dell’uomo su questa terra dura pochi decenni, e poi è finita. Tutti dobbiamo morire: io come voi. “Perché pensarci, perché rovinare il nostro buon umore”, si dice. E ci sono davvero molti che non vogliono pensare alla morte, in questo grave momento. Vivono come se dovessero vivere sempre in questo mondo, ma come si ingannano! Che si pensi o meno alla morte, ci si avvicina ad essa di momento in momento; la differenza tra l’uno e l’altro è che l’uomo che pensa spesso alla morte cessa di temerla. La morte è senza dubbio un potere spaventoso. Andate nei cimiteri…, cosa leggete sulle tombe? Che il bambino, l’uomo adulto, il vecchio, il potente come il debole, il povero come il ricco, tutti devono morire.

Ave, Cesare, morituri te salutant! Ti salutiamo, Cesare, noi che stiamo per morire. Questo è il grande grido che l’umanità grida incessantemente al passaggio della morte…; ma questo Cesare non lo perdona mai. Alza la mano per farci morire, non per esercitare la misericordia. Siamo condannati a morire dalla nascita. Il sonno, il cibo, i vestiti, il riposo, non sono che tentativi di sopprimere la morte. Alla fine essa vince! Quante cose ci dicono quei morti silenziosi: “Io ero come te, tu sarai come me”! Che ci si pensi o che lo si dimentichi, poco importa. “Vegliate, perché nell’ora che meno ve lo aspettate, il Figlio dell’uomo verrà”, dice il Signore. TALLEYRAND, il famoso politico francese, aveva molta paura della morte. La parola “morte” non poteva essere pronunciata in sua presenza. Non osavano dirgli della morte dei suoi migliori amici, tanto che non sapeva nemmeno che alcuni di loro fossero morti. Ma invano vegliava, invano si difendeva: un giorno si ammalò anche lui. Supplica il suo medico: “Le darò un milione di franchi per ogni mese che riuscirò a prolungare la mia vita”. Invano… Quando arrivò la sua ora, morì anche lui… “Quando venne la sua ora…” Come faccio a sapere che tra un anno non sarà arrivata anche la mia ora! “Chissà quando arriverà”, dice qualcuno per consolarsi? Sì, anch’io dico la stessa cosa, ma con un tono diverso: “Chi sa quando arriverà? Stiamo tutti in guardia, per evitare di fare la fine del maggiordomo di Re Salomone. È una vecchia leggenda. Si racconta che la morte bussò una mattina alla porta dell’intendente di Salomone e lo guardò in modo così strano, con tale sorpresa, che il potente cortigiano si sentì gelare il sangue nelle vene. Corse dal re: “Mio signore, grande re”, disse, “sono sempre stato un tuo fedele vassallo, non negarmi ora una richiesta: dammi il tuo destriero più veloce”. Il re non poteva rifiutare una simile richiesta e l’accolse. L’intendente saltò in sella al cavallo e…. Avanti, per fuggire in ogni caso!…. Per tutto il giorno spronò il suo cavallo ansimante…; voleva andare lontano… il più lontano possibile, per sfuggire alla morte… Quando scese la notte, cavaliere e cavallo si fermarono esausti per riposare un po’, lontano, sul ciglio della strada. Quando l’intendente salta, quasi senza forze, fuori dalla sella, mio Dio, cosa vede lì? Chi è seduto sul ciglio della strada, a guardare il cavaliere stanco? La morte. Il maggiordomo, esausto, si arrende al suo destino e dice: “Vedo che non posso scappare da te; eccomi, prendimi. Ma prima rispondi a una sola domanda: “Stamattina, quando sei entrato nella mia stanza, perché mi hai guardato con tanta sorpresa? – Perché avevo ricevuto l’ordine di prenderti al tramonto, qui, su questa strada. Sono rimasto sorpreso e mi sono detto: sarà una cosa difficile, quel posto è così lontano. Ma vedo che comunque sei venuto…”. La morte stava portando via l’amministratore. Cosa avverte il Signore… “Vegliate, perché il Figlio dell’uomo viene nell’ora che non vi aspettate” (Mt 24,42). La morte parla anche dell’orrore del peccato. La morte fa paura, perché? Perché la morte dell’uomo non faceva parte del piano originale di Dio, quindi cos’è il peccato agli occhi di Dio quando lo punisce con la morte? I nostri primi genitori, mangiando il frutto proibito, hanno mangiato anche la morte. Il piano originale di Dio prevedeva che anche il nostro corpo fosse immortale. Ma dopo il peccato, questo corpo è diventato fragile come un vaso di terracotta (è la stessa Sacra Scrittura a dirlo). E ancora più fragile: un vaso, se non viene danneggiato, può durare secoli. Ma la vita di un uomo è di circa “settant’anni, o forse ottanta”; in ogni caso, per quanto possa essere conservata, si risolve in un pugno di cenere. Che cosa sarà dunque il peccato, quando una tale punizione è stata meritata da Dio? Alla luce di questi principi, possiamo ancora avere un concetto frivolo della vita? I trappisti si salutano spesso in questo modo: Memento mori, “Pensa alla morte”. Anche noi dobbiamo meditare spesso su di essa. Soprattutto nelle ore di tentazione. – Lo specchio di NUMA POMPILIO, l’antico re romano, aveva un teschio come cornice con questa iscrizione: Hoc speculum non fallit: “Questo specchio non inganna”. Anche il pensiero della morte non inganna: sotto il suo suo influsso si dissipano molte tentazioni di peccato. Perché vivere da cristiano è talvolta difficile, e morire da Cristiano è facile: la morte, invece, è difficile per coloro per i quali la vita è stata facile. E la morte sottolinea la vanità del mondo. Essa proclama a gran voce la grande verità: non temere quando soffri, non fidarti troppo quando tutto va bene. – HORMIDA, un illustre persiano, si recò una volta a Roma, a quel tempo capitale del mondo. Al momento di congedarsi, l’imperatore romano gli chiese: “Cosa ne pensi di Roma? Non vorresti rimanere qui?” “Mio signore”, rispose il persiano, “in nessuna parte del mondo ho visto bellezze così ammirevoli. Ma se posso parlare sinceramente, vi dirò che queste bellezze non mi hanno abbagliato. Infatti, tra colonne, archi di trionfo, palazzi e templi magnifici, ho visto anche delle tombe; quindi gli uomini muoiono a Roma come in Persia? Quando ho scoperto questa verità, la bellezza più luminosa si è oscurata davanti ai miei occhi”. Questo persiano aveva proprio ragione. Anche io sono colpito da un pensiero ogni volta che mi trovo in un cimitero: “Se tutti questi morti, che riposano qui a migliaia, venissero ora resuscitati con il permesso di vivere, per esempio, per un anno, cosa accadrebbe? Vivrebbero con la stessa frivolezza, commetterebbero lo stesso numero di peccati della loro prima vita? Avrebbero una così bassa considerazione dei precetti divini? Sanno già che la bellezza, la ricchezza, la vanità, tutto, tutto passa”. Ma questo non è che un sogno di fantasia: i morti non possono tornare, non è più dato loro di riparare a ciò che hanno fatto. Ma si può ancora riparare. Pensate! Non avete forse offeso il vostro vicino, con il quale avreste dovuto fare pace? Non possedete denaro, oggetti di valore, che avete acquisito illegittimamente e che dovreste restituire? Non c’è nessuno a cui dovreste dire: “Oh, non fare, non fare quello che hai imparato da me? Potete ancora riparare a tutto. Non rimandate, non dite: lo farò. Non c’è potere al mondo capace di trattenere nel corpo l’anima che sta prendendo il volo: né le medicine, né le migliori cure prodigate ai malati, né i singhiozzi dei presenti; per quanto atroci siano le sofferenze che torturano il malato, egli non può morire prima, e per quanto possa ancora desiderare di vivere, non può vivere più a lungo di quanto la misteriosa legge di Dio gli permetta. Confessate, dunque, che è una follia pensare costantemente al corpo e trascurare l’anima! Non vedete come gli uomini dimenticano rapidamente i morti e come vanno facilmente a divertirsi quando lasciano il cimitero? Non capite come crolla rapidamente l’opera principale della vostra vita? Non pensate come coloro che non si sono mai stancati di lodarvi in vita vi dimenticheranno dopo la morte? Considerate, dunque, quanto sia pericoloso cercare il favore degli uomini e non cercare l’approvazione del Dio eterno. Per le stesse ragioni, la morte rende più importante la vita terrena. La morte non è la fine di tutto. Quando l’uomo muore, arriva il giudizio. “È tutto finito”, singhiozza la vedova mentre il marito morente esala l’ultimo respiro. Ah, non è così. Perché se fosse tutto finito… Ma non è finita. Al contrario: proprio morendo, siamo all’inizio: all’inizio della vita eterna. E tutto dipende da questo: come ho vissuto, in che stato sono morto. Spesso nei necrologi leggiamo queste parole: “Morto inaspettatamente”. Inaspettatamente? Ma quasi tutti noi non moriamo “inaspettatamente”? Non solo chi muore di infarto, ma anche la persona più gravemente malata, perché…. non si aspettava ancora la morte”. Tutti sappiamo che moriremo; ma tutti crediamo che non moriremo adesso. Pertanto, dobbiamo aspettarla, dobbiamo essere preparati. Non sapete dove vi aspetta la morte: aspettatela ovunque.

II

Le tombe ci ricordano la nostra morte! È qualcosa che ci rattrista, che ci toglie lo spirito. E cosa annuncia la croce sulle nostre tombe? Ci dice che c’è vita nell’aldilà, che Cristo è il Re sulla morte, perché Cristo è risorto dai morti e ha vinto la morte. Il cimitero è un terreno sacro, è il grande campo coltivato da Dio. I semi, le persone, sono stati seminati in esso affinché un giorno germoglino e si diffondano nella vita eterna. C’è una vita oltre la morte! Sì, chi vive per Cristo non teme la morte. – Il grande missionario SAN FRANCESCO SAVERIO morì consumato dalla febbre lontano dalla sua patria, su una piccola isola al largo della Cina, pronunciando queste parole: “Signore, in Te ho sperato; non sarò mai confuso”. – SAN CARLO in tutta la sua vita non fece altro che vivere per Cristo, ma guardò a Lui; così poté dire sul letto di morte: “Eccomi, vengo”. – SAN VINCENZO DI PAOLO morì con queste parole: “Che Egli stesso compia in me la sua santa volontà”. – SAN ANDREA AVELLINO sentì il colpo della morte sull’altare quando pronunciò queste parole, Introibo ad altare Dei: “Mi accosterò all’altare del Signore”. Durante le persecuzioni, un diacono in Africa stava giustamente cantando l’Alleluia pasquale dal pulpito, quando una freccia gli trapassò la gola e dovette finire l’Alleluia davanti al trono di Dio. Non importa… Cristo è il Re della morte! – Nella cattedrale di Santo Stefano a Vienna, c’è un monumento tombale che affascina. In groppa a un destriero agitato, un giovane principe in cotta di maglia sale su una collina fiorita. Ai piedi della collina si trova una fontana. Dietro di essa si nasconde la perfida Morte; la sua falce è nascosta dai bellissimi fiori. Il cavaliere si china verso la fontana; i riccioli dei suoi capelli gli cadono sul viso; nello specchio limpido dell’acqua, la volta azzurra del cielo. Si alza in piedi. La morte è su di lui. Nessuno è ancora riuscito a sfuggire a un simile colpo… E trecento anni fa, un cavallo tornò indietro senza il suo cavaliere, e il suo proprietario fu sepolto in quella chiesa. Oggi mi fermo davanti al monumento. L’iscrizione è stata cancellata dal tempo e non posso nemmeno chiedergli: “Bel cavaliere, come ti chiamavi? Nel fiore degli anni sei stato colpito dalla morte!”. Ma la sua anima vive! Facciamo un passo avanti. Un ampio sarcofago di pietra nella Chiesa. Molto tempo fa le spoglie del potente re, dominatore del mondo, davanti al quale si prostrarono migliaia di vassalli, si ridussero in polvere; ora anche lui è polvere. Non ci fermiamo nemmeno davanti al suo monumento, perché altri ricordi ci chiamano. Le pareti sono piene di lapidi di marmo con iscrizioni dorate. Corona, trionfo, sfarzo, benessere, bellezza, giovinezza, potenza…; queste sono le parole che ci è ancora permesso leggere sulle lastre consumate dal tempo, e da esse scaturisce la lezione: tutto questo splendore, tutta questa gloria, appartengono ormai al passato. Ma le loro anime continuano a vivere! Premo la mia fronte ardente contro il marmo freddo e grido alle profondità delle tombe: “Tu, eroico capitano; tu, nobile giovane; tu, principessa dal bel viso; tu, re sovrano; tutti voi che siete qui ridotti in cenere, avete pensato alla morte durante la vostra vita? Se lo avete fatto, ora sarete contenti di averlo fatto…”. Nessuno risponde, non sento altro che il battito del mio cuore. E nel momento in cui il pensiero schiacciante della morte mi opprime, sull’altare maggiore si sente il Vangelo della Messa per i morti: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv XI, 25-26). Parole consolanti! …. La Santa Messa continua e risuona il mirabile prefazio: “È veramente giusto e necessario, è nostro dovere e nostra salvezza renderti grazie sempre e dovunque, o Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. Nel quale rifulse per noi la speranza della felice risurrezione, affinché noi, che siamo rattristati dalla certezza della morte, fossimo confortati dalla promessa della futura immortalità. Perché per i tuoi fedeli, Signore, la vita non si spegne, ma solo si trasforma, e mentre la nostra casa terrena si sgretola, acquistiamo una dimora eterna in cielo…”. Cristo è la risurrezione e la vita. La nostra vita non si spegne, ma viene solo trasformata e ci viene preparata una dimora eterna in cielo. Cristo, nostro Signore Gesù Cristo! Tu sei anche il Re della morte!

* * *

Il momento della morte è difficile. Nessuno, per quanto vicino, può aiutarci a superarlo. Dobbiamo intraprendere da soli il cammino più difficile della nostra vita. Tuttavia… c’è una mano a cui possiamo aggrapparci. Una mano che è stata trafitta sulla croce. Una mano che ha teso la mano della misericordia al ladrone crocifisso. Una mano che si è posata nel perdono sul capo della Maddalena pentita…. La morte è una cosa terribile. Ma coloro che sono guidati da Cristo lungo il difficile cammino della vita non saranno oppressi; la prova non sarà difficile per loro. Come faccio a saperlo? Me l’ha detto una bambina. Una bambina malata. Uno dei miei colleghi Sacerdoti fu chiamato a confessare una bambina che stava morendo. La bambina era malata da tempo; sapeva che la morte si stava avvicinando; ma era così tranquilla che il Sacerdote le chiese: “Non hai paura della morte, bambina mia?” “Prima la temevo, ma da quando è successa quella cosa della vespa, non la temo più”. “Della vespa?” “Beh, sì. Ero seduto in giardino e all’improvviso è arrivata una grossa vespa che ronzava, ronzava e io avevo paura che mi pungesse…; ho gridato: Mamma! E mia madre mi ha sorriso e mi ha abbracciato, coprendomi completamente, e mi ha detto: Non avere paura, piccolo mio. E la vespa svolazzò… e ronzò…, salì sul braccio di mia madre e la punse…, e mia madre continuò a sorridermi: “Non ti fa male, vero? Guarda, sarà così anche con la morte, non ti farà male, perché il suo pungiglione è stato spezzato prima nel Cuore di Nostro Signore Gesù Cristo. Da allora non ho più paura della morte!”. – Che Nostro Signore Gesù Cristo ci conforti quando arriva la nostra ora e ci faccia vivere il pensiero che il pungiglione della morte è stato spezzato nel Suo Cuore…, nel Suo Sacro Cuore.

VIVA CRISTO RE (20)

QUARESIMALE (V)

QUARESIMALE (V)


DI FULVIO FONTANA
Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)


PREDICA QUINTA
Nella Feria feconda della Domenica prima

La terribilità dell’Universale Giudizio; per gl’orrori che precedono; per la severità dell’esame; per la sentenza, che sovrasta.


Cùm veneris Filius Hominis in majestate sua et omnes Angeli cu meo, tunc sedebit super sedem majestatis suæ, et  congregabuntur ante eum omnes gentes, et separabit eos ad invicem.


Così con quel che segue, descrive San Matteo la venuta di Cristo per giudicare il mondo.

Io per me son fuori di me; ne so con quali parole, con quai periodi abbozzar lo spavento di quella tremenda giornata, in cui saranno giudicati i vivi e i morti. So che sarà dies Domini, che vale a dire, dies irae, dies calamitatis et miseriae, giorno di sdegno, di furori, di stragi. Padre amato, Padre San Francesco Saverio; voi, che sì bene imprimeste nella mente de’ vostri UU. il terrore di questo giorno; Voi Vergine Santissima, che ben lo comprendete, avvalorate lo spirito mio abbattuto; il mio cuore, che palpita, la mia lingua che trema mentre io senz’altro principio, do principio. Preparate pure R. A. il vostro cuore ai terrori, agli spasimi: mentre io procurerò mettervi sotto gl’occhi la spaventosa giornata dell’Universal Giudizio. Girolamo ne’ suoi volumi, e Iddio si nell’Apocalisse, come nell’Ecclesiastico ce lo descrive così: ecco, che in un subito si vedrà ricoperto di densissime nuvole il cielo; finché, dalla serenità di un giorno allegro si passerà alle tenebre d’una oscurissima notte, la quale altro lume non riceverà, che dalla luna grondante vivo sangue, da’ lampi spaventosi che atterreranno da’ fulmini spietati che inceneriranno. A’ terrori del cielo corrisponderanno gli spettacoli del mare, il quale tutto tumido e fluttuante s’alzerà per quaranta cubiti sopra l’altezza de’ monti più rilevati, indi abbassandosi si profonderà fino a perdersi di veduta, mutando in tanto le acque in color di sangue, e sangue putrefatto; li pesci  e mostri marini, ancorché mutoli per natura, unitisi a gran schiere insieme, assorderanno d’insoliti clamori, e cielo e terra e in questa, ancor essa moribonda, ogni fiera, perché senza cibo, e senza riposo si stannerà da’ suoi covili gemendo e urlando, ogni erba de’ prati gronderà vivo sangue, ed in solite locuste, simili nella faccia all’uomo, ne’ denti al leone, nella coda agli scorpioni; s’avventeranno con fieri morsi ai peccatori, e ne faranno scempio crudele. Né qui finiscono gli orrori, poiché una grande aquila volando per l’aria griderà con voci di tuono, veæ veæ hominibus in terra, guai, guai a’ peccatori! Indi ferite da un Angelo più stelle ne cadranno pezzi a sterminio della terra. Dopo, scesi sopra di essi due milioni di Angeli sterminatori, guarniti di corazze impenetrabili di giacinto, scorrendo qua e là, su mostruosi cavalli a guisa di leoni di fuoco, faranno strage d’una gran parte degli uomini. – Ed è pur vero che questi preludi d’una giornata così tremenda, non son soli, v’è di peggio, perché unitamente à questi portenti armerà Iddio tutte le creature a danni del peccatore, pugnabit omnis creatura contra insensatos. Alle armi, alle armi dunque … orsi, tigri, pantere alle armi, non siete più soggette all’uomo. Fuori dalle vostre foreste, sfogate le vostre crudeltà sopra de’ peccatori. Leopardi, lupi, leoni alle armi, alle armi. Fuori delle selve, andate in traccia de’ scellerati. Sfogate la vostra ferocia, uccideteli, sbranateli, divorateli, serpenti, vipere, draghi, rospi, basilischi, alle armi contro degli iniqui. Fuori de’ vostri covili, infondete pestiferi veleni nelle carni ammorbate de’ perversi, ribelli al vostro Creatore. E voi terremoti non siate contenti delle stragi di Ragusa, delle rovine di Rimini, dello sterminio di Catania, ma smuovete da’ fondamenti ogni città, ogni terra, ogni castello; e fate che restino estinti e sepolti in un medesimo tempo tutti i peccatori. Voi fiere pestilenze non vi contentate degli spettacoli che cagionaste nella città di Napoli e di Genova a nostri tempi; mentre ne consegnaste alla morte fino a trenta mila in un sol dì; uccidete in ogni città, in ogni castello, in ogni contrada, quanti vivono nemici di Dio. O che orrori, o che miserie! veder tutte le creature sì irragionevoli, come insensate, armarsi contro del genere umano, e farne strage. Pensieri miei disperati io non so dove mi sia. – E pure non ho detto nulla, a paragone di quello che mi resta, poiché vi rimane la strage del fuoco divoratore. – Sono ormai scorsi sessanta e più anni, da che quel monte sì celebre, perché sì spaventoso del Regno di Napoli, detto il Vesuvio, aperta un’ampia bocca, vomitò un torrente di fuoco, che misto di zolfo, pece e bitume, durò ad ardere per dodici giorni nelle acque del mare vicino. Avereste veduto scagliarsi all’insù da quella accesa fornace nembi di grosse pietre, che con strepito di tuoni, e con violenza di fulmini, cadendo poi giù abbattevano case, uccidevano bestie e stritolavano uomini. Ah che prima di restare inceneriti e sepolti gli avreste sentiti esclamar: misericordia, è venuto il Giudizio, misericordia! Ma, se io fossi stato presente a queste dolorose esclamazioni, gli avrei con rimprovero, schiacciate le parole in bocca: sciocchi, che dite, il giorno del Giudizio? Eh mi meraviglio di voi, altro orrore, altro incendio sarà quello del giorno estremo. Questo fuoco che vomita il Vesuvio è fuoco prodotto dalla natura; ma quello del dì del Giudizio verrà dall’ira giusta di Dio implacabile. Questo esce da un sol monte; ma quello, secondo Alberto Magno, cadrà giù per ogni parte, scatenato dal cielo, sboccherà vomitato all’insù da mille voragini dell’Inferno. Il Giudizio eh, è venuto il Giudizio? Sciocchi tacete. Questo fuoco del Vesuvio scaglia ceneri, e sassi; ma quello assai più impetuoso sbalzerà in aria le stesse montagne. Questo riduce in cenere poche terre, e con esse gli abitatori, ma quello con mordacissima rabbia diramandoli in mille torrenti divorerà tutti gli uomini; incenerirà tutti i Regni; struggerà tutto il mondo. E voi dite: è venuto il giorno del Giudizio? Qua, qua miei UU. se così è, come è verissimo, che sarà allora delle vostre ville de’ vostri palazzi, de’ vostri poderi? Cenere, cenere! Che sarà de’ vostri magnifici sepolcri, delle gloriose inscrizioni, degli ameni giardini? O Dio, cenere, cenere! Che sarà, o dotti, de’ vostri libri, delle vostre statue, o eroi; delle vostre città, o principi? Cenere, cenere! Cenere dunque saranno, o donne, o dame, quelle camere, ove si giocava con tanta soddisfazione; quelle sale ove si ballava con tanto brio? Cenere dunque saranno quelle carrozze seguite da cavalieri! Cenere quelle vesti si pompose e alla moda; cenere, cenere insomma quei lisci, quegli ornamenti quelle gioje, quelle vanità, tutto sarà cenere, perché tutto prima fu fuoco: erunt omnes superbi, et omnes facientes iniquitatem stipula. (Malac. 4). Iddio farà appunto come suol farsi nelle guerre più fiere e più sanguinose; ove nè pur si perdona agli alloggiamenti nemici per dare à divedere la strage, che poi si farà degli avversari. Si abbrucci, dirà, la terra; ardano i cieli; tutto s’incenerisca; ma dico: e perché la terra? che ci ha da fare per se medesima? Che male commisero i cieli? Servirono, sento rispondermi, materialmente di agio, d’ajuto e d’instrumento agli uomini per peccare. Ardono i cieli, perché mandarono le loro influenze amorevoli sopra de’ peccatori. Arda la luna, si abbrucci il sole perché somministrarono luce agli empi. Arda la terra, perché gli somministrò le vettovaglie. Cælum novum, terra nova; qui si fa a guerra finita; si brucino tutti gli alloggiamenti, tutto s’incenerisca. Le leggi umane vogliono che, allorché si commettono delitti enormi, non potendosi avere il delinquente, si confischi la casa. In questo giorno terribile, quantunque il delinquente sia già tra i ceppi, e catene per esser condannato, la sua casa non farà confiscata, ma bruciata. Io per me son fuori di me; e se qui non cessano i preludi di giornata sì spaventosa, non so che dirmi di più. Non sai che dire di più? E non senti ciò, che si conclude dalle sacre carte, che tutti questi orrori, questi portenti, questi spaventi sono principio della funestissima tragedia? Hæc autem sunt initia dolorum. Dunque, preludio delle miserie d’un mondo, sono spettacoli spaventosissimi, scatenamento di creature, un fuoco divoratore? Così è. Date d’orecchio, e ne sentirete l’intimazione. Olà, che strepito è quello che sento? Dite, chi dà fiato à quelle trombe che mi spaventano? Gli Spiriti Angelici, sento rispondermi, che posti a’ quattro angoli del mondo rimbombano alle porte di N. e intimano ai mortali il risorgere, a tutti il comparire al divino tribunale: Surgite mortui, venite ad Judicium. Alzatevi su voi, che tenete i piedi sopra di quei Sepolcri, non sentite colaggiù lo strepito delle ossa, che si vogliono unire insieme? Ecco che la cenere s’ammassa in carne: ecco stesi sulla testa i capelli: eccoli in quella forma che vissero: o come si affrettano per andare al Divino Giudizio! vedete: parte ne vanno a mano dritta, e sono gli eletti: parte a mano manca, e sono i reprobi. Chi è quella che tutta scarmigliata nel crine, tutta piangente negl’occhi, tutta sospiri e singulti se ne va al Tribunale? chi è? È quella che entrava nelle Chiese tutta brio, tutta fasto, e vi veniva per esser vagheggiata, tutta ornata nel capo, tutta scoperta nel seno e braccia, appunto, non può essere, non può essere! E io vi dico , che è essa. O se io potessi essergli vicino, le direi: eh non credevi signora, che dovesse mai giungere questo giorno? Io ve lo dissi; peggio per voi. Se quando entraste in Chiesa, allor che io predicavo del Giudizio, invece di dar mente a tanti saluti che v’insuperbivano, invece di tante cerimonie superflue, voi vi foste messa ad udirmi di proposito, non vi trovereste in questo stato. E quell’altra chi è? Ella è quella che si faceva precedere i servitori à capo scoperto ne’ tempi più rigidi del verno, volendo più rispetto à sé che a Dio. Ma dove sono quei Sacerdoti, da’ quali si faceva servire con tanta temerità? fino à farsi dare e di braccio, e da bere? Dove quel cavaliere che da per tutto l’accompagnavano? Non vi è niuno; se ne va sola soletta al divino tribunale. Su fido cameriere, correte ad acconciare la vostra signora; non vedete come ella è lurida, lercia? su portate le vesti più belle; prendete le gioie più preziose, deve andare avanti non d’un monarca terreno ma d’un Dio: Che vesti, che gioje? sento rispondermi non vi è più tempo; non fervono più a nulla. E quello, che tutto tremante e pieno di paura se ne va al tribunale, chi sarà mai? Egli è quel cavaliere à cui il dono della nobiltà non servi che per accrescere superbia; non intendendo, che l’obbligo di cavaliere è d’esser cortese. E quell’altro, che tanto ricco nel mondo, or del tutto è spogliato, qual sentenza riceverà? Pessima, perché nega ai poveri un piccolo sussidio; e quel ch’è peggio, non ha il capitale d’un’opera buona. Fermatevi dove vi ponete! Non è questo il vostro luogo. Andate a mano sinistra tra i reprobi, tra i dannati; e perché? Io fui fedele al mio consorte: così è, ma infedele al vostro sangue, permetteste alle vostre figlie non solo gli amori, ma le cadute ancora. Olà voi a mano manca nel numero de’ presciti? Padre fui fedele alla consorte, sì, ma posta sotto de’ piedi la reputazione del mondo, vi metteste ancora la legge di Dio, contentandovi delle leggerezze peccaminose della vostra consorte, e che talora servisse ad altro letto. E voi dove andate? Son Sacerdote! bene, ma maneggiate Cristo con mani sacrileghe, e con cuore immondo. Ma ohime, che vedo? Ecco, ecco schiere d’Angeli guerriere, che precedono al grande Iddio, millia millium ministrabant Ei, et decies centena millia assistebant Ei. O Dio! quale sarà l’orrore, quale la confusione, e lo spavento del peccatore, non in vedersi schierato a fronte un esercito d’uomini vili, ma d’Angeli così potenti, che un solo in breve ora uccise più di settanta mila Assiri, ed in tanto numero che, secondo una sentenza di San Tommaso, potriano dividersi in trenta mila milioni d’Eserciti, ognuno de’ quali fosse composto di trenta mila milioni di Combattenti e poi così nemici de’ peccatori, che se Iddio loro il permettesse, scenderebbero fin giù nell’Inferno per lacerar quanti vi sono quivi dannati. Angeli, Angeli ho gran timore di voi, non lo nego; ma troppo , ahi troppo mi fa gelare il sangue nelle vene il Dio degli Angeli. Eccolo, eccolo in nubibus Cæli in potestate magna, et majestate; eccolo, eccolo con la gran guardia di tuoni, di fiamme, di turbini, di fulmini, e di tempeste … circuitu ejus tempestas valida: già risuona con Eco funestissima la Valle destinata al Giudizio: già gemono gli Abissi, già si scuote la Terra e tremano i Cieli. Che farete, miseri, allorché vedrete quell’istesso Signore, che oltraggiaste, comparire per esser vostro Giudice severo? Ah, che se voi poteste, per non vederlo, vi cavereste gli occhi di propria mano. – Il Re Saule, essendo vinto in battaglia da’ Filistei, contro de’ quali si ricordava d’aver tante volte mossa la guerra, temé sì altamente di andar vivo nelle loro mani, che si appoggiò col petto sopra la punta della sua spada per far più tosto una morte da disperato. Ma voi infelici non solamente non potrete darvi la morte; non potrete cavarvi gli occhi; ma neppur calarli per non veder la faccia fulgorante dello stesso Dio, contro del quale avete mossa guerra fierissima d’amori, d’odii, d’interessi, … videbunt, in quem transfixerunt; non accadde altro, il trono è innalzato posuit in Judicium Tronum suum. – Quà dunque tutti a render conto. Non  occorre o miserabili, che inorriditi voltiate le spalle, né che invochiate i monti, ché vi ricoprino. Già Dio si è dichiarato per Amos, che si absconditi fuerint in vertice caunelli, inde scrutans auferam eos. Qua, qua dunque tutti, ove severamente s’intima un’inevitabile redde rationem villicationis tuæ. Redde rationem o Ecclesiastico: rendete conto di quelle Chiese alla vostra cura commesse, di quelle entrate lasciatevi per ornamento degli altari, per aiuto de’ poveri; come dispensaste il Sangue di Cristo nelle Confessioni; con che purità lo maneggiaste all’altare; con che carità lo distribuiste a’ popoli; con che zelo toglieste gli abusi, emendaste i peccatori, assisteste a’ moribondi, ajutaste le anime ricomprate da Cristo e a voi raccomandate? Redde rationem, rendete conto di quell’offizio, che tante volte lasciaste, che con tanta irriverenza diceste; di quel coro, a cui assisteste con tante risa, con tante ciarle, con tante immodestie; rendete conto. Redde rationem o religioso: vi chiamai alla sicurezza del chiostro, e voi sempre desideraste d’uscirne; vi levai dalle occasioni di peccare, e voi sempre ne andaste in cerca. Rendete conto di quella obbedienza che prometteste, e sì male osservaste; di quella povertà contro la vostra professione abborrita; di quella castità oltraggiata con sacrilegi. Qua, qua padri di famiglia, rendete conto di quei figli male allevati, di quelle sostanze dissipate, di quella moglie strapazzata, di quel servitore non pagato, perché insegnaste ai figli più le bestemmie, che le orazioni? Perché impediste a quel figlio l’ingresso alla Religione; riafferraste per forza nel monastero quella figliuola? Perché non pagaste quel legato; dissipando più tosto il danaro in giochi, in bettole, in capricci? rendete conto. Madri, eccovi al tribunale! Rispondete, perché insegnaste à quella figlia più ad esser bella che buona, più vana che modesta? Perché l’allevaste più per il mondo, anzi per l’inferno tra gli amori, che per Dio alla pietà. Al tribunale, al tribunale o figli, rendete conto di quella età più innocente macchiata con sordidezze; di quelle parole di oltraggio a’ maggiori; di quelle sostanze prese senza licenza, dissipate non solo senza utile, ma con precipizio dell’anima ne’ vizi: Rendete conto di quelle scelleraggini insegnate a’ compagni, di quel tempo perduto con tanto vostro danno ne’ carnevali, tra i giochi, tra gli amori, tra i peccati. Qua, qua tutti … – Redde rationem o superiore, de’ tuoi sudditi; o suddito di quelle irriverenze; donna, di quelle vanità; conontadino, di quei poderi; bestemmiatore, mormoratore, di quella lingua sacrilega. Ebbene; cosa dite? che rispondete a queste interrogazioni? Bisogna pure che tutti si palesino i vostri peccati. Voi adesso potete nascondere, potete celare le vostre iniquità; ma in quella tremenda giornata tutte si hanno da manifestare. Eh Padre, non è possibile che si abbia da sapere ogni mia azione peccaminosa. Non vi lusingate, peccatori, perché delle vostre iniquità non se ne ha da perdere il conto, fallire il numero, d’imbrogliare le circostanze; tutte ad una ad una farà la Divina Sapienza comparire le vostre colpe ne’ libri con ogni aggiustatezza tenuti, ne’ registri con ogni fedeltà custoditi. E quando anche questi mancassero in quel giorno di tutta giustizia, accuseranno i vostri delitti gli Angeli, che sempre vi custodirono, e mai riconosceste; il confessore, che per troppo rigido fuggiste; quel compagno sì buono di cui vi burlaste: vi accuseranno, sì, v’accuseranno le mura stesse delle Chiese profanate con irriverenze; sarebbe, quasi dissi, poco male; diciamola, interdette con laidezze; v’accuseranno i sassi di quelle piazze passeggiate con tanto scandalo; quelle camere, quelle segretissime stanze, ove occultamente peccaste. Ma quando ben altri non v’accusasse, v’accuserà la vostra propria coscienza, testimonio fedele de’ vostri misfatti: si publica fama te non damnat, propria conscientia te condemnat. Peccavimus direte, o peccatori, accusando voi stessi; peccavimus dai primi giorni della fanciullezza fino agli ultimi della vecchiaia: e a far bene il conto abbiamo commesso più colpe che non sono i giorni, e forse l’ore del nostro vivere: peccavimus in ogni luogo, senza riguardo a Chiese, a piazze a strade, a monasteri di cacre vergini: peccavimus con ogni sesso, con ogni condizione di persone, in tutti i tempi, nelle feste, ne’ lavori, di giorno, di notte, dopo correzioni infinite, dopo ispirazioni incessanti, dopo rimorsi amarissimi, dopo aver tante volte promesso l’emendazione, il tutto disprezzando iteratamente: peccavimus…  Che farò io miserabile in mezzo di tante accuse; se tremarono al pensiero di questi ultimati processi le colonne più stabili della Chiesa? Miro attonito, un Benedetto, senza colore un Bernardo, atterrito un’Ignazio, ricoperto di sacco e di cenere con un David, un Francesco d’Assisi: Hi qui oderunt adventum Judicis, quid facient? Esclama Gregorio, si terrore tanti Judicis, etiam qui diligunt, contremiscunt. Olà, cheti, silenzio. Io per rivelazione di Dio ho da pubblicare in presenza di questo popolo il più orrendo peccato, che abbia mai commesso in vita sua uno di voi, che state ad udirmi? Che dite? udite: Un giorno, dirò meglio; di mezza notte il Signore: ma no, che non è questo luogo da giudicare, ma da compungere. Or se Dio veramente me lo rivelasse, dirò col Crisostomo, e volesse, che io qui dicessi: il signor tale, la signora tale nel tal giorno, commise il tal delitto; e ciascuno di voi sa quello potrei dire. Ditemi, che fareste al solo sentirlo pronunziare? certo, che fuggireste a seppelirvi in uno di questi sepolcri, almeno per l’eccessiva vergogna prendereste bando da tutti per sempre. Or qual sarà la vostra confusione in quel giorno; quando, non uno, ma tutti i vostri peccati, non in presenza di poco popolo, ma dell’intero universo, in faccia degli amici, de’ cittadini, de’ nobili, de’ cavalieri, de’ parenti, del marito, del padre, de’ superiori, di tutti insomma, a suono di trombe infernali, a grida de’ diavoli, dalla voce stessa di Dio, quante mai commetteste scelleraggini, tante ne saranno pubblicate? Un certo giovane si era dato si dissolutamente à piaceri impuri, che all’anima nulla più pensava, come se anima non avesse; per farlo risolvere à cambiar vita niente giovavano, né le correzioni de’ parenti, né le ammonizioni degli amici, né le riprensioni de’ confessori; non vi restava per tanto altro rimedio che dal cielo: questo vi adoprò Iddio. Comparve al giovane dissoluto il Signore una notte, quando egli più profondamente dormiva, e fattosi vedere accompagnato da schiere Angeliche, in majestate sua. E che fa, disse rivolto agli Angeli, questo audace, che vive ostinato nel peccato? O muti vita, o si citi subito a questo mio tribunale per riportarne il dovuto castigo; così disse, e disparve la visione. Si destò il giovine, ma tanto atterrito, che
levatosi dal letto, si vide incanutito per lo spavento. Col pelo mutò il vizio, poi che confessatosi visse santamente. Argomentate or voi da questo racconto quanto sarà terribile quel giorno, mentre la sola immagine compilata in sogno poté rendere dentro una notte d’un giovine un vecchio canuto. Su, dunque, si muti vita: si lascino i traffici illeciti, gli odi bestiali, le amicizie indegne, e non s’indugi, se non si vogliono provare i rigori funestissimi di quella estrema giornata, nella quale non vi è speranza di dovere essere aiutato da chi che sia. Se voi speraste, o miei UU. di poter trovare in quel giorno terribile rifugio, o aiuto, v’ingannate. E chi volete, pazzi che siete, che vi soccorra in die furoris Domini? non vi saran per voi né Santi, né avvocati, né protettori; tutti contro di voi saran la causa di Dio. Spererete forse nell’Angelo custode; ma come? se esso terrà in quella giornata la spada per eseguire la sentenza; forse ricorrerete alla Vergine? Non già; perch’Ella nasconderà bellissima Luna i suoi raggi, ed in quel dì funesto … non dabit lumen suum: forse da questo Cristo cercherete pietà; ma come? Se Egli severissimo Giudice vi rimirerà più che torbido; e sarà quello che, per uffizio griderà redde rationem! Non vi sarà dunque soccorso: sarà finita per voi: e voi a questa verità non temete, non tremate? non vi risolvete ad abbandonare i peccati, a dare di bando a’ vizi, à ben confessarvi? Avvertite, che se indugiate, verrà, così non fosse! verrà tempo, che vorrete pentirvi, e non vi pentirete, e non pentendovi, proverete i rigori del Divino Giudizio, che porta seco una irreparabile sentenza di dannazione … Dio non lo voglia.
LIMOSINA.
Negli umani Giudizi è proibito al Giudice da tutte le leggi il prender regali, per il pericolo che si corre di dar la sentenza più a favore del regalo che della giustizia. Nel supremo Tribunale del Giudice eterno le cose vanno al contrario; perché la volontà del Giudice è legge d’ogni rettitudine. Si dichiara Cristo che in quel giorno la  sentenza favorevole si darà solo a chi regala secondo la sua possibilità: quod uni ex minimis meis fecistis, mihi fecistis. Fate dunque a gara di regalare il Giudice Cristo nella Persona de’ poverelli, se volete poter sperar la sentenza in favore.

PARTE SECONDA

Il processo è finito, il reo è convinto; resta la formidabil sentenza, da cui dipenderà l’eternità o di pene, o di premio: Venite benedicti;… discedite a me maledicti; queste due cose finiranno i tempi, stabiliranno l’eternità. Se così è, come potrà cadere in mente de’ miei UU. di più peccare? Tumanama Satrapo nativo delle Indie Occidentali, dove la gente usa scimitarre di legno, accusato di non so qual delitto a Vasco Nugnez, uno de’ Conquistatori di quei Paesi, si pose avanti ad esso ginocchioni, e dopo aver detto le sue ragioni, messa la mano sul pomo della Spada del Nugnez, proruppe, piangendo, in queste parole: E potete voi credere, che a me sia neppur caduto in mente d’offendervi; mentre so, che portate qui al fianco una spada, che divide in un sol colpo un uomo da capo a piedi? Ah miei UU., chi ben considera questa spada terribile, che metterà divisione tra gli eletti ed i reprobi, questo Cortello ex utraque parte acutus, che uscirà dalla bocca d’un Dio fulminante; come è possibile, che possa indursi a peccare? Sì, sì udiamone la pronunzia, perché ci rimanga ben fissa nel cuore. Su, su, dirà Iddio; vengano al possesso del Paradiso quel sacri Pastori, che presiederono vigilantissimi al mio gregge, e con essi, su venga quel sacro Clero che con vita ecclesiastica edificò le città. Su, su, al cielo o religiosi che viveste penitenti nelle celle, astinenti ne’ refettori, salmeggianti ne’ chori, che imitatori del vostro gran Padre, foste indefessi ne’ studj Santi, abbatteste eresie, e confutaste i nemici della Chiesa. Su, su, voi, che predicatori evangelici propagaste la mia gloria. Su, su, Servi di Maria mia Madre, che con pietà animaste i popoli alla di Lei devozione. Al Cielo, o dame, che viveste senza vanità . Al Cielo o cavalieri che viveste senza fasto. Al Cielo mercanti, artisti, che senza frodi trafficaste. Al Cielo in somma voi tutti che viveste osservanti de ‘ miei precetti: su, su, Venite Benedicti Patris mei; possidete paratum vobis Regnum; risponderanno i giusti a questo con un volo, che gli porterà dietro a Cristo verso l’Empireo. Venite, venite, ripiglierà il Redentore, voi, che chiamati obbediste, e dietro a me portaste la croce; venite liberi dal mare delle tribolazioni, vestiti di stole bianche lavate nel bagno del mio salutifero Sangue. Venite alla vita o Martiri, voi, che per me sopportaste la morte: venite al possesso de’ miei beni, voi, che per me vi spogliaste di tutto il mondo. Venite alla corona o Vergini, che per me immacolate vi conservaste, al premio, al premio per la battaglia, che sosteneste, al riposo, per le fatiche che tolleraste. Al Cielo, per la terra che calpestaste, o miei Santi: venite a benedire in eterno il mio Padre, che ab eterno v’ha benedetti. Venite Benedicti Patris mei; possidete paratum vobis Regnum. O Dio, che feste, che trionfi, che giubili saranno allora nel cuore de’ beati! – Non così per voi ribelli ecco la vostra sentenza: Discedite a me, partitevi da me vostro Dio, vostro Principio, vostro ultimo Fine; partitevi da me vostro Redentore; da me, che per voi mi feci Uomo, né mai cessai di piangere, e penare per vostro amore; da me, che per salvarvi m’esposi a croce, a morte; Discedite dal mio regno, da’ miei beni, dal mio Paradiso: Discedite, partitevi dal cospetto di questi Santi, che mi circondano, di questi Martiri miei soldati, di queste vergini mie spose: Discedite partitevi dalla faccia della mia Madre che adirata non può vedervi. Discedite a me maledicti, partitevi da me, maledetti da me, maledetti dal mio Padre, maledetti nell’anima, maledetti nel corpo, maledetti nell’intelletto, nella volontà maledetti ne’ vostri compagni, maledetti nel tempo, maledetti per sempre; avete amata la maledizione, eccola: Discedite a me maledicti, e dove? In ignem æternum. Non vi caccio da me, perché viviate a capriccio, come avete fatto finora, ma per rinchiudervi in una prigione; non vi scaccio da me, perché vi portiate a quelle veglie, a quei balli, a quelle feste: ma in ignem, al fuoco, in una prigione ove il tetto, le mura, il pavimento farà di fuoco: né qui finisco in ignem æternum nel fuoco eterno, eterno, eterno, che non avrà mai fine, e appena proferitasi dalla bocca di Dio quella parola æternum, appena fulminata questa sentenza, punto non di tarderà ad eseguirla. Voi ben sapete che appena Mosè ebbe finito di parlare contro i due ribelli di Dio Datan e Abiron; e subito si aprì sotto de’ piedi la terra, e vivi vivi se l’inghiottì. Così avverrà in quell’istante. Appena Cristo avrà finite di sentenziare contro i reprobi, che verrà subito a spalancarsi per mezzo la gran valle di Giosafatte, e gli assorbirà subito nel suo fondo, ibunt hi in fupplicium æternum. – Miei UU. unum de duobus, grida il Crisostomo, ha da toccare a voi, a me; o la salute, o la perdizione, o il Cielo o l’inferno, l’esser benedetti, o l’esser maledetti in eterno, e a noi sta l’eleggere: pensate a’ casi vostri, che io per me ho pensato ai miei, ed andate in pace.

QUARESIMALE (VI)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO – “MAGNO CUM ANIMI”.

Come suo solito Papa Benedetto XIV, scrive una lettera Enciclica ricca di rifermenti dottrinali, in particolare quelli inerenti al Magistero ed ai documenti pontificali e conciliari. Qui sono riportate tutte le disposizioni riguardanti la celebrazione della santa Messa fuori dalla Chiesa, disposizioni che restringono l’usanza di celebrarla presso oratori privati, o nelle case di fedeli. Le norme sono chiare e limitanti il privilegio della celebrazione, come è giusto che sua, tranne che in un caso particolare: «… deve essere noto alle Vostre Fraternità che tale privilegio si concede in quei luoghi dove non ci sono Chiese o, se ci sono, la potenza degli eretici è tale che i Cattolici non possano radunarsi per ascoltare la Messa senza grave pericolo. Insomma, in altre parole, si provvede ad una necessità… ». Questo è appunto il caso attuale della celebrazione (molto sporadica) della Messa cattolica da parte di Sacerdoti “una cum” Papa Gregorio XVIII della Chiesa eclissata. Tutte le cappelle pseudotradizionaliste, non hanno alcuna deroga alle regole stabilite in questa lettera, o perché sono in comunione con l’antipapa vaticano (ad esempio i lefebvriani di Econe-Sion, autoreferenti e con gerarchia propria, oltretutto invalida), o perché essendo scismatici ed eretici sedevacantisti o cani sciolti in libera uscita, non hanno alcuna autorizzazione da una “vera” autorità ecclesiastica. Tutti costoro operano dunque in regime di inadempienza delle regole dettate dal Magistero e quindi in flagrante sacrilegio che coinvolge naturalmente i più o meno ignari fedeli. Partecipare ad una messa qualsiasi in un luogo qualsiasi, celebrata da un sacerdote quanto meno sospetto di non valida consacrazione, non significa né soddisfare al precetto, né tantomeno ricevere grazia divina, specie poi se si ricevono poi pseudo-sacramenti invalidi. Preghiamo dunque il Signore che ripristini quanto prima l’accessibilità alle funzioni della vera ed unica sua Chiesa per la santificazione e salvezza dei suoi veri fedeli.


Benedetto XIV
Magno cum animi

2 giugno 1751

Con grande dolore del Nostro animo siamo venuti a conoscenza che in non poche vostre Diocesi sono nate controversie e penose divergenze circa gli Oratori privati. Voi avete messo ogni cura e diligenza per eliminare tali abusi, ma siete stati delusi di non aver raggiunto lo scopo desiderato; anzi siete incorsi nell’indignazione di molti, attirandovi così il biasimo e l’accusa di aver oltrepassato i limiti della severità. Voi desiderate che da questa Santa Sede vi siano date direttive sicure sull’uso dell’Oratorio privato, perché, una volta tolti di mezzo gli abusi, le vostre Disposizioni, confortate dall’autorità Pontificia, non solo siano immuni da ogni biasimo di malevoli, ma acquistino sempre maggior peso in onore e stima. – Avremmo potuto con molta facilità soddisfare alla vostra richiesta col suggerirvi dei libri, sia quelli che trattano la dottrina su questa materia secondo i Decreti dei Romani Pontefici, nostri Predecessori, sia quelli, i cui Autori, pur trattando degli Oratori privati, non fanno menzione dei Decreti della Santa Sede o li ignorano perché contrari alle loro tesi. Tuttavia, siccome abbiamo per Voi un grande e particolare affetto, per mezzo della presente nostra Lettera Enciclica, con la maggior brevità possibile, vi mostreremo su questo argomento le sentenze dei nostri Predecessori e la nostra. – Per verità, in tali sentenze, oltre l’obbedienza che è loro dovuta in ragione dell’autorità da cui provengono, come da una fonte, nulla è più importante della materia che ne è l’oggetto e che ora tratteremo. Ogni trattazione, però, di questo genere, siccome riguarda i Privilegi Apostolici (l’interpretazione dei quali, per diritto privato, è riservata ai Sommi Pontefici) deve avere come norma l’intenzione di chi ha dato la concessione, come di colui che più di ogni altro ne conosce il senso. Perciò qualunque ordinamento Voi emanerete e stabilirete secondo le norme contenute nella presente Lettera, deve essere ritenuto, quanto all’esecuzione, come un Decreto dei Sommi Pontefici. Per questo motivo si devono ritenere attribuite alle Vostre Fraternità la qualifica e l’autorità di Delegati Apostolici, e Noi, per quanto è necessario, con la presente Lettera ve le concediamo e impartiamo a tale effetto.

1. In verità nulla ci è stato esposto di ciò che riguarda le cappelle che avete nei vostri Palazzi Episcopali per la celebrazione della Messa da parte vostra, o di altri, o per svolgervi qualsiasi altra sacra funzione propria della vostra carica e dignità. Trattare di ciò sarebbe per Noi cosa molto facile se non fosse estraneo al nostro caso. Prenderemo perciò in considerazione due antichi esempi di cappelle che i Vescovi avevano nei loro Episcopi, distinte e separate dalle Chiese pubbliche, e nelle quali celebravano il santo Sacrificio della Messa. Il primo esempio è quello della cappella di San Cassio, Vescovo di Narni, di cui San Gregorio (Omelia 37 Super Evangelia)racconta che, benché fosse gravemente malato, “fece la Messa nell’Oratorio del suo Vescovo” per soddisfare tanto alla sua devozione quanto a quella di coloro che venivano a trovarlo. L’altro esempio è quello di San Giovanni Elemosinario, Vescovo di Alessandria. Questi, come si legge nei suoi Atti scritti da Leonzio, redarguendo coloro che, a Messa non ancora finita, uscivano quando egli andava a celebrarla nella pubblica Chiesa, era solito dire: “Per voi vado nella Chiesa santa, perché per me potrei celebrare la Messa nell’Episcopio“. Quest’esempio lo si può leggere in Tomassino (De veteri ac nova Ecclesiae disciplina, part. 1, lib. 2, cap. 93, n. 6). Altri esempi si trovano raccolti nell’opera intitolata De Oratoriis privatis (al cap. 6). (Quest’opera è stata recentemente pubblicata a Roma da Giovanni Battista Gattico, Canonico Lateranense). In quegli esempi è dimostrato con solide prove il diritto dei Vescovi di avere nei Palazzi Vescovili le proprie cappelle.

2. Il sacro Concilio di Trento non derogò affatto a questo diritto; solamente nella sess. 22, De observandis et evitandis in celebratione Missae, a causa di molti e poco decorosi incidenti che ripetutamente si verificavano, prescrisse ai Vescovi di non permettere ai Sacerdoti, tanto Secolari che Regolari, di celebrare la Messa “nelle case private” e fuori delle Chiese o Oratori pubblici destinati al culto divino. Questa prescrizione non riguarda le cappelle che sono nei Palazzi Vescovili, i quali non possono mai passare sotto il nome di case private. Lo ha dichiarato più volte la Congregazione dei Venerabili Nostri Fratelli Cardinali della Santa Romana Chiesa e Interpreti dello stesso Concilio di Trento, in alcune Risoluzioni dello stesso Concilio, e ha sostenuto tale dichiarazione con valide ragioni, che Noi abbiamo riportato nel nostro Trattato De Sacrificio Missae (sess. 2, § 45 e ss.), edizione latina, Padova. Noi, infatti, quando, non ancora saliti alla più alta Dignità, firmavamo qualche opera, ritenevamo come nostro principale vanto di non allontanarci su nessun punto dalle sentenze del Tribunale della Curia Romana, in quanto esse ricevono forza di autorità soprattutto dalle dichiarazioni pontificie.

3. Di questo privilegio si poteva dire solo che, essendo limitato alle cappelle che sono negli Episcòpi, non poteva certo favorire i Vescovi quando dimoravano fuori delle proprie abitazioni, o quando facevano la Visita o quando erano in viaggio. In questi casi, volendo celebrare la Messa o assistervi, erano costretti ad andare nelle Chiese pubbliche oppure a chiedere agli Ordinari dei luoghi il permesso di far celebrare la Messa o di celebrarla essi stessi nell’abitazione in cui per caso dimoravano.

4. Veramente il nostro Predecessore di venerata memoria Papa Bonifacio VIII nella sua Decretale Quoniam Episcopi, de privilegiis, in Setto, ritenendo ingiusto che i Vescovi non celebrassero ogni giorno la Messa senza una ragionevole causa o che non vi assistessero, concesse loro di poter servirsi dell’Altare portatile anche fuori della propria Diocesi: “Con la presente Costituzione accordiamo a loro di poter avere l’Altare portatile e su quello celebrare o far celebrare dovunque è loro permesso di celebrare senza trasgredire un interdetto, o ascoltare la Messa“. È degno di attenzione l’avverbio “dovunque“, che, senza dubbio, comprende anche i luoghi che sono fuori della Diocesi.

5. Una particolare attenzione meritano le Risoluzioni della sopraccitata Congregazione del Concilio. Al quesito che le fu proposto se, cioè, il Vescovo che si trova fuori della propria Diocesi per poter usare l’Altare portatile sia tenuto a chiedere il permesso al Vescovo locale, la Congregazione rispose che non è tenuto. Diversamente il privilegio di Bonifacio VIII sarebbe stato vanificato. Infatti, al tempo di quel Pontefice era in vigore un antico diritto, che poi, come si dirà più avanti, fu abolito dal Concilio di Trento, secondo il quale la facoltà di celebrare la Messa nelle case private la davano i Vescovi. Così pure quando fu proposto alla Congregazione un altro quesito se, cioè, al privilegio concesso ai Vescovi da Bonifacio VIII il Concilio di Trento o il Decreto di Papa Paolo V, di cui pure si parlerà più avanti, avessero arrecato qualche pregiudiziale, la Congregazione rispose che nessun valore è stato tolto a quel privilegio. – Quando, poi, tanto nel Concilio come nel sopraccitato Decreto fu tolta ai Vescovi la facoltà di dare permesso ad altri di poter celebrare la Messa nelle case private, non furono affatto tolti ai Vescovi quei diritti che riguardavano le loro persone e che sono propri della loro dignità e del loro carattere. Le Risoluzioni citate sono da Noi riportate nel nostro Trattato De Sacrificio Missae (sez. 2, par. 42, edizione latina, Padova), e anche nei Commentari del Cardinale Petra di buona memoria alle Costituzioni Apostoliche (tomo 4, Super Constitutione 2 Urbani V, n. 15 e ss.), e da Gattico nel suo recente Trattato De Oratoriis domesticis, De usu Altaris portatilis (cap. 12, n. 1 e ss.).

6. È verissimo che nulla arreca maggior pregiudizio ai Privilegi quanto il loro abuso. Ciò è stato comprovato a sufficienza e con verità anche nel caso del Privilegio concesso ai Vescovi dell’Altare portatile e che rimase intatto dopo il Concilio di Trento e il Decreto Paolino. Da certi indizi si venne a sapere che ne abusavano alcuni Vescovi che, in Diocesi o fuori Diocesi, si recavano nelle case dei laici e lì celebravano la Messa o permettevano che vi si celebrassero più Messe e ciò senza nessuna urgente necessità, ma solo per ostentare il proprio Privilegio o per soddisfare alle richieste dei laici. Quando la notizia di questo inconveniente giunse alla Congregazione del Concilio, questa non tralasciò di frenare tale eccesso e affidò agli Arcivescovi il compito di correggere l’abuso qualora si fosse verificato nei luoghi della loro giurisdizione. Le Risoluzioni sono riportate nei Codici o, meglio, nei Registri di quella Congregazione (lib. 48, Decretorum, fol. 471). – Ma siccome, nonostante tutto, la piaga si allargava, il nostro Predecessore di felice memoria Papa Clemente XI il 15 dicembre del 1703 pubblicò il seguente Decreto, in cui, dopo aver esposto l’inconveniente che “i Vescovi in Diocesi altrui, fuori della propria abitazione, nelle case private dei laici fanno erigere l’Altare e lì per mezzo di uno o più dei loro cappellani immolano l’Ostia vivifica di Cristo“, passa al rimedio: “Per eliminare tali abusi, il Santissimo Signore Nostro notifica espressamente ai Vescovi e ai Prelati a loro superiori, anche se insigniti di onore cardinalizio, che né sotto pretesto di un privilegio incorporato nel Diritto, né sotto qualunque altro titolo, in nessun modo è lecito fuori della propria abitazione, nelle case dei laici, anche se nella propria Diocesi e tanto meno in quella di altri, anche se con il consenso del Diocesano, erigere l’Altare e lì celebrare il sacrosanto Sacrificio della Messa o farlo celebrare“.

7. Alla mente di questo grande Pontefice era presente questo solo scopo: di togliere gli abusi, mai di togliere qualcosa al retto uso del Privilegio. Certo le parole, riportate con quel loro senso così ampiamente restrittivo e frenante, potevano dare occasione a qualcuno per affermare che non è lecito ai Vescovi servirsi dell’Altare portatile quando visitano la Diocesi, o viaggiano, o per qualunque altro motivo si trovano fuori della propria residenza e dimorano nelle case dei laici. Quando questa ipotesi fu esposta nelle Congregazioni che si sono tenute sotto Innocenzo XIII, immediato Successore dello stesso Clemente, e nelle quali Noi, non ancora saliti alla più alta Dignità, fungevamo da Segretario, si giudicò opportuno che quella Dichiarazione, più avanti riportata, diventasse ufficiale. In seguito fu inserita nella Lettera dello stesso Innocenzo che inizia “Apostolici Ministerii“, e che lo stesso Pontefice compilò per costituire nei Regni delle Spagne una buona organizzazione della disciplina ecclesiastica. La stessa Lettera fu confermata “in forma specifica” dal suo successore Benedetto XIII che volle inserirla nell’Appendice del Concilio Romano perché fosse regola e norma per tutti i luoghi. La stessa Dichiarazione fu inserita fra i Decreti, tit. XV, cap. III dello stesso Concilio, al quale anche Noi fummo invitati per interpretare i Sacri Canoni.

Riportiamo volentieri anche qui le parole della Dichiarazione: “Dichiariamo (si tratta del Decreto di Clemente XI) che non è lecito ai Vescovi erigere l’Altare fuori della casa della propria residenza nelle case dei laici, e lì celebrare il santo Sacrificio della Messa o farlo celebrare. Tale proibizione non va intesa per le case, anche dei laici, nelle quali gli stessi Vescovi per caso, in occasione della Visita o di viaggio, sono accolti come ospiti. E neppure quando, nei casi permessi dal Diritto per speciale licenza della Sede Apostolica, assenti dalla casa della propria residenza, sostano in case di altri a modo di domicilio. In questi casi sarà loro lecito erigere l’Altare per la suddetta celebrazione come nella casa della propria ordinaria residenza“.

8. Abbiamo ritenuto ottima cosa esporvi nella nostra Lettera Enciclica questi punti che riguardano particolarmente le Vostre Fraternità, quanto vi è stato concesso circa le cappelle che sono nei vostri Palazzi Episcopali e quanto vi è stato permesso di fare nelle case altrui e fuori della vostra Diocesi. Vi abbiamo indicato anche i motivi delle concessioni e dei Privilegi, nonché i loro abusi e vi abbiamo aggiunto le proibizioni di abusi. E ciò affinché sappiate la differenza che c’è tra le cappelle dei vostri Palazzi Episcopali, per mezzo delle quali si intende provvedere alla vostra spirituale consolazione e comodità come anche al decoro della vostra dignità, e gli Oratori privati nelle case dei laici, sia dentro come fuori della vostra Diocesi, nei quali per la vostra comodità e consolazione vi è lecito erigere l’Altare portatile e celebrare e far celebrare. E anche perché, quando per caso dovete vigilare sugli abusi degli Oratori privati nelle case dei laici, non siate soggetti alla critica che mentre correggete le altrui mancanze nelle case di altri, tollerate gli eccessi in casa vostra e nel vostro comportamento. Perciò, prima di passare a trattare il caso degli Oratori privati nelle case dei laici, facciamo alcune premesse.

9. La prima è che l’uso degli Oratori privati nelle case risale a tempi antichi. È noto che gli Apostoli celebravano i sacri Misteri nelle case private e che tale costume fu conservato durante le persecuzioni, come fa bene osservare Cristiano Lupo “in suis notis ad canones Trullanos“. La seconda premessa è che anche nei secoli seguenti, dopo le persecuzioni, ci sono stati Oratori privati nelle case dei laici. Nel Sacramentario Gallicano (tomo 1, Musaei Italici, stampato e pubblicato da Mabillon), si legge una “colletta” da recitarsi nella Messa che si celebrava “in casa di chiunque“. Né a questo assunto mancano altre prove, che Noi con diligenza abbiamo cercato di raccogliere nel nostro Trattato De Sacrificio Missae (sect. 1, § 10). Terza premessa poi è che più volte si è pensato di sopprimere gli Oratori privati nelle case dei laici o, meglio, la facoltà di celebrarvi la Messa. Non diremo nulla della Novella 58 di Giustiniano, dove per legge si proibisce di celebrare negli Oratori privati, e dove si permette solo di pregare. Non parleremo della Novella di Leone il Sapiente, che tolse la proibizione asserendo che gli Oratori privati, in cui si celebravano le Messe, si erano allora moltiplicati a tal punto che li avevano non solo i Nobili, ma anche persone di mediocre condizione. – Circa poi i documenti più vicini ai nostri tempi, sarà sufficiente aver indicato quelli che Noi abbiamo riportato nel Trattato De Sacrificio Missae, nei luoghi citati.

10. Quarta premessa: benché quasi da sempre ci sia stato l’uso degli Oratori privati nelle case dei laici, nei quali si celebrava la Messa, tuttavia era sempre necessaria la licenza dei Vescovi, i quali, il più delle volte, erano molto facili a concederla. “Disponiamo che le Messe si celebrino non dovunque, ma nei luoghi consacrati dal Vescovo, o dove egli permetterà“. Sono parole del Can. Missarum, dist. 1. Questa facilità, che per reazione provocò, anche se inutilmente, la proibizione degli Oratori privati, rimase in vigore nella Chiesa Orientale, soprattutto per il fatto che nelle chiese dei Greci non c’era che un solo Altare: per cui, quando vi si era celebrata una Messa, non vi si poteva celebrare un’altra nello stesso giorno. Balsamone In Commentariis ad Canones Trullanos asserisce che senz’alcun’altra formula si considerava concessa dal Vescovo al Sacerdote la licenza di celebrare, ogni qual volta celebrava su tovaglie consacrate dal Vescovo.

11. L’ultima cosa che diciamo è questa: dopo varie discussioni avute su questo argomento nel sacro Concilio di Trento (questo Concilio fu accolto dal Regno di Polonia con grande onore e applauso per merito del Cardinale Osio, Nunzio Commendatario, nella grande assemblea tenuta davanti al Re Sigismondo Augusto, come si può vedere nella storia dello stesso Concilio scritta dal Cardinale Pallavicino (lib. 24, cap. 13, sess. 22) nel Decreto De observandis et evitandis in celebratione Missae fu così stabilito e ordinato: “Non permettano (si parla dei Vescovi) che alcun Sacerdote Secolare o Regolare celebri questo santo Sacrificio nelle case private, e mai fuori della Chiesa e degli Oratori dedicati solo al culto divino e che devono essere designati e visitati dagli stessi Ordinari“. Fu aggiunta l’abolizione di qualsiasi privilegio, esenzione e consuetudine: “Nonostante i privilegi, le esenzioni, i titoli e le consuetudini di qualsiasi genere“. Da ciò conseguì che i Vescovi non hanno più la facoltà di concedere l’uso degli Oratori privati nelle case dei laici per celebrare la Messa. Tale licenza di celebrare la Messa negli Oratori privati, se fosse data da loro, sarebbe in contrasto col precetto a loro imposto dal Concilio di non permettere ciò. Per la qual cosa il sopraccitato Diritto è stato riservato alla Santa Sede, perché le circostanze dei tempi e l’estendersi degli Oratori privati nelle case dei laici non permetteva di abolirli del tutto. E questo è sempre stato il pensiero del Testo Conciliare come lo ha trasmesso la Congregazione del Concilio, l’unica interprete del Concilio stesso. Anche il nostro Predecessore di felice memoria Papa Paolo V lo ha approvato nella Lettera Enciclica inviata a tutti i Vescovi. Questa Enciclica si trova sia presso vari Autori, sia anche stampata nel nostro Trattato De Sacrificio Missae (sect. 2, § 42). In essa si condanna ogni altra interpretazione delle parole del Concilio e si parla molto dell’irriverenza verso il Sacrificio della Messa. A fomentare detta irriverenza contribuiva non poco la troppa facilità dei Vescovi nel concedere la licenza senza alcuna limitazione o cautela. Infine, la Lettera conclude così: “La facoltà di dare tali licenze è stata tolta a tutti per Decreto dello stesso Concilio ed è riservata al solo Romano Pontefice“.

12. Dopo che il Diritto di concedere gli Oratori nelle case private dei laici fu riservato alla Sede Apostolica, è difficile dire quanta cura e diligenza sia stata usata per una sua retta applicazione. I documenti autentici si trovano nell’Archivio della Congregazione del Concilio, nella quale una volta, prima di salire alla più alta Dignità, per molti anni abbiamo avuto l’incarico di Segretario. – Le disposizioni date per legge, come risulta dalle formule delle Lettere in forma di Breve, si possono così riassumere: l’Oratorio deve essere costruito con pareti che lo separino da tutti gli altri locali destinati a usi domestici e deve essere visitato prima o dal Vescovo o da un altro a cui il Vescovo abbia delegato le sue veci, per controllare se è decoroso e adatto, e se vi manca qualcosa di necessario; ci sia un Vescovo che conceda la licenza di celebrare la Messa e tale licenza sia valida ad arbitrio del Vescovo; non vi si celebrino più Messe al giorno, ma una sola, e tale Messa sia celebrata da un Sacerdote Secolare o Regolare, purché il Secolare sia approvato dal Vescovo e il Regolare abbia la licenza del suo Superiore Regolare; la Messa non si celebri nelle solennità di Pasqua di Risurrezione, di Pentecoste, della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo, e in altri giorni più solenni, tra i quali si citano i giorni dell’Epifania, dell’Ascensione del Signore, dell’Annunciazione e Assunzione della Beata Vergine Maria, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, del Titolare della chiesa locale; sono nominate le persone la cui presenza è necessaria perché si possa celebrare la Messa nell’Oratorio privato e anche altre persone che, mentre si celebra la Messa per le persone sopraccitate, possono assistervi e soddisfare al precetto ecclesiastico; e infine tutto deve essere fatto senza pregiudizio dei diritti parrocchiali.

13. Queste sono le norme che sono contenute nei Brevi ordinari degli Oratori privati. Capita anche di emanare Brevi che sono straordinari, come quando, per esempio, per giusta causa si concede a qualcuno di poter fare celebrare una seconda Messa, o che la stessa venga celebrata un po’ prima o un po’ più tardi del limite di tempo fissato dalle Rubriche o nei giorni esclusi, e altre cose del genere. Quando poi di tanto in tanto nacquero delle controversie sia circa i Brevi ordinari degli Oratori privati, sia circa i Brevi straordinari e in genere su tutti, la Sede Apostolica in queste occasioni non tralasciò mai di provvedervi con opportune disposizioni.

14. Nei Brevi ordinari per lo più si concede la licenza a due coniugi di far celebrare la Messa nell’Oratorio privato e si fa sapere che la Messa si può celebrare se sono presenti sia i due coniugi, sia i loro figli, i consanguinei e i congiunti che abitano insieme con loro nella stessa casa. Mai è nato il problema se, quando il marito o la moglie intervengono alla Messa, i consanguinei e i congiunti che abitano nella stessa casa e assistono alla Messa, soddisfino al precetto Ecclesiastico nei giorni festivi. Ciò è sempre stato ritenuto come certo e coerente alla lettera del Breve. La vera difficoltà era sempre nel vedere se, quando nessuno dei coniugi è presente, uno dei consanguinei o dei congiunti che abitano nella stessa casa può ordinare di far celebrare la Messa nell’Oratorio privato; e se gli altri consanguinei e congiunti che abitano nella stessa casa, ascoltandola nel giorno festivo, soddisfano al precetto Ecclesiastico di ascoltare la Messa. Su questo punto le opinioni degli Autori erano, come il solito, diverse. Quando questa difficoltà fu proposta e discussa nella Congregazione del Concilio il 3 dicembre 1740 nella causa che aveva per titolo Marsicen. Oratori i, fu deciso che non si poteva celebrare la Messa nell’Oratorio privato se non vi presenziavano coloro che avevano ricevuto l’indulto, che è come dire il marito o la moglie, ai quali il Breve era stato diretto, come si può vedere anche nelle Risoluzioni del Concilio (tomo 9 del 1740, p. 89 e segg).

15. Quando poi Ci fu fatta la relazione di questo Decreto, Noi la confermammo il 7 gennaio 1741. Stabilimmo inoltre che nei Brevi in cui si dà la concessione a certe e determinate persone che possono far celebrare una Messa nell’Oratorio privato e che tale Messa è valida per i figli, consanguinei e congiunti, fosse aggiunta la clausola: “Vogliamo che i sopraccitati figli, consanguinei e congiunti possano, purché voi presenti, ascoltare soltanto una Messa e mai osino farla celebrare“. E perché si potesse facilmente riconoscere quali sono le persone che hanno l’indulto e senza le quali non si può celebrare la Messa, né chi la ascolta soddisfa al precetto, aggiungemmo che per persone che hanno l’indulto si devono intendere coloro che sono nominati sul frontespizio o nel titolo del Breve che viene loro diretto.

16. A volte nel corpo del Breve viene nominata qualche persona, in vista della quale, se essa è presente, si concede che si possa celebrare la Messa e che gli altri congiunti, consanguinei o familiari, ascoltandola, soddisfino al precetto, anche se detta persona non è affatto nominata sul frontespizio del Breve. In questo caso, ferma restando la regola secondo la quale si può celebrare la Messa nell’Oratorio privato purché vi assista una delle persone che hanno l’indulto e che sono nominate sul frontespizio o nel titolo del Breve, Noi affermiamo che si può celebrare la Messa anche se non vi assiste nessuna delle persone nominate sul frontespizio o nel titolo del Breve, purché sia presente quella persona, alla quale nel corpo del Breve espressamente e per nome si dà la facoltà di poter far celebrare la Messa nell’Oratorio privato quando essa vi assista.

17. Con un esempio la cosa è più chiara. Al marito e alla moglie viene concessa la facoltà che si celebri la Messa nell’Oratorio privato, e ad essi viene indirizzato il Breve. Il marito ha la madre vivente, ma questa non è affatto citata nel Frontespizio o nel Titolo del Breve. Ma se nel corpo del Breve si dice che anche la stessa madre può far celebrare la Messa, abbia valore; ciò è sufficiente perché con la sola presenza della madre si possa celebrare la Messa nell’Oratorio, anche se la madre non è nominata nel Frontespizio o nel Titolo del Breve. Le cose dette finora sono indicate nei Brevi di questo tipo; ma sarà Nostra cura perché in futuro siano espresse in modo più appropriato e senza alcun equivoco.

18. Nei Brevi consueti, cioè ordinari, sono eccettuati, come è stato detto, i giorni solenni, tra i quali è compreso il giorno di Natale di Cristo Signore in cui ogni Sacerdote celebra tre Messe. In questo caso a chi ha il Breve dell’Oratorio privato si concede un Breve straordinario, nel quale gli si permette, in caso di malattia, di ascoltare la Messa anche nei giorni eccettuati. Siccome nei Brevi si parla di una sola Messa, nacque il problema se, cioè, il Sacerdote che celebrava nell’Oratorio privato poteva celebrare tre Messe il giorno di Natale. Su questo problema Noi, al tempo in cui eravamo Segretario del Concilio, abbiamo scritto una particolare dissertazione e l’abbiamo pubblicata il 13 gennaio 1725. Ebbene, il caso fu risolto dalla Congregazione dicendo che il Sacerdote poteva celebrare le tre Messe, come si può vedere nel Tesoro delle Risoluzioni (tomo 3, p. 109 e ss., e p. 116).

19. Rimane ora che si parli delle sacre Funzioni che si possono svolgere negli Oratori che si trovano nelle case private, nei quali è permesso celebrare non più Messe, ma una sola, a meno che a qualcuno non sia stata concessa la facoltà di far celebrare una seconda Messa. Per ciò che riguarda il Sacramento del Battesimo, già nel Concilio di Vienna, sotto il Pontefice Clemente V, fu stabilito che non si poteva conferire il Battesimo in altri luoghi se non nelle Chiese, nelle quali si trovano le Fonti di questo sacro Lavacro, a meno che non si presentasse il caso di necessità o quando si trattasse dei figli di Re o di Principi, come si può vedere nella Clementina unica de Baptismo et eius effectu.

20. Per ciò, invece, che riguarda il Sacramento della Penitenza, già nel Rituale Romano, parlandosi del Sacerdote che ascolta le confessioni, è stabilito: “Ascolti le confessioni in Chiesa e non nelle case private se non per ragionevole causa; in questo caso, tuttavia, cerchi di farlo in un luogo decente e aperto“. Il Rituale fu confermato dal Pontefice Paolo V. E il grande restauratore della disciplina Ecclesiastica, San Carlo Borromeo, tanto nell’Istruzione del Sacramento della Penitenza quanto nei Moniti ai confessori e nel suo primo Concilio di Milano non tralasciò di inculcare la norma sopraccitata, come si può vedere negli Atti della Chiesa di Milano, edizione della stessa città (part. 1, p. 11, part. 4, p. 520, p. 761 e p. 773). Nella pagina 775 poi raccomanda ai Superiori dei Regolari di far osservare scrupolosamente tale norma. I sopraccitati confessori Regolari addussero la facoltà di ascoltare le confessioni dei fedeli in qualunque luogo, rivendicandola dal fatto che nella Bolla del Pontefice Clemente X Superna non si metteva alcun limite di luogo. Lo stesso Pontefice, però, dichiarò (nella predetta Costituzione) che “ai Regolari non è stata concessa nessuna facoltà di ascoltare le Confessioni sacramentali nelle case private; e perciò non è affatto lecito ai Regolari di qualsiasi Ordine, ecc., amministrare il Sacramento della Penitenza nelle case private eccetto nei casi previsti dal Diritto“. Il Decreto, pubblicato a firma del Vescovo Fagnano, fu stampato in diversi luoghi, come si può vedere nell’Appendice al Sinodo di Foligno che fu celebrato dal Vescovo della stessa città Giosafat Battistelli, di buona memoria, nel 1722.

21. Per ciò che riguardala Comunione pasquale che ogni Cattolico è tenuto a fare nel tempo pasquale, dal Decreto sia del Concilio Lateranense Omnisutriusque sexus, de poenitentiis, et remissionibus, sia del Concilio di Trento (sess. 13, cap. 8, can. 10), è noto a tutti che questo precetto va adempiuto nella Chiesa parrocchiale o in altra Chiesa con licenza del proprio Vescovo o Parroco, secondo le diverse consuetudini delle Diocesi. In seguito il nostro Predecessore di felice memoria, Papa Paolo IV, concesse ai Frati Minori il privilegio di distribuire la sacra Eucaristia a tutti i fedeli nelle loro Chiese, eccetto tuttavia il giorno di Pasqua. Questo privilegio fu esteso a tutti i Regolari dall’altro Predecessore di santa memoria Papa Pio V “per communicationem“, come si dice.

22. Ma siccome, secondo una precedente Costituzione di Eugenio IV, il tempo pasquale, in cui si deve compiere il precetto della Comunione, va dalla domenica delle Palme alla Domenica in Albis, nacque il dubbio se fosse lecito ai Regolari distribuire l’Eucaristia ai fedeli nelle loro Chiese entro il termine dei giorni prescritti. Il dubbio fu risolto dicendo che il giorno di Pasqua non si poteva distribuire la Comunione a nessuno, nemmeno a coloro che durante la Settimana Santa avessero soddisfatto al precetto pasquale nella propria Chiesa parrocchiale e che i Regolari potevano bensì comunicare i fedeli nelle loro Chiese negli altri giorni del tempo pasquale, ma a condizione che i fedeli comunicati sapessero di non essere esentati per questo dal precetto di ricevere la Comunione pasquale nella propria Chiesa parrocchiale. I più importanti Decreti della Congregazione del Concilio si trovano in “quibusdam causis, Senonensi videlicet, Burdegalensi et Mechliniensi” e da Noi riportati nel nostro Trattato De Synodo Dioecesana (lib. 7, cap. 42, n. 3).

23. Fuori della Comunione pasquale, nel sacro Concilio di Trento (sess. 22, cap. 6 De Sacrificio Missae) si leggono le seguenti parole: “Il sacrosanto Sinodo desidera che i fedeli che assistono alle singole Messe, si comunichino non solo spiritualmente, ma anche ricevendo l’Eucaristia sacramentale, per ricevere un frutto più abbondante di questo santissimo Sacrificio“.

Da queste parole alcuni dedussero la conseguenza certa e chiara che negli Oratori privati, quando c’è la facoltà di celebrarvi la Messa, si può anche distribuire l’Eucaristia a coloro che assistono alla Messa, senza che ci sia bisogno di un particolare indulto. Su questo punto Noi nella nostra Institut. (n. 34. par. 3)abbiamo trattato varie questioni, tra le quali quelle che abbiamo pubblicato in lingua italiana quando risiedevamo a Bologna come Arcivescovo di quella Chiesa, e che poi, tradotte in latino, furono stampate. In esse abbiamo riportato l’opinione sopra esposta, ma ne abbiamo aggiunta un’altra secondo la quale si richiede la licenza del Vescovo perché chi ha in casa l’Oratorio privato possa comunicarsi mentre vi assiste alla Messa. Questa opinione ci è sembrata coerente sia al buon ordine delle cose, sia alla consuetudine o prassi di Roma. Perciò ordinammo che non potessero ricevere la Comunione nell’Oratorio privato coloro che vi assistevano alla Messa, celebrata sia da un Sacerdote Secolare che Regolare, senza aver prima ottenuto la licenza da Noi o dal nostro Vicario Generale.

24. Né al presente c’è in Noi la volontà o un motivo per allontanarci da questa norma. Quando, da alcuni anni è nata in Italia la famosa controversia sulla Comunione da distribuirsi a coloro che la richiedono mentre assistono alla Messa, Noi abbiamo riferito le parole del Concilio di Trento; abbiamo lodato lo zelo di coloro che nella Messa ricevono la Comunione; abbiamo anche spronato i Pastori della Chiesa a non privare del cibo eucaristico coloro che ne hanno fame; abbiamo anche riscontrato che ci possono essere delle circostanze in cui a motivo di tempo o di luogo la prudenza dei Vescovi potrebbe suggerire l’opportunità di non distribuire la santa Eucaristia nemmeno a quelli che sono presenti alla Messa, tanto più che nell’attuale disciplina c’è piena libertà di riceverla in altri luoghi e in altri tempi. Tuttavia, ordinammo che si dovesse prestare la debita obbedienza al precetto del proprio Superiore. Chi si rifiutava, dimostrava con ciò chiaramente di avere un animo poco disposto e preparato a ricevere il Sacramento dell’Altare, come si può vedere nella nostra Lettera Certiores effecti(nel nostro Bollario, tomo 1, n. 64).

25. Queste sono, Venerabili Fratelli, le cose che abbiamo creduto opportuno esporvi in questa Enciclica. Da qui potrete ben capire come, leggendo e consultando le Lettere Apostoliche sulle concessioni degli Oratori, i Decreti dei nostri Predecessori, le Risoluzioni di queste Congregazioni, che sono ora state da Noi confermate, non c’è più posto per liti e controversie. Ma Noi pensiamo che ci risponderete: Tutto bene. Rimane però il fatto che i decreti ordinati non si osservano affatto. Non vi dispiaccia se vi replichiamo che tale inosservanza dipende da una superficiale lettura e riflessione dei Brevi o dall’ignoranza dei Decreti e delle Risoluzioni pontificie. Noi non ne abbiamo colpa, soprattutto perché, pur coll’età avanzata e oppressi come siamo da cure difficilissime, quello che c’è da sapere su questo argomento, non ci siamo rifiutati di manifestarlo.

26. Se Voi nei vostri Sinodi, e negli Editti che pubblicate per il buon governo delle vostre Diocesi, avrete premura di inculcare l’osservanza dei Decreti pontifici e delle Risoluzioni sopra indicate, ne verrà un duplice bene: di tenere viva in Voi la loro memoria e di dissipare l’ignoranza negli altri o di renderla inescusabile se crassa e supina. Tale comportamento e norma tennero (e tengono tuttora) i nostri Vescovi d’Italia, che o inserirono nei loro Sinodi la Somma dei Decreti pontifici emanati sugli Oratori privati, o li aggiunsero per esteso nell’Appendice agli stessi Sinodi, come si può vedere nel Sinodo tenuto a Rimini dal Cardinale De Vio, di buona memoria, nel 1724, e nell’altro celebrato dal Cardinale Pignatelli, di buona memoria, Arcivescovo di Napoli, nel 1726, e in quello tenuto dal venerabile nostro Fratello Cardinale Annibale Albano, allora Vescovo di Sabina, nel 1736, e in molti altri.

27. Noi non siamo nel numero di coloro i quali sono convinti che tutti gli inconvenienti e scandali che avvengono ai nostri tempi, non accadevano nei tempi passati. Siamo certi che quello che accade oggi accadeva anche in altri tempi. Ma per non allontanarci troppo dall’argomento, diremo che se oggi le leggi riguardanti gli Oratori privati sono trasgredite dai Sacerdoti per la protezione dei Principi secolari a cui si appoggiano, e ai quali servono da cappellani, ciò accadeva anche nel sec. IX. Infatti Sant’Agobardo, allora arcivescovo di Lione, nel suo Trattato De Privilegio et jure Sacerdoti i, cap. 11, si lamenta delle stesse cose. Tuttavia non per questo dovete perdere la vostra costanza sacerdotale e il vostro coraggio. La Polonia è una Nazione pia e religiosa. Se accadesse qualche abuso negli Oratori privati, commesso o introdotto nella casa di un Principe, glielo si faccia presente, adducendo ragioni e dimostrando che per abusi si perde il privilegio. C’è da sperare che così egli tolga la sua protezione al cappellano disobbediente. E se avvenisse di non ottenere nessun risultato per questa via, avete sempre a vostra disposizione le armi spirituali che potete usare contro il cappellano. Probabilmente se si fosse agito così appena si è avuta conoscenza dell’inconveniente, con la pace di tutti diremo che le cose non sarebbero arrivate al punto in cui sono ora, come risulta dai ricorsi a Noi fatti, che ci hanno indotto a scrivere questa nostra Lettera Enciclica.

28. Prevediamo che Voi forse direte che gl’inconvenienti vengono dai Privilegiati e dagli Esenti, cioè dai Regolari, a proposito dei quali sono insinuate parecchie cose nel citato ricorso fatto a questa Santa Sede. E Noi vi rispondiamo che non ci sono né privilegi né esenzioni che possano impedire di sterminare gli abusi.

29. I Regolari hanno senza dubbio il privilegio dell’Altare portatile e di celebrarvi la Messa ovunque si trovano, senza alcuna licenza del Vescovo, come si può vedere nella Decretale di Onorio III (cap. In his, de privilegiis)A causa di questo privilegio succedeva che potevano celebrare la Messa anche nelle case dei laici, sia sull’Altare portatile, sia sull’Altare fisso, anche se il laico non aveva il privilegio dell’Oratorio privato. E ciò per il motivo che il privilegio del celebrante aveva vigore benché il luogo della celebrazione non fosse privilegiato. Il sacro Concilio di Trento (sess. 22, Decreto De observandis et evitandis in celebratione Missae)aveva ordinato ai Vescovi di non permettere che si celebrassero Messe nelle case dei privati “né dai Secolari né dai Regolari qualsiasi” e aveva dato loro la facoltà di procedere contro i refrattari. Aveva anche abolito tutti i privilegi, esenzioni e consuetudini in contrario, di qualunque genere fossero: “nonostante i privilegi, esenzioni, appellazioni e consuetudini di qualsiasi genere“. Da qui necessariamente consegue che il sacro Concilio di Trento ha derogato tanto ai precedenti privilegi dell’Altare portatile quanto alla facoltà di celebrare la Messa nelle case dei privati senza licenza del Vescovo, e che inoltre il Vescovo, come Delegato della Sede Apostolica, può procedere contro i disobbedienti anche se esenti, e che, infine, non esiste privilegio o esenzione che si opponga e impedisca di togliere gli abusi.

30. Nulla vale l’osservazione avanzata da alcuni che, cioè, il Concilio non ha derogato al privilegio di cui si tratta per il fatto che il privilegio è stato incluso “in corpore Juris“. Il sacro Concilio di Trento, infatti, fu solito derogare anche a quei privilegi che sono stati inclusi “in corpore Juris” senza farne espressa menzione, ma semplicemente determinando qualcosa di contrario con l’applicazione della deroga generale ai privilegi in contrasto, come dimostra ampiamente il celebre Presule Fagnano (in cap. Nonnulli, n. 42 e ss., tit. De Rescriptis).

31. Se per caso qualcuno obiettasse che spesso la Sede Apostolica ha concesso e anche adesso, dopo il Concilio di Trento, concede l’uso dell’Altare portatile, deve essere noto alle Vostre Fraternità che tale privilegio si concede in quei luoghi dove non ci sono Chiese o, se ci sono, la potenza degli eretici è tale che i Cattolici non possono radunarsi per ascoltare la Messa senza grave pericolo. Insomma, in altre parole, si provvede a una necessità; cosa completamente diversa, come ben vedete, dal caso in questione.

32. Leggete il privilegio che il Nostro Predecessore Gregorio XIII ha concesso nel 1580 ai Frati dell’Ordine dei Predicatori della Provincia di Polonia, e che è stato inserito nel Bollario di quella Famiglia Religiosa (tomo 7, p. 192):

In alcune città, villaggi e luoghi della Provincia di Polonia la potenza e l’empietà degli eretici sono così grandi che opprimono impunemente i cattolici, e non è lecito ai cattolici ascoltare in sicurezza la Messa nelle Chiese, di cui c’è scarsità da codeste parti. Noi, favorevoli su questo punto alle Tue preghiere, acconsentiamo a Te, attualmente Superiore Provinciale della Provincia di Polonia dell’Ordine dei Frati Predicatori, di poter concedere ai sopraccitati Professori la licenza e la facoltà di avere Altari portatili con debita riverenza e onore, sopra i quali, nelle case dei Nobili e degli abitanti delle città, dei villaggi e dei luoghi della detta Provincia dove mancano Chiese e dove la potenza e l’empietà degli eretici è tale che usano impunemente la violenza, possano essi in luoghi adatti e decorosi celebrare le Messe, ma solo in caso di necessità, così da essere esenti da colpa: questo Noi concediamo con l’Autorità Apostolica a tenore della presente Lettera e per grazia speciale“.

33. Leggete anche il sopraccitato Decreto di Clemente X, che per vostra comodità trasmettiamo qui allegato, anche se sappiamo che quando fu steso, oltre a essere pubblicato a Roma, fu inviato agli Ordinari tanto dentro quanto fuori dell’Italia. Da questo Decreto, che se non ci fosse Noi stessi guarderemmo con sospetto ciò che dovremmo sostenere con le nostre ragioni e considerazioni (e sarebbe semplice farlo, per Noi, che abbiamo dappertutto a disposizione le sentenze dei più ragguardevoli Autori tra gli esperti del Diritto) da questo Decreto – dunque – potrete conoscere chiaramente se i privilegi dell’Altare portatile concessi ai Regolari sussistono ancora o no, e se il Concilio di Trento vi ha derogato. Saprete se è permesso ai Regolari celebrare la Messa in qualunque Oratorio privato quando è già stata celebrata una Messa, e per una seconda Messa non c’è un particolare indulto. Saprete se nei predetti Oratori privati è lecito celebrare la Messa prima dell’aurora o nel pomeriggio, e se la possono celebrare nei giorni che sono esclusi nell’Indulto. Saprete infine se, nonostante l’esenzione, avete il potere di procedere contro i trasgressori. Benché non ce ne sia affatto bisogno, Noi ora confermiamo il Decreto e affidiamo alle vostre Fraternità il compito di vigilare sulla sua retta osservanza, non essendo degno di lode il ricorso alla Sede Apostolica per esporre gli inconvenienti se prima non si sono presi quei rimedi che dalla stessa Sede Apostolica sono stati dati contro tali inconvenienti.

34. Nel ricorso a Noi inoltrato, si fa anche menzione di un altro inconveniente che, cioè, i Regolari esorcizzano senza licenza. Ma non si dice se da Voi o nei vostri Sinodi o nei vostri Editti è stato stabilito che nessun Sacerdote, né Secolare né Regolare, osi esorcizzare sia nella propria Chiesa sia in quella di altri, sia dentro che fuori del convento, se prima non sia stato da Voi approvato e senza aver prima ottenuto da Voi la licenza. Questo è quello che deve avere il sopravvento e che dai Vescovi deve essere garantito, come si può vedere presso Clericato (De Sacramento Ordinis, decis. 19, n. 42), dove cita i Sinodi Episcopali. – Se nondimeno, dopo che Voi avrete preso opportuni provvedimenti, per quanto dipende da Voi, su questa materia e su quella degli Oratori privati, i vostri ordini saranno violati e neglette le pene da Voi imposte e inflitte, senza dubbio Noi non mancheremo al nostro ufficio, deponendo a vostro favore tutta la Nostra autorità. Perché quello che più ci preme è che i diritti dei Vescovi, che sono nostri Fratelli, siano tutelati. Intanto alle Vostre Fraternità e ai Popoli affidati alle Vostre cure con grande affetto impartiamo la Benedizione Apostolica.

Dato da Castel Gandolfo, il 2 giugno 1751, anno undecimo del Nostro Pontificato.

DECRETO DI PAPA CLEMENTE xi DI FELICE MEMORIA SULLA CELEBRAZIONE NEGLI ORATORI PRIVATI EMANATO IL 15 DICEMBRE 1703

Alcuni Vescovi e molti Regolari, con il pretesto dei privilegi, pensano che sia loro lecito ciò che invece è proibito. I Vescovi, infatti, anche in Diocesi di altri, fuori della casa della propria residenza, fanno erigere nelle case dei laici l’Altare, dove uno o più dei loro cappellani immolano la vivifica Ostia di Cristo. I Regolari, poi, in alcuni Oratori che la Sede Apostolica suole concedere di quando in quando per legittimi motivi ai Principi o ad altri Nobili, osano celebrare una o più Messe di quante è stato loro permesso, o senza la presenza delle persone in vista delle quali è stata data la concessione, o fuori delle ore stabilite e nel pomeriggio o anche in quei giorni in cui, per Costituzioni diocesane o anche per Decreti della sacra Congregazione del Concilio, è proibito celebrare, o anche nei giorni che sono esclusi negli Indulti Apostolici dalla celebrazione. Né hanno paura di usare l’Altare portatile in dispregio delle sacre sanzioni e con irriverenza verso il santo Sacrificio. Perciò al fine di eliminare gli abusi e di rinnovare la riverenza al tremendo Mistero, il Santissimo Signore Nostro, con il voto dei Cardinali della Santa Romana Chiesa Interpreti del Concilio di Trento, aderendo alle dichiarazioni altre volte emanate su questo argomento, dichiara: ai Vescovi e ai Prelati a loro superiori, anche se insigniti della dignità cardinalizia, non è lecito né sotto pretesto del privilegio incluso nel corpo del Diritto, né a nessun altro titolo, erigere l’Altare e celebrarvi il sacrosanto Sacrificio della Messa o farlo celebrare fuori della casa della propria residenza, nelle case dei laici anche nella propria Diocesi, e tanto meno nella Diocesi di altri anche esibendo il consenso del Vescovo diocesano.Allo stesso modo negli Oratori privati concessi dalla Santa Sede non è lecito ai Regolari di qualsiasi Ordine, Istituto e Congregazione, anche della Compagnia di Gesù, o anche di qualunque Ordine Militare, anche di San Giovanni Gerosolimitano, o a qualsiasi altro sacerdote anche se Vescovo, celebrare nei giorni di Pasqua, Pentecoste e Natale del Signore e nelle altre feste più solenni dell’anno o nei giorni esclusi nell’Indulto. Negli altri giorni, invece, non è lecito a nessun Sacerdote anche se Vescovo celebrare nei sopra detti Oratori se vi è già stata celebrata l’unica Messa concessa nell’Indulto. Su tutto questo è tenuto a indagare e a informarsi con esattezza chi intende celebrare. E quell’unica Messa non si può celebrare nemmeno nei casi permessi al pomeriggio. In tutti i casi si deve raccomandare e dichiarare che tutti coloro che assistono a dette Messe non soddisfano al precetto della Chiesa.Quanto poi all’Altare portatile, sempre aderendo alle sopraddette dichiarazioni, il Decreto stabilisce che le licenze o i privilegi concessi ad alcuni Regolari nel cap. In his, de privil., e concessi da alcuni Pontefici ad altri Regolari di usare il detto Altare portatile e di celebrarvi senza licenza degli Ordinari nei luoghi dove dimorano, sono stati tutti revocati dallo stesso Concilio di Trento. Perciò si proibisce ai detti Regolari di servirsi di quegli Altari e, secondo il tenore del presente Decreto, si ordina ai Vescovi e agli altri Ordinari dei luoghi, in qualità di Delegati della Sede Apostolica, di procedere contro tutti i trasgressori, anche se Regolari, con pene prescritte dallo stesso sacro Concilio nel detto Decreto sess. 22, cap. unico, fino alle Censure “latae sententiae”. Questo Decreto dà loro anche la facoltà di procedere come se la detta facoltà fosse stata concessa in modo speciale dalla Santa Sede. Così Sua Santità dichiara e comanda di osservare.

DOMENICA I DI QUARESIMA (2023)

DOMENICA I. DI QUARESIMA (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Giovanni in Laterano

Semidoppio. – Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

Semidoppio. – Dom.rivil. di I cl. – Penti violacei.

Questa Domenica è il punto di partenza del ciclo quaresimale (Secr.) cosicché l’assemblea liturgica si tiene oggi, fin dal IV secolo a S. Giovanni in Laterano, che è la basilica patriarcale del romano Pontefice ed il cui nome rievoca’ la redenzione operata da Gesù, essendo questa Basilica dedicata anche al SS.mo Salvatore. Subito dopo il battesimo, Gesù si prepara alla vita pubblica con un digiuno di 40 giorni, nel deserto montagnoso, che si estende fra Gerico e le montagne di Giuda (Gesù si riparò, dice la tradizione, nella grotta che è nel picco il più elevato chiamato Monte della Quarantena). Là satana, volendo sapere se il figlio di Maria era il Figlio di Dio, lo tenta (Vang.). Gesù ha fame e satana gli suggerisce di convertire in pane le pietre. Allo stesso modo opera con noi e cerca di farci abbandonare il digiuno e la mortificazione in questi 40 giorni. È la concupiscenza della carne. – Il demonio aveva promesso al nostro primo padre che sarebbe diventato simile a Dio; egli trasporta Gesù sul pinnacolo del Tempio e lo invita a farsi portare in aria dagli Angeli per essere acclamato dalla folla. Tenta noi ugualmente nell’orgoglio, che è opposto, allo spirito di preghiera e alla meditazione della parola di Dio. È l’orgoglio della vita. – Come aveva promesso ad Adamo una scienza uguale a quelli di Dio, che gli avrebbe fatto conoscere tutte le cose, satana assicura Gesù che gli darà l’impero su tutte le cose se Egli prostrato in terra lo adorerà (lucifero, il più bello degli Angeli, si credette in diritto, secondo alcuni teologi, all’unione ipostatica che l’avrebbe elevato alla dignità di figlio di Dio. Egli cercò di farsi adorare come tale da Gesù, come l’anticristo si farà adorare nel tempio di Dio, II ai Tessal.,). Il demonio allo stesso modo cerca con noi, di attaccarci ai beni caduchi, quando stiamo per sovvenire il prossimo con l’elemosina e le opere di carità. È la concupiscenza degli occhi o l’avarizia. – Il Salmo 90 che Gesù usò contro satana, — poiché la spada dello Spirito, è la parola di Dio (Agli Efesini, VI, 17).— serve di trama a tutta la Messa e si ritrova nell’ufficiatura odierna. « La verità del Signore ti coprirà come uno scudo », dichiara il salmista. Questo salmo dunque è per eccellenza quello di Quaresima, che è un tempo di lotta contro satana, quindi il versetto 11: « Ha comandato ai suoi Angeli di custodirti in tutte le tue vie », suona come un ritornello durante tutto questo periodo, alle Lodi e ai Vespri. Questo Salmo si trova intero nel Tratto e ricorda l’antico uso di cantare i salmi durante la prima parte della Messa. Alcuni dei suoi versetti formano l’Introito col suo verso, il Graduale, l’Offertorio e il Communio. In altra epoca, quest’ultima parte era formata da tre versetti invece di uno solo e questi tre versetti seguivano l’ordine della triplice tentazione riferita nel Vangelo. – Accanto a questo Salmo, l’Epistola, che è certamente la stessa che al tempo di S. Leone, dà una nota caratteristica della Quaresima. S. Paolo vi riassume un testo di Isaia: « Ti esaudii nel tempo propizio e nel giorno di salute ti portai aiuto » (Epist. e 1° Nott.). S. Leone ne fa questo commento: « Benché non vi sia alcuna epoca che non sia ricca di doni celesti, e che per grazia di Dio, ogni giorno vi si trovi accesso presso la sua misericordia, pure è necessario che in questo tempo le anime di tutti i Cristiani si eccitino con più zelo ai progressi spirituali e siano animate da una più grande confidenza, allorché il ritorno del giorno nel quale siamo stati redenti ci invita a compiere tutti i doveri della pietà cristiana. Così noi celebreremo, con le anime e i corpi purificati, questo mistero della Passione del Signore, che è fra tutti il più sublime. È vero che noi dovremmo ogni giorno essere al cospetto di Dio con incessante devozione e rispetto continuo come vorremmo essere trovati nel giorno di Pasqua. Ma poiché questa forza d’animo è di pochi; e per la fragilità della carne, viene rilassata l’osservanza più austera, e dalle varie occupazioni della vita presente viene distratta la nostra attenzione, accade necessariamente che la polvere del mondo contamini gli stessi cuori religiosi. Perciò è di grande vantaggio per le anime nostre questa divina istituzione, perché questo esercizio della S. Quaresima ci aiuti a ricuperare la purità delle nostre anime, riparando con le opere pie e con i digiuni, gli errori commessi negli altri momenti dell’anno. Ma per non dare ad alcuno il minimo motivo di disprezzo o di scandalo, è necessario che il nostro modo di agire non sia in disaccordo col nostro digiuno, perché è inutile diminuire il nutrimento del corpo, quando l’anima non si allontana dal peccato » (2° Notturno). – In questo tempo favorevole e in questi giorni di salute, purifichiamoci con la Chiesa (Oraz.) « col digiuno, con la castità, con l’assiduità ad intendere e meditare la parola di Dio e con una carità sincera » (Epist.).

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XC: 15; XC: 16

Invocábit me, et ego exáudiam eum: erípiam eum, et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum.

[Mi invocherà e io lo esaudirò: lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni.]

Ps XC:1 Qui hábitat in adjutório Altíssimi, in protectióne Dei cœli commorábitur.

[Chi àbita sotto l’égida dell’Altissimo dimorerà sotto la protezione del cielo].

Invocábit me, et ego exáudiam eum: erípiam eum, et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum.

[Mi invocherà e io lo esaudirò: lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Deus, qui Ecclésiam tuam ánnua quadragesimáli observatióne puríficas: præsta famíliæ tuæ; ut, quod a te obtinére abstinéndo nítitur, hoc bonis opéribus exsequátur.

[O Dio, che purífichi la tua Chiesa con l’ànnua osservanza della quaresima, concedi alla tua famiglia che quanto si sforza di ottenere da Te con l’astinenza, lo compia con le opere buone.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios. 2 Cor VI:1-10.

“Fratres: Exhortámur vos, ne in vácuum grátiam Dei recipiátis. Ait enim: Témpore accépto exaudívi te, et in die salútis adjúvi te. Ecce, nunc tempus acceptábile, ecce, nunc dies salútis. Némini dantes ullam offensiónem, ut non vituperétur ministérium nostrum: sed in ómnibus exhibeámus nosmetípsos sicut Dei minístros, in multa patiéntia, in tribulatiónibus, in necessitátibus, in angústiis, in plagis, in carcéribus, in seditiónibus, in labóribus, in vigíliis, in jejúniis, in castitáte, in sciéntia, in longanimitáte, in suavitáte, in Spíritu Sancto, in caritáte non ficta, in verbo veritátis, in virtúte Dei, per arma justítiæ a dextris et a sinístris: per glóriam et ignobilitátem: per infámiam et bonam famam: ut seductóres et veráces: sicut qui ignóti et cógniti: quasi moriéntes et ecce, vívimus: ut castigáti et non mortificáti: quasi tristes, semper autem gaudéntes: sicut egéntes, multos autem locupletántes: tamquam nihil habéntes et ómnia possidéntes.” –  Deo gratias.

[Fratelli: Vi esortiamo a non ricevere invano la grazia di Dio. Egli dice infatti: «Nel tempo favorevole ti ho esaudito, e nel giorno della salute ti ho recato aiuto». Ecco ora il tempo favorevole, ecco ora il giorno della salute. Noi non diamo alcun motivo di scandalo a nessuno, affinché il nostro ministero non sia screditato; ma ci diportiamo in tutto come ministri di Dio, mediante una grande pazienza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angustie, nelle battiture, nelle prigioni, nelle sommosse, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con la purità, con la scienza, con la mansuetudine, con la bontà, con lo Spirito Santo, con la carità sincera, con la parola di verità, con la potenza di Dio, con le armi della giustizia di destra e di sinistra; nella gloria e nell’ignominia, nella cattiva e nella buona riputazione; come impostori, e siam veritieri; come ignoti, e siam conosciuti; come moribondi, ed ecco viviamo; come puniti, e non messi a morte; come tristi, e siam sempre allegri; come poveri, e pure arricchiamo molti; come privi di ogni cosa, e possediamo tutto]. (2 Cor VI, 1-10).

FAR FARE BUONA FIGURA A DIO.

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)]

Veramente S. Paolo in questo brano di lettera parla se non proprio ai Sacerdoti, certo per i ministri di Dio. Per fortuna, ministri di Dio, in un certo senso almeno, lo siamo tutti noi Cristiani, dobbiamo esserlo, e perciò vale per noi tutti la esortazione fondamentale per gli Apostoli: evitare le brutte figure (morali) e fare bella figura (morale). E la ragione addotta è quella che rende la esortazione più interessante e più universale: col non fare brutta figura, fare anzi bella figura, noi, per… non far fare brutta figura, per far fare bella figura a Dio. Ne siamo i ministri: ecco perché le nostre belle o brutte figure rimbalzano su di Lui. Rappresentanti di Dio! Che grande parola. Ed essa è proprio matematicamente esatta, precisa quando si tratta di noi Sacerdoti, di noi apostoli veri e propri. La gente ci confonde un po’ con Dio; giudica Lui, giudica della Religione da quello che noi, proprio noi, siamo e facciamo. Ma giudizi analoghi gli uomini senza fede o con poca fede pronunciano davanti alla condotta di un fedele Cristiano. E se questi sono buoni, il volgo suddetto ne conclude che buona è la Religione, buono è quel Dio di cui la Religione si ispira e nutre. Ma viceversa con la stessa logica fa rimbalzare sulla Religione, su Dio, le nostre miserie. E conclude che la Religione non serve a nulla, a nulla di buono e grande, quando nulla di grande e di buono essa produce in noi. – Il ragionamento per cui si giudica della Religione in sé, della sua bontà ed efficacia universale da uno a pochi casi, è un ragionamento che vale fino ad un certo punto, zoppica, zoppica assai, alla stregua della logica pura ed ideale. Zoppica ma cammina. Non avrebbe il diritto di farlo ma lo si fa, con una facilità, una frequenza, una sicurezza impressionante. E di questo bisogna tener conto, che lo si fa, come teniamo conto, nella vita, di tanti altri fatti che ci appaiono o misteriosi o paradossali, ma sono fatti e « contra factum non valet argumentum. » Questo fatto deve metterci addosso un brivido ed un fuoco. Brivido di terrore pensando alla debolezza delle nostre spalle, al peso davvero formidabile. Si fa così presto noi a cadere. Quando e dopo che avremo ubbidito agli istinti egoistici e alla loro desolante miseria, si dirà da parecchi: ecco che cosa è la Religione! Ecco a cosa serve Dio! Noi avremo screditato, noi screditeremo, noi screditiamo ciò che al mondo vi è di più sacro. Sconquassiamo dei pilastri giganteschi della vita. Perciò prendiamo come programma nostro la parola di Paolo: « noi non diamo di scandalo in cosa alcuna. » E non fermiamoci, ma continuiamo: « anzi ci mostriamo in ogni cosa degni di raccomandazione. » Il che non sarà che un rifarci alla bella parola di Gesù Cristo: « veggano tutto il bene che voi fate, voi, miei discepoli, e glorifichino perciò il Padre che sta nei Cieli ». – Dicano amici e nemici osservandoci: come sono buoni i veri figli di Dio; come è buono il Padre celeste che li ispira e li guida.

 Graduale

Ps XC,11-12

Angelis suis Deus mandávit de te, ut custódiant te in ómnibus viis tuis.

In mánibus portábunt te, ne umquam offéndas ad lápidem pedem tuum.

[Dio ha mandato gli Ángeli presso di te, affinché ti custodíscano in tutti i tuoi passi. Essi ti porteranno in palmo di mano, ché il tuo piede non inciampi nella pietra.]

Tractus.

Ps XC: 1-7; XC: 11-16

Qui hábitat in adjutório Altíssimi, in protectióne Dei cœli commorántur.

V. Dicet Dómino: Suscéptor meus es tu et refúgium meum: Deus meus, sperábo in eum.

V. Quóniam ipse liberávit me de láqueo venántium et a verbo áspero.

V. Scápulis suis obumbrábit tibi, et sub pennis ejus sperábis.

V. Scuto circúmdabit te véritas ejus: non timébis a timóre noctúrno.

V. A sagitta volánte per diem, a negótio perambulánte in ténebris, a ruína et dæmónio meridiáno.

V. Cadent a látere tuo mille, et decem mília a dextris tuis: tibi autem non appropinquábit.

V. Quóniam Angelis suis mandávit de te, ut custódiant te in ómnibus viis tuis.

V. In mánibus portábunt te, ne umquam offéndas ad lápidem pedem tuum,

V. Super áspidem et basilíscum ambulábis, et conculcábis leónem et dracónem.

V. Quóniam in me sperávit, liberábo eum: prótegam eum, quóniam cognóvit nomen meum,

V. Invocábit me, et ego exáudiam eum: cum ipso sum in tribulatióne,

V. Erípiam eum et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum, et osténdam illi salutáre meum.

[Chi abita sotto l’égida dell’Altissimo, e si ricovera sotto la protezione di Dio.

Dica al Signore: Tu sei il mio difensore e il mio asilo: il mio Dio nel quale ho fiducia.

Egli mi ha liberato dal laccio dei cacciatori e da un caso funesto.

Con le sue penne ti farà schermo, e sotto le sue ali sarai tranquillo.

La sua fedeltà ti sarà di scudo: non dovrai temere i pericoli notturni.

Né saetta spiccata di giorno, né peste che serpeggia nelle tenebre, né morbo che fa strage al meriggio.

Mille cadranno al tuo fianco e dieci mila alla tua destra: ma nessun male ti raggiungerà.

V. Poiché ha mandato gli Angeli presso di te, perché ti custodiscano in tutti i tuoi passi.

Ti porteranno in palma di mano, affinché il tuo piede non inciampi nella pietra.

Camminerai sull’aspide e sul basilisco, e calpesterai il leone e il dragone.

«Poiché sperò in me, lo libererò: lo proteggerò, perché riconosce il mio nome.

Appena mi invocherà, lo esaudirò: sarò con lui nella tribolazione.

Lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni, e lo farò partécipe della mia salvezza».]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.

Matt IV: 1-11

“In illo témpore: Ductus est Jesus in desértum a Spíritu, ut tentarétur a diábolo. Et cum jejunásset quadragínta diébus et quadragínta nóctibus, postea esúriit. Et accédens tentátor, dixit ei: Si Fílius Dei es, dic, ut lápides isti panes fiant. Qui respóndens, dixit: Scriptum est: Non in solo pane vivit homo, sed in omni verbo, quod procédit de ore Dei. Tunc assúmpsit eum diábolus in sanctam civitátem, et státuit eum super pinnáculum templi, et dixit ei: Si Fílius Dei es, mitte te deórsum. Scriptum est enim: Quia Angelis suis mandávit de te, et in mánibus tollent te, ne forte offéndas ad lápidem pedem tuum. Ait illi Jesus: Rursum scriptum est: Non tentábis Dóminum, Deum tuum. Iterum assúmpsit eum diábolus in montem excélsum valde: et ostendit ei ómnia regna mundi et glóriam eórum, et dixit ei: Hæc ómnia tibi dabo, si cadens adoráveris me. Tunc dicit ei Jesus: Vade, Sátana; scriptum est enim: Dóminum, Deum tuum, adorábis, et illi soli sérvies. Tunc relíquit eum diábolus: et ecce, Angeli accessérunt et ministrábant ei.”

[In quel tempo: Gesù fu condotto dallo Spírito nel deserto per essere tentato dal diavolo. Ed avendo digiunato quaranta giorni e quaranta notti, finalmente gli venne fame. E accostàtosi il tentatore, gli disse: Se sei il Figlio di Dio, di’ che queste pietre divéntino pani. Ma egli rispose: Sta scritto: Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio. Allora il diavolo lo trasportò nella città santa, e lo pose sul pinnàcolo del tempio, e gli disse: Se sei il Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ha mandato gli Ángeli presso di te, essi ti porteranno in palmo di mano, ché il tuo piede non inciampi nella pietra. Gesù rispose: sta anche scritto: Non tenterai il Signore Dio tuo. Di nuovo il diavolo lo trasportò sopra un monte altíssimo e gli fece vedere tutti i regni del mondo e la loro magnificenza, e gli disse: Ti darò tutto questo se, prostrato, mi adorerai. Ma Gesù gli rispose: Vàttene Sàtana, perché sta scritto: Adorerai il Signore Dio tuo e servirai Lui solo. Allora il diàvolo lo lasciò, ed ecco che gli si accostàrono gli Angeli e lo servívano..]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

GLI SPIRITI

Gesù lascia le acque del Giordano e va nelle sabbie del deserto. Quarant’anni il popolo di Israele dovette camminare prima di giungere nel regno promesso da Dio; quaranta giorni Mosè dovette rimanere sulla cima nubilosa del Sinai per ascoltare le leggi del Signore; quaranta giorni Elia ramingò nel deserto per sfuggire la vendetta della cattiva regina e digiunò quaranta giorni prima di ottenere l’acqua sulla terra isterilita dalla siccità; ed anche Gesù si ritira quaranta giorni nella solitudine prima d’annunciare ai popoli il Regno del Cielo. Là non più voce d’uomo, non più acqua fresca e scorrente, non campi di grano, non vigneti, ma pietraie scottanti e serpenti e rovi. Veramente non è tutto solo. Sono con Lui le creature inferiori all’uomo: gli animali. Sono con Lui le creature superiori all’uomo: gli spiriti. E da prima è lo spirito cattivo, il demonio, che s’avvicina a tentarlo con la triplice tentazione del deserto, del tempio, del monte. Ma a tutte e tre le tentazioni, a quella di convertire le pietre in pane, a quella di gettarsi dal vertice del tempio, e quella di adorare satana sul monte, Gesù risponderà con un grido terribile: « Va via demonio! » E il demonio, svergognato, lo abbandonò. Allora vennero gli spiriti buoni, gli Angeli, intorno a Lui e lo servivano. In questa vita anche l’uomo, come Gesù nel deserto, è il centro di una grande guerra: da una parte i demoni, spiriti del male, che lo vogliono abbassare tutto nella materia, e perderlo; dall’altra gli Angeli, spiriti del bene, che lo vogliono innalzare alle nobiltà dello spirito, e salvarlo. L’esistenza di questi spiriti appare con evidenza dal Vangelo di questa prima domenica di quaresima: volerla negare, sarebbe negare il Vangelo, negare Gesù Cristo e la sua Religione divina. Ed io credo che non è senza utilità fermarci un momento a considerare l’influsso che gli spiriti, buoni e cattivi, possono esercitare sull’anima nostra. – 1. I DEMONI. a) La loro natura. La Scrittura non lo dice apertamente, poiché Mosè temeva che il suo popolo duro e grossolano cadesse in idolatria, ma frequentemente fa intuire la creazione degli Spiriti. Questi innumerevoli figli raggianti dell’Altissimo si letiziavano nel Paradiso mentre l’esercito degli astri, sul mattino della vita, faceva udire le sue armonie. Ma una volta seguì in cielo una gran battaglia. Uno degli Angeli più belli, splendente come il sole a mezzodì, lucifero, dimenticò di essere una creatura di Dio e nella sua superbia volle innalzarsi fino al trono dell’Altissimo e paragonarsi a Lui. Altri Spiriti, ingannati, lo seguirono nel peccato. Ed ecco: Michele co’ suoi Angeli combatte contro i ribelli, e li vince e li scaccia dal cielo (Apoc., XII). E Dio non perdonò agli angeli che peccarono, ma cacciatoli nell’inferno, li imprigionò nel fuoco e nella maledizione sua nella quale vivono tormentati (II Petr., II, 4). Da allora l’Angelo che fu precipitato si chiama diavolo e satana, e seduce tutto il mondo. Seducit universum orbem (Apoc., XII, 9). Da allora, divenuto nostro avversario, s’aggira tra gli uomini come un fulvo leone ruggente cercando chi divorare. (I Petr., V, 8). b) Il loro potere! S. Bonaventura (Theol., II, 26) ci dipinge in un quadro fosco i demoni e la loro astuzia contro le anime: « Sono spiriti impuri, nemici del genere umano. Gonfi di superbia, intelligentissimi a fare il male, non desiderano altro che nuocerci e sanno sempre scovare frodi nuove. Travolgono i sentimenti; insidiano di giorno, e di notte infestano i dormienti con sogni; sanno perfino trasfigurarsi in Angeli di luce; e sempre cercano la rovina finale dell’anima ». Immutant sensus: l’uomo capisce che tutte le cose di quaggiù, e gli onori e i danari e i piaceri, durano poco e passano come il fumo sopra il tetto, mentre Dio solo rimane e l’anima nostra. Eppure, una forza maligna lo attrae verso le cose bugiarde e lo distoglie da quelle eternamente vere. Il demonio ha la sua parte nel farci travedere le cose. Vigilantes turbant: chi suscita i fantasmi impuri nella nostra mente, anche quando siamo nella quiete della nostra casa, anche quando siamo nella santità del tempio di Dio? Il demonio. E talvolta neppure nelle ore di riposo il demonio ha requie, ma ci sconvolge con sogni cattivi e paurosi. Dormientes per somnia inquietant. Spesso astutamente sa prendere la voce e la figura dell’Angelo buono. In lucis Angelum se transformant. Racconta S. Tommaso di un monaco, che aveva fatto il proposito di non uscire più dalla sua cella, il quale continuamente udiva una voce che lo invitava ad uscire almeno per fare la Comunione. C’è qualche cosa di più santo della Comunione? e il monaco uscì. Ma la voce non s’acquietò. Era morto in quei giorni il padre di quel monaco ed aveva lasciato molti beni. « Torna a casa tua, almeno un giorno, — dicevagli la voce, — vendi ogni cosa e distribuisci ai poveri ». C’è qualche cosa di più evangelico che dare ogni cosa ai poveri? Uscì il monaco dal convento, e andò a casa, ma non ritornò più: e morì in peccato mortale. Qualche volta anche noi abbiam sentito la voce di quest’angelo bugiardo dirci così: « Perché vuoi star ritirato sempre in casa? Va alla finestra, scendi nella strada! Che c’è di male in un teatro, che c’è di male in un ballo? Che c’è? il demonio. c) La nostra difesa. Ma è possibile, penseranno alcuni, vincere un nemico che non si vede? È possibilissimo: con la preghiera, con la vigilanza, con la mortificazione. – Con la preghiera: l’Apostolo S. Bartolomeo, recatosi ad evangelizzare l’India, mentre se ne andava sconosciuto tra la folla udì un indemoniato gridare: « Apostolo di Dio, le tue orazioni mi bruciano tutto! » Più che la fiamma dell’inferno, al demonio fa male la preghiera dei Cristiani. – Con la vigilanza: vigilate, perché il demonio è furbo. Guai a concedergli qualche cosa, subito vi rapirà tutto. Nolite locum dare diabolo (Ef., IV, 27). È nota la favola del riccio che, una serataccia di temporale, piangendo chiese alla volpe ricovero nella sua tana. La volpe, non furba abbastanza, lo accolse. Dapprima si roggomitolò in un cantuccio, poi a poco a poco distese le sue membra pungentissime, fin tanto che la volpe disperata dovette uscir fuori a morire sotto la pioggia e la gragnola. Così il demonio. L’anima che non resiste subito diventa tutta sua. – Con la mortificazione: l’ha scritto S. Paolo: « armatevi con l’armatura di Dio perché possiate far contro all’insidia del diavolo, noi, non appena con la carne e col sangue, abbiamo da guerreggiare, ma soprattutto con il principe del male, con il reggitore del mondo tenebroso » (Ef., VI, 11). – 2. GLI ANGELI. Prima ancora che si levasse il sole Giuda Maccabeo attaccò battaglia: un nemico terribile, fortissimo, e fresco di forze gli stava di fronte. Ma nel fervore cruento della mischia furono visti discendere dal cielo cinque personaggi a cavallo, magnificamente adorni con freni d’oro; e capeggiarono l’esercito d’Israele. Due di essi, ai lati di Giuda, lo preservarono dalle ferite, coprendolo con le loro armature corrusche; gli altri lanciavano saette e fulmini contro i nemici, che accecati dal barbaglio, cadevano scompigliatamente. Mentre calava, il sole illuminò una pianura coperta di morti: ventimila e cinquecento fanti, e seicento cavalieri (II Macc., X, 29). Quanta consolazione c’ispira questo episodio! Dunque, non siamo soli a combattere contro il feroce nemico d’inferno, ma gli Angeli del Signore, benché non li vediamo, sono intorno a noi e combattono per noi. Iddio per incoraggiare il popolo di Israele che doveva attraversare il deserto e lottare con molti popoli gli fece questa promessa: « Ecco che io manderò il mio Angelo, il quale vada dinanzi a te, e ti custodisca nel viaggio, e ti introduca nel paese che Io ho preparato. Onoralo e ascolta la voce e guardati dal disprezzarlo: per ch’egli non ti perdonerà se farai del male, e il mio Nome è in lui. Che se tu ascolterai la sua voce, Io sarò nemico de’ tuoi nemici e perseguiterò coloro che ti perseguiteranno » (Esodo, XXIII, 20-22). Queste parole, Dio le ripete ad ogni uomo che nasce quando gli destina l’Angelo custode che andrà davanti a lui nel viaggio della vita e lo aiuterà fino a condurlo in Paradiso. Queste parole contengono anche tutto quello che gli Angeli fanno per noi, e tutto quello che noi dovremmo fare per gli Angeli. a) Che fanno per noi gli Angeli? Offrono le nostre preghiere e le opere buone a Dio e le rendono così più gradita « Ero io che innalzavo le tue orazioni al cospetto del Signore » confessò l’arcangelo Raffaele al giovanetto Tobia. Illuminano la nostra mente nei dubbi, ci avvisano nei pericoli. Era sempre un Angelo che illuminava Giuseppe nei suoi dubbi, che lo consigliava a fuggire in Egitto o a ritornare a Nazareth, quando il persecutore era morto. Ci aiutano nei nostri bisogni, sollevandoci nelle fatiche e nelle malattie. Quando S. Isidoro contadino stanco e bruciato dalla canicola si gettava sotto qualche albero a riposare o a pregare, era il suo Angelo che reggeva l’aratro, che pasceva i muli, che allontanava i lupi dall’ovile. – Ci difendono dai pericoli dell’anima e del corpo. I tre fanciulli che Nabucodonosor gettò nella fornace ardente, non arsero perché l’ala d’un Angelo li circondò. Ci castigano talvolta, come una buona mamma fa col suo bambino. San Gerolamo una notte fu battuto da un Angelo, perché da tempo smaniava nella lettura di libri profani, trascurando i sacri. – Ci consolano nei dispiaceri: quando Gesù, agonizzò nel Getsemani ed espresse sudore di sangue, scese un Angelo e lo consolò. b) Se gli Angeli sono così buoni con noi, che dobbiamo fare per loro? Prima di tutto, se siamo in disgrazia di Dio, purificarci subito la coscienza dal peccato, poiché sta scritto che gli Angeli godono di più per un peccatore che fa penitenza che non per novantanove giusti. Poi, guardiamoci bene dal commettere qualsiasi atto che li possa disgustare: ma ascoltiamo la loro voce, onoriamoli, supplichiamoli. Infine, non scandalizziamo nessuno né con parole né con gesti; ma specialmente abbiamo una squisita delicatezza per i piccoli: i loro Angeli nel cielo vedono sempre la faccia di Dio. Angeli enim eorum in cœlis semper vident faciem Patris (Mt., XVIII, 10). – Giuditta, tremando di gioia, ritornava alla città. Stringeva nella mani la testa orrenda di Oloferne che ancora grondava. E come fu dentro alla porta di Betulia, e come tutto il popolo accorse attorno alla liberatrice, ella salì in alto e scoppiò in un grido : « Viva il Signore! Fu un Angelo che nel passare custodì me, donna inerme tra le schiere degli armati; fu un Angelo che avvalorò il braccio debole e ignaro quando nelle tenebre notturne e nel silenzio spiccai dal tronco questo capo; fu un Angelo che illesa e ignota mi ricondusse tra voi: viva il Signore! » (Giuditta, XIII, 20). – Cristiani, se praticheremo le riflessioni che abbiamo dedotto dal Santo Vangelo, noi pure un giorno entreremo in paradiso, con la testa del demonio stroncata, e ai Santi narreremo come Giuditta: « Viva il Signore! Un Angelo m’ha custodito di giorno in giorno: un Angelo mi ha fortificato a vincere il demonio; un Angelo mi ha guidato salvo in cielo: viva il Signore ». Intanto però abbiamo da combattere. I demoni furono cacciati dal cielo: noi dobbiamo cacciarli anche dalla terra. Gli Angeli ci aiuteranno. Vade, satana! (Mt., IV, 10). –LE TRE TENTAZIONI. Lungo la costa occidentale del mar Morto si distende una regione desolata e desolante. Non una palma verde che conforti la vista, non un’acqua limpida che placa l’arsura, non un uccello che rallegri il silenzio cupo: ma da per tutto colline ineguali e sabbia gialla che s’inseguono senza respiro, picchi rocciosi soprastanti ai torrenti disseccati, ampie radure brulle ove par che la vita sia scomparsa. E di quando in quando, sopra quella terra morta, quasi a contristarla di più, se fosse possibile, si precipita il soffio affocato del vento. Fu appunto da questo luogo che Gesù cominciò la redenzione. « Ductus est in desertum… ». Ma il deserto delle tentazioni è un’immagine della vita nostra dopo il peccato: valle di lacrime è la terra, e sopra di essa spira il vento soffocante delle tribolazioni e il demonio viene a tentarci. In principio non era così. Giardino di gioia era la terra, e l’uomo re magnifico con la grazia di Dio. Ma in quel giorno in cui l’uomo cedette alla tentazione del serpente, il giardino divenne un deserto. O ecco: e Gesù viene nel deserto per vincere la tentazione del demonio e rifare nel deserto il magnifico giardino della grazia di Dio. È necessario, dunque, meditare come Gesù sia stato tentato, — poiché nello stesso modo noi pure siam tentati; e come Gesù abbia vinto le tentazioni, perché è con le medesime armi che noi pure dobbiamo vincere. – 1. LA TENTAZIONE DELLA VITA SENSUALE. Dopo quaranta giorni di digiuno, Gesù ha fame: e il tentatore gli va daccanto: « Converti queste pietre in pane ». Il pane! il cibo del corpo: la vita sensuale in tutte le sue manifestazioni, ecco dove il demonio tenta di far affogare l’anima. Date uno sguardo al mondo: quanta gente corre, si agita, suda, soffre… ma per interessi materiali; per il pane, per far danaro, per aver roba, per godere. Si profana la festa: per il pane. Si viola la giustizia: per il danaro. Si litiga con odio: per la roba. Si trasgredisce ogni legge: per godere. Ma Gesù rispose al tentatore: « Non di solo pane vive l’uomo! ». Ricordiamoci che abbiamo anche l’anima da salvare. – Ci fu un uomo a cui la fortuna aveva largito a piene mani ogni ricchezza: denaro e terra. Un anno, fu tale l’abbondanza che andava pensando: « Dove potrò mettere tutta questa roba? ». E risolvette di far così: « Demolirò i miei vecchi granai, e ne costruirò dei nuovi e più capaci: vi ammasserò i prodotti e le mie cose. E allora sì che potrò dire all’anima mia: « O anima! ne hai qui per molti anni: mangia, bevi, dormi e sta allegra… ». Ma una voce gli scoppiò daccanto come folgore: « Stolto! stanotte morrai… E tutta la tua roba di chi sarà? ». – 2. LA TENTAZIONE DELL’ESPORSI AL PERICOLO. Il diavolo, vinto la prima volta, trasporta Gesù sul fastigio del tempio e gli dice: « Buttati giù! che non ti farai male: ma ti sosterranno gli Angeli e ti adageranno a terra… ». Una bella pretesa! buttarsi già da un alto tetto e illudersi di non rompere il collo!… È come andar nel fuoco e non bruciare. Ma non è forse più sciocca la pretesa di non pochi Cristiani che vogliono mettersi nelle occasioni e ripromettersi di non peccare?… – Dicono che una notte, sulle montagne di Delfo, s’aprì un baratro da cui esalava un olezzo inebriante tutto intorno. E l’impressione olfattiva era così deliziosa e strana che penetrava il cervello, invadeva il corpo intero in ogni fibrilla. Furon visti pastori, urlando, correre all’impazzata verso l’abisso, e gregge intere, belando, essere attratte nelle spire del magico profumo: e tutti sparire nel baratro fatale. Ma un giorno, sul mercato di Delfo, apparve un uomo che, in piccole scatole, vendeva il rimedio contro l’incantesimo del baratro. Un mandriano, che teneva dei pascoli vicini a quel luogo funesto, comprò il rimedio e corse a casa per mostrarlo agli amici. E sotto a cento occhi attoniti, aprì la scatola e trovò… un semplice gomitolo di spago con la scritta: « Se vuoi salvarti dal baratro sta lontano tanto così! ». Lontano, dunque da certi luoghi dove si offende Dio; lontano da quelle persone che ci scandalizzano, lontano da quegli oggetti, da quelle figure, da quei libri che esalano un profumo inebriante, ma fatale. – 3. LA TENTAZIONE DI COLLOCARE LA FELICITÀ NEL MALE. Oh! il demonio in quell’ultimo giorno d’innocenza, là, nel Paradiso terrestre, come deve aver saputo trasfigurare sotto gli occhi ingenui di Eva quel frutto proibito! E quella lo credette il più mirabile a vedersi, il più delizioso a gustarsi, il frutto insomma che solo poteva farla felice a pieno: « vidit mulier quod esset bonum ad vescendum et pulchrum oculis ». Ed Eva protese la mano e lo mangiò… ma sotto ai suoi morsi golosi quel frutto si tramutò in veleno. La medesima astuzia, il tentatore usò con Gesù; usa con noi. Il diavolo trasportò Gesù su la vetta eccelsa di un monte e gli disse: « Guarda: se sei capace di adorarmi in ginocchio, ti farò re di questi imperi ». Non è forse vero che prima del peccato ci par proprio che nel frutto proibito troveremo felicità? E l’ingenua anima dell’uomo, dietro alla lusinga di esser regina, è fatta schiava di satana. – « Adorami, fa quel peccato » sibila il demonio, « e sarai un re ». Anche un’aquila, dice la leggenda, udì una voce che la chiamava al fondo della valle. Abituata alle cime supreme e nude e gelide, un giorno vide il fondo della valle colorito di fiori e sembrava che un’iride si fosse infranta in mille pezzi sul verde tappeto. E le parvero scabrosi i suoi greppi natali sospesi tra le nuvole e l’azzurro e discese giù. S’inebriò di quei colori, si irrorò nella rugiada, si distese sull’erba e sui fiori, con aperte le ali, quasi a raccogliere il profumo. E poi fece per risalire. Infelice! L’ala non remeggiava più: un piccolo serpentello nascosto sotto l’ala la mordeva col dente del veleno. La povera aquila guardò allora, con occhio velato, il suo greppo natale tra nuvola e cielo: mandò l’ultimo strido e morì. – Quest’aquila è l’anima nostra nata per le sublimi altezze. La lusinga della valle fiorita, ma col serpente tra i fiori, è la lusinga del peccato; è la terza tentazione di Gesù. Se non vogliamo soccombere, appena il tentatore comincia la sua suggestione, facciamoci il segno della croce, chiamiamo Gesù e con Lui gridiamo: «Io adoro Dio. In Lui solo e nella sua volontà è la mia pace. Va via, satana! ». – Agonizzare pro anima tua. — Lottare contro tutte le tentazioni del demonio e vincere come Gesù, con Gesù, per Gesù. E quando saran finiti i quaranta giorni del deserto, ossia i pochi anni della vita mortale, noi pure allora vedremo gli Angeli scendere dal cielo e condurci al convivio eterno. Ecce angeli accesserunt et ministrabant.

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps XC: 4-5:

Scápulis suis obumbrábit tibi Dóminus, et sub pennis ejus sperábis: scuto circúmdabit te véritas ejus.

[Con le sue penne ti farà schermo, il Signore, e sotto le sue ali sarai tranquillo: la sua fedeltà ti sarà di scudo.]

Secreta

Sacrifícium quadragesimális inítii sollémniter immolámus, te, Dómine, deprecántes: ut, cum epulárum restrictióne carnálium, a noxiis quoque voluptátibus temperémus.

[Ti offriamo solennemente questo sacrificio all’inizio della quarésima, pregandoti, o Signore, perché non soltanto ci asteniamo dai cibi di carne, ma anche dai cattivi piaceri.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

Communio

Ps XC: 4-5

Scápulis suis obumbrábit tibi Dóminus, et sub pennis ejus sperábis: scuto circúmdabit te véritas ejus.

[Con le sue penne ti farà schermo, il Signore, e sotto le sue ali sarai tranquillo: la sua fedeltà ti sarà di scudo.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Postcommunio

Orémus.

Qui nos, Dómine, sacraménti libátio sancta restáuret: et a vetustáte purgátos, in mystérii salutáris fáciat transíre consórtium.

[Ci ristori, o Signore, la libazione del tuo Sacramento, e, dopo averci liberati dall’uomo vecchio, ci conduca alla partecipazione del mistero della salvezza.

]PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

INGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (241)

LO SCUDO DELLA FEDE (241)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (9)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

ART. V.

LAVARSI LE MANI.

Il sacerdote si reca perciò dal lato sinistro dell’altare, e si lava le mani. Noi daremo brevemente la storia di questo rito e la sua significazione per ispirarci della sua santità. Questo rito di lavarsi e di purificarsi prima di trattar le cose sacre, forse è antico, come è antico, anzi naturale, il sentimento, che ha la creatura ragionevole, di essere indegna per le colpe di trattar colla Divinità. Anche nell’antica legge i sacerdoti si purificavano colla lavanda prima di accingersi al Sacrificio, e nel cortile dell’antico tempio di Gerusalemme era posta una gran vasca, chiamata mare di bronzo, in cui si lavavano gli Israeliti in sullo entrare nel luogo santo. Fra tutti i riti degli antichi popoli, che accennano al dovere di purificarsi, piace a noi di ricordare una legge dei sacerdoti egiziani, come accenna san Girolamo. Essi erano obbligati a vestire per le loro funzioni candidissimi lini, e a conservarli mondi così, che, se si fosse trovato morto un minuto insetto nei loro abiti, venivano condannati a morte. Che gran lezione per noi!… La Chiesa pertanto non poteva fare a meno di adottare il rito di purificarsi coll’acqua, per esprimere il desiderio della mondezza interiore, il quale rito fu sempre accetto e adottato dagli antichi Cristiani, usi fino da’ primi tempi anch’essi a lavarsi prima di entrare nelle chiese. S. Cirillo (Catech. Mystag. 5.) dice che era officio del diacono, (che poi fu da s. Clemente assegnato al suddiacono), di porger l’acqua da lavare le mani, non solamente al celebrante, ma anche agli altri preti assistenti all’altare; ed osserva come era simbolo della mondezza, che si richiedeva pei santi misteri. Di qui l’uso di porre alle porte delle chiese le pile dell’acqua benedetta, in cui il popolo fedele s’asterge. Quest’acqua alla porta ci ricorda che noi siamo stati purificati col Sangue di Gesù Cristo nell’acqua del santo Battesimo; e con benedirci con quell’acqua col segno di croce si vuol dir che copriamo le nostre miserie colle piaghe di Gesù, e corriamo sotto al vessillo, a cui fummo ascritti, quando il nostro nome nel Battesimo fu scritto nel libro della vita. Con la pratica di segnarci in contrizione si ottiene la remissione dei peccati, ed il sommo Pontefice Pio IX concesse cinquanta giorni d’indulgenza tutte le volte, che ci segniamo; e cento sempre che ci segniamo coll’acqua santa. È perciò commendevole l’uso di segnarci nell’entrar ed uscir di Chiesa, e nelle case cristiane, prima e dopo il cibo, affine di alimentarci a gloria di Lui, nel porci a riposo, nel sorgere ai nostri doveri, e negli istanti delle più pericolose tentazioni; per porre in fuga i nemici delle anime nostre, mettendoci sotto la croce del Salvatore, vessillo delle nostre speranze, innanzi a cui trema l’inferno. Il sacerdote si lava qui, non perché aspetti a purificarsi in quest’istante; ma perché, qualunque sia la purificazione che l’uomo abbia premessa, allorché si avvicina il momento tremendo, in cui si ha da trovar faccia a faccia colla Santità sostanziale, debbe sentire la necessità di fare uno sforzo ancora per purificarsi di nuovo. Per questo il Sacerdote, ritiratosi alquanto in un angolo, pare che chieda un po’ di tempo a raccogliersi in se stesso, e fare quest’ultima prova, e quindi esclama nel lavarsi: Lavabo.

Il Salmo: Lavabo.

« Laverò le mie mani fra gl’innocenti e circonderò il vostro altare, o Signore: Lavabo inter innocentes manus meas, et circumdabo altare tuum, Domine. » Quasi dicesse: Signore! È questo un popolo di rigenerati all’innocenza, segregato dai peccatori esclusi or ora dal luogo santo. Di questi innocenti avrò io cuore di mettermi a capo, senza prima purificarmi ancora? Per lavarmi dell’anima io non posso fare altro, che entrare nella mia coscienza, e mettere l’anima mia dinanzi a Voi confessandomi peccatore, e pregandovi di mondarmi ancor più (Ps. L). Voi colla grazia. Così purificherò le opere mie; e con mani monde m’avvicinerò ai sublimi vostri misteri. E circonderò l’altare vostro, su cui è il prezzo della nostra giustificazione. Convertiti adunque a Voi, noi ci terremo stretti al vostro altare: « ut audiam vocem laudis, et enarrem universa mirabilia tua. » – Riconoscenti alla vostra grazia, dal nostro cuore consolato pel vostro perdono escir deve una voce, che darà lode alla vostra bontà; e così noi racconteremo le vostre meraviglie. E di quali meraviglie ci rende testimonio la nostra coscienza? Ella, che mentre ci accusa per peccatori, nello stesso tempo ci consola col sentimento, che le sia ridonata l’innocenza? « Domine, dilexi decorem domus tuæ, et locum habitationis gloriæ tuæ. »Sì, o Signore, siamo peccatori, ci confessiamo tali;ma un po’ di cuor l’abbiamo, e fortunati di avervifra noi, amiamo di darvi gloria noi, in mezzo ai qualiabitate. Amiamo il decoro della vostra casa, e il luogo,dove date gloria alla vostra bontà: ed appuntoin esso ci siamo ora raccolti, segregati dai peccatori.« Ne perdas cum impiis Deus animam meam et cum viris sanguinum vitam meam, in quorum manibus iniquitates sunt, et dextera illorum repleta est muneribus. »Salvateci, o Signore, liberateci dai peccati commessi e da quelli che pur possiamo commettereancora. Ah! non isperdete insieme cogli empi l’animanostra, e cogli uomini di sangue non mandatea male questa nostra vita! Sciagurati; hannoessi le mani piene d’iniquità, e la loro destra è ripienadi doni: poveri ingannati, che tengono le cosedel mondo in prezzo maggiore, che non la vostragiustizia!« Ego autem in innocentia mea ingressus Sum, redime me, et miserere mei. »Ma, Signore, noi siamo qui entrati nella speranza di essere da voi restituiti nell’innocenza; io poi, Sacerdote e uomo meschino, ho fatto di me stesso giudizio, come ho potuto, in nome della vostra giustizia. Non mi pare di essere reo di grave colpa; ma mi dirò dunque giustificato? E chi ardirebbe dinanzi a voi dirsi innocente? Affrettatevi di redimerci: perché tutte le nostre speranze poniamo nella vostra misericordia. « Pes meus stetit in directo, in Ecclesiis benedicam te, Domine. Gloria Patri etc. » Sì, vostro è il merito, e vostra è la gloria, se abbiamo fatto bene: noi vi benediciamo qui raccolti, e le nostre opere buone saranno per noi tutti ragione di rendervi sempre nuove benedizioni. Ah! sia gloria nel tempo e nell’eternità, qual si conviene, a Dio Padre, Creatore ecc. Così sia. – Noi non crediamo di aver raggiunto a pezza il senso di questo salmo; ma speriamo di averlo almeno in qualche parte interpretato; specialmente avendo noi cercato di compendiare in qualche modo la spiegazione di s. Agostino nelle sue Enarrazioni sui salmi, e di adattarla all’occasione, in cui si recita quivi. – Ora ci resta, nel considerare questo rito, di ricavarne lezione di cristiana umiltà. « Perché, dice s. Cirillo (Catech. Mystag. 5), si lava il Sacerdote? Forse per mondarsi da corporali sozzure? E chi ardirebbe presentarsi colle mani insozzate all’altare? Nessuno al certo. Le mani adunque significano le azioni; e il lavarsi le mani significa la mondezza e la purità della vita nostra. Non avete sentito Davide, che, per disporsi a trattar santi misteri, si vuol lavare cogli innocenti le mani? Questo lavarsi le mani è adunque un simbolo, e significa di non essere immondi di peccati. Si lava solamente le estremità delle dita; il che significa, come dice s. Dionisio (S. Dion. Areop. De Eccl. Hierar., cap. 3, n. 2.), il bisogno di purificarsi anche dei leggieri peccati. Deve ben essere una vergognosa impudenza l’avvicinarsi con libertà a Gesù Cristo nel Sacramento così di frequente, quasi si avesse il diritto di trattare con Lui colla confidenza d’amico; mentre facciamo al giorno tante minute azioni, che gli dispiacciono, e ad ogni ora! In vero non si può comprendere, come osiam di portare sull’altare sempre le solite infedeltà. Per questo, uomini santi, per quanto umanamente si può, a celebrare ben preparati, s’astengono tratto tratto, dall’altare, per richiamare in giudizio davanti a Dio la propria coscienza in qualche tempo di solitudine spirituale, a render conto del profitto fatto del dono di Dio. Noi lodiam ben di cuore lo zelo dei più, che ogni giorno niente meglio desiderano, che di rendere il più grande omaggio alla ss. Trinità, parendo loro di defraudare troppo gran gloria a Dio, se non celebrassero tutte le mattine. Noi sì lodiamo e benediciamo al fervore di quelle anime predilette, la cui vita è sospiro d’amore a Gesù, ed un continuo a Lui anelare, e che non sanno altrimenti quietare ed empiere la propria fame, se non hanno con tutta dolcezza e avidità il sacro Corpo (Imit. Christi lib, 4.). Questi lodiamo, perché danno opera a tenersi ben preparati per compiere ogni giorno la più tremenda azione. Ma se veneriamo questi fervorosi, non possiamo a meno di benedire a quegli altri, che sì astengono qualche giorno, per ritirarsi e disporsi a ricevere i santi misteri meglio preparati (Imit. Christi lib. 4.): e perciò fanno nell’anno un po’ di ritiro nei santi Esercizi.

ART. VI.

L’ORAZIONE: SUSCIPE, SANCTA TRINITAS.

Il lavarsi le mani in quel punto significa la sollecitudine di un’anima, che affina i suoi pensieri, purifica i suoi affetti, e tenta deporre ogni resto di umana miseria, per sollevarsi a Dio. Questo convien massime al Sacerdote, che deve in nome di Gesù Santissimo presentarsi alla ss. Trinità, e offrirle nel Sacrificio tale un omaggio, che, sebbene mandato dalla terra, al tutto è divino. Eccolo che torna in mezzo all’altare, e s’inchina posando sopra di esso le mani giunte. In questa giacitura ricorda il Salvatore benedetto, che nella sua vita mortale offriva tutto se stesso alla gloria del suo Padre celeste: ed era come il suo cibo d’ogni ora fare la volontà di Lui fino alla morte. Onde con Gesù assorto nel pensiero della grande offerta, dice l’orazione, che comincia:

Suscipe, sancta Trinitas.

« Accogliete, o Trinità santa, questa oblazione, che vi offriamo in memoria della Passione, Risurrezione ed Ascensione di Gesù Cristo, Signor nostro, ed in onor della beata Maria sempre vergine e del beato Giovanni Battista, e dei santi Apostoli Pietro e Paolo, e di codesti e di tutti i Santi, affinché a loro torni in profitto d’onore, e per noi in profitto di salute: e intercedere per noi si degnino in cielo quegli, di cui facciamo memoria in terra. Per il medesimo Gesù Cristo, Signor nostro. Così sia. » – Per ben intendere quest’orazione, diremo che il Sacerdote, avendo già fatta l’offerta del pane e vino distintamente, ora in questa preghiera la rinnova offrendoli insieme, perché insieme sono ordinati a concorrere in unità al Sacrificio (Bened. XIV, De sac. Miss. Lib. I, cap. II, n.4). Vogliono anche alcuni, che le due prime orazioni, che accompagnano le due offerte suddette, fatte ad una ad una separatamente, venissero dal Sacerdote recitate col popolo, e poi questa solo dal Sacerdote. Per penetrare nello spirito di questa sublime preghiera, osserveremo prima di tutto, che in essa si fa menzione della Passione, Risurrezione ed Ascensione di Gesù Signor nostro, supplicando la ss. Trinità ad accogliere, in memoria di quelle, l’offerta immacolata che si va preparando. Quest’offerta dev’essere il Sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, per merito del quale solamente venivano accettati i sacrifizi antichi, che lo figuravano (Conc. Trid., Sess. XXII, cap. 1). Ora considereremo quanto appunto si sperava con quelli in figura, e lo vedremo poi tutto eseguito nel Sacrificio della Messa in un modo veramente degno di Dio. – In primo luogo per fare i sacrifizi, comandati da Dio nell’antica legge, si eleggeva la vittima: e con questa elezione quella diveniva cosa santa, e vuol dirsi segregata dagli usi profani, e a Dio devota. Questa elezione della vittima ha già fatto nel mistero dell’Incarnazione il Figlio di Dio, quando prese l’umana natura, ed immedesimandola colla sua Natura Divina si fece nostro Salvatore offrendosi da vittima e pontefice, consacrato coll’unzione della Divinità all’immortal sacerdozio (Conc. Trid., Sess. XXII, cap. 1). Da quel primo istante da cui nacque uomo il Nazareno, Figliuolo di Dio Santissimo, o come cosa tutta santa, consacrata a Dio per venir poi per noi sacrificata in sulla croce: e sospirando il momento di farlo, sclamava sino dal primo istante della sua umana esistenza: « m’avete adattato un Corpo: ecco, ecco che io vengo » (Hebr. X). In secondo luogo i sacerdoti giudaici la vittima eletta ponevano e immolavano in sull’altare, e del sangue suo cospergevano l’altare e tutto d’intorno. La vittima così immacolata era un’immagine viva di Gesù Cristo, grande vittima che fu sacrificata sul Calvario; del cui Sangue di tutte le Piaghe, e massime del santo suo Costato, fu cosperso l’altare della croce e tutto intorno (Bened. XIV, lib. I, cap. II, n. 5, De sac. Miss.). Finalmente quell’antica vittima di carne mortificata veniva abbruciata, e purificata così dal fuoco; e dall’altare, come in profumo, saliva al cielo in odore di soavità; mentre in terra il popolo vi aveva la sua parte. Anche questa era simbolo, che accennava e prometteva al cielo il profumo veramente divino della gran Vittima, che col morire crocifissa deponeva nella morte, come insegna san Paolo (2 ad Cor.), ciò che di mortale aveva, e sorgeva immortale nella Risurrezione. Nell’Ascensione poi il Redentore trionfante portava l’umana carne spiritualizzata nel più alto de’ cieli in seno al Padre; e qui in terra ancora si comunica e s’incorpora coi fedeli, per portare la nostra povera umanità alla beatitudine in Paradiso in seno al Padre. – Ora ecco perché (Bened. XIV, ibi) nella Messa si supplica che sia accolto quel Sacrificio in memoria prima della Passione; perché come nella passione la gran vittima per la divina incarnazione già preparata, venne uccisa e colla morte distrutta; così nella futura consacrazione la vittima misticamente sì svenerà, e misticamente si distruggerà, e si priverà di vita, presentandosi come agnello trafitto, dal cui corpo è tratto il sangue sino all’ultima goccia. E per questo fine appunto si consacra il Corpo e il Sangue sotto diverse specie, l’una dall’altra divisa (S. Thom. 3 p., 74, art. 1.). Diremo, nel Sacrificio della Messa Gesù Cristo si offre davanti al Padre col suo Corpo proprio come era pendente in croce, là svenato col suo Sangue come era diviso dal corpo e tutto là sparso per terra. Così col corpo sotto le specie del pane, col sangue sotto le specie del vino si presenta come li avesse ancor separati benché sia in Persona vivo e glorioso sotto ciascuna specie. Oh vittima ed Agnello divino che caduto innanzi al trono di Dio come svenato trova in cielo la redenzione! Poi si prega, che sia accolta in memoria della Risurrezione: perché, come dicemmo, nella .risurrezione quel corpo, purificato d’ogni avanzo di mortalità (come la vittima si purificava pel fuoco), si rivestì dell’immortalità; e così pure nel Sacrificio il Corpo di Gesù Cristo sotto le specie sacramentali si presenterà nello stato di gloria e risorto all’immortalità. – Finalmente s’implora, che sia accolto il Sacrificio in memoria dell’Ascensione. Poiché, come nell’Ascensione l’umana natura divinizzata in Lui elevossi in seno al Padre; così dall’altare santo Gesù Cristo sacrificato si eleverà come profumo divino in seno al Padre, e il Padre accoglierà l’Unigenito, sua eterna compiacenza, che, essendo Dio con esso divin Padre, a Lui di qui rende onore divino, nel sacrificio tutto a Lui offertosi. S’aggiunge poi di offrirlo in onore di Maria ss. e di tutti i Santi; affinché per loro torni ad onore, e riesca per noi a salute coll’intercessione di loro pei meriti di Gesù Cristo. Oh sì veramente! Per tutti quei felicissimi, che in virtù di questo Sacrificio sono beati in Paradiso, quale dovrà essere la consolazione e quale la gloria del sentire ricordare le proprie virtù, ed all’augustissima Trinità fare di esse un presente in uno coi meriti e colla Persona del Figliuolo divino? Essi inabissati nel seno della Divinità, d’uno sguardo abbracciando il cielo e la terra, il tempo passato ed il futuro, come l’istante presente, contempleranno in chiarezza i misteri della grazia, l’ordine della redenzione operata dal figliuolo di Dio; di là comprenderanno bene, come la loro santità sia il frutto della gran radice, che in tutti i popoli si va diffondendo; così d’ogni ben perfetto in sulla terra riconosceranno la causa, la virtù, il merito essere in Gesù Cristo. Onde con quelle espressioni, che si sanno formare solo in seno a Dio, d’ogni bene a Lui daran gloria eternamente. Qui par bene che al Sacerdote siasi nella contemplazione rivelato un raggio di quella beatitudine, che riflesso sulle anime in terra, diventa celeste speranza dell’anima cristiana; per cui egli confida vivamente per Gesù Cristo di salire anch’esso coi suoi figliuoli a’ piedi di Maria a ricongiungersi con quei beati. In tale elevazione di mente, con questo desiderio, in questa speranza s’attacca all’altare, che lega la terra al trono di Dio, e, stringendosi al petto le reliquie dei Santi, colle braccia allargate in atto di accogliere tutti i fratelli, che ha intorno, e portarseli in cuore in Paradiso, con quelli bacia l’altare, che ne è la porta, e in quella piena di affetti ineffabili e misteriosi si rivolge, e si raccomanda a tutti di rianimare il fervore nell’accompagnarlo colle preghiere, col dire: Orate, fratres.

Art. VII.

L’ORAZIONE: ORATE, FRATRES.

Ci piace di premettere l’osservazione, che il sacerdote, nell’atto di rivolgersi per dire: Orate, fratres, compie il giro; cioè voltandosi al popolo dal lato destro, girandosi intorno si rivolge all’altare dal lato sinistro; mentre tutte l’altre volte, che dall’altare si volta al popolo, non compie il giro, ma ritorna dalla parte, donde s’era voltato. Per conoscere il perché di questo girarsi intorno, che fa il Sacerdote, è da considerare, che in altri tempi nelle chiese stavano dagli uomini separate le donne in luogo appartato, che si chiamava il matroneo, cioè luogo serbato alle cristiane matrone. Il perché si legge ancora in antichi rituali, che il Sacerdote rivolto alla parte degli uomini diceva; « Pregate o fratelli; » poi rivolto dalla parte delle donne diceva; « Pregate o sorelle (Card. Bona, R:r. lit. lib. 2, cap. 9, n. 6) » Ora questo giro compiuto potrebbe significare, che il Sacerdote in così fare si rivolge a tutti i fedeli, che si trovano in ogni parte, e va, per così dire, coll’animo in cerca di ciascuno in ogni angolo della chiesa, ed allargando loro le braccia incontro, li supplica della carità d’accompagnarlo colle preghiere. Dice adunque questa:

Orazione

« Pregate, o fratelli, affinché il mio e vostro sacrificio sia fatto accettevole presso Dio, Padre onnipotente. »

QUARESIMALE (IV)

QUARESIMALE (IV)
DI FULVIO FONTANA


Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA QUARTA


Nella Domenica prima di Quaresima.

Convien fuggire l’occasione pericolosa perché quando alla tentazione s’unisca l’occasione, le cadute sono quasi inevitabili.

Ductus est Jesus in Desertum a Spiritu ut tentaretur a Diabolo.
San Matteo cap. IV.

S’alza colà nel Mar del Brasile una rocca tutta d’una intera, e preziosa pietra, tutta un perfettissimo smeraldo, a cui acutissimi scogli fan siepe d’intorno come spine in corona d’un fiore e rompono la rabbia all’Oceano, che più furioso l’assalisce, dove la rocca più robusta resiste. Sorge ella sopra di quegli scogli, sopra di quei mari coronata delle sue proprie ricchezze, e vibrando per ogni parte un riso di lumi, par che si burli del vano sforzo delle onde, e de’ loro continui naufragi. Tal fortezza non diede a te natura o uomo, per renderti incontrastabile all’Oceano di tentazioni, con cui il demonio t’assalisce. È vero, gli assalti di questo comune inimico non possono fuggirsi; è vero, egli è indefesso nel replicare continue batterie alle anime nostre con fiere tentazioni, ma non per questo disperereste gloriose vittorie, quando voi vi contentate dare orecchio alle mie parole in questo giorno, con le quali vi lascerò per ricordo che fuggiate l’occasioni di peccare. Giacché è certissimo e sarà l’assunto del mio discorso, che quanto è debole il demonio con le sue tentazioni, quando queste sono disarmate dalle occasioni, altrettanto è vero non avere il demonio forza maggiore di quella che esperimenta allorché alle sue tentazioni s’unisce l’occasione. – Odo sul bel principio dall’eremo di Chiaravalle quel Santo Abbate Bernardo, il quale dopo averci ricordato esser noi attorniati da tentazioni di modo che la nostra vita merita più tosto nome di tentazione che di vita. Ut non immerito vita nostra ipsa tentatio debeat appellari, conclude con universale avviso a quanti vivono, hoc præmunitos vos esse volo neminem super terram absque tentatione victurum. Non v’è nessuno esclama il Santo Abbate, non v’è nessuno in questa vita che non sia combattuto da tentazioni. O là intendetela, il demonio fiero nemico dell’uomo non porta rispetto a Mitre, non cura Porpore, non stima Corone, sprezza Scettri, vilipende Sogli, assale Triregni, egli si ride della virtù, schernisce la Religione, e disprezza la bontà, tutti, tutti insomma d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni condizione sono dal demonio combattuti, e tentati. Neminem super terram absque tentatione victurum. Siamo dunque tentati, è vero, e bisogna duellare con quel serpente così terribile, che al primo fischio che diede, impresse un mortale contagio anco nel Cielo; con tutto ciò assicuratevi che queste tentazioni disarmate dalla occasione, poco o nulla ci possono nuocere. La tentazione senza l’occasione è a guisa d’un’aquila senza rostro e senza unghie; d’un leone senza denti, e senza furore; d’un soldato senza forze e senza armi, basta, che l’occasione non le dia lena e poi non temete: lo volete vedere? Penetrate meco col pensiero la foresta più abbandonata della Siria, e ivi conoscerete quanto poco possano le tentazioni disarmate dalla occasione; quel solitario Sacerdote, che ivi vedete, egli è San Girolamo; udite come, angustiato dalle tentazioni, parla, piangendo. Ah che lontano da Roma, pur vivo presente a’ teatri più vani di Roma, son pur compagno di fiere e di serpenti e pure odo suoni di giubilo, e vedo danze festose di romane donzelle; quantunque condannato al silenzio, al digiuno, al cilizio, ad ogni modo il demonio mi travaglia con musiche, conviti e pompe; lapido, è vero con dure pietre il mio petto in vendetta dell’anima oltraggiata dal corpo, ma pure l’Inimico Infernale rappresenta agl’occhi miei volti adorni, e petti ingiojellati, in somma … Ille ego scorpionum tantum, serarum socius, sæpe choreis intersum puellarum pallebant hora jejuniis et mens desideriis estuabat. Ma ditemi ÚU.con tutto l’assalto fiero di tante tentazioni, cadde, peccò questo penitente? appunto, mercè, che la tentazione non ha forza d’abbattere, disarmata, ch’ella sia dalla occasione. – Per maggiormente confermarvi in questa verità, passate pure dalla foresta della Siria alla spelonca dell’Umbria ed ivi vedrete quel Giglio di Paradiso Francesco d’Assisi, che nudo tra le nevi raffrena gl’ardori nemici, l’assalirono i demonj, ma per questo lo vinsero? Non già; ogni tentazione è debole, lontana dalla occasione, si supera facilmente. Basta fare come l’ape, allorché in tempo di verno esce dall’alveare; ella se punto è agitata dal vento, per non essere trasportata s’attacca subito ad un sassolino. Tanto dovete far voi in tempo di tentazione, subito, che sente qualche turbine molesto che v’agita il cuore, con la mente ricorrete a’ Santi, alla Vergine, a Dio, e non dubitate, che supererete facilmente la tentazione, purché ella sia disarmata dalla occasione. Si scateni pure a danni del grand’Antonio l’inferno tutto, prenda in prestito dalle più orribili fiere i disagi più mostruosi; lo assedi, lo strazi, non per questo canterà vittorie; basta un solo uomo à resistere a tutti i demoni insieme, dice
Atanasio, si virium aliquid baberetis sufficeret unus ad prælium: la tentazione in somma poco, o nulla può, priva d’occasione. Ma o quanto è difficile resistere alla tentazione, quando è unita all’occasione. Ecco, che Zoé la sfrenata, vestita da povera contadina, sul farsi notte in tempo piovoso chiede dal povero romito Martiniano, un cantone per ritirarsi; le cede egli una delle sue stanzioline, e si ritira nell’altra, passando tutta la notte in orazione pregando Dio con David: viam iniquitatis amove a me. Ai primi albori del giorno licenzia in pace colei che con la sua sola vicinanza gli faceva guerra; ma che, doppo essersi con mille ringraziamenti partita, se la vide di nuovo innanzi in abito altrettanto pomposo quanto lascivo. S’accorge il poverello del gran pericolo; esce dalla cella per scoprire s’alcuno là si accostasse; mira il Cielo; e par che gli dica, così mi giocherai per un momentaneo diletto? ricordati con quanti rigori mi compraste? Dà un’occhiata alla spelonca, e quella stessa gli dice, per un capriccio dunque perderai il merito di tanti anni di penitenza, di tante orazioni, di tanti digiuni? Così sentiva parlarsi Martiniano, agitato dalla tentazione unita con l’occasione. Quando interiormente compunto, tratto dal più profondo del petto un sospiro, raccolse quanti più poté sarmenti, v’accese il fuoco, e al calor di quelle vampe estinse ogni fiamma maligna. Ma se poté, miei U.U. Martiniano numerare tra’ miracoli della grazia l’aver potuto resistere alla tentazione armata dalla occasione, non così poté gloriarsi quell’incauto romito colà ne’ contorni d’Arsinoe; Interrogate un poco quelle solitudini e domandate loro quanto di forza abbia la tentazione unita alla occasione, e sentirete rispondervi con le cadute di quell’incauto solitario, il quale quantunque veterano nella cristiana milizia incontratosi una sol volta in una maledetta occasione, disonorò con intemperanza di giovine la sua vecchiaia, e perdé quelle corone e quelle palme acquistate in tant’altre battaglie. Interrogate le arene dell’Egitto, e sentirete rispondervi con orrore, che hanno veduto rinegar Cristo da un discepolo del gran Pacomio; e fu allora che fidatosi di sé  Atesso uscì con sicurezza dal Monastero, e s’incontrò con l’occasione. Interrogate i sassi della Palestina, quali furono testimoni per tanti anni delle fervorose orazioni, delle rigorose penitenze, delle sovraumane meraviglie di quel tanto nominato Giacomo, e pure un giorno lo piansero, di trionfante di tutto l’inferno, trofeo vergognoso di vittoriosa occasione, e giunto a segno di togliere, dopo l’onore, anche la vita à colei da cui poco prima aveva cacciato un demonio. Non occorre altro; dalla occasione di peccare al peccato non v’è più d’un brevissimo passo; dica pure ognuno con Cipriano, che … lubrica spes est, quæ inter sementa peccati salvare se sperat. Or che avete sentito che per salvarsi dalle tentazioni alle quali è unita l’occasione, non bastano, né le solitudini d’Arsinoe, né gli Eremi d’Egitto, né le spelonche della Palestina; vi dirò di più, che la tentazione unita con l’occasione arrivò a far prevaricare ancora nel Paradiso terrestre. Eva, come sapete, si pose a dare orecchio al serpente infernale, allorché gli disse, nequaquam moriemini, eritis sicut dii. Ecco, che Eva s’accosta all’albero: Eva, gl’avrei io detto, non v’accostate, avvertite la morte sta nascosta tra quelle fronde. Io non voglio, mi risponde, che vederlo per conoscerlo, e fuggirlo come veleno; Dio ha comandato, che non si mangi, non che non si miri; ma che! giunge all’albero, ne vagheggia il frutto, pulchrum visu, sta per un poco perplessa se debba staccarne un pomo, giacché à se stessa diceva, per obbedire basta non cibarsene; lo spicca dunque, l’odora, e perché alla vista gli pare che debba esser gustoso a mangiare, ad vescendum suave, determina di volerlo gustare; ma il precetto Divino, dico io eh, che questo sento, rispondermi, consiste tutto in non cibarmene, troverò ben io modo di gustarlo senza mangiarlo, ne addenterò un boccone, lo masticherò con fretta, e poi subito getterollo dalla bocca. Così risolve, lo mastica, lo gusta; ma che? L’appetito lo dimanda, la gola lo vuole, lo stomaco lo riceve, sicchè quel boccone trangugiato, à sé e al mondo tutto portò la morte. O andate à fidarvi dell’occasione mentre Eva non fu sicura nel Paradiso Terrestre. – uomini, donne, benché avanzati nell’età, non vi mettete nelle occasioni; non basta dire è ormai gelato il sangue nelle vene, son canutii capelli: se non resisté quel romito, benché vecchio, quantunque orasse, digiunasse, e facesse aspre penitenze, quanto più cadrete voi, che col cuore tutto nel mondo a mala pena vi segnate la mattina, e abborrite ogni sorte di penitenza: Cadrete vi dico se vi metterete nell’occasione… Religiosi non vi fidate di porvi nell’occasione, cadde un discepolo di Pacomio, che passava l’ore in orazione e i giorni in astinenze, quanto più cadrete voi, che quasi mai orate, che vi portate a quell’Altare senza preparazione, che vi state con pena, che per fretta non proferite le parole, che non fate ringraziamento, che tutto dì discorrete d’inezie, che dite quell’Offizio tanto strapazzatamente, e che finalmente, se avete qualche apparenza di Religioso nell’abito, certo non l’avete ne’ costumi, mentre talora ardite idolatrar volti, e prestare ossequi viziosi a dame; cadrete ancor voi; se pur finora non avete mancato a Dio con la castità perduta, e il voto conculcato. Niuno si fidi per uomo, di donna da bene che sia, perché se cadde Giacomo tanto timorato di Dio, come presumete di non cader voi, che temete più l’ombra d’un principe che l’ira di Dio: se starete in quelle case, a quei giochi, a quelle feste, ove fono ridotti d’uomini e di donne, di dame, e cavalieri, cadrete. Eh, che son pazzie pretendere di trattar con famigliarità con uomini e donne, e non peccare, almeno con compiacenza, e con brame indegne. In medio mulieris noli commorari, de vestimentis enim procedit Tinea, a muliere iniquitas viri, non vi trattenete, dice lo Spirito Santo, ove son donne, perché quanto è facile, che dal panno nasca la tignola, tanto è facile che dalla donna nasca l’iniquità dell’uomo. Niuno insomma si fidi, giacché ha veduto, che anche Eva posta in occasione col serpente, cadde nel Paradiso terrestre, e nel medesimo cadde pure Adamo, perché non seppe, come dice Sant’Agostino, star faldo all’occasione che gliene diede la consorte, Nolut eam contristare. Or io dico s’Adamo uomo sì prudente, uscito allora dalle mani di Dio, colmo d’ogni tesoro di grazia, arricchito dall’abituale, avvalorato dall’attuale, con le passioni si moderate; con tutto ciò, perché si trovò nell’occasione cadde; come non cadranno quei giovani, quelle giovani fragilissime con le passioni indomite, tentati per ogni verso? Se l’uomo non ha saputo resistere all’amor pazzo nel Paradiso terrestre fra tanta pace, come potrà resistere in campo aperto con tanta guerra? Fuggite l’occasioni, perché è tanto difficile non peccare a chi sta nelle occasioni, quanto vivere in un’aria contagiosa e non ne contrar la peste; e se mai vi ci trovate per vostra disgrazia, bisogna assolutamente, quando non poteste fuggire, come Giuseppe, o che gridiate come Susanna, o che percotiate come Giuditta. Già v’ho mostrato che cade nella occasione anche chi è vissuto santamente, molto più chi vive con libertà di trattare. Or vi dico, che sono più che certi di cadute quei, che soliti a cadere si mettono nelle occasioni. Certi alberi ontuosi in tempo d’estate troppo calda, agitati da vento caldo si sono talora accesi da se stessi, e sono iti in cenere or che avrebbero fatto, se taluno avesse apprestato fuoco alle loro piante. Che può mai avvenire ai giovani, uomini e donne, che nel bollor del sangue dopo esser caduti si ripongono nelle occasioni, se non incenerirsi? Che s’à dunque da fare, torno a dirvi, come Giuseppe colà nell’Egitto con l’impudica padrona, Fuga usus pro armis, le sue armi, dice San Basilio di Seleucia, furono il fuggire; bisogna levarsi dalla occasione; altrimenti cadrà il corpo, si dannerà l’anima. Voi vedete, che ogni volta che andate in quel circolo mormorate, che vi portate a quel gioco spergiurate, che andate in quella bettola bestemmiate, statene lontani. Ogni volta, che con lei entra in quella casa pecca, se passa per quella strada, consente a quei pensieracci, fuggite, fuggite. – Bisogna fuggire l’occasione, se volete assicurarvi dalle nuove cadute. Trochilo favorito Discepolo di Platone, trovandosi in alto mare, fu sorpreso da una orrenda burrasca, fremevano i venti, incalzavano l’onde, a tal segno, che squarciate le vele, spezzati gl’alberi, e tutto il timone, già si tenevan per perduti quanti in quel legno si trovavan racchiusi. A gran forte si salvò Trochilo, e giunto a casa pien d’affanno, e colmo di spavento, diede subito ordine, che si murassero due finestre di sala, benché allegrissime, per che eran voltate al mare, per timore, come egli diceva, che rimirando qualche volta placido il mare, non gli venisse tentazione di porsi nuovamente in acqua. Volete assicurarvi dalle tempeste delle tentazioni, chiudete quegli sguardi, ancora, che talora vi paressero innocenti, quelli scherzi, che vi paressero geniali, levatevi dalle occasioni; non balli, non veglie, non tresche. Non fate come coloro i quali scappati dal mare, tutti zuppi d’acqua, ove fono stati con pericolo di morte, si mettono nella spiaggia a raccogliere gli avanzi delle loro vele, e a racconciarle per mettersi di nuovo in acqua, benché sappiano l’infedeltà di quell’onde. – Sentitemi bene, o voi vi stimate deboli, o vi tenete per forti; se conoscete la vostra fragilità, che pazzia è mai questa mettervi in un tanto pericolo. Voi meritate un severo castigo per questo stesso che conoscendo la vostra debolezza, tanto vi volete cimentare. Qual è quel pilota sì sciocco che sapendo d’avere un legno fragile e debole voglia con esso porsi in alto mare alla furia de’ venti, e delle tempeste? Se voi conoscete la vostra fragilità, e che ogni volta, che siete nell’occasione cadete, perché non fuggite? La lepre, perché si conosce debole non si pone a guardare i cacciatori, a scherzar con cani, ma fugge; così avete da far voi se vi stimate deboli: se poi vi stimate forti, né pur dovete esporvi alla occasione, mentre avete l’esperienza, che con tutta la vostra fortezza, siete caduti. Sovvengavi della bella riflessione di Plinio sopra del ferro, non v’è cosa, dice egli, né più dura, né più forte del ferro, questo sfascia baluardi, abbatte edifici, atterra città, tuttavia anche egli s’umana, e si lascia vincere da un sasso fosco di colore, vile di forma, e per migliaia d’anni reputato senza virtù. È  questo la calamita che mostra genio sì superiore al ferro che lo muove ed  agita ove gli piace, e lo necessita quantunque pesante, a slanciarsi per aria, a sé lo tira, quid ferri duritie tenacius, trabitur tamen a magnate lapide; non vi fidate della vostra fortezza, la forza, che ha la calamita nel ferro, l’ha l’amor della donna verso dell’uomo. Non me lo credete, ve lo confermi il seguente caso. S’amavano con amore diabolico un perfido giovine, ed una sfacciata donna, quando finalmente dopo una lunga tresca fu la femmina posta in un letto inferma, e perché la malattia fu di più mesi, ebbe la donna comodità di rientrare in se stessa, e parve del tutto mutata; Si confessò con molte lacrime e seguitò a detestare con replicati sospiri le colpe passate, finché il confessore, e la donna stessa pensarono di poter fare un passo, per verità troppo arrischiato, e fu di poter dare l’ultimo addio a quel suo padrone, nelle di cui mani era indegnamente vissuta, non con altro titolo però, che d’esortarlo a mutare anche esso vita, mentre vedeva à qual stato era ella ridotta , e a quello doversi anche lui ridurre; prescrisse dunque il Confessore le parole che doveva proferire la femmina alla presenza del giovine, e come doveva correggerlo; e per esser più sicuro dell’ottima riuscita, volle egli stesso introdurlo, e trovarsi presente al discorso. Ah Dio, che non bisogna stimarsi talmente forti, che si possa resistere alla occasione. Udite quanto diversamente riuscì il fatto dal concertato. Appena la femmina si vide colui presente, che risvegliati nel cuore gl’antichi affetti, si dimenticò totalmente di quella predica, che aveva sì ben premeditata a compungere il cieco amante, e fattane un’altra del tutto diversa, così parlò piena d’un empio furore con le braccia stese verso di lui: amico io v’ho sempre amato di cuore, ed ora convien che vi dica, che in questo ultimo v’amo più che mai; vedo che per voi me ne vado all’inferno, ma non m’importa, e voi siete la cagione, che io non temo l’eternità di quelle pene; e senza potere aggiungere altro di più, parte per l’estrema fiacchezza, parte per l’agitazione di quegl’affetti sì impetuosi, cadde supina sul letto, sopra di cui s’era alzata, e vi spirò l’anima con tanto orrore del confessore e del giovine che senza saper formar parola partirono più morti che vivi. Che dite, vi fiderete di porvi nelle occasioni sani, con dire: non cadrò, mentre i cadaveri stessi posti nelle occasioni non sanno resistere? O Dio, che le tornate per quella strada sotto qualsivoglia pretesto, ancorché santo, ricadrete; ah Dio, che se parlerete con colei sotto colore d’altro fine, di nuovo vi romperete il collo. Qual è dunque il rimedio per voi miserabili, che soliti a cadere, vi mettete nelle occasioni, non altro che seguire il consiglio di Dio nella legge vecchia: Recedite, dice Egli per Isaja, recedite nolite tangere, uscite fuori, ritiratevi dalle occasioni, e nell’uscire state attenti di non slungare neppure l’estremità d’un dito, perché vi resterete. Tali erano gl’ordini di Dio nella legge antica; più severi però sono nella nuova, ove intima ogni rigore per fuggire l’occasioni. Attenti alle parole di Dio per San Matteo: Si manus tua, vel pes tuus scandalizat te abscide, projice abs te; si oculus tuus scandalizat te, erue eum, et projice abs te. So che questo precetto non è litterale, ma metaforico, in modo che, come spiega Lirano: Per manum auxiliator pes pedem cursor, per oculum consiliarius intelligitur, cioè a dire, non solo devi lasciare colei, non solo la sua casa, il suo ritratto, quei nastri, quelle lettere, ma anche devi cacciar via da te colui che t’accompagna di notte, colei che ogn’ora porta le tue imbasciate. Abscide, projice abs te. Intendetela, dice Iddio, se l’occhio v’è occasione di peccare, io non voglio che si chiuda ma che si svelli dalla fronte. Se la mano, e il piede v’è d’inciampo ad offendermi, io non voglio che solamente si leghino, ma che si tronchino … Abscide … erue . –  Dunque, chi dice tratterò, converserò, ma non peccherò, questa è legge nata nel vostro cervello, allorché stabiliste praticarla, ma non è legge di Dio, che vuole che si tronchi tutto. Notate inoltre una cosa più spaventosa: non dice solamente Iddio levati l’occhio, tagliati il piede, la mano; ma dice dopo che ti sei levato l’occhio, e tagliato la mano, il piede buttali via projice, projice. E perché, mi dirà qualcheduno, volete che io venga a tanto, mi caverò bensì l’occhio, che mi fu occasione di peccato; ma perché svelto dalla fronte più non vede, lo serberò chiuso in uno scrigno; mi taglierò quella mano, e quei piedi che mi diedero motivo a peccare; ma mentre divisi da me non hanno più modo da precipitarmi in peccati, li terrò in rimembranza de’ miei falli. No, no, veniamo a noi; terrò quella donna, dice taluno, non però più in casa propria, ma d’un amico, non vi andrò, non gli parlerò, gli scriverò bensì qualche lettera per creanza, non per malizia; se la manderò a salutare, lo farò, perché la gente non mormori, e perché la meschina trovandosi abbandonata affatto da me, non si getti al male. Olà, son diabolici i vostri pretesti. Erue, et projice, abscide, projice; lasciate colei tanto da lungi da voi, che non ne sappiate più nuova: non basta tagliare, bisogna gettar via da sé. – Racconta il Mattiolo d’un contadino, che segando un prato, tagliò con la sua falce per mezzo una vipera, e compiacendosi di sì bel colpo, pigliò in mano il tronco palpitante di quella serpe per insultarla; ma ben presto si accorse della sua temerità, perché ricevuto un morso, da quella bestia, morì sì subito che morì prima di lei. Tagliò costui Abscidit, ma non gettò via da sé, non projecit, e così se ne morì miseramente, e morì anche non compatito. Così appunto ha da intervenire a quel giovine; a quella giovine, i quali dopo aver troncata l’amicizia, la mala pratica, non sequestrano affatto ogni commercio di lettere, d’ambasciate, d’occhiate, hanno da rimaner morsicati sì malamente da questa vipera d’inferno del peccato mortale, che così non fosse, han da finire la vita con la dannazione dell’anima: Dio non la voglia.

LIMOSINA
Uno de’ gravissimi errori, che siano al mondo è a mio credere, l’opinione fortissima, che molti hanno d’essere assoluti padroni del loro, finché possano spendere, spandere, e farne quel che loro piace, e anche a somiglianza di quei filofosi antichi gettarlo in mare per fasto. Non è così, ne sono padroni, ma con riserva, con obbligazione di ripartir tra poveri ciò che gl’avanzi, all’onesta sostentazione del proprio stato. Come è questo Padre, non potiamo far limosina, non è vero, perché volete più del vostro gatto: non mi fate dire, ma fate una larga limosina.

SECONDA PARTE

Tommaso Moro gran Cancelliere d’Inghilterra, avvisato una mattina per tempo che i carcerati, rotto il muro della prigione s’erano tutti fuggiti; rispose gentilmente al Bargello da cui era chiesto con ansietà di provvedimento. Farai così, cerca con ogni sollecitudine mastri e muratori, e fa chiudere ben presto quella apertura della muraglia per cui sono usciti, affinché non venisse voglia ad alcuno de’ fuggiti di ritornarsene dentro, motteggiando così gentilmente sopra d’un caso che non ammetteva rimedio. Questa risposta che in bocca di quel grand’uomo sommamente ingegnoso in certe ironie proprie d’un cuor magnanimo, fu uno scherzo. Questa dico, è presso di me il più serio ricordo che io possa dare a chi brama viver bene. Se voi con la divina grazia avete rotta la carcere, in cui vi teneva chiusi il demonio, siete usciti da quella casa, avete abbandonata quella conversazione sì pestilente, chiudete, chiudete quelle porte, per le quali siete felicemente usciti; non più in quel luogo, non più a quella veglia, non più con quella persona… fuggite. – Una delle occasioni maggiori di peccare sono i cattivi compagni. Quelli sono il precipizio di tant’anime innocenti; le loro parole son punte che uccidono. Eglino dicono che certi peccati sono il minore de’ mali, che Iddio compatisce: il Paradiso è per noi, e così fanno cadere. Guai però a questi che così parlano, perché certo sarà per loro quell’inferno, al quale incamminano gl’altri. Colà nell’Indie v’è una serpe nemicissima dell’elefante, la quale per vincerlo usa questo stratagemma: se gli attortiglia alle gambe, a prima che egli possa strigarsene, lo ferisce mortalmente nel petto. La frode però torna come sempre accade, in danno di chi l’ordì, poiché l’elefante ferito lasciandosi cadere in terra, col suo peso schiaccia il capo alla Serpe e l’uccide. Questo è un vero ritratto de’ cattivi compagni, i quali muoiono sotto la medesima rovina cagionata ad altri, e dopo d’aver così mandate molte anime all’Inferno, seguono ancor loro. – Racconta Tomaso Cantipratense, come un suo discepolo dapprima buono, e poi sedotto da un cattivo compagno, morì senza confessione, e morì con queste precise parole in bocca: Io me ne vado all’Inferno; ma guai a colui che mi tirò a peccare: Væ autem illi, qui me seduxit, e se disse così morendo, arguite cosa dovette dire morto, quando all’entrar che egli fece all’inferno, rimirò quei demoni sì spaventosi, sentì quelle fiere, sperimentò quelle fiamme, e vide chiudersi dietro quelle porte, che chiuse ad un tratto, non gli dovevano essere aperte mai più per tutti i secoli. –  Che s’ha dunque da fare? lasciare i cattivi compagni che ci sono d’occasione per peccare: la pratica di quel giovine è la tua rovina, perché quando sei con lui, sempre discorri di laidezze, sempre stabilisci laide determinazioni; quando sei con quella compagna sempre tratti d’amori, sempre pecchi o con pensieri o con parole, o con opere. Lontani dunque da tutte le occasioni che vi portano al peccato: Ed a voi rivolto, cattivi compagni, e iniqui pervertitori de’ buoni, fò sapere, che siccome tra tutte le opere divine è divinissima il procurar la salute delle anime divinorum divinissimum est cooperari Deo in salutem animarum. Così il pervertire un’anima doverà stimarsi tra tutte l’opere diaboliche, la diabolicissima. Come è possibile, che non capiate questo gran peccato; voi togliete compagni agl’Angeli, compagni a’ Santi, alle Sante Anime, a Cristo, e non tremate? Rubare a Cristo un’anima, che gli costa Sangue, Croce, Vita, per darla al diavolo, si può far di peggio? Dio immortale, se voi in un dì solenne vedeste entrare in questa Chiesa un uomo talmente sfacciato, il quale portandosi ardito all’Altare maggiore, allorché è più riccamente addobbato, lo saccheggiasse e perciò si mettesse a trinciar veli, e paliotti, a romper patene, e calici, non correreste a gridare: trattenete quel sacrilego, dategli, dategli? Lo vorreste calpestar co’ vostri piedi. Or sentite me, andate pure, levate a Cristo quanti arredi più splendidi ha ne’ suoi Altari, incendiateli, inceneritili, e poi sappiate che meno infinitamente d’oltraggio gli sarete, di quel che gli facciate à levargli un’anima, allorché la volete complice ne’ vostri peccati. Pensate dunque a’ casi vostri. Che vuol dire che tanti sono in occasione prossima di peccato, e pure non se ne levano? (Perdonatemi sacri confessori) tutto il male vien da voi. Deh non dispensate il Sangue di Cristo nel Santissimo Sacramento della Penitenza, trattenete quella mano sacerdotale, non assolvete chi non leva l’occasione prossima del peccato, potendo; altrimenti si rinnoveranno in voi le miserie di quel confessore che facile ad assolvere chi non levava l’occasione prossima, insieme con lui si dannò.

QUARESIMALE (V)

24 FEBBRAIO: SAN MATTIA APOSTOLO

S. MATTIA APOSTOLO

(Otto HOPHAN: GLI APOSTOLI – Marietti ed. 1951)

L’Apostolo Mattia è il diradarsi delle tenebre, la costruzione del ponte su di un abisso, il cambiamento e la trasformazione d’una inafferrabile sventura in significato e benedizione. Inizialmente egli non apparteneva ai Dodici; ma quando uno dei Dodici, Giuda, disertò la schiera santa, si fece innanzi Mattia; egli è il figlio postumo, l’eletto più tardi. Per questo è spesso paragonato al figlio più giovane del patriarca Giacobbe, Beniamino, che nacque al padre solo nella vecchiaia ed elevò a dodici la serie dei suoi undici figli e la chiuse. Tardi, quasi come un ritardatario, a passi misurati Mattia arriva anche oggi nel Canone della santa Messa, perché non segue gli altri Apostoli prima della consacrazione, per concorrere alla solenne accoglienza dell’eucaristico Signore, ma viene soltanto dopo la consacrazione e il benvenuto degli altri, quasi per rendere un omaggio solitario e un risarcimento apostolico. – Anche la data della sua festa ci fa l’impressione d’avere questo senso: nella Chiesa latina egli è festeggiato il 24 febbraio e negli anni bisestili esattamente nel giorno intercalare, il 25 febbraio: anche il nostro Apostolo è un intercalato, un sostituto, che dovette colmare un vuoto e una nera lacuna. Il cuore cristiano si rallegra in Mattia. Sarebbe penoso che la nobile serie dei dodici Apostoli avesse a conchiudersi col volto criminale di Giuda; ecco invece, quale mite e veneranda figura la termina il vecchio Mattia! La nostra attenzione si rivolge spontaneamente dal disgraziato Giuda a quest’ultimo buon Apostolo. – Mattia porta un nome frequente presso i Giudei ed è forma abbreviata di « Matatia, dono del Signore ». In tutta la Scrittura del Nuovo Testamento egli rifulge soltanto per una rapida ora, al momento della sua elezione ad Apostolo. Viene dall’oscurità; sta un istante nella luce; sprofonda di nuovo. nell’oscurità. Gli stessi libri apocrifi, che pur non scarseggiano in parole, sanno ben poco di lui; sospira per aver indagato con molta diligenza e fatica gli atti di San Mattia già un monaco del monastero di Eucario a Trier, vissuto nel secolo decimosecondo, che è l’autore della leggenda di Mattia; costui veramente nelle difficoltà incontrate s’aiutò in un modo, di cui scriveremo in seguito. La pericope però degli Atti degli Apostoli, che ci riferisce l’elezione di Mattia, sebbene breve, è così ricca di accenni alla personalità e all’ufficio di questo silenzioso Apostolo, che ci è ben possibile tratteggiarne la fisonomia.

GLI ANTECEDENTI DELL’ELEZIONE

L’elezione di Mattia fu sfiorata dall’ombra dell’oppressione ed indignazione della comunità primitiva per il traditore Giuda. Erano veramente passati quaranta giorni da quella fosca azione, e quali giorni! La settimana pasquale con l’Alleluia che discendeva e ascendeva; il mirabile periodo di tripudio e di dolore insieme per la misteriosa compagnia del Risorto; e proprio adesso erano ritornati gli Apostoli dall’ascensione del Signore e avevano ancora negli occhi lo splendore del cielo aperto, mentre nell’anima risuonavano ancora le ultime e solenni parole del Signore: « Riceverete la virtù dello Spirito Santo, che discenderà su di voi. E poi sarete miei testimoni in Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, sino anzi ai confini della terra ». Luca nei suoi « Atti degli Apostoli » non riferirà più nulla della maggior parte di essi; nell’introduzione però del suo libro presenta alle giovani cristianità quei gloriosi uomini, « gli Apostoli eletti », ciascuno col proprio nome, riferendo com’essi in dignitosa processione salirono dall’ascensione del Signore « nella sala superiore: eran Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea; Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo; Giacomo, il figlio di Alfeo, Simone, lo Zelote, e Giuda, il fratello di Giacomo ». Manca uno, e il buon Giuda, il fratello di Giacomo, non vi può rimediare; che anzi il suo nome risveglia il ricordo dell’altro Giuda, dell’Iskariote, gravato di maledizione; non era più là, ma il suo ricordo pesava sull’animo di tutti; quella macchia ignominiosa non poteva passare inosservata e tanto meno come non avvenuta in seno al gruppo dei Dodici, sebbene fossero seguiti i fulgori della Risurrezione e dell’Ascensione. Appunto nella sala, ove adesso erano raccolti, il Signore aveva predetto l’incredibile gesto, che non erano in grado di comprendere nemmeno ora: « Uno di voi Mi tradirà »; s’immaginano di vedere ancora il traditore nel momento in cui se n’andò quatto quatto lungo la parete per uscire fuori nella notte; i giorni, ch’essi ora vivono, sono pervasi di tranquillità e di benedizione, della tranquillità che precede la bufera santa di Pentecoste; ma tuttavia Giuda torna di continuo alla loro mente, come una nube molesta. Questa spina dev’essere levata, quello scandalo dev’essere riparato; la loro comunità è macchiata ed è indegna della venuta dello Spirito Santo, finché non sia fatta una pubblica riparazione per l’opera del traditore; ci dev’essere un altro, che chiuda il baratro spalancato da Giuda, un altro deve compiere quanto quell’infelice non ha compiuto. E così vediamo gli Apostoli, i quali, non appena il Signore s’è allontanato da loro e si trovano riuniti insieme, prima ancora di Pentecoste, si propongono quale primo, urgentissimo ed unico affare l’elezione d’un Apostolo in sostituzione di Giuda. Quale sconcerto e quale oppressione non può mai creare in una comunità anche un solo traditore! Il discorso, che Pietro tenne per l’elezione, ne adduce senza dubbio motivi più profondi di quelli semplicemente psicologici: « In quei giorni Pietro si levò di mezzo ai fratelli — erano adunati insieme circa centoventi — e disse: “Fratelli! Doveva adempirsi la parola della Scrittura, che lo Spirito Santo ha predetto per bocca di David circa Giuda, che si prestò a guida dei carnefici di Gesù. Era annoverato fra noi ed ebbe parte in questo ministero. Con la mercede dell’iniquità si acquistò un fondo; ma poi cadde col capo all’ingiù, crepò per mezzo e si sparsero tutte le sue viscere. Questo divenne noto a tutti gli abitanti di Gerusalemme, e quel fondo si chiamò nella loro lingua ”’ Hakeldama ”, che vuol dire “terra del sangue”. Nel libro dei Salmi di fatto sta scritto: “La sua abitazione resti deserta, nessuno abiti in essa”; e ancora: “Il suo ufficio lo riceva un altro” ». Ci potrebbe un po’ meravigliare che Pietro nel suo discorso, per provare ch’era necessario procedere ad un’elezione suppletiva, si appelli non semplicemente ad un comando del Signore, ma ad una profezia, che doveva adempiersi; può darsi però che in quei misteriosi quaranta giorni, che Gesù passò sulla terra fra la Risurrezione e l’Ascensione, fra l’al di qua e l’al di là, « quando aprì loro la mente per l’intelligenza delle Scritture », Egli stesso abbia interpretato di Giuda il passo del Salmo addotto da Pietro. Non va dimenticato poi che per la mentalità giudaica — fosse lo stesso anche per quella cristiana! — non v’era movente più incalzante per agire, che l’adempimento d’una parola biblica; mediante l’elezione d’un Apostolo sostituto doveva compiersi quello che lo Spirito Santo stesso, che stava appunto per discendere, aveva predetto e che Gesù aveva inequivocabilmente stabilito. Il Signore aveva stabilito che gli Apostoli fossero dodici, non undici e non tredici; come nessuno, che non discendeva da uno dei dodici figli di Giacobbe, i dodici capostipiti delle tribù, apparteneva al popolo di Dio dell’Antico Testamento, così pure l’Israele del Nuovo Testamento doveva essere spiritualmente generato a Cristo da uno dei dodici Apostoli. Seguendo il metodo, preferito al suo tempo, dell’interpretazione allegorica della Bibbia, Agostino scruta nel numero dodici degli Apostoli e vi trova un senso più profondo: tre è il numero santo di Dio; quattro è il numero del mondo; 3 + 4 e 3×4 significano l’opera di Dio nel mondo e col mondo; per questo sette e dodici sono « numeri sacri». « Le quattro direzioni del mondo: est e ovest, sud e nord, sono ricordate nella Trinità per mezzo del Battesimo nel Nome del Padre e del Figliolo e dello Spirito Santo. Ma quattro volte tre fa dodici ». Pietro, semplice pescatore com’era quando parlò prima dell’elezione di Mattia, non sapeva nulla di simili elucubrazioni ingegnose dell’umano pensiero; sapeva però una cosa dalla Scrittura, che cioè secondo il divino decreto doveva essere nuovamente nominato un dodicesimo Apostolo; il candelabro rimosso di Giuda doveva ardere di nuovo, il suo ufficio vacante doveva essere conferito a un altro. – Il celebre Rubens delinea Mattia col capo pensoso, umilmente inclinato. E di fatto egli dovette ripensare molte volte al mistero della sua vocazione all’apostolato; un altro era dovuto divenire apostata perché egli potesse divenire Apostolo; dalla vite Cristo dovette essere stroncato il ramo di Giuda perché Mattia vi potesse essere innestato in vece sua; la grazia del primo viene trasmessa al secondo; il peccato di quello è diventato benedizione per questi, esso è divenuto « culpa felix », la colpa felice non per lo stesso Giuda, ma per Mattia; quello che il traditore ha sperperato, è ora affidato a lui e quello che avrebbe dovuto fare, lo può ora far lui. Mattia allora chinò il capo profondamente e poi più ancora, e adorò l’ascoso decreto divino, ripetendo le ammirate parole del suo grande fratello Paolo, che presto l’avrebbe seguito nell’apostolato, lui pure per le vie della colpa, non degli altri, bensì sua propria: « O profondità delle ricchezze e della sapienza e della conoscenza di Dio! ». E anche noi, sperando e temendo dinanzi al mistero della grazia, che migra, che si ritira dagli uomini indegni e persino da interi popoli per passare a quelli, che portano frutto, ci sprofondiamo nell’adorante dossologia del nostro grande e incomprensibile Iddio: « Come sono imperscrutabili i suoi decreti, come infinite le sue vie! Chi comprende i pensieri del Signore? chi è il suo consigliere? chi Gli dà prima quello, che gli dovrebbe essere ricompensato? Da Lui e per Lui e a Lui è tutto. A Lui sia onore e lode in eterno! » (Rom. XI. 33).

LA CONDIZIONE PRELIMINARE PER L’ELEZIONE

Non è facile trovare negli scritti degli Apostoli un testo, che, come il discorso di Pietro per l’elezione di Mattia, esponga con tanta semplicità e a contorni così precisi le condizioni essenziali per il ministero apostolico. Da un candidato all’apostolato egli esige tre qualità, sulle quali non si può transigere; senza di esse il candidato non può affatto essere preso in considerazione, anche se sotto altri aspetti fosse trovato eminente; e quello che merita d’essere rilevato nelle esigenze di Pietro è che le condizioni da lui stabilite s’accordano esattamente, e sino alle sfumature più insignificanti, con i compiti apostolici, quali sono delineati dal Vangelo stesso. Nel Vangelo infatti di Marco, l’ufficio e i compiti d’un Apostolo sono descritti, in occasione della elezione degli Apostoli, con le parole: « Gesù chiamò a Sé quelli, che Egli stesso volle; Egli nominò dodici. Questi dovevano essere costantemente accanto a Lui, e voleva inviarli a predicare ». Essere chiamato, inviato e del seguito di Gesù: ecco quello, che solo può creare un suo Apostolo. – Quello dunque che Pietro disse nella sua allocuzione prima della elezione di Mattia è solamente un’eco del Vangelo: « Bisogna che uno degli uomini, che furono con noi tutto il tempo, nel quale il Signore Gesù uscì ed entrò di mezzo a noi, a cominciare dal battesimo di Giovanni sino al giorno, in cui Egli fu da noi assunto, bisogna che uno di questi sia testimonio con noi della sua risurrezione ». « Poi pregarono: “Tu, o Signore, conosci i cuori di tutti. Mostra quello di questi due, che Tu hai eletto ad assumere questo servizio, il ministero apostolico, che Giuda infedele ha abbandonato per andare al luogo suo” », Pietro sottolinea con accento speciale la terza caratteristica richiesta per l’apostolato: la costante e fedele sequela di Gesù dall’inizio al termine della sua vita. Basterebbe quest’unica esigenza d’una semplicità principesca per confutare le insinuazioni degli increduli, per i quali gli Apostoli, tipi piuttosto creduloni, anche se non impostori, sarebbero caduti vittime dei loro propri desideri. Pietro di fatto pretende precisamente che un Apostolo possegga una cognizione della vita di Gesù completa e soda, e non solamente superficiale o fantastica. L’Apostolo deve aver dinanzi non dei sogni, ma i fatti; non si richiede da lui alta erudizione e nemmeno un ardente entusiasmo, ma ben invece la tranquilla oggettività. Pietro ci offre una conferma del suo primo discorso, quando trent’anni più tardi, ormai prossimo alla morte, ci assicura con le ultime proposizioni che diresse alla cristianità: « Noi non ci siamo attenuti a dotte favole, quando vi notificammo il potente ritorno del Signore Gesù Cristo; noi fummo testi oculari della sua gloria »!. – Che l’Apostolo debba convivere insieme col Signore è ordinato a quell’altro suo compito essenziale, alla missione cioè per Cristo. Nient’altro è un Apostolo che un testimonio di Cristo, purché s’intenda in profondità e lunghezza e larghezza; Pietro dice: « Testimonio della sua risurrezione », perché nella Risurrezione del Signore s’incentra tutto il Cristianesimo, come la vita nel cuore; il discorso stesso che il medesimo Apostolo tenne nella prossima festa di Pentecoste non fu che una predica di Pasqua; il nuovo Apostolo quindi, che con gli Undici dovrà d’or innanzi annunziare Cristo, deve aver vissuto insieme con loro il miracolo di Pasqua. Ma, è evidente, non soltanto questo; poiché l’Apostolo non ha da annunziare solamente la gloria di Gesù Cristo, ma anche la sua verità; il candidato dev’essere stato quindi spettatore della vita e dell’opera pubblica di Gesù fin dal principio, « fin dal battesimo di Giovanni ». – Per il futuro Apostolo è richiesta pure una terza cosa, la quale poi per importanza è la prima: la divina chiamata. « Mostra Tu — Tu! — colui, che hai eletto! »; gli Undici non osano nominare un successore a Giuda, ispirandosi alla propria impressione o, peggio, alla loro simpatia e assumendosene la responsabilità; « Non voi avete eletto Me, Io ho eletto voi »; questa norma fondamentale del Signore doveva essere decisiva anche per l’elezione suppletoria di uno dei Dodici. Il ministero apostolico infatti importa una dignità e un onere così sublimi, che nessuno, se non Iddio solo, può imporli, a nessuno, se non a Lui solo, è lecito imporli; un altro Apostolo, Paolo, difenderà il suo apostolato, scrivendo: « Nominato Apostolo non dagli uomini né per mezzo d’un uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e Iddio il Padre ». Certamente in questo terzo requisito per essere Apostolo traspare la leggera differenza fra Mattia e gli altri Apostoli. Gli altri, fatta eccezione per Paolo, di cui, come d’un caso tutto particolare, dovremo scrivere diffusamente più sotto, furono chiamati dal Signore durante la sua vita mortale; Mattia invece fu eletto da Cristo esaltato, non però direttamente come gli altri, ma mediante l’espediente delle sorti; e così fu scongiurata un’idea troppo angusta e rigida nei riguardi dell’Apostolo. Le tre condizioni: vocazione, sequela e missione di Gesù restano senza dubbio essenziali e in senso proprio per l’ammissione all’apostolato, e va data la massima importanza specialmente al fatto che, nella elezione degli Undici, come in quella di Mattia e più tardi in quella di Paolo, fu adempiuta la prima condizione: la chiamata all’apostolato da parte del Signore; ma questa chiamata può venire anche mediatamente e anzitutto può venire da Cristo esaltato, come lo dimostra l’elezione di Mattia. Con questo fu appianata la via anche per l’apostolato di Paolo, e forse qui sta la singolare importanza di quella semplice elezione. Ma essa si presta anche a un altro rilievo: con l’elezione di Mattia il Collegio dei Dodici fu di nuovo strettamente compaginato e conchiuso; e nondimeno giungerà presto un tale, Paolo, tutto solenne, con la pretesa e gli argomenti d’essere egli pure un vero Apostolo di Gesù Cristo come i Dodici, e non solamente « apostolo » in senso più largo e traslato; il semplice Mattia quindi termina i Dodici e insieme annunzia il più vigoroso di tutti gli Apostoli, Paolo. – Ma non lasciamo in disparte troppo il buon Mattia stesso! Veramente questi dettagli dovevano precedere, perché soltanto sullo sfondo del discorso del primo Apostolo per la sua elezione può essere tratteggiata la figura dell’ultimo Apostolo; son precisamente le parole di Pietro che proiettano luce su di lui, che fiorisce nella Scrittura nascosto in essa, quasi come un San Giuseppe. Mattia dunque era uno degli « uomini, che per tutto il tempo in cui il Signore entrò e uscì, a cominciare dal battesimo’ di Giovanni sino al giorno in cui Egli fu assunto, furono insieme con i Dodici », idoneo e indicato, come essi, a divenire « testimonio della Risurrezione ». Queste parole degli Atti degli Apostoli ci mettono in grado di ricostruire in qualche modo la vita del nostro Apostolo. Mattia fu dunque vicino al Signore fin da principio; come parecchi dei primi Apostoli, apparteneva forse anche lui ai discepoli del Battista; quando Gesù diede inizio alla sua vita pubblica, egli dovette certamente prendere congedo dal suo villaggio e dalla sua professione. Seguì il Signore per tutte le vie; ascoltò le parole della predica sul monte e sul lago; vide i malati guariti, gli ossessi rabboniti, i morti risvegliati da Gesù e i pani moltiplicati fra le sue mani. Rimase fedele a Gesù anche in quell’ora critica, che tenne dietro al discorso eucaristico nella sinagoga di Cafarnao, quando anche « i suoi discepoli ne mormoravano », anzi « molti di essi si ritirarono e non andavano più con Lui », e persino uno dei Dodici, Giuda, defezionò nel suo cuore; può essere che fin d’allora la grazia dell’apostolato, manifesta all’occhio di Dio solo, si sia ripiegata da Giuda verso Mattia. Egli stette con la sua anima presso il Signore anche quando calarono le tenebre della sua passione; ma celebrò pure la Pasqua e stupì e gioì con gli altri alla notizia del sepolcro vuoto. Veramente un discepolo fedele per tutto il tempo lungo e angoscioso nel quale il Signore Gesù entrò e uscì! – Lo storico ecclesiastico Eusebio riferisce che Mattia sarebbe stato annoverato dal Signore stesso fra i settanta o i settantadue discepoli; e questo è molto verosimile. Gli Apostoli e i discepoli erano fra di lero uguali nell’onere, ma non nell’onore; se si confronta il discorso di Gesù prima dell’invio degli Apostoli con quello che tenne ai discepoli — Matteo, a dir vero, li compendia tutti e due in un unico discorso, si riconosce senza difficoltà che tutti e due i gruppi, quello degli Apostoli e quello dei discepoli, furono inviati per il medesimo duro lavoro ed esposti allo stesso pericolo; l’epoca anzi dell’invio dei discepoli era ancor più seria e minacciosa di quanto lo fosse stata quella prima degli Apostoli; Luca soggiunge immediatamente dopo il grido « Guai a te! » sulle città impenitenti; « Ecco, Io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi » è dichiarazione rivolta ai discepoli. Ad essi però non fu concesso quel diritto e tanto meno quella dignità, che furono invece accordati agli Apostoli. Quando, all’elezione degli Apostoli, il Signore si scelse il gruppo ristretto dei suoi confidenti, pronunciato il nome del decimosecondo, la sua voce s’abbassò sensibilmente ed escluse tutti gli altri, fra i quali anche Mattia; a lui non fu promesso nessuno dei dodici troni al di sopra delle tribù d’Israele, e nemmeno fu ammesso alle quiete ore della intimità, che il Signore donò solamente ai suoi Dodici; quand’Egli s’aggirava con loro attraverso i campi ondeggianti o se n’andava fuori sull’azzurro lago o li radunava nella sala intorno a Sé  e parlava a loro come ad « amici » e « figlioletti », allora Mattia non c’era. – Ma dunque tanto più eroico, se per « tutto il tempo, nel quale il Signore Gesù entrò e uscì », perseverò fedele accanto a Lui sotto il peso e il calore dei giorni. Egli adempì instancabile e indefesso, in qualità di semplice discepolo di Cristo, il suo rigido dovere, senza le prospettive d’una prelatura; non sperò né desiderò mai un ufficio d’Apostolo. Nella numerosa schiera dei settanta discepoli egli dovette segnalarsi fra tutti gli altri, perché è molto significativo che in quella comunità elettrice di « circa centoventi fratelli » sia stato presentato come candidato all’ufficio apostolico precisamente lui; si manifesta in questo la generale estimazione di cui godeva. Parecchi, senza dubbio, sarebbero stati d’accordo per « farsi annoverare fra gli Apostoli eletti », e forse già in quella prima elezione ecclesiastica fecero capolino le meschine debolezze umane; se non che il grave discorso di Pietro e la luce iniziale dello Spirito Santo condussero a rintracciare il più degno; degno della dignità è colui, che per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù entra ed esce, lavora come fedele discepolo di Cristo.

LO SVOLGIMENTO DELL’ELEZIONE

« Essi presentarono due: Giuseppe, detto Barsaba, col soprannome di Giusto, e Mattia. Poi pregarono: “Tu, o Signore, Tu conosci i cuori di tutti. Mostra chi di questi due hai eletto”. Egli deve ricevere questo ministero, l’ufficio apostolico, dal quale Giuda traviò per andare al luogo suo. Gettarono la sorte su di loro; e la sorte cadde su Mattia, e così fu aggregato agli undici Apostoli ». Questo testo degli Atti è di grande interesse, perché fin da questo momento, ancor prima della sua nascita nel giorno di Pentecoste, appare l’interna struttura della Chiesa nei suoi tre elementi, il monarchico, il gerarchico e il democratico. In Pietro si manifesta quello monarchico. Non appena il Signore se n’è volato al Cielo, egli mette mano ai remi con una sicurezza e naturalezza mirabili, proprio come un tempo sul lago di Galilea nella sua barca da pesca. Questa prima pagina degli Atti degli Apostoli è come una risonanza dell’ultima pagina del Vangelo: « Se Mi ami, pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore! »: Pietro è il promotore, l’oratore e la guida di questa elezione apostolica. La Chiesa monarchica! Frattanto è significativo assai il fatto che proprio Pietro, il condottiere e la roccia della Chiesa, nel suo primo atto ufficiale, faccia attenzione e sia sollecito del secondo elemento essenziale della Chiesa, e cioè della sua gerarchia. La Chiesa non è affidata a Pietro soltanto, ma ai Dodici, che costituiscono un gruppo di persone trascelte dalla moltitudine dei fedeli. Non può presentarsi quale pubblico « testimonio della risurrezione » chiunque; da un passo dell’Apostolo Paolo sappiamo che in una sua apparizione il Risorto s’era un giorno « manifestato più che a cinquecento fratelli »; e nondimeno nella elezione di Mattia viene nominato espressamente un « testimonio della risurrezione », perché sia confermato e autorizzato come tale ufficialmente; poiché è della costituzione fondamentale della Chiesa che vi sia un ordine sacro, una « Gerarchia » di uffici e di ministeri, che sono riservati solamente ad « eletti » e sottratti ad ogni arbitrio. E tuttavia proprio in questo primo atto ufficiale dei pastori e dei gerarchi è palese pure nella Chiesa un involucro marcatamente democratico. E anzitutto perché ognuno, che n’è capace e degno, può ascendere sino a quegli uffici riservati ed eletti, senza nessun riguardo a rango o a condizione; ma poi per un motivo ancor più profondo, perché cioè la stessa comunità, che allora contava solamente centoventi fratelli, esercitò un certo diritto di voce attiva, proponendo i due candidati per l’apostolato. La Chiesa di Cristo risulta costituita non solo di « Pietro » e dei « Dodici », del Papa e dei Vescovi, ma anche essenzialmente dalla comunità dei credenti. saluta i primi cristiani nità dei credenti. Appunto Pietro, il primo « monarca », saluta i primi Cristiani con le sublimi espressioni: « Voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, un popolo santo, un popolo proprietà di Dio ». –  Ci allontaneremmo troppo dal buon apostolo Mattia, se ora volessimo trattare della varia limitazione o accentuazione dell’elemento monarchico, gerarchico e democratico nella Chiesa lungo il corso dei secoli; basterà dire che ora prevalse l’uno, ora l’altro e talora anche il terzo; ma dall’elezione di Mattia in poi vi fu e v’è sempre nella Chiesa un’unica suprema direzione, seguita da una schiera di « eletti » con ministeri riservati a loro solamente, e in fine il « popolo santo di Dio », che collabora con la parola e con l’opera. Ma tutti, « Pietro », « i Dodici » e « i centoventi fratelli » si sottomettono alla suprema direzione, quella del Signore: « Mostra Tu quello fra questi due, che Tu hai eletto! ». « Pietro è solo il rappresentante di Cristo; non si dà quindi che un unico Capo di questo Corpo, cioè Cristo. È Lui che infonde nei credenti la luce della fede; ed è Lui, che arricchisce con i doni soprannaturali della conoscenza, della intelligenza e della scienza i pastori e i maestri e specialmente i suoi rappresentanti sulla terra ». A noi, gente d’oggi, fa meraviglia nell’elezione di Mattia il modo, col quale fu ricercata la volontà della divina Provvidenza: si gettarono le sorti; gli Apostoli, ch’erano fedeli giudei, sentivano diversamente da noi. L’interrogare la sorte per venire a conoscere la volontà di Dio fu un mezzo molto usato anche presso il popolo d’Israele, come presso gli altri popoli antichi; in certi casi anzi la sorte era prevista dalla stessa Sacra Scrittura. La Terra Promessa era stata divisa fra le varie tribù, stirpi e famiglie mediante le sorti; anche l’elezione di Saul a re cominciò con le sorti. Gli Apostoli, quindi, ritennero che fosse del tutto conforme alla pia mentalità del Vecchio Testamento procurare di conoscere mediante le sorti chi il Signore aveva stabilito per l’ufficio di apostolo. Il gettar delle sorti avveniva nel modo seguente: i nomi dei candidati venivano scritti su tavolette, che poi si agitavano in un’urna; l’eletto era colui, la cui tavoletta era estratta per prima.

È evidente che dei due candidati, sui quali dovevasi portare l’importante decisione, Mattia era il secondo; Giuseppe, figlio d’un certo Saba, a noi del resto sconosciuto quanto Mattia, stava decisamente al primo posto con l’onorifico soprannome romano di « Justus », il Giusto, il pio. Ci è lecito pensare che la comunità elettrice avrebbe nominato apostolo Giuseppe, qualora la decisione fosse dipesa da essa; ma la scelta divina cadde diversamente: quando, dopo alcuni momenti di forte tensione, venne fuori la tavoletta, apparve essere quella di Mattia. Perché? «Tu, o Signore, conosci i cuori di tutti ». Il pio Giuseppe, buono e umile, avrà stesa la mano a Mattia, presentandogli i suoi voti di ogni benedizione; Mattia avrà assunto il posto, rimasto vacante per la defezione di Giuda, umile e pensoso. Ora egli appartiene a quei grandi Dodici, che un giorno giudicheranno le dodici tribù d’Israele e saranno le fondamenta della celeste Gerusalemme; e non per proprio merito, ma per la benevolenza di Gesù e per la colpa di Giuda. La giovane Chiesa emise un profondo respiro; quell’uno, che s’era dato in balìa allo spirito maligno, è eliminato definitivamente; i Dodici sono pronti per ricevere lo Spirito Santo. Non appena finita l’elezione, Mattia ricade nuovamente nella più piena oscurità. Vive con tutti gli altri l’ardente e gioiosa grazia della tempesta di Pentecoste, ma anche la sorte dolorosa di soffrire nella prigionia e nella flagellazione « ignominia per il Nome di Gesù »; gira e predica e risana; ma la Scrittura non gli dedica più una sola parola; egli è semplicemente uno dei Dodici. Gli Atti degli Apostoli apocrifi pure sanno dire appena qualche cosa di lui, che meriti d’essere ricordato; è vero che ci sono sul suo conto delle leggende greche, copte e latine anche più antiche, ma esse confondono sempre Mattia con Matteo, e quindi gli attribuiscono discorsi e viaggi, che abbiamo già incontrati nelle leggende di Matteo, come, ad esempio, il viaggio con Andrea nella terra « degli antropofagi » o nell’« Etiopia esterna ». Quanto il nostro Apostolo sia stato ignorato anche nella Chiesa latina sino al secolo undecimo lo dimostra pure il fatto che di tutti i secoli precedenti si conservano di lui soltanto due discorsi commemorativi, uno dovuto a un abate di Montecassino del secolo nono, un secondo attribuito ora a Sant’Agostino e ora al Venerabile Beda. – Neppure quegli scrittori dell’antichità cristiana, che raccolsero le notizie intorno ai sepolcri degli Apostoli, scrivono sillaba di Mattia; così, per esempio, Paolino da Nola, Venanzio Fortunato e Vittore da Capua. Eusebio riferisce d’un vangelo non autentico di Mattia, che sarebbe sorto in ambienti gnostici dell’Egitto nella prima metà del secondo secolo e conteneva delle pretese dottrine arcane, comunicate a Mattia da Cristo. Certo è che anch’egli lavorò in Giudea; più in là forse si spinse appena, quasi volesse, come Apostolo sostituto, esercitare sempre il suo apostolato sotto una certa alta direzione degli Apostoli più anziani, quasi un umile discepolo. La mancanza delle informazioni anche leggendarie potrebbe far supporre che Mattia sia morto piuttosto presto. Clemente Alessandrino avrebbe saputo da Eracleone che questo Apostolo sarebbe morto di morte naturale; egli ci riferisce pure l’unico detto, che viene attribuito a lui, mentre altri però lo attribuiscono a Matteo: bisogna combattere la propria carne e trattarla con rigore. – Dopo questo silenzio quasi completo del primo millennio nei riguardi di Mattia, ci sorprende ancor di più che nel secolo decimoprimo o decimosecondo vengano a galla tutto d’un tratto notizie molto accurate e precise circa la sua origine, la sua attività e il suo martirio, con l’aggiunta d’una seconda parte, nella quale ci è ammannita una storia dettagliata intorno alle sue reliquie. È la leggenda di Mattia di Trier. L’autore, un monaco di Trier negli anni 1127 e 1148 circa, afferma d’esser venuto a conoscere « i fatti di S. Mattia » da un antico scritto giudaico, avuto da un giudeo; la sua pretesa « traduzione » però è una goffa falsificazione, concepita, se si vuole, con la buona intenzione di edificare. In questa leggenda così tardiva di Mattia, la più recente di tutte le leggende riguardanti gli Apostoli, si legge pure la notizia che Elena, la madre dell’imperatore Costantino, oriunda di Trier, ottenne con le sue istanze che fosse eletto vescovo di Trier Agricio (+ 332), cui avrebbe rimesso la veste inconsutile di Cristo, un chiodo della croce e le reliquie dell’apostolo Mattia; frattanto queste sarebbero cadute in dimenticanza e sarebbero state ritrovate una seconda volta solo nel 1127. Nel Medio Evo i pellegrinaggi a questo sepolcro apostolico, l’unico in terra tedesca, ebbero un grande incremento; però anche S. Maria Maggiore di Roma pretende di possedere le reliquie di Mattia. L’arte, quale suo strumento di martirio, gli mette in mano l’accetta, più raramente invece la lancia o la spada, a seconda delle varie leggende, che segue; ma il nostro Apostolo deve all’accetta, se fu eletto a loro patrono dai macellai e dagli ingegneri. – Lasciamo ancor una volta queste leggende incerte e insoddisfacenti, dalle quali non dipende affatto la nostra fede, e torniamo alla serena informazione degli Atti degli Apostoli. Mattia ci fa l’impressione come d’un gentile e tranquillo Sabato Santo; il Venerdì Santo col suo delitto è passato; Giuda è sostituito e riparato. Mattia però è anche di più d’un Sabato Santo. Egli fu eletto quale « testimonio della Risurrezione »; ed è « testimonio della Risurrezione » anche in un secondo senso, che negli Apostoli più anziani non abbiamo: il più giovane degli Apostoli per chiamata, egli è con la sua semplice presenza una prova vivente che Cristo non tramonta, quand’anche si perpetrasse ai suoi danni il crimine più orrendo, il tradimento cioè da parte del suo proprio Apostolo; il vile traditore perisce, mentre il Signore celebra la sua « Risurrezione » in un altro Apostolo.